Baroncelli –
compassione – filosofia ligure – filosofia italica – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Savona).
Filosofo. Grice: “I like Baroncelli – he can be hyperbolic – “Mi manda
Platone,” surely he only requested! My favourite is his ‘compassione,’ which is
‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my balance between
conversational egoism and conversational altruism.” Flavio Baroncelli (Savona) filosofo Nato e cresciuto a Savona, si laurea in
filosofia all'Genova nel 1969 con relatore Romeo Crippa, di cui diventa
assistente. Insegna Storia dell'età
dell'Illuminismo all'Trieste. Dal 1977
al 1981 è di nuovo a Genova, dove tiene la cattedra di Storia della filosofia
moderna. Nel 1981 diventa ordinario all'Università
della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di
Filosofia morale. Nel 1988 un grave
incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per
qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende
all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel
Wisconsin. Nel frattempo collabora con
molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il
diario della settimana, il Secolo XIX.
Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti,
segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita
accademica per allontanarsene a causa della malattia che lo porterà alla morte
sopraggiunta nel 2007. Il pensiero di
Baroncelli ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato,
invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani
occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità
individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie
culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o
esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani
appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso
pianeta. Pensiero e la ricerca
Profondamente influenzato da David Hume e dallo scetticismo inglese, si è
occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza,
il liberalismo e il politically correct.
Altre opere: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La
Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa
moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù
del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli
Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano” Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo
Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione"
a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto
divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il
riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica, "Come scrivere sulla tolleranza" in
Materiali per una storia della cultura giuridica. Note
Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, su
pubblicitaprogresso.org. 7 maggio
(archiviato il 7 maggio ). Franco Manti, Diversity, Otherness and the
Politics of Recognition, in Nordicum-Mediterraneum, 14, n. 2, Akureyri,, Ospitato su archive.is.
Citazione: To Flavio Baroncelli, a friend I met only too late, / whose lively
intellect, critical sense, friendliness / and clever irony I just had time to
appreciate. Info dalla pagina del
Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento
interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI
Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia
Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Archiviato
il 16 marzo 2007 in. di Giorgio Bertone, Vittorio Coletti, Salvatore Veca e
Pietro Cheli. Altri dello scrittore Bruno Morchio e dell'amico Daniele Miggino.
Sezione speciale della rivista Nordicum-Mediterraneum dedicata a Flavio
Baroncelli. Pagina di Wordpress su Flavio Baroncellicon alcuni testi inediti. Flavio
Baroncelli. Keywords: compassione, filosofia ligure, Home, etica, ragione,
giustizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790110604/in/dateposted-public/
Grice e Barone –
linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice:
“I like Barone, but I’m not sure he likes me! You see, in Italy, there’s
‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’ was indeed a way to describe philosophy!
But at Oxford, you have to take the great go! Lit. Hum., and I doubt Barone
did! – ginnasio e liceo, as the Italians have it! Therefore, his views on
‘filosofia e linguaggio,’ never mind his rather pretentiously titled ‘logica
formale,’ ‘logica trascendentale,’ ‘algebra dela logica,’ etc. have little to
do with, well, Italian!” Laureato in Filosofia a Torino nel 1946 come allievo
di Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano, visse a Viareggio. Professore di Filosofia
teoretica all'Pisa (1957), dove fu preside della facoltà di Lettere e filosofia
dal 1967 al 1968, fu poi docente di Filosofia della scienza (1987) nonché
direttore dell'Istituto di Filosofia nella stessa università (1960-80). Insegnò
anche Filosofia morale alla Scuola Normale Superiore di Pisa dal 1958 al 1974. Si dedicò soprattutto a studi di storia e
filosofia della scienza, pubblicando numerosi libri. Nel 1979 curò l'edizione
italiana delle opere di Niccolò Copernico. Socio nazionale dell'Accademia delle
scienze di Torino (dal 12 febbraio 1985), della Società Nazionale di Scienze,
Lettere e Arti in Napoli, e dell'Accademia Nazionale dei Lincei, a Milano fu
presidente del Centro del C.N.R. di studi del pensiero filosofico del
Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi della scienza. Pensiero Particolarmente interessato alla
filosofia di Nicolai Hartmann, Barone ne trasse spunto per un confronto tra la
dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione filosofica si
sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della filosofia della
scienza. Come pubblicista affrontò temi
etico-politici sul rapporto tra individuo e società dal punto di vista della
ideologia liberale e liberista. Il tema
principale delle opere di Barone riguarda la filosofia della scienza e la storia
della scienza e della tecnica. Si deve a lui la prima pubblicazione in Italia
di una monografia sulla filosofia neopositivistica. Il suo pensiero si contraddistingue per lo
stretto rapporto tra epistemologia e storiografia della scienza, settore, questo,
in cui Barone ha preso in particolare considerazione il tema della nascita
dell'astronomia moderna, da Niccolò Copernico a Keplero e Galilei. Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone
si è dedicato con particolare attenzione agli sviluppi culturali,
epistemologici e filosofici della nascente informatica. Altre opere: “L'ontologia di Nicolai
Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf Carnap, Edizioni di
Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di Filosofia, Torino); “Il
neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino); “Assiologia e ontologia:
etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann, Torino); “Leibniz e la logica
formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai Hartmann nella filosofia del
Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica formale e logica
trascendentale, I, Da Leibniz a Kant,
Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica, Edizioni di Filosofia,
Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero, Edizioni di Filosofia,
Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di Filosofia, Torino); “Mondo
e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo e indeterminismo
nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Concetti e
teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicola Copernico,
Opere (F. Barone), POMBA, Torino); “Immagini filosofiche della scienza,
Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice Napoletana, Napoli); Teoria
ed osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli); Verso un nuovo
rapporto tra scienza e filosofia, Centro Pannunzio, Torino); La fondazione
dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone), Fabbri, Milano); Leibniz,
Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note Francesco Barone, Neopositivismo, in
Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani,
1979 Barone, Francesco, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sito ufficiale, su francescobarone. Francesco Barone, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Barone, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Francesco Barone, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di
Francesco Barone, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco
Barone,. David Hume, il filosofo della
non certezza di Francesco Barone, La Stampa, 26 agosto 19763. Addio a Barone il
filosofo che diffidava dei paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della
Sera, 28 dicembre 200131, Archivio storico. Francesco Barone. Keywords:
linguaggio, assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi di Leibniz, logica
matematica, logica formale, logica trascendentale, logica aritmetica, Hume a
Torino, simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera philosophica, assiologia ed
ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790459935/in/dateposted-public/
Grice e Barone –
dialettica fiorentina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alcamo). Filosofo. Grice:
“I like Barone; at last a priest that takes Italian humanism SERIOUSLY!”
-- Dopo avere finito gli studi teologici
nel Seminario Vescovile di Mazara del Vallo, fu ordinato sacerdote il 13 marzo
del 1937. Frequentò, quindi, la Pontificia Università Gregoriana di Roma dove
conseguì la laurea in Filosofia il 19 giugno 1946, trattando la tesi dal
titolo: L'Umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola. Ebbe subito la nomina di Canonico della
Collegiata di Alcamo, poi dal 1949 al 1956 quella di Vicario foraneo e
Visitatore dei Monasteri; dal maggio 1951 fu nominato anche Canonico Onorario
della cattedrale di Trapani. Nel mese di
novembre 1956 fu pure nominato Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua
Santità; fu quindi professore di lettere e filosofia del Seminario di Mazara
del Vallo e, per 16 anni, delegato Vescovile alla dirigenza dell'Istituto
Magistrale legalmente riconosciuto "Maria Santissima Immacolata" di
Alcamo. Per diversi anni, è stato anche
Rettore della Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato
membro del Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il
Seminario Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova
parrocchia di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo
biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo
Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano;
ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi
"Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli
Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione
italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il
Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita;
ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della
Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa
della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più
bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche;
ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito
alcamese del sec.XVI; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre
dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili;
tip. Bosco, Alcamo). Note
trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_e_saggistica_in_provincia_di_Trapani_02.pdf Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di
Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, 1968. Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di
Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, 1968. trapaninostra,// trapaninostra/
libri/salvatoremugno/ Poesia_narrativa_saggistica/ Poesia_ narrativa_e_saggistica_in_
provincia_di_Trapani_02.pdf. 14 giugno.
Vincenzo Regina Tommaso Papa 305357714
Identities-305357714 Biografie
Biografie Cattolicesimo
Cattolicesimo Letteratura Letteratura
Categorie: Presbiteri italianiInsegnanti italiani del XX secoloFilosofi
italiani Professore1914 2004 29 aprile 22 novembred Alcamod Alcamo. Giuseppe Barone.
Keywords: dialettica fiorentino, pico, umanesimo toscano, pico, pichiano,
pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Barone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789692301/in/dateposted-public/
Grice e Barsio –
dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo. Grice:
“I like Barsio – he reminds me of G.Baker – there he is, Baker, succeeding me –
and an American! – as tutorial fellow in philosophy at St. John’s, and
dedicating his life to Witters – So when reminiscing, in my “Predilections and
prejudices” about them years, I said, “God forbid that you dedicate your life
to the oeuvre of a minor philosopher like Witters – it’s good to introject into
a philosopher’s shoes as you attain to grasp the longitudinal unity of
philosophy, but look for a non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically
minor philosopher – in that, he never had to grade – I always hated grading and
seldom did it! – since he lived under the Gonzagas at Mantova – and he just
phiosophised to the sake of the pleasure he derived from it! My favourite is
his elegy to his enemy, Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is
fantastical, but possibly true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano,
frequentò le corti del marchese Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella
d'Este, alla quale pare avesse dedicato il poemetto Silvia e la corte del
marchese di Castel Goffredo Aloisio Gonzaga, al quale dedicò il poema latino
Alba. Studia filosofia a Bologna. Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri,
Pamphilus; Alba, dedicato al marchese Aloisio Gonzaga, signore di Castel
Goffredo; Labyrintus, dedicato a Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di
Luigi Gonzaga detto Rodomonte, 1780, Parma., su books.google. 18 luglio. Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e
pseudonime di scrittori italiani, Milano, 1859., su books.google. Giuseppe
Coniglio, I Gonzaga, Varese, 1973., su books.google. Vincenzo Barsio, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
ICCU. Vincenzo Barsio., su edit16.iccu. Marsio. Vincenzo Barsio.
Keywords. dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barsio” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715493552/in/photolist-2mMVquy
BARTOLI search.gianpaolo
--
Grice e Barzaghi –
scuola di anagogia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza).
Filosofo. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his
“Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice:
“Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf.
Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of
philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in
Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that
infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene
di Celesia, a stoic!” -- Direttore della
Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo del filosofo
Gustavo Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore privilegiato di
Emanuele Severino sulla questione di Dio e del cristianesimo. Nella
sua opera Oltre Dio, Barzaghi si interroga dapprima sull’essenza del
cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il credente, di
assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la vera
comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la
partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo
occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno» (p. 13). Secondo
Barzaghi, l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad
altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per
l’ispezione del tutto» (p. 17). In questo senso, la filosofia di Emanuele
Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per
Barzaghi il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza
di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che
evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale
dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente,
anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non
permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta
l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire […] in
modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono
gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere
che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non
appare più determinatamente, individualmente» (p. 24). Questa scienzachiamata
nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire
infinito di cui parla Severino nei suoi scritti» (p. 17). Nel pensiero
barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista
dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione
teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere
metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella
stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da
poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione
filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno
sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé
l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.
Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto
l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la
proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo (1891-1967) di individuare nella
“dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero di
Tommaso d'Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi
nel massimo della complessità» (p. 31). Ma per compiere questa operazione di
analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico
gnoseologico dell’ordine ontologico [e] mezzo inventivo ed espressivo del
conoscere» (p. 47), che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel
pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della
spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo
tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende
il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare
trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto
(compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e
possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla
dipendenza e al dominio» (p. 90). In una frase, che sintetizza bene il punto di
vista anagogico della filosofia e della teologia di Barzaghi: «Dio, conoscendo
se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della
propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p.
96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli
fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle
cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p.
98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza
aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in tutto).
Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe Barzaghi ed Emanuele
Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le posizioni della
teologia cattolica tomista e quelle della filosofia severiniana. Il dibattito
trovò, al di là delle aspettative degli organizzatori, alcuni punti di
possibile convergenza, che portarono il filosofo-teologo alla pubblicazione di
Soliloqui sul divino (1997), in cui l’autore cerca per la prima volta di
rileggere le intuizioni di Severino in un modo che egli definirà più tardi
voler essere quello con cui Tommaso d'Aquino, filosofo e teologo cristiano,
leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele, filosofo
pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di reciproca
conoscenza e stima. Il 2 novembre 1999 Severino dedicò a Barzaghi un articolo
sul Corriere della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore
del più interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto
cristiano da cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo
ateo definiva “aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo
di porsi come casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di
diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso
religioso attraverso una ripulitura dei concetti a partire dal punto di vista
dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici, come quello del 29
novembre 2001 a Milano e quello del 12 giugno
a Bologna. Altre opere: “Metafisica della cultura” (Bologna, ESD);
“L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD); “Diario di metafisica.
Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna, ESD); “Soliloqui sul
divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD); “Philosophia. Il
piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus.
Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani); “Maestro Eckart,
Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo sub specie aeternitatis,
Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena,
Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna, ESD); “Compendio di
filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di filosofia, Bologna,
ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il fondamento
teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La maestria
contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il Riflesso,
Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune secondo
S.Tommaso d’Aquino, in “Communio” L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto
di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele
Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della
mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline, La potenza obbedienziale dell’intelletto
agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione
teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G.
Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e
abbandono. Maestro Eckhart e Tommaso d’Aquino: le due facce di un'unica
metafisica, in C. Ciancio, Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia
epistemica, in R. Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di
Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum
di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel
Logos, in T. Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma,
Angelicum University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”,
Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e
approfondimento, in G. GrandiL. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli,
Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una
rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità
tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in
“Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere
filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica
cristiana come estetica assoluta, in
Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia,
in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in
“Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della
ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi,
Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli
affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V.
Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press,
Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Tommaso
d’Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla
rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione
fondativa, in S. PinnaD. Riserbato
Fenomeno & Fondamento. Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di
Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed. vaticana, Anagogia e teoria del
fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La trasparenza nella trasposizione, in
M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità
dell’essente in teologia, in G. GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi
60 anni de ‘La Struttura Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito
con E. Severino, in “Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della
musica di J. S. Bach. La Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga,
in “Divus Thomas” 2 (), 13-27. Note A. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo
anagogico di Giuseppe Barzaghi... Data
l'importanza dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata
la stesura dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani 2006),
nonché, sul versante teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo
dizionario di mistica dell’Editrice vaticana.
RaiCultura: Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe
Barzaghiparte 1 e parte 2 E. Severino,
Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul
Corriere della Sera del 2 novembre 1999
Dionigi, I nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G.
Barzaghi), Bologna, ESD,, II, 3.
All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de 'La struttura originaria'
(UniPa) Apocalisse 13, 8 Cfr. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Nuovi
saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD,,
157-270 Santiago María Ramírez
op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban, 1963. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di
teologia anagogica, Siena, Cantagalli, 200333. UniPdL’eternità
dell’essente RaiScuola: Giuseppe
Barzaghi. Dio e il concetto filosofico…
Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio:
la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” 3 (1998), 57-81.
E. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa Dialogo Severino-Barzaghi a Milano Giornata di studio dello Studio filosofico
domenicano di Bologna RaiCultura.
Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su
raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su youtube.com. Giuseppe
Barzaghi. Keywords: scuola di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico,
anagogia, greco ‘anagogia’. Implicatura storica, la porta di velia, girgentu,
l’implicatura di milesso, il segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia,
Bologna, fidanza, Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a
Roma, filosofia, la scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790037784/in/dateposted-public/
Grice e Barzellotti –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “The good
thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he pours
in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality – so he
can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt with the
‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a ‘Roman’
dialectic --. He of course never considers English interpreters, only German!
And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical of the
idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford school of
philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to humanity; a
DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And part of the
problem with Italian philosophy is that there was Italian philosophy before
there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on Cicero, who he sees as
an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia nella XXII legislatura. Allievo di
Terenzio Mamiani e di Augusto Conti, entrambi filosofi spiritualisti, si
professò poi seguace del Neokantismo. Si interessò soprattutto alla storia
della filosofia con particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e
religiosa. Ebbe la cattedra di Filosofia morale alle Pavia nel 1881 e di
Napoli, nel 1887. Nel 1896 divenne professore di Storia della filosofia
all'Roma. Fu ammesso all'Accademia nazionale dei Lincei nel 1899. Nel 1908 fu
nominato senatore del Regno d'Italia. Fu
iniziato in Massoneria nella Loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande
Oriente d'Italia. Altre opere: “La morale
nella filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze:
Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica”
(Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna:
Zanichelli); “Monte Amiata e il suo
profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi
psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna:
Zanichelli); “Taine, Roma: Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo:
R. Sandron). Note Vittorio Gnocchini,
L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, 200526. Virginia Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in
Dizionario biografico degli italiani, 7,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970. 20 novembre. Giacomo
Barzellotti, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1930, giacomo-barzellotti. 20 novembre. Altri progetti Collabora a
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Barzellotti, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giacomo Barzellotti, su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Giacomo
Barzellotti, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. Opere di Giacomo Barzellotti, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Giacomo Barzellotti,. Giacomo Barzellotti, su Senatori d'Italia,
Senato della Repubblica. Filosofia Filosofo
del XIX secoloFilosofi italiani Professore1844 1917 7 luglio 19 settembre
Firenze PiancastagnaioAccademici dei Lincei. Se
questa ricostruzione, che vengo tentando, del movimento filosofico nella
seconda metà del secolo XIX in Italia,dovesse rigida mente obbedire alle leggi
di una storia della filosofia,alcuni scrit tori,che rientrano nel nostro
quadro,ne andrebbero certamente esclusi. Lo notammo a proposito di T. Mamiani;e
torna opportuno dichiararlo per Giacomo Barzellotti. La prima legge della
storia della filosofia è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero
filosofico, ossia dalla metafisica, o concezione della realtà, che voglia
dirsi.E però non potranno far parte di essa gli spiriti che a questa conce
zione non abbiano comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o
che non ne abbiano avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè
vivamente desiderasse di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se
medesimo l'illusione di esservi pervenuto. Il Barzellotti pare invece che non
abbia sentito il biso gno; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato
nell'attività este tica piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore:
più accorto in ciò e sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere
quel che non era, non fu nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto
essere. Il Barzellotti, invece, è stato uno degli scrittori italiani più
noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a
buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra quelli di scrittori di
cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo
Zanichelli: Santi, solitari e filosofi (1) e Studi e (1)Santi, sol.efil.,
saggi psicologici, Bologna, Zanichelli,2.a ediz.,1886. ritratti?(1).A
questa popolaritàegliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno; e
ha messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte
come fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandon e il
valore. Ma nell'averlimessi intanto da parte per
suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna
letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi,
solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera
d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi
cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei
dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le
signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo
vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di
scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello
Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasiabreve,la prego,non
più che dieci righe,perchè,quaggiù,vede,ha da seri vere anche la mia
nipotina ». Vale a dire:il Barzellotti ha bensì aspirato ai posti
distinti dell'insegnamento filosofico.C'era avviato,era quella la sua car
riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore,fino alla cattedra di storia della
filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi
che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che
per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare
ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale.
La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta»
aquelladichigli venne sempre chiedendo a qualesistemaegliaderisse;opposta «appunto
in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da quanti oggi
vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la dimostrazione critica
dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma sistematica
d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la
scienza».Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente
filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella
confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della
filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In
realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma
s'è (1) St. e ritr., ivi, 1893. sforzata di organizzarsi a sistema,
per essere qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può
esser pensiero senz'esser uno. E lo stesso Barzellotti nota una volta che
perfino il Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua
Critica in forma complicata ma strettamente organata di sistema. E che
questo orrore dei sistemi significhi, pel Barzellotti,non negazione critica
della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a
dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua
universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari;loattesta,non
foss'altro,ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua
superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito
critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non
meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva.L'ideale delfilosofo,Helm holtz
(tante volte citato dal Barzellotti): un fisico. Voltando,quindi,in
effetti le spalle alla filosofia,ilBarzellotti sentiva bene di non dover riuscire
ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le sue idee
intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti, riescono molto
interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la psicologia dello
scrit tore:« Tra noi in Italia,oggi,lo so da lunga esperienza,solo a far
balenare un momento sul frontespizio d'un librolatestadifilosofia c'è da
vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di lettori
s'eran chinate a guardarlo ». Di chi la colpa? Della filosofia o dei lettori?
Il Barzellotti avrebbe una gran voglia di gettarla tutta addosso alla prima; m
a poichè una certa filosofia deve credere di coltivarla anche lui,una filosofia
invisibile perchè cela tasi nelle scienze speciali o nell'arte, un pochino di
colpa l'ha pur da dare ai lettori, lamentando « quell'abito come lo chiamerò
d'antipatia o di pigrizia mentale? – che nella scienza e nell'arte ci fa
rifuggire dalle forme più alte e più complicate del pensiero, che ci sanno di
aspro o di esotico ». Ma, s'intende, il maggior torto è della filosofia: È
l'effetto del discredito meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi
parlando per tanto tempo il gergo barbaro del pensare e dello scri vere di
troppi ormai che ne hanno fatto una casistica da medio evo in ritardo,e che,o
predicassero dal pulpito delle nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e
l'anima mettendo in cattivo italiano i loro imparaticci francesi, inglesi o
tedeschi, hanno nella filosofia impedito tra noi quasi sino ad oggi quella
definitiva secolarizzazione delle menti che per tutto fuori di qui segna da un
pezzo l'avvenimento della cultura moderna.
In Italia,un lettore che abbia familiare
l'abito di mente inseparabile dalla cultura e dalla scienza contemporanea,è
raro che,aprendo per distra zione o in mancanza d'ogni altra lettura,un libro
di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso con cui un giornalista della
capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime notizie di una crisi ministeriale
da un suo corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E avrà anche torto;ma che
dire,quando il fatto stesso del mancare tra noi un pubblico di lettori per la
filosofia mostra chiaro che in Italia la filosofia non sa,meno rare
eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e scrivere,non voglio dire
coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che pensano;il che poi significa
ch'essa non vive ancora tra noi la vita della mente contemporanea? La filosofia,
per vivere la vita di questa mente contemporanea, deve abbandonare il suo
barbaro gergo. Si potrebbe pensare dataluno che l'unico movimento di qualche
vigore che si sia avuto in Italia negli ultimi tempi,è quello hegeliano
di Napoli.
Ma quello, secondo il Barzellotti,
riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a cagione appunto
della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di quegli scrittori
s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano parlare al loro
pensiero oracoleggiante (1). Ma, che cosa è questo gergo e quest'oracoleggiare
se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo
ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci anche la
filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante
nellasuaastrattauniversalità,ma solidaeconcretanellasuccessione progressiva
delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata
ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e
il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non
distruggere quella differenza specifica che costituisce il valore del
grado spirituale proprio della filosofia? Intendiamoci: non già che il filosofo
debba scriver male. Il Barzellotti dice della Vita del Vico che « ha dal lato
letterario il difetto di tutti i libri delgranfilosofo: èmalescritta»(2).
E non è vero,com'è vero invece che è « mal composta,oscura,involuta ). Oscuro e
involuto rimase appunto gran parte del pensiero delVico; e quindi l'oscurità e
l'involuzione della forma. Ma il Vico scriveva benissimo,esprimendo con
efficacia potente d'immagini i (1) Vedi lo scritto Il pessimismo filosofico
in Germania e ilproblema m o. rale dei nostri tempi, nella N. Antologia del 1.0
maggio 1889, p. 56. (2) D a l r i n a s c i m e n t o a l r i s o r g i m
e n t o, P a l e r m o, S a n d r o n, 1 9 0 4, p. 2 0 1. suoi concetti;
ma,s'intende,quando avevadeiconcetti:laddoveè certo, come lo stesso Barzellotti
dice, che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero,
che è la parte prima ed essenziale dello scrittore ». In altri termini, egli
non pervenne alpossessocompletode'suoiconcetti,parecchideiquali,enon i
secondarii, rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che
così largo giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con
persistente lavorìo intorno a una materia non veramente
omogenea,tradistoriaedifilosofia.IlVico scrive male dove e in quanto pensa
male; e questo è il Vico che non conta nella storia. Ma ilVico che conta,
il filosofo vero e proprio è uno scrittore sommo.E non potrebbe essere
altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non sono due muse sorelle,ma l'unico
Apollo,lo spirito,che non sale alla filosofia se non attraverso l'arte, e non
supera mai se stesso, come avvertì per primo Aristotile, se non conservando se
stesso, crescendo sempre sopra disè.– Chiscrivemale,perciò,appunto perchè
scrive male non è filosofo. Ma lo scriver bene del filosofo non è lo scriver
bene del poeta;altrimenti verrebbe meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che
nessuno vuol negare. E comeil poeta scrive sempre bene se vien poetando, così
il filosofo scrive bene anche lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa
piuttosto e riesce a filosofare, anche a costo di finire per ravvolgersi in un
gergo. Non c'è pure il gergo della poesia? O non era poeta chi diede
l'espressione classica della impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito
nell'odi profanum vulgus? Pel Barzellotti,invece,il filosofo può farsi
leggere,se si contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata
confessione, premessa ai Santi, solitari e filosofi (1), lo dice chiaro: « lo
vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco
quello che un amico mio diceva ai lettori d'un
giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a
questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni
costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste
malinconie);perdonateglielaingrazia di quel tanto dipiùedimeglioche illibro
visaprà farpensare oviracconteràovidescriverà come opera d'arte».Vedremo
fra pocoinche consiste quel po' di filosofiadacuiilBarzellottinon
s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che quel che di più e
di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii scritti (1) Santi, p. 52
n. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa
parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere
propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i
giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora
il Barzellotti, per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei nostri
studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto come
filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore di
filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi
risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un
filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia
saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del
barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera
accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel
che il Barzellotti stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna
pur dirlo, niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di
questa specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori
o popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non
in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in
cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è
giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte
pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle
all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare
quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o s a z i a d i s a p e r
e. Perchè, s e h o d e t t o c h e il B a r z e l l o t t i è u n a r t i s t a
p i ù che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta
una digressione letteraria (1)) che possa dirsi un artista finito, e che il suo
capolavoro (ilLazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di
questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima
popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il B a r è al di qua della
filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e
psicologica;è soprattutto opera d'arte.Dello scritto su David Lazzaretti, che
può forse considerarsi come il ca p o l a v o r o d e l B a r z e l l o t t i,
il q u a l e i n e s s o si p r o p o s e b e n s ì d i f a r e u n o studio di
psicologia religiosa,lo stesso autore dice che « vorrebbe essere,se pure non
pretende troppo,un'opera d'arte,ma senzadar nel romanzo ».(1) Vedi in questo
fasc. l’art. del Croce, pp. 337-8. zel lot ti era vissuto fanciullo, e
tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi anni.Ma anche lì quel po'di filosofia come stuona in
quell'ambiente pastoraleenell'ingenua psicologiadel misticismo lazzarettiano! E
come appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel
moto religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha
voluto inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che furono scena
dei fatti del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi seguaci!L'azione, troppo
povera,è una gita di caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando
sempre in disparte ad almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo
la caccia c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli
parte anche il Barzellotti
Ma quale parte? Egli titrova nel cerchiounuomo
del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del Lazzaretti; e subito ne
profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere « molti particolari
intorno aDavid e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto con lui in
quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro.Il lettore,nemico della filosofia, a cui il Barzellotti
s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa zione dell'autore con Filippo,il quale
dovrebbe farci entrare a poco a poco con i suoi ricordi in tutto quel mondo
morale che l'autore civuolrappresentare.Difficileimpresa,certo;ma soloachi,come
ilBarzellotti,non avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante
nella fantasia; sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni
fornitegli da amici del luogo,le deposizioni dei lazza r e t t i s t i, e
p o i i v o l u m i d e l R e n a n, e l e o p e r e d e l l ' H a r t m a n n
e q u a l che fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino.
Il Barzellotti,che pure ha scritto un bel
saggio sulla sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si
ricorda di quelle sue giustissime idee: e dopo aver detto come inducesse
Filippo a parlare,continua: « Mi rispose con un leggero atto della testa che
acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa
assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per:filo e
per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che più
importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali de'luoghi,
o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue infatti il
corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine (1), in
cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi l'autoreripiglia:«Questecosemi
andavano per la mente cinque anni dopo la morte di David mentre
co'miei (1) Santi, pp. 121-262. amici stavo nel piazzale davanti
all'eremo di Monte Labbro.Passato quel silenzio profondo dei primi
bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B. non ci fa
mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella
colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della
fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle
140 paginediroba! L'elementodescrittivoedrammaticorestaaffatto estraneo e
sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa
mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le
dichiarazioni esplicite dello scrittore,le sue preoccupazioni artistiche,
mentre egli realmente non si mette mai
inunasituazionesinceramenteartistica,sonoilmaggiordifetto che io vedo in questi
suoi tentativi d'arte.- E un altro mi sia lecito anche notarne,che è in fondo
una conseguenza del primo,e mi fa tornare al mio soggetto speciale: la
lungaggine, la prolissità dello scrittore:difetto da lui stesso additato come
uno degli effetti più gravi della rettorica, della vuotaggine di gran parte
della lette ratura italiana. « Solo chi ha poco o nulla da dire dice sempre di
più di quello che dovrebbe dire »(1).Appunto,la esiguità del con tenuto
spirituale del Barzellotti gli ha fatto scrivere molte e molte pagine a cui
s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a cotesto
difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale umanistico.Non c'è
scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che l'autore s'è proposto
di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto, tra le molte parole
non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza d'esprimerlo,cioè di
concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al pensiero, che non si
riesce afermare inuna formavivente.Tipica,per questo riguardo,mi sembra la
prolusione letta a Napoli nel 1887:La morale come scienza e come fatto e il suo
progresso nella storia (2). E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a
caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo
di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare d'esser
tenuto a farvi qui.Il modo in cui io concepisco la legge intima
dell'organismo e della vita delle scienze morali o,meglio,delle scienze che io
chiamo più propriamente umane,e quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il
centro, non è quello stesso che pare presupposto da quanti oggi
ponendo, (1)Dal rinascimento al risorgimento, p.206. (2)Rivista
ital.difilos.del FERRI, a.I, vol.II(1887), pp.3-33. con ragione,
l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di stinguono con qual
divario profondo il processo di costruzione ideale del pensiero scientifico sui
dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e in quelle morali e
storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel ritrarre, nel rilevare a
uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della fisonomia eternamente immota e
impassibile della natura, che anche nel l'inesausta ricchezza delle sue produzioni,
ripete eternamente se stessa; stanel far penetrare,se posso dir cosi,la
parola,più e più criticamente riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi
scandaglio che tenti un fondo impossibile però a toccare mai tutto,sempre più
verso l'ultima espres sione approssimativa di un vero che, inesauribile in
sé,sappiamo però essere e durare ab eterno eguale a sè stesso. Ed ecco perchè,
una volta messe queste scienze sulla via maestra del metodo sperimentale, e fu,
o «signori, merito imperituro dellafilosofiadelsec.XVI, latradizione del
l'acquisto lento, faticoso, ma sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza
che non ha pur troppo riscontro alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e
della società. In questa l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha
il pensiero scientifico di assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e
osservati e di trarlo quasi in sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un
farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo riflesso della scienza
insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale che si spiega,che fluisce
inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli.E l'occhio delle scienze
morali, intento a scrutarne le leggi,è simile a quello di un osservatore
che da punti di prospettiva via via sempre nuovi studiasse, camminando, le
forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa folla di oggetti che gli
simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che, tolti i fronzoli e i
particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa pagina sarebbe stato
espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a poco così:
lescienzemoralisifondano,alparidellescienzenaturali,sul l'esperienza;ma siccome
la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le verità scoperte dalle
scienze naturali hanno una stabilità e fermezza incompatibile con quelle via
via determinate dalle scienze morali, alle quali spetta di seguire il processo
storico del loro o g getto. Egli è che al Barzellotti, mente coltissima, è
mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre cercando:l'intimità,il con
tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e lo stento,la forma levigata,
elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue professioni
difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineokantiani, sono semplici
adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad apparire
spirito moderno, del proprio tempo (come (1)Nella N. Antologia
del 15 febbraio 1880,pp.591-630. (2)Fil.sc.ital.,
1878,XVIII,42-3.(3)Pag.38n. egli ha detto
di sè tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della
sua mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant.Lo
scritto,che secondo lo stesso Bar zellotti, dovrebbe essere più significativo
per questa sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia
scientifica contemporanea in Germania ) (1); e al quale egli infatti s'è
riferito ogni volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo
di pensiero,è un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di
vero consenso, che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore.
E quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni
nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo
di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter
penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni
» non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il
pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti
cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della
conoscenza e la metafisica dopo ilKant (1878-79), lavoro prevalentemente
storico, per cui l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello
Zeller, che alle fonti originali.In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo
scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un n e o k a n
t i a n o v e r o n o n p u ò n o n f a r apparire i s u o i c r i t e r i
i filosofici; e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire
che l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso
Kant) della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione
idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito.
Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come
qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera
sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai
riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e
idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione (2): un
pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte (3).Al
Barzellotti il partito di superare idealisticamentelaCritica,come
feceilFichte,dopol'Enesidemo, pare «ogni giorno più,non che consigliato,
imposto inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine
del Kant alle loro ultime conseguenze» (1).– Ma tutto questo è
detto,anziripetuto, non con l'accento energico di una convinzione maturata per
proprio conto;sibbene con quella stessa indifferenza che è propria di chi
osserva da spettatore assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente
debba pensarsi di quel benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso
dell'idealismo moderno,non sembra che sia affare che tocchi l'animo del
Barzellotti: il quale potrà dirsi a sua voglia neokantiano(2);ma nonfarà mai
ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai veramente il problema filosofico. E
non ha fatto quindi nè anche ilplatonico,benchè all'indi rizzo dei
platoneggianti italiani egli si accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il
principale dei quali è la tesi Delle dottrine filosofiche nei libridi Cicerone
(1867),in cui si vede ancora lo scolaro di A. Conti edi T. Mamiani.Egli doveva
pensare anche a sè quando,discor rendo della Filosofia delle scuole italiane,—
della quale fu sempre uno dei compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la
sentinella avan zata verso le letterature filosofiche straniere,di cui scriveva
una cronaca;– disse: «I collaboratori di quellaRivistahannopienali bertà di
pensiero e di discussione; anzi varii tra di essi professano dottrine molte
diverse da quelle del Mamiani; ma si raccolgono intorno a lui come al
rappresentante più autorevole di quel moto speculativo,che aiutò il nostro
risorgimento e ci riscosse da una inerzia intellettuale di più che due secoli »
(3). Anche al Barzellotti, insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole italiane,insieme
col Mamianielasuaonrevolgente.Anche aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile
della scuola hegeliana(diNapoli)apparirebbe maggiore allo storico imparziale,se
essa avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali e tradizionali dello
spirito italiano » (4). Egli dunque si mise nella schiera del Mamiani; e io non
potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare ne'suoi scritti la dottrina
filosofica sua, che ne lo separasse. (1) Pag. 45 (2)Vedi specialmente
le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. (3) La filosofia in Italia,
nella N. Antologia del 15 febbraio 1879, p. 630 (4) Ivi,p.639. (1)
Nella Rivista difilos,scientifica, 1882,vol.I,pp.496-525. (2 ) P a g. 4 9
8. (3) Cosi nel libro sul Taine qui appresso cit.,p. 168 dirà sempre: « La
dot trina idealistica chefa del mondo sensibile esterno un mero ordine di
fenomeni e di segni datici dalle sensazioni, debba dirsi, per ora almeno,
l'ultima parola della scienza, venuta a confermare la parte indubbiamente vera
delle teorie del Berkeley e del Kant ».Vedi poi l'articolo su L'idealismo di A.
Schopenh. e la sua dottrina della percezione, nella Fil. dellesc.ital.,1882,
XXVI, 137-65; la cui conclusione favorevole ai filosofi che « tempo e spazio
accolgono in se elementi, a u n t e m p o, ideali ed empirici, subbiettivi
e obiettiv i, h a n n o il l o r o e s s e r e e la loro legge così nel
pensiero come nelle cose,così in noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc
larsiconl'idealismoberkeleiano!Masipuòpar lare di contraddizione? (4) Credaro
nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE,I,1,364. (5 ) C f r. L a m o r a l e c o
m e s c i e n z a e c o m e f a t t o, n e l l a R i v. i t a l. d i f i l o s.,
1887,II,15-16elapref.aiSanti,p.xxi n. Nella prolusione con cui iniziò a
Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario, nel 1881, Le condizioni
presenti della filosofia e il problema della morale (t), puoi ravvisare tutto
lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede neo-critica: l'idealismo
da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto costruire luni verso da un
sol punto, con un solo principio assoluto,ma di avere altresì dimenticato «
quello che le aveva lasciato detto il maestro, che cioè,se i fatti senza le
idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate coll'esperienza, riescon
vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino pensiero kantiano e
disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la riflessione filosofica
definita per artifizio(2); approvato- comegià nella Morale della filosofia
positiva (1871)– l'indirizzo psicologico-sperimentale dato dagl'inglesi alla
filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro teoria della re latività del
conoscere (dove l'autore vede un kantismo ricondotto addietro fino a
Berkeley (3); dato corpo in certo modo a quella specie di eccletismo, che gli è
stato talvolta attribuito (4), e a cui egli stesso in alcuni scrittisi può
dire che abbia accennato parlando di una mediazione tra il criticismo e
l'evoluzionismo (5); rifatta un'altra volta la storia del ritorno a Kant,
nonchè della scuola spe rimentale inglese,per conchiudere che oggi il filosofo
« non prova più in sè quello che pure era,ed è tuttora,così proprio
de'meta fisici, il sentimento superbo di un preteso primato sui cultori
dell altre scienze, la vana persuasione di potersi segregare da loro nella
solitudine di un infecondo sapere assoluto, superiore alle
indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di tutto darle,
senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede, esplicitamente
l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti e
all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri
scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra
le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente
umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e
delle loro leggi. Nien t ' a l t r o c h e d a t i ! Non c e r t o
«un'assolutadisperazionedelvero»,ma «una fede assai condizionata nel valore di
quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »;
un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o
quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii
convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice della
verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di
questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende
mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non
c'è l'anima del Barzellotti.Di questa ricerca egli non vede se non una
vita vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto
a pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi
convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può prendere
il luogo delle credenze religiose. Il Barzellotti non dice propriamente perchè,
e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati circa il valore della
filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo spirito dello
scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano il risultato del
ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle azioni « dal
cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa immediata,da
un che in somma non ragionato, m a sentito e i n t u i t o ». C o n t r o
c h i c r e d e, c o m e il R e n a n, che p o s s a la scienza un giorno
trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che « delle due forme di
conoscenza ond'è capace la nostra mente,la concreta e diretta,o vuoi intuitiva,
ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi nella pratica della vita.
Se non che,tale appunto quale è,ottimo istrumento e guida all'azione,la
conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente proprio e suo e d'op
posto all'indole del sapere scientifico.; appunto perchè
concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto
delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò
incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto
finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e
d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da
quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno
individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza
immediata,la convinzione istintiva ». Qui n d i l ' i n e f f i c a c i a della
scienza; q u i n d i il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano
di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla
scienza, il Barzellotti non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a
parer mio,nell'esperienza personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un
indizio. È la scienza sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non
riformata l'anima,che non può cacciar di nido la religione.Se la metafisica, l'alta veduta speculativa investe tutto
l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è un artista.Onde
ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans l'art): « che tra
i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il più potente e il
più vero è l'Arte.Essa infatti penetra,per dir così,giù sino al cuore del
grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come
falascienza,soloilprofiloesterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime
l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le
potenze originarie e germinali » (1). E al Taine tributa la gran lode di aver
avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi
generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito
umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che
intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al
l'astrazione » (2), E l'autore continua: « Qui sta con buona pace
dellapedanteriatogataditanticheoggisichiamanodotti– la superiorità
dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l
a vita, il c a r a t t e r e e i sentiment i u m a n i. Si può esser certi
infatti che nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della
parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e
dell'ordine morale,che finora sono state trovate tutte dai fondatori di
religioni, dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure—
daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama
uomini non p o sitivi » (3). (1)Ippolito Taine, Roma, Loescher, 1895,pp.
191-2. (2) Ivi, p. 149. (3) Pag. 150. E così ci accostiamo al po'di
filosofia del Barzellotti: a quel po'almeno, che è la nota metafisica vera e
sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso negli
scritti del Barzellotti, benchè non sia che una nota.La religione,dice in uno scritto su L'idea religiosa negli
uomini di stato del risorgimento (1887), è «qualcosa di analogo all'artee
d'irriducibile,per una legge del nostro spirito,ad altre forme della sua vita
interiore »: « la cer tezza delle verità religiose venirci dal sentimento e
dall'intuito, e appartenere a un ordine affatto diverso da quello della
certezza che cipossonodare le dimostrazioni della ragione» (1).– Enellostudio
La giovinezza e la prima educazione di A. Schopenhauer e di G. Leopardi (1881):
« L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole che esprimono forse l'aspetto
più nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le sue radici nel cuore, non
nella testa » (2). Quindi quel sentimento,che in uno scritto,anche
precedente,sullo stesso Schopenhauer, è detto « ormai cessato da un pezzo in
Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni paese.: quello
del bisogno che tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi hanno di stringersi
in più intima armonia colla natura e colla realtà » (3). Questo estetismo
o misticismo estetizzante venne al B. dai ro mantici tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto
di suoi studi insistenti? Certo non ha che vedere col suo preteso criticismo,
che è uno scetticismo ingenuo, appenalarvato.
Ma visiriconnettenelsensoche, dimostrandoci il
temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione
alla vera e propria filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza
naturale del suo spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e sistematica,che
in altri scrittori si atteggia almeno a una critica gnoseologica del natura
lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre una ten denza, che
determina l'indirizzo degli studii del Barzellotti, quando egli trova la sua
strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla sua mente,è un carattere
reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che abbia trovato la sua
strada quando ha comin
ciatoascrivereisuostudiieritrattiesaggipsicologici,intorno a
scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato
sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto,
l'individuum ineffabile, con l'intuizione del (1) D a l r i n a s c. a l r
i s o r g., p. 163. (2 ) S a n t i, p. 4 1 5. (3) Op. cit., p. 4 0 5 - l'artista,
vedendo, come egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta
opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai
sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta
lafilosofiaall'arte, cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi
storia; ma illavoro mentale del Barzellotti non mira al di là della
rappresentazione individuale del concreto.E questa è la sua filosofia; la quale
ha inteso a «unireilpiùpossibile- egli dice l'arte alla scienza » e « provarsi
a ritrovare sui modelli vivi, che danno la storia, le biografie intime e
l'osservazione delle cose sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di
quell'anima umana, che la scienza delle scuole e delle accademie ci ha per
troppo tempo fatta conoscere solo in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia
e di maniera »(1). Da S. Agostino al Lazzaretti, dalla psicologia delle
tentazioni a quella del pessimismo filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo
spi rito paganeggiante del rinascimento alla tempra morale della deca denza,
alla religiosità dei nostri uomini del risorgimento, al river bero della nostra
anima nazionale nella letteratura, il Barzellotti dall'8o in circa ad oggi si
può dire che abbia raccolto tutte le forze della sua mente intorno a
particolari problemi storici di psicologia, cercando così attraverso i
procedimenti intuitivi dell'arte quella ve rità alla cui visione non s'era potuto
elevare col metodo razionale del pensiero speculativo:spargendo, in verità,gran
copia di osser vazioni fini ed acute principalmente sulla storia dellaforma
mentis, com'egli ama dire, del popolo italiano.Se incotestaarte,
peraltro, egli sia riuscito di solito a toccare il segno,non è il luogo
questo di ricercare: se dovessi esprimere il mio giudizio,direi che per sif
fatte indagini di storia psicologica al Barzellotti manca,per otte nere la
rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che forma davvero lo storico
e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della individualità; la quale non si
potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di tutto il centro vitale del suo
organismo; laddove il Barzellotti gira troppo con considerazioni e divagazioni
generali intorno ai personaggi e agli stati morali presi a studiare.E gli manca
altresì, per lo più, quella piena e diretta conoscenza dei particolari, in
mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi negl'individui vivi, in quelle
anime vere, che il Barzellotti è andato cercando. (1) Santi, pp.
XII-XIII. Di questa sua veduta estetizzante dello spirito umano bisogna
ricordarsi per intendere nel loro genuino significato i motivi della
comunicazione fatta dal Barzellotti intorno al metodo storico nella trattazione
della storia della filosofia al congresso romano di scienze storiche nel 1903
(1): contro la quale insorse il vecchio Lasson in nome della universalità
della ragione e della scienza (2). Pel Barzel lotti la filosofia dev'essere
rappresentata dallo storico come la filo sofia di una nazione o di
un'altra,quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta attinenza con
tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli abiti e delle
forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo dilui.E certo una
storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non tener conto ditutta
cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un patto: che si rammenti
non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la realtà condizionata;e quando
tutta la cultura contemporanea che agi sullo spirito di Kant sia nota,e tutta
spiegata la psicologia per sonale di questo pensatore e del suo secolo,restare
tuttavia da in tendere tutta la sua filosofia, in quel che ha di veramente
filosofico, ossia di valore universale ed eterno. Qui la verità affermata dal
Lasson,edal Barzellotti disconosciuta, per quel suo occhio, fatto per vedere il
particolare,cieco all'universale. E poichè l'universale è l'intimità vera delle
menti speculative,anche qui ei conferma ilsuo difetto di attitudine vera a
penetrare nell'intimo degli spiriti. Egli vede i p e n s a t o r i, e n o n v e
d e il pensiero; e però non vede n è a n c h e veramente i pensatori.Ne son prova isuoi molteplici saggi
sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma il Barzellotti è stato forse letto
invano per la cultura intellettuale e morale italiana? Io non credo:non èstato
un filosofo, e neanche un artista riuscito; ma è pure stato un nobile
scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori intorno a questioni morali
e religiose troppo trascuratetra noi; è statoun lucidospecchio di molta parte
della cultura filosofica straniera contemporanea;ed è stato un forbito
scrittore, imitabile esempio ai pedanteschi filoso fanti italiani degli ultimi
tempi. (1) Di alcuni criteri direttivi dell'odierno concetto della storia,
che re stano tuttora da applicare pienamente e rigorosamente alla storia della
fi losofia, massime di quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negli Atti
d e l C o n g r. i n t e r n. d i s c. s t o r. (R o m a ). Fra i
più malagevoli ufficj della Critica istorica è per certo il determinare come e
quanto contribuisca l'inge gno di ciascun popolo alla sua grandezza
intellettuale e civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi
maggiori,o alla civiltà delle nazioni contemporanee; que stione ardua, e più
che alla storia appartenente alla F i losofia, perchè risguarda una legge
intima ed arcana della natura,onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda
l'operare e ilpatire,ilconservareeilprodurre,la reve renza alle tradizioni e la
libertà dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d'un tale esame,la quale cresce
a misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i
documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i
giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla filosofia
de'Romani; giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole,e avvalorati dal
quasi comune consentimento,negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed
originale alle manifestazioni dell'ingegno latino. Gli argomenti che si
allegano per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè
assai noti nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti 1
Questa ultima affermazione tanto più è conforme alla storia,in
quanto,sebbene la maggior parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome
autorità di filosofo al senatore romano, è per altro consentito da tutti che i
suoi scritti filosofici si conservarono chiari per benefica efficacia lungo
tutta la decadenza delle lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto
e trasmesso nei principj dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dot trine
della filosofia greca alle scuole de'Padri e de'Dottori, 2- concordi nel
sostenere che ai Romani, poco atti sin da principio per naturale tempra
d'ingegno, e distolti per lunga età dalle intestine discordie, dalla brama del
d o minare e dall'esercizio delle armi, e finalmente abba gliati dallo
splendore della civiltà greca,mancò una libera disposizione a ritrarre e a
creare il vero ed il bello negli esercizj della scienza e dell'arte.(Degerando,
Brucker, Tennemann,Ritter,Kuehner ed altri).Ai quali argomenti quando per sè
non rispondesse abbastanza la ragione istorica,la quale vieta potersi sempre
dedurre da ciò,che un popolo fece in certe condizioni di tempi e di civiltà,
quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare; se non mostrasse
il contrario la scuola dei Giure consulti,che dalla coscienza del genere umano
e dalle forme logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del
gius costitutrice delle nazioni europee, se l'Eneide emula all'Iliade, Lucrezio
maggiore d'Esio do,la Commedia di Plauto,le storie di Livio,di Sallustio, di
Tacito, la Satira togata di Giovenale e di Persio, l'Elegie di Catullo non
indicassero assai che il genio latino,libero nella imitazione,seppe aggiungere
all'ideale del vero e del bello greco un che d'universale e di so lenne, un
certo senso pratico e positivo, e un'intima ri velazione degli umani affetti,
ignota fin allora ai Gentili e resa più perfetta dal Cristianesimo,io mi
restringerei alle sole opere filosofiche di Cicerone,che sono, parmi, una fra
le prove maggiori del come la scienza deinostri padri, modestamente operosa,
recasse la sua parte alla civiltà universale. e all'età
delRinnovamento.(Ritter,Hist.dela Phil.an cienne,tom.IV, p. 136,e nota 2,Paris,
1858,Ladrange. Kuehner,M. T.Cic.inphil.ejusq.partesmerita.Ham burgi, 1825, P.
V. C. IV. Epil.) La storia della Fi losofia ci mostra di fatto che Cicerone fu
a’Padri latini molto in pregio,e segnatamente a Lattanzio che lo chiama
eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle In stitutiones divinæ
più volte; poi a sant'Agostino che ri conosce dall'Ortensio la preparazione al
cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo cita o ne tira
le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire in una sua
epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio di
cristiano, meritava chiamarsi Ciceroniano.Fra iDottori più principali è noto
come Boezio togliesse da Tullio il pensiero sulle consola zioni perenni della
filosofia, e apparisce lo studio che di questo egli fece sì da'pensieri e sì
dallo stile; come san Tommaso ne arrechi l'autorità in più luoghi della sua
Somma,comeDante lomeditasse;piùtardinelsecolo decimosesto Erasmo lo esaltava
con lodi famose, e nel decimosettimo l'Autore della Scienza nuova attingeva in
parte dal libro de Legibus il pensiero d’un gius ideale eterno celebrato nella
città dell'universo col disegno della Provvidenza. Ad una fama sì lunga e sì
costante, e che per certo doveva avere una causa non soltanto, come si afferma
generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del
filosofo latino si porgevano all'educazione morale e civile, m a
nell'intrinseco loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da
uomini egregj (Forsyth, Life ofCicero,London,1864,vol.II,XXV,p.282),con
trastano singolarmente i giudizj di alcuni critici piùre c e n t i. L a o p i n
i o n e e s p r e s s a d a t a l i g i u d i z j, a v o l e r l a r i a s
sumere in breve,è la seguente:M. T. Cicerone,ingegno universale, acutissimo e
disposto ai combattimenti dell'elo quenza, più che alle severe indagini
speculative, pensò e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un
compendio largo, chiaro, eloquente della filosofia greca 3
in servigio dei suoi connazionali digiuni sino a quel tempo di tali
studj, o costretti ad attingerli da fonti greche. Da questa pretesa
insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio,dal fine pratico e letterario
ch'e'sipropose,e dal difetto di studjpreparatorj la Criticamodernadeduce la
natura delle sue dottrine; le quali,benchè guidate sempre da criterio sano, e
da una retta applicazione del senso comune,non vanno troppo addentro nei
fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo, nè
costituiscono,come le dottrine dei migliori filosofi greci, un largo e ben
architettato disegno di scienza.(Brucker, H i s t. C r i t. P h i l., V. I I, p
a r. 2, p. 1. C. 1. T e n n e m a n n, G. Bernhardy, Grundriss der Römischen
Litteratur. Braunsweig, 1862, pag. 769, $ 119.) 2. Facendoci a cercare
l'origine di tali giudizj abba stanza severi,parmi se ne potrebbe addurre
innanzi tutto unacausaassairemota,ma inparterelativaalmodoben differente, con
cui gli antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini e di certi
principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col Bruno, col Cartesio in
Francia, e in Inghilterra con Francesco Bacone,che spez zando ogni autorità del
passato,e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato a
fastidio,proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta
novità dei sistemi. C o m e s'intendessero quella libertà, e quella novità; e
quali resultati ne seguitassero alle let tere, alle scienze, alle arti,al
vivere privato e civile,come se ne avvantaggiasse o ne patisse la Morale e la
Reli gione,la Scuola,la Famiglia e lo Stato,non è qui luogo a mostrarlo,e le
son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della
riforma,e soprat tutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali dal
Galilei,eda FrancescoBacone;chè,selariflessioneli bera ed esercitata desunse
mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne
avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le
discipline morali e civili; perfezionò i suoi metodi la Medicina, si levò
gigante la Chimica,la Geologia sfogliando -4
illibrodellanaturavilesseleetàdelmondo;se tanti incrementi ne provennero
alle industrie e alle manifat ture, onde il viaggiatore trascorre paesi e
province con v e l o c i t à p i ù c h e u m a n a, e i n m e n d ’ u n b a l e
n o il s a l u t o r i congiunge gli amici,benchè separati dalla immensità del l'oceano,
di tutto ciò alla riforma della filosofia è debi trice l'Europa. M a le è pur
debitrice di quella inquieta brama del sapere speculativo, onde si successero
sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più impenetrabili misteri della
conoscenza umana,e quel nuovo si cercò da molti nell'inusitato e nello strano
più che nel vero; così co minciata in Italia ed in Francia la licenza della
rifles sione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il panteismo
superbo del Bruno, del Campanella e dello Spinosa;poi,scontenti del
panteismo,ci diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx,
l'idealismo e il sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke,lo scet ticismo
dal Bayle e dall’ H u m e; più tardi le sconfinate immaginazioni degli
Alemanni,e un ridurre Dio e l'uni
versoall'uomo,dall'uomoalpensiero,dalpensieroall'idea, dall'idea novamente alla
materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più sconsolato, un
correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota senza rag giungerla
mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare !Posta in tal guisa la
filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e detto una volta che
la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere anzila scienza
presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con tutte le sue
relazioni, dover verificarla, non annientarla ), l'indirizzo introdotto
nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi eccessiva
mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi,sof fermata un istante la
foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra i suoi
passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia, quella
storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi unico criterio
per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua filosofia, fosse
l'assoluta indi 5- 6 pendenza del pensiero esaminatore dallo
stato della n a turale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del
sistema. A questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali
opinioni, furono conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si
seguirono da oltre mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia,
onde ne derivò in Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio
la storia comparata dei sistemi del Degerando,e la storia del Tennemann,dove si
giudi cano le varie filosofie alla stregua del problema sull'ori gine
dell'umane conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle
dottrine del criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi
negli storici più temperati e meno imparziali,segnatamente Alemanni, e nei
filosofi delle altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato
dalla riforma questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che
ricusano dalla natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze
conosci tive, e se ne avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri
di filosofia, sulla così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità
delle dottrine speculative. C o n siderate le quali cose,non dovrebbe far
maraviglia se quel tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i
principj del decimosettimo,quando Italia e Francia,stanche dell'autorità
abusata dagli scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu
allora appunto,come nota il Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali
sulle dottrine dei Romani e di Cicerone),se quel tempo, dico, non era troppo
opportuno a giudicare imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e
venerate tradi zioni.E nel vero anche piùtardi intuttoilsecoloXVII, se
n'eccettui coloro che rifiutarono i dubbj del Cartesio, m a tennero il suo
metodo d'esaminare la coscienza, quali il Bossuet, il Fénelon e i più segnalati
di Porto Reale, agli altri che s'appresero ai dubbj, e venner giù giù n e gando
i pregj dell'antichità,nemici d'ogni tradizione,non poteva andare a genio
davvero quella riflessione modesta e tranquillamente efficace che il grande
oratore avea 1 recato sulle verità eterne della coscienza,
desumendone le armonie universali delle dottrine greche temperate dal senno e
dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero diTullioilPomponaccio
eilCampanella,citatidal Brucker,pag.49,tomo II,notaa.) M a d'altra parte, se
per ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura
e la filosofia d'un popolo,che fu per eccellenza il popolo delle tradi
zioni,giova riportarci alle sorgenti diquella Critica, ec cessivamente nemica
al passato, questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più,
apparvero solo nella Storia della Filosofia nata ne'principj del secolo passato
in Germania ed in Francia.Tra ifrancesi,per tacere dei p i ù a n t i c h i, il
D e g e r a n d o v i s p e n d e il c a p. X V I I I d e l l a s u a Storia
comparata dei Sistemi,dove enumerati prima gli ostacoli che impedirono ai
Romani un proprio esercizio dell'indagine speculativa,nota opportunamente non
essere stata abbastanza osservata dał comune degli storici la grande efficacia
che ebbe l'ingegno latino sulla Filosofia trapiantata di Grecia, ond'essa
assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie astrazioni si
ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di Cicerone nel quale
rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro mano,cioè una scienza
desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo ecclettico dalle scuole
differenti, una scienza accessibile ad ogni intelligenza educata, e confa cente
a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi, nell'arte politica; scienza
supremamente pratica e applicabile agli individui e agli stati. (Histoire
comparée des systèmes de philosophie considérés relativement aux principes des
connaissances humaines, par M. Degerando, tom. III, parte I, 1823.) Giudizj
assai meno temperati comparvero inAlemagna, dove fiorendo mirabilmente le
discipline filosofiche e isto riche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali
che illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse
però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale
alle lettere e alle scienze C Tra i critici alemanni va
innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero
fondatore della Storia della Filosofia.Ma considerando però il ca pitolo dove
egli parla della filosofia de'romani e di Cice rone,ti accorgi tosto che
quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in
Roma che una semplice continuazione delle scuole greche;e secondo le varie
specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine
romane annoverando Cicerone tra iseguaci della Nuova Accademia;quantunque
confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta,ma
inclinò a quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente ilBrucker nel
proporsi ilquesito,perchè mai i Romani e Cicerone non crearono una filosofia
propria,non ne accusa, come oggi il Forsyth, la infelice disposizione
dell'ingegno latino (the unmetaphysical character of the Roman intellect.Life
of Cicero,vol.II,p.282);ma quanto ai Romani in generale ei ne trova la causa
nelle occupa zioni della vita civile, e nella setta Accademica, che cri ticando
e sindacando tutti isistemi,svogliava gl'intelletti da nuove speculazioni; e
quanto a Cicerone, nella natura del suo ingegno, più immaginoso assai che
penetrativo, ond'egli (dice lo storico) preferiva il probabile all'esame
profondo del certo, e delle greche dottrine rappresen tava nelle sue opere la
parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e delle deduzioni,e
la generale armonia del sistema.(Brucker,Hist.Crit.Phil.,tom.II.) Al giudizio
dato dal Brucker si avvicina in gran parte quello del Tennemann,e nelle loro
opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella
esposi 8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da
far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche
anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato,
e molte parzialità si correggono; ed io sono certo che ri composta in pace
l'Europa,ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli
scrittori di quelle grandi e generose nazioni. 1 zione dei fatti;ma
per quanta possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della Filosofia,
come non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an ticipato e
parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una dottrina,
come quella di Cicerone, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni
opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si stema? M a
se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann, merita più
speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece
degli scritti filosofici di Tullio, Enrico Ritter nella sua storia della
Filosofia antica. 3. Le indagini dotte e meditate del Ritter movendo dai tempi
antistorici della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della civiltà indiana,
ionica e delle colonie italo greche fino all'origine delle scuole socratiche,
da queste al loro declinare e disperdersi in una confusione di sistemi
sparpagliati e sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo periodo
dell'antica filosofia, all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche
greche sotto la romana, la rovina di quest'ultima, e il sorgere del
Cristianesimo. Due cause potenti egli allega del nuovo indirizzo preso in
quella età dalla filosofia greco-romana,e le ritrova nella storia delle due
nazioni, che allora si ricambiavano una vicendevole efficacia nelle lettere, e
nelle scienze, e nel vivere privato e civile. Nei Greci, perchè la costoro
scienza impoverita oramai dall'uso eccessivo della facoltà creatrice nei tempi
anteriori, dallo scadimento della li bertà e dei costumi, e costretta, per
accomodarsi all'in gegno e all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le
forme ed il metodo d'una disciplina scolastica, non d e sunse più le sue
dottrine immediatamente dalla riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li
paragonò,li esaminò, li accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente,
non dalla natura intima del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo.
Nei Romani, perchè essi non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme
scientifiche, -9 ma vissuti sino a quel tempo in mezzo ai
tumulti della vita civile,e fra lo strepito delle armi,tranne una certa
tendenza, che li moveva agli ordinamenti giuridici, nè la natura, nè la
educazione loro si porgeva punto alle indagini della scienza. Quindi (osserva
ildotto Alemanno) era ben naturale che, date quelle condizioni morali,civili e
scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno greco e latino derivasse un
Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa filosofia, l'indole della
quale è sostituire la li bertà della scelta alla libertà dell'ingegno
inventivo, accomodarsi alla natura degli scrittori,abbandonato l'or dinamento
scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre, attenersi principalmente
all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più importante
manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella vita,nell'animo e
nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor gimento la vita,e
vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della Filosofia, è perfettamente
d'accordo con quella che occupò nella storia civile dei tempi; come furono le
medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo levarono alto nella vita
pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per altro di giungere al
sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e questi difetti
nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla vivezza
dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore per gli
altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara previdenza
dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di volere che costi
tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli
dice,dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua
gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea
frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica
vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la
quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la
assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica,
perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon 10
volgimenti del primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di
Antonio,tempi calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento
civile, e fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli
tudine colle meditazioni della scienza.Era quindi ben naturale che il grande
oratore, vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende,
non si ripo sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville; la d e bolezza
innata dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al governo delle
cose civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai principj della ti
rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli studj della
filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con vivi colori
questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto agli studj,
e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia sua nelle
consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al disopra
delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di Cicerone deduce
l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato
scetticismo,espressione fe dele di animo titubante;scetticismo moderato,perchè
seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e della patria, ei
mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno conserva sempre
intemerata la nobiltà d e l l a v i t a, e il d e s i d e r i o d i u n a m o r
t e g l o r i o s a; m a t u t t a v i a scetticismo, perchè riconoscendo la
natura assoluta del vero, ammette solo come verosimili le dottrine che ne d e
rivano, e dubitando interroga tutte le scuole, prende ad esame tutte le
opinioni greche,e accordandole insieme più con intendimento politico, che con
vero criterio di scienza, ne vuole arricchire il patrimonio della romana
letteratura. Sennonchè tra le varie dottrine in cui si di videvano le scuole
greche, una ve n'era che s'accordava mirabilmente agli intendimenti, e
all'ecclettismo scettico abbracciato da Cicerone; e questa era la dottrina
della Nuova Accademia.Se Tullio infatti poneva ilfondamento della filosofia in
un dubbio moderato sui principj delle - 11 - umane
conoscenze, la Nuova Accademia, guidata allora da Filone, che gli era stato
maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo dubbio, e lo
temperava con la verosimiglianza; se l'oratore romano voleva che le dottrine
della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la parola negli
esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a questa di
sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere stata sempre
frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a un metodo
disputativo; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della filo sofia
greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno
eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova Accademia,che disputava contro
tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la maggiore libertà dei proprj
giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in brevi tratti ai Romani lo
stato della filosofia passata e contempo ranea, ad innamorarne i lettori, senza
perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli a un sistema. Cice rone
dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico dubitante,come oratore
e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò le dottrine della
Nuova Accademia;e va notato particolarmente, sì perchè questa è l'opinione più
universalmente accettata intorno alla vita filosofica di Tullio, e alla parte
che tengono le sue dottrine nella storia della filosofia, e perchè il comune
degli storici ricollega quasi sostanzialmente a quel si stema le sue opinioni
sulle parti principali in cui si divide la scienza. Così opina anche il Ritter,
e prendendo ad esame le opere tulliane, secondo la tripartizione plato nica
della filosofia più comune agli antichi (egli avverte però che,stante
l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e la loro qualità, tutta pratica
e positiva, la distinzione delle tre parti non è abbastanza spiccata), rinviene
in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il dubbio della Nuova Accademia.
V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi abbondavano più che altrove
le dispute e le contradizioni dei filosofanti; dispute sulla natura delle
12 cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di Dio e sua
provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità; e di tutti questi veri
Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera verosimiglianza.
V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa la più povera e la
meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la collegava meno d'ogni
altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il sensismo degli Stoici e
degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener fronte agli argomenti
della Nuova Accademia; finalmente v'ha dubbio manifesto anche nella morale,
perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle dottrine epi curee,
la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici l o lascia indeciso da un lato
tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la grandezza dell'animo
romano, dall'altro la fragilità di natura; incertezza che pure lo segue nella
politica, e nelle attinenze della politica colla morale. Talchè il Ritter
movendo dal presupposto che la filosofia di Tullio non fosse che
eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò ogni
certezza e ogni legame di scienza in ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle
tre parti tra loro (perchè quella logica e quella fisica non sono per lui che
un'appendice della morale, considerata da Tullio com'arte pratica della vita);
negò ogni unità di disegno scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità
del principio fondamentale, posto dalla riflessione, e a cui rispondesse
l'universale armonia del sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che
rappresentino alla mente del l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi
ch'e'le con siderava qualcosa più e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una
scelta a cui manca e libertà di riflessione e cri t e r i o d i s c i e n z a. (H
i s t. d e l a P h i l. a n c., l i b r o X I I, c a p. I I, vol.IV,ed.cit.)
una manifestazione 13 Se noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le
opinioni del Degerando, del Brucker e del Ritter,è stato segnatamente per due
ragioni; la prima perchè poteva recare non piccola luce intorno ad una
questione che abbiam preso ad esaminare,e su cui sono infinite le
dispute dei critici e de'filosofi, il giudizio degli storici migliori che vanti
la nostra scienza; e in secondo luogo affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo
dato,muovano gli studiosi a ricercare con maggior diligenza le variazioni e
iprogressi, che ha fatti sino a noi la critica sulle dottrine filosofiche di
Cicerone. Questa critica non pare immeritevole di qualche considerazione,
perchè rappresenta quasi in sè stessa quel moto graduale dell'esame, e quel
lento c h i a r i r s i d e ' p r i n c i p j s u p r e m i, c h e g o v e r n
a n o i f a t t i, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I
primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e
spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio
tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di
Cice rone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva
dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente
nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio
concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel
farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un
filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato
intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna
ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana
da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare
molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella
che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Ac c a d e m i a, e u n
e c c l e t t i c o d u b i t a n t e ), e, q u e l c h e s o p r a t t u t t o
importava,trattandosi di M. Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e
ne'principj,conveniva cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita
e del carat tere dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie
del sig.Gautier de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de
Cicéron, lette all'Accademia francese 14 15 delle Iscrizioni
e Belle Lettere, nella seconda metà del secolo scorso; dove si esamina
accuratamente la parte oggettiva delle dottrine tulliane, si dimostra il
vincolo di sistema che le congiunge, e si difende dalle accuse di scetticismo
la fama del grande Oratore. Lavoro merite vole di molta considerazione per
sanità e profondità di giudizj, se a questa non nocesse talvolta l'aver
guardato più alla materia delle dottrine che alla loro forma scien tifica, e
considerato Cicerone come filosofo compiuto e dommatico in ogni parte,anzichè
avvolto di continuo nelle dispute degli opposti sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des
I n s c r i p t. e t B e l l. L e t t., v o l. X L I, X L I I, X L V I.) A
questi difetti sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter,
che sebbene ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della
filosofia che lungo tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve
quanto di meno inverosimile può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E
dirò anche di più, che l'esame del Ritter, fondato com'è in una conoscenza
profonda delle opere di Cicerone, contiene innegabili verità, qual è quella,per
es.,che nello svolgimento delle dottrine del grande Oratore esercitasse una
singolare efficacia i suoi tempi, la sua nazione, la sua indole propria; che
speciale qualità di questa indole fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e
la dispera zione del vero e del bene eterno,e che a queste dubbiezze
contrastasse efficacemente il senno pratico della natura romana.M a d'altra
parte noi siamo ben lungi dal credere che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e
dopo ne tennero le opinioni, abbiano considerato nel suo vero aspetto l'indole
delle dottrine tulliane; chè, se non può negarsi da un lato esservi in esse un
che di necessariamente re lativo alle condizioni dei tempi e alla natura dello
scrit tore, e quindi mutabile, non necessario e contraddicente alla natura
assoluta e apodittica della scienza,non è men vero dall'altro ch'ei pur
rinvenne nell'intimo delle dot trine contemporanee, e nello studio profondo dei
veri eterni specchiati in sè stesso e negli altriuomini,un cri 16
terio certo, universale, infallibile da costituirvi la scienza. V’ha dunque
nella filosofia di Cicerone questo che di oggettivo e di soggettivo, di
relativo e di assoluto, di mutabile e di necessario; m a l'una e l'altra
qualità si ricollegano insieme per nodi di universale armonia; armonia di
relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i tempi,tra il romano e
l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e politico e Cicerone
filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde quell'altra interiore,
attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e l'affetto, tra la volontà e la
ragione,tra l'intelletto e le verità immortali. E certo a queste
considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri critici Alemanni, badò
Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle dottrine di
Cicerone ch'io mi conosca,edito in A m burgo l'anno 1825,quando rispondendo al
quesito pro posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e
l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente
quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine
contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e
ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in lui,
ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della
riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine,
ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in
phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur.1825. Pars altera.Cap.VI; Utrum
Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur, pag.130.) E questi pajono
anche a m e i meriti veri e innegabili del senatore romano; e nondimeno ogni
qual volta io rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità
di pensieri e d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è
sìprofondamente immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle
scuole socratiche, mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n
cora notevoli perfezionamenti, sempre che col chiarirsi Posto ciò,
non sarà difficile, parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali
confini si contenesse l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma
della filosofia quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali
vicendevoli attinenze stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli
venne dalle scuole d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo
il pensiero sui fondamenti della scienza, questione che (conforme a quanto è
detto più sopra) noi ci siam proposti di chia rire nel presente discorso,
fermandoci a tre punti segna tamente:cioè,qual era la condizione della
filosofia greco romana ai tempi di Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse
e combattesse le dottrine delle principali scuole tentando di conciliarle;
finalmente qual filosofia derivasse dalla deliberata opposizione e dal metodo
compositivo del l'Oratore latino. successivo di quella legge,che regola
la filosofia nel tempo, se ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può
solo spiegare, a mio avviso,l'ufficio della filosofia de’Giu reconsulti e di
Cicerone, e dall'ufficio desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne
l'ufficio, già manifesto e considerato da molti rispetto alla Giurisprudenza e
agli ordini militari e politici, alla Religione e all'Architettura, che è di
comprendere in sè il buono degli altri popoli, tentando ridurlo a nuovi
ordinamenti di scienza; può spiegarne la natura, che è appunto quella
comprensione universale, tanto diversa dall'ecclettismo, che procede per
accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè ricomporre le intime relazioni
delle verità naturali sul disegno della
coscienza;finalmentepuòspiegarneilprincipio,cheèl'esa me
dell'uomointeriore,contrappostosull'esempiodiSocrate al dubbio, o all'esame
arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a
mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi
esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. 17 2
18 1, Gli storici più reputati della filosofia si accordano tutti in
mostrarci un manifesto scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo
il fiorire dell'antica Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di
Tullio, accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende
degli ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V
avanti l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in
pochi anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre
nazioni può appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che
liaveva nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono,
rappresen tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della
vita dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili
anni ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori
Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del
Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero
argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo
incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene,
un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva
in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di
rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di
Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del
pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute
in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento
profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo
greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia,
le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano
sentire,l'abuso scon II. umana 19 sigliato delle libertà
cittadine recava frutti di servitù, e la Macedonia invadeva.Chè se quella può
dirsi con qual che ragione l'età virile del popolo greco,nella quale raf forzatosi
di potenti ordini militari e principeschi sotto il regno di Filippo, portò
guerra con Alessandro nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento
delleTermopili,èquesta una virilità che giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola
filosofia d'Aristotele,superiore a Platone nel severo or dinamento scienziale,
e nell'indirizzo fecondo dato alla riflessione sul reale e alle scienze
d’esperimento,ma su perato da lui nella sublimità della dialettica, nella vi
vezza delle tradizioni sacre, e nella idealità del sistema. M a ormai la
discesa dei tempi non si poteva più tratte nere; e la Grecia passata dal
dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai Macedoni, morto Alessandro e
diviso il regno nei successori, sotto un tritume di piccole tirannidi, non ebbe
nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia del secolo XVI,un legame di
alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da conservare un'effigie qua lunque
d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia del se colo XVI,di quella efficacia di
salde istituzioni che una monarchia prudente suole introdurre nei popoli guasti
da libertà licenziosa. N o n è quindi a maravigliare se quella stessa Atene,
che avea veduto un Pericle non attentarsi a spogliare delle apparenze civili
l'autorità quasi regia consentitagli dai cittadini, pativa più tardi la
signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito di morte
Socrate accusato d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio
Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri
penetrali del Partenone. Sono questi i segni più indubitati della vecchiaia
d'un popolo, e quel lento e continuo scadere dell'ingegno e della vita del
popolo greco, oltrechè negli ordini politici,appariva in ogni altra parte della
sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini materiali, perchè a quel primo
moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle libere istituzioni,era succeduto
quel solito languore, quel ristagno d'operosità, che è conse guenza
necessaria (e noi lo sappiamo) delle arti dei go verni assoluti;e la signoria
de'mari, ristretta per l'in nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago
greco,si allargava ora ai Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano
i costumi, e la corruzione tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente
oscurarsi delle anti che tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre
denze gentili; e quella vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e
dalla severità dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso;
e al senso, non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute
adulazione di tiranni e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto
risentivasi la filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio
della corrut tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece
un breve e inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei
principali sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più
diretta effi cacia sulla filosofia latina. 2. Onde mossero dunque questi
sistemi? Ritenendo essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni,
il metodo e il fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un
ritorno ai sistemi che avean posto fine all'età antecedente della filosofia
italogreca, ritorno evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi,
mentre derivarono da Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il
dualismo, retrocedettero in fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando
alle lusinghe dei tempi coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta
mente desumendo la causa e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E
anche questa volta la confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e
altutto ar bitrario di conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al
senso,la immobilità dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e
l'immutabile, l'ente e il non -ente, il neces s a r i o e il c o n t i n g e n
t e, il r e l a t i v o e l ' a s s o l u t o; e p i ù, d a u n pervertimento
del concetto di causa prima.Per pensare, 0,meglio,immaginare quella
conciliazione, bisognava porre 20 un unico principio, in cui
esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto
indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui l'universo
dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli atti
successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima. Causa,
essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un
effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un
che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a
quello dacuierano mossiPlatoneeAristotele;chè,sel’Ateniese e lo Stagirita
concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo segnatamente
poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e nell'intelligibile,gli Stoici
invece concepirono la materia corporea come il primo principio e l'intima
realtà delle cose tutte. M a che cosa era questa materia? Questa materia
primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più tardi troviamo negli
Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura,
infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una
finzione immaginativa,è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno)
collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi
bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que'
pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto
questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il
nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno
medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo
doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una
parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto
fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse,
si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito
dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia
primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni
21 22 delle cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad
atto le forze intime della materia, ne va foggiando questo univers0
sensibile,(τον θεόν σπερματικός λόγον όντα ToŬ zoopov.Diog.L.,VII,136,e Cic.,De
N. D.,libroII, cap. XXII,e pass.). La falsa induzione che per vizio
d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura ad esempio
delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo la fisica
degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e d'at
tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose tutte,
e l'universo rassomigliavano a u n g r a n d e a n i m a l e; p e r c h è, d i
c e v a n o (u s a n d o u n a r g o m e n t o di panteismo rigoroso adoperato
più tardi dal Campanella ), se le parti del mondo sono animate,sarà animato
anche il tutto, e se le varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima
è governata dalla ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima
universale, il cui princi pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e
ragione dell'universo per gli Stoici era Dio; e quindi si capisce com'essi
trasportando sempre nel divino le facoltà del
l'umano,concepisseroDiodaunlatocomeprincipio prov vidente e ordinatore, e
dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti imoti
fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e inevitabile
neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia l'agitava di
causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo spirito divino
abitatore della m a teria la divinazione delle cose future.(Cic.,De N. D.,De
Divin.,De Fato,pass.)Concependo in tal modo la materia come contenuta e
vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per il
principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed
opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli
Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli
astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne
deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj
della loro scienza naturale uscivano la logica e la psicologia.Che
cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio
stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante
all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la
immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della
compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo
ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle
cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è
in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi
tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore (nepovezov
) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è notevole assai,che
mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo interiore dalla riforma di
Socrate salvava gran parte della psicologia stoica dalle conseguenze
materialistiche del principio che la informava, quella loro inclinazione a
studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet tica, e ne
proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo concetto di
potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in fisica aveano
pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come un che vuoto
e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono nell'anima la
possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e priva di contenuto,simile,
dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ χαρτίoν άνεργον εις
c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come l'atto primitivo di
Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni, imprime le rappresentanze
o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero queste fantasie è facile a
immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale comprendevano gli Stoici la
totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza ed originati tutti dai
sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in fuori dalla sensibile,
e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose tutte,ritiene ilsuo
modo 23 - 24 di conoscere,che conforme alla sua natură è un
cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e perchè, l'essenza
universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar conoscenza se non
di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo essi da un lato
ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo negare la natura
dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente opposta alla natura del
sensibile, ponevano le idee come una trasformazione della sensa zione operata
dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti francesi. M a, di grazia, sì gli
uni che gli altri sfug givanoforseallanecessitàdellacontradizione?Ne rimaneva
una intrinseca al loro sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare
all'anima un primo principio, una capa cità naturale al conoscere e immaginare
ch'essa poi ve nutale la materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e
di operazioni tutte sue proprie. M a in tal m o d o il sensista tira più là la
questione, e non la risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine
dellasua dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta
ai principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia
primitiva e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si
generano quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per
mezzo dei nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista
l'idea dell'obbietto s e n t i t o. M a è q u i a p p u n t o d o v ’ i o p r e
g o il s e n s i s t a a d a r restarsi. Poichè, manifestatasi in noi la
notizia, che al certo provenne dall'occasione de'sensi, se la mente si volge a
considerarla nella sua natura,vi riconosce bensì da un lato un referimento
esterno all'obbietto onde spe rimentammo l'efficacia causale,ma d'altro lato vi
scuo pre anche una più intima e segreta relazione cogli atti dello spirito, e
coi sommi principj del vero, obbietto i m mediato della potenza
conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere insieme la natura del
sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno mai fug gire i
sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la conseguenza più
legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual proposito bene
osserva il Leibniz nei Nuovi Saggi (lib. II), che coloro i quali s'immaginano
l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui nulla sia scritto
prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni passive e inefficaci
della materia. Se consideriamo adunque attentamente il sistema de gli
Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un pan teismo, dall'altro come un
dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo il Ritter, ne formava
il d o m m a fondamentale, all'unità primigenia e finale delle cose tutte e al
concatenamento o consenso delle parti della natura informata dall'anima
universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la legge del Fato; ma è
invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio anima del mondo e il
corpo del mondo, tra la m a t e r i a e l a f o r m a, il p a s s i v o e l ' a
t t i v o, il p i ù e m e n p e r fetto nelle esistenze, l'unità assoluta di
Dio e la diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una volta
rientrando nella indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha
reso non ben definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo
sistema, io credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la
confusione dell'età orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle
distinzioni dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine di Platone e
d'Aristotile,quanto dall'avere gli Stoici, più assai de'loro
predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia dell'uomo litrasportava a
quella dell'universo e di Dio. E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi
anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb bene Platone nel Timeo
dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e Aristotile,adombrando per
via con trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose,ambedue
silevaronpiùalto,eoltrequell'universo animato e al di là di quella
materia,l'uno contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e
nelle anime la luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo
desiderato dalla universale natura; peggiora 25 3. E d ecco
circa in quei medesimi anni, nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue
dottrine infette di panteismo e di dualismo (verso l'a. 300 prima di Gesù
Cristo), apparire la negazione particolare dei sensisti e degli idealisti con
Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi ben consideri la sua filosofia,
vi troverà un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine o anteriori
o contemporanee; chè se già era cattivo indi zio in Zenone e in Crisippo
l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno ai
sofisti della stessa età italo-greca,e segnatamente a Democrito. Notammo anche
come nonostante la rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si scorgeva
chiaro un esame s e m pre più imperfetto e parziale dellaumana coscienza;ora
questo è anche più manifesto negli Epicurei, i quali non si contentarono come
gli Stoici, lasciate da un lato le naturali tendenze,di porre la virtù e la
beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della vita;m a scesero più basso
restringendo l'una e l'altra al godimento dei piaceri del corpo; e riducendo i
piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo dei piaceri del senso.Nel che
essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi; nè già mi reca
maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad ogni licenza, si maturava
negli ozj voluttuosi la servitù della 26 rono in logica,stante che se
Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne faceva scala per salire
agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal senso l'in telletto,
poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli Stoici non
ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della scienza;
peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e perfetta delle
tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame
sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene
diventò più che umano, e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù parve
quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(Cic.,De Fin.,IV,V.
Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) - 27 Grecia,quando laNuova Commedia
svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del
vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici a disputare
co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi giardini in mezzo
alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più secoli dopo in una
etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che precedè di poco
quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole
de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti morali sotto
l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico; m a q u e l r i g
o r e, n o t a b e n e C i c e r o n e (D e F i n., L. I I ), e r a un finto
stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul volto del filosofo
gozzovigliante,era una sod disfazione
ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E
poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care
nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto per Epicuro
fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto,
lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una
norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava
sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti
morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come
Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggio r a s s e il s e n s i s m o d e g
l i S t o i c i e n o n m o v e s s e u n p a s s o o l t r e la sensazione.
Infatti, mentre gli Stoici andavano almeno fino all'idea che proveniva dalla
percezione, e passavano dal soggetto all'oggetto per l'attinenza di causalità
(Vedi Cicerone nel secondo degli Accademici),Epicuro,lasciata da parte
l'idea,riconosceva il criterio del vero nella sola realtà della sensazione, e negando
che dal senziente si desse certo passaggio all'entità del sentito, lastricava
la via all'idealismo degli accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e
di Sesto Empirico. Infine; negata ogni interiore attività dello spirito,
riconosciuta nella sola opposizione dei resultati sensibili la verità e
la falsità della sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini
scientifiche alla pretta significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti;
ecco in due parole la logica degli E p i c u r e i (C i c., D e N a t. D e o r.,
L. I. C. X X V, 1 0. ) N è a d i verso cammino si volgeva la fisica fondata da
Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito.Ora,se ben con sideriamo, questa
dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al dinamismo stoico è un
nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che con la filosofia del
senso si accorda con quella della materia. E di fatto, laddove gli Stoici che
avean molto de'materialisti, pur trascendevano il fenomeno sensibile,e vi
rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava vita e movimento alle
cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza nascosta, se ne stavano
contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni esteriori delle molecole
materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli atomi, mentre,come nota il
Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione della sua logica materiale
fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature elementari, non
accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova maggio re, perchè
io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia che pretende
spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e della dis
gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più sopra,nelle
dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si vede quindi da
ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con seguenze. Egli
non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse sotto
l'apprendimento dei sensi; ma poseaprincipiodituttelecoseilvuotoimmensoegli
atomi nè sensibili in modo alcuno nè intelligibili. (De Fin.,L. 1. 6.) Credè
immaginando la spontanea diversione degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi
alla inesora bile legge del Fato; m a s'imbattè in un'altra potenza non meno
cieca e inconcepibile, nella potenza del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.)
Finalmente un ultimo indizio di quanto poco conto ei facesse dei veri i m m o
r 28 tali presenti alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe
gnere per mezzo delle sue indagini fisiche quel concetto arcano dell'infinito
per cui la nostra mente dalle cause seconde si leva fino alla Causa prima,
quell'intimo senso di stupore e d'ammirazione che destano in noi,le tempeste,
ifulmini,le meteore,icieli sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce
della natura a cui risponde dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla
di Dio. (Lucr.,De rer.nat.,Ritter,L.X,C.II.Vedianche gli op. di Plutarco
tradotti dall'Adriani: 1. Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina
di Epicuro;2. Della superstizione.) 4. Contemporaneo d'Epicuro, e un poco
posteriore a Zenone,poneva Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico.
L'incertezza delle notizie intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato
occasione a purgarlo dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non
negava ilpositivo delledottrinesocratiche,ma soloopponevailsuodubbio temperato
al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des
Inscrip. et Bell. Lett., tom.XLIII),e Sant'Agostino nel libro Contra
Academicos, L. III, p. 111), ci rappresenta questa dottrina come un domma
filosofale, svelato prima nell'insegnamento del l'antica Accademia, e ristretto
poi nel mistero all'appa rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo
significato della filosofia di Platone: due essere i mondi, uno intel ligibile,
l'altro sensibile; quello vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza
degli archetipi eterni; del primo per via delle idee generarsi nel saggio la
scienza, del secondo una semplice opinione di verosimiglianza.M a quando io
penso che il vescovo d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua
conversione, scampato appena dal dubbio della nuova Accademia, e che per
guarire lo scetticismo inveterato del tempo cercava le più riposte armonie
della sapienza antica colle dottrine cristiane, attingendo principalmente a
fonti neoplatoniche; quando ritraggo dalla testimonianza concorde dei più
deglistorici che Arcesilao andò più là di Socrate, dicendo non po
29 30 tersi nè anche sapere di saper niente, che aprì scuola
d'insegnamento pro e contro ogni opinione, negando in tal modo il vero assoluto
e ammettendo soltanto quello relativo ai principj d'ogni sistema; e che
finalmente quel suo idealismo operò direttamente sul dubbio univer sale degli
Empirici; allora son tratto ad attribuire a un pervertimento delle dottrine
Socratiche, e alla efficacia de’tempi quello che Agostino riferiva al semplice
accor gimento d'Arcesilao.(Cic.,De Oratore,III,18.)Socrate opponendo
all'orgoglio del sofista la modesta affermazione del saggio,negava potersi
trarre da una cavillosa dialettica l'onnipotenza della ragione, e dalle
dottrine meccaniche degli lonj il conoscimento intimo delle cose.Platone tenne
fermo quel dubbio, temperandolo col conosci te stesso, e sceso a considerare i
più riposti veri dell'umana coscienza, vi riconobbe il combattimento della
ragione coll'appetito, dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale
e di terreno ch'è in noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del
vero,del bello e del buono,e s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi
trasportando quell'intimo co noscimento all'esteriore forma delle cose,e al
giudizio della loro perfezione, ne derivò la dottrina dell'ente e del non ente,
della üln e del c o s. E qui (si noti) consisteva essenzialmente il positivo e
il negativo delle dottrine platoniche. Poneva egli, è vero, da un lato il
concetto della scienza nel salire dai particolari agli universali,da ciò che
muta a ciò che non muta, dalla sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza,
e il fondamento della sua dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici
ele menti de'fatti particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma
d'altra parte mosso dall'idea trascendente della scienza,e dalle tradizioni
delle dottrine panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo,
egli faceva del particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente
oscuro,e non soggetto al conoscimento,perchè partecipante della materia che è
l'opposto dell'ente,e alle MatematicheeallaFisicaindagatricede'fattinegònome di
scienza.Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità ri
conoscendo necessaria attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella
mente dell'Artefice eterno che le informava della perfezione di quelli, e nella
mente dell'uomo per via della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas
saggio dalla opinione al sapere; m a la illazione del d u b bio, che scendeva
dalle premesse del suo sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la
materia,e l'una è negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì
disparati possa darsi attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio
l'intelletto, basta la sola ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli
animi nostri in una vita anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra
iparadigmi e le cose,'per verificare la certezza di quelle notizie che
civengonodaicontingenti.E perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia
platonica la relazione tra il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo
a negare o l'uno o l'altro di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono
gli Stoici, alle cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo
materiale del Peripato, e quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei
col restrin gersi nello studio della materia; restava a trarre l'altra
conseguenza del sistema platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao
colla sua dottrina ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto,
perchè non n e gava l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio
la loro corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero
in parte quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o
media che voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema
di Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di
Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio
fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era
nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che
togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero
nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Cri tica della
conoscenza.(Ritter,tom.XI,C. VI.Conclus.) 31 La quale non
ancora matura e compiuta in Arcesilao si svolse nei successori,perchè,laddove
il filosofo Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special
mente dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli
successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex
professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo
nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri
feribileall'oggetto,l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non
darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la
materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade? Sì;
perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non
potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi
il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico
si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine
anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio
ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle
idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui
ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to
gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del
bene,abbattevaifondamenti dellamorale(Cic.,De Rep., L. 1. Ritter,L. XI,Cap.VI.)
5.E ildiscorsodiCarneadeudivanoaffollatiiRomani, nella cui patria splendeva
quella gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità
umana,e la n o zione del dovere e del diritto si desumevano da principj
d'immortale necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi
congenita alla natura di Dio.(V. Cantù, St.
Un.Brucker,Degerando,Ritter,Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come fino
dal secolo XVII G. Batt. Vico nel suo libro De antiquissima Italorum sapientia
indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che reggono il
sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni ne'linguaggi
primitivj d’Italia; il 32 che,se non prova che presso quei
popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne
gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra
però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa
disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret
tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si
sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e
nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le cause del
fatto; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao,
Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva
intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in
Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia colle guerre
Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti la
tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e
sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che
giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno
dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma
guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da
profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della
severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle
mollezze d'Affrica e d’Oriente.(Sallustio, C a til.,C.X.c.f.XI.XIV.)Non
èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi,
dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento; chè
ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una
favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non
possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni
lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato,
Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto
apparentemente efficace di letteratura e di scienza m a 33 era 3
nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e
deiTolomei.Tranne inRoma,dovefinoallamorted'Au gusto durarono potente
incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini
repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le
scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli
in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo,dalla
Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco,Plutarco,Apuleio ed altri)
doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità
dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli
illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli
Alessandrini; e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze
matematiche e d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e
dalla agiatezza dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato
più volte) indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo
(come vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei
si stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella
dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la
riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una
volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia
l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della
coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in
breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate
a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica
da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale
accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri
infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano;quindi
da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto
ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale
della coscienza e delle sue relazioni fanno 34 seguire un
esame monco,spicciolato,minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti
di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi.Questo è
il pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del
disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati
aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia
corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per
terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia;
che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone,ci
guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d ' E v e m e r o. M
a la nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto alla
materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè
Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie
dottrine sulle principali teoriche della scienza; gli Accademici negavano
soltanto, e, tranne poche e sparpa g l i a t e a f f e r m a z i o n i i n f i
s i c a e d i n m o r a l e, r e s t r i n g e v a n o il soggetto della
filosofia al problema del conoscimento; ora da questo idealismo che solo
ammetteva pochi veri par ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento
coi proprj obbietti, non v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni
verità della scienza, e da questa al d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi
empirici e positivi che non sono più scienza. E anche allora fu detto o sot
tinteso da uomini dottissimi che unico criterio del vero era il mancare d'ogni
criterio,che la scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del
pensiero filosofico era la storia;e da questi abbagli di critica stemperata che
sirinnovano anche oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo
erudito degli Stoici e de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e
di Sesto,come oggi dagli eccessi della critica Kanziana pullularono gli E m p i
rici Alemanni, l'Ecclettismo del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto
Comte.In quelle condizioni della filosofia
era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto contrario alle
cagioni del male, dovea consistere 35 segnatamente nel
tornare ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la
universalità dei suoi veri, e affer mando
interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar pagliato e diviso.Fu questa
l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli ebbe occasione e conforto
dalle q u a lità dell'ingegno latino, mosso da antiche tradizioni e da indole
propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche, dallo stato politico e
civile di R o m a, e dal contrasto ai dubbj che laceravano la scienza. Di
fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di civiltà e di dot
trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in R o m a, dove le
sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per opera degli
affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora potente
l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il dominio romano
all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi correvano,come a centro
comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura, le arti, le
industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva,quasi a compire la m a e
stà della gran repubblica dominatrice,lacoscienza del ge nere umano.Quindi in
Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale,condizionenecessariaal
na scere della Filosofia.D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si
presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro la storia; la
filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel paralogisma, e
sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío della negazione
universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei
tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel senso;i Platonici e
iPeripatetici,come Cratippo,Stasea,AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si
diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono
con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con
Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì
l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle
altre scuole socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone 36
- e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone,
l'ultimo dei quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla nuova
Accademia,e riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da un
lato quell'in dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle
greche, e perciò prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre
dall'altro lato (sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine
de'N e o platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza
orientale e le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando
questi cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio,ci siamo
allontanati di troppo dai confini di una semplice introduzione; m a il
rimanente di questo discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del
filosofo nostro,i suoi intendimenti,lefontidellesueopereeilconcettoche egli
ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi alquanto
intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro sulle parti
della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo nella
solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano
all'Ortensio(A. di Roma 709 in circa), appariva,come ben notailRitter,una
straordinariapo vertà di speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e
sparpagliate verità rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana
coscienza illuminata una volta dai principj morali, allora in quella rovina
d'ogni umano prin cipio taceva, e al mancare della materia desunta dalla
considerazione dell'animo umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente
raffinata, impoveriva ogni giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno
colle dottrine di Zenone il vero concetto del principio e dell'atto del
conoscimento, e ridotta da Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo
gli universali, le contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo
stoico e dei Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente,
il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e
s'attraversava al buon uso dei m e 37 todi sperimentali; la
morale per ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime
dottrine ve nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di
Filodemo Gadarense, contemporaneo e famigliare di Cicerone, testimoniarono
anche una volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi
Hercu lanensium Voluminum quue supersunt.Nap.,1793.) Pertanto in quelle
condizioni di civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte
all'indirizzo del pensiero speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno
all'uni versalità e all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo
interiore,del senso comune,e delletradizioniscientifiche e religiose; impresa
che, sebbene difficilissima e degna di sublimi intelletti, non poteva esser
sorgente a specula zioni copiose, mirando più che altro a sceverare il certo
dall'incerto,il teorematico dal problematico, il necessario dal mutabile, il
consentito dal disputato. La qual cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone
come filo sofo,e della modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il
divario notevole che lo distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità
delle speculazioni latine; e di fatti, se è vero che la storia della filosofia
ci offre a quegli anni in Grecia ed in Roma un ecclettismo erudito, testimo
nianza imperfetta dell'universale disposizione degl' inge gni a ritornare sul
passato, e a ricostituire la scienza sull'armonia delle attinenze universali, è
anche vero che Cicerone, solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec
clettismo romano a vera e propria forma di scienza, imi tatore e seguace di
quella scuola dei Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius
naturale la santità delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles
sione filosofica sulla coscienza morale. 38 1. Quella
sentenza del Segretario fiorentino, che af ferma,doversi ogni umana istituzione
ritirare verso i principj,fa manifesta a chi consideri il cammino del pensiero
e delle opere umane nelle età della storia,una legge di scadimento e di
progresso, di barbarie e di ci viltà, di rovine e di restaurazioni, che si
verificò in ogni tempo, così negli ordini civili,come in quelli della filo
sofia. La ragione di questo fatto m i sembra chiara e nel l'un caso e
nell'altro;è chiara negli ordini civili,iquali, se hanno per principio e per
fine l'adempimento delle necessità umane e la conservazione del viver
sociale,una volta allontanati da quello riescono a contraddire la loro natura;
è chiarissima poi nella scienza, e massime nella filosofia, che costituita nel
proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi della riflessione sul
pensiero come pensiero,e sulle verità universali,ricereimmediatamente dalla
natura ilproprio soggetto,ipostulatiedilmetodo. La filosofia dunque,come
scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la ragion di sè stessa, è
ripen samento del pensiero naturale e delle sue leggi,è,in una parola,
ripensamento della natura; la qual cosa concessa, PARTE SECONDA. ESAME
DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE DI CICERONE. I. sembra doversi dedurre
ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un indefinito svolgimento,
e la possibilità delle proprie riforme, se pure non vuol pensarsi che l'ef
fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale e della pianta alla
virtù generativa del proprio germe.A chi affermando diversamente volesse
mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle prime notizie, con
progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la riflessione del filosofo
può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente dalla natura, io
addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei fatti interni e dei
più ardui problemi sulle verità principali,evidente e misterioso ad un
tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del sapere che si svolge
ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra d'età in età i più
grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto dall'affermazione
compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni concordemente alle
tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e di Dio, e fra i
delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi l'un l'altro la
Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa verità ne’secoli
pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di Cicerone; entrambi
trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite; entrambi la rilevarono
con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza; l'Ateniese divino in gegno, e
iniziatore fecondo di un moto speculativo che non è ancora cessato;più modesto
intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della buona filosofia,per avere
tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni eser cizio di speculazione
e nell'universale scadimento della civiltà e della scienza, ciò che il Maestro
avea potuto compireincondizionimeno avversedelsapereedeipub blici costumi. Per
convincerci di ciò,basta paragonare la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei
tempi di Ci cerone.E nel vero quel principio di corruzione e di sfi nimento che
il paganesimo già da lungo tempo recava in sè stesso, s'era mostrato
segnatamente in Grecia sin dal 40 - 41 D'altra parte i tempi
in cui Cicerone, nato in Arpino di famiglia provinciale (il terzo giorno di
gennajo l'anno A. C. 106, coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione),
venne a R o m a per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli fosse via
alle cause del fôro e al pubblico arringo, eran tempi di più profondi
rivolgimenti civili, conse guenza delle due grandi questioni che da lunghi anni
empivano la storia romana,la prevalenza degli Ottimati sopra la plebe, la
prevalenza di Roma sopra il resto di Italia e del mondo. (Cantù, St. Univ.) Già
sin da quando tonò la prima volta nel fôro la potente parola de'Grac chi, un
moto profondo in favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza
romana s'era venuto propa gando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto
crebbe cogli anni, e coll'ampliarsi della potenza repub blicana, e ruppe
finalmente nelle dissensioni civili di Mario e di Silla, e nella guerra
sociale. Cominciarono allora que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di
sangue, ne'quali la libertà, mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo
istrumento dell'ambizione di pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza,
venne adoperata a sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli
oratori,non più inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano,
dispersa la pubblica ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le
amministra l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno
del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle
lotte d'independenza; m a il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di
gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel
l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici
qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio
amoroso del vero l'efficacia della filosofia italo-greca, che avea recato dal l'Oriente
gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a rendere
l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una
gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti.
zioni delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del
senato e del popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno
d'Augusto, finchè l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa
di tanta rovina fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale,
chè una libertà partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di
virtù, non si perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual
fosse a quel tempo la pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice
e accusatore dei delitti narrati. (Sall.,
Catil.,cap.X,XI,XIV.)Quellacorruzione,profondanegli ordini civili, non appariva
minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto perchè, il progresso
intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal suo pro gresso morale,e
la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e supremamente civile, l'armonia
del sapere col l'armonia della vita è legge innegabile nella storia delle
nazioni; e secondariamente perchè la scienza era stata sino a quel tempo più
spesso istrumento di dominio in mano degli Ottimati che manifestazione della
coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti due considerazioni
impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come nota più d'uno
storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai principali
uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi scritti ch'e'fece
della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi
narelarepubblicaesalireaglionori,ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli
ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del
vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e
all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio
s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina
degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole
contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era
al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua
volta 42 e 2. M a qui c'imbattiamo subito in una questione i
m portante. - Cicerone fu egli soltanto condotto a filoso fare da cause
straordinarie ed esteriori? quando si pose a scrivere aveva egli profondamente
meditato sui più ardui problemi della vita e dell'animo umano? possedeva
quell'ampiezza e universalità di studj speculativi necessaria per indirizzarlo
nella via della scienza? — Parecchi cri tici tra i quali il Ritter,ilDegerando,
e il Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi chiamare filosofo
vero esso che nella sua gioventù avea studiato la filosofia come semplice
istrumento dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli
fosse stata fatta da talunifraicontemporanei,quandoudiamo luistesso,il
testimone più autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente
dicendo: io nè cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della
mia vita consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno
parera, io era maggiormente intento a filosofare (De Nat.Deor.,I,III,6);parole
che potreb bero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè
stesso,seiprimiindizj che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti
alle filosofiche non mostrassero assai che ilsuo
ingegno,giovanissimoancora,sivolse'sui principj, sui metodi e sui più ardui
problemi della Scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi si è
l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio notevole
per chi ricordi il disprezzo che i più fra i Romani contemporanei affettavano
verso la filosofia e le lettere greche.Ma inCicerone,appena ventenne,appa risce
un sentimento vivo,e quasi direi religioso,dell'unità della scienza; poeta
elegante e vigoroso ne'primi anni, poi traduttore di cose greche,udiva i più
eccellenti m a e stri d'ogni filosofia, studiava con Q. Mucio Scerola il giure,
coi più autoreroli cittadini la scienza delle cose 43 una causa, vedreino
essere immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora
che come riformatore filosofo, come riformatore civile. civili, la
declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone
Rodio, e Demetrio di Siria (Cic.Brutodal91allafine;Forsyth,ThelifeofM. T:
Cicero,chap.I,II,III.London,1864).Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni,
appena si fece avanti nel foro,si accorse,com'egli stesso ci dice (Brut.93,e
pro A r c h i a, V I ), c h e a c o s t i t u i r e il p e r f e t t o o r a t
o r e n o n e r a s u f ficienteladestrezzaelacopiadellaparola,ma bisognava che
la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma dell'arte; quindi
ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo
involutoecomprensivocomeunascienza che abbracciava le regole della
vita,dell'arte oratoria,del diritto, d'ogni disciplina umana e divina,
philosophiam matrem omnium benefactorum benequedictorum(Brut.93); omnis rerum
optimarum cognitio,atque in iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.,
III);concetto univer sale, che apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel
-de Inventione, dove parla delle virtù secondo le dottrine platoniche, e
introduce l'eloquenza fondatrice delle città e del consorzio civile. Un tal
concetto che certo doveva poi chiarirsi cogli anni, e uscirne un disegno più
specifi cato di dottrine morali e speculative, mostra che il suo amore per la
filosofia si accrebbe col suo progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come
osserva ilRitter) l'ora tore preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi
leggendo attentamente il De oratore, il Brutus e l'Orator vi senti spirare da cima
a fondo un alito di speculazione di scienza.Il dialogo De oratore è finto a
imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta dei disputanti appartiene intimamente
alla filosofia, poichè trattasi ivi di sta bilire se l'eloquenza sia una
dottrina universale od un'arte, s' ella debba restringersi al puro esercizio
del la parola, o allargarsi alla scienza delle cose divine ed umane. E qui v'è
contrapposto deliberatamente nelle stesse persone dei disputanti il concetto
più ampio e più universale,e per conseguenza più filosofico,che Ci cerone avea
del sapere, al concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei; Crasso
infatti, che rappresenta 44 l'opinione dell'Autore, movendo
dal principio che una sola è la sintesi delle materie scientifiche,e che su
tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al
perfetto oratore quasi tutto lo scibile u m a n o, e conferma questa sentenza
coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e del dire erano
state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte (III, 14, 19.). Lo
stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure
l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di
Platone; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra colla
letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma
oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di
Cicerone una vera e pro pria unità di concetto. Considerando questo principio
universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e
l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la
vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti
speculativi. Più tardi, allorchèlalibertàvenneinmano degliscellerati,eilgran
cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò
agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli
negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad
esercitarvi l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a
virtù le fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di
questa nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci
(Tusc.,II,5,6,7,8,9,10;I,1,2,3;III,3;De divin., I, 1 3; D e o f f., I I, 1, 2;
A d f a m., V, 1 5 ). C h i c o n s i d e r a s s e partitamente un solo di
questi fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e dell'animo dello
scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso; a lui l'inclinazione oratoria e
l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo accordo della scienza
coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse questo nuovo campo
intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo tempo gli
45 consigliavano le dottrine morali e civili come riforma dei
costumi corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale insieme
congiunti e contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj
anteriori, e della riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale
armonia di cause determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi,
è notevole in Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero
ed il buono, onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più è
affermativa e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza colle
ragioni morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che si
crede diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima del
conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano i
fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle sue
dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna
contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che il Ritter e il
Bernhardy han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla
piena lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della
filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al
punto in cui concepisce chiaro l'ordine scien ziale. 46 Il primo e più
notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina,
si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ
philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina
philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva
in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e
nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e
ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten
sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo
studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e civile.(V.Hort.,fram.,e
specialmente 47 il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia pag. 284,
vol.III,p.IV.) Ora siffatto concetto involgeva di necessità un criterio
scientifico; innanzi tutto perchè chi medita l'ordinarsi d'una dottrina
scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio d'operazioni, si suppone averne
penetrato l'intima essenza in cui quel principio regolatore risiede; e poi
perchèilverorelativoallavita,sebbene manifestoin noi pel sentimento morale,
s'attiene alle parti più vive e più affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la
rifles sione a ripensare da sè stessa e con proprj principj l'ordine
speculativo delle conoscenze. Pervenuto a tal punto il filosofo, non ha da fare
che un passo per racco gliersi nella coscienza morale, e quindi trar fuori con
metodo ascensivo e discensivo d'induzione e di deduzione tutto quanto il
disegno dell'edifizio scientifico; la qual cosa apparisce a chi prenda ad
esaminare in Cicerone l'ordinamento logico degli scritti morali. Dove si scorge
(e lo mostreremo a suo tempo) com'egli procedendo di passo in passo
nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava nella
coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di
relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che intercedevano
tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed uomo per
somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una specie
d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i non
dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi
s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e
Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui
Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili
antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora
soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della
Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul
dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal
soggetto,disputata a lungo dai critici e storici della Filosofia,
durante il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore
dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente
le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come
seguace della Nuova Acca demia,ponesseildubbiouniversaleafondamentodiscienza.
Così opinò il Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono il
Brucker,ilDegerando e ilBernhardy.Per combattere una siffatta obbiezione non
rimanevano alla critica che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo
della Seconda Accademia, o rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle
dottrine di Tullio, cercare quale e quanta efficacia vi esercitasse quel
dubbio, o come metodo semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno.
La prima di queste vie fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria
scritta da lui sui Nuovi Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il
critico francese,sebbene dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova
Accademia non negava la possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè
rispose al quesito del come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio
col dubbio quasi assoluto d'Arcesilao e di Carneade;l'Ale manno mostrava invece
con maggior verità come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia
quanto al metodo inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il
dubbio ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma
ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da Tullio ne'più de'proemj
sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha considerato abbastanza nei
libri morali come a quel precetto apparentemente negativo
dinoncercarecheilprobabile,edirattenerel'assenso,con trappongasempre,ad
esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del conosci te stesso.Nè il
tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso placito del savio
ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e miserabile ossequio
alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato delle sue opere (io lo
affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e sistematico, il
dubbio 48 di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva
nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza.Egli,prima
d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e
quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per
inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato,
e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria,non priva
d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico
apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi
attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti
che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. » Nam quum animus
cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque
discesserit, volupta sedDelphico deo tribueretur.Nam
quiseipsenorit,primum 49 A questo proposito ci giova riferire le sue parole
tolte da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi,dove egli stesso in propria
persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. « Ita fit (così
il testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di
Lipsia riveduta dal Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus
amore Græco verbo philosophia nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus
uberius, nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim
una nos quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet ipsosnosceremus:cujuspræcepti
tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini cuipiam, aliquid se habere
sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut simulacrum aliquod dedicatum
putabit, tantoque munere deorum semper dignum aliquid et faciet et sentiet, et,quum
se ipse perspexerit totumque temptârit,intelliget quem ad modum a natura
subornatus in vitam venerit quantaque instrumenta habeat ad obtinendam
adipiscen damquesapientiam,quoniamprincipiorerumomniumquasi adumbratas
intelligentias animo ac mente conceperit, quibus illustratis sapientia duce
bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se beatum fore. 4 temque
sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, o m n e m que mortis dolorisque
timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis, omnesque natura
coniunctos suos duxerit,cultumque deorum et puram religionem su sceperit,et
exacuerit illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda et reiicienda
contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid eo dici aut
co gitaripoteritbeatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque omnium naturam
perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo obitura,quid in
his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit, ipsumque ea
moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius circumdatum mænibus
loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit,in hac ille
magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni
tionenaturæ,diimmortales,quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam
contemnet, quam despi ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur
amplissima! » Atque hæc omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi
ratione, veri et falsi iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid
quamque rem sequatur et quid sit cuique contrarium. Quumque se ad civilem
societatem natum senserit, non solum illa subtili disputatione sibi utendum
putabit, sed etiam fusa latius perpetua oratione, qua regat populos, qua
stabiliat leges, qua castiget i m probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros
viros, qua præcepta salutis et laudis apte ad persuadendum edat suis
civibus,qua hortari ad decus,revocare a flagitio, con solari possit adflictos
factaque et consulta fortium et sa pientium cum improborum ignominia
sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint, quæ inesse in
homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum parens est
educatrixque sapientia. » (De Leg.,I,XXII,XXIII.) 50 Qui s'espone a
dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore induttivo
e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e si
51 continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le scuole m i gliori
dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò che antecede; 2o
ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. 1° Lo stato che antecede
la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e speculativo
dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar cano della sua
somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel sentimento della
dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e all'assoluto in cui vero e
buono sono congiunti, e la ragione procede da uno stesso fonte identica colla
legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de principj speculativi,
ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio, capisce pei mezzi
l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia pensiero e
volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma speculativa.Due
condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla zione dell'og
getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo purificato
spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita civile,
l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo rende
possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa rebbero
potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e d'efficace,
se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è prima
necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato
dalcuore (animo acmente)ravvisinell'intellezioneprima (adumbrata
intelligentia),un po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. 2o Ciò
posto, si procede allo stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza
interiore, col soccorso della Dialettica dottrina delle conseguenze e
conciliatrice dei contrarj, levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co
noscere e del fare,si forma i concetti d'origine e di fine, di contingente e di
necessario, di temporaneo e di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo
alla notizia di sè stesso e del mondo, notizia comprensiva ed univer
52 sale che lo palesa inferiore soltanto a Dio, eguale ai suoi simili, e
cittadino dell'universo. 3. Dall'ordine universale della Scienza prima discen
dono due dottrine applicate, e strette in vincoli di co munanza fra di loro: la
eloquenza civile e l'arte dello stato. Tali erano per Cicerone i fondamenti, ed
il metodo della scienza. Ora ecco, secondo che riassume un istorico recente
della Filosofia, quali erano isuoi criterj: « Nella coscienza di noi stessi
Cicerone, come Socrate,più di So crate forse perchè romano,sentiva
l'universalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,e l'amore che
tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni uni versali
anch'esse; e però egli inculcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio
dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off, I e II passim ); e contro gli
Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc.e
ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le tradizioni
umane e divine.Così ne' libri Tuscolani (I, 12) adopera l'autorità del senso
comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice
ne'Paradossi contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che
partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen
sardellagente.»(Proem.)E nelleseguentiparolede'Tu scolani si vede com’ei
raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi
e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im
mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e
suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum );
e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era
presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse
discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce
appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con
quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti
secoli tanta virtù che niun altro paresse dotto (S 16). E dice più
oltre che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven
zione degli dèi: « Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi,
ut Plato ait,donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26.) Nel che s'accenna il
principio divino della Sapienza e della tradizione.(Conti,St. della Filo sofia,
part.I,Lez.XVIII.) 4. Se per ciò che risguarda i principj e i fondamenti della
filosofia egli mosse direttamente da Socrate affer mando la chiarezza naturale
del soggetto scientifico,e l'efficacia della conoscenza, quanto poi al metodo
più propriamente detto, indagatore dei veri particolari, fu se guace, o come ci
dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia (deserte discipline et iam
pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere, può e debbe chiamarsi una
vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di Carneade tralignava nel
dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si ricongiunse agli scettici
dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio attingendo alle fonti socra tiche
si riscontrò nelle tradizioni genuine della sua scuola. Questo fatto s'è rinnovato
in Italia nel secolo XVII, quando Galileo Galilei tornando al vero metodo
aristote lico dell'induzione, restaurava la filosofia naturale; più
peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al Liceti,di tutti i
peripatetici de'tempi suoi. 53 Riassumendo il tutto in poche parole,
Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di fini, di principj e di
metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso generalissimo della voce
sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri oratorj come un semplice
esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come una dottrina puramente
pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro degli Officj la chiamò con
significato più largo: scienza delle cose divine ed umane e delle loro cagioni.
Suolsi affermare comunemente dai critici e dai filosofi che Cicerone diè prova
di scarso ingegno speculativo non componendo le sparse verità in un sistema
ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi; perchè,se con essa
si nega che Cicerone aggiungesse copiose speculazioni alla materia delle
dottrine contemporanee, e che componesse le verità antecedentemente trattate
dalle scuole socrati che in un compiuto e perfetto sistema, ha ragione la cri
tica, m a la critica ha torto,se vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque
disegno di scienza, o un proprio cri terio per l'ordinamento formale delle
dottrine. L'affermar ciò, rispetto a Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo
pure di Socrate,e d'ogni altro riformatore; chè il sistema della filosofia di
Tullio (se così vuolsi chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato
secondo un disegno po sitivo corrispondente all'ordine del soggetto ripensato
dalla coscienza, m a si svolge nella stessa opposizione alle sette, e in quella
opposizione egli scuopre il concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che
gli son guida,indizio manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot
trine sofistiche dei contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti
incrollabili della coscienza umana. Ora si avverta come il considerare in tal
modo questa temperata efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e
rifà le dottrine degli altri con un proprio criterio positivo di paragone e di
scelta,in contrapposto alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che
ricopia quelle dottrine e le raguna nella memoria,anzichè comporle nella
riflessione; è metodo forse non seguito fin qui dai prin cipali critici di
Cicerone,e tale che potrebbe condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col
chiarire molte que stioni, tra le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece
dell'autorità quanto ai fonti delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania,
e sì bene dal Kuehner nel capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione
citata. 54 E tale è il metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono
alcune conseguenze e regole pel nostro esame. I n p r i m o l u o g o, p o i c
h è s o l o p e r n o s t r o a v v i s o, il c o n t r a p porre Tullio a'suoi
contemporanei può dimostrare quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli
abbisognasse per isceverare dalla confusione de'sistemi le verità principali,
chiarirle e ordinarle in forma di scienza, terremo l'uso d'esporre
ogni volta le principali opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne
recasse il filosofo latino.In secondo luogo avremo questo a principio di
critica, notato da altri, che, poichè le opere di Cicerone sono per la m a s
sima parte dispute scritte, e, come tali, ritraggono nei varj personaggj il
conflitto delle opinioni, e le nature differenti degl'interlocutori, convien
distinguere con ogni diligenza quando egli riferisce la propria, e quando l'opi
nione degli altri, quando egli stesso prende parte al dia logo, o si tien
fuori, quando tratta ex professo una m a
teria,oquandosoltantol'accenna(V.Degerando,Brucker, Kuehner, Middleton.)
Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come
una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a
misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed
è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà
ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un
aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da
cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di
filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni
Oeconomica Xenophontis (scritta forse l'anno p. u. c.670, o il se
guente),Protagoras ex Platone (lavoro giovanile secondo Quintiliano.) Timæus de
Universo (trad., come app. dal p r o e m., d o p o g l i A c c a d e m i c i, c
i o è d o p o i l 7 1 0 d i R o m a ); i libri vriginali, Hortensius de
philosophia (2 libri del l'anno forse p.u.c.709),Consolatio de luctu minuendo
(scritta dopo la morte della figlia avvenuta nel 709, poco prima dei
Tuscolani), D e Gloria (2 libri, compiti circa alla metà del 710), Commentarius
de virtutibus (incertadata),Cato,sivelausM. Catonis(709),Deiure civili in urtem
redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi tutti, e
che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica (6 libri scritti
dal 700 al 703 di Roma),De legibus(6 libri,composti dopo il De republica),
Paradoxa (avanti il Giugno 55 e del 708),Academicorum (ne
fece due edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4
libri;della prima c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno
709),De finibus bonorum et malorum (5 libri del 709 di R.); Tusculanarum
disputationum (5 libri, cominciati l ' a n n o d i R o m a 7 0 9, c o m p i t i
il 7 1 0 a v a n t i l a m o r t e d i Cesare),De natura Deorum
(3libri,compostitral'estate del709egl'idjdiMarzodel710),De Divinatione(2libri,
cominciati il 710), De fato (un libro scritto a corredo dei due precedenti), De
officiis (tre libri cominciati nella seconda metà del 710), Cato major de
senectute (un li bro, scritto e pubblicato il 710), Lelius de amicitia
(id.scritto dopo il Catone maggiore av.gliOfficj);furono variamente distinti
dai critici secondo la loro materia e la forma. Il Ritter li distinse in
riposti ed in popolari, clistinzione che più esattamente potrebbe ridursi
all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri Accademici, de'Fini, delle
Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi
discusso tra i critici sulle dale dei libri di Ci cerone.Cilusa principale del
dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita
dell'Autore. 1 Forsyth lo dice nato il 3 d i g e n n a i o, 1 0 6 a v. C r i s
t o (6 4 8 d i R o m a ), m a a g g i u n g e i n n o t a a p. 2, che, secondo
il calendario Giuliano, egli sarebbe nato l'ottobre del 107 (647 di Roma). In
questo anno pongono la sua nascita il Middleton, il Kuehner ed altri autori
meno recenti;onde seguita che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De
consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De finibus e le Tuscolane, del 708
di Roma, (av. Cristo 46 e 62 della vita di Cicerone),eleopere De Natura
deorum,DeDivinatione,DeFato,De Offi riis, Cato Vajor e Lælius, del 709 di Roma
(45 av.Cristo c 63'della vita di Cicerone); il Forsyth e l'edizione di Lipsia
del 1854 (riveduta dal Clolz so quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono
i primi cinque trattati al 7 0 9 d i R o m a (4 5 a v. C r i s t o, 6 2 d i C i
c e r o n e ), e g l i a l t r i a l 7 1 0. N o i s t i a m o col critico di
Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del
resto di parecchie opere si conosce la data.Intorno a quella del De Republica e
De Legibus rimane qualche incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De
politicorum Ciceronis librorum tempore natali (Wir ceb., 1822), stabilisce
avervi speso Cicerone oltre a dieci anni, e averli pubblicati nel principio
circa del 703 di Roma.Questa ed altre molte dis sertazioni di critici tedeschi
e francesi,citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre A. Vannucci,
a cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine. 56 un
fine pratico,ad esempio gli Officj,dell'Amicizia,iPara dossi, le Tusculane e
qualche altro. Noi abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa
da tutti icri tici, e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico dei
libri coll'ordine di tempo, tra le opere fisiche (De matura Deorum,De
divinatione, De fato, e il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche
(Academicorum, Topica, De inventione,etc.),lemorali(Definibus,Tuscu
lanarum,Paradoxa,Delegibus,Deofficiis,De republica, De senectute,De amicitia);avvertendo
che la distinzione non siprenda troppo assoluta,ma che si guardi alla qua
litàche prevale.Fonti secondarj,ma dausarsiconmolto riserbo,sono,secondo nota
opportunamente il Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario;
e noi vi aggiungiamoleopererettoriche,segnatamente ilDe Ora tore e l'Orator. La
distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al concetto
della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio nell'ordina
mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre grandi
teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi principj
generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. II. 1. Il
prendere ad esame con quella larghezza e dili genza,che è necessaria
allacriticaistorica,levarieparti delle dottrine tulliane, è cosa invero che
ricerca un abito non ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle
attinenze scientifiche; perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo
antecedente, non si trovi nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata
a sistema, basta leg gere alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi
tosto ch'ei ritraeva da Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e
la sobrietà dell'esame, m a altresì quella 57 58 riflessione
larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva nel l'universo delle idee la unità
della scienza. E di fatto socratici veri sono, come ben nota il Ritter,tutti
coloro che videro chiaramente la necessità di collegare la scienza de'fatti
interni con quella dell'universo, l'osservazione morale coll'esperienza e la
fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più vero e perfetto socratico del
nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il suo Maestro, che se un
sentimento naturale, abbenchè indeterminato, dell'attinenza tra il pensiero
nostro e gli oggetti, mosse la riflessione ne'primi passi della scienza a
riconoscersi per illusione identica col mondo esteriore,illusione da cui poi i
Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il pantei smo,e uscì la dialettica
de'sofisti, un secondo passo a ristorare la scienza caduta nella materia e
nelle astra zioni eccessive, doveva essere l'affermazione dell'uomo interiore,
e di quella sintesi intellettiva e morale, sola realtà oggettiva, in cui
mirando il pensiero potesse rav visaresèstessoinattinenzacollecose
conDio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera dottrina dell'es
sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo, considerati nella
loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in sè le scienze
fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia.
Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di Fisica
(usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella Filosofia,
perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale contemplato
interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione esteriore il
soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione intima delle
parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane, e confer
mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli Ionj,favorì
invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava occasione, come
sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della riflessione
scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj l'intelligibile e il
sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva sempre 59 più
addentro i legami che stringono la teologia naturale, la psicologia e la
cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così intimamente collegate
alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato rispetto
all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano sapere
occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia, dall'altra
ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore o
induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle sostituire
la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva di salto,
come nota Bacone, al particolarede'fatti.Due fontiperennid'errorenellescienze
sperimentali furono pertanto il panteismo e il dualismo; ilprimo,perchè,data
l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza dell'ordine ideale col
reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle idee alle cose,senza
necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta coeterna a Dio la
materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il mondo si pensa non
più finito e tem poraneo, m a infinito ed eterno, e animata la materia e
incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la fisica
fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle Pittagoriche, nelle
Eleatiche,in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del medio -evo. Le quali
considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia esaminare la metafisica
di Cicerone, e chiarire come mai,mentre lafisicasuperioreeledottrinesuDio,
sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi
prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi
dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima cor ruzione laGentilità,si rinnovarono
esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle
scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione
di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine
degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia
delle sette contemporanee nelle tre parti della scienza,e volendo
mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbiodellaNuova Accademia,sitrattienepiùspe
cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad., 37, 38, 39). D a quel luogo
apparisce che il panteismo e il dualismo italo-greco spingendo all'eccesso
l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean
con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle
loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a
sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole
pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le
differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli
Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il
presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando
l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei
particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli
rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre
Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava
quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle
cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio,
ond'e'consigliavaun piùmodestosapere;mostravacome la notizia, che noi
acquistiamo de'corpi, movendo dagli effetti, non comprende l'intima essenza e
l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e
metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si
manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per
indagare i fondamenti su cui posa laterra.(39.)Procedendo di questo passo l'Autore
faceva vedere negli Accademici, nei T u sculani e nel libro della Natura degli
Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla
essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia
sull'esistenza,natura e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e
sue relazioni coll'universo, e sulle altre principali verità della
scienza. 60 61 Nei luoghi citatiadunque e in qualche
altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il dissidio delle scuole sulle
verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia seguace della Nuova
Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi, attingendo di
preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e dove le
dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse il
dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella fisica
ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle
teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle
leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti
l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine
loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro
babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto
somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva
lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli
Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta verosimiglianza
della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla Fisica, in una
età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei metodi e degli
istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza, professare una
modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi progressi dello
scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si sarebbe aperta la
via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato, come sentenziando
con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si toglievano poi l'autorità
d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione importante e che mostra
come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio non professasse un dub bio
assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi dal verosimile al
certo.(Acad.prior.,41,e De repub.,I,10.) M a la prova maggiore si è che, mentre
le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo la sciavano
sconfortato e dubbioso,un desiderio,quasi direi 62 giovanile,nutrito
dall'ingegno potente e dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini
naturali,di quelle indagini onde ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la
picco lezza delle umane cose,proviamo un vivo sentimento del divino e
dell'immortale. « Nè anche io penso (così scrive Cicerone)che sidebbano tor via
tali questioni dei fisici; poichè viè un certo naturale alimento degli animi
nel considerare e contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti
più grandi, e nel pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste
nostre del mondo come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa
di cose grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in
qualcosa che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che
supremamente è degno dell'uomo.»(Acad.prior., De fin.,IV,5).Innamo rato quindi
della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le fantasie
grossolane di Democrito e d'Epicuro (De fin.,I,6);lodava Zenone perchè
imitatore dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (D e f i n.,
I V ); e i q u e s i t i d e l l a f i s i c a c h e l o m o s s e r o g i à
vecchio a tradurre il Timeo di Platone, gli avevan det tato qualche anno avanti
le pagine più eloquenti del trattato sulla Repubblica; il ragionamento di Filo
e lo stupendo sogno di Scipione.(De rep.,I,17,VI,9 e De
fin.,IV,5;Tuscul.,V,23,25). Due conseguenze,per quanto ci
sembra,discendono dal contesto generale dei passi sopraccitati,e da una lettura
complessiva dei libri fisici di Cicerone: 1o che il filosofo latino, a misura
che dalla ricerca delle cose sensibili, e dell'essenza loro occulta
all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si levava col discorso
induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da una luce interiore
le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene
bredelgentilesimononardissedeterminarle;2ache,ofosse la dottrina stoica a cui
pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella natura egli
sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica della
sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente e
l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione
ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e
degliStoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato
da Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo
metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo
improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di
Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e
natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà
dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo
luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente
innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza.
Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima
causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli e n t i, e li g o v e r n a
v o l g e n d o l i a d u n f i n e i m m o r t a l e, c h e n e è prima
legge,in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo
degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine
scienziale;e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia
principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che
i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son
centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo
quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il
primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a
ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata
da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor
relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile
efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unitàassolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone
dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono
insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai
provata dal metodo di S o crate, che movendo dalla coscienza produsse in
Platone 63 64 u n a c o m p i u t a a r m o n i a d i s i s t
e m a, e a i u t o il f i l o s o f o l a t i n o, venuto in tempi di povere e
scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di dottrine nei suoi libri di
fisica, che scritti in ordine successivo di materie e di tempo,debbono quindi
esser presi ad esame da noi come un solo trattato. Premesse queste cose, viene
spontanea la domanda: quale fosseilpensierodell'oratorelatinointornoaDio.Se
dopo una attenta lettura dei passi delle sue opere, dove tal pensiero
s'accenna,e un diligente ragguaglio di questi passi tra loro,ci facciamo tal
quesito, verrà spontanea pure
larispostach'eglidell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua immortalità,
della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto accoglieva una
più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura; e il suo
criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e un
sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata
internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di
universale consenso.(Kuehner,Pars.IV,c.11,p.VIII.B. P. van Wesele
Scholten,Dissertatiophilosophico-criticadephi losophiæ ciceronianæ loco qui est
de Divina Natura. Amstelaed,1783,c.I,V,p.35).Inquestocriterioioravvisoil
riformatore e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha
di più vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali,
il filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma
con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole
natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna
d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra
iquali anche ilRitter,considerando ilmodo ora dubitativo,oradommaticoconcuiCiceronesiesprimeinsif
fatta dottrina,ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli altri,
nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa
parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa
riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj
scientifici. (Ritter,Hist.,L.XII,c.II,p.112. Brucker,Degerando.) M
a questi storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi
di sfrenate passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici,
ne'quali ogni fon damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban
donato il sublime ministero di propagatrice del vero, si prostituiva
alguadagno.Alloralavocedelsenso comune e degli affetti naturali, alterata dalla
Gentilità, non so nava nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni
versali e delle tradizioni primitive; la voce del popolo non era più quella di
Dio. Allora la tradizione scienti fica, che ravviata da Socrate s'era andata
continuando, benchè con notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che,
pervertita dagli ultimi sofisti avea perduto ogni sen timento del
vero;talchèalfilosofo,chenon avesse voluto o bestemmiar colle plebi o delirar
coi sapienti, non ri maneva che cercare iprincipj della scienza nella propria
natura non corrotta e nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò
Cicerone alle principali dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo
guidarono in mezzo ai ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario
notare che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e
metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen
tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot
trinecontemporanee,nèintendiamoch'e'fossesìfortunato da ravvisare scevre
d'errore nel santuario della coscienza le verità principali.- Ebbe egli
compiuta e perfetta n o tizia della natura di Dio e delle sue perfezioni?
conobbe senza mischianza d’errori i d o m m i della spiritualità e i m
mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e schiette, senza infezione di
panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente supremo coll'intelletto
dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono proposti più volte
dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non s e m pre
rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome e
autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese
dall'ateismo; redi Bayle,Diz.Art.Spinoza).E veramente la conclusione 65
5 Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D e
natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato.Or qual
eraquelfine? Chiamare 66 scenderebbe di necessità dai principj, quando si
potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel
medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della
scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino diprogressivosvolgimentonellaetà
dellastoria;e sela criticamoderna immune da preoccupa zioni, adoperasse sempre
una stessa severità imparziale nell'esame d'ogni filosofo. M a la cosa procede
ben altri menti; perchè da un lato il razionalismo alemanno coi suoi seguaci
d'ogni paese, che ammette ogni perfeziona mento scientifico come un prodotto
spontaneo e succes sivo della ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di
contraddire ai principj del proprio sistema, negare che la forma logicale e il
fondamento delle dottrine dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni
notevolmente imperfetto; d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che
afferma oscurate e corrotte prima della venuta di Cristo le tradizioni e le
verità primitive, e restituite dalla parola rivelatrice del Verbo quelle
tradizioni e quelle verità all'intelletto dell'uomo redento, non può non
ravvisare nelle dottrine cristiane un perfezionamento notevole delle dottrine
gentili; infine, ed è conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai filosofi
Indiani, Italo-Greci, a So crate, a Platone, ad Aristotele l'ignoranza,
l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a parti sostanzialissime della
scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi, far conside rare al lettore
di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato senza ondeggiamenti d'idee e
d'espressioni il con cetto di Dio; anzi dirò di più che tal concetto in
parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura Deorum ) apparisce più
assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in breve per quale indagine
lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una verificazione sempre m a
g giore di quel concetto divino. ad esame le principali opinioni
de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e mostrare come le loro
controversie sovra una parte sì nobile della scienza siano ben sovente
occasione e pericolo di scetticismo. (I. C. I,1;C. VI, 13, 14.) Con questo
intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo, racconta come
essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa dell'accademico C.
Aurelio Cotta pontefice e suo familiare (fra il 676 e il 679 di R o m a ), e
trovatolo insieme con C. Vellejo, che alloraavevavoced'essereinRoma
ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo,stoico da paragonarsi ai più
prestanti fra iGreci, cominciarono questi a disputare, lui presente, della
natura degli Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti principali; vale a
dire: se vi fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale intervento aves sero
nelle cose del mondo e degliuomini.La qual spar tizione è conservata in
appresso sì nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di Balbo, come nelle
risposte di Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di loro, li confuta
entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im portanti fra i
libri speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una esposizione
viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici,
contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede
quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di causalità prima che è
fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le
speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio colle creature,
pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta, introducendo nell'ente
senza difetti il maggior de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto;
il dualista che svolge l'unità primordiale del panteismo, segregando il
Creatore dalle cose create e indiando la natura, si perdeva nella contra
dizione immortale di due infiniti coeterni, onde moltipli c a n d o D i o, l '
a n n i e n t a v a; il m a t e r i a l i s t a e l ' i d e a l i s t a l ’ u n
o affogato nel senso, l'altro confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o
si vedevano dileguare il concetto di Dio 67 68 tra i fenomeni
della materia, o lo perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e
l'altro riuscivano a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma
l'evi denza non affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa
legge inesorabile dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle
prese l'Epicureo con lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della
Nuova Accademia. E invero quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che
riesce sì lusinghiera vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta
la sua nudità nel discorso di Vellejo (Lib.I,dal C. VIII al XXI).Po neva egli
come certo che gli Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti
la loro anticipata no tizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la
figura, facendoli eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma
non da materia corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini
simili rin novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione
perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè
stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze
d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto
della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto
d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio.
Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte,ammettevano contenuta
nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura, divisibile,
capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola all'atto ne
costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e m o vevano
per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai prodigj,dall'armonia
delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano. Sostenuta da questi
argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va dal C. XXXIII al
LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti dell'eloquenza romana.
Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della Nuova Accademia contro le
dottrine d'Epicuro e di Cri sippo (I, dal cap. 21 al 43, e tutto
il libro terzo), ci si presenta la questione, a lungo agitata nelle scuole,
qual sia in questo libro il vero pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio
accademico si manifesti in lui sotto la per sona di Aurelio Cotta. I critici
più antichi lo affermarono risolutamente, alcuni più recenti come lo Scholten,
il Kuehner e il Ritter, con qualche riserbo. M a sì gli uni che gli altri si
avvicinarono al vero senza comprenderlo a pieno; perchè essi ponevansi ad
esaminare quel libro preoccupati dal concetto che Cicerone conforme a ciò che
dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del De natura Deorum
(11),partecipassequivideltuttoildubbio fon damentale e sistematico, il dubbio
di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava invece considerare come
il quesito proposto risguardasse intimamente il complesso delle dottrine, nè
quindi potesse essere risolto badando a qualche frase staccata, m a solo serbando
nell'esame la rigorosa armonia delle parti col tutto. Alla qual cosa, se non
m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da prin cipio,quando distinguemmo
nell'oratore latino due parti, e quasi due forme dell'indagine scienziale; per
l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli si ravvicinava ai principj
socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei fatti della coscienza; per
l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio
dellaNuovaAccademia,moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi
contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta
affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao,
più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie
opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio
fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da
Carneade,doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche
tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos
sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra
implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa
contradizione, non 69 1 però sostanziale,apparisca, più che
altrove,evidente nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da
un lato Cicerone che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro
Cotta che vi sostiene la parte di con
futatorecolmetododellaNuovaAccademia,èdato occa sione alla critica di
verificare con bastante certezza le sue opinioni, raffrontando insieme la
persona del ponte fice con quella dello scrittore. A persuadersi di ciò ba
sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva celarsi sotto la persona
di Cotta,era inutile allora che introducesse sè stesso;ma egli si dipinse là in
mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio veramente sublime, per
rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che, sebbene certo per natura
di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso all'acquisto della
certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone possedeva da n a
tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè egli
stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci dice
che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione potente
di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo (I. 14);
e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile
del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza
sui fondamenti della certezza morale (I. Cap.II, 1, 2,3,4,5).Il dubbio di
Cicerone nel libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle
ra gioni già possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la
certezza scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova
Accademia, quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce
alle ultime conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già
apparente e metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo
d'Arcesilao, il quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle
cose e le potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale
e del senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice 70 71
evidenza. Questa è la ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal
negare agli Epicurei ed agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata
dal senso co mune.(I,21,23.III,3,7.)Ora siavvertacome la Nuova Accademia non
affermando un proprio e fermo fondamento di vero negli umani giudizj, e solo
una tal quale verosimiglianza eguale per tutti, mancava di prin cipj certi e
positivi da costituirvi la scienza,e conseguen temente anche di un criterio
sicuro a cui ragguagliare la critica de'sistemi contrarj. Questi sistemi,
conforme alle opinioni della Nuova Accademia,non erano quindi alcun chè di vero
o di falso secondochè si avvicinavano o si dilungavano dai principj
irrepugnabili della scienza; con tenevano tutti, sebbene in gradi differenti,
la verosimi glianza concessa all'umano intelletto, e solo quando il legame
logico, che intercede di necessità tra le conse guenze e i principj, non era
strettamente serbato, allora soltanto si dava in essi l'errore. U n tal
criterio, sostan zialmente negativo e relativo,abbisognava (sidirà)diun
criterio positivo e assoluto desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi,su cui
posa incardinata la necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non
vibadava, e ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio
sistema, tentava coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone
passim.) U n si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e
scientifico del nostro Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia
apparisce in ogni passo de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di
qualche Accademico che confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente
che mai nella conclusione del De Natura Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi
disputanti, termina dicendo: la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a
Vellejo (Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che
è quanto dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli
Epicurei, mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri
accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e 72
gliopotevaeglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte quasi del tutto le sacre
tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai vizj, da un lato,
imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la spiritualità del concetto di
Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli Accademici la efficacia del
senso comune nell'affermare Dio,e sottili argomentatori lo contrapponevano al
male; ai primi Tullio opponeva nel proemio citato la dignità dell'umana
mente,ilbisogno innegabile della religione consentito da tutti;ai
secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli affetti dell'animo,isupremi
principj della r a g i o n e e l a l i b e r t à d e l v o l e r e (T u s c., d
e N a t. D e o r., D e Leg.,passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e
perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro
sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi
egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio
scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle
Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema
sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio
provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in
cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal
cielo. (D e Leg.,I,7,II,7.) Premesse queste considerazioni, se ne possono
dedurre tre cose: 1° Il vero intendimento di C i cerone nello scrivere ilDe
Natura Deorum fu,esporre e confutare i principali sistemi contemporanei, e a
tal fine egli assunse come istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della
Nuova Accademia,senza accettarne lo scet ticismo; 2o Cicerone non rappresentò
sè stesso nella per sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e
todo proprio; 3o Il filosofo latino volle significare nelle parole del proemio,
e della conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva
di Dio un alto concetto, che quel concetto nella sua mente era certo di
certezza naturale, m a che in mezzo alle tenebre del G e n tilesimo e alla
discordia dei dotti,non ardiva determi . 73 narlo in ogni sua
parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di scienza. Ora si domanda, perchè
non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso questo concetto. 3. Dimostra
l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando le proprietà metafisiche
dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue l'essenza dall'essere di
una cosa;quella come idea generale rappresentante una possibilità di cose
indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di determinato in sè
stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene offerta
all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua essenza,
in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale dell'essere, cade
per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze conoscitive,e come tale è
appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di molti finiti nella serie
degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa dalla rifles s i o n e, l
e v a s i a l c o n c e p i m e n t o d e l l e c o s e i n f i n i t e. M a il
c o n cetto dell'infinito, che è cima della piramide ideale,può es sere inteso
in diversi significati; l'un significato che ci offre l'entità assoluta,
necessaria e in ogni sua parte perfetta; l'altro che ci rappresenta una
semplice entità indetermi nata,e un mero portato dell'astrazione mentale.Però
seb bene un intervallo notevole disgiunga nell'intelletto del filo
sofoedell'uomovolgareitreconcettidelfinito,dell'infinito e del non definito,
merita di essere considerata quella ragione qualunque di rapporto e di
similitudine per cui essi possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale
aiutata dal lume della scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea
concepito ab antico, indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza
maggiore nelle dot trine cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per
essenza correlativa necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo,
naturalmente determinato e imper fetto,come non darsi possibilità
d'attoinfinito,così nean che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito
procedere per atto creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il
contingente dal necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata
sopra una serie logica - 74 di concetti, la cui necessità è
confermata a noi tutti fino dai primi anni in una voce interiore che ci parlò
sublimi cose di Dio,in un continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per
tutta la vita in cerca d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la
mente a questo apice dei concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per
via;chè sebbene ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi
nell'uomo senza una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia
questa unione,e in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di
creazione l'atto infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose
finite alcunchè di somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità
d'atti,di forme, di m o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza
coll'iden tità, e quella potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale
assurdo è l'origine del concetto d'indefinito applicato alla causa
creatrice.Fingasi ch'io pensi iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del
mio pensiero; allora (e può facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla
vista di pianure interminate e di mari, o in un facile abbandono della mente a
sè stessa), se in quell'arcana presenza di Dio la fantasia prende il di sopra
sulla r a gione, io mi rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di
coesistenze come infinitamente continuato, continuato per una perpetua
remozione di limiti che,a dir così,sono e non sono ad un tempo; e
quell'abbaglio di fantasia si muta in un concetto reale,ed io penso
l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto l'immagine d'indefinito.Così nacque
ilpanteismo in Asia,in Italia ed in Grecia;e così pen sano l'assoluto i
panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata mente. Veduta la differenza d'origine dei
tre concetti di finito, d'infinito e d'indefinito,si domanda ora quanto
all'essere loro quale d'essi sia negativo. Per fermo l'infinito,se ne togli il
materiale significato della parola, evidentemente nel suo concetto non ha nulla
di negativo, desso che non ha limiti ond'è costituita negli enti la negazione
dell'es sere; non limiti di contingenza,perchè necessario,non 75
limiti di tempo, perchè eterno, non limiti di modi e di mutazioni,perchè
assoluta sostanza;anzi èinfinitamente positivo come causa infinita, e perchè
dotato d'efficienza assoluta pone dal nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta
in sè in modo sopraeminente e immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi
da un lato è negativo nella sua essenza ideale, come rappresentante
all'intelletto un che fornito di limiti, dall'altro lato è positivo nel suo
essere come atto sussistente e determinato; l'indefinito che è propria mente l
' i p o y dei greci, è negativo nell'essenza e nel l'essere;nell'essenza c o m
e astratta potenzialità del finito, nell'essere come un qualcosa che
perennemente diviene, e non è mai; e dico che è negativo in ogni sua parte, per
che se il positivo del finito consiste nell'essere determinato come atto
individuo e concreto,l'indefinito che nega quella i n d e t e r m i n a t e z z
a, si r i d u c e a d u n a p r e t t a a s t r a z i o n e m e n talee per
ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto
d'indefinito,cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante
nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la
divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che nelle
nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono
scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che
nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia
agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia
dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose
ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando
dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i
filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto
dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non
escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero
in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale
il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore.
- 76 Ma tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi,
come tutti i pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo
dell'infinito. C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del
concetto di Dio la parte più negativa,tra perchè quivi egli procedeva per
metodo d'eliminazione confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea
indefinita che ne avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che
nelle sue dottrine s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli
attributi dell'anima considerati come corre lativi, o analogici agli attributi
di Dio. Questa teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli
ultimi capitoli della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di
quei capitoli della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla
Repubblica di Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi
si tratti dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e
perciò la materia contenga un intendimento morale,l'essenza di quelle dottrine
si ri connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo
di tutti isistemi gentili, per quanto con
nessiconsottilissimeprove,eanimatidaunintimoprincipio diidealità,siannidava pur
sempre una ragione dimateria lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi
qual più qual meno s'eran formati dell'infinito,e che originandosi da un
ristagno dell'immaginativa nei fenomeni della m a teria e del senso,ivi la
riconduceva pur sempre giù dalle altezze più metafisiche della scienza. I
Gentili, e segna tamente gl'Ionj, considerando in tal guisa l'operare delle cause
naturali,per quindi dedurne la prima causa del l'universo,tra i fenomeni
esterni posero particolare atten zione al moto, e perchè al moto si riducono
sostanzial mente tutte le trasformazioni della natura, e perchè al moto
s'attribuisce in generale la causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi
richiede un'intima forza motrice delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe
come, data l'inerzia della materia,dall'una sostanza e'si comunichi
all'altra;ecco perchè negli antichi panteisti e semipan 77 teisti,
e nei loro imitatori moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e
Materia ); applicate poi questo concetto delle forze particolari
all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui segua
necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di Capila,
degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo
fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la
riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di
cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima
cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m
a nifesta efficacia,l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a
concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine
dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente col
l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di
movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica,apparisce chiaro
quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile
che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e
la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo
in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus
animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il
modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e finalmente
confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col l'immortalità che
appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale l'anima,dicendo con
Platone che essa è una causa,origine di moto ad altre,senzaorigine essa stessa
e p e r c i ò s e n z a f i n e (D e R e p., l i b. V I, c a p. X X V; e T u s
c., lib.I,XXIII.). Questa è la sostanza del sistema panteistico (o semi
panteistico) esposto dal filosofo nostro negli ultimi capi della Repubblica.
Ivi descrivendosi in modo stupendo la costituzione dell'universo, si
rappresenta la terra circon data dalle nove orbite dei pianeti animati da
divine menti, dei quali l'ultimo che contiene tutti gli altri,è
sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni disceso l'animo dell' Da
queste considerazioni apparisce quanto sia intima mente collegata alla teologia
naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi volessimo recare per esteso
la ra gione più generale di questo legame, e spiegare coi filo sofi recenti
quel modo d'induzione correlativa, onde la mente negando al finito le sue
limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di Dio,trascenderemmo di troppo
itermini della presente questione. Invero la notizia che all'uomo è concessa
dell'assoluto divino,procedendo per analogie e rap presentanze il cui contenuto
ci è pôrto da elementi speri mentali, dee riuscire di necessità inadeguata
all'oggetto; 78 u o m o, è D i o e s s o p u r e c h e g o v e r n a e m
u o v e il c o r p o come il Dio principe,l'universo;sempiterno,immortale,
rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora
celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà
eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le
remi niscenze di Platone e degli Stoici;ma degli Stoici v'è poco; laonde io non
vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul
concetto della spi r i t u a l i t à d i v i n a (H i s t. d e l a p h i l. a n
c., t o m o I V, p a g. 1 1 6 ); perchè, sebbene Cicerone volendo abbellire
della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori romani,riproducesse ivi la
parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla tonico del Timeo,è noto
come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una idealità di concetti
sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo si scostò dagli
Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima universale, m a
anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto Alemanno, « era
con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi viduale, come
parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.»(Ritter,
XII,cap.II,pag.116,Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del
Mamiani, Ontologia, lib.IV,cap. VI, 150, acutamente accennata l'opinione
contraria.) inadeguata,io dico,perchè l'animo che giunge al
concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non può far sì che nelle
conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia il sensibile e il contingente
che si conteneva nelle premesse; e perchè in quella via che dalla natura ci
mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal ter mine che dovremmo
varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce incommutabile dell'infinito
riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il sole, non ancora spuntato
sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È questa la vera causa per
cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso dall'indole sublime,e
l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo vedemmo) al concetto
ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno fra gli studj più
belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi libri popolari e s
p e culativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del l'anima, si va
grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene alla sua
pienezza nelle dottrine morali. U n primo passo di questa ardita speculazione
noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico e
disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a
paragonarle tra loro e a c o m batterle con ogni argomento,non sa affermar che
ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo
nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si
determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine
platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle
Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione
intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel
l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il
metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico
del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima
umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si
dimostra movendo dalla tra dal 79 80 dizione degli antichi,
tradizione efficace quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal
consenso univer sale che è legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle
leggi, nelle cerimonie, negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga
nelle menti degli uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria
che Cicerone chiama con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto
da tali prove la cui efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli
per ispiegare la condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne
la natura, e contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità
temporanea,affermava con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima
rac chiusa nel corpo, che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad
abitare nel cielo ond'ella è discesa. (I.XXII.)In queste parole si accenna la
spiritualità che prevale tra gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro
filosofo,che avea penetrato nel Cap.XXII ilvero senso scientifico della parola,
dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non percepibile al senso, andar
soggetto per altro all'apprensione del conoscimento, venuto poi a determinarlo,
rimase un po'titubante;onde,sebbenetra cinque elementi, che secondo Aristotele
costituivano la sostanza terrestre, scegliesse il quinto non nominato, più che
non inteso a costituirne l'essenza, e rifiutasse le gros solane fantasie
d’Aristoxeno,di Democrito e d'Epicuro, quando se la immaginò separata dal
corpo, necompose una dottrina non al tutto spirituale. (XVII,XVIII,XIX, X X, X
X I.) C o n c e d a n s i q u e s t e i n c e r t e z z e, d a c u i n o n a n
d ò assoluto neanche Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni
gentili.Ma da modesti principj si leva il filosofo latino alla sublimità della
scienza. Egli è tanto inclinato con Platone ad affermare l'anima come una
natura perfetta e immune da ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa
nel corpo come in un carcere (X X, XXII);colle dottrine della filosofia moderna
ne inferisce la semplicità dal sentimento unico ch'ella ha del molte
plice;riproduce,come nella Repubblica, il noto argo mento
platonico tolto dall'eternità de'principj motori (XXIII),e chiama plebei quei
filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone anche
l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli eterni
esemplari (XXIV.).Che dunque inferiva da queste prove? Egli stante la
incertezza de'filosofi contemporanei, non si perdeva a determinare in che
proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte
nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti
interiori la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali;
e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter
concepire l'essenzadell'animaseparatadalcorpo,essiche pur tanto poco conoscevano
dell'initimo operare della materia; argomento valevole anch'oggi a smascherare
i pretesi nemici della Metafisica,se la reverenza alla ne cessità logica de
principj fosse mantenuta nel fatto, come è predicata a parole,da quanti amano
chiamarsi seguaci d e l l e d i s c i p l i n e s p e c u l a t i v e. (T u s c.,
I. X X I I, X X V, X V I I I, X I X; C. f. Cato M. 21, 23, de A m. 4. c. p.)
Meditando i capitoli della Repubblica e delle Tuscu lane, alcuni del Catone
Maggiore e del Lelio, e qualche squarciodelleOrazioni(Miloniana,cap.30,31),sivede
in tutta la psicologia del nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica
questo ritorno costante dell'induzione correlativa;nè sfugga all'osservazione
del critico una nota importante di questa dottrina, e cioè che, sebbene
parrebbe a primo aspetto avere Cicerone desunto la cer tezza scientifica della
esistenza e delle perfezioni di Dio dalla contemplazione dell'universo e
dell'animo umano, apparisce invece in più luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza
di Dio,nutrito dall'indole religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e
certezza al concetto positivo dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di
dubitare della semplicità e immortalità dell'anima u m a n a, dell'esi stenza
di Dio e delle sue perfezioni infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima
umana,egli diceva nel De consolatione, non può in alcun modo trovarsi su
questa 81 6 82 terra. Non v'ha in essa niente di misto, nè di
concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m perocchè tali
sostanze non sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o di pensiero,
nulla hanno in loro che ritener possa il passato, prevedere il futuro, c o m
prendere il presente; le quali facoltà sono unicamente divine, e non possono in
guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio. La natura
dell'anima è perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e cognite
nature distinta;talchè,qualunque esso sia,ciò che in noi sente e gusta,vive e
si muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio
stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo che come una mente
liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni
cosa, e sè stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa stessa
natura è l'anima umana.» (XXVII, 66.) Con queste parole conchiude Cicerone nel
primo dei Tu sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione
mirabile per lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo
vedi abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel
bello, levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e
indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del
teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le
game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle
cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica
del concetto, sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle
Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci
hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente
l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni
andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da
certe epi stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e
la ventunesima del libro VI,ad Diversos)de Principio etherio flammatus
Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque divina cælum
terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat, Ætheris
æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul.1.II,v.De
Divin.,1.I,c.11,§ 17.) - 83 dussero ch'egli ne dubitava; m a a queste
accuse rispose vittoriosamente il Gautier de Sibert nell'Accademia di
Francia,eilKuehner piùtardiloconfermava.Delresto per ciò che risguarda gli
attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più dèi,e se quest'unico Dio
facesse veramente eterno,onnipotente,necessario,immutabile,e qual fosse
conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal corpo,
questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò non possa
stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es essendo
andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle altre che ci
sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i suoi libri v'è
tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re pubblica
corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse nel
concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure
civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle
libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della
vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia:
4.Oratornandoalladottrinateologica,questosegregare la mente dell'uomo da ogni
natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è
già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura
materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata
una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M.
Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare
sipossano arrecare due cause;l'una co 84 mune
allaleggeconcuisisvolgonoisistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta
particolarmente all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo
ilgià detto in torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce
nell'indefinito del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie
delle cause modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè stessa,immagina
la divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del pan teismo
quella che subito si porgeva più chiara alla riflessione esaminatrice,fosse la
medesimezza dell'anima e di Dio infi
niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi questa contradizione
uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e del
corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè in
fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di
Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini
sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè
innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava
vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle
scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano
ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali
della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed
opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei
più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione
del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola
socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur
necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul
come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo
coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete
immutabile dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n
tilità,nè mai risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto
d'attinenza creatrice.(Vedi Platone,Sofi sta.) Quindi la mente desaggj
ondeggiava di continuo da un termine all'altro di quella
contradizione immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire
del filosofo latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi
colori quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe
forse la causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di
vol gersi soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa
contradizione che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose
anche in parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e
della differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone
dalla dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni
del dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed
umana e le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza,
nel libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo
mantenendo il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima
cagione nelle cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse
quell'atto misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito,
e lo comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con
Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del
l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e
l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua
dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte
ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano
affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e l a l i b e r t
à d e l l ' e s s e r e u m a n o. (D e L e g., 1 1, 7; 1, 8, F i n., I V,
5;V,11;Tusc.,I,49,25;N. D.,I,2;Catil.,I,5;pro M a r c e l l o, I I I; a d A t t.,
I, 1 6; a d D i v., V, 1 6. ) C e r t o s ' e g l i non fosse nato nell'ultima
età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica della creazione ex nihilo,
chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle maggiori conquiste ottenute
dalla speculativa dei nuovi tempi sulle e t à t r a p a s s a t e, (C o n f., l
i b. I V, 1 0 8 ) a v r e b b e t r a t t o d a l l a S5
notizia di Dio creatore un concetto chiaro delle sue re lazioni col
mondo, e i due ordini naturale e soprannatu rale gli sarebbero apparsi
intrecciati fra loro per quel legame di causa che congiunge la teologia colla
scienza del mondo.Ma Cicerone,come tutti igentili,rifiutavala dottrina della creazione,
sebbene proposta alla mente dei filosofi e delle plebi forse dalla memoria
d'antiche tradi zioni, il che mostra un frammento del libro terzo De Natura
Deorum,conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle Istituzioni divine.
Esclusa la teorica del congiungimento tral'infinitoeilfinitoperattinenzacrea
tiva,non rimanevano,come vedemmo, che due sole vie;o l'unità consustanziale di
Dio e dell'universo,o l'assoluta separazione di questo da quello, del
molteplice dall’uno, dell'assoluto dal relativo. M a la dottrina de'panteisti
menata alle sue ultime conseguenze,oltre all'incorrere in quella lunga serie di
paradossi e di antinomie che in parte accennammo, e la cui dimostrazione ha
esercitato per tanto tempo l'ingegno de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa,
repugnava secondo Cicerone all'indole pratica e positiva del politico e del
cittadino; laonde egli la c o m battè acutamente colle armi della Nuova
Accademia nel quesito proposto dagli Stoici sulla divinazione o previ sione del
futuro. Secondo questa dottrina che usciva dalle premesse della fisica di
Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo
daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab
eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo,
che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella
natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione
de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si
trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della
propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di
Cicerone nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro
secondo; e quel dialogo è di somma importanza nellastoriadellecredenzeumane,perchè
trat 86 tando la gran questione del soprannaturale agitata ai
tempi di Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso
degli animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la
rovina del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione
tra l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata
nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un
dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio,console designato,nel
710 di Roma,fu scritto, insieme coi due libri della Divinazione,a supple mento
dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la libertà dell'arbitrio contro
il concatenamento fatale delle cause, e temperare le ultime illazioni
de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo dell'osservazione,
applicato nei soli termini della natura sensibile,menava al lora(come
oggi)alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato (detto dagli
Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di forze,manifestanti la
natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto in effetto per leggi
costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che da questa dottrina
condotta alle ultime conseguenze, uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità
che lo sovraneggia. Era alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità
de'due ordini soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva
a un deter minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che
opponendo Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine
fatale di cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in
quest'ordine naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si
schermiva da questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto
di causa. Che cos'è la libera volontà? 87 salità poi non dee intendersi
costituita dalla pura e s e m plice successione de'fatti,ma dallasuccessione
lorounita coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva
ilfilosoforomano controCrisippo),argomentano benegli Una libera
causa;lacail Stoici dicendo che nell'ordine prestabilito della
natura tutto si opera per cause antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione
se vogliono turbata questa legge della n a tura dall'operare dell'arbitrio; «
poichè quando diciamo di volere o non volere qualche cosa senza una causa, fac
ciamo uso non buono di una consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire,
senza causa esterna ed antece dente, ma non senza una causa qualunque;di
fattiil moto volontario degli animi ha tale natura che è in
nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè la causa di tutto ciò è la sua
stessa natura (XI).» Non ci è permesso riferire qual fosse in ogni parte la dottrina
diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè illibroDe Fato racchiude importanti
lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli la fondava sulla certezza
dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si apriva il passaggio dalle
opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente e con ordine verrà
dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine sin qui esaminate si
re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone.Nelle quali vuolsi
considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi contradittorj e
negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione sopra una materia
scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te nebre del sofisma,
distinse le verità disputabili dai teoremi della scienza,sceverò con critica
coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie contemporanee ponendo l'una a
ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro eccessi. Per tal modo le
principali verità mantenendosi intatte, soc correvano il pensiero a
ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e questo è
davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana, come altri
notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni eccessive degli
sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di Socrate,e
sciolto,per quanto erapossibileallora,dallecondizionielimitazionidell'uomo, la
natura spirituale dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di abbattimento
morale e di costumi nefandi.Su 88 89 questi principj fondava
l'oratore latino la sua fede religio sa;chè se (come nota bene il Vannucci) «
nella Divinazione ed altrove,allontanandosi dalle forme timide della Nuova
Accademia........ con argomentazione più forte che in ogni altro scritto
combattè da arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj
e politici,e mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj,
e delle imposture sacerdotali; » Senatore e console di R o m a, egli voleva una
fede ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale, e che diventasse
vero fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza,
come affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo
essa nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità
dell'oggetto scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un
primitivo ordine di veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che
costituisce il soggetto scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della
teorica del conoscere, o della Logica non si colleghino intima mente con quelli
della teorica dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo
legame che, a n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella
scienza stessa, ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui,
come da unico fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del
conoscere,dell'operare; l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se
lo esamini sotto duplice aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero
contemplato nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della
filosofia apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra
loro le questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti
principj della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini.È un fatto omai
noto nella storia della filosofia come il quesito fondamentale della
90 logica: qual sia la relazione che corre tra l'ideale e il reale,
quale la corrispondenza tra le leggi del pensiero e quelle della natura, e se
dandosi passaggio dall'intelli gente all'inteso,se ne costituisca la
possibilità della scienza, quesito contenuto ab antico nella materia delle
specula zioni pagane, ricevesse la sua vera espressione scientifica dalle
dottrine critiche della Riforma. È altresì noto ai di nostri come dalla
posizione deliberata di tal quesito si diramarono due
scuole;ilCriticismofranceseealemanno, e ilCriticismo cristiano,che cominciato
dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a fiorire segna
tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse
sostanzialmenteneiprincipjontologicidelsistema,dis sentono pure nella logica.La
prima desumendo le sue dot trine dal panteismo e dualismo antico, resuscitato
più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del Genti
lesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura intercede
tra il pensiero e le cose, tra il sog getto e l'oggetto,e quell'attinenza
odenaturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza,o ridusse a
separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua
litàdell'esteso elequalitàdelpensiero,d'ondeilsistema delle cause occasionali
del Malebranche, quello dell'ar monia prestabilita del Leibnitz e lo
scetticismo del Bayle e del Kant. La seconda scuola movendo dal principio che
la libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla
condizione di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro,
trovava con sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e
nell'intima essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una
coordinazione d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio
stesso nella cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla
realtà, la realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative
degli enti creati. Or che si deduce da c i ò? C h e s e il p r i n c i p i o d
e l C r i t i c i s m o, o n d ' è r i d o t t o a problema il teorema della
conoscenza, ha un intimo ri scontro nei fondamenti della dottrina dell'essere,
e i si M a qui cade per altro una considerazione importante. Il
panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la dottrina della
conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il pensiero, o
affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la materia, principio
di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da Dio, non negavano
per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro dell'attinenza conoscitiva;e
quando in un sistema, sia pur guasta e corrotta,sia pure implicitamente
negata,siconserva nell'intimo significato delle dottrine la piena comprensione del
soggetto su cui cadelascienza,qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi si
offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice.
Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due
parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e
mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si
chiudono la via ad affermare i n t e r a l a n o t i z i a d e l l ' e s s e r
e u m a n o, d e n a t u r a n o il l e g a m e che intercede tra l'ideale e il
reale, e rendono impossi bilelapsicologia,ingannatricelalogica.Un breveaccenno
di questa legge necessaria che si riscontra nella storia delle controversie
filosofiche, l'abbiamo già fatto nella prima parte toccando dei sistemi
principali che apparvero in Grecia dal primo scadere della scuola socratica
fino ai tempi dell'Arpinate; allora fu osservato da noi come a n dasse di pari
passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle antichissime
tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come l'ultimo grado
di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e dalle dottrine
logiche della Nuova Accademia.Ora poi 91 stemi che alterarono questa
dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia, antichissimo deve
essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le più strane
teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica de'sistemid'India,
d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di Capila,gl'idoletti diDemocrito,leimmagini
fluenti d'Epicuro e di Lucrezio. ci sia permesso venire su questo
proposito a maggior particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di
Tullio dove conviene esaminare la controversia tra gli Stoici e la Nuova
Accademia sulle dottrine del conosci mento,rappresentatada
luineilibriAccademici,importa massimamente il notare perchè e come ai tempi del
filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema fondamentale della logica si
fosseristretto alla percezione sensitiva; e come dal punto diverso e dai
confini onde le due parti dispu tanti consideravano il quesito intorno al
conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il principio su premo che
governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito, il sistema d'Epicuro e
le dottrine della Nuova Accademia, non che lo scetti cismo e l'empirismo finale
ci palesano quasi una spos satezza del pensiero greco,che non val più ad
abbracciare la totalità del soggetto scientifico con quell'ampiezza di principj
e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano abbracciata;ma un
peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava nel sistema degli
Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e vi troverete due
principj che danno a tutto il sistema due qualità e due aspettiben differenti.Il
cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità primordiale e finale delle
cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta e indeterminata, che poi
si determina e si partisce per l'efficacia del prin cipio attivo e divino
svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La
sostanzaprima,distintaallorain un'anima e in un corpo universali, causa delle
anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che rappresenta
la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed inanimate le fa
partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla natura e all'effi
cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella sorgente universale, ne
ritrae maggiormente, informando e compenetrando il corpo, a somiglianza
dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo principio m o tore le
facoltà seconde; talchè per gli Stoici dall'unità 92
dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col reale, il p e n
s i e r o c o g l i o g g e t t i, l ' i n t e n d i m e n t o c o l s e n s o.
C o n s i derato inquestegeneralitàilsistemadiZenoneabbraccia tutto intero il
complesso dei veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col
Panteismo.Ma se vieni ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti
principj con tenuti nel seno fecondo della materia prima,e in lei de terminati
più tardi,Dio e materia,anima e corpo,intelletto e senso,pensiero ed
oggetti,scompajono tutti,e siriducono ad un solo; alla natura informe e
indeterminata della materia. Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema
la riflessione esaminatrice che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal
senso e dalla materia, concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei
fenomeni naturali un'intima energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione
di que'moti,non sa dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso
dei tempi,trasporta in quella forza primitiva e in Dio stesso,che la pone in
atto, le qualità corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici
s'infettava di materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella
legge necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle
cose, se ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a
maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il
sensismo in psicologia; quindi,giàloaccennammo,alterato ilvero concettodi
potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci
viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è
l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del
l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi
le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del
soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici,si nascondeva per fermo una
potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa
considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui
restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile
93 a sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che
cosa o di tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio
essere in un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti animali,
ti doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso, inesplicabile,
oscuro e sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu minato dalla luce
dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne creatrice del falso,
facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli ultimi resultati della p
o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e sofisma vuol dire sempre
difetto) germinava quello della Nuova Accademia. Chè, se fu cattivo abito della
riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare ombra dei fe nomeni
materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che v'ha di più vivo
nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni apprensive,fu
pessimo nella Nuova Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il compiuto
all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a profondarsi
nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero vuoto,fenomenale,
apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento. Quindi a una
negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi, la
polemica tra gli Stoici e la Nuova A c cademia.Ed ecco (ciò che cieravamo
proposti a mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica
avea ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo
aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti
veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva. 94
Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli
Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del
primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una
semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta
in fondo la lotta di tutti i tempi tra ildommatismo inconseguente e lo
scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af
fermative con altre assolutamente inquisitive era, come dei nostri,
un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei
quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice,
dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e
imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo
erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano
bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici
quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto
facili ai propositi gene rosi,quanto difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e
da piazza; politici predicanti la severità antica nelle m o l lezze moderne;
uomini a cui mancava la lena di levarsi sulle ali del pensiero alle universali
armonie della scienza nel vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri
gionarsi nelle angustie d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a
sofisma,contradizione a contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come
in simili casi, del difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu
esamini l'una e l'altra con animo non preoccupato, e poi non imiti il Cousin,
che dall'accozzo fortuito degli errori volle ricomporre il corpo formoso della
filosofia, quasi statua da brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di
compirle ambedue colla pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale,
soltanto allora elle t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai
brillare al pensiero la luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è
finta da Cicerone come avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti
lo stesso Ortensio, Ca tulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo
e Cicerone. Lucullo sostiene le parti d'Antioco (stoico) contro Filone
(Accademico ); Tullio quelle di Filone con tro Antioco. Or qual era il principio
da cui moveva, e quali i punti più segnalati in cui si spartiva il ragiona
mento? Qui occorre ridurci a memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il
quale nella sua Storia della filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che
la dottrina sulle 95 96 fonti del conoscimento avea preso da
Aristotele in poi, quando nota la differenza segnalata che correva tra gli
Stoici e il filosofo di Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma
senza negare il resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove
gli Stoici, più vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in
più il pensiero razionale alla sensazione concependolo solo come una sua
conseguenza e trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi
difficoltà, le quali si o p p o nevano alla dimostrazione di quel loro
sensismo, si rias sume intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del
vero (Ritter, L. XI, 3.). L'osservazione del Ritter è giusta. Di fatti per
quella solita opposizione che trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze
vive dell'animo e l'indirizzo artefatto della riflessione, si vedevano negli
Stoici due disposizioni opposte che imprimevano qualità contradittorie al loro
sistema; da un lato il pendio del l'età e il decadimento della forma e della
materia scienti fica li inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del
soggetto su cui cade la scienza; dall'altro la tradi zione socratica e la voce
non muta del senso comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di
natura, le facoltà dell'animo e i termini loro, e a rendere p o s sibilmente
perfetta la forma scienziale; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia
in quell'ondeggiare continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il
dualismo so cratico. Ora che ne veniva da ciò? Dal lato imperfetto da cui gli
Stoici consideravano l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento,
resultava ch'essi sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione,
fonda menti primi di tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla
dimostrazione del conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano
l'essenza nella rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn),ch'è
un patire dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito,
dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione
ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma
qui,giovailripeterlo,stavalafallaciadell'ar
gomento;gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la pienezza del
soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non negherò mai
alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa come
attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza di due
termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione, l' altro
è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione di
causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli organi
de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle facoltà conoscitive
un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo e d'efficace che
risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego agli Stoici quel
loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza intellettiva col
senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una condizione
passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e dalla
sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della scienza.Ma
ilfatodellalogicanon's'arrestava;egliStoici ristretti in tal modo nelle
angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo alla cima
del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano l'importanza
di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la mutabilità e
l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero contenuta negli
universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza. Quindi proveniva
il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e da principj
indubitabili ed evidenti (Acad.,II,VI,17);quindi la necessità di
mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera;secondo,
come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente stessa
che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale energia
per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons
est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim
habeatquamintenditadeaquibusmovetur.(X,30.) Da questo concetto,fondamentale
nella logica degli Stoici, 97 La prima parte cadeva sulla
domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi segni della v
e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova Accademia,affermando
che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa nota per distinguerla
da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi l'entità della cosa
sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del soggetto conoscitore.
Posta in tal modo la que s t i o n e, è c h i a r o c h e p o i c h è il m e z
z o d i p a s s a g g i o d e l v e r o
conosciutodallacosa,occasionedelsentimento,allepotenze conoscitive, è il senso
ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a provare la realtà della cognizione,
argomentarla dalla veracità naturale dei sensi.Dai quali movendo Lucullo ne
afferma chiaro e indubitato il giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi
argomenti degli avversarj intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè:
1°,dato che i sensi siano sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret
tificarne i giudizj,posso coll'esercizio e coll'arte aumen tarnemirabilmente
laforza;2°,ilsensoèdimostratovero ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della
mente sulla materia da esso somministrata formandosene i concetti delle qualità
e delle specie che son via ai principj più universali, ai quali naturalmente
l'intelletto dà fede, e tolti i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della
vita cadrebbe. Tutta la teorica si regge manifestamente sul principio di causa
e di relazione. Se io, diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della
percezione sensibile, questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria
attinenza. M a Filone invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni)
ammettendo la possibilità del fenomeno come di un che vuoto,di una mera
apparenza senza alcun con tenuto, poneva come probabile che la sensazione non
ci scoprisse l'entità di veruna cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente
oltre i naturali giudizi e i giudizj scientifici, che nascono e si fanno
manifesti in noi per l'occasione de'sensi, dal germe del conoscimento
spunta 98 il ragionamento d’Antioco si dirama in due capi: della
percezione e dell'assenso. 3. Il ragionamento di Lucullo, compreso
dal quinto al ventesimo cap.del secondo librodegliAccademici,edove l'umano
intelletto fa prova di quella forza irresistibile che in mezzo alle
contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj universali del vero, è
uno dei più mirabili tratti della filosofia e della eloquenza latina, e chi
n'ha seguito con gioja confidente il cammino,se poi si volge ad aspettare la
risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge con vivezza egli
stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis majoribus. » Egli per
aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una professione di scetticismo
assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si fonda in special modo
sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone, cioè sull'in
discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva che al sapiente
non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione di
verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti: Cicerone non sostiene
egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine
stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere
seguace della riforma 99 il fiore dell'appetito istintivo, il quale se
voi mi negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto
appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà
naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter
mine dell'apprensione intellettuale,perchè ilconoscimento coglie di sua natura
l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento,lanegazione
dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento.
Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè
una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura,
ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui
vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo
stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge
a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»). introdotta
da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai
Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non
han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della
filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia,
s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo
scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine
contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque
Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime
inlogica,seguitòildubbiodellaNuova
Accademia.(Brucker,Degerando,Bernhardy,Ritter).Tal conclusione,di cui demmo
qualche accenno nel cap.Idi questa parte,sebbene apparentemente provata da
parecchj testi divisi del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer
mazioni,e segnatamente da tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende
con lungo ragionamento in persona di Filone a confutare la certezza delle
notizie che ci ven gon dai sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la
sua dottrina del dubbio sistematico e della probabilità alle contradizioni in
cui si lacerava la logica contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge
avanti al tutto delle dottrine esaminate spassionatamente, e avanti a quella
norma di critica, che ponemmo sin da principio,di badar bene alle opinioni che
Tullio combatte,e ai metodi che rappresenta in sè stesso senza per altro
interamente accettarli. Le affermazioni eccessive della critica odierna, bene
merita per tanti rispetti della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente
esse pure nel falso principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il
pensiero scientifico fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle
cose, col Creatore e col genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel
filosofo l'uomo,e fa della più socievole fra le dottrine un gergo
incomprensibile e solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai
dalla n a tura di que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di
que'pregiudizj, di quelle consuetudini; bisogna im 100
maginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti e pensanti,
uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle contradizioni
frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore della disputa
alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio irrepugnabile
al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi tenemmo nella
parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella morale. Il
Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno davvero
nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci duole a
confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie opere,
ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che forse
non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della dialettica di
Tullio, sebbene non n e ghi che il filosofo latino si leva al concetto dei
principj e delle idee universali, cardine dell'intelligenza, pure af ferma che
in logica ei riferì una singolare importanza al sentimento, pigliando questa
parola nel significato in cui laintendono iRazionalisti,come di un che
sostanzialmente opposto alla scienza, e soggetto alla cieca fatalità de
gl’istinti.(Hist.,lib.XII,cap.II,pag.105,106).Ma inprimo luogo, oltrechè
Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai del sentimento un
qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in un significato
essen zialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del l'affetto
spirituale col vero (De Fin., lib.II,passim ), è poi
esattaabbastanzal'asserzionedelRitter,checioèiprincipj fondamentali della sua
filosofia naturale lo conducessero
alledottrinelogicheperviadellasensibilità?Sefosselecito affermare risoluto
contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause,intrinseca
l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con
clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro
gressorarointantacorruzioneditempi)aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In
tal questione egli si trovò in mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle
dottrine materiali e sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il
101 dualismo semipanteistico da un lato rifuggendo alle con
tradizioni del panteismo che più repugnano agl'ingegni sovrani, e gratificando
dall' altro agli affetti spirituali, segregò la materia da Dio, lo spirito dal
senso,e pose la ragione del conoscere nella medesimezza fondamentale
dell'intelletto divino e degl'intelletti secondarj? Ora tal sistema,
partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e da Tullio,rompeva
l'attinenzatrailpensieroeipensati, tra l'ideale e il reale, e restringeva
l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli universali. Se così è,
pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal porre nei resultati
delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo prova la sua fisica
dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle scienze speri mentali
come incapaci di somministrare una sicura notizia de'corpi, e l'indagine
naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di principj superiori ai
veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua psicologia che tante volte
contrappone il fenomenale della materia e del corpo al l'essenza dello spirito,
che afferma il commercio dell'anima col corpo risiedere in una semplice
comunicazione di moto, isensiesseresoloun emissariodell'anima,un'intelligenza
ammezzata, e la personalità umana un gastigo. (Tuscul., De Leg.,De Rep.nel
sogno di Scipione). L'altra causa estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede
che altri poneva nel conoscimento prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei
dovette fare al dommatismo degli Stoici, nella quale opposizione si vede che,
mentre da un lato egli temperava colla moderazione dell'ingegno latino il
dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse condotto le dottrine della Nuova
Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di logica smascherare e combattere
le intime contradizioni degli avversarj. Qual era la fonte di tutte queste
contradizioni? Noi già la conosciamo;era l'eterna differenza che corre tra il
sentimento mutabile e fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza.
Questa necessità sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel
sistema degli Stoici dal porre ch'essi face 102 vano il
conoscimento scientifico nel possesso delle idee pure, e nel rappresentarcelo
quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a cui lo spirito umano perviene col
passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015 (adsentio) e della 2.zténnyes
(comprehensio), movendo come da suo prin cipio dalla suurusis,o
rappresentazione sensibile (visum ).
(Ritter;Cic.,Acad.II,47).Ma,seconsideriamomeglio,gli Stoici con quella loro
immagine della mano stesa e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche
modo l'idea di una differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai
fenomeni animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale
intrinseca al soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione
costituisce il conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è
vero che ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle
rappresentazioni resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello
spirito(TÓvos);ma sepervoi l'intelletto non è che il travestimento del
senso,mostra teci orsù come la potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal
relativo, il necessario dal contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a
questi principj universali ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no.
tando piuttosto quelle contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico
paragonato a sè stesso, pure implicitamente li confessava. Fallita infatti agli
Stoici la definizione del concetto della scienza dato per via dell'attività
spontanea dell'anima,non rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del
conoscimento alla indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai
dimostrare tale indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi
nel l'indirizzo della questione sul problema della conoscenza per la legge a
cui è soggetta necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla
storia;perchè,come os serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità
del sapere per quella forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto
d'apprendere la sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della
facoltàintellettivaeap petitiva il vero ed il bene; laddove gli Stoici
susseguenti, 103 al numero de'quali appartiene Crisippo,
vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero alle ultime
illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella rappresentazione
vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un obbietto reale
analogamente alla sua natura. Nonpertanto una grave difficoltà rimaneva sempre
a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Cri sippo. Chè se il
vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere
quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo
ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di
quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò
unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la
rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità
dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto
qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di
ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n
sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del
senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo
stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi
si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi
bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle
potenze spirituali.Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special
facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che
mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti,
vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di
ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di
natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col
pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda
armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità
nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile 104 Il
sistema cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno
stupendo ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale
armonia del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello
scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le
attinenze dell'umano p e n siero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente
serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane a p parenze quasi
dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti
fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno
di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del
Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare
cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce
lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e 105 e il
termine materiale? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non
vedo più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il
conoscimento doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno
misterioso del senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio
fondamentale della dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò,nota bene Cicerone,
essi furono assai meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal
principio, che data unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare
la certezza delle umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del
fenomeno sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo
come veretuttelepercezioni,ma soloquelle che presentavano in sè l'evidenza
della cosa percetta, nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro
pria dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui r e sultamenti del
senso, si chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni
dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro
gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei
ragionamenti sofistici. (Acad., I e II dal cap.28 in giù). germi
immortali di vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine
scientifica nel suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una
vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel
libro Contra Academicos Sant'Agostino serba a un di presso lo stesso ordine
della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj, ribatte
le medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace,
d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là
dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana,
ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto
nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove
facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s
u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli
Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito
distinta dal senso e capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire
nell'essere stesso della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il
loro concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla
Nuova Accade mia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci
han serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del
resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si
mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici
ponendo in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea,nè
per l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle
idee universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di
non reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in
proposizioni (Asztóv).Distin guevano quindi due specie di vero; il sensibile contenuto
nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in tellezioni della
mente,questo procedente da quello e a quello correlativo; volevano con tale
dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj in cui cade
la 106.. scienza, nè gli acuti pensatori s'avvidero che, se
l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in con seguenza ch'ella
stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque conformità tra il
concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel concettualismo rinno
vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Nuova Accademia recava alle ultime
loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica; dal principio del
sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della percezione sen
sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare la realtà del
pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai notevole infatti)
la dialettica non potere giudicare delle leggi della geometria,perchè aliene
dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro prie, perchè non può il
pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi. L'argomento è di
recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi iseguaci del Comte,
iPositivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze che ne deduceva la
Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in sè stesso, e negata
la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a risolvere il problema
dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne che dunque la
contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa ultima
conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della rifles
sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di Conisberga,m a già
è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della Nuova
Accademia.(Ac.,1.II,15,16,29, 30, 31.) Costituita dunque in questi termini, la
controversia sulle fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca demia a uno
scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in Carneade; m a era
qui appunto dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo sentimento dei
veri naturali e colla moderazione latina gli eccessi del metodo da lui fino
allora seguito. Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza delle
percezioni sensibili che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les
Stoïciens,en 107 108 admettant la possibilité de saisir
quelque chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir
erreur,n'accordaient ce savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de
refuser cette espèce de savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne
pouvaient dire quel est l'homme qui est ou qui a été sage; ils regardaient, au
contraire, tout le monde comme insensé, et refusaient en conséquence le savoir
véritable à tout le monde.Cicéron n'aspire pas à un pareil degré de savoir;
mais il veut que le non -sage aussi sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait
une per suasion de la vérité des phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y
croir avec une parfaite certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions
sensibles auxquelles nous pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement
notre sens ou notre esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme
parfaitement vraies.Telle est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas
faire disparaître la différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de
tenir quelque chose pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous
n'avons aucun signe certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir
prévenir l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de
certain en te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de
certain. C'est ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout
pour incertain est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à
la vraisem blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même
qu'ils ont plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre
différence entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci
ne dou tent pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il
considère au contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut
suivre, sans pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude..... On
voit bien que cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine
de la nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle
n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et
invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable,
autre chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il
s'écartait de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de
la morale.Il avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le
doute de nouveaux académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les
atténuer. » (Stor., vol. IV, pag. 108, 109, 110 tradotta dal Tissot.) 4. Il
fondamento della teoria tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella
questione del criterio del vero; e qui, segnatamente nel giudizio sulle
percezioni sensibili, apparisce il moderato scetticismo dell'oratore latino;m o
derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le cose predette che egli avvolto, come
Socrate, in mezzo ai combattimenti del dommatismo e dello scetticismo
eccessivo, serbò una norma scientifica nell'affermare e nel dubitare, temperò
gli Stoici non accordando una fede illimitata al solo te stimonio de'sensi;
temperò gli Accademici sostituendo al loro dubbio,uguale per qualunque
opinione,una graduata v e r o s i m i g l i a n z a n e ' c a s i p a r t i c o
l a r i, c o m b a t t è g l i u n i e g l i altri rigettando il dubbio
assoluto sui principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj
particol. De Off,De Div.,De Nat.Deor.,Acad.) La sua psicologia in quelle parti che
si collega alla logica, sebbene qua e là i n f e t t a d e l d u a l i s m o s
o c r a t i c o, f a f e d e c o m ' e g l i e m e n d a s s e il vizio della
scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta riflessione de'sofisti un
esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo induttivo egli moveva dalla
coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre naturale e
dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o gnizione dell'animo
(Tuscul.,lib.I,cap.XXII);nell'animo distingueva la ragione dal senso;la
ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel
vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj
dell'anima,le danno di molte cose certa notiziaconfusaeammezzata,cheèun qualche
fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia
dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u 109
tabile dei sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali;
quindi i sensi ben guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una
naturale rettitudine al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della
riflessione, ivi soltanto può introdursi l'errore.(De Leg., 1,23,26,
17,47;Tusc.,1,20;Ac.,1,8, 11,7.) Così col metodo induttivo di Platone egli sale
fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo d'Aristotele ridiscende
ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i quali merita speciale
considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata a Trebazio giovane
giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto è ac compagnato da
esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per soggetto tutte quelle
distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano per l'invenzione degli
argo menti, e si operano sui concetti che ne sono signifi cativi, Cicerone
divide la logica in inventiva e giudica trice, la prima delle quali parti porge
gli argomenti per disputare,la seconda li dispone,li analizza e lim a neggia
per persuadere.La logica Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta
nel De Inventione, e nel De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele
qualepiùtardisimodificònegliStoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in
gran parte i giureconsulti romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che
risguarda i Topici, si disputava lungamente, non sono molti anni, in alcune
università tedesche, come apparisce da un'ac curata dissertazione,De fontibus
Topicorum Ciceronis,di Giovanni Giuseppe Klein. (Bonnae 1844.) Ivi l'autore
prendendo ad esame la questione proposta dai critici a n teriori,se e quanto e
con qual metodo Cicerone seguisse in questo libro la Topica d'Aristotele che ci
pervenne, ovvero se attingesse ad un'altra di presente perduta, come qualche
critico mostrò sospettare; conclude dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che
le opere loro quanto aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note
volmente; che Cicerone nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a
prima giunta dal proemio) di fare 110 111 un semplice
compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto il contesto avere
l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici dello Stagirita e
da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi averla composta
col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare disciplina. Sui Topici
di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e bel commento Severino
Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo passaggio tra le
dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare della civiltà
latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle lettere e delle
scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole del trattato,
già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della dialettica della
Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di Trebazio Testa e di
Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle scienze giuridiche
colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della dialettica colla storia,
della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e civile colla sa pienza
cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali, apparte nenti alla
teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra invitarci, come facemmo nei
capitoli precedenti, a dire qualche cosa in generale del disegno scientifico
che li collega, e delle attinenze loro più immediate e più rigorose colle altre
parti della filosofia di Cicerone. In vero la scienza morale nata sui rudimenti
del senso co mune,quale Socrate la menava a conversare famigliar niente fra gli
uomini,e più tardi venne accolta e trasmessa sino a noi dalle scuole migliori,
si può assomigliarla ad uno stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi
veri,illegame che unisce i principj alle conseguenze,e l'armonia delle
speculazioni colla parte più affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il
principio n'è dato dalla IV. 112 natura,presupposto
indispensabile della scienza; chè la riflessione posta una volta su quel
cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una ad una leveritàpiù prin
cipali della Filosofia, move dai primordj della vita vege tativa e animale,manifestati
nella puerizia dai sentimenti indefiniti e dagli istinti,passa su su agli inizj
della vita razionale, allorchè quei sentimenti illuminati dallo splen dore
della conoscenza si palesano come tendenze amorose al vero, al bello ed al
bene; in quei termini riconosce la ragione di fine,ed il fine,considerato come
qualcosa onde nasce armonia nelle operazioni d'un ente,guida la rifles sione al
concetto di legge, d'un archetipo assoluto ed eterno che per mezzo
dell'intelletto indirizza il volere a un'immortale destinazione. Principj
naturali, bene, fine, legge; ecco i concetti che, intrecciati mirabilmente fra
loro nell'armonia della coscienza, costituiscono l'ordito
dell'Etica,allaquale,considerataperquestorispettocome scienza direttrice della
più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le altre scienze costitutrici
della filosofia. L a F i s i c a, c o m e l a i n t e n d e v a n o g l i a n t
i c h i, l a q u a l e m e ditando il principio primo dell'essere nell'universo
e nel l'uomo,ne ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine
oltrenaturale di naturali armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è
un'idea di perfezione immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta
nell'ordine delle creature. La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la
ragione di vero,ne scorge facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto
d'amabilità, testimonj i sentimenti più schietti della natura che antecedono
ilvero e ne ger minano come tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei
doveri e dei diritti;chè dovere e diritto sono concetti eminentemente morali in
quanto da un lato discendono dall'idea della legge,le cui divine esigenze
s'impongono alla coscienza degli enti creati,capaci di cognizione,pur ri
spettando quelli enti nell'ordine della loro natura; dal l'altro lato vengono
su dall'idea dell'uomo,ente dotato d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e
nel suo libero arbitrio la sanzione di quella legge,la quale osservando
113 si sente capace d’immortali destini. Così l'ontologia, la logica, la
scienza delle obbligazioni e il gius di natura si appuntano, come in unico
centro, nella morale, da cui pur si dirama il gius civile, la politica, la
legislazione, la storia e ogni altra scienza meditatrice dell'uomo. Il
Cristianesimo, dottrina e religione moralmente inci vilitrice, che nata in
tempi di costumi nefandi operò un mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo,
ponendo a capo dei suoi precetti l'amore santificato da tanto sangue di
martiri, e ad esempio dei nuovi costumi, l'immagine più che umana del figlio di
Maria,il cristianesimo solo poteva dare un perfezionamento vero alle teoriche
della morale. E quel perfezionamento lo diede allorchè dichia rando senz'ombra
di dubbio l'infinita natura di Dio,la finita natura dell'uomo, si valse
dell'idea intermedia di creazione per assorgere al concetto più puro delle loro
attinenze, potè meglio chiarire l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire
l'ordine dei fini nella natura in telligibile e sovrintelligibile, vedere
l'uomo e l'universo ordinati a un disegno della provvidenza;e quindi,posto a
capo di tutta la Filosofia il concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle
dottrine del soprannaturale e del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla
teorica dei doveri e dei diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne
apparvero nobilitate. Il che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle
miserie di nostra natura all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo
spiegarci le sca turigini arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela
scienza cristiana respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi
di sant'Agostino, e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina
Commedia, alla Somma dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Vin cenzo
Gioberti. Considerate le quali cose, se alcuno mi domandasse onde accadde che
la Paganità, in tanto e continuo sca dere di costumi e di scienza, riconobbe
più volte, senza pur cadere in errori sostanzialissimi,le principali verità
della morale,di che abbiamo esempj segnalati nelle Indie, 8
114 in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole socratiche e in Cicerone
nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane tendenze e l'efficacia
de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano inconsapevolialvero ignoto,
l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti della medesima specie, che
essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene fresca nell'animo la voce degli
affetti do mestici e civili, e infine la notevole differenza che corre fra
l'apprensione astratta del vero e il sentimento che n'hai nella vita, onde
spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e il popolano e la povera vecchierella
fanno a m mutolire coll'evidenza della rozza parola il superbo sa piente.In
Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque Socrate, e dove si conservava
nell'amore del bello e nei gentili attici costumi un germe di rinnovamento,
rimase aperta la via a tornare sulle antiche tradizioni, attestate dalla
coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come scintilla da selce,i principj
della morale che fanno sì bella parte delle scuole socratiche. M a quei
principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a ravvisarsi l’età sus
seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era insanguinata e commista la
civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab antico una notevole
inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini di pratica a p
plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui
pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e infine perchè, se una
riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di costumi,in tanto
scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che
da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree, certo quella riforma
dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei
più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che
l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera
nazione, era dunque preceduta da un grande preparamento; chè giammai si compie
un gran fatto senza che nei tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano
igermi.Ei 115 germi della riforma morale iniziata da Tullio
furono, oltre le condizioni civili e politiche di tutta l'Italia e di R o m a,
i Giureconsulti e le sètte, alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide
tradizioni delle scuole socratiche, e segnatamente idommi
platonici,aristotelici e stoici;ivi egli mirando componeva il disegno
scientifico della sua morale;-m a quel nobile magistero l'avrebbe ajutato ad
accozzare brani di verità,non a comporre una vera dot trina, a ragunare nella
memoria, non ad unire nella ri flessione esaminatrice, s'e'non avesse avuto
l'occhio in un principio più alto, superiore ad ogni opinione e ad ogni setta,
nell'esemplare della natura considerata nel suo popolo, in Italia, in Grecia,
in Europa, nelle genti tutte conosciute, e più viva in sè stesso, cittadino
gene roso,scrittore sommo,oratore che tante volte dall'alto della tribuna avea
signoreggiato gli umani affetti colla parola onnipotente. Questa meditazione
profonda dell'uomo interiore, il cui fine era dedurre le ragioni del giusto
dalle attinenze dell'anima e dell'universo con Dio,valse a Cicerone le accuse
di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai gne. M a il Montaigne, osserva
opportunamente un altro scrittore francese, cercava forse troppo sovente
materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel rassegnarlo tra i bruti;.Cicerone
lo stimava creato a qualcosa di più alto e di più solenne (ad majora et
magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la nobiltà dell'umana natura,e
l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio, per costituire la morale e
con essa la vita civile su fondamenti non peri turi. Premesse queste considerazioni,
l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti osservava rappresentarsi la maturità
della ragion naturale presso gli antichi, si distingua i n nanzi tutto in due
parti determinate intimamente dal l'indirizzo del suo pensiero speculativo
nell'esame dei veri morali, estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat
tati. U n a parte è teoretica e principalmente speculativa; e in essa Cicerone
esaminò la ragione delle tendenze n a turali nell'umano soggetto
per ispiegare il problema sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da
questo esame ai concetti universali di legge, di dovere, di diritto (De
finibus, De legibus); l'altra parte, in cui prevale un fine pratico o di
applicazione, movendo essa pure dai principj fondamentali, innanzi chiariti, scende
a determi narli nella vita dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine
sulle forme di governo (Tusculanarum, Paradoxa, De officiis,De republica,De
amicitia eDe senectute).Se poi si considera bene,nella prima parte di tal
distinzione, avvertita pure dal Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine
soggettiva e oggettiva; soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel
problema, posto da Tullio intorno alla natura dei beni, la riflessione
scientifica si volge da un lato sulle tendenze e sugli affetti spirituali,
mentre dall'altro vi riconosce un riferimento necessario a qualcosa d'assoluto,
d'immutabile,d'infinito, di essen zialmente oggettivo, all'esemplare di legge,
da cui si ge nera in noi l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica
de'Fini si distingue nel filosofo nostro da quella del D o vere,e sorge fra
l'una e l'altra, come centro unitivo delle armonie morali, la teorica della
legge. 2. Ponendo mano impertanto all'esame della parte speculativa,cominceremo
dalla dottrinadeiFini,trattata ex professo, e con intendimento al tutto
scientifico, nel libro D e finibus, a cui fanno corredo con secondaria i m portanza,
e con oggetto non immediatamente speculativo, le Questioni Tusculane, e
l'operetta dei Paradossi. G i o vanni Rodolfo Thorbecke in una sua dotta
dissertazione universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj
desunto dalle opere di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo
bene,occupa un luogo principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco
allega a questo proposito l'autorità stessa del nostro oratore,che più volte
nelle sue opere, e segnatamente nel primo libro degli Officj (I,3),riferisce
ilfondamento delle dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De
finibus nota oppor tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come
116 Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per
risolvere il problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo
edessenzialmente scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e
so prattutto indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente
coll'ordine del pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare
quella stupenda armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo
interiore senza nulla tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente.
L'altro metodo invece, che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma,
consisteva nel dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel
considerare l'essere umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà,
tralasciando le altre, nell'offrire c o m e opera compiuta del vero e di Dio un
informe viluppo di contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e
fallace seguita dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della
coscienza tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La
quale avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia
trovarono anche in questa parte della m o 117 termini identici d'una
stessa relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale
suprema importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con
siderare che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di
relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il
filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura,
comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime
tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano
nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento
della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare
tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei
proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della
famiglia, come individuo e come membro della civil società. rale di
Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto
scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo
criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano
quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata
conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo
(Ritter,Brucker ). A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da
validiargomenti,rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e
palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in m a
n o le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo
que'suoi dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se
fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam
pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a
conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana
coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una
disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore,
argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il
consolare L. M. Torquato,M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto
ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma,oranellabibliotecadiLucullopresso
Tuscolo,e in fineall'ombrasilenziosadeplataninell'Accademiad'Atene. Per
cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella
prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in
Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo
un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o
contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un
esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza,
manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo
meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al
senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri
118 del corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei
piaceri del senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza
dell'uomo, riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci
come il por tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma
togliendo all'uomo l'intuito vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo
dell'Etica il puro sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente
capace non solo disentimento,ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la
possibilità del dovere che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende
la dignità dell'umana natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una
meretrice in u n ' a s s e m b l e a d i m a t r o n e. (D e f i n., L. I, I I,
2 2, 4, D e o f f., I, C. II.) Tali sono gli argomenti, tolti altresì dalle in
time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di rimando contro
Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua risposta a
Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame del l'umana
natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi destini, del suo
aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo
dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da
parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori
dell'affrettata rovina di R o m a. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri,in
cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e
spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra il
pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri
in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che han
guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e
invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni
de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle
dottrine da lui professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle
nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo
coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè
119 mai v'è tanta contradizione tra quello che fa e dice come
cittadino e quello che sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio del
popolo? M a badi, risponde Cicerone, che in questo caso l'errore
dell'intelletto non venga raddiriz zato dal cuore; badi che il sentimento
universale, onde ogni popolo della terra si leva come un sol uomo a con dannare
Epicuro,non sia iltestimonio interiore e inappel labile della natura,
repugnante alla teorica del piacere! 120 Questo intimo disaccordo tra la
ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e la vita civile, rappresen
tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto principio della filosofia di
Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento del vero costituito da
un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve poi in questo caso a
ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a partecipare al
dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte parti
somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità del
costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine
sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla
coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il
male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o
ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non
pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava
potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af
fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un
argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei
filosofi, avea per C i cerone il valore di una prova scientifica, come testimo
nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei
la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo,
e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati
solenni e infallibili del senso comune. • Sennonchè, mentre nel secondo libro
de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con
futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di
scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando nel
terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa
dall'autorità edalleparolediCatoneUticense.E invero,qualunquevolta a mostrare
la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui Zenone fondava
la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente dell'animo umano e
degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita, varrebbe soltanto
ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più generali, ai sommi
principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio avea fondato la sua
dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del l'ordine naturale,
espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura. Πρώτος ο Ζήνων... τέλος
είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene Laerzio; e in quella
sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia del l'insegnamento
socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo notammo più addietro,
che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un esame parziale e
meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale offriva un assai
più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale dell'Etica
degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del bene in
attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di quella
dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame psicologico
delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione totale
dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a
quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso,
nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le
cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di
causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la
notizia del bene, alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose
che sono secondo natura (L. III, C. X. 33). Laonde dal concetto del bene come
d'un che ideale, assoluto e simile soltanto a sè 121 122 s t
e s s o, v e n i v a p o i il c o n c e t t o d e l l a v i r t ù, a l q u a l
e l o s t o i c o saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che cos'era
l'onesto? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza dell'atto
umano colla natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi dicevano,
avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento pratico e
razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo
l'infanzia,che è quella età in cui le prime cose conformi a natura (prima
nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime
inclina zionidellanaturamovevailprincipiodell'operare,ma non però quelle
cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era
vero in parte, m a nel l ' e s a g e r a r l o s t a v a il v i z i o f o n d a
m e n t a l e d e l l a m o r a l e s t o i c a; l'esagerazione poi consisteva
in considerare l'atto m o rale come avente a fine sè stesso, niente altro che
sè stesso, nell'astrarre da ogni condizione esterna della vita privata o
civile, e da quell'armonia che intercede tra la ragione e gli affetti, onde il
libero volere o è condotto o conduce; nel porre in petto al sapiente quella
virtù fredda, impassibile, solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come
immobile quercia radicata nei macigni delle Alpi. Se poi si considera più
addentro nelle ragioni isto riche del sistema, il concetto eccessivo della
virtù ci p a lesa un vivo contrasto della morale stoica coi tempi. Qual fosse
il secolo di Zenone facemmo vedere più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel
secolo un uomo di gagliardo volere e di generosi propositi, che ponga mano alla
filosofia coll’intendimento di fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine
più alto,subito si capi sce come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla
ignavia dei tempi, la vita del saggio dovesse sembrare una lotta continua della
ragione innamorata del bene cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi,
colle ree c o stumanze civili, e l'onesto una perfezione quasi supe riore
all'umana, e conseguibile solo da pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro
terzo; Kuehner e Thorbecke passim.) Esponendo e confutando i
principj più generali della morale stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno
a questa materia le opinioni del filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in
qual modo egli svolgesse le proprie dottrine morali in contrapposto alle
dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del bene supremo da lui
combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a pensare un più vero e
men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non v'ha forse
luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente dell'inge gno
speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il suo metodo
delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non divisibile
dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo dalle idee più
comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle dottrine del Portico
colle necessità e cogli usi della vita civile (Capitoli VII, VIII, IX),
procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma nei
fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da
un metodo rigoroso d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico delle
dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto; nè
sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero
alKuehner,qualorasipensiche Cicerone,traisistemi maggiormente seguiti a'suoi
tempi, preferiva ad ogni altro lo stoico, e che inoltre la storia moderna della
filosofia riassumendo l'esame di lui sulle dottrine m o rali del Portico,
solennemente lo confermava. In prova di ciò Enrico Ritter, più volte citato,
considerando l'idea che del saggio s'erano formati gli Stoici, e su cui fonda v
a n o l a m o r a l e, v i s c o p r e il p r i n c i p i o d ' o g n i l o r p
a r a d o s s o, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo; poichè, se
da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto intendimento civile,
ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della vita e dei doveri
affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in greco quella
parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni causa esterna
che turbasse la tranquillità 123 -. del suo spirito. (Ritter,
Morale des Stoïciens, T. III,
pag.540.)Questaeraun'ambiziosaostentazionedelsommo bene,così la chiama ilnostro
Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che faceva privilegio
della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità del senso comune.
Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto il volgo,
mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e corpo,che visono
nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a poi,avendo fatto
nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà, designarono per modo
la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse soltanto,ma fosse
unica parte della umana persona.(C.XII.) E qui è notevole davvero come ricercando
il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio stoico del bene
supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e scientifico
della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un concetto
positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le forme
irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi dalle
contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma
procedepiùinnanzi,indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento
diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo
differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto,
l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice
Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la
possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è
un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le
distingue, le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine
dell'umana virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle
essenziali e ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo
avvicinarsi al concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e
somiglia all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata
la statua per ridurla 124 125 poi a compimento colla virtù
del proprio scalpello. « Ut Phidias potest a primo instituere signum idque
perficere, potest ab alio inchoatum accipere et absolvere,huic similis est
sapientia: non enim ipsa genuit hominem,sed accepit a natura inchoatum. Hanc
ergo intuens debet institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura
homi nem inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea
absolvi et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum
ingenii quemdam, id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute agere:
rationis enim perfectio est virtus: si nihil nisi corpus, summa erunt illa,
valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ
ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum
enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse
occu patum, alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias
adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant,quod sitextra nostram
potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus
nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque
animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in
quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat
vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli
gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem
amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium, multa
prætermittentium, dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta senten
tia.Atveroillaperfectaatqueplena eorum,quiquum de hominis summo bono
quærerent,nullam in eo neque animi neque corporis partem vacuam tutela
reliquerunt.» Questa bella dimostrazione, che il Kuehner annovera tra le
dottrine interamente proprie di Tullio (Part. V, cap. 2), e che trascorre con
tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle superiori, ponendo la
legge che governa il sapere a riscontro colla legge dell'uni 126
verso, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della Scienza
Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e
dell'universalità dell'ingegno latino.Concepiva ilRomano lascienzacome un
ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa,
era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava
come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj
gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica,
intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra
la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete
veracemente,tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo
falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era
sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua
natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile
dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che
disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in
tuizione inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo
stoico, che pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze,a un
tratto le a b bandonava per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura
dell'uomo contraddiceva.(Cap.XIII,XIV,e glialtri sinoallafinedellibroIV;c.f.De
legibus,I,C.XVI.) Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m
prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai
principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;poichè,posto
una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen
samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso
venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei;ammesso inoltre
infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle
istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo; da ciò
consegue che la misura per determinare la bontà del m e t o d o d ' u n a s c u
o l a, e il s u o a v a n z a r e o a l l o n t a n a r s i d a l
l'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la pienezza della forma scienziale e
l'integrità della materia esaminata; talchè, dato un degeneramento delle scuole
successive dal principale istitutore, chi prendesse a confutarle richia mandole
ad un esame più pieno dell'umana coscienza, s'incontrerebbe per via diretta
negl'intendimenti del ri formatore. Tale è il caso da noi esaminato rispetto al
filosofo latino. Il principio della morale delle scuole so cratiche è il
conosci te stesso. Ora è noto quale fosse la pienezza e la comprensione del
significato, che il filosofo ateniese dava a quel precetto in ogni parte della
filosofia, e come il sentimento della perfezione ideale, connaturato
all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie pitta goriche,traesse lui,uomo
di smisurato intelletto, a im maginare la virtù costituita da un armonico
concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini esterni, e a conce pire il
cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale indirizzo dell'ingegno greco nei
principj costi tutivi della morale seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno,
giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e
che serbava nell'evento delle istituzioni civili tutte le speranze d'un
avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento del bene assoluto non p o
t e r s i d a r e q u a g g i ù, p e r c h è il b e n e a s s o l u t o è l ' e
n t e i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im
perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo
avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva
nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beati t u d i n
e e t e r n a (Q u o i w s i s S e w. D e r e p. e T h e a e t. ). A r i s t o
t e l e, ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in
cui,perduto il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con
affetto maggiore la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione
del vero specula tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del
pensiero un semplice avviamento all'azione,della politica la parte
principalissima della sua morale. 127 Il concetto del bene, rimasto assai
indeterminato nelle dottrine del figlio di Sofronisco, si bipartisce
dunque nel l'Accademia e nel Peripato; Platone lo congiungeva alla psicologia e
alla dialettica; Aristotele lo ravvicinava alla politica; con che, si avverta
bene, noi vogliamo solo far notare certa speciale prevalenza nella forma
scientifica delle due scuole, non già determinare una essenziale diver
sitàneifondamentidellamorale.Chèlapienezzadell'osser vazione interiore, tanto
raccomandata da Socrate, durava lungo tempo ancora nei successori d'Aristotele
e di Pla tone, e fu tra le cause principali ond'essi, concordi con Zenone nel
sostanziale del sistema, ne combatterono il metodo e il concetto del bene
supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei loro istitutori. Da queste
considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente si comprende come il
pensiero dell'oratore latino s u l l a t e o r i c a d e l b e n e m o r a l e,
c o n s i d e r a t o s o t t o il r i s p e t t o semplicemente speculativo,
sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un
testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più
generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e
sofistiche,aiverisupremicostituentilascienza.Da que ste considerazioni esce
anche nuova luce sull’intendimento a c u i m i r a il l i b r o D e f i n i b u
s. Q u e s t ' o p e r a è d i u n a s i n golare importanza per la storia
della scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di
mostrare e chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo, si
valse del metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe
dirsi ab absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria;pose
cioè più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di
contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al
concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando ilSocrate
del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino
a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che
signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo
libro confutava Epicuro mostrando quant 128 fosse difettivo
il suo principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se
nel terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico
richiamava i filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere
soverchio del principio spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel
quinto libro intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Antica
Accademia e del Peripato. Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza;
vi si studia l'uomo dai primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su
fino agli albori della vita intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto
primitivo della conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in
affetto,e quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco
coll'apprensione più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue
dagli altrianimali,simuta inconoscimento;vis'insegna come debba la filosofia
tener conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e
spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri
flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io
leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni
critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con
ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un
misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre
investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma
integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici
nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva
dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio.(Vedi riassunto e
citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di G. R.
Thorbecke,e inquelladelKuehner,Part.V,4,5,6,7, 8,9,18,19,20. Vedi pure per ciò
che risguarda ilconcetto di tutto il trattato l'importante dissertazione di G.
Carlo Hinkel:D e variis formis doctrine moralis Peripatetico rum usque ad
Ciceronem,earumque cum cæterarum scho larum placitis comparatione.Marburgi
Cattorum, 1839). 129 9 130 Il concetto scientifico della
morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin qui,comprendendo nella sua
pienezza tutti i principj costitutivi di quella dottrina, e unificando in un
termine superiore,che era l'integrità del soggetto u m a n o, le contradizioni
parziali delle scuole, dà luogo a risolvere una delle più importanti questioni
mosse dagli storici sulla morale dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in
qual modo, concorde coll'antica Accademia e col Peripato nei principj supremi e
nel l'idea del bene e della virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che
avevan per fine determinare il contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle
relazioni civili,egli se condasse talvolta gli Stoici la cui severità,
civilmente con siderata,glipareva un argine saldocontrolastraboccata corruttela
dei tempi. Procedendo con tal criterio, i libri attinenti a questa parte
soggettiva della morale appajono informati da un solo ed unico disegno di
scienza,e ven gono distribuiti per classi in ordine al metodo e agli in
tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini, la quale tiene la parte suprema
dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e discorre del bene e della vita con fine
immediatamente scientifico, scendono conforme a questo principio le Q u e
stioni Tusculane, e il libro dei Paradossi.Manifestano un fine positivo o
d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute Tusculane,dove in mezzo ai
precetti stoici,esposti nella maggior parte dell'opera, traluce l'intendimento
di offrire, in tanta corruttela delle pubbliche istituzioni e dei costumi
romani,un alto esemplare del saggio,capace di volgere le menti a studj più
generosi; e divisa la filosofia in più questioni (loca),si prende in ciascuna a
ribattere le istanze proposte col metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice
esercizio di metodo forense rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la
morte di Catone Uticense prese a lodare secondo i principj stoici le virtù
dell'amico, e mostrò agli studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di
filosofia, il più remoto dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un utile
esperimento dell'in gegno oratorio. « Ego vero (così egli dice nel
Proemio) 131 illa ipsa quæ vix in gymnasiis et in otio Stoici
probant, ludens conieci in communes locos.» 3. Insino a questo punto, esponendo
fedelmente l'in dirizzo delle indagini speculative di Cicerone nella con
troversia intorno al bene supremo,noi paragonammo volta per volta le sue
opinioni coi principali sistemi contem poranei. Da quindi innanzi procederemo
con metodo di verso e più spedito, giunti a parlare di quella parte della sua
filosofia, dove egli si avvenne a minori opposizioni,e dove la sua riflessione
era soccorsa più largamente dalle idee nazionali e dai principj del Diritto
romano. mente la parte soggettiva della morale,che,come vedem il fine
dell'operare affetti e nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani, e
col riscontro di Tullio non lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza
alla riflessione più che altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai
dalla scienza, potea far velo al giudizio; separabile o perchè la discordia
senza metodo più ragione i problemi e le controversie.Ma con si governa sicuro,
e con più evidenti da sottili argomenti, offriva ai tempi esaminatrice.Forse
perchè in quella oggettiva della nella quale egli,esaminate tendenze,el'istinto
filosofale sulla umano,ilfomite delle sette vi avea moltiplicati principj
morale di Cicerone la parte, ossia quella parte le naturali felicità, e ciò che
per rispetto del della l'adempimento bene e alla suprema universale della legge
e del dovere. E proprio feconda speculazione va dal soggetto all'oggetto
dall'esame e conoscitive eterni, tanto più, come chi senta del fine, si leva al
concetto idealità anche in, che quanto più il nostro questo è im fatto notevole,trascende
minuto delle potenze affettive alla contemplazione per la via della scienza
degli intelligibili animoso procede della valle a una alleggerirsi vista
interminata il respiro uscendo dal basso teorica della della filosofia di
pianure e di mari. La e del dovere è dunque il fondamento legge civile di M.
Tullio; e certo a questa chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E
vera degli,perquanto nella piega a noi costituisce tempi di pensiero il
sensibile,e passa 132 principj morali da cui ella è desunta,e dove
il pensiero del filosofo latino si ferma per rinvenire le armonie più remote
della scienza morale colle dottrine dello stato e della vita politica, conviene
attribuire quella pienezza di speculazioni largamente intrecciate all'esame del
mondo e dell'animo umano,onde il libro delle Leggi riassumendo le teoriche
civili,si rannoda da un lato col dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e
dall'altro cogli Officj e col libro della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente
il pen siero del filosofo romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo
come dell'umana famiglia, e la filosofia civile nelle sue più remote
congiunzioni colle altre dottrine, muovono, come due maestose riviere di fiumi
perenni, da quel fonte immutabile, che è il concetto della eterna legge. Le
dottrine della filosofia civile di Cicerone furono da molti anni soggetto di
lunghe e diligenti ricerche in Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto
che su questa più che sopra qualunque altra parte delle sue opere forniscono le
biblioteche copiosa materia di lavori storici, critici e dottrinali agli studj
dei commentatori e dei filo sofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine
posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di
disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile,
applicandovi l'esempio di R o m a e i larghi principj della Giurisprudenza e
del d i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti
ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare,più
acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via
di rigorose indagini speculative. M a niente è più contrario a questa opinione
quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo
dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente
inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito
coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: «
quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter
interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare
questo trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti
ad un fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta
questione, non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone,
e risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno
ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente
importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e
un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo,
non debbo lasciare indietro come dal 490,età della prima guerra cartaginese, al
628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e
all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la
repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco
a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e
capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo
rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del
giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito
l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a
grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio
che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni
civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale,
dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva
disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella
moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico
riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto
secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le
consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio
dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della
morale stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi
nava in forma di scienza; non già che molte massime 133 134
generali delle XII tavole e dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della
filosofia, e che l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse
impulso efficace al l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un
difetto,antico nella costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le
leggi, spesso occorreva di rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori,
onde, al dire di Cicerone, si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le
opere dei Giureconsulti, che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle
massime e delle questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a
sistema con universalità di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente
ai bisogni civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui
Cicerone scriveva la Topica,eaRoma epertuttoildominiodellarepubblica s'era da
un pezzo largamente propagato lo studio della filosofia e delle lettere
greche,l'ingegno romano già esperto nell'esercizio della logica, e maturo
all'abito della rifles sione interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di
scienza alle discipline del giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che,
per testimonianza di Cicerone,vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da
studj profondi di filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si
parla con molte lodi nel libro De claris oratoribus (XLI); e dopo lui il nostro
filosofo, al quale chi legga il libro delle Leggi non può negare il merito
insigne di avere meditato una riforma del giure, desumendone l'origine,come
dice egli stesso, dall'intimo della filosofia, e tentato un codice del diritto
pubblico per sopperire al bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a
principj universali e a dise gno ordinato le sparse discipline del Diritto
romano. (Libro I, e sey.) Ma questo stesso proporsi una riforma del giure e
meditarne l'ordinamento scienziale, chi non vede ch'era già nella mente del
nostro filosofo un naturale appa recchio all'indagine speculativa dei principj
morali? L'oratore latino a cercare che cosa è legge, mosse,come i giureconsulti
odierni, dalla considerazione di due rispetti nei quali la legge
può meditarsi, cioè in quanto ella esiste nel fatto come regola coattiva delle
azioni, ovvero in quanto ha una ragione d'esistere,o vogliam dire una origine
razionale (Forti). Ei risguardò di preferenza il secondo rispetto, e cercando
nella sua definizione l'ottimo ideale, « si rifece da un gius naturale
anteriore alle leggi, variabili secondo il volere dei legislatori,norma
razionale al paragone della quale si potesse distinguere la legge buona dalla
cattiva, che in sostanza è una violazione del giusto sostenuta dalle forze
della società. Questo termine di confronto delle leggi civili lo ravvisava
nella legge di natura,ossia nella somma ragione dell'economia che gli dèi,
signori dell'universo, avean posta nel governo delle coseumane.Da
questofontederivavalagiustiziaassoluta ed eterna, che definisce il bene ed il
male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni degli u o
mini.Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte egregiamente, non può
star separata dalla credenza reli giosa in un supremo legislatore cui sia a
cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e le proibizioni di questa
legge suprema sono noti agli uomini, secondo Cicerone,per natural lume di
ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi e consultare la coscienza.
Laonde è da considerare sapientissimo il detto dell'antico savio, c h e p o n e
v a a f o n d a m e n t o d i s a p i e n z a il c o n o s c e r s è s t e s s
o. Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole,e va
persuaso che la società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio
che gli uomini tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore
comune,che tutti ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco
Forti, nome caro alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel
I libro delle sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io
lo citai augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino
porgesse materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto.
Tra le cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in
primo luogo da annoverarsi 135 136 l'incertezza del vero
senso del giure per la moltiplicità delle massime,deglieditti,delle
leggi,degl'interpretanti, onde spesso si perdeva il significato filosofico e
morale nella aridità delle formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il
ricondurvi le umane menti;poi una ragione politica che voleva richiamate ai
principj morali le libere istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole
greche, e specialmente alla Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir
fatale all'Etica e alla Giurisprudenza, fon data com'era,non già
sull'osservazione interiore o sopra un vero criterio scientifico, m a sui
deboli artifizj della dialettica e del sofisma (Lib. I, c. IV, e XIII). Ora si
consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto del filosofo
latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci mena a poco a
poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini intorno alle
leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco considerata i critici
e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo notammo più innanzi) ci
porge ampie e innegabili testimonianze di questo tornare della riflessione
all'esame della legge morale e della genesi dei sommi principj che ne derivano,
e si manifestano all'intelletto fecondi d'innumerevoli attinenze con qua lunque
parte dello scibile umano,ogni volta che le dot trine dei sofisti pullulate
dalla profonda corruzione civile e dall'intepidire del senso morale, ponevano
il bene ed il giusto nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca
dell'interesse. In quei tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima
delle quali è per certo il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei
sommi prin cipj,gl'intelletti più alti,nutriti nella meditazione e negli studj
dell'antichità, mossero la riforma morale da quella relazione chiarissima e
primitiva che intercede tra l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta
nell'energia dell'im perativo morale.Questo intendimento di opporsi allo scet
ticismo coll'esame della realità oggettiva del supremo concetto di legge,è
manifesto nelle teoriche del Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi,e
dettò le pagine più 137 eloquenti di quel famoso libro che
s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene l'affermare,come essofa,chelamia ra
gione è un che d'imperativo, che la mia volontà vi si sente soggetta, e che
quindi m'accorgo che quell'impero è universale e viene da Dio
legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato assolutamente contrario al
si stema della scuola critica e alle dottrine del filosofo di Conisberga. M a
poichè in questo luogo facemmo espressa menzione del libro della Ragione
pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in un paragone per certo
singolare e inaspettato delle dottrine di due differentissimi ingegni. Il
filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine del C a r tesio, e seguace,
benchè inconsapevole, dello scetticismo d i D a v i d H u m e, il K a n t c h e
n a c q u e il 1 7 2 4, e v i d e n e l l a seconda metà del secolo XVIII i
primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione fran
cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di
trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in
sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina,
oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza
immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di
edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza
è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere
mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta.
« Pel Kant (osserva giustamente il Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice
di sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e
quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima,
onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità
ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita
(perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente
delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea.....
Cotal dovere e cotale legislazione as soluta che emerge tutta ed
unicamente dall'umano sub bietto,appare nel Kant (se è lecito dirlo)più
contradit toria assai che negli Stoici antichi e nei moderni panteisti
germanici.Imperocchè appo entrambe le scuole la volontà e libertà umana si sustanzia
in ultimo con la divina e assoluta. Quindi nelle loro dottrine morali
ricomparisce la contradizione perpetua d'identificare azione e passione, finito
e infinito e così proseguì;ma non vi si dee ravvi sare cotesta forma
particolare di ripugnanza tanto più deplorevole quanto la scienza morale à un
carattere sacro e interessa il genere umano e la vita civile più che altra
disciplina quale che sia. » (Confessioni, V. I, Lib. II, pag.294,95.) Tale è
pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del Kant
e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla natura
come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro ch'egli,
seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali l'intelletto
umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle Leggi avrebbe
dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura infinita del
precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta ammessa questa
dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione trascendente e as soluta
dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne che la ragione
perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene, s'impone alla
mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi sia
mediocremente versato nella storia della nostra scienza c h e l ' o r a t o r e
r o m a n o, il q u a l e r i f i u t a n e l l i b r o D e f i n i b u s la
parte soggettiva della morale del Portico,come il su perbo concetto del
perfezionamento umano,l'indifferenza ai beni esteriori e l'eguaglianza delle
imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi ne accettò pienamente la parte
oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i concetti dell'obbligazione e
della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo platonico e stoico
accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e coll'effi
138 Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal
domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e
spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro D e legibus, fu una
ferma opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di
legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a
rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro
siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione
dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale
giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che
allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e
contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina
stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj,più tardi usciti
a fondamento della sapienza cristiana. 139 cacia trascendente di quella
virtù onde si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante
quesito di storia della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino
propose giammai nettamente innanzi all'esame della sua riflessione questa
controversia da cui dipende il principio costitutivo dell'obbligazione e del
bene m o rale; e se chiese a sè stesso come potessero mai conci liarsi
l'identità di natura tra l'intelletto divino e l'intel letto dell'uomo con quel
sentimento di soggezione assoluta che in noi s'accompagna all'impero della
legge morale. Un'altra prova di non lieve importanza è altresì la dif ferenza
notevole che corre tra i libri fisici e morali del filo sofonostro.In
quellieglidubitailpiùdellevolte,e,meno che nei principj fondamentali,segue
irresoluto leforme della Nuova Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e
le sue conclusioni rivelano sempre una maravigliosa armonia del sentimento
colla riflessione speculativa. A l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti
correlativi di Dio e dell'anima umana e del libero arbitrio,assai inde
terminati nel De natura deorum,nelle Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli
Accademici primi,qui nel libro 140 delle Leggi profilano più
nettamente le loro fattezze,e ne discende ordinata e architettata nelle sue
verità uni versali tutta quanta la scienza.Il concetto di Dio sopra ogni altro
giunge in questo libro ad un'altezza scono sciuta alla maggior parte dei
filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume delle tradizioni romane come
inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto impera,e veste idue
caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del Gioberti, ne
costituiscono le origi nalifattezze.L'indaginetullianadellaleggesuprema pa lesa
poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta a capo
di tutto ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro delle
leggi particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse
apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in
sè due rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome
idealità suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè
imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che volgendo
le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità morale del
l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di legge si
offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e assoluta,e come
un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto nell'ordine della ra gione
le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque concepiva quella nozione
come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè l'assoluto è divino, e la sua
idea si palesa partecipata come luce dall'alto nella perfetta ragione
dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata nell'animo la notizia di
Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta ed arcana dell'assoluto
nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est quidem vera lex recta
ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans, sempiterna, quæ vocet ad
officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ tamen neque probos frustra
jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando movet.Huic legi nec abrogari
fas est neque derogare ex hac aliquid una licet neque tota
abrogari potest,nec vero aut per senatum aut per populum
solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres ejus
alius,nec erit alia lex Romæ, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et
omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit
unusque erit communis quasi m a gisteretimperatoromnium
deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se
fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si
cætera supplicia, quæ putantur, effugerit.» (Cic.,lib.III,De
Repub.,XXII,33,riportatoda Lattanzio
Instit.div.,1.VI,cap.8.)Stupendadefinizioneèquestadel principio regolatore
degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di
una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj
dell'Etica romana. Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del
Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi
ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con
tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana
ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva
alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e
dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò
era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui,ilquale movendo dalla
coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo stesso
principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche;
siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine
superiore e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine
universale delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo
nella ragione informatrice del sistema di Emanuele Kant, e degli altri critici
e razionalisti moderni. In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro
stesse parole) non esce mai da se stesso,non coglie la realità viva e concreta
che è pre sente all'intuito, nè anche, dico, in questa parte della 141
- filosofia de'costumi, dove la mente afferma ogni volta per
ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto morale assoluto
dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque la filosofia soggettiva
un punto stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta dell’edi
fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non avendo
corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire per
necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il
Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai
principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza
seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono,cap.III.) Questa
nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata
dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che
illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente
che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri
fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della
scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso lo
avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto
all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione
dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia
più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa
l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile,
necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni
gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo;
egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad
accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge
nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore,
solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e
inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi
dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla 142
vita. L'uomo dunque è primitivamente simile a Dio;simi litudine che può
vedersi dal fine a che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede
a conseguire quel fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del
mondo in suo beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del
conoscimento ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe
oscure nozioni di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento
allascienza:Diede anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la
natura intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra
per l'uso del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione
del l'antica sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse
profondamente scolpita l'effigie dell'animo. 143 Sarebbe lungo il seguire
M. Tullio in questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli
trasse dal concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere
dottrine, più tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole italiane,l'autorità
assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio provvidente, l'idea
dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella grande città in cui
l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme nella universale comu
nione degli spiriti eterni. (De leg., lib. I.) Esaminata la legge nel suo primo
rispetto,vale a dire in quanto essa è obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna,
il filosofo latino passa a considerarla come un principio universale, che si
dispiega al di fuori di sè stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune
dell'operare agli umani intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del
concetto di legge nella somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che
a significare tutta quanta la umana specie vale una sola definizione,e
principio del consorzio civile è la comune e vicendevole partecipazione del
giure. « Non est enim (egli diceva) singulare nec solivagum genus humanum.»
Quindi esce altresì nel primo della Repubblica la bella definizione della
città, fonda mento alle sue dottrine politiche: « est igitur respublica
144 Il cardine della morale di Cicerone posa dunque m a n i festamente in
questa dottrina delle Leggi, il cui merito insigne si è di avere volto le
sparse discipline del diritto romano contemporaneo ad un ordinamento più
razionale, e fondata la metafisica e la filosofia civile sopra principj
assoluti di scienza. Questo intendimento del nostro ora tore è tanto più
manifesto,in quanto che egli,dopo spie gata per ordine la dottrina della legge
suprema, assume nel primo libro la questione più tardi agitata nel De finibus,
e contro le dottrine di coloro che il buono misu ravano dall'utile, si distende
a provare la virtù sola d e siderabile per sè stessa, e l'efficacia del buono
venire dalla natura anzichè dalle mutabili opinioni. (XVII, X V I I I, X I X.)
L a q u a l c o s a, m e n t r e è u n a p r o v a d i p i ù per mostrare come
l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità
di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che
supposero di fresco avere Cicerone abbandonato improv visamente la dottrina
dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo peripatetico
nel suo più recente trattato dei Beni. M a innanzi tutto noi d o m a n diamo a
quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione informatrice
delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con fronte sicura
la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due opere v'è
certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi deduttivamente
nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma la diversità
non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni, quando
esaminava quella controversia da parte dell'umano res populi; populus
autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis juris
consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso
primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che
attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza
degl'individui,riconosce invece quell'origine nella comunità di una legge
assoluta e soprammondana. cætus 1 ! soggetto, affermò nella vita
presente non pervenire l'uomo al compiuto adempimento del fine se non svolgendo
e perfezionando ogni parte integrale di sua natura,laddove qui nelle Leggi
salito ad un concetto più universale, m e ditò oggettivamente l'idea del buono
e dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta efficacia indipendente dall'atto
dello spirito umano.Così da questi due larghissimi aspetti in cui può essere
meditata la materia della scienza m o rale, e dove all'intelletto del filosofo
appajono congiunti l'assoluto e il relativo, il contingente e il necessario,
l'anima e Dio,deriva secondo la mente di Cicerone, il vero e più ampio concetto
della dottrina sul buono. 4. La diligente esposizione impresa da noi degli
scritti del filosofo latino ci ha condotti,come avranno osservato i lettori, a
trattenerci alquanto intorno alla parte specu lativa delle sue dottrine morali,
e segnatamente intorno ai due trattati De finibus e De legibus. La qual cosa
abbiamo fatta coll'intendimento di porre innanzi agli occhi degli studiosi i
principj fondamentali e il disegno scien tifico dell'Etica latina,esposta da
Cicerone,sembrandoci che questo esame fosse stato assai leggermente condotto
sin qui dai critici precedenti, i quali o tenerano Cicerone in luogo di un
eclettico e di un moralista positivo e spe rimentale, o non facendo professione
di filosofi, conside ravano nei suoi trattati meglio la parte istorica e lette
raria che l'intimo nesso e il metodo speculativo delle dottrine.Eppure convien
confessarlo) questa critica preoc cupata e parziale è sommamente contraria alla
giusta estimazione dei libri speculativi di Tullio.Per essa avviene che i
principj e la unità delle sue dottrine morali ci ri mane ignota per sempre; ci
sfuggono le più alte indu zioni che il grande oratore e i Giureconsulti
adoperarono intorno ai pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza
ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti
riconosciuta,se il filosofo morale non ne rintraccia i principj nelle
speculazioni più remote intorno al vero ed al buono. 145 10 Premesse
queste osservazioni, veniamo ora alla parte positiva dell’Etica
tulliana, nella quale ci terremo più brevi secondo è richiesto dalla natura
principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine che si contiene nel
primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio dai supremi principj
speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e
di vicendevole comunanza del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè
l'efficacia trascendente del precetto morale, e riconoscendovi un impero incondizionato
che si dilata nell'universalità del l'umana famiglia, si sente stretto
all'osservanza degli officj religiosi, individuali e civili. Officio dunque
(così lo domandavano le scuole socratiche) è illibero conformarsi della virtù
all'impero della legge morale. E importa assai determinare il significato
scientifico della parola, perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha
tanta parte nel sistema del Portico,mentre discende immediatamente da quella
del dovere (considerato nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi
peculiari rapporti che la connet tono colla parte più positiva della scienza
morale. Due specie d'officio distinguevano gli Stoici.L'officio retto o
perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in colui
che abbia ottenuto l'ultimo grado del perfezionamento morale;e l'officio
comune,o m e dio (2997zov uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù
agli obblighi della vita privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un
fare da persona dab bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone
nel suo trattato, da tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse
scientificamente l'officio.IlManuzio eilFacciolati difesero Cicerone; il Lilie
con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa quella
definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e ilGrysar avvisavano avere Cicerone
definito soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare espressamente nel
suo libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium officiumidesse,quodcur factum
sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie, Comment.de
Stoic.doctrin.mor.ad Cic.libr.De off.,1, 146 147
p.30;Kuehner,p.237;Fran.Binkes,Responsio ad quæst. juridicam etc., Franeq.,
1818, pag. 11; Prolegomena ad Cic.libr.De Off.scripsit,C.I.Grysar,Köln,1844,
pag.33.) Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla
natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose
l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni
potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei
beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare
l'uso della vita; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè
mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o
sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del
presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico
moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que
che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino
un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si
solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra
tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima
che cosa è il bene nell'umano soggetto (D e finibus), si leva alla nozione
oggettiva di legge (D e legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più
remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis,De republica,De
amicitia,De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna
tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto
tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano
i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera
semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è
vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione
stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore
si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura
dell'uomo,ma l'intendimento primo a La gentilezza degli Attici
educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi, e
dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi
direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e
armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava
all'invisibile bellezza degli animi. M a in R o m a dove ogni istituzione fu
vôlta sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo
stato, e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi
domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi
nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le
azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale
che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette
della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi
convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli
Officj la conside 148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e
Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to *nava per l'ultima
volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio
in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo
proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina
che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti
nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di R o m a. Tale è la dottrina
del decoro (Tpétrov), esposta nel capi tolo XXVII del libro primo.
Cicerone,osserva acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza
degli Stoici: crcpovovaysoró 2.016;ilsolobuonoèbello,collepa role: quod
honestum sit,id solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora
questo diverso concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che
più volte ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò
forse maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano, si
spiega assai facilmente ricorrendo alla Storia. rava in un rispetto
quasi esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella
luce esterna di onoratezza, onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione
della pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e
officiis, mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue
parti più sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino seguì
liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj,
adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come
portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in
gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto
ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il
combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte
più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la
nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della
politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse
dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone
al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem
prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi
dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia
contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da
uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè
dee far maraviglia che fosse cosìa chiconsidericomeildisgiungersidellamoraledalla
scienza di stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e che
tutto allora in R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito,
cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni
cosa e divina poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori.
Nel terzo libro, discorse le attinenze della politica colla morale, passa il
filosofo latino alle attinenze della 149 umana morale colle
altre scienze sociali, la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di
Tullio, a sempre più smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure
consulti romani le tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come
la giurisprudenza latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo
di scienza con norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine,
desumeva da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra Cicerone
citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite
con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge.La qual cosa
apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite
alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e
della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro
nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII
Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al
metodo di Cicerone,che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le
verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza
d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile
voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il
libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo
e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità
del senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano
sciolti pagando, nè r e s t i t u i v a il d a n a r o; e p r o r o m p e c o n
m o b i l e s d e g n o: p i r a tarum enim melior fides quam senatus ! Il De
officiis accolto nelle scuole d'Europa sino dal primo risorgimento delle
lettere antiche, e stampato per la prima volta a Magonza il 1465, levò di sè tanta
fama da affaticare per ogni tempo l'acume degli eru diti e dei commentatori. Un
esame critico di questo trattato, che Paolo Janet chiama « il più belmonumento
filosofico della letteratura latina, » fu recentemente pro posto dall'Accademia
delle scienze morali e politiche 150 151 di Francia,e ne
usciva nel 1865 il libro del signor Arthur Desjardins col titolo: Les devoirs,
essai sur la morale de Cicéron. In quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e
di larga dottrina in ogni parte della giuris prudenza e delle lettere
antiche,l'autore con utile esem pio, che vorremmo rinnovato in Italia, prende a
esami nare largamente il libro D e officiis, ne mostra le varie attinenze coi
principj supremi della morale tulliana, e lo confronta coi migliori filosofi antichi,
e coi giurecon sulti moderni. È un lavoro di critica larga e profonda, in cui
la gravità del soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E
accresce lode al critico francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde
egli intento solo a conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del
grande oratore, ne osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia
per quel che risguarda i doveri verso Dio,la famiglia e noi stessi, e
rappresentò il De officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si
ragiona dei doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana
famiglia e della carità universale perviene a tale altezza da annunciarci
vicino il grande rinnovamento dell'Evangelo. 5. Dai principj della filosofia
civile e dai precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica
dello Stato. Questafuesposta da Ciceronenel De republica,giudicato
universalmente dai critici come una delle opere le più ori ginali del nostro
autore.Gran parte ne andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e
del se condo libro fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi
avea diffuse largamente le memorie della antichità
greca,legrazieseveredell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita politica.
Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole
egualmente illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e
la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno
dell’Ateniese, poderoso d'in venzione e di veduta speculativa, non intese forse
nei termini del vero le attinenze della filosofia colla politica.
Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità
degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera,
spartita in sei libri, e condotta conlargaunitàdidisegno,ilgrandeoratoreimitò
Pla tone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto si attenne al
metodo aristotelico; e volendo fare opera nonsoloutileallelettere,ma
vantaggiosaallapatriae alle più lontanegenerazioni,incarnòisuoiprecettinelgrande
esempio di R o m a. L a dottrina sui reggimenti civili si r i duce alla disputa
delle tre forme monarchica, aristocra tica e popolare, alle quali egli
preferiva la mista, invo cando le ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta
quanta la storia di Roma. 6. Da queste premesse esce a compimento delle dot
trine morali la disputa sull'immortalità.E qui Cicerone lasciando al tutto le
orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel
problema una vera e compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la
sciata la controversia sui destini dell'anima i panteisti 152 La quale,
mentre ha bisogno per disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere
talvolta ai principj uni versali della natura,non può trascurare per altro nel
l'ordine dei fatti le imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie
d'esperienze infelici per cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad
applicare le istitu zioni alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato
da'Cesare Balbo un metodo razionale, si opponeva l'altro sperimentale
d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto per natura d'ingegno a un
accordo più perfetto della spe culazione col senno civile,e cresciuto alla
scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio più fermo le armonie
delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato
quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo
avea condotto a creare la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj
dei governi migliori, li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne
trasse la sua Politica fonda mento della scienza civile. Ma
ataliprovediragioneedifattoaltreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto
individuale e civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più
grande e di più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava
nell'animo un vivo desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui
vita consacrata alla patria nelle scienze,nelle lettere,nelle arti,nei p u b b
l i c i n e g o z j, li r a c c o m a n d a v a a l l a r i c o n o s c e n z a
d i R o m a. Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas sata
nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto, e
seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea udito
favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa
nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e care.La
vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi rivolgimenti,
non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi pendeva l'animo
naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e perchè la sua
parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il ritorno della virtù
e d e g l i a n t i c h i c o s t u m i. P i ù t a r d i l e s v e n t u r e d
e l l a p a t r i a lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la
fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi
memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega
perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere
greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati,e l'abito di
conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega
altresì come la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno
dell’Affricano 153 e dualisti italici e greci, contribuì non poco a
svogliarlo d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è
che nelle Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della
Vecchiezza e dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità
alla coscienza morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al
desiderio, connaturato nell'uomo, del divino e dell'assoluto. 154 e
nel Catone Maggiore, dov'egli imitando il Socrate di Platone, paragonava sè
stesso ai sommi che l'avean preceduto, e si consolava di speranze immortali.
Un'altra occasione, opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo
sulla controversia dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto
affettuosi e mesti pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta
il mese di Febbraio dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso
Astura, là dove avea in animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli
scrisse un libretto che poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava
Consolazione. Su questo libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e
dai pochi frammenti che Cicerone stesso ci conservava,e da quel che ne dissero
parecchj scrit tori antichi,in special modo Lattanzio nelle Istituzioni di
vine,tentarono restituire per sommi capi il disegno gene rale e lo spartimento
delle materie. Francesco Schneider ne ragionava in una sua dissertazione
dottorale del l'anno 1835,dove suppose Cicerone avere trattato a lungo
dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come apparisce in
gran parte dal primo libro delle Tusco lane.La quale supposizione, che
riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di
questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali
di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a
più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo.
CICERONE;LORO PARTE NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA. CONCLUSIONE. 1. Può
sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della
filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o
contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e
finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un
rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual
cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline
scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello
dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe
esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza
d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle
opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più
antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e
del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo
esameeapiùimparzialigiudizj.Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro
supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata
come PARTE TERZA. INDOLE, VALORE SPECULATIVO E FONTI DELLE DOTTRINE DI
I. 156 norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo
spirito umano di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e
dal disprezzo non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti
nell'esame delle opere di Cicerone.E non pertanto al critico che prende in mano
quei suoi scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita
e delle memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà;
non ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo
nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e
quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La
imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e
di buono, che si trova sempre in ogni sistema,mentre costituisce un pregio
capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre
favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso
vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la
legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario
nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è
la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per
definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne
più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola,
e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filo sofia tanto riguardosa e
modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla
Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare fami g l i a r m e
n t e i n m e z z o a g l i u o m i n i. » (M a m i a n i, C o n f., p. 2 4,
vol. I.) Tale è l'indole vera della filosofia di Marco Tullio; e contuttociò
crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro lavoro, come alla
semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente nella parte
morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro poi che
misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle innovazioni,
e giudicano Marco Tullio una povera mente perchè dice egli stesso
di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle opinioni
popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa esercitare
la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno infatti di
quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori de'tempi
loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri,
ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso
e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od
esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La
critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma
estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio
rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol
fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle
cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui
stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali,
concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle,
vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom
posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia
del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore
speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica
assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e
contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di
meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e
svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva
e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi
la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi
de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi
affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro
fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima 157
Cicerone adunque può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne
della filosofia, degno d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per
l'ampio studio delle dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici
più recenti è tenuto a ragione come fonte non principale di storia, perchè
spesso allega testi divisi, e perchè l'indole della sua riflessione scientifica
lo menava non di rado,come Platone,a suggellare del proprio pen siero le
dottrine d'altri sistemi, ogni età debbe essergli riconoscente d'aver campato
tanta e sì nobile parte delle greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e
dalla b a r barie degli uomini. M a d'altro canto, dopo una lettura ben
considerata degli scritti tulliani, può egli negarsi che vi si rinvenga una parte
dommatica, e un esercizio suo proprio della riflessione speculativa? A una
simile domanda ci sembra avere bastantemente soddisfatto nella parte
antecedente di questo discorso coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle
principali teoriche della scienza; e qui facemmo manife sto come un tal metodo
di fina osservazione consistesse per lui nel ridurre ai semplici elementi delle
verità prin cipali i sistemi, e, sceverati gli errori, comporre un'altra volta
quelle verità nell'ordine del sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti
alla scienza ricercava un in gegno universale, e un potente esercizio della
riflessione. La quale,adoperata da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo
condusse a salvare dal naufragio dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine
speculative.In Fisica mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il
finito e l'infinito, il contingente e il necessario, la n a t u r a e il d i v
i n o, l ' e s i s t e n z a d i D i o, d e l l ' u n i v e r s o e d e l
l'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle spi rituali e all'eterne,
l'ordine universale, la eccellenza della - '158 nelle storie che la
critica degli antichi scrittori, segna tamente per opera degli
Alessandrini,fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de'Greci, da
cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi
scritti ai più culti ingegni di R o m a. 159 r a g i o n e, il l i
b e r o a r b i t r i o e l ' i m m o r t a l i t à. I n L o g i c a t e n n e
salda la capacità del conoscimento a cogliere il vero, il concetto di potenza,
i sommi principj della ragione, la evidenza interiore, la distinzione tra senso
e intelletto e il metodo inventivo delle conoscenze. Nella Morale al lume dei
sentimenti interiori e del senso comune ricom
poseilsistemaperfettodiquellascienza,e salendocon metodo induttivo dalle
tendenze e dai fini della natura all'oggetto universale di legge e di dovere,
ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri relativi alla famiglia, all'in
dividuo e allo stato.Veramente se ad un uomo,apparso in quella età quando tutta
la scienza,divenuta un pro blema, si lacerava fra i delirj di una moltitudine
di so fisti, nasca il pensiero di ricomporla a sistema, e riassu mendo
l'impresa di Socrate,raccolga le verità principali in una sintesi vasta; e se
vissuto in mezzo ai pregiudizj di un patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e
di co stumi nefandi, egli invochi a soccorso della riflessione speculativa
l'esame delle antiche tradizioni e delle verità fontali, contenute nella
coscienza del genere u m a n o e nei piùnobiliaffetti,aquest'uomo,parmi,non
sipossane g a r e il n o m e d i f i l o s o f o g r a n d e. L ' i n d a g i n
e d e i d o m m i p r i mitivi e dei sentimenti nella natura e nel linguaggio
dei popoli voleva in Cicerone un ingegno forte e addestrato a meditare, e un
uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido testimonio le
Orazioni, l’Epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo e il quinto
dei Fini e il proemio delle Leggi; che esposti senza preoc cupazione
rettificherebbero d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi libri, e
mostrerebbero com'egli esa minasse con vero criterio di scienza l'umana natura
nelle varie età,nelle diseguaglianze de'sessi,degl'ingegni e de gli ordini
civili, e sino dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli del circo
cogliesse le verità eterne della coscienza nelle manifestazioni spontanee del
sentimento popolare. Parecchj critici di Cicerone,e segnatamente quelli che gli
negano ogni facoltà d'ingegno speculativo,non hanno 160 inoltre
considerato qual uso ei facesse della tradizione scientifica,e come, movendo
dalla coscienza, contrappo nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un
esame comprensivo di tutto il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla
coscienza; e questo fatto dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro
filosofo,ogni volta che egli prende a trattare importanti materie morali, non
può mai andare disgiunto nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece
de'sistemi antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione
del suo metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci
spiega come nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità
informatrice delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri
eru diti avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento
scuole. Certo Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno
speculativo, e quella rara f e l i c i t à d e g l i a r d i m e n t i m e t a
f i s i c i, c h e e b b e r o S o c r a t e, P l a tone,Aristotele tra gli
antichi,e tra imoderni Renato Cartesio, Emanuele Kant e G. Batt.Vico. Il suo
ingegno non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto uni
versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in
architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di
logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli
errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie della ra
gionescientificacolsensocomune,e iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di
scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel che
mirabilmente lo secondavano itempi.Allora,come era avvenuto nel secolo di
Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella
condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso
delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano
al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema
necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli
della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere
alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il
sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano.
Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che Marco Tullio rappresenta
nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della
tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle
speculazioni dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta dini innamorati
della letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo
dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a
n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva
ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine
soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di scrivere.
Come poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un ordine di
pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta la
scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « D i f ficile est
in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut omnia.»
161 Noi dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della filosofia antica a
prendere in più seria considerazione quella sentenza, divenuta pur troppo
comune, che fa del filosofo latino non più che un seguace d'Antioco, e un
modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto in tervallo egli si
lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei può apparire assai
manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di questo discorso. Fra
i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il dottissimo M.
Terenzio Varrone suo familiare, rammen tato nel primo degli Accademici,e della
cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso che
l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana
significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto
accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la
Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien 11
tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per venire
dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro pienezza le
dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile imitazione,
intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra gione al vero
riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il gran problema
(chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale o volgare alla
certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche in una età in
cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno scetticismo quasi
assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e della
patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto credere e
del tutto negare; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della Nuova
Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in mezzo
alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne
sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose
ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò
risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia
naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e
il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e
dello Stato si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con
certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella
successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno
dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo
pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e
nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per
la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente
nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica
dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei
sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto di Dio, che
pose nell'umana ragione,a testimonianza di sè 162 163
stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa
parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col D e legibus e
col D e officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub
blica, e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della V e c chiezza. Esaminando
nella successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del
pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di
ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato
assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle
dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che
inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il
pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione
rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy
(il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero
dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro
oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di
Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e
cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse
unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La
qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il
dialogo delle Leggi. Ma il por mente a questa unità informatrice delle
dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo
delle scuole particolari si risolvesse inun criteriointrinsecodiragione.Quistaildivario
es senziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici.
L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e
infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla riflessione
a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la vera
filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine
senz'armonia e senz'accordo. La
verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno dall'accozzo
fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza un criterio
intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali, apodittici.
La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita nella prima
metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode di avere
spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia nella
nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono tra
loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non
interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti
il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica
trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli
desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo
criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta
un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole
particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse
ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva il
Kuehner, che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano
naturalmente non lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di
varia e multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine
dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato
soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a
interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi
tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti; e infine perchè il nostro
filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o
soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a
determinare il metodo con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva
giustamente il critico te desco che questo metodo si esercitava in tre maniere.
Traduceva egli dal greco, trasportando liberamente in 164 165
latino, tanto (come egli stesso ci avverte nell'operetta De optimo genere
oratorum ) da serbare il colorito e la forza nativa del testo. Nelle altre
opere filosofiche segui principalmente un solo autore, adoperandovi sopra con
libera efficacia di riflessione ilsuo giudizio,e componendo le materie con
proprio ordine di pensieri;ricorse ad altri scrittori ove quello che seguiva
fosse riuscito mancante, e v'aggiunse del proprio.Era altresì suo costume inter
rogare varj libri che avean preso a trattare un m e d e simo soggetto, e ove
fosse stato possibile il conciliarli, trar fuori dalle loro dottrine un tutto
perfettamente connesso ed armonizzato.Quindi,prosegue ilKuehner,è necessario al
critico di Cicerone avvertire con diligenza gli scrittori da lui citati e
accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi grandi monumenti dell'antica
filosofia, che ci pervennero intatti, osservare quello ch'egli trasse dai suoi
maestri,e non piccola luce daranno le congetture assennate e prudenti.
Esposte queste norme più generali di critica, noi non seguiremo più oltre
l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle fonti delle dottrine
tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si allontanerebbe di troppo dal
l'indole speculativa e dai confini di questo scritto,e riu scirebbe inutile al
tutto per noi che non neghiamo avere il filosofo latino attinto le sue dottrine
migliori dall'an tichità greca, è piena altresì d'incertezza e di congetture là
dove i fonti originali andarono perduti, e dove riesce difficile lo sceverare
quanto appartiene all'ingegno del nostro filosofo, e quanto debba invece
attribuirsi all'au torità stessa dei Greci. Del resto, concludendo coll'au tore
della dissertazione, M. Tullio ne'libri fisici, e in special modo nella disputa
sull'immortalità,seguì princi palmente Platone; nei libri logici e nella
questione sul criterio della verosimiglianza e sulla percezione sensitiva,
attinse dal Portico e dalla Nuova Accademia; nei libri morali poi, discepolo
degli Stoici e dell'Antica Accade mia e del Peripato per ciò che risguarda le
dottrine speculative del bene e della legge, nelle materie politi
che e civili seguì a preferenza Aristotele,Teofrasto e P o libio. L a
qual cosa per altro vuole essere intesa discre tamente; poichè, a considerare
bene il metodo con cui egli c o m p o s e i v a r j s i s t e m i, s i v e d e
c h e, s e b b e n e i n p i ù l u o ghi attinse separatamente dagli Stoici e
da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe rare
l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese; il che fece in più
luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo
della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo
ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la
libertà dell'ingegno, con queste parole lo attesta il Kuehner: « Negari quidem
non potest Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus
hausisse; sed græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam
convertit,sed suum ipse iis adjunxit judicium,suum scribendi ordinem,viam
rationemque atque orationis lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii
judiciique dexteritatis Cicero probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e
græcorum philoso phorum monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum
philosophorum disciplinis, ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ
ad fingendos mores sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim
omnino habebant saluberrimam. » (Epilogus). 2. Cicerone dunque, a riassumere il
tutto in poche parole,non fu nè Stoico,nè Accademico, nè Peripate tico, m a fu
vero Socratico con libertà di riflessione e di esame. Come Socrate, egli non
compose un sistema per fetto di cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne
agli estremi resultamenti delle indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via
più sicura;non chiuse tutta la scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi,
d'un'inven zione o d'un fatto; m a assorgendo colla mente alla più feconda
delle armonie scientifiche, che è la ragione m o rale, vedeva in un'occhiata
spiegarsi da quella sintesi l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo
l'ingegno onnipotente dell’Ateniese, la cui efficacia dura 166
da ventiquattro secoli nell'indirizzo delle dottrine specu lative, è
unico esempio, e non mai superabile, nella storia della filosofia.Ma consideri
un poco il lettore, come al filosofo romano,ingegno senza dubbio men vasto e
meno inventivo, mentre si attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse
maggiori,non arrisero altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei
tempi e dei pubblici costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po
polo,qual era quello d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato
da natura agli studj speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e
del per fetto.La gente romana,sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è
certo e applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata
nelle deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli
quei costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente
conciliabile colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi
allorchè l'impero esteso a d u e t e r z i d e l m o n d o, e il v i v e r e a
g i a t o, e l a n e c e s s i t à d i allontanare il pensiero dallo spettacolo
della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i Romani agli studj della
filosofia, la Grecia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni disciplina
civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col facile diletto
dell'imitazione.Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle lettere e delle
scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur v'è nelle
imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgi lio,e che sappiamo esservistato
nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era laservitùdel
pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente per avere
usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente civile,
altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo,
procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri
scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e
maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto.
Amafinio e Rabirio 167 168 epicurei, rammentati da lui nel
libro terzo delle Tusco lane (C. II),e ch'egli dice non averlettoneppure,scris
sero primi di cose filosofiche in modo informe ed incolto. Più tardi Tito
Lucrezio Caro esponeva splendidamente nelpoema De
rerumnaturalafilosofiad'Epicuro;ma tutti questi scrittori, dei quali il secondo
non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non aveano potuto al
certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico di Roma,ristretti
com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente sofistico.Noi
dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter, assicu rando che
soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio uso l'idioma latino;
la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può unicamente affermarsi
dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata, e dove la parola si
porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del pensiero. L'impresa
che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento ch'egli a v e v a f
r a m a n o, il m e n o a c c o n c i o a c o m p i r l a. P e r c h è n o n si
trattava già d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto
Amafinio, Rabirio e Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e
addestrare il giovane linguaggio latino nell'intero ámbito della
scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola più appropriata al concetto, e
ristretto entro i termini d'una lingua non disciplinata ancora nelle indagini
troppo sottili, procedè incerto sulla significazione di qualche frase
scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior parte dei suoi scritti egli
ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e colorire l'idea, e di far sì
che il pensiero rispondesse nella p a rola, come figura bella in limpido
specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli voler dire con favella
ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse, docti et intelligentis
viri (D e fin., III,5), seguì uno stile che fosse egualmente lontano dalla
forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec chj
contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj
chiamò æquabile et temperatum. 8 L'ingegno universale e
comprensivo di Cicerone a p parisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto,
tuttora giovanissimo,inRoma,dove facevano capo le faccende d'Italia e del
mondo,tollerante per natura delle altrui opinioni, e disposto a tolleranza
maggiore dallo studio 1 Intorno allo stile filosofico di Cicerone scrisse con
molta dottrina il prof. Michele Ferrucci, in un suo discorso De singolari
merili di Cice g'one nella lingua ed cloquenza latina, edito recentemente in
Pisa coi tipi del Nistri. 169 La severità della meditazione scientifica è
in lui sempre solenne, m a variamente temperata dall'indole del sog
getto;èsobriol'usodellemetafore;ilperiodo procede ora maestoso, ora interrotto,
ora veloce, ora lento, a se conda della materia,e talvolta (come negli
Accademici) imita il linguaggio familiare, talaltra (come nelle Tusco lane)
sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi considerasse a parte
a parte la varietà degli stili nelle opere differenti, osserverebbe potersi
queste distin guere in più classi (modernamente in più maniere) cor rispondenti
ai varj tempi in cui l'autore le scrisse. Il D e republica e il D e legibus,
appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente occupato nei
negozj pubblici e del fôro, hanno più del carattere ora torio.Gli
Accademici,ilDe finibus,ilDe natura deo rum,scritti nel 709 e 710 di Roma,poco
prima e poco dopo la morte di Cesare, palesano uno studio delibe rato,continuo
della severa forma speculativa; laddove nel De officiis, nel Cato Major e nel
De amicitia t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi
esemplari greci lo avessero condotto al miglior temperamento dello stile
didattico colla forma oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato
dello splendore di Platone, ch'egli chiama il dio dei filosofi, lo seguì non
soltanto nella forma estrinseca de' suoi trat tati, e nel metodo del
dialogizzare, m a improntò sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi
i tratti più belli delle opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti
più solenni delle lettere antiche. 170 imparziale che fece delle
dottrine contemporanee, con trasse per tempo quell'abito universale
d'osservazione, e quel sentimento delle armonie scientifiche, così vivo in ogni
tempo nelle menti romane,in lui straordinario.Cre sciuto intempi funesti alla
libertà,e testimone di quanti esilj e di quanto sangue contaminasse l'Italia la
rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in mezzo allo strepito delle armi e
all'imperversare delle civili discordie appli cava dì e notte con ardore
inestimabile ad ogni genera zione di studj. Più tardi per restaurare la salute,
inde bolita dalla pratica del fôro, si recò in Grecia, dove udì le scuole
migliori, peragrò tutta l'Asia, si trattenne a Rodi,e tornava inpatria
ammaestrato da una larga no tizia d’uomini e di cose,e dalla
famigliaritàcoipiùpre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj del
l'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa
concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi
pensieri.Ne la ragione intima dell'arte sua cirimane occulta,qualora si
consideri nel De oratore, nel Bruto e nell'Orator il significato vastissimo
ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto dell'unità
del sapere, espresso in varj luoghi del D e oratore, e meglio in quella
sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam
societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio
dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si
mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come
uomo di stato, egli vagheggiò la carità univer sale del genere umano, e ne
scrisse mirabili parole negli Offici e nelle Leggi.Giovane ancora,patrocinando
lacausa di una donna Aretina, giustificò le pretensioni delle città italiane
alla cittadinanza romana.Nel suo consolato sven tando la congiura di Catilina,salvava
da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava comporre l'or dine
senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della fazione
plebea.Come avvocato e come oratore politico (così scrive di lui
il Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era
di più bello a Roma e fra iGreci.Per giungere a questo con l'amore e con
l'entusiasmo,che è padre di tutte le egregie cose, coltivò gli studj trascurati
da altri, e con siderando che il poeta e l'oratore dal lato degli orna menti
hanno, com'egli scrisse, molte cose comuni, con esercizj poetici ingentili e
perfezionò lo stile latino. R i cercò i modelli più famosi dell'eloquenza
romana,svolse i Greci,ne tradusse per suo uso le orazioni più belle.Sti mava che
per esser grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere tutte le dottrine
come compagne e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle dottrine dei
grandi filosofi, si arricchì della scienza del diritto, non lasciò niuno studio
da banda; e così apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza romana
ingentilita dall'arte greca, e apparve come splendido esempio dell'oratore
perfetto, di cui mandò a noi il ritratto ne'suoi scritti didattici.» (Studi
storici e morali sulla letteratura latina, Firenze, F. Le Monnier, 1862.) Non è
dunque maraviglia se, dis posto per abito di mente e per disciplina a sentire
l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi ne'suoi scritti speculativi
ilmeglio delle scuole greche,e tornando ai fon damenti e ai principj di tutto
il sapere, vi cercò quel legame unitivo che desse vita e armonia alle sparse
membra della tradizione scientifica.
Seinluidopol'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete riconoscere negli
scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento e
dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi
quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di
famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse
ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in
feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo
sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile
maestoso non senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e
studio 171 con amore,quale un perfetto monumento di sapienza
ci vile,non gli tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come
l'eccessivo potere del popolo che spesso trascorreva in licenza,l'abuso
dell'autorità ne'patrizj,le guerre volte a istrumento di grandezza privata,la
prolungazione degli imperj, idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi
agrarie e sui contratti, la cui promulgazione sciogliendo i diritti di
proprietà e l'osservanza della fede,era un vero attentato alle basi della
società civile.Dalla critica meno benigna si allegano alcuni passi dei suoi
scritti politici in cui parve dimenticare i principj della giustizia e della
moralità l o d a n d o il t i r a n n i c i d i o, t e n t a n d o g i u s t i
f i c a r e c o l t i t o l o d e l l a c i v i l t à il p r i m a t o o p p r
e s s i v o d e i R o m a n i s u l l e a l t r e n a z i o n i, ammettendo
come teorica di condotta civile il cangiar partito a seconda delle
circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo per debito
imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi tempi per
giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo XIX da una
delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose conquiste;e
che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto,l'ha in parte giustificato
nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa sia debitrice
alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale e politica,
già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del Niebuhr,troppo severi in
quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen,furono non ha guari saviamente temperati
in un bel libro del signor William Forsyth, venuto alla luce in Londra il 1864,
e di cui abbiam veduta quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva
sapientemente il biografo inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso
luto,m a a tali difetti rispose in altre condizioni di tempi con una nobile
condotta civile. Ei si diportò da uomo e da cittadino nella congiura di
Catilina, e nel finale c o m battimento contro il triunviro Antonio.Chè se non
sem pre fu pari agli avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne
coraggiosamente l'esilio, e restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte
di Cesare e quella di 172 173 Pompeo,bisogna considerare
quanto difficili tempi fossero quelli a chi, come lui, non avea mai patteggiato
colla coscienza, e riconosceva nella religione del giuramento, e nella santità
dei costumi civili il principio tutelare delle libere istituzioni. Questo alto
sentimento del buono,po tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede
sublimità vera alle sue dottrine morali; e ci spiega c o m e nei libri degli
Officj, della Repubblica e delleLeggi egli desunse i principj fondamentali della
filosofia civile dal concetto più puro dell'onesto e della legge; e vissuto in
tempi nefandi intese a conciliare l'interesse dell'utile pubblico colla
giustizia assoluta, nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato,nel
possesso, nella legislazione e nei diritti di guerra e di pace. · Tale pure è
l'opinione esposta dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla
politica di Cicerone, stampati nella Rivista de'Duc Mondi. Corre adesso
in Europa un tempo assai propizio alla critica degli scrittori latini.Invero
gli studj che accompa gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti
che, mossi da curiosità e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa
dei tempi di mezzo sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una
giusta eguaglianza fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. M a
tal difetto venne largamente emendato in età più vicina, allorchè da molti si
esaminò solo per negare,e le passioni politiche e religiose fecero impaccio più
volte alla schietta manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo
nuovo ricomporsi d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e
ren dendo sempre più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a
giudizj più severi e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni
della critica odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del
l'antichità latina; non ignorano infatti i nostri lettori che,mentre in
Germania il Bernhardy e il Mommsen giudicarono con molta severità Cicerone, in
Francia e in Inghilterra hanno parlato con bella temperanza delle sue
dottrine morali e della sua vita politica il Desjardins e il Forsyth. Fra
noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo
favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti,
mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen
denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili
studj;e la critica istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella
memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui
venne il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della
filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri
nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio
civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo
oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e filoso fica
faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia
di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora
soltanto le dottrine di Cicerone saranno meglio studiate e apprezzate, e la
natura comprensiva dell'ingegno romano,dicuiegli fu esempio solenne, ci
apparirà come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglieva la coscienza dei
popoli antichi.Giacomo
Barzellotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688392822/in/photolist-2mRLqgk-2mKwwoA/
Grice e Battaglia –
valori italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo. Grice:
“You gotta like Battaglia; he plays with the Italian language in ways I cannot
play in the English language; e. g. consider his philosophising ‘between being
and value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely the thing is the copula: A is B,
A is worth B.’ -- “A e B,” “A vale.” “A
vale B.” – “We cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we
CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.”
Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’
i.e. Socrates has value.’” Grice: “When
I did my linguistic botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never
contrast with Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and
cognate with Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò
la Calabria, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo
percorso di studi. Si laurea con una
tesi su Marsilio da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un
contratto d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse
la cattedra nella medesima disciplina.
Si sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo
bolognese insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto
nella Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna.
Il Comune di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome
la Biblioteca del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi
in diverse branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla
storia del pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in
chiave pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia
quale concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e
diffidente approdo allo spiritualismo.
Con i sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica
della politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non
fosse pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni
contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale". Altre opere:“Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto
naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto”
(La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su
alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio
filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello
stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle
dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia
delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia
del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della
personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e
stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed
uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti dal 1789 al 1795: testi,
lavori preparatorii, progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore
nella storia” (Upeb, Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo”
(Zuffi, Bologna); “Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni
storici intorno al concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro”
(Zuffi, Bologna); “Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré,
Milano); “Morale e storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna);
“Nuovi scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la
metafisica e la storia” (Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina
morale” (Patron, Bologna); “I valori della pratica e l'esperienza storica”
(Patron, Bologna); “Il valore estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi
intorno alla sociologia” (Istituto Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana”
(Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop. libraria universitaria
editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo”
(Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo
storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna
Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla
Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi
dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari”
(Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il
pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia
degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia,
Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30
ottobre 1987), Nicola Matteucci e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB, 1989, . A cent'anni dalla nascita, Bologna, Baiesi,
2002, . Dal filosofo all'uomo, Atti del
convegno di studi su Felice Battaglia (Palmi 12-13 maggio 1990), Giuseppe
Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M. Ferrari, La filosofia
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XI (La filosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M.
Paganini, Vallardi, Milano 199830. G. Marchello, Felice Battaglia, Edizioni di
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pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe
di Scienze Morali, Rendiconti, LXVI,
1977-78 (LXXII), 297–305 (ora rifuso in
Id., Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001, 55–66,
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Scerbo, Felice Battaglia: la centralità del valore giuridico, Edizioni
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Política», Número 5, SFD, Córdoba,,
11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e la "filosofia dei
valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2005, 173-194, 88-498-1264-7. Onorificenze Dottore honoris
causanastrino per uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São
Paulo. Ufficiale dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale
dell'Ordine di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe
civile)nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio
Magno (classe civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica
Italiananastrino per uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della
Repubblica Italiana — 2 giugno 1953 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito
della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce
dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 2 giugno 1959 Note Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del
pensiero politico in Italia, Il pensiero politico, 1987, anno XX, n. 13. Università degli Studi di Bologna, fondata
nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici 1950-511951-52 (JPG), Bologna,
Tipografia Compositori, 195419. Dettaglio
decorato, Presidenza della Repubblica. 27 giugno. Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e
Politica a cura di GIOVANNI MARCHI FELICE BATTAGLIA L'opera di Vincenzo Cuoco e
la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD & FIGLIO -
Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte: S. LATTES & C. Torino.
PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA RISERVATA COPYRIGHT BY R. BEMPORAD & F.',
1925 1925. – Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. DG 848 137 C8B3З CAPITOLO I.
La tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova sè
stessa nella sua storia. Il processo unitario. – L'eru dizione: Muratori. La
filosofia: Vico. Antitesi al cartesianismo. -- Esperienza filologica. -
Italianismo di Vico: De antiquissima italorum sapientia. – Vico impersona la
nuova tradizione: a lui si ricollega Vin cenzo Cuoco. La fortuna di Vico
nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. – Vincenzo Cuoco e i suoi
studiosi. La rivoluzione napoletana del '99.- La cultura rivo luzionaria e
prerivoluzionaria. - Razionalismo, astrat tismo. – La classe colta di Napoli. –
Riformismo go vernativo. Rottura tra Stato e borghesia. Carattere passivo della
rivoluzione. « Le origini sacre della nuova Italia ». Gli storici della
letteratura e della vita del popolo ita liano, che vogliano trattare del
Risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di cause e di effetti,
debbono necessariamente rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo XVIII sono le
scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee che di fatti,
poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo
nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile movimento, ripeto, che condurrà
all'unificazione e all'indipendenza italiana. Mi rabile la continuità della
vita di questo popolo antico M519630 6 d'Italia: i secoli, che ad una critica
occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sappia investigarli
con amore e con coscienza, gravi di preparazione, pon derosi d'esperienza: è
tutta una vita che si prepara, si svolge, sente il bisogno di concretizzarsi,
finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà. È una preparazione lenta
diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di filosofi e di poeti,
di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica ha il dovere di
rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di concetti superiori di
filosofia. È ridicolo condannare alcune età nel corso d'un popolo, alcuni
secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di decadenza, quella età
di fioritura. I periodi storici, le ere, i secoli sono quello che sono con le
loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte, con i loro uomini,
soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare i se coli XVII e XVIII per
il XIX, come si usava sino a venti anni fa, critico spietato, Minosse che
giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, Giosue Carducci. I
secoli XVII e XVIII hanno invece diritto alla nostra ammirazione come i secoli,
in cui i destini della patria si sono venuti maturando, attraverso un rinnovato
fervore di pensiero, di critica, di storiografia, preludio modesto mafaticoso
di opere civili, attraverso un rifoggiarsi, insomma, della coscienza nazionale,
che da universalmente umana tende a divenire più veramente, se pure più
ristrettivamente, italica. È forse, se l'affer mazione non trovasse nella sua
rigidità una smentita nell'oceanica figura di Giambattista Vico, un chiudersi
in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per ritro vare il
particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La storia è
l'esperienza del nuovo spirito, che gradual mente viene formandosi. Il popolo
della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi competizioni
politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato: non più Roma,
ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra, Vienna. Mentre le altre genti si gettano
tumultuose nel 7 fervore della conquista, nella lotta per il predominio, e noi
siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della propria coscienza,
nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere più italiani, per essere
noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi, per sapere il nostro
passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così quell'Italia, che ai miopi
occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra assente tra la seconda metà
del Seicento e la prima metà del Settecento, per riacqui stare vita nuova
proprio con la critica razionalista pre rivoluzionaria, e poi con « gli
immortali princípi » del l '89, è invece viva e desta, sempre, in ogni tempo,
per ritrovarsi, essa stessa, di fronte all'irrompere delle giovani schiere
galliche con un patrimonio nobilissimo di schietto pensiero italico, di
sapienza civile antica, di esperienza politica nuova. Lo storico deve valutare
tutto. La storia della cultura, ben altra cosa, notiamo, dalla storia
dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che rinnega ogni sviluppo che
non sia nello spirito individuale e creatore, ha una sua mirabile continuità,
una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal passato, nel passato si
prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si foggia il futuro. La
storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra gli avvenimenti, se
vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle idee, che muovono gli
uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e non cronaca astratta di
ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo storico deve dunque, se
vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento, salire assai più
indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee che i fatti, poi
che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza conseguenze, che si
spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo, mentre le idee vivono,
germinano nell'oscurità, generano altre idee, seguendo la trama fatale del
corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello spirito, ove si foggiano
gli eventi, rivelano il segreto della génesi de' popoli, il loro assurgere
all'im 8 pero, le cause della grandezza politica. Dietro il fatto sto rico c'è
l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica, lo studioso deve analizzare
nella sua complessa formazione e non rinnegare per i preconcetti del proprio
cervello. La rinascita dell'elemento italiano, particolaristico e nazionalista,
è un fatto estrinsecamente assai prossimo a noi, intimamente preparato da lunga
meditazione, da lunga speculazione, da lunghe ricerche. Una storia vera della
cultura, specie della cultura politica, non può non ricollegarsi al secolo
XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi le origini vere dell'Italia di
oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza, questa nuova italianità?
Nell'angolo della penisola, che per il mo mento (siamo nel secolo XVIII),
guardando in modo sommario la distesa temporale della storia, è il più li bero
dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano, non Torino, non
Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la retorica vuole, per la
corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma per un fatto storico ed
economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale d'Europa ha disertato
le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani, ove le navi venete non
possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della città di San Marco (1
). Torino è più francese che italiana, più sabauda che nazionale. Firenze è il
centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea politica alle città
vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano sola può essere il
centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa col di sastro della
Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo italiano per rendersene
degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta all'influenza straniera,
risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente italiana, è troppo
cosmopolita, troppo mondana. Biso gna che il rinnovamento si inizi altrove.
Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui primi anni (1 ) M.
Rosi, L'Italia Odierna, Torino, 1922, vol. I, p. 13 e sgg 9 dell'Ottocento,
fondendo i due elementi propri della no stra natura: il suo positivismo, più o
meno razionalistico secondo i tempi, con l'idealismo.concretamente storico e
critico del mezzogiorno, per foggiare quel carattere mentale del rinato popolo
italiano, che rifugge così dalla metafisica nubilosa di certe filosofie straniere
come dal materialismo volgare, ritrovando la sua sana vita in tima nel
ponderato storicismo d'una filosofia dello spirito. Napoli, posta dalla natura
nel più incantevole luogo della penisola, arrisa dal cielo e dal mare,
beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa impersona la nuova vita
nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle grandi vie commerciali
dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può custodire il patrimonio
culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio indietro di fronte alle
grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura straniera. Car tesio,
Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la gloria della
filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari nello
sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre? Nulla,
fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso in sè
stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si voleva
donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da noi ed
acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in quelle
città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si imponeva
e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia però non
filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava, ricercava,
spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi polverosi
i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di trascrizione
diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il nuovo
italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il serio
movimento scientifico » scrive Francesco De Sanctis « usciva di là dove si era
arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una
ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle
raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in
vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il
dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli
antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi: erano cri tici » (1 ).
A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il
Gravina; altrove Raf faele Fabretti, Francesco Bianchini, Scipione Maffei e con
essi una vera pleiade di dotti « segnano già questo periodo, dove la scienza è
ancora erudizione e nella eru dizione si sviluppa la critica ». A Napoli e poi
in un remoto paese del Cilento si for mava intanto il Vico. E a Giambattista
Vico bisogna rial lacciare tutto il complesso movimento filosofico politico
meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale
imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore. La
filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi al cartesianismo aritme tico
e razionalista, dall'altra sopra una perfetta consape volezza, sopra un vero
fondamento di ricerca storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al
pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al
cartesianismo, cioè alla filosofia im perante, avrebbe potuto portare il Vico
ad affermare l'im possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza
era la gran cieca fede del razionalismo, e la sicurezza d'una scienza perfetta
nel mondo umano, morale e sto rico. La conversione del vero col fatto (verum
ipsum factum), impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile
nel mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo
creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio,
divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico, fatto dall'uomo, nel
quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la politica, la poesia
perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi (1 )
F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., 1917, v.
II, p. 240. 11 rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel
fatto: a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma
domandiamoci: questo nuovo principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia
dello spirito, quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile
come semplice reazione ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia
pure, come scrive il De Sanctis (1 ), in una forma antipatica e menomatrice dei
suoi studi, ma certo non in maniera del tutto opprimente e scettica? Io credo
di no o almeno credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza
considerare un nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono in
fine il Vico a conclusioni inattese. Il Vico, scritto il De ratione studiorum,
il De antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di
storia antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura
linguistica, di filologia. Dice bene quindi Benedetto Croce che, se pure il
grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al nuovo orientamento della
sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo
stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso
i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e cioè che quella materia di
studio (1) Ecco quel che scrive F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 246. « La
materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana,
antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio.
Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo
e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa
coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha
valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il
mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di
Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine
di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano,
la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più
buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc.
». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di
certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia
da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali,
ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo
posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva
apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze morali
» (1 ). Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le
narri, ivi non può essere più certa l'istoria » (2 ). Il nuovo pensiero
italiano s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se
guente serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età
caratterizzata da una profonda negazione della storia, riaffermando
l'italianismo, riafferma la storia (3 ). Tutta la filosofia dell'autore della
Scienza nova nasce da questa scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa
ricerca storica. La resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo
francese sarebbe rimasta resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico
non avesse potuto superare Cartesio stesso in una nuova visione della realtà.
Solo la gran vita della storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che
sorgono si mutano si sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni
politiche, del di ritto, delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par
ticolari potevano dargli la superba certezza:... il pen siero si fa, il
pensiero è in quanto diviene, in quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è
in quanto noi lo facciamo, in quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze
morali s'aprono a nuova vita. Solo in esse v'è perfetta scienza, vera
conoscenza. « Il pensiero è moto che va da un termine all'altro, è idea che si
fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, G.
La terza, 1911, p. 22. (2 ) G. Vico, La scienza nuova giusta l'edizione del
1744, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza ed., 1911, v. I, p. 187. (3 ) G.
GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizione della Critica, 1903, p. 34
e sgg. 13 natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò
verum et factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive il vero; il
fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è una logica
per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti, una storia
ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ). Ora
ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul
Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore
della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova
filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza
critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es
lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di
ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e
nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica
italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un
linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il
latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia
autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole
epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio
informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica,
trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua
origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza (2).
Ma intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero
italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso
autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno,
dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità
nella tra (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 248. (2) Vedi B. CROCE, La
filosofia di G. B. Vico, pag. 50 e sgg.; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione
alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione,
nella storia. La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani:
trovare lo sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di
quella volontà, di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo
nostro. Dai « rottami dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della
penisola la cultura era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano
francese, non potevano sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli
invece la cultura è storica e filosofica e particolaristica mente italiana,
sebbene pur comprensiva ed universale. Il Vico (1 ) si sottrae al pensiero
europeo, ritorna a Pita (1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso
dallo sfondo comune delsuo secolo è necessario per colui, che voglia studiare
il secolo XVIII, in cui senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del
nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain, autore
di un dotto Étude sur l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750
environ (Paris, Hachette, 1909), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi
(carducciana tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito
nazionale durante un periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa
visione parziale del fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del
secolo XIX? Dobbiamo crederla davvero, mancando una tradizione italica, una
fioritura estrinseca, mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima
e romantico -germa nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di
prepara zione metodica, e in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene
al pensiero di chi legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed
interessante. Questo venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica
recensì nel 1910 l'opera del Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi
vichiani, Messina, Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel
complesso, se si eccettui la figura titanica del Vico, questa storia è una
storia di cui non abbiamo molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda
più malinconica di quanto non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età
di cui si tratta (1657-1750) fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio
dell'Italia nuova, la tradizione insomma a cui il succes sivo italianismo si
ricollega, occorre pensare che, « dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte
rinascerà la vita, e si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si
scuoterà tutta, e ri prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita
spiri tuale, e si aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà
come nazione ». Ora ciò sfugge all'autore del libro. 15 gora, a Platone, ai
filosofi cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una
via del tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina
Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre
l'avvenire, tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito
nuo vo » (1 ). Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico
non si rende conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi.
Ma il seme, get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio
L'Italia rinasce e si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto
d'un universale umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un
tradizionalismo più nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale
nella filosofia del Vico, proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e
stasi. Ben nota il Gentile a proposito (Studi vichiani, p. 13 ): «.... Non
bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa;
ed è anch'essa vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita: e
senza intendere l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra.
Tutto sta a non cercare la vita nella morte: e non volere una cosa nell'altra.
Lastasi del periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma
è pure progresso, se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti
non potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene
trata con la tradizione nostra, quale la troviamo p. e. nella poe sia del
Foscolo e nell'Italia tutta del tramonto del secolo XVIII e degli albori del
seguente, [ quale la troviamo, mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel
nostro Vincenzo Cuoco] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta
italiana, crea trice in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta,
e vivente di una vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia dal
1657 al 1750 è l'Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui
ha esercitato ella prima l'azione sto rica rinnovatrice: e in questo lavoro di
riassorbimento, che dev'essere ed è anche reazione (esempio solenne Vico), è la
vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di questa vita nuova, se non
m'inganno, non c'è nel libro del Maugain.... ». Precisamente così: può darsi
che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de' letterati vi ritrovi morte, ma
chi trascorra le su date carte del Muratori e le induzioni geniali del Vico non
può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi della nuova patria, la fonte
onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo. (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v.
II, p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi
concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita; col Vico si
presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero
settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito,
donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana
napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di
Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine
la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto
notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di
Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra
amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di
quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa
saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè
sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi
illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non
ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande au
tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico spirito
del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu in molti
una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che
propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè
facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate » (2 ). Lo
stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo
può condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi
voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche: il vichismo in Mario Pagano
è mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). (1 ) B. CROCE, La filosofia di G.
B. Vico, pp. 270 e sgg. (2 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 286. (3 )
B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr. VINCENZO Cuoco, Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza 1913, L, p. 208: « Nella
carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge - base
per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che
ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica
napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ),
ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio,
opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei
diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap
presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei
Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire
una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore.
Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del
Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro
lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M.
ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu
meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi per conto nostro
abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi
atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo
suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico,
come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e
nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1) Seguo per la
Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot
sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con @enni sulla
vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di
costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, GIUSEPPE
LOGOTETA E GIUSEPPE CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M.
Lombardi. (2) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio,
scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a
provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del
tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17,
li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132
della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, e in nota dà notizie
sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il
Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima
volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20
38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua
lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima
due parole su Vincenzo Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere
siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco,
amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto
pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda
visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica
ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio
Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di
cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo
che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la
proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo
ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno
un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si
stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due
sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo
trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel
tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era
Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le
sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. II
ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio.
Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo
estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in
grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo
compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via
senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE,
La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e
sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui
quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po' incolore,
sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo,
a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava «
sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di
terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non
testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes E sioni legittime; alla morte
del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di
stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò
senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il
tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti
leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e
ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di
cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe
ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi
dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di
fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non
classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi
costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle
per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le
nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la «
Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special 다. l'insigne
martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un
sunto delle dottrine del Russo ci of frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo
napoleonico dal 1799 1 al 1815, Milano, Vallardi, 8. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il
giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici
è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda
edizione, e l'avrebbe resa anche migliore, rendendola più moderata ». In quel
miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto
curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di
razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz
e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un
misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di
montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ), non vi
troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho
consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in
Strada nuova, n. 561 ); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D'Ayala
) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis). Vedi a
proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua
ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende
remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della sua critica. Ma la
causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto
spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con
creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il
Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo,
dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual
maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di
lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di
Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a
N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai
francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano;
il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non
apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la
minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha
fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo,
seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che
quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato
nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli
dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto senza che egli vi abbia
avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera
solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti
politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche
quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol
compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro,
studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio
della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, p. 11. 3 - F. BATTAGLIA, 34 posterità
sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione,
s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par
tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende
della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono
stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che
non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto
l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin
dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in
quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più
intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle
grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano,
in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che
nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al
terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua
cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei
propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo,
l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti,
incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un
fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre
spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne
prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi
bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad
una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare
passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese
che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio
storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori
francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla
ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i
bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che
vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role.
Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi
processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo
repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente,
molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli
studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il
contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica,
dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o
incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti,
non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo,
antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano
contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica,
nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui
parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può
spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono
non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e
sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B.
CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie
sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte
eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3
) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una
questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su
cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto
s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo
sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo
che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la
legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v. VI, (1901 ), p.
193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere,
sulle quali il Tria basa la sua requisitoria contro il nostro autore, sono
state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le
lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello
(Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle
speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non
perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a
raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva, e
per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli
studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava
facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli
inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu lare, siccome
avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi il Tria: e tutto ciò,
perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il
pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune
frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull'uomo poli
tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il
1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il
perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al
fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha
avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo
perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im
possibile resistere; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della
virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un
perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che
non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali
ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia
del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di
disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le
parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione,
che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino
Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si
dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega »,
Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si
discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse,
senza penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione
assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza
intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando
sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della
nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza
giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e
positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e
morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso
illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse
seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far
nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali
accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si
determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « törre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io
chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza;
una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm.
I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono
indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio
della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è
mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo
tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande
com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere
riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici,
ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima,
nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed
egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi
amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag
giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2 ). Dunque, ammesso che un
legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le
esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha
dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia
dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero.
Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà
la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran
cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei
tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III,
p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi
rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente
contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche
istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di
abbandonare ed obbliare gli antichi » (1 ). Nello sviluppo storico nulla si
perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro
è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si
possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un
culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della
nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
(2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I,
p. 220 e sg. (2 ) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella
testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita
estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non
conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo
segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali » (1 ). Vincenzo Cuoco ci si
presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a
venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3). Ciò è possibile
solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella
umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un
malessere economico generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed
operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione,
i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco
perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3
) Framm. II, p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora
tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni
non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come
bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2 ), « mentre
all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la
misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del
tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le
dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3 ). Ed
è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla
corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e
risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura
speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile,
se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (+), è
certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente
all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è
l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare
le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come
quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una
sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni
non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta,
e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è
una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne ' suoi
desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 87. (2 ) G. Zito, Vita cd opere di Mario Pagano, Potenza, Tip.
Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4 ) ROMANO, op. cit.,
p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che
non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso
della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono
relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per
gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er
rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi,
che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io
credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che
pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa » (2
). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono
d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire
sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto
l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d’or dine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese, Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219. 43 sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli
uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non
è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si
può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e
di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della
rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi,
cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in
Italia il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla
rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno
1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele
dello Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè » (1
). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218, 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua
ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende
remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica. Ma la
causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto
spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con
creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il
Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo,
dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual
maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di
lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di
Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a
N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai
francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano;
il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non
apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la
minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha
fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo,
seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che
quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato
nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli
dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli vi abbia avuto
nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in
quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici
del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per
prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol
compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro,
studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio
della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, p. 11. 3 E. BATTAGLIA. 34 posterità sugli
avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione,
s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par
tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende
della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono
stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che
non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto
l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin
dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in
quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più
intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle
grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano,
in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che
nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al
terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua
cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei
propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo,
l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti,
incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un
fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre
spesso ne' suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi,
ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi
bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad
una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare
passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese
che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio
storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori
francesi, che s ’ astrag gono dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla
ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i
bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che
vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role.
Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi
processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano,
con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto
aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli
studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il
contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica,
dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o
incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti,
non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo,
antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano
contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica,
nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui
parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può
spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono
non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e
sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B.
CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie
sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte
eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3)
Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione
cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette
conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s’avvantaggia e
non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue
lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo
provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e
l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v. VI, (1901), p. 193 e sgg., getta
gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria
basala sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal
signor L. A. Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il
Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello [Michele Antonio] di sè
stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente
egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate
aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione
migliore e più comoda degli indugi si infastidiva,e per sè stesso e per il
vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli
an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non
liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di
Napoleone lo distoglievano dal suo particu, lare, siccome avrebbe detto molto
esattamente il Guicciardini ! ». Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero
Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi
cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri.
vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull’uomo poli tico. Vediamo prima
di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il
governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo
rifiutò. « A che ritor nerei io in patria — scrive l’esule al fratello. - Se io
fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far
un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò
strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere;
un uomo in cui l ' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole,
un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia
sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non
raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva
all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato
ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la
rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue»
commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli
fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che
pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un
fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ». Abbiamo
citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti
dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza
penetrare nello spirito 37 potè volgersi alla compilazione d’una legge- base
per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che
ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica
napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ),
ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio,
opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei
diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap
presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei
Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire
una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore.
Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del
Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro
lavoro,e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M.
ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu
meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi perconto nostro
abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi
atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo
suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico,
come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e
nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1 ) Seguo per la
Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot
sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla
vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di
costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, GIUSEPPE
LOGOTETA e GIUSEPPE CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M.
Lombardi. (2 ) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio,
scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a
provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del
tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17,
li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132
della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie
sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il
Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima
volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20
38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua
lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima
due parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere
siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco,
amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto
pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda
visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica
ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che
proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo
luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo
dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che
crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del
nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere
assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica,
d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro
l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e
fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più
realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla
storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen
del Cuoco, ripubblicato conle sedicenti note del Lancellotti nella cit.
edizione napoletana del '61. Il ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i
Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana,
p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a
proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli
volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi
convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non
potevano appro. vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 )
Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE
RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed.,
Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39
sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 )
un po ' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo
astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo
sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno
possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di
sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime;
alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per
una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini
agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro
cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si
sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in
dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del
pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione
si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi
dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di
fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe
sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero
le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le
nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in
unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società
universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special l '
insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal
Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI.
Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg.
(1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri
politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una
seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In
quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto
curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di
razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ),
non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho
consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in
Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala)
e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a
proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica
naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far
dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1
). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in
genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G.
Zito (2), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano
di proprio la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva
propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e
sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio
» (3). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è
travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè
stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura
speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile,
se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è
certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente
all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è
l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far
tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine,
come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una
sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni
non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta,
e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è
una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi
desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip.
Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit.,
p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge,
che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far
uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un
buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare
per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er
rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi,
che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io
credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che
pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2
). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono
d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire
sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l
' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli
uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non
è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si
può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e
di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della
rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi,
cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in
Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla
rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno
1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele
dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1
). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una
formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva
senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure
quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà
della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la
coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più
concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali,
religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive «
sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se
si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe
col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai
quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si
determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io
chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza;
una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm.
I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono
indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio
della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è
mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo
tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande
com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere
riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici,
ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima,
nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed
egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi
amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag
giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un
legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le
esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha
dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son
care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è
stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più
numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando
troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra
le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di
seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico
nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle
istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della
modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione
non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita
della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
(2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I,
p. 220 e sg. (2) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa
dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita
estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non
conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo
segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si
presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli,
nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in
quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana
felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere
economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa.
Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi
costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco
perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3
) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il
pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han
pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove
le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra
dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti
e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa
in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario
Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo
napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un
complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della
costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai
leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma
nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi
di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo
ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano
risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa
razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore.
Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al
pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano
è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è
grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano,
nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i
rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto
negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono
solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto
quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e
quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I,
(2) Framm. I, p. p. 220. 220. 4 - F. BATTAGLIA. 50 cose e della loro importanza
» (1 ). E nel dispiacere del fallimento, che al nostro appare evidente, c'è una
punta d'ironia, che al lettore è facile avvertire pur nell'amiche volezza
dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi ricor dava » dice il Cuoco al Russo «
di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede
possi bile in un essere finito, quale è l'uomo, una perfettibilità infinita.
Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi errori: travaglia a renderci
angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di Saint- Just. Per ora
contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci possa rendere meno
infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a creder mio, dovranno
ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo disegno » (2 ). Anche
l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro Pagano, è un illuso, un
astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che il Cuoco rimprovera al
suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un sistema, che il nostro
vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la rivoluzione nacque
spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui il moto
repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli stessi
errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo
astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per
mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più
uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3 ).
Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire come
norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle circostanze,
che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese dell'antichità, ove
simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre che sedizioni e
turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo attaccato, in barba ad
ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. (2 ) Framm. I, p. 220. (3 ) Framm. III,
p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia » commenta iro nico il
nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre » (1 ). Vedete, dice,
« la costituzione romana era sensibile, viva, parlante. Un romano si avvedeva
di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si avvede delle infrazioni
della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco che gli inglesi avessero
avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: essi allora non
avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di guida in tutte le loro
rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler particolarizzar tutto,
per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un peso di molti cameli.
Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli ec cessi contrari, e
teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la molteplicità dei
dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il sentiero, i
princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime altissime,
dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2 ). Questi
sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea portare
necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha della
costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli uo
mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il Pagano,
ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro autore
nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per intendere come
egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una meditazione veramente
profonda, una critica sincera e non sistematica, rileggiamo le prime righe del
Rapporto al governo provvisorio, che precede la Dichiarazione dei diritti e dei
doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario Pagano. « Una costituzione, che
assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, (3)
Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo sguardo nella incertezza de '
secoli av venire, guardi a soffocare i germi della corruzione e del dispotismo,
è l'opera la più difficile, a cui possa aspirare l’arditezza dell'umano
ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto elevarono l'umana ragione, ne
presentarono i principii soltanto, e le antiche repubbliche le più celebri e
sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la · purità de' costumi, e
colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime educazione. Gran passi
avea già dati l'America in questa, diremo, nuova scienza, formando le
costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran cia, che ha contestato
straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha data fuori altresì una
delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ». Fin dalle prime
battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che ha bisogno di
rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione « ha....
adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben giusto,
che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse eziandio
la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la diversità
del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la fisica situa
zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti nelle
costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della
repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno
determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè
il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere
sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe
(1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in
Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il
Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto
alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica
di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla
costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano,
Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si
provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè
un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co
stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un
diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. «
L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di
oprare, che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de '
naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ».
Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un
comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto
d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e
l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro,
hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi
delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le
naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione,
dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche
adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè
negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque
come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti
dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come
Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione »
derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze
fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione »,
modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il
conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica
e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito
geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane sono
stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà dell'uomo di
valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla !! 54 sola
limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ». Tutto s ' impernia
su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo fonte di tutto il
diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è una emanazione e
continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i doveri; i
diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati e dei
pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi
costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano
senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un
popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la
vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme
naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle
volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia
de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de'
consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica
autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar
l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi
interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es
sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa
della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii,
che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono
vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio
della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello
spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un
terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota
forma senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e,
purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto
passiamo al Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità
ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è
che il direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra
assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in
quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato
moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di
costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare
pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti
d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una
nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato,
di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo.
La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e l'elezione.
Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il popolo
stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca Tól.is,
la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo sovrano
può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del Pagano
adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di un'assurda
divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il compito di
eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il compito supe
riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è assegnata la vera
sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al Consiglio. Così il
prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della nazione napolitana e
non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui dovrebbe sentire i
bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non accetta l'elezione
con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva dalle popolazioni
memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante l'esercizio della
sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e non si perda ne'
meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e generale, finisce
per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del sistema
parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano al
pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non era
necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai fini,
che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La nazione
napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son quei par
lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica sovranità, che
la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei baroni e del
fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un pochino lirico
) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un popolo intero
riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti, sceglier le
persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti delle montagne
dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande, il popolo
romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte dell'universo » (1 ).
Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più naturale, consacrato
dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un giorno in una storia
grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione millenaria. La
costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I municipi non sono
eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al governo, cioè a
colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato » (2 ). Ma il
Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac centramento in Francia
è naturale: questa nazione non ha avuto mai l'esperimento dei comuni, una vera
e propria municipalità, poi che questo paese ha trovato l'unità assai presto.
In Italia la faccenda è assai diversa. In Italia il comune è stato un istituto
spontaneo, espres sione della rinascente romanità contro il feudalismo fer
rato, istituto che non è morto mai, e s'è sviluppato, perpetuato, anche
allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato entro gruppi politici
più vasti, come il principato o signoria e lo stato monarchico. Il Cuoco non
dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 ) Framm. II, p. 223. (2 ) Framm.
II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran
cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne aveano giammai avuto, nè ne
conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro nè lodevole passar di un
salto e senza veruna preparazione al sistema nostro. Ma quella stessa natura,
che non soffre salti, non permette neanche che si retroceda; e, quando i nostri
legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu
che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di un'istituzione che la priva
dei più antichi e più interessanti suoi di ritti ! » (1 ). Il sistema
costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il più naturale per
noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei bisogni complessi
che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini durevoli. In poche
parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni varie e molteplici,
dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari
primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque, convocata in
parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso è antico, è
nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni per
conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo
delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render
conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà
un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al
popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella
storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre
attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di
prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia
amministrativa. « La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo
lazione della repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi
bisogni particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p.
225. 58 nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore
di legge nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed
agl ' interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale.
Ogni individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la
sua legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale,
ma il suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e
s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico
lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità
e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al
disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi
pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua
stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto
più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma
che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata.
Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s '
ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge
nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale.
Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo
Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti
siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino
interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo
ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni
uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve
esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno
di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova
contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno
che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera?
Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del
giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi
riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... »
(1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo.
L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione
diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione della
sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la volontà
generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi e di
volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto, e in
questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto ogni suo
atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività; ma
tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La
volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino,
in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata,
ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura
della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla
quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime
fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine
ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente
possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici
di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi
avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle
popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto,
una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze
inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que (1 )
Framm. II, p. 229. (2 ) Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi,
posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non
viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un
federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto
tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo.
L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per
popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un
primo passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese,
in cui gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema
federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie,
ha un parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento
amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So
gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte
essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza
perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività
individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta
l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è
che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra
tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un
occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e
farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio
unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e
di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè
agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione.
Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano
l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale
e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita
(1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a
lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione,
che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida
e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di
natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e
cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo
umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile
particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su
questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme
giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi
fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi
non al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo.
Ai subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere
sovrasta una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti
tirannica. È fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo
hiatus, che può divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia
sovrana dello Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema,
debba, ed è doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la
sua volontà in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in
tanto i prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono
diversi: una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza
produce olio e deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita
alla pastorizia e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni
giorno produce, e così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse
tutti a pa gar nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza
che altro sarebbe se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai
immaginare una legge, la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni,
quanti sono gli abitatori della tua repubblica: non ti resta a far altro se non
che imporre la somma dei tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna
popolazione, la 62 sciando in loro balìa la scelta del modo di soddisfarla;
così la volontà generale della nazione determinerà l'im posizione, la
particolare determinerà il modo: questa non potrebbe far bene il primo, quella
non potrebbe far bene il secondo » (1 ). Tutto ciò è la necessaria conseguenza
di un sistema mentale potentemente fuso e senza una con traddizione. È naturale
che l'astrattismo alla francese si faccia sostenitore d’una unitarietà
soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede i princípi, che sono schema
tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in loro l'ineffabilità
dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile ad un'altra
foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di Vincenzo Cuoco vo
glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag giare i princípi,
così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra, e su questa realtà
edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale mi sono assai
diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va ancora più in là,
concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i nostri circondari, ai
dipar timenti o provincie. « La costituzione francese confonde municipalità con
cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più popolazioni, ma non avrà mai più
di una mu nicipalità. Io distinguo due parlamenti: uno municipale per ogni
popolazione di un cantone; l'altro cantonale per tutte le diverse popolazioni
che compongono un can tone medesimo » (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la
critica che il nostro fa alla divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 )
Framm. II, (2 ) Framm. II, La Costituzione del Pagano organizzava il territorio
in di. ciassette dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del
Progetto. L'articolo 5 al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun
dipartimento è diviso in cantoni, e ciascun cantone in comuni: i limiti
de'cantoni possono ancora esser rettificati o cambiati dal Corpo legislativo,
ma in guisa che la distanza di ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia
più di sei miglia ». Il titolo VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi
ha una amministrazione centrale, e in ogni cantone almeno un'am ministrazione
municipale ». 63 in Francia, vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata
l'amministrazione. « Sei tu ormai » scrive al Russo « persuaso della
ragionevolezza dell'articolo, che io vorrei fondamentale nella costituzione
nostra? Tu mi conce derai anche questo secondo: se due o tre popolazioni diverse
avranno interessi comuni, potranno provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual
volta le loro risoluzioni saranno uniformi, avranno forza di legge obbligatoria
per tutte le popolazioni interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità
d'interesși, che genera co munità d'opera. Sono i bisogni che muovono gli
uomini, la loro attività legislativa, la loro vita pubblica. Occorre salire dal
basso in alto, cioè dal senso all ' intelletto, dal cittadino al governo, e non
viceversa. Adopero una simi litudine, che al Cuoco certo piacerebbe.
L'individuo è il senso, il governo l'intelletto dell'organismo sociale.
L'intelletto che agisce senza l' esperimento del senso è l'astrazione.
Lasciamo, dunque, all'intelletto la direzione, ma lasciamo al senso la
avvertenza dei bisogni, che solo l'esperienza immediata può dare. Una
delimitazione di competenze è la salute dello Stato. La visione netta e precisa
del problema costituzionale, che ebbe Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite
di tempo, poi che certe questioni anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa
nella posizione che assegna al can tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo
generali, non sono più particolari, ma riflettono esigenze comuni a due o tre
comuni: occorre che i comuni che formano il can tone li risolvano insieme. «
Imperocchè, avendo ogni po polazione alcuni interessi particolari ad alcuni
altri co muni, è giusto che talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal
altra delle particolari » (2 ). Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia
attribuire al diparti mento quella larga autonomia che assegna al comune.
Perchè? L’autore dei Frammenti non lo dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero
intende facilmente. Il comune (1 ) Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236.
64 è una formazione naturale, consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni
concreti vigili e immediatamente primi della società. Il dipartimento è una
figura ammini strativa, che può avere importanza entro i limiti d'una
competenza ben precisa. Se al dipartimento si dà una forza che di natura non
ha, si crea un piccolo Stato nello Stato, si perde la sua qualità di nesso
d'unione tra il comune e il potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano
qui questioni ancor oggi vive nella coscienza politica della nazione nostra,
que stioni, che, dopo un sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora
avuto una loro pratica risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed
interessante notare come tutti i progetti di riforma costituzionale ed
amministrativa siano partiti dall'Italia meridionale, la quale è forse la più
danneggiata dal rigido sistema cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte
abbiamo ereditato dalla Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia,
alcuni patrioti, Crispi, Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione
delle masse e peggio del governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il
Cavour stesso, mente lucida e serena, non intese il problema, e non condivideva
i vari progetti di governi regionali, che si presentavano da altri a lui vicini;
ed era natura lissimo: egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non
l'Italia meridionale e centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le
crisi politiche hanno origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha
intuito (1) Questa è la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: «
Ma le unionicantonali non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la
legge loro commette: inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di
oggetti che richiedes sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo
questi principi, potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2
) M. Rosi, L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il
risorgimento italiano e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma-
Torino, Casa ed. nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non
comprenderne il valore. Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia
meridio nale c'è ancora un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano
germinare nel cervello positivo de gli uomini del nord e nel cervello
storicista degli uo mini del mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle
due parti d'Italia è troppo diversa, perchè la com prensione sia facile. Il
comune nell'Italia settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di
fazione, mentre nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali
d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove
nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc
cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il
dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento
che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi
ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza
infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè
questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia,
perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo,
quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli
tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore,
che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione
storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera
di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale
spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia
segue una trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela,
violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si
ricostituisce. L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è
opera delle cose e non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli
d'una unità ancor maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono
germi dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol
significare fazione e 5 -.F. BATTAGLIA. 66 campanile, è superato da un pezzo.
Crisi vi furono, vi sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi
nistrative politiche economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il
genio di alcuni ispirati, ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo
travaglio e la guida sicura, anche fra le crisi, di cui ho detto la natura,
senza il bi sogno di uomini, fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si
arrogano il diritto di rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla !
La critica, come ognun vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura
radicale: troppo francese e troppo poco napoletana; per essere ottima men che
buona, mediocre; come quella francese del '95 per sancire gli immortali
princípi non discende alla vita positiva. I particolari dimostrano a
sufficienza l'astrattismo della concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti,
i quali il Pagano di vide in due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il
Consiglio. Il Senato più austero e savio approva o re spinge ciò che il
Consiglio ha proposto. Il critico però sempre fisso ad una realtà che non
sfugge, l'elemento economico nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione
d'interessi corrisponda questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una
ragione, perchè gli uo mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica,
poichè, sebbene gli americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per
diritto, pure – ed in ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono
lasciati illudere dalle loro dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli
uomini una perpetua disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir
nell'esecuzione della legge, influisce però irreparabilmente nella formazione
della medesima. Gli americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza
che gl'inglesi ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco
stesso. Il Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita.
zione plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come
gli inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo
appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo sta bilimento
americano » (1 ). In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra
le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo
uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione
non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero
politico del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere
legisla tivo, offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale
il giurista può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere
esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare.
Difficoltà questa più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino
nel pieno oblìo degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla
vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne
conosciuti i princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta,
una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai
bisogni di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la
quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà
una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare
quindi in via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i
sensi, il trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera
forma, che è vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un
contenuto essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto
con la vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi
andate (1 ) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in
Italia (a cura di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive:
«.... In Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e
taluno difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno,
non sieno abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a
molti di questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo
dal potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo
entro la legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una
costituzione che solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio
desumen dolo dalla costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere
da noi. L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è
stata in ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di
forze dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo
stato delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo:
cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in
debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione
l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni
nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario,
secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In
Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento
d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia
stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non
può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno
per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra
monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella
Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli
Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e
starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari
pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei
viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella
città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che
in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate
prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi.
» (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è
stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che
Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le
sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo
essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe
essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab
bandonare la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio
dell'isola. È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli?
Neppure. Da noi diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione
dell'esercito, significherebbe porre il paese in braccio allo straniero.
D'altra parte quello stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente
per difen dere le frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio
elettorale, per fargli subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il
Cuoco, « invece d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così,
essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ).
Oggi i legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una
delimitazione di forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano
il vero equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar
monia di opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione
politica. « I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi
istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili
despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2
). È la natura che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello
stesso senso civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si
merita. A volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di
ordine, di regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni
usi, co (1 ) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione,
per uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia
accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le
sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a
lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero
confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di
Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo
repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi,
perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute:
la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo
di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo,
quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè
troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue
esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla
regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na
scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri.
Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi
sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi
solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la
rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi,
plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa
in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto
nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi,
conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo
mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia
degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà
impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui.
« Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di
un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso
modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni
fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia
sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte
queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so
stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un
rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ).
Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo.
Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle
persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco
la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due
consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza,
che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione » (2 ).
Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza
per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della
legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto
interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e
però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si
può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in
base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse
costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può
darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la
repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando
della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli
altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di
esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica
degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è
detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali,
e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che
garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza
cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo
per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già
spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno
sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti
sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto
dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben
poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il
legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali
dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar
monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la
censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio,
l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine
di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di
essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità:
non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga
l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta
nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari
stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante,
imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi,
la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve
esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p.
250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la
natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che
noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non
è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della
vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti,
e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o
milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon
repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a
recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di
quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al
nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati.
Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può
considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti
» (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che
riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che
ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che
non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica delimitazione
tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola
può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e
la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri
e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa
l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna;
a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del
costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con
quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del
Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p. 442 e sgg. (2 )
Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino col costume
della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che
assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile.
D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare
dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice
hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare la
felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa
alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita
(v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è che
ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la
subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se
volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può
conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da
quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo
vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo,
tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le
colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno
bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di
simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini
civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa
origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in
età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni.
Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi
siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora
Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono
separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili
contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona.
Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle
civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo.
Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà,
quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale
avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi
de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che
allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della
temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i
collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società !
Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem
proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente,
dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della
felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà
del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che
non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto
pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione
giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e
complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci
appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici,
d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri
im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il
fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona
male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca
superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla
ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si
connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia
l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma,
siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla
felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo
le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro
certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere
dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale,
concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono
bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il
concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana
statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in
continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI,
p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto
superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi
bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non
sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi
bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le
nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo
corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi,
di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e
bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate
nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi
continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un
nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute
economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra
forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci
insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai
crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori
che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi
paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e
felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al
pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri
» (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano
è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema:
egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio
della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di
noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e
precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa
scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 )
Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me
sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e
pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è
insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico
fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del
governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e
quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo,
se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto
di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare
un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi
agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai
commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci
mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo;
e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e
colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ).
È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la
realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza
dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la
filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli
eterni princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola,
dovrebbe insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la
storia, s'af ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che
non è solo di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio
italico lo storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi
limiti sua rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di
conoscerne i benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e
soprattutto ne' suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3
) Framm. VI, p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è
dele terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento
profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo
pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del
progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che
nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un
antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge
alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione
francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi
para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella
fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare
alla ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma
quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio
dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo
e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub
blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È
difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella
che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più
uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della
costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la
indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può
sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci
confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se
essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale
occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo
della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la
norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato
La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15
febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente
bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico
del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più
significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice
alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi,
dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe.
Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme
col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl.
Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari
(Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era
già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V.
Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI,
Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti
gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla,
limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i
maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri.
masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione
laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori
affidamenti. CAPITOLO III. Il « Saggio storico sulla rivoluzione napoletana ».
Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo ab bozzato nei Frammenti.
– Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese è attiva, quella
napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. – I re pubblicani
e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere dirette a Vincenzio
Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla rivoluzione napoletana,
sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane seguano, quasi a mo'
d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione di princípi
filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza
storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i
raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna
e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti
acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime
pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una
disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che
questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri,
ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha
dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata
dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un
pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo
storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice
imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i
suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio
repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae
l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose,
e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione
ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra
seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo,
invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità
cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico
dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano,
tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a
forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di
libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse
Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della
terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso
della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita
senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è
nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce
un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua
rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa:
Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo
stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra
distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa
ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione;
l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco,
Saggio storico, XVIII, p. 102. 6 F. BATTAGLIA. 82 ristabilisce, si riconferma
ciò ch'era stato negato. Onde ben scrive, a mio avviso, il De Ruggiero,
affermando che l'esperienza rivoluzionaria dà un nuovo significato alla
negazione, in quanto questa è la crisi feconda di un rin novamento della vita
storica. La crisi, in sostanza, non può non apparire che come una critica degli
avveni menti passati e delle istituzioni da essi nate, che non giudica
arbitrariamente, sovrapponendo una verità a priori, ma svolge dagli errori
stessi un latente spirito di verità (1 ). Questa, infine, la ragione
dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza politica del Machiavelli do
veva necessariamente finire, data la sua natura, le sue premesse, i suoi fini,
nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del nostro, certo più tragica, più
dolorosa, più densa di dolore, che non quella del segretario fioren tino,
sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è quanto dire in un bene relativo,
in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone c'è la rivoluzione, la prassi
sanguinosa, il rinnegamento del passato, la critica assoluta delle isti tuzioni
millenarie, l'apriorismo giuridico, la democratiz zazione, universale,
l'esaltazione dei princípi. La storia procede con continuità mirabile, ma nella
sua stessa continuità c'è un processo di tesi antitesi ed un supera mento
implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi rito, dell'idea, che muove gli
uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte sono due aspetti della stessa
realtà: « il passato, negato violentemente, si riaffaccia alla vita nell'atto
stesso della negazione » (2 ). La critica dell’astrattismo razionalistico, che
ne' Frammenti abbia mo osservato e colta nella teoria, nel Saggio è mostrata e,
direi, vista in atto, nello stesso spiegarsi della storia. È la storia stessa,
che, nell'indicare la fatalità del pro cesso storico determinato dai princípi e
dalla prassi re pubblicana, giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia
sembra dire: queste norme hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica
tu, lettore, della loro bontà ! (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G.
DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere di sana
sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben potea
paragonarlo ad una tragedia greca (1). Ed il raf fronto non è davvero
stiracchiato. La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto dell'antico Fato
nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno determinato la !
catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog giacciono ad un
destino, che sembra irrevocabile. Sono essi, gli uomini, che determinano lo
scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto motore? Ma la
storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed effetto: gli
uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il Cuoco parla spesso di un
vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè districarsi a mala
pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli non ammirava, se
pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul palco ferale tante
nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è altro che la
rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?: No, esso è
fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini possono
averne sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne conoscenza,
si gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei Frammenti era
la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto, la tragedia
greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la ragione per
cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito dello
scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle idee, e lo fa con
tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di chiaroscuri, di
sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il pensiero; la fantasia,
laddove prima era l'intelletto, la fantasia che s'esprime per immagini e tutto
risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta in un processo d'obiet (1 ) L.
SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano ed., 1882, v. III,
p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico, Lettera dell'autore a N. Q., p.
11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84 tivazione, che non esito a dire
perfetto, onde non v'è affatto, o assai raramente, quel contrasto ibrido tra
l'ar tista che intuisce e lo storico che analizza quale può rin venirsi in
molte opere di simile genere, poi che tutto è compenetrato e fuso, attraverso
una lunga maturazione, che dovette certo essere prima consapevolezza di pen
siero, meditazione di cause e di effetti, e poi immedia tezza nervosa e rapida
d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel Saggio un elemento estrinseco
all'artista e allo storico. Lo storico si fonde con l'artista, ma lo stesso
storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba l'artista, che supera nella
visione l'enunciato fine utilitario della sua narrazione; il partigiano non con
turba lo storico. Leggete invece il Rapporto al cittadino Carnot del vesuviano
Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni, quanti interrogativi, quante tirate
oratorie, quanti pistolotti repubblicani, quanto anticlericalume, quanta
montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni, ma v'è pure l'uomo pratico, che
per raggiungere un suo fine, non esita di caricar di tinte fosche la storia,
non esita un momento per indossare la toga dell'avvocato. Infatti chi può
negare la presenza d'una passionalità che di strugge la storia, d'una coscienza
turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni vera espressione artistica? (2 ).
Nel Cuoco nulla di tutto ciò. (1 ) La questione della cronologia del Saggio a
me sembra oramai risoluta. Fausto Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del
Saggio, p. 357 e sgg., la riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò
non ho che da rinviare il lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto.
Del Saggio poi possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte
mediocri scorrette ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op.
cit., p. 173; e la nota del Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile
raffronto tra il Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il
Gentile ne' suoi Studi vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di
G. Na. tali, che nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco
Lomonaco, Napoli, Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore
predecessore in molte idee di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le
superficialità del Lomonaco e le vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare
il pensiero cuochiano, i mo menti ideali dello spirito del grande molisano, non
può non rifarsi ad un avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde
scaturirono tutti i successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la
rivoluzione parte nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più
le idee che i fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli
uomini, lega la storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro
ricco e vasto. « Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia
dell'uomo: quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia
della natura » (1 ). Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i
periodi sismici nel mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori
uguali, finchè « un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ».
Le rivoluzioni sono un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat
tivi, come le crisi di crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel
disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il
suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si
vedevano solamente gli effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze
politiche, dalle quali non si può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso
della natura. Esse rinnegano a parole il passato, di fatto poi lo riconfermano,
e nella negazione della storia il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della
storia. Guardiamo la rivoluzione di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci
parli la storia » (3 ). Essa scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un
passato: una analisi immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e
allo stesso passato essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il
prevederla. Gli uomini sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito
raccostare i due nomi, se non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo
spi rito del Cuoco, o per far meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, I. p. 15. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 )
V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini,
non è cieca, ed ha una sua logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi.
Gli uomini sono ciechi e sono inclini a scambiare il processo della loro mente
con il processo della storia, e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero
sviluppo d'un pen siero loro individuale. Il filosofismo francese ha preceduto
la rivoluzione: ciò non significa che esso abbia generato la rivoluzione. La
storia non s'esaurisce nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la
storia è d'una complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla
natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che
era effetto delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione »
(1 ). Ma la filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo,
tutt'al più aiuta gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così
accadde in Francia. Il Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della
filosofia, vuol semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna
assegnare il posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni
operazione umana debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come
è necessario il popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali
presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto,
che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi »
(2 ). Il compito dei filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi
della storia e della politica, non dal loro cervello ed assumerli come
postulati inderoga bili, ma dalla vita del popolo, dalla natura eterna del
l'uomo, che non è solo intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia.
Credere un avvenimento gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto
soltanto del pensiero filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par
ticolaristica. La vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche
attività pratica, politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e
l'imporsi delle idee, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco,
Saggio storico, XV, p. 82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei
popoli per ve dere quanto essi siano stati i propulsori d’un moto, che è
determinato, ma non cieco, anche nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione
francese non si può in tendere, se non s'intende tutta la storia che la
precede. La Francia monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era
un paese di abusi: « la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per
iscoppiare » (1). Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner
vosa, che egli fa, è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul
turbolento periodo: gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di
quelle lucide intui zioni che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman
da « che hanno scritta la storia della rivoluzione francese, è credibile che
niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già
ne'fatti degli uomini, i quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel
corso eterno delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura?
» (2 ). Nessuno, rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni
individui di genio e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato
dai secoli un fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una
rivoluzione, opera d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza,
la manifestazione di pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una
disamina dei precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua
tacitiana concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da
ciò, che di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto
distruggere una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi,
delle ruine, delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte
le rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello
per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha
de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da
Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre
d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre
tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni,
quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti
che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che
ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno;
una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle
altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè
ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così
financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e
che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col
papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari,
in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le
dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che
indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i
quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle
opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni
nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la
massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della
corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi
la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee,
tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra;
contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno
stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della
distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in
travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da
un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono,
se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già
nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza
economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i
contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come quelli
che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco l'errore ! I
francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono nell'errore « di
confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È una ' falsa visione
del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che seguono idee
soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei repubblicani della
Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle riflessioni sulla
rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt '
i popoli della terra, especialmente della rivolu zione francese. Le false idee
che i nostri aveano conce pite di questa non han poco contribuito ai nostri
mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono troppo ne' loro
princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso astrazioni, credono in
essi e ' non osservano che intanto la storia si muove oltre i princípi. La
rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! « Il grande, il solo
agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >> è il popolo (3 ).
Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi? No. « Il popolo
non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La ragione è una sola,
vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in telletto. Date al popolo
princípi: non li intenderà. Com primete il popolo, esacerbatelo: il suo senso
s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta, vremo una crisi vasta ' e
potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. (2 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione
alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30, 90 La rivoluzione
nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla fantasia popolaresca. Ciò non
toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire provenga invece dalla falsa
filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo abnorme: lo spunto è popolare ed
economico, le conseguenze degene razioni di princípi, intellettualistiche. Sono
le astruserie dell'ultima ora che portano seco loro gli inconvenienti propri
delle grandi rivoluzioni, i capricci de' potenti, le fazioni, le turbolenze, il
sangue. « Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà convinto » (1
). I saggi sono inutili a produrre una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi
possono condurre un moto già evoluto sur una falsa via. Ecco perchè la
rivoluzione francese ha un vizio d'origine, che dovrà riuscire fatale alle
rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi incolori e pur gravi della
grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione, poco al senso e alla
fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta fantasia. Quanto più i
pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli li intendono, anzi, a
volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni, se i princípi di
ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i millenari bisogni. La
critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge tutta la rivoluzione
francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare per incidenza, e che
tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una catena, in cui un
avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle nazioni oggi è così
complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua politica, non si può
prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra, della Francia, della
Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un evento isolato, poteva
chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in tempi nuovi, deve
fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La rivoluzione francese suscita
un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a Roma, a Napoli. Ma in questa
stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 40. (2 ) V. Cuoco,
Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 6, 91 sta il primo e capitale
appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui il Cuoco esclusivamente si occupa.
Lo storico critica lo svolgimento della grande rivoluzione francese, ma non
nega l'origine pienamente legittima di essa, la riconosce nata da un secolare
stato anomalo di cose, per cui il popolo, attivo e industrioso, ma ciò non
pertanto trascurato ed isolato politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di
diritto ciò che di fatto aveva già acquistato. Nulla di tutto ciò a Napoli.
Quivi la rivolu zione è un mero riflesso di quella gallica, è nella sua na
scita e nel suo affermarsi passiva. L'aggettivo passivo ha fatto epoca, e val
quanto dire impopolare. Le idee passano di paese in paese, perchè trovano
ovunque in gegni culti atti a riceverle e a meditarle; i bisogni sono invece
ovunque diversi, da nazione a nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a
regione, da provincia a provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli '
non lo è: quel che a Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene
artefatto. Mentre tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia,
dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra
zionalista, illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e
profondamente diversi in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter
condurre realtà di lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi
uniformi, se non sforzando lo stesso ordine delle cose? Così.a Napoli. Invece
di fare una rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in
piccolo. « Le idee della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero
potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della
nazione. Tratte da una co stituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra;
fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi, e, quel
ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e
talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da'
nostri capricci, dagli usi nostri » (1 ). La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XV, p. 83, 92 francese, in sostanza, e qui è il nucleo di tutte le
consi derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte plici elementi
economici e politici; la rivoluzione napo letana passiva, cioè frutto di
opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono la
rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era in
realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa; il re di Napoli
crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un ' po '
moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo
contegno un generico malcontento. Lo stesso atteggiamento politico estremo in
due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le
conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che
Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e
nei codini, nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo
manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale
errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia: effetto: la
Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone,
vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed imprudenza, assodò
una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » (1 ).
È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare l'ordine
delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro di sè
tutta l'Europa: la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo
sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema
di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a
cui i filosofi applau dono in buona fede; « sistema che alla forza delle armi
riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti,
quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » (2 ). (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93
A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze peculiari.
Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed esuberante
di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese che trae
dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione paesana,
che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è
possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i
repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si
proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma
la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È
proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi
nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1 ). « I nostri affetti,
preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e
dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ). Gli uomini s'oppongono
violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con un metodo diverso la
situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali d'opinione si guariscono
col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà, non seguirà mai i
filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento: la
rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la ti (1 ) È lo
stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I, p. 43: « Nel
portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura principale de
quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli della terra...
Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita non lo cura, ad
onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con giustizia. E qual
giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un portico per
ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma Archita, a
taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto: —Tu vuoi
dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra la sua
stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi smascherar
lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al primo istante?
Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p.
29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco, la polizia
perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a cavallo per
Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe riodici le
cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle
innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera
l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse
cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che
la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa »
(1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso
della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ).
Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano,
nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non
era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un
solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione
farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e
il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. «
Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione
della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della
corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei
coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i patrioti
di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e gli altri
hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la ragione rinnega
il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e nella sua
ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento dei (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa pre
-reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani: la
morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 41. (4 ) V.
Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo osservare più
particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza. La rivoluzione
a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la corte finisce
per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della nazione, suscitando
vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne' signori e nella borghesia,
perseguitando dotti filosofi ed economisti, un giorno già vanto e decoro della
corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente i suoi interessi. Vediamo
quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure l'importanza che Vincenzo Cuoco
dà all'ele mento economico nella storia e nella politica. La storia per lui non
è pura idea, come per gl’intellettualisti, che finiscono per negarla, nè pura
economia, come per i ma terialisti storici: la storia è più complessa assai. «
La storia si può suddividere in tante parti quanti sono gli aspetti sotto de'
quali gli avvenimenti umani si vo gliono considerare » (1 ). Ogni scienza
particolare ha una sua storia, ma quel che noi consideriamo come la storia per
eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca partico lare. Lo spirito è
complesso pur nella sua unità, così com plessa è la vita dei popoli, che è
attività pratica e teore tica, prassi ed economia, intelletto e fantasia. Onde
lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto deve rendersi conto. Ma non
anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza all'elemento economico, ma non
esaurisce in esso il pro cesso storico, lo sviluppo d'una nazione. Qual è la
posi zione geografica, e di riflesso economica, del regno di Napoli? Ove
portano questo Stato i bisogni generali? Qual'è quindi la direttiva più
naturale della sua politica? Quando Napoleone discende in Italia, la penisola è
divisa in piccoli Stati, i quali uniti avrebbero potuto opporre resistenza,
disuniti era fatale che cadessero. Que sta contingenza mostra quanto lo stato
politico degli italiani sia infelice, senza amor di patria e senza virtù
militare. Di fronte al genio d’un gran capitano tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come scenari vecchi: gli austriaci
furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua imbe cille oligarchia, la
distruzione del governo teocratico del Pontefice non costò che il volerla.
Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A Napoli c'era un
governo monarchico forte, che garantiva una maggiore compattezza, una certa
disciplina, un esercito, un po polo che bene o male seguiva il suo sovrano,
c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che voleva stu diare e
vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della monarchia, pur nel
vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica borbonica da qualche
anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con tinuò a seguire,
l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una condizione di
cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni meridionali. Il regno
di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea. Tutti i suoi interessi
lo portavano ad una politica mediterranea, ad una politica, vale a dire, il cui
centro di sviluppo fosse il bacino del Mediterraneo, ad un commercio con l '
Oriente, con Tunisi, con la Francia, con la Spagna. Queste le esigenze del paese:
la volontà della regina dominatrice co' suoi favoriti della corte e del governo
dispose diversamente. Lo Stato diventò ligio all'Austria, potenza lontana,
dalla quale il paese nulla aveva da sperare e tutto da perdere, che finì anzi
per coinvolgerlo in continue guerre. Le cause di questo errore si riconducono
ad uno di quei concetti, che nel Cuoco sono alla base di tutto il suo pensiero:
il disdegno di tutto ciò che è straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol
porre di solito come mero antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po'
xenofobismo. Egli vuol inoculare agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale,
un vero bisogno d'essere esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana,
come in genere tutte le rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione
dell'italianismo, negazione, che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si
perpetua tra gli errori de' governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale,
che il Cuoco combatte ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario,
perchè critica i patrioti: egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go
verno. La sua critica ha origini più grandi: bisogna riguar darla quale
espressione d'una mentalità politico- giuridica più italiana, più grande che
non tutti i sistemi che la ri voluzione ha maturati, d'una mentalità politica,
che si rivolge combattiva ovunque vede la sua negazione. L'azione
rivoluzionaria è una prassi d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo
Cuoco non ne condivida le direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e
del suo favorito Acton è poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco
alla luce delle sue idee ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La
pietra di paragone: l'Italia, Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli
tiche, che astraggono da questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria
Carolina, salendo al trono meridionale, dovea dimenticare di essere una
tedesca, pensare di divenire napoletana, se voleva divenire davvero regina di
Napoli e cessare di essere una principessa germanica. Volle in vece essere
novatrice, cioè sforzare la tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente,
sviluppando una frivola smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia
intellet tuale. Dalla moda per il vestire si passò a quella per il costume e per
i modi, si parlò francese od inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere
l'italiano; l'imita zione del vestimento e delle lingue portò di conseguenza
l'imitazione delle opinioni. « La mania » ammonisce il « per le nazioni estere
prima avvilisce, indi ammi serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in
lei ogni amore per le cose sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami
dell'ammi nistrazione. Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai
pensare la felicità e la potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè
nazionale, avrebbe potuto portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed
esen Cuoco (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, V, p. 29. 7 -- F. BATTAGLIA. 98 tando
il paese perciò dalla dipendenza manifatturiera estera, proteggendo le arti,
sviluppando il commercio ! Invece no: non v'è provvedimento borbonico che non
si possa rimproverare. « L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili
progetti: qual progettista egli si spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i
suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni
di nuove ruine, perchè cagioni di nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa
distinzioni: il male è nella ra dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un
ottimo assoluto, che è il peggior nemico del bene, e si finisce per far male:
si è miracolisti e si riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini
antichi bene o male assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo,
anzi che rif marli? Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! «
Acton non conosceva nè la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non
avevamo porti, senza de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei
di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano
stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se,
invece di seguire il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano
dei romani, che era quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del
favorito di Maria Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva
bisogni marinari. I bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi
commerci, che con le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere
le navi mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da
opporre alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la
flotta che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e
non da guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio
assunto non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
VIII, p. 45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma
di tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue
svariate manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle
opere del molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello
spirito. Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del
go verno verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di
Mack, capo dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo
esempio di astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il
governo di Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha
il buon senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini
a scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza
positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle
schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a
tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza
collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do
manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo
la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non
già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede
sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione:
audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee
loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si
trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è
inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura
» (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono
rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la
sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi
nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi
di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del
Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra
acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel
corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le
stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due
cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono
repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la
borghesia, la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto,
l'ufficialità dànno il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri,
giureconsulti, vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è
davvero il pen siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a
sovvertire un ordine secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione?
Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il
mezzo giorno d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare,
che anche a Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i
sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle
labbra, pochi nel cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno
voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili
figure de ' martiri del '99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che
meraviglia che accanto a Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li
procacciante, accanto a Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a
Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o
meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e
notare le grandi figure ed eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue
in due gruppi: coloro che vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento,
per pescare nel torbido, coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p.
158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L.
CONFORTI, op. cit., p. 21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia;
i furbi, in somma, e i fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre
in tutte le altre rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi
pessimi, qui vi sono i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed
eletti. La memoria dello storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I
patrioti sono uomini colti, superiori, il fior fiore della nazione: forse
questa stessa loro origine è la causa prima che li allontana, sele zionandoli,
dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni;
i princípi che essi pro fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù
stoica, il loro spirito romano, la loro morale superiore, troppo superiore a
quella comune delle plebi: quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ).
Uomini i patrioti insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a
creare e a diri gere uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra
alla posterità la loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi
uno scettico, e sa esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo
stesso uomo, che enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role
degne di Tacito, esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la
difesa strenua degli ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle
torme sanfedi ste, la distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di
Altamura. L'assedio di Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed
una rapidità mirabili: l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra
fantasia. Il salto del forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle
flot tiglie barcarecce di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano
un Cuoco, non solo freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi
legislativi e costituzionali, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal
fascino delle figure eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni,
onde ei può nel crollo della sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XV, p. 84, nota. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica
esclamare esaltato: « Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili,
perchè seppero morire; i nostri fecero anche dippiù: seppero capitolare
coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica
napoletana » (1 ). Ma lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far
risalire alla sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello
sfacelo; non può, esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la
vacuità del me todo legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo
ordine. Si è detto (2 ) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben
netto. No, il fine c'è: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e
filosofica, af finchè l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli
antichi errori. I saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi
navigheranno sempre in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere
con i loro pensamenti i popoli, poi che questi non si muovono che sotto
l'urgenza di concreti bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo:
bisognava tenerne conto, inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero
caso. Tutta la rovina della repubblica s'impernia su questa incompren sione
sociale. Il popolo, sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e
delle controrivoluzioni (3 ). Credere un moto rivoluzionario determinato dalla
filosofia è una semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La
rivo luzione deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto,
cioè alle plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in
qualche modo aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso
gnava farlo agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova
ricostruzione, legarlo allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XLVIII, p. 188. (2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette
ratura italiana, v. VI, (1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p.
5. 103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo
incrollabile. In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee
repubblicane si sarebbero potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle
dal fondo istesso della nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo
ondeggia tra le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale, il re
che vede fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della
saggezza del sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di
vigliaccheria, dubita, e chi dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo
partecipe all'azione, invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra
rivoluzione » scrive Cuoco « essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di
condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma
repubblicani e popolo sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee
costumi lingua. I primi sono fran cesizzanti; il secondo per natura
tradizionalista, attac cato alle sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua
reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due
secoli di cultura e di storia. I dirigenti invece prescindono da ogni elemento
nativo, quell'ele mento che si deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co
loro, che sono ancora napoletani, nota con amarezza lo storico, e che
compongono il maggior numero, sono in colti. Ritorniamo al solito concetto: la
moda straniera è la causa di tutta la rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli
sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si può
mai gio vare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non
si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che
per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia
coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVI, p. 90. (2) Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli
storici più recenti: vedi V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad
una nazione straniera: tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua
indipendenza » (1 ). Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo
può salvare i popoli nelle loro crisi. Si voleva imitare la Francia e si
dimenticava Napoli, si obliava che la gente meridionale avea una sua specifica
natura diversa dalla natura delle genti galliche. In Italia c'era un comunali
smo, che in Francia non era mai stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi
l'uno dall'altro, in Francia un popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani
dovevano tener conto di ciò, e trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti
e diretti, governanti e governati. « Quando la nazione si fosse una volta
riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di
noi » (2 ). Il popolo non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso: «
i popoli si riducono » osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli
che loro offrono maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di Napoli così
avrebbe seguito i rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di
miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli
istituti a cui era legato, avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che
cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali
ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si
nta un capo che li voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se
avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione
ed andrà avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare
ciò bisogna andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti
esistenti assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab
batterli al suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto
distruggere » (5 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco,
Saggio storico, XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di
Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa
religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La
reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo;
riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente
miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi;
tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li
rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc.
ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo
moderato e liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal
paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi
indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di
libertà, su prin cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi
la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco ripetendo
un pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella vita dello
spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è ancora
dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date,
se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una
religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione:
se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà indifferente al
governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo Cuoco (4 ). Lo
Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa nazionale
debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un superiore
approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla
posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA,
Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414
e sgg. (3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI,
op. cit., p. 137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel
ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco
influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo
in seguito: resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano
aveva della religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi
princípi. Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore
etico della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica
morale laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema
grave, anzi gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra
le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore
odio contro i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere
effetti della sola loro volontà individuale » (2 ). Il governo in sostanza era
agnostico, non conduceva ex professo una politica antireligiosa ed
anticlericale, ma lasciava fare, e gli emissari in provincia si sfogavano
contro i beni ec clesiastici o peggio contro il culto professato. Il popolo,
colpito in uno dei suoi più profondi affetti, s'affermò san fedista contro lo
Stato. È questo un episodio, ma certo il più saliente, dell'incomprensione tra
quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due popoli volle chiamare, i repubbli
canti dirigenti e le popolazioni subordinate. Alla religione alcuni volevano
opporre una generica morale civile e laica. Si negava il cattolicesimo, si
affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la libertà, se non un mero
astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo quelle popolazioni rurali, che il
governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà delle opinioni, l'abo
lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era chiesta (1 ) Nel Platone in
Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con: cetti consimili, indice della
mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: « Nelle città colte le leggi civili
debbono esser tutte diverse dai precetti di religione e di costumi: chiare,
precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè? Perchè, quando si deb bono
riformare, il che avviene spessissimo, il popolo tien altri precetti da seguire.
Se il popolo allora si trovasse senza co stumi e senza religione, si
distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo necessario a riordinare le
leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131. -107 da pochissimi, perchè
a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto, è nelle basamenta, in un
oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi princípi per dimenticare la
vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep pure, nota con rimpianto il
Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le forze ignote, ma
inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile barriera al legittimi
smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne intendi la complessa
psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca la sua natura. « Il
popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello che si crede » (3 ).
Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare que sto innato senso
di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze, così da « menare il
popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu » (4). Ovunque c'è
un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi come salvatore il
riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per osservazione
diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco
osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune
operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche, che la plebe ama,
perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di sostanza. Ebbene, i
repubblicani preferivano urtare contro questi apparati, anzi che secondarli,
perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia politica di Vincenzo
Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una sola constatazione. «
Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo
vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che vuole il popolo da
ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più non vuole; egli
allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che si (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 106. (3
) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p.
107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo
elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La
manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » (1 ). Le
rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli
uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso,
sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un
patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare, d'una vita non
interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza,
presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma
è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare alle idee
antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti. La
rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla
rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne
contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi
esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una
natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per
gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle
antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco.
Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito
individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o
sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la
sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non
possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento
della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è
un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo.
Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è
nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di
sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII,
p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo
punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso
riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine
della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura,
che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo,
s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo
si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso
naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che
tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia,
sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua
autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli,
nella ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre
all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo
moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua
figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le
idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio
storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi
costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di
sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a
ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. «
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo
si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la
felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in
atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu attore,
spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando egli
stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il crollo
della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando considere
remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 102. 110 1 2.02
fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu zionale dello Stato,
Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria. Notiamo:
quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è solo il
principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento unificatore di
tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà coerenza, e che
egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore dell'ordine, il corifeo
delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di princípi: allo Stato si
sostituisce la setta: all'ordine costituzionale l'associa zione fuori e a volte
contro lo Stato: al diritto codificato le norme del partito. Moderatismo
significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato e non fuori dallo Stato,
diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel diritto. Come il Cuoco
vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è cosa da studiarsi in
seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è veramente l'esperienza
del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa degenerazione de' princípi,
riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli, che dalla storia trae ogni in
segnamento – la storia è la fonte d'ogni pedagogia poli litica scrive: « La
storia di una rivoluzione non è tanto storià dei fatti quanto delle idee » (2 ).
Conoscere il corso delle idee nella storia significa impadronirsi d'una tale
sapienza, che ci permette di evitare ogni errore poli tico. Gli errori di
Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della retorica, dice Cuoco,
esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini, gl'italiani si ravvedano.
A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di terrorismo. È mirabile la
definizione psicologica del feno meno. « Il terrorismo è il sistema di quegli
uomini che vogliono dispensarsi dall'esser diligenti e severi; che, non sapendo
prevenire i delitti, amano punirli; che, non sa pendo render gli uomini
migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa fondamentale coerenza del pensiero
di V. Cuoco è stata più che a sufficienza dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p.
90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i
cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi e buoni. Il terrorismo lusinga
l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero; lusinga la pigrizia naturale degli
uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i
governi deboli sono i più inclini all'abuso costituzionale, al terrorismo di
Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico trae dai fatti, convergono verso
uno scioglimento, che ci appare fatal mente consequenziario. L'estremismo
terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi a cadere, si mostrò più
d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale rivoluzionario, che si macchid del
sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub blica pericolante. Stringiamo le
fila della trama, che siamo venuti dise gnando, portiamoci col pensiero di
nuovo alla critica del l'opera governativa, alla génesi della repubblica,
all'azione legislativa e costituzionale dei rivoluzionari, all'estremi smo di
molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il nostro autore scrive
sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del Cuoco corre, si può dire
precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che non ci ammonisca: ecco
un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici niamo agli ultimi
ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure con rimpianto,
con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota una mirabile
obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il capolavoro;
ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai praticamente
nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la storia si
svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi. Ciò non
toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione per
ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è
consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa
pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII,
p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità
pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello
spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma,
nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1
) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che
raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la
drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività
superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico
sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia,
che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta
subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma
precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce
della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad
accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a
constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè
uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a
volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un
principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il
Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la
glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la
quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu
sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse
durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono
metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici,
religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe
repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono
ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE
RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113
scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre
più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che
non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica
causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di
premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la
critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco
possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima
posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto
minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso
riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della
vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno
alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante
tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale,
non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno
nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due
scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei princípi
di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla legge,
sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i buoni
e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i lazzaroni
oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il governo dello
Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo
documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le
pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa
della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non
distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni
tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi
e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi
scioperati, pochissimi savi e moltissimi 8 - F. BATTAGLIA. 114 stolti » (.1 ).
Se diamo una scorsa ai Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla
rivoluzione francese del Burke scaturi scono osservazioni assai consimili, nel
senso, che pur am mettendo liberalmente una rotazione di classi, il politico
inglese crede ad un ordine sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha
ancora una sua propria missione. Certo vi sono differenze tra i due scrittori,
ma le analogie sono sempre interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del
Burke, il lievito, possiam dire, della grande vita costituzio nale
d'Inghilterra è qualche cosa di diverso dalla nobiltà italiana, con la quale
parola il molisano indica « un ceto che più non deve esistere, ma che ha
esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno svolgimenti diversi e bisogni
spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama con lo stesso nome che
nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa, secondo varî elementi.
Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come lo stesso Burke nelle
sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad una valutazione,
nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke nella
rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri
voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese,
la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che
pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto
d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per
altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato,
che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano
utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno
quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita
civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica
incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua,
nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2
) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo
secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per
tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente
ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe
essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore,
un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con
siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo
la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi
e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai
particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un
corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che,
collaudato da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo.
Sì, il Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera
capitale di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in
certo modo in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri
Riflessioni sulla rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del
campo d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come
eterno farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura
del moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva
nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica
superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione,
mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo,
desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di
saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco, invece,
rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega
completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa
desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova
situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel
secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun
paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla
fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal
punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a
noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere
sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di
Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma
trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale
italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande
successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per
chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti
di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se
la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una
coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta
moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 )
Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana
le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità,
sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del
1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio
stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo
giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali
inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai,
e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel
Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo,
pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228;
ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo
dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446),
ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione
italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime
and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai
profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit.,
p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo
pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal
punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il
Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo
a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del
Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di
più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99
e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui
diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente
storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce
sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto,
sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un
individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è
stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale
passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una
mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo
pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando
la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal
problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera
zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e
palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata
precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p.
279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg.,
ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo
scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare
inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal
RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a
scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di
chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono
scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano
michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la
trista figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il
GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri
vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di
quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte
alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e
l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo
notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed
esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere,
e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè,
confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni
e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del
resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua
mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale
dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare
di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il
SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio,
come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, «
li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche
senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano »,
venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente
il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che
importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo
perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida
io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la
lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più
che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s'
intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del
tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza
italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli
altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che
fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione,
il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119
mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli
dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè
stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli
uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della
tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt'
i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più
di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de '
signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1
). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito,
tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la
acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un
individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di
Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione,
attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto
comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due
provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e
per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi
erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ).
Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia
cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui
vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di
Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche
righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una
larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e
alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento
intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco,
Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella
Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia;
Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna
ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti
a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre,
finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero
cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem
pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente
moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli
animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di
Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro
furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei
soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico
vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica !
Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ).
Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è
cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate
alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di
Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio
che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una
figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei
Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente,
dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un
elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora
uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime
della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per
raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli.
Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di
grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di
prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti
del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità,
illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette
agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono
gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi,
poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva.
La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed
essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè
l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i
bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco
politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista,
che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura
umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di
quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini
sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non
saranno: l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del
loro spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico
ed artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della
rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il
rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle
maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con
la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita
storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li
governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii,
quasi danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose,
come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano
più all' istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è
tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in
cui le avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una
tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu
dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ).
Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il
Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore
dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del
resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno
dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è
perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI,
op. cit., v. III, p. 279. CAPITOLO IV. Napoleone e la sua politica generale.
L'antifrancesismo di Cuoco: reazione italiana. - Il prin cipio monarchico
s'incarna in Napoleone. - I benefici della rivoluzione. - La borghesia. - La
proprietà base del nuovo ordine civile. - Quarto stato: proletariato. - Milizia.
- Liberismo e protezionismo economico. – Lo Stato napoleonico. - L'unità
d'Italia in rapporto alla politica generale europea. - Anglofobia di Cuoco.
Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una illazione, forse fuori di posto,
che si suole trarre dall'atteggiamento di Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo
luzione di Francia e al giacobinismo napoletano, è quella di un vero e proprio
suo antifrancesismo. Paul Hazard nel suo bel libro La révolution française et
les lettres ita liennes, parlando del molisano, al quale egli dedica un buon
capitolo, che io credo una delle cose migliori che sul nostro sia stata scritta,
ponendo in rilievo la sua op posizione all'astrattismo giacobino, accenna non
solo ad una reazione culturale dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo,
ma crede di poter rinvenire una vera e pro pria opposizione di natura politica (1
). È un punto non solo storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P:
HAZARD, op. cit., pp. 218 e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio
sul Cuoco, che abbiamo detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale,
affermazione e giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per
respingere, di ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di
opportunismo e di particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo
intendere la situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della
politica repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello
Stato, la sua risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa,
tutte questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che
il Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi,
democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma
anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un
popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la
propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera
cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo dilagante
in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra storia: ben
ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione propria della
dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa gloria, questa
storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale di Vincenzo è
diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po tere imporre
senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il Saggio storico,
che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del popolo italiano, è
infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è la critica senza
tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La documentazione non
potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di porta la libertà,
l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle popolazioni illuse? Il
popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta l'indipendenza, e fors'anche
l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo beata attesa di 125 ciò che
non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi pendenza occorre sapersele
conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa grave. Bisogna rendersi degni
di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima spiritual mente migliori:
divenire prima cittadini in ispirito della gran patria Italia per poi esserlo
di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli altri? Ohimè ! La libertà,
prima di essere libertà civile, è libertà di pensiero, auto nomia di cultura.
Possiamo mai essere liberi noi, che prima di essere italiani, vogliamo essere
francesi, noi che nelle cose più banali e più grandi, nella foggia del vestire
e nell'ordinamento costituzionale, ci allontaniamo sempre più dalla nostra
natura per acquistarne un'altra estrin seca? Le nazioni hanno un corso che è
unitario e lineare, perchè determinato da un primitivo impulso, che costi
tuisce il fondo materiale e morale della loro vita. « Una nazione che si
sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte le sue parti, e la coltura
diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco quindi come l'elemento
cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di un paese. Una nazione,
che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni omogeneità, ogni ideale
coerenza, e non può che restare inferiore al modello, che ha dinanzi, senza
considerare che la perdita dell'unità spirituale porta seco fatalmente la
perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda la sua formazione,
se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il Cuoco « quel popolo
in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è destinata dalla
natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha venduta la sua
opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metà
della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere considerazioni d'altra
natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è antirepubblicano,
antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa esperienza
politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p.
90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126 teranno: ma la sua
partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che oggi al lume della
critica storica appare più importante che per l'innanzi non fosse sem brato,
come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la patria, qualunque sia
la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento politico. Senza
dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure re pubblicane
di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune distinzioni. Io
credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del Cuoco derivi da
veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità pratica, che
potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di lettere, cioè
nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario..., quando non ad
altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e che egli credea
« la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi »
(2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia costituzionale
vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo prestabilito. Dall'assoluta
ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un eccesso al l'altro eccesso: il
punto d'equilibrio, che salva l'unità e la coerenza interiore delle stirpi, è
la monarchia costitu zionale. La libertà è un astratto. Bisogna che il popolo
se ne renda degno, ed abbia nello stesso tempo un inte resse nella libertà, in
quanto questa effettivamente mi gliori la convivenza civile. Bisogna in
sostanza che il popolo sia maturo per le conquiste rivoluzionarie, e com prenda:
se non è così, gli stessi più alti benefíci si con vertono in pericoli. È
matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa per l'assoluta libertà, per la
repubblica? È matura Napoli per accogliere ordini rivoluzionari? La risposta (1
) Alludo alla preparazione del moto insurrezionale in Avi. gliano, all'opera
repubblicana che il nostro preparò in Basili cata. Questa attività cuochiana
era rimasta nell'ombra fino a ieri: il primo che l'ha studiata e
documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e sgg. (2 ) Framm. III, p. 250.
127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora bisogno d'una guida, hanno bisogno
d'una forza, che li tenga costretti nei limiti d'una volontà generale, pur
contemperando questa con una maggior autonomia delle volontà parti colari o
individuali. Questi sono gli ordini costituzionali. Gli ordini giacobini sono
costituzionali a parole, in realtà sono anarchici, libertari. La saggezza dei
popoli è ancora da ritrovarsi: i popoli sono ancora più fantasia e mito, senso
e leggenda anzi che pensiero ed intelletto: i gover nanti mostrano di non avere
intesa questa complessa e primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un
in telletto, che li guidi ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel
significato vichiano, non possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un
sovrano saggio sul trono » scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio
ne' comizi » (1). Notiamo che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di
Napoleone non brillava ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva
poi spiegare, quando egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle
repubbliche di Francia e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il
Cuoco ci appare dunque coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti
pica, sono eterni. In Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il
suo grande ideale. Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il
suo parti culare. Ora nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre
cisamente la negazione di tutto il suo sistema politico, l'astrattismo
formulante vuoti schemi per chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni
naturali; la democra (1) Framm. III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra
dicati nel Cuoco puoi vedere leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in
particolare cfr. Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p.
264; 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel
Platone in Italia, v. I, p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma
», come scrive il ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto,
temperato, tra la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia
universale, che cerca di sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di
interessi, per costringerli ad accettare un governo monotono uguale; la volontà
generale, che cozza con le volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e
di tirannia. Che cosa è mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È
la più sfacciata tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo,
all'andazzo giacobino; se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il
consenso liberamente mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè
libero volere, libera determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota
Vincenzo, è sempre più dura che non la libertà data dai re. Sembra un
paradosso, ma è così. Le repubbliche sono infatuate dai loro prin cípi, e
credono che tutti siano desiderosi di comparteci parne, e quando li vedono
ripudiati, li impongono, poi che non vedono bene e felicità fuori di essi.
L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo Cuoco real mente ha radici profonde in
questioni di metodo e di po litica. Il Cuoco non è un repubblicano. Egli
vagheggia forme costituzionali, che sintetizzino l'indirizzo potente mente
unitario dello Stato con le volontà autonome delle popolazioni. Queste
considerazioni di natura generale possono spie garci vari punti della biografia
di Cuoco, che altrimenti sarebbero destinati a rimanere senza delucidazioni;
pos sono darci la ragione della scarsa sua partecipazione alla rivoluzione
partenopea, la ragione forse della sua sal vezza dopo la prigionia borbonica,
la ragione del suo iso lamento a Milano prima che un nuovo ordine un po' più
schiettamente italiano e meno repubblicano non venga a costituirsi; questioni,
assai gravi, come ognun vede, ma che acquistano maggior luce, se le si
riconducono ai princípi, che sopra abbiamo accennato. Il pensatore, che,
criticando il progetto di costituzione del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo
amaramente ed ironicamente nello stesso tempo: « Oh ! perdona. Non mi ricordavo
di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede
possibile in un es 129 sere finito una perfettibilità infinita »; il pensatore,
che così ironicamente pungeva l'amico, è lo stesso uomo, che oggi a Milano
esule ricorda a un suo intimo il suo co stante odio contro i Galli (1 ). « Non
ti pare che io era profeta » scrive « quando in faccia a Scipione Lamarra (generale
e carceriere dei repubblicani del 1799 ) mi dissi cisalpino? E profeta anche
più grande, quando diceva tanto male dei francesi? Eccomi dunque cisalpino, per
chè in Milano, ed odiator de'Galli, quale lo era nel '93, nel '94, nel '95, nel
'96, nel '97, nel '98 e finalmente in Capua nel '99. I miei sentimenti sono
eterni. » Il Cuoco ci appare come il più genuino rappresentante di un pensiero
politico in tutte le sue manifestazioni in an titesi col pensiero e con la
prassi politica francese. Il suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico,
l'investi gatore profondo delle leggi, che governano il corso delle nazioni, al
Machiavelli, che dai fatti trae le norme della vita pubblica, al Montesquieu,
il più acuto studioso della natura delle leggi e della loro conformazione ai
bisogni fisici e spirituali de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere
analizzato quanto la rivoluzione era lontana dalla vita italiana e napoletana,
quanto i bisogni nostri eran, diversi da quelli francesi, quanto i nuovi
princípi erano astrusi, scrive delle righe assai importanti per una com
prensione del suo pensiero. « La scuola delle scienze mo rali e politiche
italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee
di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva nè prestar fede alle pro messe
nè applaudire alle operazioni de ' rivoluzionari di | Francia, tostochè
abbandonarono le idee della monar chia costituzionale » (2 ). Ecco,
l'opposizione politica di viene una vera e propria reazione culturale in nome
del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di dubitare circa la po (1 )
La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro MANO, op. cit., p. 269, in
parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi vichiani, p. 350. (2 ). V.
Cuoco, Saggio storico, VII, p. 40. 9 - F. BA'I TAGL A. 130 sizione del Cuoco di
fronte alla rivoluzione. Il Cuoco non è repubblicano, è monarchico costituzionale.
Il Cuoco è antifrancese perchè è troppo profondamente italiano. La posizione
non potrebbe essere più chiara. Questa rinnovata posizione di critica non
conduce però Vincenzo ad un isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno
stato di cose profondamente radicato nella vita contemporanea, ma crede suo
dovere agire, operare in un mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli
italiani quanto essi siano in errore, ripudiando la loro essenza per una natura
estrinseca. Come nel '99 egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale
indipendente, da fondarsi subito dopo la partenza dei Borboni, prima del
l'ingresso dei francesi, d'una repubblica nazionale, non soggetta ad alcun
influsso estraneo, che sapesse intendere la natura del popolo, e su questo solo
trovasse la base d'ogni suo operare, rendendolo partecipe ed interessato, non
seppe, non potè abbandonare i suoi generosi compa gni per problemi e dissensi
di carattere teorico, e si senti travolto in quel vortice che pur non amava;
così oggi, a Milano, ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà
italica, egli è al suo posto di combattimento, assertore infaticabile delle più
pure idealità nazionali. La vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie
gamento non è lineare uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una
affermazione è implicita nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione
francese, che nega la storia, è nella storia, e afferma la storia. Tutto il
movi mento post -rivoluzionario, in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno
stesso getto, con la rivoluzione. L'illumini smo afferma l'assoluto della
ragione e da questa desume formule e princípi ad informarne la vita. Il nuovo
pen siero trova il fondamento di tutto nello spirito, che è in sè e fuori di
se, istoria e natura, sviluppo continuo, pro duttività infinita, principio
attivo. Il Fichte in Germania in parte è ancora nella rivoluzione; lo Schelling
e l'Hegel, e con essi tutto il movimento storicista nella politica e nel
diritto, sono già fuori dalla rivoluzione. La filosofia della rivoluzione non
aveva prodotto un vero sistema costitu 131 zionale, aveva ondeggiato tra troppo
opposti princípi, per finire ad uno Stato, il cui contenuto etico era e non
era. La nuova filosofia riconsacra nella natura lo spirito, e lo spirito
sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La fatale necessaria evoluzione
dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra, diciamo pur così, tutto sè
stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale, autorità e libertà, forza e
consenso. È la reazione dello Schelling e dell’Hegel alla rivoluzione. È la
stessa reazione, ma anticipata, di altri filosofi della restaurazione. In
Italia questa reazione, che però è una rivalutazione dello Stato monarchico nel
suo contenuto etico, è fatta da Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella
repubblica cisalpina e poi nel regno italico, la rivoluzione muore, depone il
berretto frigio, lascia il posto allo Stato, come manifestazione ultima d'un
processo etico, in cui la libertà è nel con senso, l'unitarietà nella forza.
Pochi hanno notato l'importanza del molisano, come rivendicatore del principio
monarchico. Si è detto che egli è il primo, che si faccia araldo del problema
unitario in quanto problema spirituale e pedagogico; ma si è dimenticato che
nel suo pensiero il fine della rinascita morale è una unità, che non può
ottenersi che nella mo narchia. Affermazione questa, notiamo, che non implica
alcun assoluto politico, ma che è la risultante di mere contingenze storiche,
di una vera impreparazione popo lare a più ampie libertà, da studiarsi, dunque,
nell'am biente, in cui e per cui il Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico,
che deve condurre all'unità, è un processo nulla affatto rivoluzionario, anzi
evolutivo. Mentre in Germania questa rivalutazione è posteriore: alla
rivoluzione, mentre in Germania il Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla
nazione tedesca, scrive il suo Con tributo alla rettificazione dei giudizi del
pubblico sulla ri voluzione francese, che non può non essere, nel grave
incendio sovvertitore, una partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto
il movimento, ed insieme una loro legittimazione; in Italia lo spirito
nazionale nasce nella stessa rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci
132 ficamente italiana ad una forma vuota ed estrinseca che le si vuol
sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la creatura di genio, che impersona in sè
tutto il nuovo ordine di cose, che sorge dalla rivoluzione e alla rivoluzione
s'op pone, ordine di cose che il pensatore ha previsto sin dai primi bagliori
dell ' incendio giacobino. Le prime pagine del Saggio storico, la Lettera
dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla seconda edizione sono la
conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente esplicando fin qui. In
questi scritti la figura del gran capitano è esal tata: ma, se leggiamo
profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine di cose e i nuovi
princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di Francia. Il Cuoco,
dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era stato spettatore, si
rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli avvenimenti, che nel
breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato nella sua patria: il
regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista d'Italia, un monarca
debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e stabilirsi quando meno la
si attende, i fati combattere la buona causa, e poi gli er rori e il crollo;
rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il piacere di chi, essendo
stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire, nascente sulle contrad
dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il profeta di Napoleone. «
Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla seconda edizione del Saggio
storico « che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti dei quali
nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione.
Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una
predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le
antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo che non falla:
lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli uomini che
brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe sopra
citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la soddisfazione
dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge. « Io ho il
vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli
[Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt' i princípi
erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella
moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu stizia, e
che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte
l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl '
iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di
moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto al
mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e
sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come
monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora
credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la
spiegazione della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente
partecipe. La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non
amava, al quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che
per esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane
parole; virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo.
Il regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove
la prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è
ispirata ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura
delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed
individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito
come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità
e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi
osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica
generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non
nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è
voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma
coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero
gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e
continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli
tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in
Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute
formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli
uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che
l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle
nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la
controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non
attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si
segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si
occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende
il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà
in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars
servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio
di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro
gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella
stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche,
lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche
nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia,
dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o
volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in
una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente
l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo,
esaltando sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica.
Napoleone è il rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto
che il potere, che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la
delimitazione sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso
cattivo: quand'esso, anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato.
È carattere pro prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i
sovrani, potenti su basi di consenso e di forza, non possono che essere
equanimi, larghi, liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla
monarchia: la monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la
migliore forma di governo. Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad
essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema
giacobino si è sostituito un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto
egli, ingegno superiore sto rico, portato a valutare le conseguenze ultime
della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento instaurato, sa trovare i
benefíci che da questa sono scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere.
L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i
primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla
nuova situazione politica, che trova le sue origini, pur negandole, nella
rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda
indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro: nonostante i grandi
errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo cammino sulla via
della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine
migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono diventate più
concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 ) Giorn. ital.,
1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28: Varietà (ristampato
in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La rivoluzione francese e
l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han fatto avverare il detto
di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non è che la distruzione de'
princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere dal 1795, non potevano
arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun
costume richiede una forma di governo, e ciascun governo ha in sé talune parti
essenziali, senza le quali, invece di costituzioni, si hanno que' mostri po
litici, i quali soglion aver la vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi
agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem brerebbero comici agli occhi de'
sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri
conosciuta una volta necessaria la concentrazione del potere, è indispensabile
renderlo ereditario; altrimenti sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue
guerre ci vili. Esempio ne sia la Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato
il diritto di nominar il suo successore, poichè l'esempio di Roma antica e
della Russia ben dimostrano che questo ordine di successione non basta a render
lo Stato sicuro dai tristi effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta
il potere ereditario, è necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori
della dignità, perchè queste accrescon la forza della opinione, e la forza
delle opinioni serve a risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai
far abuso senza pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza
dell'opinione, si chiami pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un
governo militare, il pessimo di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto
il potere, procura di fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di
sua natura teocratica, tende a cangiarsi da governo militare in governo civile.
« Tale è l'ordine delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una
rivoluzione in mezzo a questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una
rivoluzione per in cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di
Vincenzo Cuoco, nella sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or
dine costituito, cioè Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua
ragion d'essere nella negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne'
bisogni dei popoli di trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di
destra e di sinistra in quel consenso, che nel mondo moderno solo può
fortificare i governi. In Napo leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine
civile, ma non vuol vedere, nello stesso tempo, il militare, il con quistatore.
Il governo militare, che si erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla
egli ha parteggiato nel '99 per la repubblica, ha salutato con letizia la
partenza dei borbonici dalla sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa
pubblica e la direzione dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e
da questa derivare la forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi
litare, che, come dice il nostro autore, è il peggiore dei governi, come
quello, che, essendo odiato, sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini,
rinnega le esigenze, i bi sogni, gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del
Cuoco non è nè lo Stato paterno, di polizia del Wolff, nè lo Stato
rivoluzionario, che pone un limite insuperabile alla sua autorità in una
visione anarchica dei diritti subiettivi. Nello Stato del Cuoco confluiscono
vari e complessi ele menti, dal Rousseau al Vico, dal Montesquieu ad Aristo
tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è Stato di diritto, che importa e
riposa su un contratto sociale, non storico ma immanente alla vita stessa dello
Stato, sin tesi di attività e di diritti singolari, Stato infine che non pud
agire che sub specie juris, nella forma del diritto, in quanto il diritto
stesso, nella sua natura generale, è alla fine riaffermazione e consacrazione
delle libere vo lontà particolari, che lo costituiscono. Il molisano è ugual
mente lontano dalle esagerazioni rivoluzionarie, che egli stesso definì
anarchiche e non costituzionali, come dalle affermazioni di coloro, che in
Napoleone avrebbero vo luto il signore dei gratia, superiore ad ogni volontà na
zionale. Egli, ingegno storico, sente che tra Napoleone e il regime assoluto
c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si può nè politicamente ne
teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel giusto mezzo, e ci dà un
con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni aspetti al 138 Rousseau e
al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la teorica kantiana, sebbene
il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per seconda mano che per let
tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la monar chia liberale
moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il consenso e l'autonomia
(2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il Cuoco, sono discordi: è
fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo una rivoluzione, e gli
uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la maledicono. Perchè
l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or dine nuovo tra le
varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto, diverso dal nuovo che si
desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono anche nel Platone.
Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo sotto l'aspetto
politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo facilmente la
conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della coerenza
cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali; il
tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e
qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra
le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei
che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una
lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali osan
parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore
diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La
moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè
« noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma
non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai »
(3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE,
Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M.
ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati
essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della
libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile.
Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse
credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto
avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi.
Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più
rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona
costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale
attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo,
perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien
ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di
ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al
governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene
per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re
pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di
stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro
custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di cia
scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più utile
allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne
produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo
Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e,
quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de '
romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è
stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non
vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi
sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a
pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite
egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le
persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si
perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia
cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si
afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti
i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso:
spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue,
d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione;
sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha
la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il
nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole
dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno
per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato
soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è
classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso
tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza
il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del
primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco
in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia
sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione.
Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto
di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in
atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto,
ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno
novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È
possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di
no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in
certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita
de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141
rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de'
governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna
indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso,
occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le
crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai
soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di
rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare
oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare
nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco:
ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove
scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione
di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia
qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo
stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di
cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle
nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88,
91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394:
Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il
sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno
squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in
campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo?
Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più
sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere
medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi,
onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai
prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di
democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla
forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e
sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di
re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare
ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del
regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse
dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante,
che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ),
tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del
numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che
chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato.
Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie,
dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato.
Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro
progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo
terzo stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli
soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu
distrutto ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di
oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe
predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i
vantaggi della vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne,
perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie
loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni
interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore
del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè
non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità?
Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà
più durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo
non avrà alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di
patria e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i
quali vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la
borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione,
che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza
corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella
classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la
cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la
borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe,
in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe
insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino
dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa »
scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto
vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di
struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi,
gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo
esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà
diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener
uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste
commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali
possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai
disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè,
dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro
i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà
avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i
ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura
delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra
industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di
quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16, 18,
30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p.
51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in
Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al
principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già
accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali
potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la
massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva
Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si
potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello
in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si
ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro
discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che
è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza
di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal
l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto
cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe
dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti,
dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il
gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s '
impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui
il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna
abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco
antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni
versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto
che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che
questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì
doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e
che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per
eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà,
nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni.
Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo
stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son
tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma
di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario
sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il
merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo,
dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su
bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle
nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal
Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli
istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il
diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in
sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le
costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un
popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta
importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per
via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle
masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che
l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte
sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni
coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare
tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia
del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe
nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma
questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la
di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come
ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere
tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà
la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano..
10 - F. BATTAGLIA, 146 Una classe di migliori, che per la sua stessa composi
zione e formazione è atta a modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il
reggimento dello Stato. Lo Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e
patrimoniale, sta tico, anzi è il più atto ad ulteriori sviluppi. La base
imprescindibile di esso è la proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo
presidio naturale. Chi ha una sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o
fondiaria, in tellettuale o commerciale, tende per natura a conservarla e a
migliorarla. Fate sì che uno Stato si appoggi alla classe dei proprietari,
questo Stato è al sicuro da ogni attacco contro la sua compagine, poi che troverà
sempre la sua difesa in coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro
beni, i propri interessi. Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della
proprietà, tradendo le sue basi e le sue origini, viene a mancare la classe de
' possidenti alla tutela della cosa pubblica, e, se non interviene una pronta
reazione a ristabilire l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno
Stato liberale, che, pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione
giuridica, si afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua
stessa composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto
troppo oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese,
che solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data
dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura
conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè sporadico
in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza del
molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla realtà
umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica ed
insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la costituzione
non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver affermato che
le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi abbiamo a lungo
detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come si possa
organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive « divisi i
poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col
l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a
dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza
offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si
conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a
sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben
condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno
del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà,
ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro
che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro
interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il
senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi
addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a
dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il
sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e
quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale:
l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che
nell ' uomo è senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura
dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla
proprietà, base degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la
natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e
fantasia, bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un
sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come
questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre
bisogna aver di mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro
prietà !? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247,
148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler
distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il
quale non diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso
è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si
trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può
senza tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi
sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro
maggiori » (1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente
economica, e questa origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè
null’affatto immutabile ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i
principi del diritto di natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i
bisogni e gli interessi lo consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà
giuridica spiegano, ma non esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che
Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per lui non è una classe chiusa,
capitalistica, oppres siva nel monopolio della vita pubblica, è naturale che
egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato,
il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia
sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione della
proprietà C., mi sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle sue
esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro, non
è tenero per i proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento comunistico.
Io non faccio che rimandare il lettore, che si interessa del problema, allo
studio su V. Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo
stesso Edmund Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni giacobini con
tro la proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo uno de tratti
comuni tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A. del Saggio
storico sulla rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo
occupati, fu studiato da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro non si
diffuse molto. 149 nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia
miamo proletariato, ma da questo differisce sotto molte plici aspetti.
L'artigiano è libero lavoratore, il prole tario è il salariato della grande
industria. La grande industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al
tempo in cui il nostro medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza.
Le questioni attinenti al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal
misura che egli non vi accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale
italiano (1 ). Sarebbe pur questo un tema interes santissimo; senonchè,
diffondendoci, noi usciremmo dal nostro assunto: tracciare una linea generale e
sommaria del pensiero politico di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi
andiamo agli scrittori politici, che il secolo XIX offre al nostro studio,
invano trove remo un quadro così vivo della società post -rivoluzio naria, ed
un intuito così immediato dei problemi, che ne agitano la compagine. Basterà
che noi riferiamo ciò che il molisano dice intorno ai benefici effetti della
rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere
quanto lungimirante fosse il suo senso po litico e quanto fine la sua visione
economica. Un effetto importante del sovvertimento è un progres sivo
migliorarsi della morale pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla
morale e alla religione nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale
dovremo indugiarci dopo. Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi
lizia, poichè essa non è perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con
quello di cittadino; e questo non può avvenire se non dove non siano nè
esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella
sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo Stato as (1) Giorn. ital., 1804,
6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica: a proposito di una cassa
filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55,
pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi
connessi. 150 solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà
dei subietti singoli, come tirannico e nemico: l'esercito nelle sue mani una
forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo
luzionario, alla sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da ammettere,
ed è un estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito non ha
biso gno della forza a suo sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può
condividere questi princípi. Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura
tende alla conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche
violente mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione,
non è un contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè
bisogna riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita
civile stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce
di superiori meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o
le libertà indi viduali (libero volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni
momento della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi
rompe o cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano.
Il contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è
convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto
generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del
Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni
punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di
alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e
di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà
ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta
sottomissione. In ogni atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione
inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della
forza armata. Il principio è stato superato durante la guerra, date le
condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola.
151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale
non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della
forza, che integra il consenso; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani
festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di
una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa,
sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la
cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena
e sintetica nel monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e
storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la
filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le
costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza
armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze
della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i
Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene
nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo
contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo
Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le
quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di
pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani,
dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti
militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII,
permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a
sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo;
e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche
più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato
sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1
) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto
coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti.
Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo, allorquando
il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale del popolo
nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani esercizi
bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il nostro autore
« e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con dannava
all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta una
volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che il
primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi
un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò
gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però
non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai
d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si
reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni
che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È
un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene,
l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato
negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in
dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi
dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale.
Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile,
diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto
perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la
volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma
lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s
' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga
l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il
commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con
riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa
riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi
dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e
francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni
ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può
dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato
sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato
monopolistico, come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo,
di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere
forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò
che è, è quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi
troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc.
non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata
di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli
sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un
proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non
possono mutare queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio
soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni
sociali e civili, di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che
determina l'ordine costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle
cose che determina l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab
biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza
economica, ma, appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed
apriori stica, ma di fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi,
di loro natura « tanto semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza »
divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi
dell'economia sono (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché
sono i princípi stessi della natura. La na tura determina l'ordine e lo
sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze. Lasciamo operare la
natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di meglio si possa immaginare
ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè che gli uomini, lasciato
da parte ogni intendimento utilitario individuale, mirino apriori sticamente ad
un fine utilitario generale. La disarmonia di contrastanti interessi porta
all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo stesso che si
avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è mera astrazione, l'egoismo
economico nativo, che li porta alla ricerca della soddisfazione maggiore de'
propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato cuochiano quindi è Stato
liberista: il prin cipio però notiamo è tutt'altro che chiaro, e lo stesso no
stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il legislatore interviene a
limitare l'attività economica individuale, solo in quanto quell'attività
lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali anomali, possa
risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività indivi duale, nel
rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal lecito giuridico.
Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare princípi astratti e
crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi economici, ha detto
sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura; i casi concreti
invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico trova nella realtà
mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri solvere un problema
positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo? Questione fino ad un
certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni reali può ren dere
necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono pur de' casi, come un
male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare le libere forze
economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di vendere. Or, perchè
gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con vantaggio, è necessaria
una certa potenza politica nello Stato. È necessaria, perchè possa ottenere 155
dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten gono se non quando
taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua voglia. I popoli,
dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se non siete forte,
sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni giuste, ma sarete
costretto a soffrirne delle ingiustissime » (1 ). Come mai il Cuoco, di cui
abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire così i
suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può permettergli
apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende quanto
necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non dimenti
chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età, in cui
ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la Francia
e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo politico
diviene spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto non sono
più la libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il
sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo
leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all'
impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni
maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi generali e
valevoli in eterno (2 ). Ma dove il pensiero cuochiano attinge una verità eco
nomica di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna ne'
Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8
gennaio; n. 5, 6, 7, 8; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato
in M. ROMANO, op. cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp.
201-213 col titolo La politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche
il ROMANO, op. cit., p. 155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano
da me sovra ci. tato aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del
Cuoco non moveva da teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni
storiche del suo tempo. E che avesse ragione allora.... non è chi non veda »,
156 principio, al quale egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il
germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello
sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che
non renda infelice il cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a
segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero,
si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è
la felicità, e la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio
tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre
variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o
scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che
desidera, non sarà mai ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi
quel senti mento di pietà, che ci fa risentire i mali altrui al pari dei
nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre
che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo simile, perchè non
gli serve: egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono
crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser
utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni
le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà
anche generoso. Ma questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo
a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario:
ed allora non si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per
schiavo » (1 ). Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio
possiamo dire soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità
fisico - chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è
felice, cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1
) Framm. VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un
abbozzo di morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da
V. Cuoco. 157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto
tra desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni,
aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo
dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il
nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti
ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio
continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che
parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono
soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di
bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare
catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel
che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna
infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per
breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni
impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e
proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una
serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi,
che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ
zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento
naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser
quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le
quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale
ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza
quanto colle arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione
del lavoro agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che
chiama pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla
pura indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un
intervento statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano,
purtroppo, i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso
a forme d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un
protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni
di circostanze ano male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per
una pratica economica generale (1 ). (1 ) Bisogna pur riconoscere che elementi
estrinseci interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so
stiene forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e
spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra
tutto (op. cit., pp. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera
statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino
Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla
tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per
incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli.
Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta
dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie
d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri
fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di
sè stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di
noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi
azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune
cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero
migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre
presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi
pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso
dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i
ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra
il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e
quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in
Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque
gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere
attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at
taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve
procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter
vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale
della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo
Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità
nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come
questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di
Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che
alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la
giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma
che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un
processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta
documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto
imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che
porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione
negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue
Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero
politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella
natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la
tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I
contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge
ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui
opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà
intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato
decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al
regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? —
E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean
predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30
maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato -
consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti
vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ».
L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di
tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è
fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di
scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un
esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di
meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè
era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che
quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il
limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco
rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo
così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza
trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere
legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in
campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità
amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la
monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere
esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di
togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella
decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il
potere esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo
d'autorità: il diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare
situazioni in via strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La
monarchia costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ».
S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la
Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla
stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni
potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la
guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si
comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795,
furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea
esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni
della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il
pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che
al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un
estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa
spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La
costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la
lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di
comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio;
l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del
sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e
all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto
d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in
parte. Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale,
inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una
particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato
ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato
per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni
ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo
restituito così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee
andarono fino alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe
il consolato a vita e si diede al console il diritto di nominare il successore.
L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è
perfetta reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la
storia; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè
soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il
com pimento di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F.
BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la
responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe
avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si riuniscono due cose che
paiono di loro natura inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho
analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come
da questa critica nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con
sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco
ha preveduto trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un
processo dialet tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono
cogliere, pur quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha
osservato le idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che
brillano un istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose:
le sue deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la
più piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso
uno spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una
convergenza d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e
de ' quali noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel
tipo di Stato, che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità
individuali, esercita unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando
consensualmente su un con tratto sociale, in ogni istante vero nella
convergenza delle volontà subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza
attiva che non falla. Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza
porta all'impero (1 ). Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo
costituzionale, d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa continuare sulla
stessa strada. I popoli non possono prosperare, quando gli or dini civili non
rispondono alla vita stessa. La vita è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità,
cioè estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1
) V. FIORINI (F. LEMMI, op. cit., p. 619. 163 vità umana coordinata in società.
Ogni menomazione del principio porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri
spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi
sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente
nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di altre figure in signi di
capitani e di uomini eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la
parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni che illuminano direttamente
il nostro argomento. In uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico
possegga un manoscritto antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo
di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli
desume un collo quio tra l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a
riferire il dialogo, che si svolge animato e profondo di politica, tra i due,
nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande
fiorentino, che i secoli hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo.
L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime
di tirannia ai Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca
struccio e il Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli
tanto poco è stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario
lo han per seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla
seconda obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita
fermarvisici un po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua
Vita, non ebbi altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani,
inviliti tra l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei
buffoni, all'amor delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo
illu stre che per questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero....
». (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp.
39-40, pp. 43-44: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il
titolo Due frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca
Valentino?... » « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati
di lui.... Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue
scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri,
con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro
più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia. Quei tanti
tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra; ma questa
guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo
diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato
più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero.
Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia
avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad
avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La giustificazione
del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva questi mezzi, e da
essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per iscopo di realizzare la
sua personalità, non po teva non agire in quella maniera. Oggi la storia è cam
biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è un ambizioso, il nostro autore
non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce la gloria alla virtù. Coloro che
lo han preceduto sono inetti metafisici, incapaci di portare la nazione ad un
fine grande. Qual è la ragione etica e storica, che possa impedire al genio di
farsi strada e di trovare nella sua stessa personalità la sanzione del l'impero?
Nessuna. Tutte le cose invece additano Na. poleone come il restauratore degli
ordini civili sconvolti, come colui, che può dare allo Stato un potente
indirizzo unitario (1 ) (1) È curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco
spieghi e legittimi il Cromwell. In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo,
n. 28, pp. 111-12: Considerazioni sul libro in. glese « Uccidere non è
assassinare » e sul diritto delle genti (ri stampato in Scritti vari, v. I, pp.
81-85 col titolo L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti)
scrive, a proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un
titolo più nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato
all'Italia quell'unità, e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di
tanti pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito,
quando verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come
il problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè
educativo, e poi un problema politico. Limitiamoci ora a vedere la cosa
piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male
s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario. Quel che al Cuoco
interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente, a pen
sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al carro di
Napoleone ! Che importa ciò, se quest'uomo grande ha di mira il bene comune
dell'Italia, sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele zione. Il
nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà reciproca,
che lega il benefi cato al benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli,
comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente
antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad intendere i
benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare
Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo
solo? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no stró
scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e
dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla
posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze
degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero
di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come
igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti
dell'Arabia,... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a
ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il
minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub blicana,
sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli parole vacue
di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei archivi
bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che dice
d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli descrive con così foschi
colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che invece
esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli ordini
pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della sua
rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è, però,
un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna dunque
operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed eterne,
bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità, la volontà
unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo
dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale » (1
). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per
estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran
sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo, ovunque
veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido
murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il
desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico
avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per
virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano,
per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur
serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale
necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi
a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione
istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato
potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in
Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia
della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E
come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto
tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i
francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per
superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa
a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia
eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla
Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio
vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua
vittoria; ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la
sorte d'Italia non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la
condizione de' paesi conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma
delle libertà tutta si concentri entro le mura, e fuori non rimane che
l'oppressione. Forse è inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de
'mali non si possa evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a
quell'ottimo che si chiama con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi
in quella mediocrità che forma la base de governi temperati. La Francia, quando
ella stessa non avea governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al
suo: con promesse, per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi;
per l'Italia, an corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo
per vero che i costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme
repubblicane, rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli
cane l’Italia, il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital.,
1805, 1, 3, 6 aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno
d'Italia (ripubblicato in, parte da G. Cogo, op. cit., pp. 134-136; ed ora in
Scritti vari, V. I, pp. 149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se,
non riunendosi, poteva acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza
indipendenza e senza forza, preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai
potuto perfezionar gli ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria
di cui abbiamo parlato. Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua
fisionomia speciale, bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono
mutarsi ed adattarsi ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente:
crea in Italia un Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma
nello stesso tempo gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa,
che intenda i bisogni e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che
sol levi lo spirito popolare depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato;
gli dà istituzioni, leggi proprie. V'è una politica imperiale, politica estera,
amministrazione ge nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla
volontà del monarca. V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di
esigenze specifiche, che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle
popolazioni, che intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni
civili, dalle quali sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento
di governo che è avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai
francesi, si può dire però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di
tutti i legami che univan questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza,
che, se alla Francia è utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia
è divenuto proprietà dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande
uomo del secolo: egli saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà
farlo prosperare. Questo uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità:
quello di creatore e di restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del
l'Europa gliene dànno un terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere
ancora per altro tempo lo Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha
questa nazione dei benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno
spirito pubblico nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma.
L'unità, che Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra
ragione che nel suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è
un as surdo: in Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e
della sua forza. L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella
che la storia ha sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli
italiani, come la convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa;
come essi uniti siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar
tutto da un avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori.
I germi di quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la
storia non ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è
davvero il profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho
detto che ci riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco
crede possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale,
attraverso un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un
uomo ha potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa
génesi, estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un
capitolo del presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica
gene rale europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune
poche insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata
storia del secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza
di forze politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai
interrotto processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po
litico, appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il
centro del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi,
il transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po
sitivo; il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni
di predominio commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in
quanto nessuna grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio
incontrastato sulla penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e
commerciali europei. L'unità italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio
europeo. Le guerre cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince
ranno di questa grande verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile
d'un assetto europeo duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto
animatore della politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che
non amava, la rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza
d'indipendenza e di unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange
l’esule della Ci salpina, potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e
l'indipendenza d'Italia potea solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto
vantato di Europa non può esser af fidato se non all'indipendenza italiana; a
quell'indipen denza, che tutte le potenze, quando seguissero più il loro vero
interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa
riflettere converrà meco che, nella gran lotta politica che oggi agita
l'Europa, quello dei due partiti rimarrà vincitore che più sinceramente favo
rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La visuale politica di Vincenzo è senza
dubbio vasta e profonda. La lotta tra le grandi nazioni s'impernia sul
Mediterraneo: la questione unitaria cessa di essere, come per molti patrioti
del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra in problemi più complessi,
europei. Gli uomini politici del Risorgimento, purtroppo, non intesero questa
grande verità, e la storia, si può dire, operò per virtù naturale delle cose,
fra l'incomprensione anche di menti riccamente dotate. Per lo stesso Cavour la
lotta è una questione continentale di importanza limitata. Solo un po'tardi, ma
a tempo, lo statista piemontese, nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge
dall'atteggiamento in (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese
quanto importante sia il problema meridionale nel gioco delle forze
mediterranee. Tutta la maggiore o minore bontà della politica delle varie
nazioni europee, vien giudicata dal Cuoco alla stre gua di questo fine
superiore, secondochè abbiano esse più o meno favorito l'equilibrio internazionale
nell'unità d'Italia. Abbiamo uno scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai
interessante per la comprensione integrale del suo italianissimo pensiero
politico, scritto del quale io darò un largo riassunto, poi che mi sembra che
non sia stato considerato dagli studiosi a sufficenza (1 ). L'arti colo,
Osservazioni dello stato politico dell'Europa, è una sintesi mirabile delle
intime ragioni della storia europea negli ultimi secoli, delle lotte per il
predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è determinato dalla lotta, che si
riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco supera le contingenze
politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio. Nella vita moderna
due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il trattato di Westfalia e
il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche ben distinte della vita
europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa tempo di pace non è che
il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio politico dell'Europa è la
causa principale di tutte le guerre e di tutte le paci: gli uomini e le nazioni
travagliano con una mano a distrug gerlo e coll' altra a ristabilirlo. Vi sono
sempre due na zioni preponderanti, le quali, a calcolo sicuro, si fanno. la
guerra un giorno sì ed un altro no; e la guerra dura finchè ad una non riesca
di acquistar sull'altra una su periorità tale che sensibilmente faccia
preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia nascere il bisogno di un
equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia detennero il dominio in
Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1 ) Giorn. ital., 1804,
14, 16, 18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp: 22-23, p. 27, pp.
30-31, pp. 51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi
in precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza
spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il
posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie
della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la
posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della
sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali,
l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma
non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle
successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le
donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli
italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un
dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad
arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le
persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le
piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui
vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata affermazione
della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi un grande
Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo alleato. Ma il
fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era commesso questo
disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che la ritenne
arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la storia nostra
! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per la Spagna
cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la Spagna,
non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre,
nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per
loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si
perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per conservar
ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida decadenza
spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma
alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore politico
della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie
ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo
grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare,
tribù selvagge. La politica francese nella lotta per il predominio, secondo il
Cuoco, fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando
di proteggere gli italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi
dell'Impero: così detta le condizioni a Munster; sostiene il Portogallo, si
allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale. I
francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non si lasciano accecare dalle
ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non giunge mai ad aspirare al dominio
del mondo; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui moderato
nelle vittorie. « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci tare sempre
un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere il
Portogallo e l'Olanda; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze
svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di
Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più
potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla. La Prussia, con
popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la
Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la
Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza, della
giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia
ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria, ma
non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non completo trionfo. «
Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la cui insufficienza si
fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della
Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il
Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura non può
mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è
l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua
superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri
non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque
altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb
bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di
successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove
gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra
tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza
dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me
sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi
prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella
guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che
Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della
magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più
felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa, nella
guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi: così
nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di oggi. E
dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va perdendo i
frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e di libertà
! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama « naturale
irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de' popoli, «
o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è giunta ad
un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in terna sua
amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo attesta un
uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli della
Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima 175 à
riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino al
secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e ferocia,
erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù; perchè,
dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi, e senza
i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo cangiarono
massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia e la
Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito della
tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti. Nell'ordine
eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i popoli hanno
la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi ruina. I
francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non quelli che
la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava di riforma
ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel disordine
dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono
incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro
che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole
soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello
che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a
nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di
Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro
terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete
neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime
chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista,
in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola
ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di
paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ),
p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti
intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa
visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit
tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per
spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia
non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così.
Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola
non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio
« per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non
toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una potentissima
alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola parte nè
potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè sola,
così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica
che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella
Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io
potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che
l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la
nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive
nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di
morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha
liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese
e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati,
dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli
avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria;
ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p.
178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera
del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di
prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene
dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le
sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non
molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono
stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria
a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi,
che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è
afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de
Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non
c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento
per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio
sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia,
possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al
grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a
chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il
Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una
questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente
nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della
sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i
creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con
maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato
da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una
realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità
ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia
pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione
civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente
un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento
s’è manifestato come un movi 12 - F. BATTAGLIA. 178 mento altamente spirituale
da un lato, come un problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e
Gioberti sono stati il lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non
si comprende il pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è
stato la causa prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia
contro l'Austria; l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui
l'Inghilterra permise l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de
francesi prima osteggiò, e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour,
finì per per mettere. Il Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari,
nessuno può condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del
l'unità italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa
politica, che egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne
alleati ed opporli ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando
nel '60, di fronte al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì
un Regno d'Italia, signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad
un Regno di Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale
da sottrarsi al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante
l'impresa garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui
abbiamo parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia,
aiutiamolo ad esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà
riconoscente, e non ci nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro
Stato, questo dapprima debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s '
ingrandisce aiutato sia dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che
abbia interesse a svilup parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i
suoi padroni, inizia il suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo,
mancanza di riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate
le idee del loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na
zione dal conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell'
Inghilterra in seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è
autonoma e forte: sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi
vecchi mag giori amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più
esuberanti e vitali che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra
interessi, bisogni, volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il
Cuoco nella storia vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci
si appalesa facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi
storicamente gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La
caduta dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella
sua gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a
Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa
in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche
resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia
rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile
quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. «
Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un
governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor
militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea
concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto
impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la
debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù
dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il
compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella
vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene »
(1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda
obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta
uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle
ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non
trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di
Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il
trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne'
tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di
porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della
Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si
passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana.
L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione
s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi
possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non
costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in
poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed
antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo
fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale
ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel
Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte
contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica
non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio,
Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe
Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti
questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo
aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni
alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve
avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione
umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1
) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 23. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 391.
181 etico, sintesi di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue
funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà
generale; esso non può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno
degli elementi che costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base
della sua vita. La funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del
Cuoco, concepito come so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione,
anche se lo Stato non volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel
quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che
essa non può nè vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato
agnostico di fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera
nel terreno vivo della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole.
Che cosa è per il Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto,
lasciato inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte
da me ci tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una
delimitazione tra la morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi
tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione
dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po
tesse, e mille han risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi
nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i
quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una
profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla
dignità dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste
cose meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci
vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che,
restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire:
questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 )
G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653.
182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della
divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia
potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti
che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella
di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In
sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o
almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad
una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben
nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico,
capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una
volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a
mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico,
al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la
vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla
ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema
co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci
dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità
si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di
cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea
di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non
possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare
come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento
eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno
avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della
giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo
loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non
comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è
potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità
per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di
cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo
possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè
stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re
ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche
cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco.
L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel
concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il
popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi
parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle
origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione
tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La
distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci
offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per
lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la
base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale,
d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non
trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore
deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p.
130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento,
come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede
possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che
pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La
filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la
religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol
disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale
uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non
può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo
elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo
edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in
un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello
che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto
derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro
le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato
che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come
mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito
dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in
materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il
problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito
educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione
interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo
convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non
può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al
popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli,
eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione.
Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli
non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica
dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di
rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non
informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione
areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come
problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185
prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo
Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al
popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui
familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi
concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo
Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra
realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con
gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le
aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la
guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso
non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse
compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo
ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e
segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè
clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che
lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara
venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa
cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due
mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La
nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare
d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio
pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla
società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa
guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da
me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1
). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr.
Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è
confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili,
edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita
esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben
distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ).
Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può
notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in
ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile
incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di
trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il
savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra mente
è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa massima il
fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla, non con
misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie, che
ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca
natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre
altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello
di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i
filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del
volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non
può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al
mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile
spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di
vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile
della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime
norma della morale: la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a
renderla viva nella coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 )
G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187
Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La
verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può
darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e
pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più
agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa
contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione,
vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra,
si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un
fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta
delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un
fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura
umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi
limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è
possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed
obblii il mondano. Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il
miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso
v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la
religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare
lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni
miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente in ispirito reli gioso non
può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam
detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti,
proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è
intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico
ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col
vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante
la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un
qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile, senza
che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur
essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato
agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia necessario un
controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che
non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica
e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà
dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra
Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma
il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica
può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa,
l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali
caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le
facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date le premesse che
abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la
subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla
legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato: l'attività
ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco
differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso
vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello
spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato
come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione
come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori
della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non
possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione
di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la
questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che
la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo
Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e
d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato
agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la
religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme
giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce
in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano
svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII
si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al
Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse
all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista
degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805;
Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del
Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale
(maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il
Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo
spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza
dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio
VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra
Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul concordato
del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi
indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie
chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè
le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6
febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul
Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e
Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine
da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti
Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano
vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La
Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima
esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità
sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «....
Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804,
e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità
colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto
eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno
data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la
via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin
qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben
noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico.
Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e
spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non
cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato
più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono
quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio
pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea
scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non
è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli
eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli
ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un
religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo.
Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto
col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro
repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno
la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del
l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno
di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza,
riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa
terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi,
l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il
benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il
Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel
1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede
sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della
storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente
storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più !
Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di
giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa
terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a
Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine
nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia
rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde
nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio
deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore
dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice
Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano
egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la
di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende
della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra
i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1
) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della
repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni,
per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto
elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con
tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad
Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò che tu hai ricevuto non da Cri sto, ma
da Costantino, io ti consiglio a ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a
pretenderlo come un diritto Il consiglio, che il molisano ripete al Pontefice,
è un consiglio altamente politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in
determinate contingenze storiche, il papa, posto tra barbari armati, crudeli,
pronti alla violenza, abbia dovuto far ricorso alle armi per difendersi, abbia
quindi desiderato il potere temporale; oggi le condizioni sono mutate,
l'autorità regia non vuol menomare il prestigio della Chiesa, anzi vuole
accrescerlo, difenderlo, arric nirlo; a che dunque serve il potere temporale?
Il po tere temporale ci appare come il resto inutile d'età sor passate, poi
che, la base del rispetto e dell'autorità non è più nella forza e nelle armi,
ma nella giustizia e nella virtù. Il patrimonio di San Pietro è intangibile !
Ma perchè? Serve alla difesa della Chiesa.... Serviva: ora non più ! Le parole
che il Cuoco ripete sono le parole della sa viezza, le parole che la storia,
che non torna indietro, consacra nella realtà della vita. L'abdicazione ai
diritti antichi significa potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli
uomini, ritorno alla purezza antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in
sostanza un duplice elemento: un elemento dommatico, che nessuno pensa a
menomare, specie l'autorità pubblica, che non intende penetrare in una sfera
che non è sua; un elemento politico, determi nato dai tempi, soggetto a flussi
e a riflussi, ma sul quale il conflitto con il potere civile è stato e può
essere sempre facile. Il punto di minore resistenza è il dominio temporale, che
oggi è una vera barriera per una (1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193
comprensione tra Stato e Chiesa, e che occorre superare, perchè i rapporti
divengano da buoni ottimi. La Chiesa abdichi ad ogni temporalità, lo Stato
riconoscerà tutta la grandezza della religione, la potenzierà praticamente, le
darà tutti i mezzi per attuare in terra il compito antico. Certo le ragioni del
dominio temporale sono profonde, ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre
le ragioni della grandezza spirituale della religione sono eterne, cioè presenti
alla nostra coscienza umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han
reso il dominio temporale necessario per la religione e il suo bene, siano
sorpassate, il Cuoco lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita
fermarsi. I barbari, discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano,
permisero, essi meno civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere
secondo le loro leggi, le loro usanze, i loro istituti. Nacque così, crede il
molisano, quella specie di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde
poi scaturì la distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si
avvezzarono a concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro
Stato ». I vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai
nuovi bisogni, divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi
sovrani. L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione.
La Chiesa insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre.
Essa predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù
contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza
grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi
che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli
ordini ec clesiastici. La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo
superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro
autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere
indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a
misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini 13 F. BATTAGLIA. 194 pubblici
ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola
infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean
segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più
energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura.
Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ».
Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista,
che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli
elementi di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre
pas sarvi su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e
cerchiamo di raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa
come un fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza
etica, sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri
salienti che abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio
giurisdizionista, rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co
nosce nelle forme del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del
tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti
elementi lo testifi cano. Egli è giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il
suo Stato è confessionista, sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad
essere più confessionista che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e
dell'autorità ec clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova
una Chiesa dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi
sacerdoti come pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni
pubbliche, esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma
subordina al suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli
organi centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in
conchiu sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito
religioso e scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma
soltanto a risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e
pratico di co teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195
mente sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti
sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista
del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e
negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni
religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una
supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo
napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più
all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco
segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri
conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli
fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi
scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il
Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito
profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e
la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il
Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli
scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il
confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che
nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da
noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla
sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle
varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do
veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che
voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo
edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico
vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385.
Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp.
297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama
la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non
vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si
distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico
sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità,
ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità
e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il
concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso
Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e
nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella
prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo
Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini
franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette
a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico,
che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono
alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non
emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è
fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e
politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei
rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa
nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore,
che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni
forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle
nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo
del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi
non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento
nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli
immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito
nazionale. È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente
Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice
che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità
rifarsi ai fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica
disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto
dottrinaria, astratta, più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò
non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria.
È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e
poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi
e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro
posto: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo
luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee
sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana; in secondo luogo perchè
dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la
diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex
ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione
per ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18
giugno 1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le
sorti repubblicane volgevano al peggio (il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla
città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti
Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso
numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto
la misera (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII. 199 condizione
dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con
profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca, osate alfine di
soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza
e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli
del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno
invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti
i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra
alternativa, che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella
tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata,
il felice avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e
Direttori del popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà.
Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel
centro dell'Italia, saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle
contrade; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà
nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno
sventati ancor questa volta; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due
astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto
Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti
delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà (1 ). Il
documento è importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si
pensa che è esso stato ver gato, quando le sorti non solo di Napoli e d'Italia,
ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano. Lo stesso
pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno scritto,
enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio: il Rapporto
fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte degli (1 )
B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I, p. 215 e
sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi francesi in
Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di allontanare
sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche il
vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà che non era
per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela filosoficamente, troppo
imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli che egli
almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza, quegli
elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come i
presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi
nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri
popoli, forma una indissolubile unità geografica: è questo il primo elemento
della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa tinta di
passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo morale e di
fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la stessa
religione: tutto li addimostra per membri della stessa famiglia: sono questi
nuovi e complessi elementi della nazionalità, elementi etnici, linguistici e
religiosi, che si pongono accanto al primo elemento geografico. Aggiungete a
ciò una ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo evolutivo
della stirpe, uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed avrete
l'ultimo elemento, che informa di sè un popolo e cementa quel che possiamo dire
d'una nazione (1 ). Gli italiani hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno
acquisito, all'unità e all ' indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo
stesso scrittore, può e deve riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia,
dopo tanti secoli potrà vedere sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la
tormentarono e la tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali?
Qual rimedio a piaghe sì profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO,
Rapporto al cittadino Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza
ed., Bari, 1913, p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello
dell'an tica grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è
l'unione. Perchè termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di
arricchirsi su le rovine del continente; perchè si oppongano argini
all'ambizione del l'Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta
della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia
immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran
repubblica; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si
disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo
governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani,
avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità; avendo governo, diver
ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutti
beni che ne derivano; ecc. » (1 ). La ragione prima dell'unità italiana così è
un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio europeo, quello d'una
nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro belligero vecchio
continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste le sante origini
di quel concetto di nazionalità (2 ), che troverà poi in Giuseppe Mazzini il
suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che con tutti i patrioti
di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli stessi senti menti. Ma
questi da lui come vengono trasformati, in lui quanta nuova luce acquistano !
Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi glia, Chambery, Parigi,
dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano, ove presto pubblica il
Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi indugierò neppur brevemente sul
l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina (poi italica ) e nel Regno
italico, attività vasta e complessa di (1). F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 )
Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione napoletana del CROCE, ove
vi è un largo studio sull'argomento, pp. 329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p.
3 ]. 202 studioso, di cui sono documento le Osservazioni sul Dipar timento
dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L. Lizzoli, sebbene siano, come è stato
indiscutibilmente dimo strato (1), del nostro scrittore, e i frammenti su la
Sta tistica della Repubblica italiana, opera scientifica di vasto respiro (2 ),
che dimostrano quanto alto fosse il bisogno del nostro autore d'esaurire ogni
forma di realtà umana, poichè solo sovra una conoscenza adeguata di essa si può
fondare un coerente edificio politico e legislativo. Sono punti questi oramai
acquisiti alla storia e su essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro
punto, la fonda zione del Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella
formazione della nostra coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della
gloria napoleonica, il problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che
comprende i primi decenni del secolo XIX, Milano è il centro culturale più
cospicuo d'Italia. Napoli, dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa,
dopo il fiorire della sua Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri,
Galiani, Pagano, Cirillo, caduta la breve repubblica del 1799, colla restau
razione del Ruffo, aveva visto disperso tutto quel te soro di sapienza che
cinquant'anni di attività scientifica aveano accumulato. Torino era un centro
troppo ristretto, ancor provinciale e particolaristico, sebbene già comin
ciasse a dar segno di nuova e più ampia vita, ma non poteva offrire
assolutamente nulla, dato che con le vit torie del Bonaparte aveva perduto
l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di Roma inutile parlare. Milano
dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il centro più attivamente colto
d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del popolo, grande la tradizione
recente. « Ivi si era formata prima la scuola del giansenismo, e poi la scuola
de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società patriot tica ”, divenuta poi
Società popolare, aveva lavorato alla diffusione delle idee nuove ». Come
rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G. Cogo, op. cit., pp.
13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1 ) ivi s'era
espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi giurisdizionalisti del
Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia romana, per sonificata
nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo portato ad immediati
mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili per il miglioramento
del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor quando il turbine
rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo
e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di restare. A Milano
aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove dottrine, che,
reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo inquisitorio,
preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche; il Verri
aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva agitato
nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici, le nuove
posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e
l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo
Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi
hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia, poeti
e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È il
periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri
nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da
meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle
questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà
insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa
società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua
natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici,
Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione
meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della
Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121,
204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su
citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli
pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806,
fino cioè al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due
valentuomini, Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il
nostro metodo di non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza,
sorvoliamo sulla fon dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che
cosa esso rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo
rapporto con i precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in
Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È
qualcosa di già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa
da acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un
processo inin terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità
italiana, che è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi
e quelli, e nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un
diritto na turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono
contestare, donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la nostra
unità nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al trettanti
problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col
pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno
sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di
nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare,
proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato.
Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 ) Cfr. A.
BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano,
Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII);
vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit., pp.
30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura.
Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente
il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra
quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della
nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale
costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono;
altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una
intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici,
etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro
concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani
sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma
come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che
l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la conseguenza
che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore ragione a
divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un reggimento uni
tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente quel che Dio o
la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste delle montagne e
nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre patrie, facendo si
che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare, sia abitata da una
sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola religione, una sola
storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi. Ecco perchè il
Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i più forti, essi
possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità statale, a cui
senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non da farsi, ma
già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da farsi è lo Stato
uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione, quasi come una sua
sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia o non sia, lascia
inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non esservi lo Stato, e
viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed esteriore d'una 206
realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na zione con quegli
elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il Cuoco Nessuno de
gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale al concetto di
nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci apparirà fallace e
transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra la sabbia. Che è la
terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè non ha che una
importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur fuori dal
territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono dispersi
per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione comune di
tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia
ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti,
ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li
guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li
consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li
compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più
allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal
Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da
una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere
e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i
nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia
mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle
grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi
costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono
e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana
con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri,
bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere
degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come
speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente,
sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior
consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti
altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili
ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è
perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de
termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi,
che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta
come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è
co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è
materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto.
Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è,
diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia
spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo
momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di
un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della
Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è
formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo
spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a
pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la
loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali
sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia
» (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata:
la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano
è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit.,
nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e
rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N.
CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924,
v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come
mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale.
Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà
realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima
è la stima di noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de'
giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ).
Io direi: è in primo luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre
pos sibilità; in secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare,
coincidendo con tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come
universale. La nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con
cretamente la volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che
noi amiamo, sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo
cantata ne' grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo
fu nel lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro
pensiero ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un
superiore carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta
tradizione nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in
quanto la poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose,
incitamento a maggiori grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa
null'altro è che retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui
tutti possono meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può
mille volte al giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà
sempre creduto. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo
sizione, desterà il riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice
Shaftesbury, non può produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la
tradizione, come tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori
degli uomini, ma veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera
erudizione passiva inerte, se la riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I,
p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di
fatti; ma se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior
consapevolezza di loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà
di dominio, allora la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la
tradizione ben'intesa diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima
di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi
nazioni e quella energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella pazienza,
per cui han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell' affezione
al proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso non operi
bene o che un altro operi meglio; e finalmente quella costanza ne' pensieri,
ne' disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che abbiamo per
i nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti. Quando si
analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli errori
sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e l'altra non
dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di sentire » (1 ).
Posto ciò, allorquando la nazione non si è ancora con cretata nella forma di
uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che noi
possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un corrispondente dovere
al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non
riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima affermazione della
nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e dire volontà di
Stato nazionale è la stessa cosa: affermare la nazione val quanto affermare lo
Stato nazionale. E siccome la nazione non è, ma diviene; lo Stato non è, ma
diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando giuridicamente non è
riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo
per realizzarlo, e lo realizziamo continuamente in ogni nostro atto. Come si tratta
di fare lo spirito pubblico, la coscienza nazionale, si tratta di (1 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14 F. BATTAGLIA. 210 fare lo Stato, e lo si
fa, facendo lo spirito pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda
parte della nazionalità, dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da
aggiungere: è il pro blema dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ),
onde la loro volontà si può considerare come una sola volontà. Basta presentare
queste idee utili, presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso,
perchè tutti siano d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano
in tre cose: in rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar
la morale; e se tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non
avrei veruna difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di
sprezzo prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo
trascurar prima i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e
finalmente disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo
Stato moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la
volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la
volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale:
anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come
universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve
essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo
vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il
rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di
quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in
termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze
inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è
anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di
Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica
italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un
compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione
italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è
invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare
un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece
s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella
coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è
che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare
contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano
alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta
e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o
stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi
problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente
l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita
civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La
rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto;
poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi
politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare
ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi,
non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed
è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del
nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non
possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere
il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della
storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita.
Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa
pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le
istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè
stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con
le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà
intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica
o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due
termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo
un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani,
il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove
distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno
il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto
alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza;
ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso
elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di
lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato
libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra
nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in
Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda
gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una
nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere
spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai
rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol
essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua
grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione,
a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce:
quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire.
Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi,
disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza
pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO,
op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed
esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende
superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre.
Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non
periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini
futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni
opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1
). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita
giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di
concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto
caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia
che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che
è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè
lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e
inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex
novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è
diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e
storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un
certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità
propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto
il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni
dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio,
da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi
vibrino di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa
superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò
che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia
pubblica. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale,
divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi
ad esso si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di
questa nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione,
non l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il
Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni:
sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un
minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o
storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di
Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso
osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa,
abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1
). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco.
Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità (2 ) », e,
come il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con
prove sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato
un po' di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha
scritt oltre il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito
ha ben visto quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto
rigidamente affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il
Romano, il Cogo, l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della
grandiosa importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare
dopo che ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta
milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero
letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD,
op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li
trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco.
Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si
propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al
pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come
talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma
quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che
abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero,
colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre
», onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei
nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far
comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di
poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio
1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli
pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta
cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso
suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo
lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità
che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le
antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria
succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di
Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N.
RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della
letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella
ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a
ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il
Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza
» (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione
solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a
illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo
derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo
censore della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di
Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del
risorgimento dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli
abitanti delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e
negli ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ».
L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della
stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti
i grandi fattori della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a
Carducci, da Mazzini a Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che
è italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un
felice intuito storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805,
27 maggio, n. 63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni
del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2
) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò
chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche,
con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo.
Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi
a priori una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un
piccolo politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti
potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore
dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica
mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del profondo
politico, ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della Divina
Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle
spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che
più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital.,
1804, 25 gennaio, n. 11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato.
Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le
scienze, e tutte rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il
resto ancor barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e
tanti beni si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il
fermento che esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare
che dovea col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma
subito si entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti
questi avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per
l'Italia o per l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di
Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto,
di Tasso, di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino.
E chi mai, se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente
l'autore del Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un
parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). «
Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli,
perchè al pari di lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della
coscienza nazionale: e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori
umanistici si incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il
paludamento retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo
ideale, così il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col
concorso di una dura esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche
illusioni, ci rivela rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3
). (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp.
39-40, pp. 43-44: Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE,
Vincenzo Coco è il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione
tipografica vigevanese, 1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg.
(3) G. OTTONE, op. cit., p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il
pensiero di una certa affinità tra i due scrittori sono parecchie: 1° la
tradizione, superficiale e scolastica più che al tro, della trasmissione
dell'ideale unitario; 2º una certa affinità nelle circostanze che hanno sug
gerito all'uno e all'altro scrittore di attendere alle fatiche dello scrivere;
30 il comune intento di ricamare sul tessuto della storia il disegno della loro
personale esperienza e delle loro convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il
Cuoco appunto fa di detti e sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione
per Roma repubbli cana » (1 ). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi
che i paralleli hanno sempre un valore approssimativo, dato che prescindono
dalle mutevoli condizioni dei tempi, che di volta in volta sono e non si
riproducono più, onde il Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su
bordinata politico, non si può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno
soprattutto politico sebbene anche culturale. Quel che a noi invece interessa,
ripeto, è la nuova luce che il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde
per vie diverse da quelle che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai «
giudizi ingiusti che il maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A
ciò immagina che un suo amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati,
che visse nel secolo di Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo:
in questo manoscritto l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli
sovra un tema politico. La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere
più completa e sicura. « Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli,
è ingiusto, perchè pieno di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE,
op. cit., p. 51. Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è
scolastico, laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere
senza passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho
scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini
ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia
velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni
giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me
dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca
Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi
tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere
nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non
avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle
negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete
permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli
permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo
foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle
genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio
la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta
comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un
altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p.
19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v.
I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali
leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione
colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza
averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica
) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto
rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io
son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma
vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale
era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità
ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ».
220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato
di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi,
invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù.
Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso
della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha
detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe
dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia
della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle
nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè
quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra
tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini
ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel
leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce
ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da
quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si
arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime
politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico
e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide
con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto
cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano,
spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la
grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente
concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico
positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le
lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è
stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che
questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine
giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il
Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche,
ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente
illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno
politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue
radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo;
Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione,
per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a
loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no
stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi
con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di
Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela
a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel
giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese
sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o
quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata
e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 50). «
Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a cui mira è la
serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi
diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da
riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato
da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il
suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola
le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere
lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la
voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am
mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo. La
responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II,
p. 69 ). 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua
metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli
italiani che hanno scoperto India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del
sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140);
si tratta d'arte tipografica: il primato italico con i vari Bo doni è
indiscusso (1805, n. 55): e così in materia di belle arti, di poesia, di teatro
(1 ). Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei suoi
connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per
provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è
a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non
solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da
poco sono mancati ai vivi. E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e
le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un
giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu
» scrive « sublime filosofo, profondo letterato; il primo storico della sua
patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più
di filosofia, di cri tica, di gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o
almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi
interamente la vita politica della Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama
alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella
dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve
l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che
taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione »
(2). Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si
riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed
eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 235. (2) Giorn: ital.,
1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di economia
politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli italiani.
Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa scienza e di
richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez. « Chi era questo
Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che intanto
farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto Ortez, non
avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se per mo destia
o per orgoglio; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile in un secolo
corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra quali si
contiene la virtù » (1 ). In questa difesa del nome italico il molisano muove
contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono e divengono
dispregiatori delle glorie nostre. Recen sendo infatti nel giornale un opuscolo
di Vincenzo Monti, Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia
contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva osato menomare
glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo loda assai di ciò. « Noi non entriamo in
questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri,
se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante gliene dànno gli
italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse,
non sanus juvet Ore stes » (2 ). (1 ) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141,
p. 573: Economisti italiani. (2) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p.
574: Il cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco
fa del buon nome italico s’ar resta qui: allorquando « un Lalande dice con
pueril sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (un solo? ) uomo di
merito»; allorquando il tragico -comico, drammatico -sentimen tale e memorioso
Kotzebue tratta tutti gl'italiani da ignoranti, da incolti e quasi da canaglia
» (Giorn. ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia
), egli è là, e s'appa lesa bellicoso difensore d'italianità. Recensisce un
opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi vendica « l'onore italico trattato con
poca civiltà dal sig. Akerblad », egli pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine
civile: la difesa delle nostre intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa
attraverso il Giornale italiano appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi
italiani ab biamo un maggior numero di uomini grandi che non le altre nazioni
», ma noi non li conosciamo neppure per la nostra apatia: « longa urgentur
nocte, carent quia vate sacro » (1 ). La pianta uomo da noi cresce florida, ma
gli ' italiani non la coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli
italiani si disconoscono. « Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed
acutissimo ingegno, non mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo
più incolto si ritrova talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che
pro? Le sue osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita,
ristretta tra i confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani
sono grandi, ma l'Italia rimane picciola » (2 ). E così gli stra nieri si
avvantaggiano su noi: scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon
ripresentate come novità francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi
che forse le avevamo vilipese e trascurate. E nel rilevare ciò Cuoco non esita
a discendere a problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo
d'industria, la pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero,
sia stata esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il
Dandolo, il quale poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza (3
); come, ancora, certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o
altrove, siano po steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto
(Giorn. ital., 1805, 22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito della « Lettre » di
L. Bossi allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op.
cit., p. 89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e
notizie. (1 ) Giorn. ital., 1804, 28 marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani
di economia politica. (2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566:
Biblioteca di campagna, ecc. (3) Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96:
Del governo delle pecore spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan.
DOLO: sovra il Dandolo vedi G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il
giudizio degli stessi stranieri (1 ); come, infine, addirittura pretese
scoperte fisiche intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano
scoperte, ri trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno
di Giambattista Vico (2 ). Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con
cui il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine: la formazione della
coscienza nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci
con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 ) Giorn. ital., 1805, 31 ottobre,
2, 4 novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90: Giudizio sopra tre
istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2
) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese della virtù che hauna
sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi intorno al proprio asse, e
d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora i francesi disputano agli
in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che questo fenomeno trovasi
descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder
altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è italiano. Nella Vita che Vico ha
scritto di sè stesso (e la scriveva circa il 1730, quasi un secolo prima di
Busch e del l'inglese ), quest'uomo parla di una nuova teoria che egli avea imaginata
per ispiegar il fenomeno della calamita, e da questa sua nuovateoria trae la
conseguenza che la calamita non solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde
vien poi la rotazione intorno al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del
giro della terra, ecc. Ķico conchiude dicendo che questa nuova proprietà si
sarebbe osservata tosto che si fossero fatte dell'esperienze, in modo che la
calamita avesse potuto svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a
far questa congettura: essa era figlia di una ipotesi forse falsa. E qual altra
ragione può aver altro fondamento che un'ipotesi, o qual altra ipotesi può
dirsi vera? Del resto Vico proponeva un'esperienza: dovea farsi e non si fece.
Ma già da due secoli l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li
producono il suolo ed il cielo: però l'italiani più non navigavano, più non
commerciavano; i overni non si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo
studio delle leggi o della medicina, dal quale speravan ric chezza, quello
della teologia, che li promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico
mezzo che un uomo d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... ».
(Giorn. it., 1804, 6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi V. Cuoco,
Scritti vari, v. I, p. 244. 15 F. BATTAGLIA, 226 appariranno sempre meno grandi
di quello che presu mono di essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel
che noi stessi non crediamo. Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi
»; « non importa: appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno
vicini, e perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1
). Ma in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è
cieco, anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con
crudeltà e freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno
rinvenuto quella filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra, ma i
piccoli nipoti, i discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non
che curarla, l'hanno abbando nata (2 ): gli italiani hanno creato i più
splendidi melo drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi
non sono capaci di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta
seco la decadenza della musica (3 ): gli italiani un dì maestri nella difficile
arte della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da noi hanno
appreso (4 ). Questa posizione critica, che tanto distingue l'italiani smo del
Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo
dal molisano adottato per creare un sentimento unitario: il ragionar di
frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne
abbiam parlato con insensato disprezzo e con più insensata lode; cose le quali,
sebbene opposte, pure per la natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra
gli estremi, non sono inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre
invece ragionare obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5.
(2 ) Giorn. ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato
in Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle
lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p.
493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam
pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92,
col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). 227 accenderci troppo, con scienza e
ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte
motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi
princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei
più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv.
An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che questa
alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione insufficiente.
« Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica ». « Noi non
abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan da fanciulli
nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco come Cuoco
getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle cause, anzi
alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti di sicurezza?
Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta note le cause de
terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia Vincenzo, i mezzi non
sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali con una intensa opera
di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda, in questo campo? Nulla.
Ecco come un problema giuridico diviene un problema di natura superiore,
pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui il Cuoco è il più
strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e geniali. Ma questo
problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il problema insomma
per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a parlare del Rap
porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica istruzione nel
regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2) Giorn. it., 1804,
20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc. CAPITOLO VI. Il
« Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico. Deficienza
artistica filosofica e storica del « Platone ». – Suo - valore ideeale nella
formazione d'una nuova coscienza na zionale. - Antico primato italico
preellenico. - Unità. - Educazione del popolo. Governo dei migliori. – Stato e
religione. - Lotta di classe, - Cuoco e Gioberti. L'opera pubblica e pedagogica
di Vincenzo Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei
molte plici articoli del Giornale italiano, di cui noi abbiamo rile vato
soltanto i più importanti, quelli che meglio servivano a documentare
particolari punti da noi presi in esame, ma si continua nel Platone in Italia,
nuova ed alta testi monianza di quello spirito che abbiam visto in opera
ininterrottamente dai Frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il
Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Paul Hazard (1 ), che nel 1801
scriveva che avrebbe « amato di morir per la sua patria », con la sua Napoli, «
poichè essa più non esiste », (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 243. 229 mentre egli
vive ancora, ed aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri (1 );
ora consapevole sem pre di più di quanto nel Saggio storico ha pur detto, cioè
che « l'amore di patria.... nasce dalla pubblica educa zione » (2 ), ora scrive
una nuova opera il cui solo fine è sempre lo stesso da noi precedentemente
dichiarato: creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più
spesso si possa le memorie dei tempi gloriosi. Che questo sia lo scopo del
Platone in Italia nessun dubbio: è Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone
scrive l'autore, prossimo a pubblicare il terzo ed ultimo volume del suo
romanzo, in una lettera al vicerè Eugenio è « diretto a formar la morale
pubblica degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di
patria, quell’amor della milizia che finora non hanno avuto » (3 ). Il Platone
perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi
vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulte
riore valutazione artistica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di
questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo
che egli persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama in sè è
tenuissima, tanto tenue che lo scrit tore quasi non se ne accorge, onde appena
l'abbozza per tosto sorvolarla: un giovane greco, Cleobolo, fa un viag gio
culturale nella Magna Grecia al principio del quinto secolo di Roma, con il suo
grande maestro Platone, vi sita le più importanti città d'Italia, Taranto,
Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Crotone, Locri, ecc., conosce di rettamente
o indirettamente i più fieri popoli della pe (1 ) G. ROBERTI, Lettere inedite
di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura
italiana, a. XII (1894), v. XXIII, pp. 416-427. La lettera del Cuoco è ora ri
prodotta in Scritti vari, v. II, p. 302. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, p. 91. (3)
A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante
al Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli ed., 1904, pp. 529-40.
La lettera è ora ripro. dotta in Scritti vari, v. II, pp. 334-338. 230 nisola,
i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte, di sputa di filosofia, si
innamora d'una bella ragazza, Mne silla, stringe con essa un bel nodo d'amore.
La trama è questa, ma vien meno dinanzi a l'urgere d'un contenuto didascalico
svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè
il Platone in Italia è sotto questo riguardo un ro manzo originale. Anzi ha i
suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante quel Voyage du jeune Ana
charsis en Grèce, che nel secolo XVIII ebbe una grande diffusione in Francia e
fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de'
casi, come nota il De Sanctis, il viaggio è « un semplice mezzo, con un altro
scopo ed un altro contenuto », che non sia quello vero e proprio di descrivere
paesaggi e monumenti. « Lo scopo non è più il viaggio; ma l'espressione di
certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo ». I secoli XVIII
e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo -epistolario,
perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità. Il Platone anzi è nello
stesso tempo viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando
l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. « Il viaggio, come forma
letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto; è
cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi
secondo il capriccio dello scultore. È diffi cile trovare una forma più libera,
più pieghevole al vo stro volere. Passate da una città in un'altra: nessun
limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi
piace; immaginare ogni specie d'acci denti; saltare dalla natura ai costumi,
da' costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin
chiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare,
poetare, mescere, a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e
soliloqui, visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare,
questo v ' impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal propor zione:
insomma v’impone un limite, che non procede 231 dal mezzo liberissimo di cui vi
valete, ma dal fine che avete in mente » (1 ). Ma se voi leggete l'opera del
Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà
su bito agli occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che
nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine quello che interessa il
Cuoco, e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale
italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei
vari reami della storia si sia al molisano altre volte presentata. « Tra tante
opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive » quella
descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, « non sa rebbe
certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra gloria ».
Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico
conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel
colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2 ). Il fine
dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina tutto, soffoca,
purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia (3 ). Il romanziere cerca
di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza
fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che
la sua storia fu rinvenuta in un antico manoscritto, auten tico, perchè
ritrovato da suo nonno proprio fra le fonda menta d'una sua casa, ergentesi
sovra quel suolo ove un dì superba fu Eraclea, manoscritto che è lacerato in
varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima ac cennate, non sono
poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa
nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immagi nazione
del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma (1 ) F. DÉ SANCTIS, Saggi critici,
v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10,
11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163 del nostro lavoro ). (3)
L. SETTEMBRINI, op. cit., v. III, p. 282. 232 noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e dida
scalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono:
noi li vediamo e non li vediamo: so prattutto noi non li vediamo mai in azione,
in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire
che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci appaiono, se mai, nella
stessa funzione del prologo in certi antichi componimenti teatrali, che si
limita ad an nunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi
hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere un altro: non sono essi quelli
che contano, conta quel che dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa
condizion di cose, è evidente, scaturisce un dissidio insanabile tra quello che
è arte, e che perciò non ha nè può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo
scopo stesso dichiarato dall'autore: il rammentare agli italiani « che essi
furono una volta virtuosi, potenti, felici »; « che furono un giorno
gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano » (1 ).
Come il Vico nel De antiquissima italorum sapientia si pone dinanzi il fine di
dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini della lingua latina,
quella filosofia che in antico dovè certo essere professata dai sapienti ita
liani; così il Cuoco si propone di dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra
i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne furono di civilissimi,
popoli, la cui ci viltà fu persino anteriore alla civiltà ellenica, che dalla
prima ricevette luce, e non viceversa. E come « chi vo glia intendere il De
antiquissima non deve tenere nessun conto del suo titolo e del proemio, e di
tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei riposti con cetti,
che, secondo il Vico supporrebbero talune voci la tine, per considerare
unicamente in sè stessa questa dot (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 3. 233
trina che egli pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente
italica, e che non è altro che una dot trina modernissima, quale poteva essere
costruita da esso Vico nel 1710 » (1 ); così chi voglia comprendere il vero
spirito del Platone deve prescindere dall'esil nucleo ro mantico, come dalla
faticosa ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità, poichè
esso non esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del
Cuoco, scrittore del Regno italico, meditante sulle pro prie personali
esperienze, e non sulle esperienze di ven ticinque secoli avanti: all'anno di
grazia 1806 vanno, per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni
sulle leggi, sulla religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera
del Vico è un'opera dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento
temporale è facile, mentre l'opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere
consi derato dal punto di vista dell'arte: da ciò un insormon tabile dualismo,
onde noi veniamo risospinti dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del
secolo XIX di Cristo, da Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti
di Taranto ai giacobini di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti (2). E in
questo urto di due visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non
sappiamo ove finisca la finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evi
dente, perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa eru dizione, troppi richiami
di testi classici, e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni,
perchè la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella
Mnesilla, che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna,
che conosce Vico? E chi è quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del
Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca? (3 ). (1 ) G. GENTILE, Studi
vichiani, p. 95. (2 ) L. SETTEMBRINI, op. cit., v. III, p. 284. (3 ) In una
lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. (Platone, v. II, p. 114 ). «
Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge
la sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzan dosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che 234 E
chi è quel Platone, che non ignora i princípi della na zionalità e con Archita
disputa di filosofia moderna ! La contaminazione è troppo evidente, e la
filosofia pi tagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella
vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una
deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del
Platone in Italia. È questo un'opera d'arte? un lavoro filosofico? uno scritto
politico? Nulla di tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare.
Non scritto storico, perchè, « a parte il valore molto discutibile del suo
metodo, che egli si proponeva di ragionare e giustificare più tardi, con una di
quelle dilazioni, che svelano appunto l' incertezza del pensiero e l'oscurità
da vincere, lo scrittore è troppo preoccupato da fini estrinseci alla storia,
artistici ed educativi » (1 ); non filosofia, perchè, com' ho detto, egli non
segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal l'imbastitura della narrazione
a mescere quel che è pa trimonio dell'antichità con quella vigile coscienza
tutta moderna e vichiana della spiritualità del reale; non opera d'arte per
ragioni sovra dette, poichè egli non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta
pacatezza della fantasia, che sola può generare creature vive. L'arte « non c'è
principalmente nota » il Gentile « perchè egli non si dimentica abbastanza in
questa visione con fortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia
grande per virtù private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E
corre a ogni po' col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente,
piccola, inferma, senza spirito pubblico, senza amor di grandezza, senza
orgoglio di nazione, senza forze vive: e ondeggia tra la statua brillano sul
mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in
quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo. Di là si
dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno.... e rimarranno
unite.... per sempre ! ». (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che
avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto; e gli trema
la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e
caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una
commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di tinte forti calde
sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è
estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e
l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una
matura attività dello spirito, che, sia che (1 ) Per dare un esempio dell'arte
del Platone, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI, op. cit., p. 158, apparve
degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. « Ieri sera sedevamo in quel
poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso
della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla
sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più
ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del
cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della
sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo
soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella
languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più
grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo
io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li
abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava,
quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno?
— mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento,
che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta
la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in
quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento
della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu
non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti....
Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma
nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora....
Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in
quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai
in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli
occhi dal suolo ». (Platone, v. II, p. 58 ). 236 eccesso e analizzi le antiche
istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura grandezza di Roma,
sia che da questi discenda ai fatti moderni, e indirettamente dica della ri
voluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle
opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone, tiranno restauratore
del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e
del suo posto nel suo popolo. Noi dimen tichiamo l'artista mal riuscito, il
metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che
dai dati concreti della storia umana trae un non perituro insegnamento. Egli
parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto di vista subiettivo
proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi vibra, per noi di
sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo Cleobolo, Archita non
parla ai suoi tarantini, Ponzio non parla ai suoi sanniti, ma tutti e tre,
attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro insegnamento mira a formare
una più sicura anima italica. Certo questa posizione è un po' monotona, e
riporta l'autore ad insistere su punti già precedentemente esposti nel Saggio,
nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma, se guardiamo l'arduità dello scopo,
la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni non appariranno mai soverchie: da
noi non si tratta, dice il Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di
crearlo, e la creazione è opera lunga, spesso do lorosa. La tesi principale del
Platone in Italia, che del resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del
Vico, è che nella nostra penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto,
anteriore alla greca, quella etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di
sapere filosofico e splendore d'arte, della quale civiltà quella ellenica e
pitagorea è un posteriore riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come
pretendono alcuni, per cui le origini greche del pi tagorismo sono indubbie,
sia essa vera, come sostengono altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca
e delle susseguenti civiltà italiche è parimenti comprovata, è profondamente
radicata nel Cuoco, la di cui serietà scien 237 tifica non può essere posta in
dubbio. Il Cuoco è forte mente compenetrato di essa, e, laddove crede di
vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema d'intima com mozione e di
passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di Platone la Magna Grecia è in
decadenza: molte città, che già furono grandi, vennero nelle civili dissensioni
rase al suolo; altre, che un dì do minarono molte terre, sono ridotte a piccoli
borghi; stirpi, che ebbero un passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei
loro trionfi, ora languono nell'ozio e nella effemina tezza; ma, ovunque, a chi
mira intimamente le cose s'ap palesano i segni dell'antica grandezza e
dell'antica forza, diffusi ne' monumenti architettonici, vivi negli ordini ci
vili, parlanti nelle costruzioni filosofiche del pensiero e dell'arte. « Io
credo, dunque » dice Ponzio a Cleobolo « ciò che dicono i nostri sapienti, i
quali dan per certo che ne' tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per
leggi, per agricol tura, per armi e per commercio. Quando questo sia stato, io
non saprei dirtelo: troverai però facilmente altri che te lo saprà dire meglio
di me. Questo solamente posso dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano
un popolo solo, ed il loro imperio chiamavasi etrusco » (1 ). Mentre la Grecia
è ancor giovane, l'Italia è assai an tica e sul suo vecchio suolo già due
epoche s'avvicen dano: l'una è scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo
esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle innegabili im migrazioni di popoli
greci, poichè nel suo spirito è italica, erede della prima: Pitagora, che la
impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa
della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella natura vi sono
terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è alterata, i
monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima
non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così nella storia
antiche catastrofi hanno distrutto una fiori tura senza pari e modificato
organismi civili possenti. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 157. 238 « Sappi
dunque » scrive Cleobolo al maestro, riferendo un colloquio che egli ha avuto
con un sacerdote di Pesto « che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un
popolo solo, che chiamavasi etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di
lui forze; e, de' due mari che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi,
dal nome co mune del popolo, Etrusco; l'altro, dal nome di una di lui colonia,
Adriatico. « Antichissima è l'origine di questo popolo; le memorie della sua
gloria si confondono con quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi.... « Ma
chi potrebbe dirti tutto ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi
e de' vostri iddii? Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso
dirti però che gli etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia;
signoreggiavano tutte le isole che sono nel Medi terraneo, ed anche quelle che
sono vicinissime alla Gre cia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità
» (1 ). Quest'impero però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di
città che Stato unitario, onde esso « avea in sè stesso il germe della
dissoluzione. Non mai si era pensato a render forte il vincolo che ne univa le
varie parti. Ciascun popolo avea ritenuto il proprio nome: era il nome della
regione che abitava, era quello della città principale.... Che importa saper
qual mai fosse? Non era il nome etrusco. Ciascun popolo avea governo, leggi e
magistrati diversi. Non vi era nè consiglio, nè magistrato comune se non per
far la guerra » (2 ). Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni
organiz zazione: « la corruzione de' costumi produsse la corru zione delle
arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti » (3 ), e poi generò
la corruzione della religione, la quale « corrotta accelera la morte delle
città » (4 ). Perciò l'Etruria si sfasciò per legge naturale di cose. (1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II, p. 244. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, (3 ) V. Cuoco,
Platone, v. II, p. 249. (4 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 254. p. 247. 239 «
Così cade, o Cleobolo » commenta il divino Platone « qualunque altro impero ove
non è unità. Così cadrà la Grecia,, se non cesserà la disunione tra le varie
città che la compongono, tra gli uomini che abitano ciascuna città. Imperciocchè,
ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità; all'unità si tende ovunque è virtù,
il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili; nè possono.
esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gli esseri non è se non lo
sforzo degli elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è
unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate
alla morte » (1). Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra
sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della
prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano.
Così l'Italia, dive nuta deserto nella ruina d'Etruria, tosto si ripopola di
genti, di nuove città, si riorganizza, si riabbellisce, e al contatto di nuovi
popoli, specie i greci, di nuovo si ri presenta composta all'ammirazione
universa. Ma questa nuova civiltà, che possiamo dire pitagorea, nella sua es
senza è pur essa autoctona, se pure apparentemente elle nistica. Quando le
colonie greche si sono stabilite in Italia, già le stirpi indigene dalle
montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. « Noi
disputiamo » osserva un italico a Cleobolo « per sapere se i greci abbian
popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia; ed intanto è l'una e
l'altra regione sono state forse po polate da un altro popolo, ch'è il padre
comune de' greci e degl'italiani » (2). Comune è perciò l'origine dei due
popoli, ma, stanziatisi in diverse sedi, gl' italiani hanno avuta una fioritura
più precoce che non i greci, che pure al V secolo, ai tempi di cui trattiamo,
sembrano i più ci vili, i maestri degli italiani in ogni campo dell'umana
attività. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 257. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II,
p. 220. 240 L'antico primato etrusco però ancor si conserva, tra sformato sì,
ma sempre attivo, e si manifesta soprattutto ne' paesi meridionali, ove
l'influenza ellena sembra più manifesta. E su questo primato italico il Cuoco
insiste, insiste, in siste calorosamente: è la sua tesi nucleare. La pittura
era ' in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco, fra tello di Fidia,
« dipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona », riempiendo di
stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle
immagini dei duci greci e dei capitani nemici (1 ). Furono gl'ita liani che
primi « diedero opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale
della loro filosofia »: prima che Teodoro recasse ai greci la scienza degli
italiani, in Grecia « le idee geometriche erano puerili, frivole, con
traddittorie »; invece « gl'italiani, potenti per un istru mento di filosofia
tanto efficace, han fatto delle scoperte ammirabili in tutte quelle parti delle
nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella geometria, nella astro
nomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al punto ' più sublime e
più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla qualità » (2 ). La
stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella remotezza de'
secoli, onde ancora ai tempi di Platone gli italici mantengono indiscussa la
loro supe riorità: « la guerra presso i greci ancora è duello » (3), scienza
rudimentale; mentre presso gli italiani è savio urto di masse e organica
distribuzione di manipoli. Le stesse leggi, che regolano la convivenza dei
popoli della penisola, sono originarie e nazionali, frutto della loro in tima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso im muni da contaminazioni
eterogenee. Le romane dodici tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un (1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I, p. 252. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 5. (3 ) V. Cuoco,
Platone, v. II, p. 119. 241. popolo, come il romano, discendente da popoli
dell’ate niese più antichi. « Vedete dunque » dice Cleobolo ad alcuni legati di
Roma « che una parte delle vostre leggi è più antica della città vostra.
Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver imitate le
leggi di Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei re, le
quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon Servio
Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra queste. Tali
sono tutte quelle che regolano gli auspici, le assemblee del popolo, il diritto
di giudicar della vita di un cittadino, e che so io ! Queste dunque già
esistevano in Roma; ed era superfluo correr tanti stadi e valicare un mare
tempestosissimo per pren derle da un popolo che non le avea » (1 ). « Tre
quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane
una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l '
imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un
altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità,
sulle tutele.... Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo
tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano
inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per
imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare.... » (2 ).
Passando nel campo delle arti belle, tra gli elleni la poesia drammatica è meno
antica che tra gl'italiani: « ben poche olimpiadi » dice un comico italiano,
Alesside, a Platone e Cleobolo « contate dalla morte di Tespi e di Frinico,
padri della vostra tragedia. Quando il siciliano Epicarmo si avea già meritato
quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato
il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena bal butiva tra voi un
dialogo goffo e villano, che tutta ancor (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. (2 )
V. Cuoco, Platone, v. II, p. 155. 156. 16 F. BATTAGLIA. 242 oliva la rusticità
del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra noi era già
adulta » (1 ). I poemi omerici stessi nel loro nucleo fondamentale sono stati
elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gli italiani ne hanno più de'
greci, e quelle greche co minciano ove le italiche finiscono. In tutto ciò noi
non possiamo non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad ogni
costo quel che il Cuoco a priori afferma, l'originario primato italico; ma lo
scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a fare perdonare allo scrittore varie
inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo iniziano il loro viaggio per
l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione: i vari popoli hanno fra loro re
lazioni saltuarie ed estrinseche, non si sentono fratelli animati da un'unica
missione: guerre, dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una
condizione di per petua incertezza. « Vedi, da una parte, l'Italia simile a
vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del
terremoto: là un immenso pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si
conserva ancora per metà; in tutto il rimanente dell'area, mucchi di
calcinacci, di co lonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non
sono altro che rovine. Ben si conosce che tali mate riali han formato un tempo
un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta; ma l'antico non
è più, ed il nuovo dev'essere ancora » (2 ). È l'unità che si è infranta, per
cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della
molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi, come
i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità tende
quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare delle
genti dovrà pur sorgere chi di esse farà una sola gente, un nome unico, Italia.
« Pure, se tu osservi attentamente e con costanza, ti avvedrai che le pietre,
le quali formano (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 204 e sg. (2 ) V. Cuoco,
Platone, v. II, p. 258. 243 quei mucchi di rovine, cangiano ogni giorno di sito;
non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri; e mi par di rico noscere un
certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che lavora ad
innalzare un edificio no vello » (1 ). È la gran fede del Cuoco. Da questa
unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. « Tutta
l'Italia » dice Cleobolo « riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di
caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che
per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia,
come han dato finora, gli esempi di tutti gli estremi, di vizi e di virtù, di
forza e di debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla
distruzione: tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in
Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo » (2 ). Il
Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale, ma si
concreterà in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte
vite darà or ganizzazione e potenza. Egli dice che questo ideale non è nuovo,
ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di
continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora « concepì l'ardito
disegno di rista bilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può du rare.
Egli volea far dell'Italia una sola città; onde l’ener gia di ciascun cittadino
avesse un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare
continua mente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean
nascer suoi fratelli e la divisione degli ordini politici ne costringeva ad
odiar come nemici; e l'energia di tutti non logorata da domestiche gare,
potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de ' barbari.
Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’in tromettono armati in un
paese che non è loro patria, e (1 ) V., Cuoco, Platone, v. II, (2 ) V. Cuoco,
Platone, v. I, p. 20. p. 258. 244 chiamava poi barbari e pazzi quegli altri, i
quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed
invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli soleva dire
agl'italiani quello stesso che Socrate ripeteva ai greci: Tra voi non vi può nè
vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se
amas sivo veracemente la patria, dovreste arrossire -» (1 ). Sia stato Pitagora
un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito elaborato
dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto confluire i
risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra l'antica
radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema unitario.
Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già sappiamo. Il
problema è un problema etico e pe dagogico insieme. « A questa meta non si può
pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili: onde non vi sia chi voglia
e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla; ma l'ambizione
di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio, sia quasi
co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il popolo,
perchè.... un popolo ignorante è simile all'ata bulo, che diserta le campagne:
spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i
vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che
devono reggerlo, perchè un popolo con cen tomila piedi ha sempre bisogno di una
mente per cam minare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire » (2
). Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per
sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le
infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera,
cioè deve parlare agli spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di
essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi
povere, diversa però (1 ) V. Cuoco, Plaione, v. I, p. 74. (2 ) V. Cuoco,
Platone, v. I, p. 74 e sg. 245 non nell'intima qualità, perchè l'una e l'altra
si volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. « Un
popolo » dicono alcuni « il quale conoscesse le vere cagioni delle cose,
sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli ». Non è invero così. «
Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante famiglie; riunite queste
fami glie, e formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa ! »
Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui. « Essa non meriterebbe neanche il
nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo
mini in unione di cittadini: la vicendevole dipendenza tra di loro per tutto
ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli
stranieri » (1). È necessario perciò ai fini dello Stato che gl' indotti
coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi, perché si
realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita. « Ciò, che
veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo luogo, cioè
che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono
necessarie egualmente la scienza e la su bordinazione » (2 ). Diversa sarà
l'educazione dei poveri da quella dei di rigenti, ma una educazione per i primi
deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. « Non perdete la
stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza.
Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i maestri, e
li giu dica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son quelle sole
che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si tratta
d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi; tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte
le colpe » (3 ). Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è necessario per
agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il lavoro, più
costante e più dolce la virtù. Al savio, (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 85 e
sg. (2) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 87. (3) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 87 e
sg. 246 invece, « è necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col
mezzo della medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la
conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile,
perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi. È ne cessario però che
ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti; e questa necessità è tanto
imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se la farneticherà egli
stesso » (1 ). Errano perciò i filosofi che credono opportuno divul gare la
sapienza è mettere il popolo a contatto con i sublimi princípi della vita. Del
resto ben diversa è la na tura del dotto e del popolano: laddove il savio è
ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il popolo è « un eterno
fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che ragione » (2 ): e
quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che s'usa con il
fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già fatte. Bisogna
parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il linguaggio che a
lui più si conviene, con parabole e proverbi. « Se è vero che gli esempi muovon
più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi, debbon
muovere più degli argomenti » (3 ). I proverbi, che a noi possono sembrare
inintelligibili, perchè igno riamo i veri costumi dei popoli per i quali furono
imma ginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci.
La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di
quelli che ci si offrono nelle scuole di filosofia. « La virtù è saviezza: la
saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi,
gli errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde
del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi
scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità (1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I, p. 85. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 23. (3 ) V. Cuoco,
Platone, v. I, p. 82. 247 piantare con mano potente una diga, che freni la
violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare,
convien comandargli di credere; e, per convin cerlo che il vero sia quello che
tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa essere vero quello che
tu non dici. Non cerchiamo.... l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che
ha persuase verità più utili; e, se talora la necessità ha mossi i grandi
uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso » (1 ).
Sono queste conclusioni che già erano implicite nel Saggio storico, ma riescono
sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore, sia per la forma con la
quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che mira a far sentire
l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere
la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. « Quando
tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai
dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi
cittadini » (2 ). Leggi e costumi sono i principali oggetti di tutta la scienza
politica: le prime debbono rispondere all'ordine eterno che è nelle cose,
sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà, e,
nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo delle
prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta
natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male,
spesso lo sanciscono, e la loro opera pedagogica manca. « La legge è sempre
una, perchè la natura dell'intelli genza è immutabile. Mutabile è la natura
della materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che i
costumi inclinan sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque,
conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo
formati, onde sapere (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 78. (2 ) V. Cuoco,
Platone, v. I, p. 139. 248 per quali cagioni i nostri costumi si allontanano
dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime;
il che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione: non di quella
educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che
Li curgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La
ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti
esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno
o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle
sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li
hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il
buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o,
conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno
sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo
il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto
miseramente il suo legno tra gli scogli » (1 ). La legge però resterà sempre un
astratto, se gli uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più
conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da
pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da
premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin
guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa
scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili
sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so
pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve
studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di
essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto
in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza
delle pene e de' premî » dice (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 139 e sg., 249
il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione » (1). Le
leggi, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che
veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle
cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità.
Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra
la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio,
s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città,
per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa è.... la
parte più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le
buone leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi
» (2 ). Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi
sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle
opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per
negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e per (1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I, p. 140. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 142, 250 ciò divideremo
il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e
bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui
pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e
di tutti » (1 ). Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci
riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo:
le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra
autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve
occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante
lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi,
religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina » (2 ). Il
bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto
su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli
occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò
menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel
che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione,
lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano
autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi
la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e
costumi, Stato e Chiesa) sono natural (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, (2 ) V.
Cuoco, Platone, v. I, p. 144. P. 84. 251 mente inseparabili tra loro; perchè nè
mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno;
nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria,
potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due
classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la
vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione
ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco,
coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non
può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza,
resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in
linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op
posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle
epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione
dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e
pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova,
spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi,
perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia
vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza
matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali
i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres
non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri
che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il
prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto
divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto
rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni
ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più,
breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli
Stati, ove si giunge ad una (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 148, 252
reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È
nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed
hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi
vengono tra loro ad eque transazioni » (1 ). Ma pur tuttavia il Cuoco.
concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché
mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento
politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina
politica, che nel Saggio storico non appare, e che nel Platone si rivela nella
sua luminosa chiarezza. « Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la
plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di Roma, di
Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita: ivi un
giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo e,
con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi imprese.
Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che invidierebbe, se
son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto quanto dura la disputa.
Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi diresti fatale, il quale
incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema ignoranza ed op pressione,
e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età
i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si
rima nessero sempre così, la città sarebbe sempre barbara, cioè sempre
fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco a poco, ed in modo che non
se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso
porta seco o pericolosa sedizione o languore più funesto della sedizione
istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e che abbia sempre nuovi
bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua prosperità. Guai a
quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma (1 ) V. Cuoco,
Platone, v. II, p. 167. 253 guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla
chiede ! È segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la
metà dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle
afflizioni, e che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e
pretenda con modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1
). Da queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la
vita è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad
unità, la molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione
di funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo
perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u
topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi
saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi
industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I
partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei
» (2 ). Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla
più avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini,
si vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si
vorrà l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e
pericolose. Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi
saranno sempre poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno
e crede ranno di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno
sempre la parte più numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi,
tutti coloro i quali, nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si
of fra a guadagnare.... Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni
meno prudenti. I cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra
tanti partiti nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti (1 )
V. Cuoco, Platone, v. II, p. 167 e sg. (2) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 147.
254 capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita
della città » (1 ). Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova
di precedenti nostre osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al
pubblico reggimento non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti
e ti rannici in senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con
forme diverse e diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà
storica, è in ogni Stato. « I migliori ordini pubblici sono inutili se non
vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti,
ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in
mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per
l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi
di una città, avviliti sempre dalla miseria » (2 ). Ecco qui ritornare il
concetto da noi già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze
opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non
obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissensione. « Ove avvien che
siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi,
tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del
l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per
gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si
elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella
dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de'
primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e
quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che
vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non
appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno
più grandi (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 161.
p. 168. 255 cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè
chi le esegua » (1 ). Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri
genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione
di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco:
fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è
possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più
vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali
diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno
all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e
deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla
conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione
unica e dalla legge unica. « Il primo effetto della sapienza » dice il Cuoco «
è.... quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo
di distrug gersi, ma di difendersi » (2 ); e, aggiungiamo noi, si di fende
spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile,
la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi
d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora
morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza,
ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di
sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il
Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone
e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui
spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e
Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto
dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto
il nostro spirito critico le riferisca all'autore del (1 ) V. Cuoco, Platone,
v. II, p. 162. (2) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 32. 256 romanzo, non possono non
commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una prima età,
scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e perciò s '
ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno guerra, o con
le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza e questa
guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da questa
vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo un'irresistibile ten
denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna di esse ama aver le
altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire la servitù del
genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra, il miglior
consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città il numero
de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la quale la
virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna
può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo antico
caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura,
colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà
delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende la
diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione
degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno
appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni
esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di
ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione
sola? --- » (1 ). Da ciò scaturisce la necessità della conquista come mezzo per
affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume questa missione,
diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza che per il Cuoco,
come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della storia, piuttosto
che nella celeste trascendenza di (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 186. 257 un
Dio posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito
dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di
pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il
romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità
effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord
imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in
un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non
solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me
diterraneo e del mondo, « Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra,
innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi
vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il
pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee
liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere
che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di
vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e
talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni,
sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi
crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per
emendare la loro indocile razza » (1 ). Grande sogno questo, in cui vibra tutto
l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo
lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più,
ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi
vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere
superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero
un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire,
e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra
maggiore unità, e poi del vario mondo dei (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p.
190. 18 - F. BATTAGLIA. 258 commerci e delle genti, che noi non vogliamo
lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am miranti, ma
rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina. Considerato da
questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni considerazione
artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una grandissima
importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è
la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della
formazione dello spi rito pubblico italiano » (1 ). È l'animato ricordo d'un tempo
che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si
pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose belle della
vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che da essa
intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui
l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si ripresenterà più
se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo
presente, perchè molte considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero
etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano
alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui
importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico.
Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Pla tone e un altro grande
libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli il cui obietto è
uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia
politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi
sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio
abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi
vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op.
cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti
e dice che il Platone in Italia è la preparazione del Primato morale e civile
degli Italiani. 259 Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na
zione non può esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di
esse usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza
di poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna
nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo,
non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur
riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo
pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità
religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a
sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il
Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca
e poi ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della
Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li
bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed
italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza;
nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi,
ma affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha
nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle
quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la
volontà di Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande,
Mazzini, tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella
visione del futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione
nazionale nel pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di
una educazione nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in
una completa educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e
religione nella scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto
segna ben precisa la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel
Regno italico. Il Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti
luminosi del periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli
una gloria non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una
amicizia intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni (1
). Con il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede
in patria, preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali
del governo di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile
vita del molisano, che, attraverso una fiera ma (1 ) B. LABANCA, op. cit., p.
409; N. RUGGIERI, op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172;
G. GEN TILE, op. cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il
13 dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità
pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera
dottrinale e pratica nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di
decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che
di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti
dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico speciale....
agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc casione, poichè
come vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee profondamente maturate
dal Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2 ) Oltre il Rapporto il
Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua attività sono documento
varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti vari. Del Rapporto e del
Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una prima, senza data e senza
frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il
luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si
fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e quindi non pubblica; una
seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta
iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote del gran molisano, e
naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che porta il titolo:
Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica istruzione seguito da un
Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine,
che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione delle leggi, de' decreti e
di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di
Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni,
tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto
e del Progetto, corredata di documenti e note bio -bibliografiche illustrate,
che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa gine 49-276 ). I criteri
critici di collazione delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile, non
furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al
Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II, pp. 3-161 ), correggendo ta
lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore.
Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce, allorquando questo
lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi rivedute
definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di
scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali del
tempo suo » (1 ). Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto
precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza noti,
vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati con
tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema
po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto
questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol
attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol
rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo
di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La
sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola
istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il
termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui
spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili,
alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per
comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del
popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola?
Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita,
era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla
sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i
nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi
città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei
governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo
queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi
vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op.
cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel
campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo
astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai
bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il
postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova
col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il
popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in
quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel
suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e
lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà,
della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può
assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce
all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un
processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il
popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona
il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della
forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas
siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre
grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli
Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi
senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che
non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler
condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine
interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’
cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi
di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla
ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non
hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo
maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria
alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e
specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova educazione
ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria nazionale » (1 ).
Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro buone ragioni per
fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno mai negare al
popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che obiettano che il
popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è facile rispondere. « E
pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma la parte più grande
della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non vogliamo, la nostra
sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir tran quilli,
affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi stessi
reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi che
dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma
aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur
facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo
che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai
quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per
mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un
poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non
si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da
tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno
dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di
precetti, vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini
e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella
delle leggi. Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn.
ital., 1804; n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48,
pp. 303-304: Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e
sgg.; ed ora in Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che
chiamasi popolo e diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per
queste sue considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista
prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le
vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui
istruzione, riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1
). A chi noi daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli
del loro posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il
carattere etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che
l'educazione debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato.
L'educazione mira a formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato »
volontà collet tiva, somma di volontà individuali, da essa non possa
prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato » osserva giustamente il
Gentile « di consolidare sempre più le pro (1) Del resto il concetto di natura
e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno un significato ben più
profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a questo proposito il libro
di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto sociale, Bologna, Zanichelli,
1906, p. 32. « È.... massima (del Rous seau ) che nella realtà si distingua ciò
che è fattizio, ossia sopravvenuto per arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è
na turale, ossia fondato nell'essenza medesima della cosa. Questo ha valore di
norma rispetto a quello. La natura è dunque per Rousseau il principio del dover
essere, più ancora che quello dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso
filoso fico e non già fisico; rappresenta la sua ragione e non la sua
contingenza ». Ma questa concezione della natura, propria del Rousseau, nel
Cuoco viene integrata e corretta, come nota il GENTILE (Studi vichiani, p.
419), con la concezione storica dello spirito. « Ed è in verità non una
contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta pedagogia del Vico, che
aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna storica senza paragone
minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo natu ralismo:
l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc corre ricondurre la
pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso dell'essenza prima
d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione della stessa realtà
allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella coscienza nazionale, è
evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti della Rivoluzione
francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo Stato democratico,
è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla coscienza nazionale, e
questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a questa è per lo Stato
un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1). Il compito educativo
certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende: l'ecclesiastico, il
filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e al suo sviluppo, ma
la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in tegrata dall'attività
generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche od ecclesiastiche,
possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli, e le adatti sempre
meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le riconduca a questo,
ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello Stato, in cui il sa
cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di ac cordo, e
concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il punto primo
che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione religiosa,
fissiamo i suoi caratteri: essa deve essere in primo luogo univer sale, poi
pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il Cuoco
concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico. Vita non è
vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo,
perciò è innanzi tutto attività dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408.
Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di Stato
qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato educatore.
« Quando il Rousseau parla (Vedi DEL VECCHIO, op. cit., p. 33) della « nature
du corps politique », non intende con ciò di riferirsi alla guisa onde lo Stato
si presenta nei fatti; ma alla ragione dell'essere suo ingenerale, all'esigenza
suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date
nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta
sanzione ». E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in un senso
spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è
qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere
inscindibilmente uni taria. Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali e
scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito. I secoli
barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (1
); i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà
mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella
scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione
dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale.
Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio
significato; ed in ciò, oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria
di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi
istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla
pubblica istruzione » (2 ). L'educazione, in secondo luogo, deve essere
pubblica. L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di
uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla
cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello
Stato e al benessere della collettività. Poichè « la nazione non era istruita,
essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria;
tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di
comunica zione » (3 ). Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi
cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e
meglio ad un fine unico,. il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia
pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in
un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una
storia nobilissima? No certo: le scuole private sussistano pure gestite da
chiunque, ma (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. (3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha
l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e culturalmente, a
che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle scuole pubbliche, a
che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie all'ordine pubblico e
alla moralità media della società. Il fatto però che l'ente pubblico, cioè lo
Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non significa che tutti i cit
tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato non pud perseguire questo
fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone in Italia, laddove osserva
che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno il nome di città, perchè le
mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione d’uomini, in città, in
Stato: « la vicendevole di pendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata
e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stra nieri » (1 ). Accanto al
savio è necessaria la coesistenza della massa dei non savi, e in questa è poi
necessaria una ulteriore differenziazione di funzioni, per cui l'agricoltore
non sia calzolaio, il muratore non sia mugnaio. Coloro che si propongono un
assoluto illimitato eleva mento intellettuale del popolo cadono nell'errore,
poichè vogliono l'impossibile e il dannoso: l'impossibile, « per chè non si può
giungere alla perfezione nelle scienze se non per la stessa via, per la quale
vi si perviene in tutte le arti, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu
pandosi di un solo; il che da un popolo intero non si può fare, poichè, per
sapere, dovrebbe egli rinunciare ai mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè
rimanendosi il popolo a mezza strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed
un mezzo sapiente, diceva il Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò
consegue che l'istruzione, sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e
come nel paese vi deb bono essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i
filoneisti, (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v.
II, p. 5. 269 così vi debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i
meno colti. Vi sarà perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta,
una per molti, che diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo
elementare o pri maria. La prima è destinata al progresso delle scienze, la
seconda ha per iscopo di diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita
commerciale industriale agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare
allo Stato fedeli sud diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione
della scuola rivela il gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta
gamma della vita umana nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si
ferma qui. Occorre che l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia
diversa da quella, che impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse
sianvi pure le tre forme o gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne?
È questo un tema caro al Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il
grandioso compito di allevare figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso
comune, cioè di nutrirli, ma di istillare in essi i primi sensi della vita
sociale, i primi germi, che poi nell'interiorità dello spirito si
svilupperanno. Esse, che hanno un così alto compito, conviene che abbiano una
adeguata preparazione. Infatti, scrive il Cuoco, « non può dare al figlio
l'educazione di un cittadino colei che ha la condizione e la mente di una serva
» (1. ). Perciò lo Stato si deve preoccupare dell'educazione femminile, e
provvedervi in modo da non turbare l'ordine della natura e la sua essenza:
educare le donne da donne, ed educarle secondo la diversa posizione sociale che
nel mondo esse avranno: e « quando le donne saranno educate, sarà com piuta per
metà l'educazione degli uomini » (2 ). Una questione subordinata è quella della
gratuitità del l'istruzione. Deve essere questa gratuita per tutti? No.
L'istruzione inferiore o primaria, appunto perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone,
v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 21. 270 caratteri della più
vasta generalità, è offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma
l'istruzione media e superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale,
ma altresì particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre
a fare condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna,
s'addimostri degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo
Stato, che un giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà. Infine, in terzo
luogo, l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto
l'uniformità dell'istru zione appare chiara: in ogni suo grado, inferiore medio
e superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve
essere uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con
gli stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso
d'un simile sistema: le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione
e il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso: si può
generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più
nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico
nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto,
ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione
dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente
presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non
avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti
di Stato. Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per
le mani dei giovani. Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave
degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for
mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa
immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero
di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua
di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di
mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale (1). Posti questi
princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto di
riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza
pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna.
Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di
astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con
l'assunto politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice
che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira
a formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media
so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati
umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare
che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso
di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso
interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e
li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro
coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali
può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]:
altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo
una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed
atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio
afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già
l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di
aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e
che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più
pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in
sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la
dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con
naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati
dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con
l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im
porre la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è
possibile, l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella
coscienza collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di
Cuoco non si preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra
tutto, del l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si
preoccupa « perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione
non bisogna assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per
cui lo Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato
non può disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga
fuori dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini,
che sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an
corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente
dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta
alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del
cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la
filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per
insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione
di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital.,
1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp.
303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere
carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle
scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se
non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici.
Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di
libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed
oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco,
par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive
che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener
ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri
egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i
punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia
bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro,
cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare,
ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel
carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio
risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e
poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica, poichè
chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi si
assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la
religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che
vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e
concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri
dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se
sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse
non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn.
ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA.
274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per
cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla
legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per
la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol
fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice »
(1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei
rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione
nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente
liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante
una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante
in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti
punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta »
nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica,
il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si
guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia
sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a
rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello
Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della
religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi
riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del
fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia
e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione
superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più
elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in
quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben
diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di
meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi
p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416.
275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore
a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo:
giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee
tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è
quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle,
saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto
realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in
quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la
nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto
tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di
coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio
macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu
per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei
cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri
di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al
contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un
metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito
inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire
l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di
cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma «
l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben
ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi
trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi
con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere,
perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. (1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 25. (2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se
ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere
filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l'
innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di
questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno
strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava
sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora,
osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè
è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la
filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La
forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a
noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma
dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle
idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del
Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello
o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito
e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta
qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non
nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e
fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il meccanismo
di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ). La stessa
filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti antichi,
sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica;
perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. 56.. II, (2 ) Qui più che mai si
palesa quel concetto della natura, per cui nelle cose occorre distinguere quel
che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed originario, che il Cuoco
attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra con una sicura intui. zione
dello spirito in ogni suo aspetto o attività di vita, che de riva certamente
dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte le na
zioni. » (1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in sè e per sè, sia esso
un documento grafico o un rudere ar chitettonico, risalire allo spirito,
all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo. E come nello spi rito
umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni particolari ad un popolo
occorre risalire a conclusioni più vaste, a generalizzazioni più audaci,
investenti il nu cleo della universalità, seguendo questi stessi princípi, che
il Vico ha divinato nella sua Scienza nova. Giambattista Vico, analizzando la
filologia dei greci e dei romani, ha così fissato le norme per ogni filologia,
ha stabilito leggi sicure, addimostrando non le leggi che governano il
linguaggio dei singoli, ma bensì quelle che governano il linguaggio delle
nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme giuridiche, per i riti. « In
tal modo la scienza dell'erudizione diventa veramente filosofica; e ciò, che
sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa utile ad intendere ciò che della
filologia delle altre nazioni o ignoriamo o conosciamo imperfettissimamente »
(2 ). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari,
v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che abbiamo analizzato la personalità di Vin
cenzo Cuoco in tutte le sue manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia
lecito concludere, pur sapendo quanta parte del pensiero del molisano sia
rimasta fuor dalle linee tracciate. Qual'è la posizione del nostro scrittore
nella storia culturale d'Italia? Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX
è il più importante rappresentante di quel che un critico francese, Paul
Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen
siero storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente
contro l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo
di altri minori, in nome di supreme esigenze dello spirito; nel secolo XIX si
impersona nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni
forma di vita, che italiana non sia, e quindi non connaturale a noi, e perciò
non veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante
contenuto umano. È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la
gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere
infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo
rinnovamento nella filosofia, e perciò in tutte le attività umane, che dal me
todo filosofico non possono prescindere: la politica, la storia, la
giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà
morale, asserisce la vera libertà, libertà che nè il Medio Evo nè il
Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire,
potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello
spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna: il mondo del
l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato
nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità
s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile,
nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto
ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato, morto
diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso
processo: la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più
varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero
storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine:
l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità, e
viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite
dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di
ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la scienza dei
fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico: occorre con
ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il grande assunto
del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia senza filologia, nè
filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine dell’una e dell'altra,
produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il vero storico.
Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini, in cui siamo
nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra individualità
ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per lo Stato, in
cui vive il nostro miglior noi. E questo il Vico esprime nella notissima
icasastica frase: « questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini,
onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le
modificazioni della nostra medesima mente 280 umana » (1). Questo il nucleo
profondo della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo
sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della
pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come
colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici
nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro
del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli
tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale inesauribilità di
situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana. In un mondo
vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo - francese, egli,
riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le
ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può
scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro
avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi
dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal
punto di vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e
diecine di esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro
sapere, la loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro
diritto, la loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti,
una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta
insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli
germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi: non v'è alta co scienza
che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi. È un po' la moda, ma una
moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni
d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro. Più gli studi
si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico, Scienza nova, v. I, p.
172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera
stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava,
che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima
dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in cui Ugo
Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La
Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore
importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del
progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine
del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa
coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come
dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile
al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori
della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del
Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924),
v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse
inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue
ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta
una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma
che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa
ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba
della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il
contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo
poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale
nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina
zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base
naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle,
romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita,
ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta
borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la
fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo
osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo
degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale
gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco,
Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli
altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande
scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul
Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante
possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano
ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi
non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il
Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E
riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e
risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre
nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ».
Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie
inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito
dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e
alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi
un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una
diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE, La
filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12.
(2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v.
XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C.
Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio
Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere
com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo,
che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò
si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti
del Cuoco. (3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di
Castello, Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op. cit., p. 241
osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature pure, où en
trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux lacomprennent les
articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota
agli Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del
poeta stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di
pensiero vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per
cui furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose
di sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è
meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e
così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li
provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono
letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da
U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il
molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli,
in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’
ispirò il Foscolo nei Sepolcri » (v. I, p. 254). (1 ) B. CROCE, La filosofia di
G. B. Vico, p. 172. (2) Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti
di Vico: à Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per
immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate,
custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono
matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra nazioni,
quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate
cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture.
Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro,
debbon avere un principio comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che
da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità, e perciò si debbano
santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si
rinselvi di nuovo » (Scienza nova, v. I, p. 173). « Finalmente, quanto gran
principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel
quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra ad esser esca de
corvi e cani; chè certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto
quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e che gli uomini a
guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro il marciume de’
loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con quella espressione
su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con minor grandezza,
Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito ». (Scienza nova, I, p.
177 ). Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per 284 lo stato
ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi dell'uomo, quei
cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così vivi nel mondo
rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad un sistema
filosofico che è certo quello del Vico (1 ), si stema che siffattamente
compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette in tutti gli
scritti pro sastici, sia pure storici e critici (2 ). Onde tutta la sua cri
tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este significare il
ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva significherebbe lo
stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e il secondo termine
sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione inaugurale: « le
umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » (Opere, ed.
Lemonnier, v. II, p. 21 ); nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso destinato a
divenire un grande scrittore, da GIOSUE CARDUCCI: « fuggendo per la gran selva
de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda cruenta: indi
con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i figli: e lui
cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo gran deserto
dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato, Tipografia Ristori, 1857, p. 84). (1)
La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso Vico nelle prime
pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime trasmigrazioni marittime: «....
gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime:
furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna divinità; nefari, chè,
per non esser tra loro distinti i paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i
figliuoli con le madri, i padri con le figliuole; e, finalmente, perchè, come
fiere be stie, non intendevano società, in mezzo ad essa infame comu nion delle
cose, tutti soli e, quindi, deboli e, finalmente, miseri ed infelici, perchè
bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita.
Essi, con la fuga de propri mali, sperimentati nelle risse, ch'essa ferina comunità
produ ceva, per loro scampo e salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza nova, v. I,
p. 27 ). (2 ) Il vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia
civile nella letteraria, Torino, 1872, ma certo non com preso, troppo imbevuto,
com'era il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false
idee d’un'arte pedago gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato
raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti
da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica
vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di
poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte (1).
Ma l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul
Monti col quale ebbe rapporti epi stolari (2 ), nonchè disappunti letterari,
dovuti al fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il
carattere del poeta cesareo assai volubile in politica; e sul Man zoni di cui
fu davvero intimo (3 ). Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia,
specie la prolusione Della necessità dell'eloquenza (1 ), il Discorso sulla
storia longobarda del secondo (5 ), sono la prova sicura della dif fusione
delle dottrine del Vico. (1 ) Vedi a proposito come Foscolo intende l'eloquenza
e confrontala con il modo come l'intende il Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p.
210, nota; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le Monnier ed.,
1894, p. 267; G. A. BOR GESE, Storia della critica romantica in Italia, Milano,
Treves ed., 1920, p. 248 e sgg., sopra tutto p. 266: « non è una scoperta, dice
quest'ultimo, quella dello Zumbini che anche le lezioni di eloquenza siano
tutte nutrite di concetti vichiani; anzi fa rebbe una scoperta chi indicasse
uno scritto capitale del Fo scolo, nel quale la filosofia della Scienza nova
non abbia bene o male la sua parte ». (2 ) G. Cogo, op. cit., p. 181; N.
RUGGIERI, op. cit., p. 47; P. HAZARD, op. cit., p. 241; vedi anche V. Cuoco,
Scritti vari v. II, pp. 318, 367, passim. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 48, il
quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed arte, Lanciano, Carabba ed.,
1887, p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 285; v. II, pp. 318,
358, 367, 397, passim. (4 ) V. MONTI, Prose e poesie, Firenze, Le Monnier, 1847,
v. IV, p. 31 e sgg. (5 ) A. MANZONI, Prose minori con note di A. BERTOLDI,
Firenze, Sansoni ed., s. d., p. 22 e sgg. Allorquando questo lavoro era già
ultimato usciva per le stampe l'opuscolo di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco;
commemorazione tenuta a Campo basso nel primo centenario della sua morte, Roma,
C. De Al berti ed., *1924. L'influsso vichiano, per il tramite del Cuoco, nota
il prof. Gentile, si rivela « non solo per l'alto concetto in cui dimostra di
tenere il grande filosofo napoletano, ma anche e principalmente per la forma
definitiva della sua mente, per alcuno dei caratteri più significativi della
sua individualità di 286 n Nè questa si arresta qui, ma plasma disè tutta la
nuova critica d'arte, e in parte la nuova storiografia, rifonden dosi con
dottrine di diversa origine e di diversi paesi, specie con i canoni romantici
di Germania: a chi legge gli scritti del Berchet (1 ), del Torti (2 ), del Di
Breme (3 ), non sarà difficile rinvenirvi idee e proposizioni vichiane. Così,
gradualmente per opera del Cuoco e di pochi altri napoletani, il pensiero
nazionale si vien formando attra verso un apporto di storicismo e d’idealismo
meridio pensatore e scrittore, quale è rappresentata sopra tutto ne romanzo.
Poichè anche Manzoni pensatore e scrittore è un realista che non conosce tipi
astratti, ma vede sempre gli uo mini e li rappresenta come sono in fatto
storicamente; non repubblica di Platone e neppur feccia di Romolo; ideale col
suo limite, come diceva De Sanctis: tutto determinato, vero e certo: e così in
questa determinatezza e limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio,
tutto,come aveva insegnato Vico, governato da una Provvidenza che non precede
per mi racoli, ma opera naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e
le azioni degli uomini. (1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era
nutrito degli scrittori più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli
Schlegel erangli familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e
la tedesca; dei nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili
della vita intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova
critica e alla nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva
silen ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace
lentezza accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non
comune ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza
di filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol
mente ». (2 ) BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune
coltura e d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si
richiamò alle leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3
) L'ampia influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e
su quella di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce
dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche,
Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. (1923 ) ], che dell'idealismo
dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro
studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo
settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le
di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e
storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come
giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,...
quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori
del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità
vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori,
segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al
realismo poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a
sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri
giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come
Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare
storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma
politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo
XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo
semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso
la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico,
que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si
manifestano: Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo
discepolo, e per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco
abbiamo detto realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento
della Scienza nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi
porta alle più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere
in rilievo l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se
condo, a negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di
fuori, e che possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato
sulla stima di sè e sulla (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e
sg. 288 fiducia delle proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e
veri, posti dal Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più
da essa, e formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la
pratica po litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi
di F. L. Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene
in luce come il genovese non solo si sia nutrito del Vico (2 ) per il tra mite del
Michelet (3 ), ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti de
' numerosi e vivi articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p.
14. (2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima che
dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il Foscolo,
lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo di trarre
vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in condizioni più
felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione pel Vico, e se ne
disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne persuase lo
studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il vuoto esistente
nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente ripetersi nella critica
letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e la filosofia ch'egli desi
derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo », disse altrove, paragonando
le antiche congerie erudite che usurpavano il nome di storie letterarie con
quelle che venivano in onore per effetto del rinnovamento romantico, « il
vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della
civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto in chiaro,
sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una sola scuola, il cui scopo
santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura comprenderlo ». E si
compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero il Vico da
quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le baieerudite e
l'inerzia degli animi». (3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase
del suo pensiero letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed. Risorgi. mento,
Roma, ecc., 1919, p. 16, p. 23 e sg., p. 66 e sgg., p. 143. Il Mannucci ci
rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due sono
aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del
Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie
de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours
sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris,
Renouard, 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese, CROCE. La
filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava pubblicando sul
Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ). E in questi
zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo
stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo
getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche
nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali
il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione
dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po
stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese
richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca
Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere
solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente
di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo
stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo
pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine
del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua
redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii
europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero,
attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro
coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le
ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari
concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire
nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del
Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia (1 ) Il fatto che gli articoli non
siano firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non
citi espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci (op. cit., p. 107, n. 101 )
che il grande agitatore non abbia mai pensato che gli articoli da lui letti nel
Giornale italiano fossero proprio di V. Cuoco: così pure GENTILE, V. C.:
commemorazione, p. 26. In quanto poi al Saggio storico il prof. Gentile
sostiene nella stessa pagina che il genovese non solo lo conobbe ma lo
menzionò. 19 F. BATTAGLIA, 290 diviene dopo tante lotte una e indipendente,
diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema unitario è un
problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio Pensiero e azione
redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la dottrina cuo chiana, in
tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze politiche, ha
esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale, meriterebbe uno studio
a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee, il filo conduttore,
perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta all'unificazione
d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va al Mazzini e che
un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra zione graduale e
lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo salda, perchè
alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso d'interessi
antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi il non
ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota bibliografica. Ho
seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico, cioè: VINCENZO
Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a cura di Fausto
Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con l'edizione milanese
del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra, 1865; VINCENZO Cuoco,
Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, ed., 1916-24, volumi
due; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da
Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed., 1909. Gli articoli del
Giornale italiano ho veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito
delle ristampe in appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo.
Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti
cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il Saggio
e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a cura di N. Cortese e F. Nicolini,
Bari, Laterza ed., 1924, volumi due. Con questa stampa quanto di meglio è stato
scritto dal grande molisano è oramai stato dato al pubblico, e ben poco resta
da fare nel campo dell'ine dito. Non tutti gli articoli del Giornale italiano
invero hanno tro vato l'attesa ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di
una certa importanza siano stati posti fuori, quei ventisette che il Cortese e
il Nicolini hanno scelto, uniti al catalogo ragionato dei 292 rimanenti,
bastano a dare un'idea più che sufficiente al let tore dell'attività
pubblicistica del nostro autore. Va data lode ai due insigni editori Cortese e
Nicolini per non avere lasciato da parte gli articoli; che il Cuoco ha
pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle due Sicilie, i quali,
sebbene assai meno interessanti di quelli del Giornale italiano, pure possono
essere utili, e per avere di essi pure offerto un catalogo ragio nato. S’
intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti minori di Vincenzo Cuoco
sovra la nuova edizione laterziana, che offre i migliori affidamenti di serietà
e di rigore, sopra tutto per la ortografia, che, specie nei fogli originari del
Giornale italiano, è la più volubile e ineguale. P. ALBINO, Biografie e
ritratti degli uomini illustri della pro vincia di Molise, Campobasso, 1864, I,
pp. 1-36; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della gioventù italiana in
Rivista Bolognese, a. II, v. I, fasc. IV, aprile 1868; F. BATTAGLIA, Critica
rivoluzionaria e tradizione nel pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I,
fasc. 4-5, aprile 1923; A. BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i
suoi primi redattori (1804-1806), Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall' Arch.
stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII ), alla quale operetta si riferisce la
recensione di G. OTTONE in Riv, stor. it., a. XXIII, za serie, vol. V (1906 ),
p. 341 e sgg.; A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella
miscellanea Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri),
Milano, Hoepli ed., 1904, p. 529 e sgg.; A. BUTTI, L'Anglofobia nella
letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo,
a. XXXVI (1909), p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e
comparativi, Torino, Civelli ed., p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia,
1919 (1 ); (1 ) L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia
che ho potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di uno scritto
di mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e
documenti, Napoli, Jovene ed., 1909 (cfr. le recensioni di G. GENTILE in
Archivio stor. nap. XXXIV (1909), pp. 588 e sgg., poi ristampata in ap pendice
agli Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915; di G. GALLAVRESI in Il
Risorgimento italiano, a. III, fasc. I - II, p. 223 e sgg.; e ancora di G.
GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., a. VII, (1910), p. 462 e sgg. ); L. CONFORTI,
Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed., 1886, p. 21
e sgg., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste dell'autore è
in N. RUG GIERI, Vincenzo Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, ed., 1903, p.
104 e sgg., nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904, p. 99 );
B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim;
B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione, Bari, Laterza,
1912, passim; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX,
Bari, Laterza, 1921, vol. I, p. 8 e sgg; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi
intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza ed., 1922, p. 166 e
sgg.; F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., v.
II, p. 309, p. 327 (accenni ); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves, v.
III, p. 291; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia dal 1789 al 1799, Milano, s. d.,
Vallardi, p. 557 e sgg.; G. GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed.,
1915 (in cui è ristampato lo studio Un discepolo di G. B. Vico: Vincenzo Cuoco
pedagogista, già pubblicato in Riv. pedagogica, a. II, 1908); G. GENTILE, Dal
Genovesi al Galluppi, Napoli, edizione della Critica, 1903, p. 375 e sgg. G. B.
GERINI, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed.,
1910, Torino, pp. 30-44; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione,
trad. o note con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo
storico di G. VIDARI, G. B. Paravia ed., s. d., Torino, v. II, p. 314 e sgg.;
294 e P. HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, 1779-1815,
Paris, Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i
suoi critici cattolici, Na poli, Pierro ed., 1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI,
Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del
secolo XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI, Storia della
letteratura italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier ed., 1853, v.
II, p. 259, p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del
suo pensiero letterario; l'aurora di un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma,
1919, (cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, v. XVII, p. 317 e sgg. ); G.
B. MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700,
Bergamo, 1903; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia,
F. Vallardi ed., 1901-5, Milano, v. I, p. 420 e sgg. (1 ); 0. MASTROIANNI,
Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d'
incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed., 1907, p. 196 e sgg.; P. MONROE
ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA,
Vallecchi ed., 8. d., Firenze, v. II, pp. 207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo
centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII (15
dic. 1923); G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti, Roma,
1917 (estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana nel
periodo napoleonico, 1916 (estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e
il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, San giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti
della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361
); L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in
Nuova Antologia, a. XXVI, fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16 dicembre 1891, p. 433 e
sgg. (1 ) L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin azzoli. 295 1 G. OTTONE, V. Cuoco
e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip. vigevanese,
1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv. stor. ital., a XXI (1904), s. 3a,
v. III, pp. 57-8; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it., a. XLIV (1904), p.
240 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it. a. IX (1904), p. 277 e
sgg.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st. per le prov. nap., a. XXX (1905),
p. 73 e sgg. ); G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel «
Platone » di V. Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel
periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr. recensioni di A. Butti, in
Giorn. st. d. lett. it., a. XLVII (1906), p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. lett. it., a. XI (1906), p. 181 e sgg. ); G. OTTONE, Mario Pagano e la
tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini, 1897; G. PEPE,
Necrologia: Vincenzo Cuoco, in Antologia, a. XIV (1824), p. 99 e sgg. (riprodotta
dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ); I. RINIERI,
Della rovina d'una monarchia; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di
Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901, p. 484 e sgg.; G. ROBERTI, Lettere
inedite di C. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it., a. XII,
v. XXIII (1894), p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, politico,
storiografo, ro manziere, giornalista, Isernia, Colitti, 1904 (cfr. recensioni
di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1904 ), p. 147 e sgg.; di A.
BUTTI, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVI (1905), p. 412 e sgg; infine di G.
GENTILE, in Critica, III (1905), p. 39 e sgg., ristampata in Scritti vichiani,
p. 427 e sgg. ); M. ROMANO, Una pagina inedita di V. Cuoco su G. B. Vico, nella
miscellanea: Scritti di storia, di filosofia e d'arte (nozze FEDELE- DE
FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi ed., 1908, p. 181 e sgg.; P. ROMANO, Per una
nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d., Torino, pp. 102-124; N.
RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con una appendice di documenti
inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli ed., 1903 (cfr. recensioni di B. CROCE,
nella Critica, v. I (1903), ſ. pad 296 p. 298 e sgg.; di G. R[OBERTI), in
Giornale st. d. lett. it., a. XLII (1903 ), p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in
Rass. bibl. d. lett. it., a. XII (1904 ), p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. lett. it., a. IX (1903), p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor.
it., a. XXI, 3a 8., vol. III (1904), p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli, Mo rano ed., 1872 v. III, p. 279 e sgg.; R.
SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX,
in Bollettino della società pavese di storia patria, XVIII (1918 ), pp. 102-117,
pp. 119-121; U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in
Rass. crit. d. lett. it., v. VI (1901 ), p. 193 e sgg. (cfr. RUGGIERI, op. cit.,
p. 94; ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg. ); A. Zazo, Le riforme scolastiche di
Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto dalla Rivista
pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive il GENTILE (Studi vichiani p. 336),
l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso sul
pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla
Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M.
ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss.
recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi F. PERSICO,
Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema « Di Vincenzo
Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc., tornata del 22 dic. 1906 ». Circa
questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch., 1905, pag. 3, nonchè
RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p. 45, n. 13, il quale ultimo di
essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e
infine CROCE nella Critica, a. I (1903 ), p. 299. Del Cuoco si sono occupati
varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto
alcuni più noti: V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico dal 1799 al 1814,
in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d.
passim; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano (1789-1815), Milano,
Hoepli, 1906, passim; M. Rosi, L'Italia odierna, Unione tip.- editr. torinese,
1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G. MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi,
1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim, in Storia letteraria scritta da una 297
società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano,
Vallardi, 1915, v. III, p. 243; A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della
letteratura italiana, Firenze, Barbèra, 1914, v. V, p. 132, v. VI, p. 386-7 (1
); F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze,
Sansoni, 1918, v. III, p. II, p. 441 e sgg. Il primo centenario della morte di
V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che dalla
pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di F.
Nico lini, dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (Vincenzo
Cuoco, Roma, Alberti ed., 1924). Preannunziando o annunziando la ricorrenza
scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Vincenzo Cuoco (1823-1923 ), in Il
popolo molisano, 15 marzo 1923; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo Cuoco, in
Il mondo, 13 dicembre 1923 (2 ); F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle
Puglie, febbraio 1924; F. Mo MIGLIANO, Commemorazione di V. Cuoco, in
Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni rapporto è la prolusione al
Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R. Università di Firenze da G. DE
MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico al Cuoco al Risorgimento Italiano (Roma,
Soc. Anonima Poligrafica 1925). Altra raccolta di scritti per uso scolastico.
V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da
una larga introduzione, da G. MARCHI. (1 ) A pag. 387 v'è una duplice
inesattezza: ad A. BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di
V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, II, p. 337 e Una
pagina inedita su G. B. Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181,
la riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M.
ROMANO. (2) L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente
parte di un numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho
potuto avere nè vedere. INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II. I «
Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica rivoluzionaria. 27 CAP. III. Il
« Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua
politica generale. 123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale
italiano » 197 CAP. VI. Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato
italico.. >> 228 Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano
260 Conclusione 278 Nota bibliografica. ·Felice Battaglia. Keywords: valori
italiani, essere italiano, valori italiani, “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. –
spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in Italia,
Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il ‘Platone’ di
Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling, volksseele
volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Battaglia” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51787741952/in/dateposted-public/
Grice
e Battista – la percezione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo. Grice: Very good. – Giovanni Battista –
he assumed the name “BONOMO” Gabriele
Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi.
Scrive un saggio sulla “trigonometria”. e inventò un orologio automatico. Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con
il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo. Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica
italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore
Soliani, 1871153. Antonio Muccioli, Le
strade di Palermo, Editore Newton & Compton, 1998127. Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 89092338 495/98454 Identities-89092338 Biografie Biografie:
di biografie Categorie: Teologi
italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore1694
1760 13 aprile 24 agosto Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni
Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: percezione, trigonometria, orologio
automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria nella
matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale della
percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788784183/in/dateposted-public/
Grice e Bausola –
solidarietà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ovada). Filosofo. Grice:
“I would call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons for solidarity,’
which is exactly the point I want to make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’
as people kept asking me for the rationale – i. e., literally, the rational
basis – for conversational cooperation – People agree that conversation is
rational; but my stronger thesis is that it’s cooperation which is rational.
That is Bausola’s point.” “Basuola has also explored the topics of
‘inter-personal relation’ from a philosophical rather than sociological
perspective – and therefore into the compromise between self-love and
other-love, or freedom and responsibility --. A genius! That he also admires my
latitudinal and longitudinal unity of philosophy (‘storiografia filosofica,’ as
the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio di Filippo, scultore cieco
di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una formazione cattolica attraverso le
scuole primarie delle Madri Pie, fondate da Paolo Gerolamo Franzoni, e dei
Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a Novi Ligure al Classico Statale
"Doria" dove «la materia che veramente fu per lui una rivelazione è
la filosofia». Sceglie così la facoltà
all'Università Cattolica a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli
e Monsignor Francesco Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito
nel Collegio Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui
sono «maestri di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento
neotomista: Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero
docente di filosofia morale nel 1962. Nel 1970 vincendo la cattedra di storia
della filosofia viene chiamato alla Cattolica, dove dal 1974 al 1979 è
ordinario di filosofia morale passando poi, nel 1980, ad ordinario di filosofia
teoretica. È preside della facoltà di lettere e filosofia dal 1974 al
1983. Nel 1982 è chiamato a far parte
del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II per il
periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ne
diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998. È stato anche direttore della Rivista di
filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista
Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti
dell'uomo. Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei
Classici della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del
Centro di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la
collana di pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica. Tra gli altri incarichi e funzioni è
stato: Socio dell'Accademia Nazionale dei
Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto
LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società
Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore
delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente
della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle
Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma
dal 30 ottobre al 4 novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del
Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto
dal 9 al 13 aprile 1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto
dal Papa per il 20º anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano
teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica
(fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il
tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della
metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono
rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello
internazionale di Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono
rivolti anche a Franz Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica
esistenzialista. Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello
studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione
storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento volto,
attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della
filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica
del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico,
politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste
di cultura. Altre opere: “Saggi sulla
filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey,
Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano,
Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling,
Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce,
Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in
Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia.
Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di
Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella
filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema
della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione.
Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a
Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia);
“Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto
dell'uomo: riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero); “Libertà
e relazioni interpersonali: introduzione alla lettura di L'essere e il nulla,
Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise Pascal, con Remo
Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero
“La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà, le ragioni della
solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica, Milano, Vita e
Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura
e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della
scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981 Commendatore dell'Ordine
al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore
dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 2 giugno 1985 Cavaliere di
gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme
ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica
italiana — Roma, 2 giugno 1988 Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San
Gregorio Magnonastrino per uniforme ordinariaCavaliere di Gran Croce
dell'Ordine di San Gregorio Magno Note
Anna Maria Bausola Grillo, Adriano Bausola nei ricordi della sorella, ne
Atti del convegno "Studi di Storia Ovadese", pubblicazione dedicata
alla memoria di Adriano Bausola, Accademia Urbense di Ovada, 2005 Avvenire, 29 aprile 2000, su swif.uniba.
30.08. 22 febbraio 2007). Sito web del
Quirinale: dettaglio decorato. Sito web
del Quirinale: dettaglio decorato. Sito
web del Quirinale: dettaglio decorato.
Emilio Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano
Bausola, filosofo, in URBS Silva et flumen, Anno XIII n.2 giugno 2000, 71-72. Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini,
Atti del Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, 2005, 669-672. Altri progetti Collabora a Wikimedia
Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Adriano
Bausola Emilio Costa, Un Ovadese nel
mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XIII n.2
giugno 2000, 71-72, su archiviostorico.net.
Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo dell'illustre ovadese a 10
anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale
dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XXIII n.3-4 settembre-dicembre, 180-191, su accademiaurbense. Dal sito
filosofico.net: Adriano Bausola Diego Fusaro, su filosofico.net.
blogphilosophica.wordpress.com//08/31/4161/ Lorenzo Cortesi PredecessoreMagnifico
Rettore dell'Università Cattolica del Sacro CuoreSuccessoreStemma UCSC.png
Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia Università Università Filosofo del XX secoloAccademici
italiani Professore1930 2000 22 dicembre 28 aprile Ovada RomaBenemeriti della
scuola, della cultura e dell'arteCavalieri di gran croce OMRICommendatori
OMRIStudenti dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori dell'Università
Cattolica del Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.
Adriano Bausola. Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The problem with
Bausola is that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo,
utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche
solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love,
benevolence, ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di
Filosofia, 1937 – noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788639491/in/dateposted-public/
Grice e Bazzanella – il
luogo dell’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste).
Filosofo. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different background from
mine, but we can communicate – I have focused on conversational communication;
he specializes in televisional communication; he has used Heidegger’s concept
of contamination to elucidate that of structure –.” Grice: “My favourite of his
tracts must be one on ethics and topology, broadly understood, which is all
that my theory of conversational helpfulness is about – Bazzanella entitles his
essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the strictness of his topological
approach as applied to the ethos that results when ‘ego’ meets and communes with
‘alter.’” Partecipa a tre edizioni della
Biennale di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione
fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un
saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl,
nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault,
Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando
che l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico,
storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora
l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al
consumo. Espone a Udine "Size". Il suo sviluppo della performance introduce
nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle
installazioni di Tony Oursler. Alla
Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone)
che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In
una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da
un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono
riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro
opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del, invece, propone un'installazione
(Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in cui 16 iPad
riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande generate da un
software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia" nel
quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri
filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella
declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della
metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in
Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non
viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il
tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende
a scardinare l'impianto della logica aristotelica. L'echologia è un
termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi
delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui
soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione
"usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della
"sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y. Questo passaggio è decisivo poiché segna il
definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia,
Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello
che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione,
dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice
significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in
relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di
un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla,
suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s
‘obble’). x Fid y. La relazione diadica
x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva.
L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica”
od ‘ontica’ e fondata sull’ente e
articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella,
sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia”
(disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non
può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa
che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione,
e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La
legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon”
(‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a,
non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una
relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una
relazioni senza referenza a le due relati. La preposizione "in" (‘jack IN the
box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione
"di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna).
Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la
cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che
vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere
del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il
"con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e
Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di
Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià”
del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno.
Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla
ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca
sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto, sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’
‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia
dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova
il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e,
soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato"
nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della
logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed
all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in
analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il
non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla
definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il
senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una
"mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente
così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche
una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti
(l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal
cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io"
pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo
assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il
reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di
non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La
communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione
in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si
trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende
il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o
filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e
normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui
riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il
rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso
di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva,
e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai
classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera nello stalinismo. Il fascismo dai un
presupposto socialista diviene un
totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un
surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il
reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso
stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il
modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione
autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di
stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea
ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società
dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non
sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del
totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario
e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut»,
n. 270, La Nuova Italia, Firenze 199565.
2 F. Bonami (a c. di), La dittatura dello spettatore, Catalogo generale
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Venezia 2003. 3 R. Storr (a c. di),
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Internazionale d'Arte. La biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2007. D. Birnbaum (a c. di), Fare Mondi, Catalogo
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Marsilio, Venezia 2009. M. Foucault,
Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),
Feltrinelli, Milano 2005. R. Esposito,
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della comunità, Einaudi, Torino 1998.
Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir Jankélévitch, Franco Angeli,
Milano 1994; Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl e Merleau-Ponty,
Guerini e associati, Milano 1995; Contaminazione. L'idea di struttura in
Heidegger, Franco Angeli, Milano 1995; Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la
televisione, Mimesis, Milano 1996; Il luogo dell'Altro. Etica e topologia in
Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano 1998; Idee per un'echologia
fenomenologica, Franco Angeli, Milano 1999; Echologia. Introduzione a una
fenomenologia della proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios
Editore, Trieste 2000; Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste 2002;
La Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore, Trattato di echologia, Mimesis, Milano 2004;
La fabbrica, FPE Editore, Trieste 2005; Il ritornello. La questione del senso
in Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano 2005). Il tardocapitalismo. Decorsi e
patologie di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste 2006. Etica
del tardocapitalismo, Mimesis, Milano 2008. Logica e tempo, Abiblio, Trieste
2009 Autoscrittura, Asterios Editore, Trieste 2009 Religio I. Senso e fede nel
tardocapitalismo, Mimesis, Milano
Religio II. La religione del soggetto, Mimesis, Milano. Indignatevi,
Asterios Editore Trieste. Oltre la decrescita. Il Tapis Roulant e la società
dei consumi, Asterios Editore, Trieste. Lacan. Immaginario, simbolico e reale
in tre lezioni, Asterios, Trieste. Filosofie della paura. Verso la condizione
post-postmoderna, Asterios Editore, Trieste. La filosofia e il suo consumo.
Nuovo realismo e postmoderno, Asterios Editore, Trieste. Religio III. Logica e
follia, Mimesis, Milano. Eros e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX Seminario
di Lacan, Asterios Editore, Trieste,. Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia,
Asterios Editore, Trieste,. Il numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste.
Il tragico e il comico nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios
Editore, Trieste. Simbolo e violenza, Asterios Editore, Trieste. Del
fallimento. Simbolo e violenza II, Asterios Editore. Filosofi italiani del XX
secoloFilosofi. Emiliano Bazzanella. Keywords: il lugo dell’altro – etica e
topologia, L’echologia di Grice (dal greco ‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica,
inessema, coessema, diaessema, riessema, aritmetica. Esposito, communita,
immunita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Bazzanella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788746073/in/dateposted-public/
Grice e Beccaria – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I would call
Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a Beccarian!” Grice: “His
explicit, rather than implicated, Griceian ideology is in the opening chapter
on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the implicaturum ain’t a part of
the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is explicated – he adds that
‘senses’ should not be multiplied because your addressee may get YOUR sense,
but trust he will lose interest if you keep multiplying – “to the risk that he
won’t get your sense in the last place!” – Grice: “Like me, Beccaria was a
unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is delightful, very pleasant
read!” – If Austin and us met on different grounds and pubs, Beccaria met at
the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately, only know him for his
tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians don’t even consider Beccaria an Italian philosopher but
as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the illuminismo Lombardo
--.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of Italian philosophy is
much diverse than our Oxonian dialectic!” --
One of the most essential of Italian philosophersReferred to by H. P.
Grice in his explorations on moral versus legal right, studied in Parma and
Pavia and taught political economy in Milan. Here, he met Pietro and Alessandro
Verri and other Milanese intellectuals attempting to promote political,
economical, and judiciary reforms. His major work, Dei delitti e delle pene “On
Crimes and Punishments,” 1764, denounces the contemporary methods in the
administration of justice and the treatment f criminals. Beccaria argues that the
highest good is the greatest happiness shared by the greatest number of people;
hence, actions against the state are the most serious crimes. Crimes against
individuals and property are less serious, and crimes endangering public
harmony are the least serious. The purposes of punishment are deterrence and
the protection of society. However, the employment of torture to obtain
confessions is unjust and useless: it results in acquittal of the strong and
the ruthless and conviction of the weak and the innocent. Beccaria also rejects
the death penalty as a war of the state against the individual. He claims that
the duration and certainty of the punishment, not its intensity, most strongly
affect criminals. Beccaria was influenced by Montesquieu, Rousseau, and
Condillac. His major work was tr. into many languages and set guidelines for
revising the criminal and judicial systems of several European countries. Se
dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la
causa dell’umanità.» (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria
Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo,
economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti
dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica
milanese. La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene,
in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e
la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo
utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed
ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di
Toscana. Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è
considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del
diritto penale e della criminologia di scuola liberale. nacque a Milano
(allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di
Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma
dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13 settembre 1758 all'Università
degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la Visconti in seconde nozze nel
1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni. Nel 1760
Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a
rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese);
da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria (1766-1788), nata con
gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel
1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772. Il padre lo cacciò
anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri,
che lo mantenne anche economicamente per un periodo. Teresa morì il 14
marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena
40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti
Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni
dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio,
Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle
Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie
ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel cenacolo
di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più celebre
giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse
sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel
1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle
discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia
penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di
morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in
Francia. Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed
osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando
Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di
mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa
della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi
controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei
filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel
circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana
e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse
a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il
viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria,
tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e
soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo
soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come
Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua
personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e
non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto
bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti. Tornato
a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica),
creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una grande
opera sulla convivenza umana, mai completata. Antonio Perego,
L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle),
Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi,
Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione
austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia,
carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche
sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui
Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli
studiosi, però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare
Beccaria si dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole
preparazione intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la
riforma delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del
sistema metrico decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello
Annibale, dedicò quasi vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente
complessa, coinvolse alla fine solo il braccio milanese. La successiva riforma
dei pesi non fu mai realizzata.) Il suo rapporto con la figlia Giulia,
futura madre di Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua
vita; ella era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso
deprecato i collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e lì
dimenticata per quasi sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei
per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una
relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non
si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò l'eredità materna alla
figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile
avarizia. Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti
illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni,
più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare
fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e
Alessandro, e amante di Giulia. Prima della morte del padre, Giulia abbandonò
il marito, nel 1792, per andare a vivere a Parigi insieme al conte Carlo
Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente col padre, e temporaneamente anche con il figlio.
Beccaria morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56
anni, e trovò sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in
una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella
tomba di famiglia. Quando tutti i resti vennero traslati nel cimitero
monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse traccia della tomba del grande
giurista. Pietro Verri, con una riflessione valida ancora oggi, deplorò nei
suoi scritti il fatto che i milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di
Cesare Beccaria, né da vivo né da morto, che tanta gloria aveva portato alla
città. Ai funerali di Beccaria era presente anche il giovane nipote Alessandro
Manzoni (che riprenderà molte delle riflessioni del nonno e di Verri nella
Storia della colonna infame e nel suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il
figlio superstite ed erede, Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura
di Locke, Helvetius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi,
dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in
particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria
contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da
Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale
(nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a
garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in
maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge
divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica.
La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da
esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo
della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può
disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito
nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del
ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva
certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto
individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in
frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni
eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è
necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi
nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire, è
parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare
pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la
loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più
dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso
o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte
né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si
inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di
valutazione di ogni azione umana. Monumento a Cesare Beccaria,
Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello
general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base
alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che
sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno
latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello
analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da
intendersi in termini fenomenici (approccio sensista). La natura umana si
svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la
moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è caratterizzato
dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi» messi in
movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore.
L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni,
in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende
di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della
convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna
impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere la legge al
fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore,
da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione
preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni
antisociali. Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì
idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e
rispettosa della persona umana. «Il fine delle pene non è di tormentare
ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può
egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il
tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa
inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le
strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già
consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni
ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque
e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione,
farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la
meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le leggi, che
sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono
l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini
dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle
pene, cap. XXVIII) Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene:
la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una
spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è
inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla
volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa: non è un vero deterrente
non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata
azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un
ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza
definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua
esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare
compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini
al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e
il senso di fiducia nelle istituzioni. Questa condizione è assai più
potente dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è
quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene
sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene
annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa
l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività
penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta
eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto
o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come
previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia
anti-retributiva). Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia
necessario solo quando l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno
per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta
tumulti e tensioni sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso
un individuo molto potente e solo in caso di una guerra civile. Tale
motivazione fu usata, per chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre,
il quale era inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via
ad un uso spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del
tutto inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze,
come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793.
La tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con
varie argomentazioni: essa viola la presunzione di innocenza, dato che
«un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in
un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena
stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile
innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo,
stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine
alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è
posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto,
né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria ammette razionalmente
l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante
il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura
trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale
abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto
comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena
preventiva, sproporzionata e comunque violenta). Il carcere preventivo
Beccaria mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa
di processo, attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo
di fuga, reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca
assolutamente discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che
contrario al fine sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il
lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un
cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il
lasciare impunito un amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia
è una pena che per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la
dichiarazione del delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l'altro
essenziale, cioè che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno
di pena. La legge dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la
custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena.» Può
essere necessaria, ma essendo comunque una pena contro un presunto innocente,
come la tortura (concezione garantista della giustizia), non deve essere
attuata tramite arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La
carcerazione dopo cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci
sia, oltre ogni dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica
fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto,
le minacce e la costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e
simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove
devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono
sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari
di una massima generale esistente nel pubblico codice». Le prove dovranno
essere quanto più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante:
«A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame
dalle carceri, che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e
comanderanno agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi
potranno contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare». Egli
raccomanda inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un
uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco
nota alcuna d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati
poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per
qual ragione è così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché
sembra che nel presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini,
prevalga l'idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si
gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la
prigione è piuttosto un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza
interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e
della nazione, quando unite dovrebbono essere». Il carattere della
sanzione Frontespizio di Scritti e lettere inediti del 1910 Cesare
Beccaria, incisione da Dei delitti e delle pene Beccaria indica come la
sanzione deve possedere alcuni requisiti: la prontezza ovvero la
vicinanza temporale della pena al delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere
la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità la
proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile) la
durata, che dev'essere adeguata la pubblica esemplarità, infatti la
destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza
all'infrazione essere la «minima delle possibili nelle date circostanze»
Secondo Beccaria, per ottenere un'approssimativa proporzionalità pena-delitto,
bisogna tener conto: del danno subito dalla collettività del vantaggio
che comporta la commissione di tale reato della tendenza dei cittadini a
commettere tale reato Non dev'essere comunque una violenza gratuita, ma
dev'essere dettata dalle leggi, oltre a possedere tutti i caratteri razionali
citati, e sprovvista di personalismi e sentimenti irrazionali di
vendetta. La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti si dovrebbe
evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di controllo
sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni in maniera analoga al fatto
compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è paragonabile a uno riuscito).
Per questi motivi è importante attuare degli espedienti di “prevenzione
indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della magistratura, la
diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale (premiare la
virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una riforma
economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali
disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema delatorio
(cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire delitti
importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei criminali rei
confessi dando loro l'impunità. Per quanto riguarda l'istituto premiale
nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia, essi possono essere
usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera esemplare
durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso di pene
pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la
discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento
della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando
anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o umanamente
al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non dell'esecutor delle
leggi», scrive infatti. Pertanto il fine della sanzione non è quello di
affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere altri delitti e di
intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di "dolcezza
della pena", in contrasto alla pena violenta: «Uno dei più gran
freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse. La
certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore impressione
che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza
dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre
gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di
tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità,
che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità
stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande
il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir
la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon
sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo
spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida
e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male
della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male
deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il
delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò
tirannico.» Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di
Beccaria sul porto di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza
del crimine, si riassume nelle seguenti citazioni: «Falsa idea di utilità
è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario
o di troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e
l'acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che
proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i
non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter
violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come
rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili
ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali
toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato
legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?
Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli
assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la
confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi
non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa
impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione
degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale» Influenza Anche
Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene
crescono coi supplizi". L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre,
influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella
Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo
d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col
quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la
pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale. Il filosofo
utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee. Le idee del
Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse
nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi. Citazioni e
riferimenti Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato
un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto
sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Nel 1871 venne inaugurato un
secondo monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del
deterioramento, nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli
è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a
lui intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il
Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre
opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della
pena” (Livorno, Marco Cortellini). Giovanni
Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di
economia pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il
Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi, Genealogia
Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione
della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con
prosperità”; Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di molti
trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano. Galeazzo
«I.C. causidico nel civile». Francesco “cassiere generale del Banco
Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna
Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia
rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»
Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con
che la trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco
(«rimaritata nel conte Isidoro del Careto»). Francesco «Fece
aquisto de sudetti feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo
per istrumento 3 marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711
per cesareo diploma». Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella
Valtellina». Giovanni Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di
Villareggio. Ereditò il cognome Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con
decreto, entrò a far parte del patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria
Visconti di Saliceto Cesare Terzo marchese di Gualdrasco e di Villareggio.
Sposò nel 1761 Teresa de Blasco Anna Barbò
Giulia Sposò nel 1782 Pietro
Manzoni. Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale Margherita Teresa Giulio Quarto marchese di
Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati
Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò nel 1766 Giulio Cesare
Isimbardi Tozzi. Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco
(1749-1856)Sposò Rosa Conti (vedova
Fè). Carlo Sposò Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate
Carlo Teresamonaca Chiaramonaca
Nicola Francesco (1702-1765) -Laureato in legge, membro del
collegio dei giurisperiti dal 1738, fu anche giudice a Milano e a Pavia.
Giuseppe Marianna Ignazio Anna
MariaSposò un Cattaneo «fisico» Gerolamo«Canonico ordinario del
Duomo» AngiolaSposò Alberto Priorino nel 1619. Tendente al
deismo Il nome di «marchese di
Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova in molte fonti (tra
cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo esatto era «marchese di
Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali, Cesare Beccaria. Progresso
e discorsi di economia politica, Paris, 20059. Philippe Audegean, Introduzione,
in Lione, 20099. ) John Hostettler,
Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and Punishments', Hampshire,
Waterside Press, 160, 978-1-904380-63-4. Indicata come "Ortensia" in Pompeo
Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane.
Renzo Zorzi, Cesare Beccaria. Dramma della Giustizia, Milano,
199553. Pirrotta, art. cit C. e M.
Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op, cit..
Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e la riduzione delle misure lineari a
Milano,' Nuova Informazione Bibliografica 3/, 579-602., DOI:10.1448/80865. l'11 dicembre. Beccaria non riposa sul Lario F.Venturi, Settecento riformatore, Einaudi,
Torino, 1969 Sambugar, Salà, Letteratura
modulare, I Dei delitti e delle pene, capitolo XII Cesare Beccaria, la scoperta della libertà,
con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre Dei delitti e delle
pene, capitolo VI Dei delitti e delle
pene, Capitolo XLVII Dei delitti e delle
pene, Capitoli 38 e seguenti Dei delitti
e delle pene, capitolo 46, Delle grazie
Dei delitti e delle pene, capitolo 27
I. Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note di G. Vidari,
revisione di N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari, Laterza, «Il marchese
Beccaria, per un affettato sentimento umanitario, sostiene [...] la illegalità
di ogni pena di morte: essa infatti non potrebbe essere contenuta nel contratto
civile originario, perché allora ogni individuo del popolo avrebbe dovuto
acconsentire a perdere la vita nel caso ch'egli avesse a uccidere un altro (nel
popolo); ora questo consenso sarebbe impossibile perché nessuno può disporre
della propria vita. Tutto ciò però non è che sofisma e snaturamento del
diritto». Teatro genealogico delle
famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital Library. Felice Calvi, Il patriziato milanese, Milano,
1875, 52-53. Nella genealogia settecentesca è indicato un
Nicolò abbate. Pietro Verri, Scritti di
argomento familiare e autobiografico, G. Barbarisi, Roma, 2003118. Franco Arese, Il Collegio dei nobili
Giureconsulti di Milano, in Archivio Storico Lombardo, 1977162. Cesare Beccaria, Ricerche intorno alla natura
dello stile, Milano, Società tipografica de' classici italiani, 1822. Cesare
Beccaria, Scritti e lettere inediti, Milano, Hoepli, 1910. Cesare Beccaria,
Opere, I, Firenze, Sansoni, 1958. Cesare Beccaria, Opere, II, Firenze, Sansoni,
1958. Introduzione a Beccaria, Enza Biagini, Roma-Bari,Laterza, 1992
Antoine-Marie Graziani, Fortune de Beccaria, Commentaire 2009/3 (Numéro
127). Dei delitti e delle pene Diritti
umani Ergastolo Tortura Pena capitale Del disordine e de' rimedi delle monete
nello stato di Milano nel 1762 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloEconomisti italiani 1738 1794 15
marzo 28 novembre Milano MilanoFilosofi del dirittoIlluministiUtilitaristiLetterati
italianiOppositori della pena di morteStudiosi di diritto penale del XVIII
secoloCriminologi italianiStoria del dirittoNobili italiani del XVIII
secoloStudenti dell'Università degli Studi di Pavia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Beccaria," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Delle idee espresse, e delle idee
semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale
sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando
siano espresse coi termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente
suggerite o destate nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse
nuocerebbero al fascio intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano,
non solo perchè la picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del
nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è
legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e
le taciute, e tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le attenzioni
saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra di loro, e
scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e
passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee espresse, e
confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti, o solamente
ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono delle
sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo
semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non
deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non
più la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli
oggetti presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore
comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della
realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità
della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie,
che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e
limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della
mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune
l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le
altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo
concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic
chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una
che l'altra delle sensazioni componenti 1 e terruzione al senso, e
distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo., faranno i n 43
suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta,
accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea
principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad
aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante
saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito',
'nave', ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più
immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono
contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l'effetto reale che ne
cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é confusa. Per lo contrario,
se invece de' nomi 'spada', 'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro',
'soldato', 'vele', e che questi nomi si condensassero attorno ad un'idea
principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise
sensazioni comprese nel proprio significato delle tres uddette parole si quelle
ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia;
saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di
onde associazione non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente
le altre sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato',
quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente
queste sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e
'vele', ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco
chiaramente spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee
espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel
progresso io avrò parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati.
sono. E de sta que immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente
suggerite non entrano nella sintassi della proposizione, la quale regge senza
di quelle: non sono non SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis,
quanta folla d'idee si risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella
occasione dette, dulces exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino
queste idee, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso
complicato e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea
sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta
in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere
interiormente! Egli è evidente che una medesima serie d'idee per
intervalli di tempo più lunghi occupa la mente se siano espresse, di quello che
se siano taciute, per chè un maggior tempo si consuma nella percezione della parola,
per la durata della quale si continua la presenza dell'idea corrispondente di
quello che sia con durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle
parole immediatamente, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si
risveglino; onde con minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più
grande effetto. Quando Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa,
Deusque sinebant, a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le
idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento
del tutto, oppure essunto nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che
per forza di associa zione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che
non sarà inutile il qui osservare che molte espressioni non so no preferibili
alle altre, se non appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è
materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile pressione la parola
cocchio della carrozza non per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso
dell'esser meno comune ed avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle
bocche di tutti sieno continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per
meno belle son riputate, ma soltanto p e r chè è parola più breve, e l'idea da
un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con
minore spesa di forza e ditempo. Ora se le idee taciute fossero tutte espresse,
noi verremmo mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità
dell'idea principale dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'accessorio
principale, pro la durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni
diseguali e sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il
tempo (che altro nonè per noi che la successione delle idee degli esseri
sensibili) è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le
scienze tutte e le belle ti e la politica debbono aver considerazione; perchè
tutte le più fine e le più sottili ed interiori, egualmente che le più
complicate e più grossolane ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto
l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle
idee accesso rie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse,
quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo, tramolte accessorie
analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reciprocamente
ed infallibilmente l'una l'altra, una sola sarà l'espressa, le altre taciute;
perchè se tutte fossero espresse, ciascheduna espressione replicando le idee di
tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e
stanchezza, e d i spendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non
produce lo stesso. In secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie
vi saranno, oltre le analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle
quali avrà le sue rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la
mente ad una serie d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi-
pensieri; queste saranno le espresse, perchè non si destano reciprocamente,
ed effetto della ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano
come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto
riscalda e rischiara; quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle
principali: per lo contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe
semplicemente destate, la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola
espressione diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando
picciola la insipida sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo
considerabile esige le idee e dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un
più grand'effetto in più breve tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m
a della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un
a che non to spese del necessa è necessaria l'espressione per
eccitare, ossia perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti
progressioni d'idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle
accessorie colla principale, in cui tutte le accessorie espresse siano ca
pi-pensieri, e non molto analoghi ed associati tradi loro, e moltissimo colla
principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente
si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e
taciute; cioè che tra una espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza
de'sensi esterni, tanto per mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito,
corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo:
se vi sono idee desta te e non espresse, queste come lampi di mente riempiono
questo vuoto senza stan chezza; ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i
vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per
l'aumentata fatica delle espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più
grandi epiù forti saranno le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos
ono essere le idee taciute, ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia
delle prime tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad
abbracciare le idee non espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e
perchè espressioni più grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge
o d'ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata
ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono
più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora,
per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza
é grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante
la mente, dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta,
più facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione
di espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla
esperienza dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande
ed interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l'
immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote
e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae
raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le
stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte
relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma
ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i
boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le
solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista
del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti
l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare
i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la
considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se
stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore
pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune,
gli oggetti della quale sono atti bensi a spin 51 ľ 1 gertato l'animo
fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo
attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le
accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor
numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente
più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre
rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto
riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da
sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli
accessorie espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc
chè il numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo
ch' esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo
allontaneremo il concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per
una contraria ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento
d'impressione; m a poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e
cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito.
Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra
osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso
*effetto* che una idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col
termino corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata*
nell'animo di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della
sensaziona; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che
facciamo e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione
sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che
tutt'altra forza ha la idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione
esigono da noi quella le che questa. Ora l'attenzione è tanto più
lunga o più frequente, tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al
tutto. Mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione
che balenano, in noi per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e
debolissima è la percezione della *parte* o solamente ad alcune noi
faremo idea accessoria e non espressa, accrescono della sensazioni senza
nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il
numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanee non deve eccedere
che *tre o quattro* sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente
umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti
non le concede una maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa
ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è
presente, vi è la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque
volessimo l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella
legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale,
o lo sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè
solamente di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella
mente, ed allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque
un'espressione racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come
'spada', 'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non
sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti
e l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle
altre espressione in vece di aumentarlo., faranno in suc, ma sibbene sia
piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che,
condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*,
vi è un'idea accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza
alla idea principale, ma invece un molto maggior numero, quante sono le
sensazioni egualmente comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito'
o 'nave'. Le varie sensazioni, non essendo più immediatamente le une che
le altre suggerite, concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea
principale. Onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta
distratta é *confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o
'esercito', o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa
espressione si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si
osserva che la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio
significato dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono
che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia
-- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per
forza di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire
rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di
'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo
priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata
coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere
all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io
intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta
questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale,
l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non
pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica
della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite
hanc animam, me que his exolvit e curis" -- quanta folla d'idee si
risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette,
'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea
semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare
un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la
spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui
portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non
ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesima idea
per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di
quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma nella
percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la presenza
dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente quanto le
idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque come le
altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore dispendio di
tempo e di forze si ottiene un più grande effetto. a rendere più tarda e
più lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante
e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure essunto nella rapida ed
affollate imagini che per forza di associazione si eccitano reciprocamente.
Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui osservare che
un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se non appunto
perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente più dell'
altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o 'se p, q')
dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo capriccioso
dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra che nella
bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si rigettano, nè
per meno bella è riputata, ma soltanto perchè è espressione più
breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si ottiene lo
stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee taciuta
divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più tempi
ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in un
solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe e *confusione*
nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate dell'idea fatta
nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è per noi che la
successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità alla quale non la
scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti e la politica
debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile ed interiore,
egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore operazioni
dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra
l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per essere espressa, quali
sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In primo luogo, tra una
accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia reciprocamente ed
infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa (l'acqua liquida),
l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se 'liquida' è espressa,
ciascheduna espressione replicando l'idea è superfluità e
ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e di spendio di tempo. La
ripetizione di una idea accessoria non produce lo stesso. Tra l'*idea
accessoria* è, oltre l'analoga, quelle che è più distante
(disparata), ciascheduna delle quali ha la sua rispettiva simile ed associata
(acqua liquida, bambino non-adulto). Di questa ognuna apre la mente del
co-conversatore ad una serie d'impressioni, e è direi quasi capi-idea
e capi-pensiero. Questa è l'idea accessoria *espressa*, perchè non si
desta reciprocamente, ed effetto della ripetizione dell'idea principale
('bambino'). Questa si rinfranca come tale nella mente, e divienne perciò come
un centro di luce che il *tutto* ('il
bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto)
ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per
lo contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente
destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola*
espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per conseguenza
più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito, che abbiamo
tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così veniamo ad
ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema non è solo
l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di tutta la
filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del necessa è
necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia perchè la mente
possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà dunque eccellente
la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea principale, in cui l'
accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una calligrafia bellissima') e
*non* molto analoga ed associata e moltissimo coll'idea principale ('è un
pessimo filosofo') per una delle ndicate sorgenti per cui le idee vicende
volmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto dell'idea
espresse e dell'idea taciuta. Tra una espressione E1 e l'altra, E2, per i
limiti e la debolezza de' sensi esterni, tanto per mezzo dell'udito, corre un
picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo. Se
vi è idea semplicemente destata e non espressa, questa come
lampi di mente riempiono questo vuoto senza stanchezza. Ma se l'idea è espressa,
si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere
e stanchezza per l'aumentata fatica dalla quantita d'informazione
dell'espressione totale (ill moto conversazionale) da interpretare. Quanto più
grande e più *forte* ('bella calligrafia) è l'idea accessoria
espressa, tanto più numerosa puo essere l'idea semplicemente taciute, ma
riamente destata da quelle, perchè l'efficacia dell'idea espressa tende e
rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare l'idea
non espressa ('è un pessimo filosofo') senza pregiudicare
all'interesse dell'espressione totale, e perchè l'espressione più grande e più
forte ferma l'immaginazione del co-discorsante, essendo manifesta legge della
mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella
considerazione di una idea ('è un pessimo filosofo?') a misura
che è più grande e più forte. Onde per questo tempo necessario,
per questa dimora di processamento, per così dire, della mente su di un oggetto,
quantunque egli medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto questo tempo
maggiore di attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a
percorrere un'idea quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere altr'idea
rapidamente risvegliata all'occasione di una espressione forte ed energica ('Ha
bella calligrafia'). Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo
suo, puo facilmente scorgere che sempre che un grande ed interessante oggetto
fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo
considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall'
intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si
abbandona subito all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno,
ma sibbene destasa in lei un'idea relativa non solo a quella straordinaria
impressione che l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla passione dalla
quale è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei
quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia
illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni,
oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono ricercati da
coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente
e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi. Mentre chi odia di
rientrare in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e sottrarsi dal
sincerissimo accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u niforme
vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a
spingertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a
fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciola e
più debole è l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su
di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo
minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata
che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato
dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed
interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra
l'immaginazione non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile
manifestazione ('-- è un pessimo filosofo'). L'idea debola
accessoria espressa debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la
debolezza. Ma un'idea espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea
taciuta o sottintesa ('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il
concepimento di un'idea principale. L'idea accessoria forte, per una contraria
ragione, debbe essere minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti
la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da
molte idee non espresse debb'essere supplito. Dello
espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione non meno importante
che generale è intorno al diverso effetto che una proposizione, non
principale, ma *accessoria*, puo produrre quando *espressa* o
quando è semplicemente suggerita dal conversatore, o destata nell'animo
di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio intero della
sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che
facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfrancano l'attenzione
sul restante, ma molto più perche è legge della nostra sensibilità che
tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una proposizione taciuta o
semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione esigono da noi conversatori
civile quella che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più
frequente, tanto più si nuoce tra di se, e scema l’attenzione al tutto
comunicato; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggeri
d'attenzione, che balenano bruci per la proposizione accessoria *semplicemente
suggerita* o destata e *non* espressa, accresce il numero di sensazione senza
nuocere all’attenzióne ed all'energia del tutto comunicato. La quantità
d’impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni
ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente umana è capace di una
simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente -- la spada di Enea --
non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità.
Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto
quando è presente, vi è la vivacità e la realità della *espressione* che
representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi dunque volessimo
la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo ad offendere
quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre
la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il tutto communicato
(espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e debolissima sarà
la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee suggerito) o
solamente ad alcune, noi faremo attenzione cioè solamente di alcune 1'immagine
o concetto o segnato o significato o senso corrispondente all'espressione si
risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione rimanendo *insignificanti*
o superflua, fa inter- ruzione al senso della proposizione comunicata, e
distrugge l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. Se dunque una
proposizione espressa racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come
"Questa spada e bella", "L'esercito e bravo", "La nave
va," ec., cosicché la mente dalla proposizione espressa medesima noù sia
determinata a considerar più l'una che 1'altra delle sensazioni componenti ma
sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte in una volta accaderà che
condensando due o tre di queste proposizioni intorno ad un proposizione
*principale*, vi saranno non due o tre proposizioni accessorie soltanto unite e
destinate ad aggiunger forza alla proposizione principale, ma invece un molto
maggior numero quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto la
proposizione espressa, "La spada e bella", "L'esercito e
bravo," "La nave va", e tutte queste varie e uumerose
sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che le altre suggerito, tutte
concorirono contemporaneamente ad associarsi colla proposizione principale;
onde l'effetto reale che ne succede è, che la fantasia di nostro conversatore
resta distratta e confusa. Per lo contrario, se invece della proposizione
"La spada e bela", "L'esercito e bravo", "La nave
ve", spa* da si dicesse "Il ferro e formidable", "Il
soldato e bravo", "Le vele va", e che questi proposizioni si
condensassero attorno ad una proposizione principale per formarne il senso
complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel
proprio significato o senso delle tre suddette proposizione espresse piu
specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’ ogn’ altra si risvegliano
nella fantasia. Onde saranno quelle che immediatamente si uniranno colla
principale. Ma per forza di associazione non tralascerà la parola di fer- ro di
suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola spada quella
di soldato quelle di;, esercito quella di vele quelle di navi.;, Ma non essendo
queste sensazioni sug- gerite propriamente associate colie parole ferro,
soldato e vele, ma Con le idee che queste immediatamen- te risvegliano non
possono nuocere, alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò
che io in- tendo per idee suggerite e per idee * espresse, mentre però tutta questa
teoria sarà resa più evidente dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato de’ nomi
speciali ed appellativi, e de’ traslati. Ee idee semplicemente, suggerite
Digitj^ed by Google 3o non entrano nella sintassi della pro-
posizione la quale regge senza di, quelle: non sono durevoli nella mente quanto
le idee che eccitate sono dal- le parole immediatamente, quantun- que come le
altre alla occasione di quelle si risveglino; onde con mino- re dispendio di
tempo e di forze si ottiene uu più grande effetto. Quan- do Virgilio fa dire a
Didone: Dulces exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite hanc animam, meque
his exolvite curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi legge quelle sole
parole, in quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin- tassi regge senza
che si risveglino queste idee, onde la mente non tro- vasi affacceudata a
raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e coll* accennar
soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui
por- tata e da lui ricevuta in dono quan-, to teneri e contrastanti sentimenti
noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesi- ma serie
d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la menta se siano espresse,
di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo, $T si
cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale si con-
tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto, nella
rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa- zione si
eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il qui
osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto perchè
la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più breve
dell’ altra. E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio della
parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed
invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno
contiuuamente cionono-; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate,
ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di
tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende-,
rebbe annojaote e faticoso il netto, se non. Digitized by Google Sa
concepimento del tutto, oppure fa mente nostra dividerebbe in più tem- pi ciò
che per 1’ unità dell’ idea prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un solo;
il che rendendo 1* accessorio principale, produrrebbe e confusione nella
chiarezza, e noja nelle unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella
mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la
successione delle idee degli es- è una quantità alla qua- le non la scienza del
moto solamente, ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver
considera- zione perchè tutte le più fine e le; più sottili ed interiori
egualmente, che le più complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni
dell’ intel- letto, sotto l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano.
Fra la moltitudine delle idee accessorie che si presentano, quali sceglieremo
per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo
luogo tra molte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si
risvegliano reci- procamente ed infallibilmeute l* una l’ altra uua sola sarà
1’ espressa > le y peri sensibili ) Digitized by Google 33 altre
taciute perchè se tutte fossero; espresse, ciascheduna espressione re- plicando
le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che, fastidio
produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo. La ripetizione delle idee
accessorie non produce lo stesso effetto della ripetizione delle idee
principali queste si rinfrancano; come tali nella mente, e divengono perciò
come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara quelle ri-; petute annebbiano
e dissipano 1’ atten- zione dalle principali: per lo contra- rio se una sola
sia 1* espressa le al-,, tre analoghe semplicemente destate, la quantità d’
idea e d’ impressione rinchiusa in una sola espressione di- viene più grande, e
per* conseguenza più piacevole restando picciola la, insipida sensazione dell’
udito e dell* occhio che abbiamo visto che uu, tempo considerabile esige a
spese delle idee e dell’ immaginazione: così ve- niamo ad ottenere un più
grand’ effet- to in più breve tempo problema che; nonè solo l’oggetto
de’meccanici ma della morale e della politica anzi, di tutta la filosofia. lu
secondo luogo, tra la molti-, , 34 tuaine dell© idee accessorie vi
saran- no, oltre le analoghe, quelle che sodo più distanti, ciascheduna delle
quali avrà le sue rispettive simili ed asso- ciate; di queste ognuna apre la
meu- te ad una serie d’impressioni, e sono direi quasi capi-idee e
capi-pensieri; queste saranno l’ espresse perchè non, si destano reciprocamente
ed è ne-, cessaria F espressione per eccitare ossia perchè la mente possa
percorre- re tutte queste differenti progressioni d’ idee. Sarà dunque
eccellente la combinazione di quelle accessorie col- la principale in cui tutte
le accesso- rie espresse siano capi-pensieri, e non molto analoghi od associati
tra di loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti
per cui le idee vicendevolmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno
all* effetto delle idee espresse e ta- ciute; cioè che tra una espressione e F
altra, per i limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per mezzo del- F
occhio quanto per mezzo del- F udito, corre un piccolo interval- lo di tempo e,
per così dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee; 35 queste
come lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza; ma se tutte sono
espresse, moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta diminuzio-
mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi. Quanto più
gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più numerose,
destate e non espresse,; ne di piacere e stanchezza per 1* au. possono essere
le idee taciute, ma necessariamente destate da quelle, perchè l* efficacia
delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli slanciasi ad
abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all* interesse del tutto,
e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T immaginazione di chi
legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbli-
gata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a mi- sura
che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa
dimora per così dire della,, mente su di un oggetto quantunque, egli medesimo
per la forza e gran- dezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione
ciononostan-, Digitized by Google 36 te la mente, dall’impeto
concepito * percorrere una serie d’ idee quasi trat- tenuta più facilmente
potrà ricevere, altre idee rapidamente risvegliate al- P occasione di
espressioni forti ed energiche: chi ben considera torna sulla esperienza dell*
animo suo» potrà facilmente scorgere che sempro che un grande ed interessante
oggetto fermi il pensiero, e percuota improv- visamente P immaginazione, questa
do- po considerato quell’oggetto, nell’at- to che si riscuote e si risveglia
dal- Pintensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta non
si, abbandona subito all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’
at- torno ma sibbene destasi in lei una, moltitudine d’idee tutte relative non
solo a quella straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a,, ed
alle passioui dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi
e varj ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche
de’ monti ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del, mare che si
allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita
immaginazione, sono ricer-, e ri- Digifeed by Google cati da coloro
che piu amano di pa- scolare i loro pensieri, ed esercitar P animo liberamente
e senza distra- - zioni dalla considerazione di se me- desimi; mentre coloro i
quali odiano • di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e
sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero si, gettano nel minuto e sempre
unifor- me vortice della vita comune, gli og- getti della quale sono atti bensì
a spioger l’animo fuori di se stesso in un coutinuo movimento, ma non a
fermarlo, e renderlo attonito e pen- sieroso. Per lo contrario, più piccio- le
e più deboli saranno le accessorie espresse, la scelta si farà su di quel- le
che ne risvegliano un minor nu- mero, perchè la differenza tra le mie e le
altre essendo minore, e sovente piu importanti e più forti potendo essere le
destate che P espresse si, corre rischio che le idee dell’ autore siano perdute
di vista e confuso ed, interrotto riesca l’effetto del tutto sopra le
immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterno sensibili
manifestazioni. Le deboli accessorie espresse, secondo ab- biamo dimostrato
debbono essere, Digitized by Google 38 molte, acciocché il numero
compenti la debolezza; ma molte idee espresse occupano un tempo eh* esclude
molte idee taciute o sottintese, altrimenti di troppo alloutaneressimo il
conce- pimento dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti, per una contraria
ra- gione debbono essere poche in cia-, scun momento d’impressione; ma po- che
forti lascierebbero del voto ne- gl* intervalli necessarj dell* espressione che
da molte idee non espresse deb- b’essere supplito.
Cesare Beccaria. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51713343222/in/photolist-2mSXjtg-2mSUzzj-2mRPpAW-2mPyn68-2mMYDGZ-2mMJpgU-2mLP9qE-2mKBYJ5-2mKGaqS-2mKDteh-2mKbpiZ-2mKfXD1-2mKfNvB-2mKiJqu-2mJR8Pr
Grice e Becchi – l’incubo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Grice: “Becchi is pretty controversial; a good
reason why he is not invited to the New World for “Italian Studies”! – My
favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il pnedolo di Foucault,”
“L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential philosopher like
Hart, and perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing! -- Paolo
Becchi -- Paolo Aureliano Becchi
(Genova), filosofo. Laureato in
filosofia, si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente
alla cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il
Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di
Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre
fino al è stato professore presso
l'Lucerna. Ha prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia
del diritto, la storia della cultura giuridica e la bioetica. Nel si
avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del
movimento” ma a gennaio del lo abbandona
criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle &
Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del
sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto
althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la
Lega di Matteo Salvini. I suoi
interventi di natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà
del era noto al pubblico del piccolo
schermo per le interviste e i talk show in cui dibatteva. È attualmente editorialista di Libero e de Il
Sole 24 ORE, oltre ad avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre
opere: “Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica
giuridica” (Morcelliana); “Quando finisce la vita. La morale e il diritto di
fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi e prìncipi. Alle origini del diritto
moderno” (Aracne); “Il principio dignità umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti
corsari (Adagio Editore); “I figli delle stelle. L'Italia in moVimento”
(Adagio); “Colpo di Stato permanente” (Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna);
“Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano, re nella Repubblica. Per una messa in
stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle & Associati. Il MoVimento dopo
Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale. Sì o no. Le ragioni per il no e il
testo della «controriforma» (Arianna); “Come finisce una democrazia. I sistemi
elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna); “Italia sovrana (Sperling &
Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un virus ha travolto il Paese”
(Historica) Note Biografia sul sito Genova Archiviato il 19
marzo in. M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non
ci rappresenta”. Lui: “Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano, Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla
Paolo Becchi, formiche.net, 5 gennaio.
M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato partito stampella di
Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio. 9 gennaio. Per un’idea ‘federativa’ di Stato nazionale,
in "ParadoXa", anno XI, n. 2, aprile-giugno, 157-169.
Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il giornale dell’orfano”. Bellasio lascia
lo studio. La redazione della tv si scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, 7
giugno. 9 gennaio. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Paolo
Becchi Blog ufficiale, su
paolobecchi.wordpress.com. Opere di Paolo Becchi,. Registrazioni di Paolo Becchi, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Filosofia
Politica Politica Filosofo del XXI
secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani 1955 16 giugno
GenovaProfessori dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova.
Paolo Aureliano Becchi. Paolo Becchi. Keywords: l’incubo, filosofia politica,
dignita, soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza,
repubblica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788977104/in/dateposted-public/
Grice
e Bedeschi – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alphonsine). Grice: “You gotta love Bedeschi – at Oxford
Jurisprudence is not considered Philosophy, but in Italy, ‘filosofia politica’
is at the centre of it all – and Bedeschi knows it – this is because Italians
take Hegel seriously with his ‘dialectic;’ and while I did speak profusely of
the Athenian versus the Oxonian dialectic or dialexis, I skipped the Hegelian dialectic!
Bedeschi doesn’t – and Hegel leads to the reset of it!” -- Giuseppe Bedeschi (Alfonsine), filosofo. Docente
di storia della filosofia all'Università La Sapienza di Roma, ha insegnato
all'Cagliari e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studioso di
Hegel e del marxismo, ha approfondito in seguito la storia del pensiero
liberale. Caporedattore dell'Enciclopedia del Novecento, direttore
dell'Enciclopedia delle scienze sociali e dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è
membro del comitato scientifico della rivista "Nuova storia
contemporanea" e collabora al supplemento domenicale de Il Sole 24
ORE. Altre opere: “Alienazione e
feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione a Lukacs” (Bari,
Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a
Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari,
Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte
(Roma-Bari, Laterza); “Storia del
pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel”
(Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari,
Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del
Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le
lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau”
(Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una
democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Opere di Giuseppe Bedeschi,. Giuseppe
Bedeschi, su Goodreads. Registrazioni di
Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale. Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16
marzo 21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi
italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe
Bedeschi. Keywords: dialettica, la parabola del Marxism in Italia, liberalismo,
conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I
conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica
del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references
‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio
della ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.:
Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789277095/in/dateposted-public/
Belleo.
search – Bedoni. search – Belloni, Camillo
--
Grice
e Belluto – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo. Grice: “You gotta love Belluto; he
shows that the philosopher is the master of grammar – his explanation of modi
of the different ‘perfect’ orations—is genial and exactly what I tried to
convey in my lectures on ‘mode’: vocativo, imperativo, optativo, indicativo –
That this belongs in dialettica is obvious – since all modi share the same
logic, and that’s Belluto’s point!” -- Bonaventura
Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo.
Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò diritto civile
all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali nel 1621, emise
la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò teologia presso il
Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il confratello Bartolomeo
Mastri di Meldola del quale divenne compagno indivisibile di studio e di lavoro
come reggente degli studi prima al convento di Cesena, quindi a Perugia e poi a
Padova. Durante questo periodo, entrambi operarono per il rinnovamento della
tradizione e per una nuova interpretazione della dottrina scotista tale da
soddisfare la nuova cultura religiosa dell'epoca. Pubblica a Roma con la collaborazione di
Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica, dal titolo “Disputationes
in Aristotelis libros physicorum, quibus ab adversantibus... Scoti philosophia
vindicator” che ha il fine di essere diffuso nelle scuole francescane per far
conoscere la filosofia di Scoto difendendola dalle critiche d’Aquino i e dai
travisamenti operati da altri interpreti tra i quali i gesuiti. Successivamente pubblica un piccolo trattato
di logica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam
nuncuparunt” (Venezia). Ad opera dei due filosofi fu pubblicato un “Cursus
integer philosophiae ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”, le “Disputationes in libros de coelo et de
metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes
in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici
e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura
filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a
Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro
provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza
di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore
per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto
oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso
di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto
continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata
solo la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem
Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria:
argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di
risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla
predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione
assoluta di Cristo. Note F. Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676).
Il religioso, lo scotista, lo scrittore, Roma 1976 La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni:
atti del convegno di studio, Palermo, Diego Ciccarelli, Marisa Dora Valenza,
Officina di Studi Medievali, 2006 p.172
Francesco Costa, Il primato assoluto di Cristo secondo Bonaventura Belluto,
OFMConv. (+1676), in "Miscellanea francescana", Cesare Vasoli,
Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto
Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti. Duns Scoto Bartolomeo
Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM LOGICALIVM. Nomina transcendentia
infinitari possint verbum adiectiuum & substantiuum de Secundo adiacente
sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi, De oratione, quid
sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid sit propositio, seu
Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam sit recta Enunciationis
definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio vocalis dicatur vera, vel
communi. falſa. Quæ dctiones fubeant rationem, divisio in catheg. bypotb. sit
generi sin termini. Species. An dentur termini in cap. 4. Quid sit propositio
cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum multiplicitate
ratione fignifi Dub. 1, Qualis sit diuisio propusitionis in veram, falsam, affirmativam,
negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex uniuersalem o particularem qui sint termini mixti
inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum
de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio
modalis, & quotuplex, Cap: 3. Determinorum multiplicitate in ratione modi
qualis sit divisio propositionis modalis significandi in compositam o diuitam. Quid fit terminus
connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica, oquotuplex, D emultiplicitate
terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas. Dubi. An bypotbetica propositio
benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in
conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis. copulativam & disiunctiuam sit generis in species De
prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in Predicamento, De
oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum collatione inter se, An
inter contradictoria detur medium, Varia terminorum supposition quod sint species oppositionis, An suppositio
competat adiectivis de æquipollentia, o conversione categorical. Quo pacto
differente suppositio determinata, rum simplicium & confusa, Quomodo equipolleant
ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio affirmativa
depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative de predicato
finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi, De oppositione,
æquipollentia, &conuersione catbegoricarum, modalium, ac etiam
hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione & eius
affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez de nomine
o verba, pot. & quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit propositiones
insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum, pot.cies de Argumentatione,
& eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex
fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus
argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo
perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de
regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur. nis. De
fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n.An
dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis de
inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo
modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia, vel
argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, &
eius principis constitutiuis, dicendi per se. n.is obi de figuris eiusdem quo patto
quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat
a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de
essentia syllogismi nem per fe. detur quarta figura De demonstratione propter
quid De principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire
demonstra dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi
quomodo illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales
cuiuscunque si quodque tale & illud magis. gure alignantur. De
demonstratione quia Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio
demonstrationis.corum exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere
numerati. figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de
syllogiſmo topico, de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis
speciebus syllogiſmi cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi
topici. detur syllogismus constans ex propositinibus non significantibus de numero
predicatorum de locis topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi,
de locis intrinsecis speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions
syllogifmi, De locis medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus
demonftratiui, opici, co Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan
de syllogismo sophistico de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An
detur diftin & tiomedia interdiftin & tionem reslem,orationis, de
Fallaciis extra dictionem. Impiegatura del segnare. Ex
variis capitibus solent termini multiplicari et variæ eorum divisiones
assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi significandi, et ex
parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens spectat, solet in primis
dividi vocalis terminus in significativum et non significativum. Ille est, qui
aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam significat humanam, ille est,
qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri", "buf",
"baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita intelligi debet de
termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in secunda acceptione
omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum et prædicatum in
propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine sumptus dividitur
in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene percipiatur, cum
terminus vocalis constituatur in ratione significantis per significationem,
videnduın est quid sit significare & quid signum [segnante, segnare,
segnato] a quo verbum "significare" derivatum est. [A cloud may sign
but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot order a cloud, 'make a
sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex August. De Doct.
Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus,
facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc vox "homo"
præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est, facit nos venire in
cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum [segnante] debet esse
tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde veniamus in cognitionem
rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will do]. Hinc significare
nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum *re-præsentare* potentiæ
cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad potentiam cognoscentem,
cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata, segnata], quam
re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud, quod absque sui
prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat & in eius
cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa respectu proprii
objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione facit nos in
alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium respectu feræ
transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14, hoc secundum
signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem *signati*
[segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat præcise rationem
cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non quod
cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et quod
proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio etiam
formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod facit
nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio, quamvis sit
ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus passim
recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque impugnat quo
ad veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante] esse id,
quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit, quia non
complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae
deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus materialibus*.
Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos venire in
cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia obiectum
facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum. Rursus Deus
ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis revelando, nec
tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio est signum rei
quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in cognitionem
venire. Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D. Augustini,
quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non debet, quod
saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti praeceptoris audeat
impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes partes, si bene
intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius, ut alterius rei
signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei cognitionem, altera est,
quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita, quarum conditionum utramque
*optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi ab Augustino tradita. Nam
per primam partem definitionis secundum exprimit conditionem. Vulc enim rem,
quæ inservire debet pro alterius signo, prius nostris sensibus cognitionem sui
ingerere debere, specificat autem signum esse debere *sensibile*, quia ut notat
doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa sensibilia* sunt *maxime apta pro
statu ipso excitare intellectum coniunctum a sensuum ministerio dependentem, ut
in alterius rei cognitionem veniat. Per alteram vero partem definitionis altera
quoque conditio exprimirur, contra quam nil urgent instantiæ a Poncio adducta,
quia obiectum facit venire in cognitionem sui, non alterius, nec facit venire
in cognitionem sui, quatenus cognitum, ut facit signum, sed quarenus
cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo ad instar signi ducit nos in rerum
cognitionem, quatenus cognitus, sed eas revelando, quod adhuc facere posset,
etiamsi prius a nobis non cognosceretur. Cognitio denique esse signum rei
cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non autem instrumentale, quod solum
*proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur & ideo cognitio proprie
loquendo non dicitur facere nos venire in cognitionem rei, quam re-præsentat,
quia non ducit nos in cognitionem illius rei, quatenus cognita, sed ut medium
cognitum, sed ut racio cognoscendi. Solum autem signum instrumentale est illud,
quod hic definitur. Et hoc signum instrumentale adhuc *duplex* [like vyse and
vice?] est, aliud *naturale*, et est quod *ex natura* sua independenter ab
hominum voluntate [those spots mean measles] aliquid [measles] re-praesentat,
ut fumus ignem [where there is smoke, there's fire], et universaliter omnis
*effectus* [causa/effectus] suam causum, qui præsertim si *sensibilis* [fumus]
erit, dicetur signum causae juxta sensum definitionis allatæ. An vero ita e
contra *causa* dici posse signum sui *effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect.
4. quia etsi causa cognitio ducat in cognitionem *effectus*, tamen, non es
ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane non minus ordinata est cognitio
*causæ* ad nos ducendum in cognitionem *effectus* a priori, quam cognitio
*effectus* sic *ordinata* ad notitiam *cautiam* a posteriori, quare ratio
Hurtad. parum valet. At inquirare alii, quod licet ita res se habeat, sola
tamen cognitio, quae per *effectum* habetur, dicitur haberi per signum, unde
sola demonstratio a posteriori, quae est *per effectum*, dicitur *a signo* et
ideo solum *effectus* dici potest signum *causæ*, non e contra. Verum neque hoc
viget, licet enim cognitio habita *per effectum* veluti sensibiliorem *causa*,
magis proprie dicatur *a signo*, nil tamen impedit, quin et cognitio habita
*per causam* possit dici *a signo* absolute loquendo. Potest igitur etiam
*causa* dici signum sui *effectus*, et praesertim quando *sensibilis* est, unde
a theologis sacramenta dicuntur *signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare
colligitur ex Doctore 4. d. 1. quaest. 2. De secundo principali et sequitur
Casil. cit. & Arriaga disputat. 3. sect. 2. Aliud vero est *signum
artificiale* [not conventional! ars/natura], seu *ad placitum* et est: quod ex
hominum impositione aliud re-præsentat, sic ramus est signum venditionis vini,
sonus campanae est signum lectionis [the bell means the bus is full], et vox
illius rei, ad quam *signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen est advertendum
etiam in vocibus ipsis non tamtum significationem ad placitum reperiri posse,
sed etiam naturalem, ut patet de gemitu infirmorum et latratu canum et ideo
terminus vocalis *signi-ficativus subdividi solet in *significatiuum
naturaliter et ad placitum et hic ad dialecticum spectat non quidem secundum
suam realem entitatem, ut vox est, et sonus quidam in aere *causatus*, sed
secundum quod impositus est ad res ipsas *signi-ficandas* et conceptus mentis
exprimendos, in hoc enim sensu voces pertinere dicuntur ad institutum
dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi etiam declarabimus, per quid
constituatur ratio signi. Special section on ‘sign’ – two
sections. General definition of sign, following Augustine, but with objections
by Ponzio. Second section, the criterion between artificial (‘a piacere’) and
mere natural signs. Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti.
Bonaventura Belluto. Keywords: dialettica, “Institutiones logicae, quae vulgo
Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The
teacher ringing the bell means that Strawson should go to the tutorial. The
branch of grapes means that Grice is selling wine from his orchard. Rather than
‘artificiale’ ‘a piacere’ is better, ‘ad placitum’. Scottism against Thomism in
Italy – x means y in terms of cause and effect. The problem of God, should sign
be always ‘material’?—Etimologia di ‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’
neutro. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691524503/in/photolist-2mKNzk6-2mKLX4i/
Grice
e Bencivenga – il piacere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo. Grice: You’ve got to love
Bencivenga; my favourite is his little tract on ‘pleasure,’ but he has
philosophised on one of Austin’s favourite concepts – that of ‘game’ – gioco –
which he applies to communication and philosophy – he thinks that Austin took philosophese
too seriously – ‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all meant in fun –
as a joke –“. Dopo la laurea in filosofia alla Statale di Milano, Bencivenga ha
lasciato presto l'Italia, trasferendosi prima in Canada per gli studi di
dottorato e poi negli Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua carriera
accademica insegnando, dal 1979, all'Università della California a Irvine. I suoi interessi di studio, nel corso del
tempo, hanno riguardato la logica formale (negli anni settanta), la storia
della filosofia (negli anni ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha
pubblicato numerosi testi sulla storia della filosofia e su specifici argomenti
filosofici, come logica, estetica, filosofia del linguaggio, in forma
dialogica, saggistica, trattatistica – “Teoria del linguaggio e della mente”
(Bollati Boringheri --, con scrittura aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) --
o affrontando singole figure storiche (come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre
diversi testi introduttivi alla filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico
più vasto, e alcuni libri di poesie. “La filosofia in trentadue favole”
(Arnoldo Montadori) è un saggio ripubblicato
negli Oscar Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini,
il saggio si pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere
umano, che lo rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande
della filosofia. Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a
quarantadue, cinquantadue, sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per
forza: critica della società del divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato
all'importanza del gioco e all'esame critico del sovvertimento di senso di cui
esso è stato fatto oggetto nella società contemporanea: trasformato in
industria, il divertimento ha perduto la sua naturale collocazione, quale
manifestazione della sfera fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto
in una dimensione 'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come
attività passiva e ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici
coattivi che snaturano completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan
Huizinga: il gioco del lotto e l'intrattenersi con videogame o slot machine
diventano forme di subire passivo, una dimensione alla quale è precluso il
manifestarsi dell'agire ludico dell'uomo attraverso l'attività fantastica della
psiche umana. In un mondo in cui domina
la dimensione organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva
impoverita dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del
gioco, una prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse
parole, «se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità». Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la
razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica
in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene. L'Etica consiste nel negare la preminenza al
nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le
altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione
comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella
negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla
riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il contributo
particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge ciò che si
chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della dimensione
privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che ci è
concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e ruoli
della nostra vita e della nostra professione.
L'Etica è come un "fuoco immaginario", impossibile da
attingere. Ma ciò che conta veramente è il percorso attraverso cui ci si muove
in direzione di questo "fuoco", un cammino in grado di aprire l'uomo
a nuove acquisizioni, schiudendone gli orizzonti al di fuori di pregiudizi e
preconcetti. Si pone poi il problema di
come considerare l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non
lascia spazio alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può
presentasi in forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per
questo non immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione
sulla «banalità del male» di Arendt (per Bencivenga, la massima interprete
kantiana del XX secolo), il bene ha una logica e una ragione, un fondamento da
cui non è invece sorretto il male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio
dalla rinuncia alle ragioni dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni
dell'etica lasciate aperte da questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono
apparsi negli anni su vari giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore,
l'Unità, ecc. Altre opere: “Le logiche libere” (Bollati
Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati Boringhieri); “Il
primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla
pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo
Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia
in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in
sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un
dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della follia.
Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone
amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro,
Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana
di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo
Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale
Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano.
Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo
Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa”
(Arnoldo Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta”
(Bollati Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La dimostrazione
di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo Mondadori
Editore); “La filosofia come strumento
di liberazione” (Raffaello Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo Mondadori); “La
logica dialettica di Hegel. Bruno Mondadori); “Il piacere. Indagine filosofica.
Laterza); Filosofia in gioco. Laterza); “Filosofia chimica” (Editori Riuniti);
“Il bene e il bello. Etica dell'immagine” (Il Saggiatore Prendiamola con filosofia. Nel tempo del
terrore: un'indagine su quanto le parole mettono in gioco); “Giunti La scomparsa del pensiero. Perché non
possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo
anche tu. Siamo filosofi senza saperlo. Giunti); “La stupidità del male. Storie
di uomini molto cattivi” (Feltrinelli); “L'arte della guerra per cavarsela
nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui non sapevi di aver bisogno”
(Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale. Feltrinelli); “Nel nome del
padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo,
tragedia in tre atti. Aragno Case.
Cairo Il giorno in cui non tornarono i
conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro,
tragedia in tre atti” (Aragno); Ada. Lettera a mia madre. Arsenio. Poesia Panni
sporchi. Garzanti); Un amore da quattro soldi. Aragno); Polvere e pioggia.
Aragno Poesia dei miei coglioni.
Galassia Arte); “Le parole della notte. Di Felice Amore per Milla. Di Felice. Interventi di
Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno
in. da SWIFTSito web italiano per la filosofia premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com.
Blog ufficiale, su sites.uci.edu. Opere
di Ermanno Bencivenga, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno
Bencivenga,. Profilo dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova. Da
un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto
tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il
linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la
politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un
libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo
sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano
l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con
cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di
questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia
età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un
argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di un’esperienza
di vita, come enunciazione della sua morale. Questo dunque è il libro di
tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo episodio. Che io
mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato problemi metafisici
o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia insegnato, parlato in
pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che pratica della sua
composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di conseguenza, nel
prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di mantenere una
precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia: doveva essere
chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto alla lettura
non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo coerente e risolto
in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me dire; aggiungerò solo
una nota di commiato. In quella costellazione variegata che è il mio lavoro di
quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato l’amico Luciano Genta in
un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è un centro di forza, a
lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora infine venuto alla
luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio Lombardi,
Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo Zorzato per i
loro commenti a una versione precedente del libro. Un ringraziamento e un
ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di giochi, che, fin quando
ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza, il rigore e la
sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola, le citazioni
sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri delle pagine
(le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella Bibliografia in
fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano autore o titolo è
perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna immediatamente la
citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di quell’autore e l’opera
è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta dalla stessa fonte
della citazione precedente. Quando mancano le pagine è perché sono le stesse
della citazione precedente. Infine, quando una citazione è inserita nel testo
(anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua iniziale maiuscola o
minuscola è stata adattata alle esigenze del contesto. 1. Il gioco Una
bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti
ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli
curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li mordicchia con i
suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul
pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani
cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un
suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un angolo,
raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre
nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di
pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante. Il
portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre
il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori
dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati dall’altro
lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri che lo
separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista
potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che
si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha
spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido per la
testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal
portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano
rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di
schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi
dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il
pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di
perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un
minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto
evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi
un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di
occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo
dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è
in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non
contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà
sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore
il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro,
cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che
dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è
compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e
che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar);
hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e
per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci
può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una
penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un
passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio
trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a
priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra
conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso
rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui
concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente
determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come
sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il
loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che
quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che
il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto)
– per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la proposizione; laddove
nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto
empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può
vedere interamente a priori che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo
da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21). Queste frasi compaiono in un
libro che rappresenta uno dei massimi vertici della filosofia occidentale, e io
ho sostenuto a più riprese che la filosofia è un gioco. Non solo la filosofia,
perché l’ho detto pure dell’arte e della letteratura, ma anche la filosofia. E
che cosa giustifica l’accostamento di espressioni così nobili dell’ingegno
umano a una partita di calcio o alle peripezie di una bimba da poco in grado di
reggersi in piedi? In filosofia si fa terribilmente sul serio, ci si concentra
sui temi che più contano, che dànno senso alla vita e all’esperienza del mondo,
e si fa di tutto per sviscerarne la struttura, per arrivare in proposito
all’unica, esatta verità; non ci si sta divertendo (sviando, cioè: andando a
spasso) per godere della novità e della sfida. In ballo non ci sono soldi o il
plauso delle folle, e neppure il piacere che deriva da qualche ora trascorsa
spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero qui è acuto come uno spillo e
profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser verso problemi per cui le
folle non provano (ahimè) alcun interesse, anche perché sono spesso
trattati in termini (come quelli del passo citato) che le folle troverebbero
incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo impegno, di tanta
rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di formule corrette e
ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al tramonto o il rogo in
una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno santo. Anche questo è
un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito
dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che gioco sia. Potrebbe
essere come quando si mettono accanto due vignette che raffigurano situazioni
del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un compito in classe – e
si chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene la vista e non
lasciandosi distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per scoprire che
la superficie di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la barra del
timone con il righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere alle domande
che ho posto qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che costruisce un castello
di sabbia, un campione di scacchi alle prese con un’apertura inconsueta,
Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga su quali siano i dettagli che si
ripresentano identici in ciascuna situazione. Stabilendo, per esempio, che si
ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé stesso o con un affrancamento
dell’essere umano dalla servitù del bisogno. Identificando il gioco, insomma
(quel che lo rende tale), con una singola, astratta caratteristica di ogni
gioco particolare, tanto astratta da far scomparire ciò che un gioco
particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante. Che cosa
rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile,
dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata
ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando
le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza
del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco
analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì,
carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende
irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e
ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie malsane
per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta
al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi,
non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo
acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi,
avendo visto maturare anziché spegnersi le nostre opinioni e i nostri
sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto
sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di
una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro
molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni
costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua
azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti
ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un
tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro
mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello
dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano
d’industria. Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia
filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel
labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due
anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe
nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel
gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del
calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè
tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora
porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del
punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido
con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso
nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si
realizza attraverso questi um ili, intimi passi. 2. Il punto di
partenza Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel
che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo
comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli
oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in
proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto
che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per
esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come
di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina
della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo
spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti
dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne
dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per realizzare
in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che porgerà alla sua
pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua educazione formale
prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga «solo un gioco». E
avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata (presunta) scolara
in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e realizzare altri dieci
quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita dentro la spillatrice e
strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di questo pesce goloso,
intenzionato a divorare tutte le pedine della dama. Scuoterà la testa, il
nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà pensando che è solo
questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo indispensabile per
un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà costruire sopra e darle
altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le carte in tavola che sarà
forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti gli altri e per la sua
stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo commento va in senso
opposto al primo, indicando che con il suo procedere caotico e informale la
bimba impara un’enorme quantità di cose molto importanti. Non quante siano
state le guerre puniche o chi abbia malgovernato l’Italia negli ultimi anni;
questi contenuti li apprenderà a scuola, quando ci andrà, o da altre
autorevoli e comunque successive fonti d’informazione. Ora invece impara a
vivere nel suo corpo, a distenderlo e ritrarlo; impara quali resistenze è in
grado di superare e a quali altre deve cedere; impara a valutare le distanze
fra le pareti e fra gli oggetti sparsi per la stanza; impara la struttura
complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra le mani e guardandoli e toccandoli
da ogni angolo. Vocalizzando reazioni emotive alle sue vicende, impara a
padroneggiare la sua voce, ad articolarla e modularla: a trasformare suoni
rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande ricchezza e flessibilità, nel
quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è un’esagerazione dire che tutto
quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno imparato giocando, purché non
si dia dell’imparare – cioè della conoscenza – un’interpretazione puramente
intellettuale, che lo legga come una relazione fra un soggetto ed entità
astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui accennavo). Certo sarebbe
possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema di Pitagora o le valenze
chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior parte di noi li impara in
situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe impararli affatto, però, se
non avesse acquisito abilità «elementari» che tendiamo a prendere per scontate
ma che, riflettendoci, ci riempiono di ammirato stupore: nel caso specifico,
l’abilità di comprendere quel che ci viene detto, di coglierlo come uguale a sé
stesso nelle mille differenze di tono e pronuncia di parlanti diversi, di
adattarlo al contesto nel quale è inserito. Prima dei tre anni un bambino
impara tutto ciò senza sforzo – alcuni bambini in più lingue – mentre i cultori
dell’intelligenza artificiale ancora non sono riusciti a produrre un meccanismo
di traduzione automatica decente. E impara a riconoscere e categorizzare
oggetti nello spazio, distinguendoli dallo sfondo; a interagire ed empatizzare
con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle gambe e muoversi disinvoltamente in
ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con cui, in età posteriori, quello
stesso bambino ormai cresciuto tenterà d’impadronirsi di una lingua straniera,
di una teoria scientifica o di uno strumento musicale, non possiamo non
rimpiangere la facilità con cui l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il
fatto che l’infanzia sia terminata. Ho menzionato l’apparente contrasto fra il
carattere sovversivo del gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare.
Sembra esserci un contrasto, qui, perché di solito concepiamo la conoscenza
(oltre che in termini astratti) come rispecchiamento di una realtà data, da
acquisire senza modificarla. Io vengo a sapere che piove osservando in modo
neutrale lo spettacolo che mi si porge attraverso i vetri della finestra,
piegandomi con assoluta deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e
facendo del mio meglio perché i miei piani, le mie esigenze e la mia
immaginazione non la turbino. Se avvertissi troppo forte l’anelito per una
bella giornata di sole e una fantasia troppo vivida me ne rappresentasse una
davanti, finirei forse per illudermi (parola importante, sulla quale ritornerò)
che non piova, per rimanere vittima del gioco delle mie emozioni e delle mie
facoltà mentali – e non saprei più che tempo fa. Il che senz’altro è
ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla di sbagliato nel desiderio di
una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne segue che il metodo migliore
per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una supina e passiva
registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente sfidata,
messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi esperimenti di
laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci viene
generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte
nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il
paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento
può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale
dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti,
l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che
risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal
sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che
pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo
attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che
eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si
comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo
paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa
misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella
storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza
della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato
sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto
grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in
analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento
ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in
largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti
all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a
vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto
che esplora è il suo ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di
uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto
indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è
altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle istruzioni,
ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio ai diversi
atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti di un nuovo
dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo invece schiaccia
tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come risultato, quando
il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al primo. Perché il primo
ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha imparato davvero: non
solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel che nessuno gli avrebbe
potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava intorno a quel che ognuno
sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse andati a zonzo, girovagato,
per divertirsi – per deviare cioè dalla strada battuta. Le parole
«divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di «piacere» e affini;
«mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi lo stesso significato
di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che ho appena tracciato fra
divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su questa particolarità
semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha fatto bene la
natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo piacere alla
nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per la
sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è
mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia,
se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro
d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che
esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più
capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non
provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni
sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon
conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena
ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per
tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini
di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta
concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene interrotta,
il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le proteste hanno
effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non c’è in questa
attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa, perseguita
in completa autonomia (in accordo con una delle possibili definizioni
analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non intende
conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo esterni.
Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del gioco, non è
per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo che il gioco
procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle prime pagine del
suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia apparentemente la porta aperta
a un’interpretazione strumentale delle attività ludiche, nel senso di un loro
contributo all’addestramento fisico: Contrariamente a quanto si sostiene
spesso, il gioco non è un apprendistato del lavoro. Esso non anticipa che in
apparenza le attività dell’adulto [...]. Il gioco non prepara a un mestiere
preciso, esso allena in generale alla vita aumentando ogni capacità di superare
gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È assurdo, e non serve a niente
nella vita reale, lanciare il più lontano possibile un martello o un disco di
metallo, o riprendere e rilanciare continuamente una palla con una racchetta.
Ma è utilissimo avere dei muscoli possenti e dei riflessi pronti (p. 12;
corsivo aggiunto). Alla fine del libro, però, la chiude con decisione: Il gioco
non è esercizio, non è neanche gara o prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà
che esso sviluppa beneficiano certamente di questo allenamento supplementare,
che è per di più libero, intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione
specifica del gioco non è mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del
gioco è il gioco stesso (p. 195). A testimonianza del fatto che il gioco non è
facile da capire, affiora in queste ultime battute un nuovo elemento di
tensione. È naturale infatti porre in contrasto il gioco fine a sé stesso con
quanto si fa «sul serio»; ma che cosa c’è di più serio, per la bimba,
dell’immersione totale, dell’assorta partecipazione con cui vive le sue
trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando le si vorrà imporre un comportamento
giudicato desiderabile dai grandi che si mostrerà svogliata e distratta come
chi non prenda la cosa sul serio; lo farà anche quando le si vorrà dare da
mangiare, una volta soddisfatta la fame più immediata, e si calmerà e
riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse accurate appena i grandi si
saranno allontanati e le sarà possibile giocare con il cibo. In Homo ludens,
Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema quando scrive:
«l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile» (p. 23). E più
avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la massima
serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica, spontanea
mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il giocatore può
arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso che termini
ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai più
decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su come il
mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché
rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi
così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in
causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione analoga.
Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza, sforzo,
attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente» socializzato
pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi nell’andare al lavoro,
nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel fare cose del genere si
risulti svogliati e distratti, che non si riesca a prestar loro la cura che
meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto sovente succeda, per quanto
oneroso sia adempiere alla norma che viene così (implicitamente) assunta. La
bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di tali pretese: rivela nel
modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più seria, anzi perché
qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto che lo sia) deve entrare
a far parte di un gioco. Superata anche questa difficoltà, sembriamo aver
ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva del nostro oggetto di studio.
Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non solo questa sua natura
irrispettosa è compatibile con una sua funzione educativa: sembra che non ci
sia un modo migliore, forse non ci sia un altro modo, di educare che sfidando
lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte le possibili alternative. Il
gioco è piacevole ed è praticato per il piacere che dà; eppure è l’attività più
seria, forse l’unica attività che venga condotta con autentica serietà. C’è
però ancora un aspetto del gioco che occorre discutere, ed è un aspetto
stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso; violando abitudini e aspettative
ci si può far male, ed è probabile che i grandi lo sappiano – che, se la bimba
è stata lasciata sola nella stanza a giocare, gli spigoli più acuti siano stati
tolti di mezzo, le prese di corrente siano state coperte e le finestre siano
ben chiuse (già il fatto che avesse a disposizione una spillatrice avrà
sollevato qualche perplessità). Abitudini e aspettative richiamano alla mente
un’atmosfera di inerzia, di tedio, di mediocrità; e nell’immagine che ne
abbiamo dato finora il gioco emerge, per contrasto, come eroico e innovativo,
fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e aspettative si fondano contesti che
ci rassicurano, che ci permettono di guardare al futuro con fiducia, almeno
finché il futuro somiglierà al passato – a quel passato che ha gradualmente
dato luogo al costituirsi di abitudini e aspettative. Chi gioca, d’altra parte,
non mette in crisi solo il suo ambiente e magari le altre persone che lo
popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé stesso, e questo comportamento
avventato implica inequivocabilmente dei rischi. Di gioco si può morire.
«Il gioco può sempre diventare un fatto pauroso», afferma lo psicoanalista
Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I giochi regolamentati [in inglese
games, parola che in seguito dovrà essere discussa] e la loro organizzazione
debbono essere considerati come parte di un tentativo inteso a tenere a bada
l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88; traduzione modificata). Incontriamo così
un ulteriore ostacolo sul nostro cammino, un enigma da risolvere prima di poter
raggiungere la prossima tappa. Stabilito che il gioco ha tutte le
caratteristiche positive che ho elencato, urge però un’analisi di costi e
benefici se vogliamo mantenerne una concezione generalmente provvidenziale.
Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole attività di trasgressione se
tale attività minaccia la nostra integrità fisica o psicologica? Non sarebbe
stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi meno arditi: associare un vivo
piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e a quell’applicazione degli
insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente, fa gli sberleffi? Sarà
anche vero che giocando impariamo di più; ma non è preferibile talvolta, o
sempre, imparare meno, se l’imparare mette a repentaglio la nostra esistenza e
il nostro benessere – le ragioni, cioè, per le quali vorremmo imparare
qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa spesso correre pericoli può
essere funzionale alla nostra sopravvivenza? 3. Caos e ordine Nell’antica
mitologia greca non esiste una creazione dal nulla. Quel che dà origine al
mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e abitarlo è invece una variante
globale delle pulizie primaverili: al caos originario (quindi in particolare
privo di inizio) si sostituisce un cosmo, cioè una struttura ordinata che
obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non crediamo più nella storia di Zeus
e delle sue lotte sanguinose con Crono, i Titani e svariate altre forze oscure
e ancestrali (forse non ci credevano davvero neanche i greci); in secoli di
sviluppo scientifico abbiamo elaborato un modello ben più articolato e
plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo recentemente, però, tale
sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su quello che era rimasto un
elemento fondamentale di accordo con le favole antiche: risiediamo in un cosmo
e di conseguenza basta (in linea di principio, perché poi la cosa è difficile e
magari impossibile da realizzare) scoprire le leggi che lo regolano per poterne
prevedere con assoluta certezza il comportamento futuro. Se così fosse, non
sarebbe una cattiva idea fidarsi delle istruzioni di chi è più esperto di noi:
le leggi del cosmo dovrebbero essere sempre le stesse e chi le ha viste
all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere in grado di darci in proposito
indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico o vantaggioso che ciascuno di
noi dovesse invece riscoprire – giocando, esplorando e contestando – quel che è
comunque già noto. Se pure traessimo un grande piacere da queste pratiche, ci
sarebbe da chiedersi – riformulando in altri termini le domande con cui ho
chiuso il capitolo precedente – perché la biologia associ un piacere simile a
un’attività che nella migliore delle ipotesi è inutile e nella peggiore è
controproducente. Certo è possibile che le leggi «scoperte» da chi è vissuto e
ha operato prima di noi siano sbagliate; nella scienza non solo le teorie si
sono spesso reciprocamente confutate e avvicendate ma sembra addirittura
all’opera una perversa induzione in base alla quale ogni teoria un tempo
ritenuta corretta si è poi rivelata fallace – dunque, probabilmente, lo saranno
anche le teorie che oggi riteniamo corrette. Questa allarmante conclusione,
però, varrebbe solo per quel che la scienza offre di più profondo e
sofisticato, non per quella sua solida struttura intermedia che appare
costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio Sulla libertà John Stuart Mill,
paladino di una discussione pubblica il più possibile aperta e coraggiosa,
considera un problema il fatto che su un numero crescente di tesi il progresso
scientifico abbia pronunciato una sentenza definitiva (quindi, in particolare,
indiscutibile) e auspica che si ricorra a espedienti fittizi – che so io? a
sostenere accanitamente che la Terra sia piatta – per ridar significato e
vividezza a credenze che altrimenti rischiano di trasformarsi in puri dogmi. In
assenza di dibattito non vengono dimenticati solamente i fondamenti di
un’opinione, ma viene dimenticato sovente il significato dell’opinione stessa.
Le parole che la esprimono cessano di suggerire idee, o suggeriscono solo una
piccola parte di quelle idee che in origine comunicavano. In luogo di un
concetto vivido e di una convinzione viva, rimangono soltanto alcune frasi
ritenute meccanicamente; oppure, se rimane qualcosa, è solo l’involucro o il
guscio del significato, mentre la sua essenza più pura è andata dissolta (p.
135). Col progresso dell’umanità, il numero delle dottrine che non vengono più
messe in discussione o in dubbio sarà costantemente in aumento, e il benessere
del genere umano può essere quasi misurato dal numero e dalla rilevanza delle
verità che hanno raggiunto la condizione di verità incontestate [...]. Il
venire meno di un aiuto così importante all’intelligente e viva comprensione di
una verità – com’è quello offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla
dagli avversari – [...] rappresenta un inconveniente non di poco conto. Là dove
questo vantaggio viene a mancare, confesso che sarei contento di vedere i
maestri del genere umano sforzarsi per trovarne un sostituto, un espediente per
far sì che le difficoltà della questione siano presenti alla coscienza di colui
che la affronta, allo stesso modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte
da un avversario agguerrito, impegnato a convertirlo (p. 147). Con tutto il
rispetto per Mill, però, siamo daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso
di opinioni generalmente accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di
là dell’intensa emozione che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non
converrebbe invece riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si
collocano ai margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un
pacifico accordo e quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate
in futuro? Una modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà
nel quinto capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della
contestazione, sia pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla
quando lo giudichiamo opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza
contemporanea ha fatto di meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non
solo quel che è in discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel
che non lo è) ma anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo
in tal senso viene dalla teoria del caos. A dispetto del suo nome, questa
teoria non dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di
disordine e non ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci
sono, codificate come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma
le equazioni sono altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione
seguente (tipica delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input
(diciamo, nell’istante di tempo considerato) corrispondono variazioni minime
nell’output (diciamo, nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in
istanti molto vicini fra loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra
loro). In un’equazione non-lineare, una variazione impercettibile nell’input
può causare conseguenze catastrofiche nell’output, secondo la metafora
suggerita dal famoso effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un
punto della Terra può causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di
spaventose dimensioni in un altro punto. Nel linguaggio tecnico della
filosofia, la teoria del caos non cambia la sostanza metafisica dell’universo,
e infatti il caos che essa evoca è descritto come deterministico, fedele alla
posizione tradizionale (per quanto oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato
determina necessariamente il futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro
rapporto cognitivo con il mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo
solo in misura approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di
osservazione e di controllo hanno una portata limitata e, se per caso non
l’avessero, perderemmo la testa davanti alla quantità infinita di dati
(perlopiù irrilevanti) che ci fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti
all’incontrollabile quantità di dati fornita da Internet). Il che non creerebbe
problemi se una conoscenza approssimativa delle cause ci desse una conoscenza
approssimativa degli effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa
seguirà da che cos’altro. L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa
ipotesi favorevole: informazioni che al momento sono sotto la soglia
osservabile dai nostri strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla
stregua di un fastidioso rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un
peso decisivo e confutare drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla
in qualcosa che non è vero approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non
è vero per nulla. In un caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè
equazioni matematiche che ne descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha
scarso peso ai fini della nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni
non-lineari, in generale, non sono solubili con i metodi dell’analisi
matematica; il meglio che si possa fare, in generale, è simularle a un computer
e osservarne il percorso – senza peraltro mai sfuggire al problema che ho
indicato: la nostra simulazione sarà efficace nella misura in cui avremo dato i
valori «giusti» ai parametri significativi, ma spesso basterà un’alterazione
infinitesima in uno di questi valori per cambiare radicalmente la situazione.
Che cosa ci converrà fare allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi
anche estese di linearità; nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo.
In tali nicchie il futuro somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni
degli esperti risultano accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una
pessima idea, però, estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro
variante universale, perché le cose possono cambiare enormemente e molto in
fretta. È preferibile procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare
previsioni e istruzioni finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche
incessantemente a sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità
alternative di azione. Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione
dell’autorità (intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé
stessa e il rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto
popolare, vale la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si
può improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo
aver seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi»,
conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è
meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro
gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente. Fin qui la
teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una
lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere
con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di
carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di
metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia
troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e
questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come
conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il
mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria
struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un
numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro
incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e
che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un
particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a
quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente
fino a che punto siamo in grado di conoscerle), finché non si sia deciso
in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla
lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato;
è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una
qualsiasi determinazione.) Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri
occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno
di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà
oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a
spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare
che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non
ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano,
leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media
grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver
a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un
linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la
frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di
Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non
avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in
un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di
spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in
direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra
accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e
di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili
di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci
sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e
princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure
potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello
degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un
giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che
appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà
pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare
e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano
potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma
molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra
l’altro, da qual è la mia occupazione.) Secondo la teoria della complessità,
vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta
che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di
vista autosufficiente che costituisce la sua realtà, e non c’è una realtà
neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un
particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito
descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche
chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse
formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di
un’infinita, irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una
scelta fra tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di
poter emettere qualsiasi frase dotata di senso. Una delle difficoltà più ardue
con cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il
cosiddetto frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno
strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un
compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con rigore
sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati; qualcuno
glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito da
eseguire e assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della situazione
e chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle condizioni che
essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici dei computer, e
gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per loro: ovunque si
trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il compito prima di
tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con prontezza inferiore a un
computer, ma è proprio per questo che sono stati gli esseri umani a inventare
dei computer che li assistessero e non viceversa. Che cosa fa la differenza fra
gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un problema sarà risolto applicando
istruzioni valide in quel quadro; ma non possono esserci istruzioni su quali
siano le istruzioni da applicare prima che il problema sia inquadrato, perché
ciò presupporrebbe che l’inquadramento fosse già avvenuto; quindi un approccio
che si serva solo di istruzioni (come è stato finora quello disponibile a un
computer) non può avere successo. Posto di fronte a un quesito analogo, Kant
invocava il giudizio, che, in contrasto con le istruzioni, non può essere
imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente ma solo essere stimolato e
perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il quesito però rimane:
esercizio di quale pratica? esempio di quale comportamento? La mia riformulazione
del quesito ci riporta al tema principale della nostra discussione. Quel che un
essere umano impara (e a tutt’oggi un computer non ha imparato) a fare è
selezionare un punto di vista appropriato dal quale vedere le sue circostanze,
e nessuna selezione può avvenire nel vuoto. L’esercizio che è opportuno
per acquisire questa capacità deve dunque consistere nel mettere in gioco i
punti di vista più svariati e adattarli alle circostanze, finché uno fra essi
ci sembri (a torto o a ragione) il più appropriato e facendolo nostro (almeno
temporaneamente) noi procediamo a interagire con le circostanze in
quell’ottica, applicando le istruzioni, o regole, che l’ottica determina (con
modalità che studieremo nel prossimo capitolo). L’esempio che può aiutarci in
proposito avrà a che fare con altre persone che fanno la stessa cosa. E la
«cosa» di cui stiamo parlando ha un nome, che non a caso ho già usato: gioco.
Senza la continua, piacevole trasgressione di abitudini e aspettative che
abbiamo identificato con il gioco, rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva
e forse qualcuno (dall’esterno) dovrebbe premere un nostro tasto per farci
scattare in una prospettiva diversa. Violando l’uso appropriato di tutto ciò
che ha intorno, il bambino sta addestrandosi a sviluppare un suo senso di
appropriatezza che gli permetta di inquadrare un compito senza che altri lo
facciano per lui. E, se volessimo davvero che un computer acquistasse la stessa
capacità, dovremmo avere il coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo
anni fa, un po’ preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in
Giocare per forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel
continente gioco ci aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole
che i nostri istinti privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo
ma comporta gravi rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo
che non ci sono alternative plausibili al correre rischi di questo tipo.
Indipendentemente dal fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato
potrebbe rivelarsi sbagliata, è comunque vero che le ricette che fossero al
momento «giuste» sono state elaborate sulla base delle regolarità riscontrate
finora e saranno prima o poi contraddette dalla natura caotica del mondo;
quindi è bene adottare un atteggiamento sperimentale ed esplorativo che
allarghi l’ambito delle nostre possibilità di concezione e di azione ben al di
là di quanto è utile adesso – perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in
futuro, quando la nostra nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso
sperimentare ed esplorare è indispensabile se vogliamo essere più che semplici
esecutori di compiti: se vogliamo determinare quali siano i compiti da
eseguire. C’è qualcosa di eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa
(o molto) di più del necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di
Caillois del suo «sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per
ottenere il necessario si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al
momento non conta, che al momento è solo possibile. 4. Regole
Avendo così tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla
bimba che gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per
quanto trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei
limiti. La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà
infine con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e
combinarli nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi
oggetti hanno una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un
certo peso e certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi
piuttosto che neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che
opachi. E lo stesso varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi
altro ambiente: ci sarebbero sempre dei parametri che determinano
l’impossibilità di certe mosse e l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando
gioca, la bimba può fare molto, e molto di sorprendente, ma non può fare tutto.
Per dirla altrimenti, la mia descrizione del gioco ne ha sottolineato la
tendenza a ribellarsi a ogni fonte di autorità, sia essa la tradizione, il
buonsenso, gli espliciti comandi o divieti di un «superiore» o la soggezione
che proviamo nei confronti di quanto è utile o opportuno – e ci costringe a
comportarci in un modo specifico per conseguirlo. In contrasto con ogni
attività asservita e deferente (a una persona, a un compito, a un ruolo, a uno
scopo esterno), il gioco si presenta come spontaneo: pronto a seguire
idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare direzione, a ricominciare da capo senza
sentirsi vincolati a quel che si è già realizzato o raggiunto, per nessun altro
motivo che il puro piacere di giocare. Ha insomma tratti che normalmente
associamo alla libertà, e Huizinga è d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e
soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco» (p. 26). Da qui
a trovare nella libertà, quindi nel gioco, l’essenza della nostra umanità e a
lanciarsi in un peana celebrativo di una specie biologica che sacrifica il
proprio tornaconto alla pratica del superfluo, del gratuito, dell’errabondo il
passo sarebbe breve; ma non cederò (per ora) a questa tentazione. Mi chiederò
invece che cosa si debba intendere per libertà e risponderò che di solito
non s’intende un’infinita capacità di arrivare dappertutto e ottenere
qualsiasi risultato bensì la capacità di operare una scelta entro un ambito più
o meno ristretto di opzioni. La libertà che noi conosciamo non è una condizione
assoluta, sciolta cioè da ogni legame, da ogni relazione; è sempre e solo un
determinato grado di libertà, come quello che mi è consentito dai miei arti,
che certo mi dànno una notevole libertà di movimento ma non mi rendono
possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho mostrato quanto ambigua appaia
la parola «gioco» e mi sono proposto di riscattare questa (apparente)
ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi vari significati siano
connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi comprensibili. In lingue diverse
dall’italiano l’ambiguità sembra ancora maggiore: parole come «play», «spielen»
e «jouer» possono anche significare che si recita o si suona uno strumento – e
anche questi significati dovranno essere catturati dalla mia storia. Qui però
voglio notare un’altra vicissitudine semantica del gioco (Huizinga ci informa
che essa «è comune al francese, all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al
tedesco, all’olandese e [...] al giapponese», p. 66), illustrativa della tesi
che sto articolando adesso. Chiamiamo «gioco», infatti (o «play», o
«Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero che (per esempio) una vite ha nel suo
foro filettato, quando non aderisce a perfezione, quando «balla». È anche in
questo senso che la bimba gioca: le pareti, il pavimento e i vari oggetti che
vi giacciono sopra le permettono un certo gioco, un certo (limitato) spazio di
discrezione, che lei occupa ballandovi, riempiendolo con le sue piroette e i
suoi salti. Ed è questo il ruolo principale, ritengo, che il gioco ha nella
nostra vita, il fondamento ultimo di ogni suo contributo alla nostra
sopravvivenza e al nostro benessere. Quella che ho appena enunciato è una
tesi controversa e audace, una sfida a inoltrarsi per un ispido percorso nel
labirinto e una promessa che per tale via procederemo più spediti verso il
traguardo. Devo dunque giustificare la tesi, convincere i miei compagni di
avventura ad accettare la sfida. Per farlo, torniamo al valore adattativo del
gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge da polizza di assicurazione:
esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi quando le equazioni
non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire; risponde al caos
esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di anticipare le prossime
sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro volta imprevedibili e
destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare costantemente da una
prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un singolo modo di percepire
la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli angoli più diversi, perché
questo slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci aiuti a scegliere in
ogni occasione la cornice adeguata in cui inquadrare i nostri problemi e le
nostre esigenze. Entrambe le funzioni implicano una medesima conseguenza: il
gioco deve avere un oggetto, ci deve essere qualcosa con cui si gioca, quindi
qualcosa che inevitabilmente offre resistenza al gioco. I comportamenti
alternativi cui mi rivolgerò quando quelli attuali facessero cilecca devono
trovar posto in un qualche ambiente specifico: per folle che sia diventato il
mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora intorno a me un mondo oppure non
varrebbe la pena di indulgere in nessun comportamento. Lo stesso vale per le
mutazioni prospettiche: una prospettiva è sempre di, o su, qualcosa; una
cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque potrà (e dovrà) essere
sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la libertà che in esso si esprime
ci porterà a varcare la soglia di quanto finora era stato considerato lecito o
vantaggioso ma non ad annullare la legittimità di ogni soglia e di ogni limite
e ad azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione universale e
universalmente catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne troveremo
un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una struttura ne
appronteremo un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e sostanza. La
sostanza e la concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla. A rendere
difficile lo studio e la valutazione della nostra forma di vita è soprattutto
il suo mantenersi in precario equilibrio tra fattori e istanze contrastanti, il
cui peso opposto va tenuto in debito conto, evitando facili ma deleterie
riduzioni a uno dei piatti della bilancia. Questa considerazione cade a proposito
con il termine che stiamo esaminando, nella fase in cui siamo dell’esame: che
il gioco trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato all’estremo,
dando luogo a una retorica della trasgressione in quanto tale, aprendo la
strada a una trasgressione così generalizzata e globale che alla fine non le
rimanga più niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto parlando: di
quegli intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il film
C’eravamo tanto amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio
interpretato da Stefano Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato
dall’eventualità di poter andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato
nella più banale e televisiva delle ossessioni. Non è strano che questa
retorica copra spesso atteggiamenti conservatori, quando non biecamente
reazionari: se la nostra trasgressione equivale semplicemente a far saltare in
aria tutte le polveriere, allora nel vuoto che avremo creato (e sotto la
protezione del fumo con cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per
inerzia le solite mosse e i soliti valori. Negarli è un momento essenziale
della costruzione di un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché
una negazione, in sé e per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova
costruzione è disponibile ci adatteremo, magari a malincuore (e con la
coscienza un po’ sporca), nelle baracche cui siamo abituati, per quanto
danneggiate siano dalla nostra azione trasgressiva. L’umile gioco della vite ci
offre un antidoto a tanto mal riposto entusiasmo. Ci invita a non trasformare
il gioco in una condotta esorbitante, cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo;
ci ricorda che il gioco avviene sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte
(vale per l’orizzonte, come per la soglia, che varcatone uno se ne troverà un
altro) e consiste nel modulare le nostre reazioni al contesto, nel navigarne
con perizia le correnti, nel manipolare con gesti insospettati e inauditi
quanto popola il contesto senza però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli
occhi davanti alla sua specifica consistenza, alle sue particolari proprietà,
che possono essere manipolate in certi modi ma non in altri. È gioco (come
quello della vite) approfittare del grado di libertà che mi è lasciato dai miei
impegni di lavoro per imparare il russo o andare in palestra; non sarebbe gioco
bruciare la casa e tutti i miei averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci
sono circostanze in cui può essere giusta una scelta così radicale, ma solo
come premessa per un gioco ancora da inventare, in un ambiente ancora da
scoprire, non come essenza di un gioco già in atto. Chi risulterà convinto da
queste mie argomentazioni sarà ora disposto a seguirmi per la via che ho
intrapreso e avrà nel contempo imparato, vedendola all’opera in un caso paradigmatico,
un’importante lezione: quanta pazienza occorra per evitare prevaricazioni e
assurde semplificazioni, quanta saggezza sia necessario conservare nel mezzo
delle pratiche più dissacratorie. Incontreremo altri esempi con la stessa
morale; per ora riaffermiamo la conclusione raggiunta con una variazione sulla
metafora dell’orizzonte. Il gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono
sempre per esso una figura che il gioco mette in discussione e uno sfondo che
rimane fuori portata. E si badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può
benissimo far parte della figura quando «figura» sia presa in senso letterale
(e viceversa). Per la bimba che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il
normale uso di tale strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la
sua forma e solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora
precedente, fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite. A
riprova della pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario
del risultato acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una
precisazione contro possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma
e la solidità della spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo
sfondo, vi appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della
bimba indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma,
come con molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda.
I bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano
tutto il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i
capricci, urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o
su quello che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si
abbandonano a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un
ostacolo ai loro piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro
sollecitazioni. Il cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla
continua a scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche
il cubo riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato,
afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una
disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata.
Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come
risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello
sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade, nella
migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire
un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare
ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere
interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e
rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla
mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che
ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è
mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in
quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in
mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero
farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il
bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò
non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il
gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata
e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci,
comparire o sparire, senza che il gioco cambi, perché esso consiste
proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce
il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie
compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli
starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata
soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa
interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco»,
dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata
un desiderio» (p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di
autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui
il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino
una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i
suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole
di questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si
potrebbe [...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga
è d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86).
Da un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in
ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare
più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini
inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma
invece non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o
se preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio
giustapporre, nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio;
si tratta chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi
non c’è motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in
inglese, sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice
distinzione faccia supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un
game si dicono players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene
con «playful» e «gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che
riprende la chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della
strategia intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi
altrettanto importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è
analitica perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che
adotterò invece una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due
logiche nascono da due diversi atteggiamenti nei confronti della
contraddizione, dell’incoerenza. Nella logica analitica, la contraddizione è il
più terribile spauracchio e, ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il
rimedio universale è appunto il divide et impera: il significato che sembrava
contraddittorio consta in realtà di due (o più) significati distinti, che
sarebbe meglio, per evitare confusioni, etichettare con due distinte parole –
se è il caso, con termini tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera
contraddizione, per esempio, fra l’educazione intesa come formazione di una personalità
e come passaggio di contenuti nozionistici (che non forma nessuno): è che la
stessa parola è usata in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare parole
diverse, diciamo «educazione» e «istruzione». La logica dialettica, invece, si
nutre di contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale, ogni
struttura vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il suo
desiderio d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame
affettivo dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come
membro della sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una
nuova famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo
lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase
del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto
emotivamente legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo
e specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro
percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie. Tutto quel
che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei
rischi che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere
considerato appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della
parola «gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma
ciò nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna
contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente
innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il
gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di
«giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne
farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte,
affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o
regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta
[...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di
vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le
suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e
irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi
consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione
in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della
situazione della bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la
parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti
due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua evoluzione da una fase
all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che
incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre
osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe
peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come
della sua assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che
nessuno ha formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal
successivo punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite
da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i
praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di
adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole
precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita
di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza.
Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito
quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura,
si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un
critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile
raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica
dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare
le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti
(essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente
distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto.
Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del
bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul quale dovrò
ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere
e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili
rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella
sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza
l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30).
Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte)
quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita
il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia
della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs
avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in
inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora
come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del
nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che
la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua volta
trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne
definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle
regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è
trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e
articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la
sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi
conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del
passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere
fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che
sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un
misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere
un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze
stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più
intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di
trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle
regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che
abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a
scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale
che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo
umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a
riconoscere e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i
suoi simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati
effettuati, qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello
scervellarsi su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona
idea esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è concentrarsi
su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo diventi un
giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo invece a che
fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con circostanze in
cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso continua a dare
piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno? 5.
Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si
cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo
possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza,
dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui
si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita
che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il
piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la perversa
possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla
deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però,
questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto,
soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di
calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito
negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli
ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse
«fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la
questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando
con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare
completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per
atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di
istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non
vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a
respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non
ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in
spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e
impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti
spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà
arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.)
L’agilità non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo
costante: in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito
mentale, con il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando
una discesa da centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre
circostanze in cui ci sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e
nelle pieghe più complesse del problema, riprendiamo in considerazione il
carattere rischioso del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo
capitolo, perché senza correre rischi non potremmo sostenere il delicato
equilibrio, sempre temporaneo e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto
da un mondo caotico e costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove
strategie e comportamenti inusuali è a sua volta una strategia preziosa se
nessuna strategia sarà efficace per sempre, e il gioco assolve questa indispensabile
funzione. C’è però una strada intermedia fra l’arrivare impreparati alla
prossima catastrofe (ecologica, finanziaria, sociale) e l’affrontare ogni
catastrofe possibile prima che diventi reale: affrontare piccole catastrofi
sostitutive e rappresentative di quelle che potrebbero capitare, giocare non
direttamente nel mondo, e con il mondo, ma ancora una volta in un microcosmo,
una palestra che ci permetta di compiere qualche avventata manovra senza
correre gravi pericoli. Non proprio le avventate manovre di cui avremmo bisogno
quando si prospettasse un’autentica catastrofe, forse; ma manovre abbastanza
simili a quelle da darci una speranza di salvezza. In altra sede ho articolato
questa tesi commentando un passo del Principe di Machiavelli; qui riassumerò in
breve l’aspetto che ci riguarda. Il principe, dice il Nostro, deve
ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma come può farlo quando la guerra
non c’è e manca l’opportunità di farne pratica? Risposta: in periodi di pace
l’esercizio bellico del principe dovrà essere condotto andando a caccia. Si
metteranno così in azione doti che in guerra saranno di grande utilità: la
resistenza alla fatica, il compatto e disciplinato lavoro di gruppo, la
disinvoltura nel gestire varie configurazioni del terreno. E lo si farà in modo
tanto più adeguato allo scopo finale quanto più quello scopo sarà presente al
principe e ai suoi compagni: quanto più essi non si lasceranno assorbire inerti
dai meccanismi della caccia ma se ne serviranno attivamente come di una scusa per
giocare alla guerra. Immaginando nemici appostati su una collina o nascosti
nella macchia; ragionando su come sventarne la minaccia e ridurli in proprio
potere. Certo sarebbe più realistico, quindi più efficace, inscenare una vera
guerra, con vero spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto
popolari di questi tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità
perduta si diletta con simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il
rispetto per l’integrità fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà
con orrore da manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi»
della lezione di Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla
quale dobbiamo trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il
futuro ci riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza
delle abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo
estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri.
Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano
a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che
quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto
insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in
parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del
calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il
corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore
riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa
anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di
una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»;
voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento
semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara
o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un
allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi
fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di
una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante
volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella situazione
totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può ripetere nulla,
perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la grandissima maggioranza
di quelli che comunemente denominiamo giochi come allenamenti in questo senso.
In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno che conta molto per noi, siamo
letteralmente in gioco; e questo è il gioco che ci definisce, che ci qualifica
come animal ludens, come l’animale che non ha una nicchia ecologica ma,
forzando costantemente i limiti della sua adattabilità e sopportazione, ha
fatto del mondo intero (questo mondo, per ora, e domani, chissà, anche altri)
la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi sono spesso forme di allenamento
al gioco per antonomasia, in cui si corrono i veri rischi e si ottengono i veri
benefici: un gioco che è bene in generale rimandare fino a quando non diventerà
inevitabile. Ottenendo in tal modo il doppio vantaggio di assaporare la
stabilità degli angoli di cosmo che si annidano in un universo caotico e
coltivare al tempo stesso, senza farsi troppo male, abilità e mosse che
potrebbero servirci quando il caos reclamerà il suo dominio. Con una (già
menzionata) limitazione, frutto scomodo della relativa comodità dei giochi per
procura: un allenamento non è mai la stessa cosa della partita. In quanto
puramente rappresentativo della partita, è vittima della logica della
rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, da qualcosa
di diverso. La mia immagine nello specchio mi rappresenta, ma non posso accarezzarla;
i deputati in Parlamento mi rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo
in quanto accetto di ridurmi a una particolare costellazione di interessi; la
caccia rappresenta la guerra, o il calcio rappresenta un’invasione del terreno
avversario e una violazione della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi
rappresentano una raffinata combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da
queste violazioni e da questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o
deflorato. (E forse è questo il motivo per cui eccellono in tali
rappresentazioni coloro che ne marginalizzano il più possibile il carattere
rappresentativo e in un certo senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare
nella loro pratica la consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo
tema di grande importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich,
che citerò ancora in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva
in A cavallo di un manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di
scopa rappresenta un cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché
gli somiglia. E, in Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo:
L’essenziale dell’immagine non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in
un certo contesto operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene
che questo possa contribuire alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi
per procura si svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che
simulano condizioni reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è
iniziato il nostro percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di
calcio, invece, in una copia in miniatura del mondo, considerando quanto è
piccola la stanza in cui si muove la bimba in confronto allo stadio affollato e
urlante in cui ha luogo la partita; e sarà bene allora sottolineare che la
miniatura di cui stiamo parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma
esistenziali. Nel suo piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e
bisogna farle attenzione e proteggerla per evitare che questa sua assoluta
dedizione abbia effetti distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi
si compie invece un rito dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui
solo alcuni movimenti e atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano
questo microcosmo dal mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre
sul punto di prendere la mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma
la possibilità che l’uno si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione.
Fa solo notare che non si tratta di una distinzione neutrale, definita una
volta per tutte: come la repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante
esercitando appropriate resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono
meno il microcosmo è inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male
davvero. Quest’ultima osservazione ci costringe a rivisitare le conclusioni del
capitolo precedente. (In un labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere
sentieri tortuosi, si deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo,
cioè le regole, avevo concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le
figure che tracciamo sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le
regole determinano la topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di
risiedere e a quelle regole noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività
e godimento, da buoni o cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il
malinteso che la distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia,
una volta decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In
una scena esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un
membro della sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo
sbudellare con facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice
che, prima di lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo
guarda allibito; in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso
calcio al basso ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in
faccia con i due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di
cominciare, prima ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere
condotto. Siamo così tornati per altra via alla complessità sancita dalla
fisica e quel che sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima
volta si trasforma ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di
ripassare per lo stesso punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente
ambiguo, avevamo concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da
una sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro
ciascuno dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter
prevedere, di volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è,
anzi, il mondo ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno
all’altro ci spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo
utilizzando adesso, potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un
particolare ambiente ludico; ma qui abbiamo anche detto che ogni
microcosmo corre sempre il rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo
reale (il mondo del gioco reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a
un tratto ci si possa far male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un
mondo reale che fa pressione sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi;
oppure vale quel che si è detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo
dopo che si sia scelto un sistema di regole? Una risposta semplice e lapidaria
a questa domanda è: valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice,
tuttavia, nel significato della risposta. Per cominciare, occorre intendersi:
se un «mondo» dev’essere una struttura definita, che contenga oggetti specifici
con specifiche proprietà e relazioni, allora non esiste un mondo senza la
scelta del vocabolario che lo fonda (in accordo con le spiegazioni date nel
terzo capitolo). Possiamo anche dire, però, che «così va il mondo», cioè che
esso non va come si pensava un tempo (e come ancora pensano in molti): non è
indipendente da una scelta; le cose non stanno in nessun modo finché non si sia
deciso come descriverle – e anche questo è, in senso lato, un modo in cui
stanno le cose. Da questa banale distinzione terminologica segue una
conclusione tutto men che banale: se «al mondo» non ci sono che microcosmi,
allora quel che fa «realmente» pressione su un microcosmo, «il mondo» che
minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi. Un gioco è sempre e soltanto
minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre possibile slittare dall’uno
agli altri). Giocare con le regole invece che alle regole di un particolare
gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi in una dimensione
neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue regole possano
essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un altro gioco.
Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche sconvolgimento
prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi sotto i nostri
occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio dello stesso tipo.
In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i suoi genitori no
(quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte tutte le prese e
chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare indisturbata); che gli
atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai che montavano le porte
no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e fare la guerra (davvero,
invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non solo non è più ovvia;
non è più nemmeno una differenza. O meglio, una differenza c’è ma non è quella
tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente fittizio e uno reale. Se per la
bimba non c’è niente di più serio del suo gioco, e se in generale i
giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è perché non c’è distinzione
sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività seria è un gioco preso sul
serio, un’attività definita da uno sfondo di regole in cui una o più persone
decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui confini una o più persone decidono
di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol dire assumere un atteggiamento di
completa concentrazione e rifiutarsi di ammettere qualsiasi distrazione,
qualsiasi alternativa alla pratica corrente. Succede ai bambini che giocano,
agli adulti ossessionati dal poker o dalla roulette e agli altri adulti, molto
più maturi e responsabili, che si dedicano anima e corpo al loro lavoro.
L’analogia fra tutte queste situazioni è evidente, o almeno dovrebbe esserlo,
ma noi di solito riusciamo a non vederla inforcando gli occhiali normativi (o
prescrittivi) di cui ho parlato nel secondo capitolo: chi si concentra sul
proprio lavoro fa bene perché sul lavoro ci si deve concentrare; chi si
concentra sulle avventure di una bambola dimostra il proprio carattere infantile;
chi si concentra sul poker è dipendente e malato. Mettiamo da parte queste
norme introdotte di straforo, senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su
un piano descrittivo, là dove l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci
apparirà allora con improvvisa chiarezza una nuova prospettiva sull’intera
faccenda: la realtà «seria» non è che un gioco senza alternative riconosciute,
su cui non si avverte la pressione di altri giochi. Il lavoro è la realtà di
chi non vive le sue regole come una scelta; il poker è la realtà del giocatore
ossessivo. (Il che non modifica il fatto che alcuni giochi possono [a] essere
più ampi e ramificati di altri, meno disponibili alla ripetizione, a provare e
riprovare le stesse mosse, e più propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b]
rappresentarne altri, con tutte le ambiguità connesse alla rappresentazione,
quindi che [c] si possono limitare i danni giocando «per procura» a giochi
puramente rappresentativi di quelli più rischiosi.) C’è un’importante
precisazione da fare su quel che ho appena detto: è necessario correggere
subito la rotta per non andare fuori strada. Sembrerebbe, a questo punto, che
ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel prendere un’attività sul
serio, il che non è vero. Torniamo ancora una volta alla bimba: sbaglia forse,
lei, a immergersi in modo assoluto, totale, nelle figure che costruisce? Niente
affatto: praticare un gioco con pazienza, con dedizione, nell’oblio di ogni
alternativa, è il modo migliore per familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo,
per esplorare tutta la creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue
regole. Ma domani la bimba sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile
posteriore di un’automobile, dove incontrerà altre resistenze che
accetterà come regole di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la
protegge dall’ossessione, che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un
punto di forza. Ogni gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne
conserva anche il carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo
pratica, è il fatto che gli siano presenti, magari implicitamente, altri
giochi. Nell’Essere e il nulla, Sartre parla di un cameriere che si è
trasformato nello stereotipo di un cameriere, e che cerca così di sfuggire alla
coscienza di essere un cameriere. Adattando il suo esempio al mio discorso,
direi che al cameriere manca ogni senso di alterità e che senza alterità non
c’è vera identità: c’è solo un magma indifferenziato nel quale siamo avvolti
senza rimedio. Gli manca un lampo di quell’ironia che segnala l’alterità e gli
permetterebbe di vedere (da un altro punto di vista) quel che sta facendo come
uno dei tanti giochi possibili – come qualcosa che non lo inchioda fatalmente a
un ruolo e proprio per questo gli permette di vivere il suo ruolo con serenità.
Ho avuto la fortuna, talvolta, di veder affiorare questo lampo d’ironia (che
sarebbe come dire, per me, d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai
due anni, e mi sono reso conto allora che avevo davanti un essere umano. In
Verso un’ecologia della mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione
analoga, formulata nei termini logico-matematici che gli sono abituali. Un
gioco, dice, è generalmente vissuto in un’atmosfera paradossale: nell’ambito
della premessa «Questo è un gioco» e quindi di indicazioni contrastanti a
prendere sul serio quel che si fa e anche a non prenderlo sul serio. «È nostra
ipotesi che il messaggio “Questo è gioco” stabilisca un quadro paradossale,
paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè: quel che sto dicendo adesso è
falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi, analoghi a quelli della teoria degli
insiemi (come «l’insieme di tutti gli insiemi che non si appartengono si
appartiene e non si appartiene») non vanno esorcizzati (come fa Bertrand
Russell introducendo la sua teoria dei tipi logici), perché nella loro assurda,
irriducibile complicazione sono l’essenza stessa dell’attività e della vita. La
nostra tesi principale può essere riassunta in un’affermazione della necessità
dei paradossi dell’astrazione. L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero
obbedire alla teoria dei tipi logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo
cattiva storia naturale; se non obbediscono alla teoria non è solo per
negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi
dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di
quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della
comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di
messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del
cambiamento o dell’umorismo (p. 235). Alla fine del capitolo precedente
mi ero posto un problema: qual è il senso di giochi dai quali non sembriamo
imparare nulla d’importante, che sembrano servire solo a passare (ad
ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del problema ha finito per negarlo,
ridisegnando l’intera cartografia che ne tracciava il territorio. Non ci sono
giochi utili per conoscere il mondo reale e altri oziosi e gratuiti. Ci sono
solo giochi, che rimangono tali finché rimangono al plurale e smettono di
esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo di vista la molteplicità. Anche in
questo caso, la molteplicità non cesserà di esistere e noi dovremo pur sempre
difenderci dalla sua intrusione; la nostra difesa però non sarà (per usare
ancora una volta metafore freudiane) un consapevole, versatile negoziato fra
istanze ugualmente legittime e in grado di scambiarsi le parti, di mescolarle e
così rinnovarsi continuamente, ma una rimozione di fissità nevrotica che con
l’altro non dialoga e che proprio per questo all’altro prima o poi si
arrenderà. 6. Calma e gesso Nel gioco del biliardo, che un mio compagno
di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di trovarsi davanti a situazioni
molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è coperta dal pallino o dal
castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o eventualmente alla
goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o eventualmente nove);
possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di sparare subito d’istinto
conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e meglio ancora se nel
frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante elucubrazioni scivoli
malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che decideremo di tentare. Fuor di
metafora, quando si percorre un itinerario tortuoso e accidentato come quello
attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e considerare la nostra posizione, che
magari dopo numerose giravolte è cambiata e va rivalutata nella nuova forma che
ha assunto e nelle nuove condizioni e opportunità che ci offre. È quanto mi
propongo di fare in questo capitolo, prima di riprendere il cammino. Nelle
ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto, un rivolgimento prospettico.
Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le conseguenze e a ridisegnare alla
sua luce il nostro territorio. Ma qualche minuto di pausa supplementare e
qualche riflessione più articolata sono opportuni, per apprezzare la radicale
novità della mappa che sta emergendo. Siamo partiti con una distinzione forse
talvolta (in casi limite) vaga ma di solito, apparentemente, piuttosto chiara.
A nascondino e a pallacanestro si gioca; quando si prende il tram per andare in
ufficio o si prepara la cena non si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero
preparando la cena o andando in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con
l’alibi di preparare la cena o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci
sono solo giochi. Vogliamo dire che quella distinzione apparentemente chiara
(ma, ho affermato, non «sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di
gioco, di attività ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il
fatto che un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di
quel che possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il
concetto stesso di cui volevamo rendere conto, alla cui comprensione
abbiamo dedicato tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo
su cui il gioco elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta,
sulla natura di questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con
le regole. E ho detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di
carattere trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a
vedere il gioco di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora
arrivando a capire meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è
trasformare il rapporto tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è
inteso come verbo; alla fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano»
potremmo lasciarla cadere e che la trasformazione riguarda tutto l’essere).
Normalmente (e ricordiamo la norma sempre implicita in simili espressioni) si
pensa che il gioco sia una figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo
sfondo delle comuni, serie occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale,
letteralmente ai margini della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni
di festa, alla vita di scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice
Caillois a p. 14). E c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento
prospettico che abbiamo attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una
condizione umana in cui lo sfondo, la normalità, la norma sono attività
ludiche, condotte per il puro gusto e il puro piacere che dànno, e le attività
strumentali, tese a uno scopo esterno a sé stesse, al conseguimento di un
risultato, sono un mistero da spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich
Schiller arriva a una conclusione analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto
quando è uomo nel senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove
gioca» (p. 56). E la spiega, anche, in modo simile all’articolazione che ho
fornito qui, come il risultato di una costante tensione fra esigenze opposte:
«deve esservi un elemento comune tra impulso formale e impulso materiale, cioè
un impulso al gioco, perché solo l’unità della realtà con la forma, della
contingenza con la necessità, della passività con la libertà porta alla
perfezione il concetto di umanità» (p. 54). In una famosa scena di 2001:
Odissea nello spazio un nostro antenato ominide solleva da terra un lungo,
robusto osso e lo agita senza senso e senza intenzione di qua e di là. Per
gioco, potremmo dire. Finché, casualmente, l’osso urta un cranio che giace lì vicino
e lo frantuma, e così lo scimmione scopre (con enorme eccitazione) di avere in
mano un’arma e nella prossima scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per
commettere un omicidio. Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la
nostra) feroce e sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero
raccontare su un’altra scimmia che con la medesima casualità scopra come
far cadere un cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per
traverso su un ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi
dell’immaturità, riassume storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di
avanzare l’ipotesi poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso
degli strumenti è stato necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale
e libera da qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o
l’incorporazione di oggetti in attività qualificante) ha richiesto la
preliminare possibilità di un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse
poi operare la selezione (p. 37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di
strumenti negli scimpanzé come nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti
del nuovo pattern di attività in differenti contesti [...]. Probabilmente è
proprio questa «spinta alla variazione» (piuttosto che la fissazione per
rinforzo positivo) che rende tanto efficace la manipolazione nello scimpanzé
(p. 41). Il gioco, data la sua concomitante libertà da rinforzi e il suo
collocarsi in un ambiente relativamente libero da pressioni, può produrre la
flessibilità che rende possibile l’uso di strumenti (p. 43). La libertà
espressa nel gioco sarebbe dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano
tutte le attività serie: cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci
affezioniamo e che ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate
inaspettatamente preziose, mentre il gioco continua. (Ritroviamo così, come
cifra del gioco, l’investimento nell’eccessivo e nel puramente possibile, da
cui viene distillato con pazienza ciò che finisce per apparire utile o anche
necessario.) L’immagine che stiamo disegnando è quella di uno spettro di
comportamenti (analogo allo spettro dei colori), a un’estremità del quale c’è
pura libertà (comportamenti del tutto caotici e imprevedibili) e all’altra pura
costrizione (comportamenti del tutto fissi e stereotipi). In modo analogo,
Caillois sovrappone alla sua già citata categorizzazione analitica di vari tipi
di gioco un’ulteriore tassonomia organizzata in modo graduale: [Si possono]
ordinare [i giochi] fra due poli antagonisti. A un’estremità regna, quasi
incondizionatamente, un principio comune di divertimento, di turbolenza, di
libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si
manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome
di paidia. All’estremità opposta, questa esuberanza irrequieta e spontanea è
quasi totalmente assorbita, e comunque disciplinata, da una tendenza
complementare, opposta sotto certi aspetti, ma non tutti, alla sua natura
anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di piegarla a delle convenzioni
arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, di contrastarla sempre di
più drizzandole davanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle
più arduo il pervenire al risultato ambìto [...]. A questa seconda componente
do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget parla di polarità: il gioco non
costituisce una condotta a parte o un tipo particolare di attività tra le
altre: esso si definisce soltanto mediante un certo orientamento della condotta
o in virtù di un «polo» generale verso cui converge quest’attività nel
suo complesso restando caratterizzata così ogni azione particolare dall’essere
più o meno vicina a questo polo e dal tipo di equilibrio che c’è tra le
tendenze polarizzate (La formazione del simbolo nel bambino, pp. 213-214). il
gioco si riconosce da una modificazione, variabile di grado, dei rapporti di
equilibrio tra il reale e l’io. Si può sostenere dunque che, se l’attività ed
il pensiero adattati costituiscono un equilibrio tra l’assimilazione [del reale
all’io] e l’accomodamento [dell’io al reale], il gioco comincia quando la prima
predomina sul secondo [...]. Ora, per il fatto stesso che l’assimilazione
interviene in ogni pensiero e che l’assimilazione ludica ha per solo segno
distintivo il fatto di subordinarsi l’accomodamento invece di realizzare un
equilibrio con esso, il gioco si deve considerare collegato al pensiero
adattato da una gamma di stati intermedi, e solidale con tutto il pensiero, di
cui esso non costituisce che un polo più o meno differenziato (pp. 218-219). Io
però intendo proporre qui un’operazione più radicale. Invece di trovare il
gioco in una parte dello spettro e il non-gioco in un’altra (o, come fa
Caillois, giochi diversi da una parte e dall’altra), intendo rivoluzionare il
senso della parola «gioco», decidendo che il gioco sia non un’attività
specifica («questo è un gioco e quello non lo è») ma un aspetto di ogni
attività, un suo parametro: il parametro che misura quanta libertà l’attività
esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora che tutte le attività
possono essere misurate relativamente a questo parametro, anche se per alcune
la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In modo inversamente
proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello spettro, la
presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli estremi
dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole) siano
astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto
capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la
frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto
regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle
strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà
nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui
quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e
sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali.
Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci
impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in
riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il
cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è
un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri
umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da
un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone
con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette,
semplicemente, alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in
generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la
pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e
sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un
parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che
all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di
prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le
unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello
che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni
attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno
potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci
sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e
trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso
di regole.) Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo
posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa
quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i
corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare
uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire
«tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni
concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base
a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si
tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e l’altro
insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia naturale non
la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il movimento di una
cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda l’essere di
quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la definizione e le
caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul gioco s’inquadra in
un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino degli scacchi o del
tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un bullone o dello
spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece opportunità sempre aperte;
e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali di una farfalla perché la
più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa follia (manifestando il
pizzico di follia che già conteneva) o perché la più audace delle avventure
s’incagli su un binario morto. 7. Illusioni Nel quarto capitolo ho detto
che quella di figura e sfondo è una metafora: che le «figure» non hanno
necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso di una parola al di
là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato, inappropriato e
incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce associazioni, emozioni,
ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e come tale ce ne dovremo
occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare che se una metafora può
traslare, trasferire il senso di una parola allora quel senso, si presume, ha
un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi metaforici presuppone
che ne esista uno letterale. Giulietta non è, letteralmente, il sole; ma quel
che ci permette di capire che cosa il poeta intenda con questa frase è la
nostra familiarità quotidiana con un astro che è il sole nel senso più proprio
del termine. Anche questa distinzione verrà in seguito contestata; ma qui
prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci. Un cambiamento di
prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di natura astratta, che ci
coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre pensato a noi stessi come
a fedeli esecutori di istruzioni ricevute dall’esterno, da una guida o un capo
più o meno benevoli, e tutt’a un tratto comprendiamo («ci salta agli occhi»,
metaforicamente parlando) di quante microdecisioni sia intessuta la nostra
esecuzione di un compito, e quanto siano quelle decisioni, quelle scelte forse
inconsapevoli ma importanti, a determinarne il successo, invece della pedestre
acquiescenza a modelli alieni. Se pure adoperiamo un vocabolario percettivo per
descriverla (dicendo per esempio che abbiamo imparato a «vederci» in modo
diverso), questa trasformazione è di carattere intellettuale, logico; riguarda
una «prospettiva» che è un’interpretazione, non una direzione nello spazio.
Esistono però anche casi come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques
Lacan). Il famoso quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di
fronte, presenta una strana forma in basso (Lacan la paragona a uova fritte);
ma se, mentre ce ne allontaniamo, ci giriamo ancora una volta a guardarlo
(forse perché quella forma misteriosa ci ha inquietato) ecco che da quel punto,
letteralmente, di vista scorgiamo infine l’immagine che il pittore voleva
mostrarci (e capiamo il messaggio che voleva lanciarci – ogni trasformazione
percettiva ha una ricaduta intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova
fritte sono diventate un teschio. Nell’universo infantile, cambiamenti
letterali di prospettiva (su un corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le
fonti più intense di gioia. È un mondo popolato di smorfie, guizzi,
voltafaccia, nel quale nulla diverte di più del vedere personaggi di dimensioni
gigantesche, che normalmente costringono a guardarli dal basso in alto,
rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe, magari con un bambino in groppa
per fargli vedere dall’alto spettacoli di solito inaccessibili: una nuca, del
cuoio capelluto, delle stanghette di occhiali. Nella vita adulta, occasioni del
genere sono più rare, limitate come sempre accade con il gioco a ricorrenze
catartiche (il carnevale, le vacanze, il sesso) e occupazioni specifiche
(l’attore, il clown). Quel che conserva una frequenza più costante sono non
tanto occasioni quanto particolari oggetti multiformi, insieme artistici e
illusori, anzi artistici perché illusori (come ben aveva capito Gombrich, che
al tema dedicò il suo capolavoro Arte e illusione). A questi loro aspetti mi
rivolgerò adesso, cominciando dal secondo. Abbiamo già incontrato il paradosso
della rappresentazione: di una cosa, cioè, che ne rappresenta un’altra, diversa
da sé stessa. Una rappresentazione, aggiungo ora, è in certa misura
un’illusione; in particolare, una rappresentazione percettiva come quelle su
cui mi concentrerò qui è (in certa misura) un’illusione percettiva. Nel
linguaggio ordinario, «illusione» non è un termine neutrale: accenna a qualcosa
di falso, di ingannevole; è legato a giudizi di valore negativi, usato con
intento critico. Dobbiamo evitare di rimanere vittime di illusioni; dobbiamo
conoscere la realtà che le illusioni ci nascondono. Voglio prendere le distanze
da tali giudizi e dalle norme che essi sottintendono: norme che favoriscono
stabilità e conformismo nella visione del mondo. Osservo invece che dentro
«illusione» c’è la radice del gioco e il prefisso «in» annuncia (se solo
stessimo a sentire quel che diciamo) che un’illusione (ci) mette in gioco.
Questo è il senso in cui voglio usare la parola, respingendo ogni ipotesi di
inganno o di frode e sostituendola con un richiamo positivo alla sfera ludica.
È in questo senso, per esempio, che nubi di una certa forma possono illuderci
che un destriero stia galoppando per il cielo: rimettendo in discussione il
fatto che quelle siano nubi, che il cielo abbia una sua determinata, fissa
configurazione, che certe cose (certi animali) non vi abbiano corso. L’epigrafe
del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e illusione, è tratta da Antonio e
Cleopatra di Shakespeare, e recita: Talvolta noi vediamo una nuvola
prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di
turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri
promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo giù e ci
illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172). A mente fredda diremo poi,
forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in
un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene
ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito –
metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci
catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non
lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo
infelice destino. L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione,
ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un
complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che
ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche
essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che
abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna,
traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne
(dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso
e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o
nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale
scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra.
«Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con
beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli
esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non
è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto
naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò
quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di
una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto
che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che
cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno
ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando
acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici.
L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa
classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder
apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello
l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un
cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un
coniglio – è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un
coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che
noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato
precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un
oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati
una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime
manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte,
che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e facilitino
il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini multiple,
l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo la sorpresa
con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto artificiale ci
dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti gentiluomini, riccamente
vestiti e circondati da svariati simboli di potere, cultura e intrattenimento;
ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale rispetto alla scena,
scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una tavola bidimensionale
ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i gentiluomini, e poi ancora
la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona, sforzarci di svelare il segreto
di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci dal dipinto per cogliere il
punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra, in cui i gentiluomini si
fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal pigmento che ne evocano la
presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in uno schizzo o in un fumetto
dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le trombe e i timpani che nella
Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale, per le volte e le vetrate che
da una cattedrale gotica ci trasportano in una selva oscura, attraversata da
lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa illuderci, invitarci a un gioco
aperto fra le sue molteplici incarnazioni, ispirarci a un’oscillazione
gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene all’arte, la ragion
d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e l’ambiguità in sé [...]
non può esser vista: può solo essere indotta dal confronto di diverse letture
che tutte si adattano a una stessa configurazione. Credo [...] che il dono
dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che ha imparato a guardare
criticamente, a saggiare le sue percezioni provando interpretazioni diverse o
opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il piacere che proviamo davanti
a un quadro, affermava il grande critico neoclassico Quatremère de Quincy
citato da Gombrich, dipende esattamente dallo sforzo che la mente fa per creare
un ponte tra arte e realtà. È proprio questo piacere che viene distrutto
allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché un pittore costringe una
grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi porta attraverso gli
abissi dell’infinito su una superficie piatta e fa sì che l’aria circoli
[...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio che ci sia la
cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è altro che una
tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a mancare, se
l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente paradossale per
chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho proposto, l’illusione
scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato anche la fine» (p. 253;
traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca anche con l’illusione (gioca
con il gioco stesso) e con le aspettative culturali che le sono associate:
l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al bambino per cui i migliori
oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e insieme ci ricorda che un
oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente che ne determina il
ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e di meno) di un
orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma anche di noi
stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che visitare un museo
sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della serratura, lasciando
tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio quella nostra visita a
costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui ci siamo inoltrati si
aprono altri labirinti: la struttura tortuosa dell’insieme si riflette nella
struttura di molte delle sue parti (simile in ciò agli strani attrattori della
teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha complessità tanto infinita quanto il
tutto). Qui siamo arrivati a un punto siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere
un altro libro, o una biblioteca. Ma resisterò anche a questa tentazione e mi
rimetterò in marcia, dopo aver fatto tre precisazioni. In primo luogo, devo
insistere che non ho collegato gioco e arte in modo analitico, scoprendo delle
loro caratteristiche comuni. L’attività artistica è attività ludica, più
precisamente un gioco percettivo che ci porta a vedere oggetti in prospettive e
con risultati diversi da quelli abituali; dunque è la stessa attività praticata
da un bambino che rigira un cubo fra le mani per vederlo da ogni lato. Se il
cubo è una scatola che ha trovato in cucina, il caso è identico a quello delle
immagini nelle nubi; se invece è un oggetto (un giocattolo) che gli è stato
comprato apposta perché lui esegua tali rotazioni, corrisponde al quadro di
Holbein (e chi ha costruito il giocattolo corrisponde al pittore). Gli oggetti
ufficialmente giudicati artistici sono più raffinati di quelli con cui si
diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre per l’arte contemporanea, da
Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che un’attività (ludica, in questo caso)
può essere praticata con maggiore o minore maestria, non che si tratta di
attività diverse. Chiunque abbia partecipato a una settimana bianca ha sciato,
pur non danzando sulla neve con la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci
turbare, nell’enunciare questa tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene
che l’arte ha valore solo per sé stessa (l’art pour l’art) e non va
assoggettata alla funzione quasi-evolutiva che le ho conferito. Nessuno meno di
un appassionato giocatore, totalmente immerso nella sua partita, è in grado di
apprezzarne il contributo a un più vasto ambito d’interessi. Al limite, questo
genere di passione acceca, come osserva Gombrich in A cavallo di un manico di
scopa: gli scrittori di estetica ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si
sono tanto preoccupati di liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito
con il creare al centro di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In
secondo luogo, l’arte è solitamente concepita come prodotta da certe persone
(gli artisti) e fruita da altre (il pubblico); le prime sono considerate attive
e le seconde ricettive, passive. Nel modello freudiano del motto di spirito,
nucleo di una generale teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una
barzelletta e il riso che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e
trovarsi a un tratto libere energie psichiche che prima servivano a reprimere
dei contenuti inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la
barzelletta, usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno
piacere e non ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene
vicissitudini dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e
liriche davanti alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per
croste e installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi.
È anche un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e
d’impegno che esiste fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo
pubblico. Chi guarda un quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non
saprebbe, perlopiù, dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma
può godere dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e
sorprese dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco
di società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere
autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria
volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa
esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di
Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del
filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana: «Ma
questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha
un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per
realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente
con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte
nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci
colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione.
«Perfino se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude
Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso
schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a
rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro
che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa»
(p. 173). In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto
della nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso
accusato di farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o
giudizio di valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina
normativa per eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta
«razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma
che cosa resta allora dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza,
sia giusto accettarli e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili
conseguenze; l’etica (normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se
diverso dalla ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla
metafisica. In questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico
e al chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non
voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire
l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori
interno per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a
bridge e chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in
quanto giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della
briscola. Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in
parità ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e
complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di
briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non
stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte
sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi
sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come
per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto
ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto
artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro.
L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche
sociali consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito
che l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti più di una scrollata
di spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose
ci vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso
della Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi,
e il conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non
risolto) in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio.
Se anche avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare
dall’uno all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con
tanto candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto
artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci)
e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.
8. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a
perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di
proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi. Questo
magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la
briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi
semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti?
Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non
per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di
Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero
ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare
per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un
gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una
banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta
e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione
pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo
controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile
si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che
ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo
dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore
intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola.
Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore
trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed
eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti
potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra
occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare,
insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il
gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed
elementare di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non
necessariamente. Basta osservare che, se stiamo giocando e se il presunto
oggetto del nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne
segue che questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo
giocando ad altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente
riconosciuto. Che cosa succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per
le vacanze di Natale? Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure
(peggio ancora) con ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce
del modo in cui sono cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi
ristretti per qualche giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare
ripetutamente reazioni estatiche a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa
vicinanza. Non devo dilungarmi in dettagli: drammi di notevole veridicità (e
crudeltà) sono stati scritti in proposito. La tombola o la briscola possono
allora costituire un’area neutra nella quale sperimentare senza troppi rischi
mosse e atteggiamenti che in altri contesti potrebbero far male ma qui,
nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno «corso legale» e consentono preziosi
passi avanti nel difficile compito di trasformare quella che di nome è una
famiglia nel senso di una concreta familiarità. Stiamo dunque assistendo a una
scena in cui si sovvertono e si rinnovano le proprie competenze e i propri
ruoli, si esplorano i propri rapporti con altri che, nonostante il disagio e
l’occasionale ostilità, sono pur sempre cari e s’imparano strategie per
distillare l’affetto dal disagio, e tutto questo accade mentre si gioca a
tombola, ma non riguarda la tombola. La delicatezza e la sottigliezza dei
tentativi che vengono condotti in quest’area protetta e la ricchezza di
insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci, senza neppure esserne
consapevoli, ma in modo estremamente utile per il prosieguo e il successo
dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo dall’insulsaggine degli ambi
e delle cinquine. Considerazioni analoghe valgono per i ragazzi che «giocano» a
veder passare le macchine, o a chi scorreggia più forte o dice più parolacce.
Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del genere, siano le scorregge o
le parolacce, dovremo modificare radicalmente la nozione di gioco che abbiamo
elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per capirne le ragioni dobbiamo
distanziarci dalle etichette correnti e anche da quelle che gli stessi
giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui sopra sono giochi, ma non
è detto che chi gioca partecipando a tali competizioni stia giocando a
scorreggiare, e si stia divertendo perché scorreggia. Forse sta giocando,
esattamente nel senso in cui ho definito il gioco, a qualcos’altro di ben più
complesso (a socializzare con dei coetanei, a mettere sotto pressione la sua
fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti (e lui stesso) sono distratti
dalle scorregge; ed è anzi importante che ne siano distratti, perché altrimenti
il gioco cui stanno davvero giocando non sarebbe altrettanto trasgressivo e
innovativo, esplorativo e istruttivo, e piacevole. Questa osservazione mi
consente di precisare il punto con cui ho chiuso il capitolo precedente e di
prendere posizione rispetto a un tema che per molti autori ha grande importanza
nel definire il gioco ma nella mia trattazione, finora, è stato oggetto di
commenti piuttosto negativi. Cominciamo con la precisazione. Ho detto che la
Gioconda è un oggetto artistico di sublime efficacia e ho liquidato quanti
salutano con entusiasmo un po’ di sassi dispersi «ad arte» in un museo come
stupidi o conniventi. Devo ammettere che non è sempre così (per quanto riguarda
i sassi). Talvolta l’entusiasmo è genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che
la fruizione di un’opera d’arte è un gioco che coinvolge insieme i sapienti
indizi lasciati dall’autore e l’attivo contributo dello spettatore nel
trasformare quegli indizi in un gioco percettivo, è anche vero che i due
elementi coinvolti in questa interazione possono esserlo in misura molto
diversa: esiste anche qui uno spettro di opzioni, che va da uno spettatore
inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece iperdisponibile a raccogliere ogni
più remoto, implicito invito – perfino ciò che non potrebbe essere vissuto come
un invito senza tale sua immensa disponibilità. Socialmente, molte delle
persone che si collocano all’estremità benevola dello spettro sono vittime di
una posa, di una moda, di chiacchiere senza sostanza e senza costrutto. Per noi
però, qui, non importa: non stiamo facendo sociologia ma disegnando uno spazio
logico, una struttura concettuale, quindi è sufficiente che sia possibile
un’alternativa meno funesta per doverne rendere conto. E il conto è presto
reso: così come si può giocare con passione e con gioia, da bambini, con gli
oggetti più banali, e impararne fondamentali lezioni di vita, lo si può fare da
grandi con le molte banalità che popolano i musei d’arte contemporanea. In
entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca sono solo minimamente
responsabili dell’emozione e del piacere provati e dell’apprendimento che ne
segue. Non sono essi il principale fattore in gioco: è lo spettatore (o il
bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro. All’estremo opposto dello
spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore universale in quanto sanno
parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi personalmente per dar vita a un
dialogo – sanno parlargli anche se resiste, anche se fa di tutto per
convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema che finora è stato
trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche parola è il gioco
d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana importanza è Caillois,
che se ne serve per porre un’ulteriore radicale distinzione in campo ludico –
tra il gioco infantile (e animale) e quello adulto: I giochi d’azzardo appaiono
giochi umani per antonomasia. Gli animali conoscono i giochi di competizione,
d’immaginazione e di vertigine [...]. In cambio, gli animali, esclusivamente
immersi nell’immediato e troppo schiavi dei loro impulsi, non sono in grado di
immaginare una potenza astratta e insensibile al cui verdetto sottomettersi
anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere passivamente e
deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo una somma per
moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è atteggiamento che
esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di speculazione, di
cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella
misura in cui il bambino è vicino all’animale che i giochi d’azzardo non hanno
per lui l’importanza che ricoprono per l’adulto. Per il bambino, giocare è
agire (p. 35). Buona parte dei giochi comunemente detti d’azzardo può già
essere inclusa nella rete concettuale che ho esposto. Nel poker, per esempio,
sia le carte che mi vengono di volta in volta offerte dal caso sia gli
avversari che affronto (e su cui amplieremo il discorso nel prossimo capitolo)
possono essere visti come condizioni oggettive del gioco, sue regole né più né
meno della particolare natura geometrica di un cubo o di una palla; e a queste
condizioni io esprimerò la mia capacità e creatività né più né meno che se
giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere totalmente esclusa da questo
ambito, però, una classe di giochi in cui non si può manifestare nessuna
capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare, mai diventare buoni
giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in cui la sorte gioca
con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior parte dei casi chi
«partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza e ripetuto qui, è
vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle sue legittime
aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è l’estorsione di (suo)
denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica, nobile, perfino mistica
dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente torto, questi autori?
Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta sopra ci permette di capire
perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto capitolo, è molto vicino al
grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati, ha l’unico effetto (e
senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e magari saldare alcuni
debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o con altri). Può anche
essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il suo senso cambia.
Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per questo meno
fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non accetta di
farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i microcosmi
limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la sua
sopravvivenza e il suo benessere. Depurato di ogni altro aspetto, qui il
gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze
ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia
vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con
sé stessi. Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o
della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando
– o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma
tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro
ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così
come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore
sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e
anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva
già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome
questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un
simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare
il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa
di un gioco. Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non
costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi
nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo
svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale
su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce
che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi
giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul
crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero.
Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e
realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente
il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio,
insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti
educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso
ludico e della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere
con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con
moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al
lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici,
numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un
linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità
«ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e
soprattutto «autorità competenti» sentite come estranee e predatrici. Un
ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di
esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e
l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois
e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi
chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia
formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise
barriere (regole): «Formalmente [...] [la] nozione di delimitazione è
assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo
ludens, p. 43). E sono d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza
dell’azzardo (del rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è
di natura una sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a
parità di voti decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione
religiosa, sorge la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio
guida la caduta dei dadi o la vittoria nella lotta [...]. [G]iurisdizione e
ordalìe sono radicate insieme in una pratica di decisione propriamente agonale,
ottenuta sia con un sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o
perdita è sacra per se stessa. Quando è animata da concetti formulati di
giustizia e di ingiustizia, allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è
dominata da concetti positivi d’una forza divina, allora si eleva nella sfera
della fede. Qualità primaria di tutto questo è però la forma ludica (p. 125).
La mia coscienza laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e donne giocano in
ogni sfera della loro esistenza; in particolare, esistono sacerdoti scherzosi e
autori come Gilbert Chesterton che parlano della religione come di una forma
suprema di umorismo. Ma esiste anche un sacro che è oppressione e nevrosi,
gerarchia e cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco
che è sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in
Amici miei) e violazione della barriera o del recinto che ci rinchiudono –
sacri o meno che siano. Perché il legame fra gioco e sacro possa apparire
convincente bisogna appunto insistere sull’azzardo come elemento più autentico
del gioco e quindi spingerlo all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A
maiuscola di Abramo o di Pascal. E l’azzardo così concepito e vissuto ha un
effetto paralizzante, che può essere riscattato solo da un intervento esterno:
da un’entità trascendente che ci conferisca arbitrariamente una grazia. Non
voglio negare che la grazia e l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me
laico, è la grazia che l’un l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta
atmosfera oracolare non trovo più nulla della serena intraprendenza, dello
sforzo ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del brivido presto dominato e a
sua volta goduto che tessono per me la trama del gioco. 9. Compagni di
gioco Torniamo ancora una volta alla bimba che gioca in una stanza. Il suo
gioco incontra resistenze, ho detto, che ne definiscono lo sfondo e ne
articolano le regole. Nel modo in cui ho descritto la situazione finora, le
resistenze sono offerte da quelli che comunemente denominiamo oggetti: le
pareti, la palla, la spillatrice. Immaginiamo però ora di introdurvi un altro
essere umano: affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e
osserviamoli mentre giocano insieme. In un certo senso, Tommaso e la palla
presentano gli stessi problemi. Anche di Tommaso bisogna tener conto, come
della palla. La palla non vuol saperne di rimanere in equilibrio sul cubo e
Tommaso non vuol saperne di dare la palla a Sara, quando l’ha afferrata dopo
l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i casi, questi inconvenienti possono
causare violente frustrazioni (nel caso della palla, come abbiamo visto, Sara
potrebbe fare i capricci; con Tommaso potrebbe litigare) oppure con entrambi si
può arrivare (magari dopo una successione di capricci e litigi) a una pacifica
convivenza. Se e quando ci si arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme
di regole cui il gioco deve adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli
esistenziali da scansare con abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli
fisici di una scatola o con la rotondità della palla. Il comportamento di
Tommaso diventerà parte della struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla
quale il suo gioco eserciterà pressione, traendone lezioni di grande influsso
su giochi futuri. (I maschi sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma
facilmente distratti. Tommaso stringe tanto forte la palla proprio perché io
mostro di volerla per me. Basta non farci caso, dedicarmi interamente a
qualcos’altro, e la lascerà andare.) Nel quarto capitolo ho citato un passo in
cui Piaget giudica impossibile che un bambino si dia regole da solo. Per il
tramite di Émile Durkheim, secondo cui la religione nasce dalla pressione del
gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non potrebbe imporsi all’individuo
senza rivestire l’aureola del sacro e senza provocare il sentimento
dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino, p. 98), questo giudizio
lo porta a collegare una volta di più il gioco e il sacro: La regola
collettiva è dapprima qualche cosa di esterno all’individuo e per conseguenza
di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed appare come il libero prodotto
del consenso reciproco e della coscienza autonoma. Ora, per ciò che riguarda la
pratica, è naturale che al rispetto mistico della legge corrisponda una
conoscenza ed un’applicazione ancora rudimentali del loro contenuto, mentre al
rispetto razionale e motivato corrisponda una conoscenza ed una pratica
dettagliate di ogni regola (pp. 22-23). Una volta di più, non sono d’accordo:
il bambino, come ho spiegato, può darsi regole da solo purché queste siano
viste come regole con il senno di poi di chi ricostruisce retrospettivamente il
suo sviluppo. Eppure, per una via che Piaget non approverebbe, anch’io arriverò
a concepire una forma di comunità come condizione, se non proprio necessaria,
almeno predominante di ogni gioco, che per me è quanto dire di ogni gioco
regolamentato: non tanto la comunità di cui parla lui, costituita spesso da
figure autoritarie che decretano le regole («Dal momento in cui un rituale
viene imposto ad un bambino da adulti o da ragazzi maggiori per i quali egli ha
del rispetto [...] oppure [...] da quando un rituale risulta dalla
collaborazione di due bambini, esso acquista per la coscienza del soggetto un
carattere nuovo, che è precisamente quello della regola», pp. 27-28), quanto
piuttosto la comunità del suo teatro interiore. L’itinerario cui ho appena
accennato includerà questo capitolo e il successivo, e il suo primo passo
consiste nel notare che le situazioni descritte finora non equivalgono a un
giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in generale «X gioca
con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto diversi. Quello che ho
descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come gioca con la palla, o
un adulto che disponesse di grande potere (e si compiacesse di averlo, e di
darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili come se fossero pedine della
dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi introduce un complemento di
mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo perché), che il «con»
introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi con Tommaso, o un adulto
meno squallido di quello immaginato prima giochi con i suoi simili, nel senso
che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o pezzi ma compagni del
gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa seconda possibilità? Per
capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una serie di sfide rivolte
all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale, non soltanto fisico,
quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna produttrice di una
figura possibile ma di solito non realizzata in quell’ambiente. Il letto è
fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi ci infilo sotto;
l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io lo manovro in
continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo andare, fulminando
la lampadina); il tavolinetto è fatto per appoggiarci bicchieri e tazzine
e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza. Quando un gioco è
praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o più persone presenti
al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi del gioco (o come
spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il repertorio di sfide di cui
il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano le une sulle altre: se
Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla credenza, Sara ci metterà
sopra un paio di grossi libri perché si riesca a salire più in alto; se Sara
s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà anche palle e cubi, e tenterà di
replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano più facili all’aperto. Con tanta
inventiva a disposizione, capiterà che qualche sfida sconvolga le resistenze
accettate come regole dai giocatori e cambi la natura del gioco. D’accordo che
la porta è chiusa e le pareti non retrocedono; ma, guarda un po’, se spingi
questa levetta la finestra si apre e tuffandosi oltre il davanzale si esce in
giardino! Ho detto che «costruire figure» è un’espressione metaforica; talvolta
però il gioco costruisce in senso letterale. Seguiamo uno di questi episodi per
un attimo, perché si tratta di un tipo di costruzione che in seguito acquisterà
notevole importanza. Spostiamo Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia
e osserviamoli mentre edificano un castello di sabbia. L’idea generale è
semplice: si scava, con le mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno
di sabbia umida per innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a
forma di mura. Se un solo bambino fosse responsabile dell’operazione,
lavorerebbe eccitato per un po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si
fermerebbe, contento di rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che
con il secchiello si può raccogliere acqua dal mare e circondare il castello
con un fossato; l’altra s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto
a mo’ di ponte, e il primo allora va in cerca di una corda perché il ponte
diventi levatoio. Una si serve di una pietra per rappresentare il portone e
l’altro ricopre il palazzo e le mura di finestre e feritoie, e allora la prima
fa sporgere armi dalle feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea
che l’uno offre cambia il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto
così mutato «viene naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il
contesto aprendosi a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di
coraggio e creatività. Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta
puramente mentali, o ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue
regole, e ha almeno un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un
giocatore. Gli oggetti possono essere inanimati, animati o anche umani; il
soggetto sembra dover essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli
di filo, con topi o con i loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi
avevo accennato – che la restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione
stessa fra enti animati e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che
abbia un solo soggetto sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò
come gli autentici solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa
elaborare un altro punto, illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un
gioco che non sia un solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di
gioco, così come due specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni,
perché moltiplica le opportunità di trasgressione ed esplorazione, di
apprendimento e relativo piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di
trarre spunto dal contributo degli altri per mosse più libere e devianti di
quanto lui mai sarebbe riuscito a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno
edificante della faccenda: se è vero che un gioco giocato insieme è più un
gioco di uno giocato in solitudine allora è anche vero che un gioco giocato
insieme è più pericoloso di un solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi
che, riunendo le loro forze, riescono a spalancare la finestra, molti avranno
rabbrividito e io mi sono affrettato a rassicurarli facendo capire che si
trattava di una finestra al pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non
risolto, perché è chiaro che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini
reali, diciamo il figlio di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai
piani alti di un grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi
si accentua, fra gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si
trovano spronati dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a
repentaglio l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati.
Ogni genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno
dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di una
concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo» (o
brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie» a
comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali,
addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o
la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma
insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono
componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in
blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere
disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto
giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita
(direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile:
meno gioco vuol dire meno umanità. (c) Il gioco è tanto più gioco se
giocato insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo
un animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove
il «con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli
e i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i
rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può
causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più
gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco
avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla
prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo
trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un
minimo di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica
precoce e continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari
vantaggi ma anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare
le nostre emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha
dato fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia
assenza) è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno
estreme) c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le
conseguenze più gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia,
è, direbbe Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento
di affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne
è invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che
esso si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per
forza ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è
violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine
definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con
l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama
un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e
sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha cominciato
a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono insieme.) In
modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali, come abbiamo
visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono necessariamente competitivi
e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta di uno o più avversari: i
giochi di regole sono giochi di combinazioni sensorio-motrici [...] o
intellettuali [...] con competizione degli individui (senza di che la regola
sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso di generazione in
generazione sia da accordi momentanei (La formazione del simbolo nel bambino,
p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è ancora soddisfazione
sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla vittoria dell’individuo
sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del diverso atteggiamento
espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario, di competizione (o
combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità autonoma o un senso
unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di esperienze distinte,
fra cui è bene non fare confusione. Per capirci, supponiamo che io giochi a
tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno spigolo o una parete: dopo un
certo numero di tentativi ed errori, capirò come avere la meglio e ripeterò
religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto spesso non sia ludico) le
stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di «funzionare». Smetterò di
esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi di imparare; il mio non
sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un dialogo con l’altro
giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e avventate, per vedere
che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà familiare e ciò che era
avventato verrà eseguito con maestria; starò allora giocando con un compagno e
traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva e la soddisfazione che
sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare l’una o l’altra cosa per
ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in tal caso: il gioco è stato
piegato alla logica di una prudente e oculata gestione delle proprie risorse)
un premio in denaro o una fama di ottimo tennista; di conseguenza, se pure
esploro e mi metto alla prova, corro rischi e imparo, quello non è un gioco
perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure è un gioco solo in quanto
riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a liberarsi, magari
inconsapevolmente, dalla logica della prudenza). La percezione del mio
«avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e sarà molto diverso
che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo caso si combatterà e
si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si ridurrà in proprio
potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o meno simbolica). Nel
secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel gioco e si vincerà se
si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e si vincerà su) sé
stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo capitolo, si è raramente
soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due giocatori combatteranno
e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco aveva prima raggiunto per
ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità di crescita, e il
contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno, saranno a loro
volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del potere
sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può fungere
invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di oggettivo o
di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio avversario in un
gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono intese nel modo più
comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi, ciò che ne traspare
è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il suo abbandono e anche
il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e umiliare un altro
giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e nel senso più
ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa rotte. 10.
Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di impersonare chi li
circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in senso positivo o
negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto occupati i protagonisti
del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli maggiori. Li vediamo
allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una bambola che fa le
bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un «parrucchiere»; la
mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a parlare, riempiva
quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse che cosa stava
facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra ricalcano con
imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i manierismi di un
altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto, usare parole e
frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo (proprio per la sua
innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare al sorriso (ma vedi
più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto appariscenti: le
mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le facce dipinte con
colori di guerra, le vite alternative vissute con amici, parenti e spesso figli
immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche analoghe e destinate a
rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio carnevale, il più
recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta passione,
sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho sostenuto
altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più articolata) di
scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da amici del cuore,
sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo o anche individui
odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra attenzione, sia pure per un
minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli in una pantomima: complici
una buona bevuta o una situazione di alto tenore emotivo, imitiamo con gusto,
con abilità, con estrema attenzione ai dettagli. Il momento migliore di Novak
Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi servizi fulminanti o dei suoi
incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei tanti trionfi nello Slam o
nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi turni di Flushing Meadows,
qualche anno fa, quando ancora aveva vinto poco e a un tratto, prima di
una partita, dilettò il pubblico copiando con sorprendente precisione i tic in
fase di battuta di Rafael Nadal e Maria Sharapova. Il piacere che ne provarono
gli spettatori era analogo a quello di cui ho parlato nel settimo capitolo,
esaminando il rapporto fra un artista e il suo pubblico: l’artista crea e noi
ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in noi la capacità (magari latente) di
vedere o ascoltare quel che lui vede o ascolta (e quindi mostra); l’attore
«entra» in un personaggio e noi ne godiamo perché comprendiamo che cosa voglia
dire entrarci. Nell’antica Atene la naturale teatralità dell’essere umano era
non solo praticata e apprezzata: in un mondo privo di scritture sacre in cui
sentenze e parabole erano raccolte dai testi poetici, drammaturghi e
commediografi dominavano la vita culturale. Da ciò Platone si dissocia con
severità nella Repubblica, bandendo ogni rappresentazione teatrale dal suo
Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni rappresentazione: il filosofo ha una sua
teoria in proposito, e ragionarne ci aiuterà a proseguire nel nostro cammino.
La teoria si compone di due tesi principali, una descrittiva e una normativa.
In primo luogo, Platone sostiene che ogni recita ha delle conseguenze sul
carattere di un individuo: assumere un ruolo significa identificarsi, per
quanto parzialmente e temporaneamente, con quel ruolo, e l’identificazione
lascerà tracce nella nostra identità – la contaminerà con le caratteristiche
del personaggio di cui ci siamo presi carico. Da allora in avanti, volenti o
nolenti, non saremo più soltanto noi stessi: avremo incorporato un estraneo che
continuerà ad abitarci, anche se forse in sordina e in disparte. Questo
estraneo potrebbe essere un criminale o un mostro: pensiamo a Bruno Ganz che
recita la parte di Adolf Hitler nel film La caduta, oppure a Medea o Riccardo
III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato da Ben Kingsley, o Atticus Finch
interpretato da Gregory Peck, o semplicemente una brava persona come il Mr.
Smith di James Stewart che va a Washington a dire la sua. Qualcuno vorrebbe
fare delle differenze fra questi casi: può essere pericoloso imitare un
malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel farlo con individui
normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la seconda tesi di Platone,
quella normativa, che stigmatizza non solo la cattiveria ma ogni forma di
diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica è «tagliato» per uno specifico
compito, cui deve assolvere con la pazienza di una formichina, e qualunque
attività possa distrarlo da tanta devozione va rifuggita come la peste. Bando a
ogni passione estranea, dunque; bando a ogni musica ritmata e suggestiva; e
bando soprattutto all’infezione che il contatto con ogni altra indole,
con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini potrebbe causare in un
individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure si trovasse su un
palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che recitare
monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso, per
confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe
invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e
queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua
repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi
normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma
caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica
ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella
illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna,
però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni
di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio
antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa
conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione
ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui
Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo
terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione
(Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’
il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro
può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un
attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si
adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò
qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi
in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e
non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci
ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere
passivamente, come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli
abissi della nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per
far crescere tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al
mondo, consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in
altri, nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed
espressioni – forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro
violenza, perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a
una singola voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista il
loro significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come farebbe
un bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di godere del
suo gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra parentesi,
spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli adulti:
quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal divertimento e
dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente scoperta dei
neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione: gli esseri
umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono sia pur
vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so quel che
fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto, non come
atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo faccio
anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali
atteggiamenti e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La
prossima volta forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo
così di nuovo la biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un
piacere tanto vivo è associato a una qualità di grande importanza evolutiva.
L’essere umano (ci ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si
realizza, non diventa quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri
esseri umani, traendone esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La
microfisica dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto
e ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto
miracolo dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo
intimamente consapevoli: guarderemo ai loro archetipi con venerazione e
sentiremo un profondo impegno nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e
indimenticabili modelli di vita e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non
avrebbero luogo (né lo avrebbero le mode che con stanca regolarità uniformano
un’intera generazione a uno stereotipo) senza l’umile sottobosco del rispecchiamento
quotidiano: di quegli impercettibili aggrottamenti di sopracciglia, torsioni
del naso, accenti peregrini con cui ci riscopriamo bambini impertinenti. Quel
nostro aspetto così serio e edificante ci è possibile perché da piccoli abbiamo
giocato e da grandi abbiamo continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a
impersonarci l’un l’altro. A impersonare anche i malvagi, perché anche da loro
c’è da apprendere, fosse solo per rimanerne alla larga: nel dramma della vita,
insegna Plotino, servono anche i cattivi caratteri, per dare la massima
completezza all’insieme. C’è di più. Quello dell’imitazione non è solo uno dei
tanti giochi che, inaugurati con aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere
con l’età fino a raggiungere splendide vette. È la base che sottende
tutti i giochi, il materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo,
torniamo sui nostri passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo
segnalato nel capitolo precedente (suggerendo che potesse risultare poco
significativo): quello tra giochi solitari e giochi fatti in compagnia.
Chiediamoci: esistono davvero, i solitari? Tanto per cominciare, un bambino non
giocherebbe affatto se non fosse coinvolto in un ambiente emotivo in cui si
sente (comunque stiano concretamente le cose) in compagnia di qualcuno, sotto
gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il “bambino in carenza”» dice Winnicott «è
notoriamente irrequieto ed incapace di giocare» (p. 162). Questo perché «il
gioco implica fiducia e appartiene allo spazio potenziale tra (quelli che erano
in origine) il bambino e la figura materna, con il bambino in uno stato di
dipendenza quasi assoluta e la funzione adattativa della figura materna presa
dal bambino per scontata» (p. 90; traduzione modificata). In termini
epigrammatici, «il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno» (p. 154).
Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una situazione in cui io stesso sono
occupato in un gioco senza altri partecipanti o testimoni, magari in uno di
quei giochi di carte che si chiamano proprio «solitari», e poniamoci riguardo a
questo particolare episodio la stessa domanda formulata sopra: sono davvero
solo, mentre gioco? Posso immaginare circostanze in cui la risposta sia «Sì»,
ma si tratta di circostanze aberranti, eccezionali. Se giocassi automaticamente,
pensando ad altro, potrebbe capitarmi di fare una mossa a caso e poi, ritornato
improvvisamente in me stesso, rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e
acquisirla come strategia consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità
potrebbe essere frutto di disperazione: le ho provate tutte e niente funziona,
quindi provo una mossa assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del
genere non sono da escludere: anche un comportamento individuale obbedisce alle
leggi dell’evoluzione, dunque non è escluso che in esso si verifichino
mutazioni stocastiche. Ma non è così che il mio comportamento si evolve nella
maggior parte dei casi. Quasi sempre mentre gioco «da solo», prima di fare una
mossa, io esploro più o meno sistematicamente e consciamente una serie di
alternative, e ne traccio almeno per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco,
colloco svariati «me stesso», in un certo numero di mondi possibili – ciascuno
contraddistinto da una particolare mossa – e confrontando fra loro queste
diverse eventualità decido infine quale sia la mossa da fare, o il mondo
possibile da abitare davvero. I vari me stesso coinvolti nel processo di
deliberazione appena descritto avranno caratteri diversi: qualcuno sarà
più audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi ama le carte rosse e
chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori presto i re e chi è
disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro volta tutti questi
diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone che ho incontrato,
da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla situazione in cui mi
trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune. Insomma, se conduco
il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui mosse e strategie ho
incorporato, stanno giocando con me (complemento di compagnia) e aiutandomi a
vedere la situazione in tanti modi diversi – a metterla appunto in gioco. La
morale di questo discorso è che gli autentici solitari sono, come già
accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che quello spostamento di prospettiva,
quell’esplorazione di terreni non altrimenti battuti, quella violazione di
quanto è noto e consueto che costituiscono il gioco mi arrivino dal nulla, non
abbiano a fondamento che un mio cieco arbitrio. Quel che succede più di
frequente, invece, è che gli apparenti solitari (e le apparenti «idee
originali» con cui dò un contributo «creativo» a un gioco fatto con altri)
siano giochi fatti in compagnia di persone fisicamente assenti ma ben presenti
nella mia pratica. E come ottengono la loro presenza tali persone assenti? Ho
usato la parola «incorporato» poco fa, applicando la stessa metafora di quando
prima ho parlato del fare del nostro «corpo un palcoscenico su cui l’altro può
giocare il suo ruolo» (e prima ancora ho espresso il rifiuto platonico di questa
forma di metabolizzazione del nostro prossimo): la presenza degli assenti si
ottiene imitandoli – scimmiottandoli oppure atteggiandosi e disponendosi come
loro secondo il modello dei neuroni specchio. Fatta salva la sporadica
occorrenza di mosse devianti e ludiche che emergano dal puro caso, l’imitazione
è la madre di tutti i giochi: ogni altro gioco si svolge su una scena che il
gioco dell’imitazione ha popolato di personaggi e storie. Ho sempre trovato
affascinante il fatto che la battuta che dà inizio a ogni ripresa
cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la battuta non ha senso: quel che
la segue non è un’azione; al massimo la rappresenta; coloro che vi «agiscono»
non stanno facendo quel che pretendono di fare, e tutti lo sanno – loro stessi,
il regista, il pubblico. Perché «Azione!», allora? Ci saranno senz’altro motivi
contingenti che hanno dato origine alla battuta, ma non m’interessano;
m’interessa invece che sia rimasta, perché se è rimasta il motivo è, ritengo,
che c’è in essa una profonda, illuminante giustizia. Nella rivoluzione
concettuale proposta nel quinto e sesto capitolo la vita umana era intesa come
un insieme di giochi più o meno regolamentati, più o meno vincolati a
parametri fissi, e per converso più o meno espressione di libertà; il gioco era
la norma e le attività solitamente giudicate serie erano giochi ristretti e
limitati. Qui possiamo arrivare alla medesima radicale costellazione di idee
per una strada diversa (in un labirinto, strade diverse ci portano spesso a
un’identica meta). Che cos’è un’azione? È corsa sul posto, routine,
acquiescenza a ogni abitudine e aspettativa? È ripetizione del già agito?
Forse, ma solo nel senso della straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui
l’unica vera ripetizione sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le
stesse cose. Nel comune senso della parola, invece, nella comune ideologia che
informa il senso della parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer
non agisce quando applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho
dato: tutto quel che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non
«fa» che confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che
scombina le carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro
ludico del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui
si manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il
gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una
produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta
a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il
modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e
ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!». 11.
Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un
abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII
dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono
a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo
compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei
giochi fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci
permettono di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi.
Abbiamo scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello
delle regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso
modo, da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le
arti figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il
fatto, sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che
quest’ultimo contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non
occupano spazio, che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto
ciò che occupa spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo
capitolo, quando ho paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal
suo gioco al procedere della scienza. Chiaramente quello della scienza è un
procedere metaforico, un metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la
scienza non si muove (per quanto gli scienziati lo facciano) e non può
letteralmente procedere o inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la filosofia
e tutte le altre discipline di natura verbale o mentale; se pure riuscissimo a
dimostrare che queste discipline hanno un carattere ludico, come potrebbe
esserci più di un’analogia fra il loro carattere ludico e quello, diciamo, del
tennis? Come potrei continuare a insistere che il tennis e il «gioco»
dell’Etica spinoziana sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa? Qui sono
in ballo (in gioco) due cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la nostra anima
è una cosa distinta dal nostro corpo, dunque gioca ad altri giochi. Il meglio
che io possa fare, si concluderà, è trascurare questa differenza ed evidenziare
alcuni tratti che tali diversi giochi hanno in comune: tornare cioè
precipitosamente a una visione analitica del gioco che lo riduca a un’essenza
astratta e abbandoni al suo destino tutta la zavorra – in particolare la
zavorra fisica – che finora mi sono trascinato dietro. Non sono d’accordo. Ai
giochi verbali e mentali voglio arrivare come Dante arriva in Malebolge, con
tutto il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non facendomi sostituire da un
ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per eseguire questo salto mortale
non è una bestia mostruosa, è però un’inversione che qualcuno giudicherà
altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui solitamente (e ingannevolmente)
vengono disposti i termini della questione. Qui sopra ho accennato un po’ di
corsa a «discipline di natura verbale o mentale»; ora però è bene rendersi
conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si riferisce a parole e
l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene associato a mentale si
tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più precisamente, si
tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da mentale, cioè mentale
sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si associa, che su tale
fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi accetti la radicale
distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del dilemma. Per
esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso, ha scritto
anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel deserto
emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero», quella
non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende «albero»
una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente (che,
presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle cose
astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i significati.
Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica contemporanea
Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto di
significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale
del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un
albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e
il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche
(un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni
psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che
cartesianamente attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello
cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito
che parla perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura
che è irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la
ricchezza e complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio
era il Verbo, non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie,
ma in quanto lo capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la
mente a reggersi sul linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo
ci siano molte differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e
quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per
rimanere attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado
di superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi
creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo
capitolo mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali.
Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del
linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli rappresentanti,
afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione fra menti.
Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B (un’idea, un
desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un linguaggio che
suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio significano B; A
recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B, che d’ora in poi
avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il linguaggio ne è stato
prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che sono le cinque meno
un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche tu verrai a sapere
che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per informarti di che
ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe tanto più
semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione potesse
avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta l’evoluzione si
sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di inconvenienti
(cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua, insufficiente
competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa teoria?
Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile obiettivo:
introducendo opportune complicazioni, una teoria può essere protetta da dati
empirici «recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello geocentrico
afferma che Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li vediamo
sempre molto vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo numero di
epicicli e i conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto
categoricamente ogni forma di controllo delle nascite? Perché dovrei
preoccuparmi? Forse che un Dio onnipotente, dopo averci detto «Crescete e
moltiplicatevi», non saprà salvare capra e cavoli? Una teoria avversa non si
affronta cercando di confutarla ma costruendole accanto un’altra teoria più
plausibile, più potente, più elegante e lasciando che sia il pubblico a
decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il pubblico rimanesse fedele alla
concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero delle opzioni disponibili:
avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian, professore di psicologia alla
Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica i suoi sentimenti o stati
d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira, quindi dell’efficacia della
comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre il 38% dipende dal suo tono
e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body language – il che
spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali come la posta
elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti emotivi. A riprova
della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della posizione
tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere. Categorizzerebbe malintesi
e corti circuiti come incidenti di percorso (privilegiando così la norma sui
dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al modello un epiciclo: la mente
non codifica il suo significato in un messaggio soltanto verbale ma in una
performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del viso e del corpo, ritmi e
inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo comportamento venga
qualificato come body language segnala il tentativo di asservire il corpo a
ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non gli appartiene.) Io
invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la morale opposta: noi
comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in comune non solo
sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché siamo innanzitutto
corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri corpi (e a
rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione, ogni
indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un esperto
marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della massa
d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare con
un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento
occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche
che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione
di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più
familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di
suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo
comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione
che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore
siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi
di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per
me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto
o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti,
echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione
diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione
d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E,
invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una
specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una
specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma,
si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho
descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato:
in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che
gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante
dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la
stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci
permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può
raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario
sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci
queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica;
e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello
scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è
suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili
ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i
fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di
dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà
di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e formulerò
invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del mentale,
mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione fondamentale del
linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere? Ai miei avversari
sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver fornito
un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere narrativo
del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare priorità,
e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi perfettamente
comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto capitolo ho detto
che un gioco come il calcio o gli scacchi è un microcosmo nel quale
rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo rischioso praticare
«dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione: qualcosa è sempre
rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi aspetti ma se ne
differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in cui il gioco
vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in cui
l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse aiutarci in
una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione), c’è da sperare
che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti sono simili,
non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose, una
rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che gli
somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue
modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile
che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i
dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo
disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il
linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo
come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che
riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente
particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente
queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli
consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in
primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il
linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti
e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso
combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le
parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto
quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il
prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più
vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro
più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come
cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro,
dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare,
potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che
equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi
il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca
inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il
gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si
potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle corrispondenze
fra parole e cose che sono alla base del significato delle parole. Quando ero
piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi di bottiglia (di
birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti e battaglie.
Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il soldato era
morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che il tappo
fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio, invece
di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono
comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui
abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando
padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri
errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e
intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi
di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica.
Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e
pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le
regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine
«scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è
scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le
norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento
linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire
un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai
poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a
volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto,
comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa;
bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline
(ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa)
normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono
quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e
(altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva
linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale (cercando
così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o metonimia
su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore estetico. L’uso
comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello discusso nel
sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo c’è l’assoluta
licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini enunciati della
filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the mat; he saw a
big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali, costruiti con
termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno indissolubilmente legato a
una singola associazione, e proprio per questo, direi, incapaci di esprimere un
qualsiasi significato o dar vita ad alcuna comunicazione. Né l’uno né l’altro
degli estremi (per quanto citato nei testi di filosofia del linguaggio) è mai
effettivamente realizzato; quel che incontriamo nelle nostre quotidiane
vicissitudini è un universo multiforme di mediazioni fra gli estremi. Incontriamo
parole e frasi che in certa misura fanno ossequio alle norme (tanto maggior
ossequio quanto minor fiducia abbiamo nell’ambiente) e in certa misura le
trascendono colorandole di esperienze personali, immettendovi il gusto
saporito, talvolta un po’ nauseante, di una sceneggiata che coinvolge tutto il
corpo, non solo le labbra e la lingua. Come in ogni altro caso, regole rigorose
diventano l’occasione per una creatività più raffinata, per un gioco più sagace
anche se indubbiamente più difficile, come il bridge è più difficile della
briscola. Pensate a quanto è costrittiva la forma di un sonetto: quattordici
endecasillabi divisi in due quartine e due terzine, rimati secondo pochi e
precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi, la grandissima maggioranza dei sonetti
è mediocre e noiosa – adiacente all’estremo regolamentato dello spettro
linguistico. Quando però recitiamo (la poesia va recitata ad alta voce, per
motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un capolavoro di Dante, Petrarca o
Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle costrizioni non avremmo potuto
scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E la medesima libertà è espressa,
non sempre a questi livelli, da ogni parlante/poeta in ogni linguaggio: quando
inventa una battuta, adatta a nuovo uso una parola, raccoglie e concentra le
sue emozioni in una frase a effetto, improvvisa una cantilena per un figlio che
non vuol saperne di dormire. In ciascuna di queste occasioni la vocazione
ludica del linguaggio si riattiva: le regole diventano un trampolino per un
tuffo ancor più avvitato e carpiato, invece che una camicia di forza. È
arrivato il momento di affrontare il linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di
distinguerne con cura le due modalità che prima avevo indicato. Il linguaggio,
dicevo, può essere usato da un parlante per descrivere qualcosa di cui il suo
interlocutore non è e non è stato testimone; in tal caso, è il significato del
linguaggio a essere assente (a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante
può essere assente: l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio
apparirgli come testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più
inquietante, per la mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della
comunicazione, delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di
creare? Quando leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una
sparatoria, di solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»):
capisco quel che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato
abituale e le frasi sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero
che molti testi di filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine
stantia e retriva del loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un
linguaggio, e io li leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e
capisco il senso di questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti
suggeriscono una visione del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a
quella tradizionale? Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il
contenuto di un racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la
persona che lo racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci
facciano un racconto con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso
disastro ferroviario in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa?
Che, pur assumendo che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un
volto impassibile, ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se
intendiamo «informazione» nel senso più comune, e profondamente legato al
modello mentalistico del linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà
come faranno degli enti immateriali a entrare in un pacchetto!) che va
trasferito da una mente all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che «informazione»
ci sta dicendo: se a contare per noi è quanto una comunicazione ci forma, ci
cambia, ha un influsso temporaneo o permanente su di noi. Se prendiamo il
termine in questa seconda accezione (che io preferisco), dovremo ammettere che
le parole scelte da ciascuno dei narratori fanno un’enorme differenza per
l’efficacia del suo discorso: che il loro suono, il tono e il ritmo con il
quale sono pronunciate, le loro associazioni, le risonanze o dissonanze che
hanno con altre parole dello stesso discorso, la forza con cui tutte queste
parole sono concatenate l’una con l’altra suggerendo un’immagine unitaria e
l’inventiva con cui questa immagine si rinnova senza sosta, illuminando angoli
oscuri e chiamando in causa prospettive balzane, possono coinvolgerci in un
gioco vivido ed eccitante, in cui costantemente elaboriamo aspettative sul
prossimo passo e le vediamo confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e
frustrazione e incanto e disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi
stessi quel territorio e di conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se
il territorio non somiglia affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha
informato. Oppure le parole possono essere spente e banali, sfilacciate e
risapute, e dovremo fare un grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su
quel che vogliono dire perché sembra che non vogliano dire niente, e alla fine
ci sarà difficile ricordarle e capire che cosa è successo, in India. Un logico
sentenzierebbe che entrambi i discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo
stesso valore di verità, e magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di
verità» siano stati definiti in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere
che pensieri e valori di verità hanno poco a che fare con quel che succede
quando ci raccontiamo qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza
esiste, non ci sono dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il
racconto non ha altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è
innanzitutto magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche
alterazione di timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi
fa essere qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto
diverso ma adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del
linguaggio non è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che
ascoltassi lo stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe
più nulla e io mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e
sovverte, inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare.
Anzi, meglio: solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e
sovverte, inquieta e soddisfa, perché come al solito i nostri racconti
quotidiani sono compromessi fra trasgressione e conformismo, scoperta e
stereotipo, quindi sono racconti fino a un certo punto. Al limite, se il
linguaggio fosse usato in modo puramente rituale e prefissato, non lo staremmo
nemmeno a sentire. Veniamo ora alla scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità,
e anche qui la mia posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due
diversi estremi dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione
scritta, cui ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri
alle ore 18.05 la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto
dall’estremo opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia,
l’archetipo del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio
d’agenzia – anzi, per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la
posizione avversa interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano:
basta esprimere il significato giusto, inteso come entità astratta e mentale.
In un testo letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le
sentiamo anche se leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e
maestria (con la maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla
pagina dei personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole
diverse, se pure dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa
concepirebbe come la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non
avrebbero alcun effetto. E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra
davvero in circolo nella mia persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è
perché sa trasmettermi tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un
semplice fatto (come vorrebbe l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo
linguaggio economico ed essenziale conferisce invece maggiore urgenza ai timori
e alle ansie che si sono immediatamente scatenati in me appena ho visto queste
parole insieme – «Corea del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo,
questo dispaccio (fittizio) è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse
dimostrato che non esistono i significati come entità astratte e accessibili
solo a delle menti, e che non è il rapporto con significati astratti a
qualificare il linguaggio come tale? a fare di un suono o di uno scarabocchio
una parola o una frase? No di certo. Dopo tutto quel che ho detto, anche chi
volesse accettarlo potrebbe credere che, in aggiunta a tutto quel che ho detto,
ci sono i significati astratti ed è la loro presenza a conferire dignità
linguistica a suoni e scarabocchi. Ma non era mia intenzione dimostrare niente del
genere. Quel che ho cercato di fare è stato difendere una tesi più debole ma
per me d’importanza cruciale: dei suddetti significati non abbiamo bisogno,
possiamo farne a meno. Il nostro linguaggio, anzi il nostro comportamento
linguistico, è parte del flusso continuo di tutto il nostro comportamento, che
noi siamo in grado di interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho
detto quel che ho detto?) così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il
latrato di un cane. Come con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche
con il linguaggio possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità,
perché nessun altro mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto
articolato, ricco di tanti dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto
generoso nell’offrirci giochi d’insondabile profondità e complessità –
microcosmi infinitamente interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura
ludica del linguaggio si combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a
ogni sorta di mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che
cammina; ma, parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere
e farci paura molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e
lasciarci coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non
siamo mai stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo
creare lo stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro
come questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con
cura, la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa –
cura di rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare.
Ho chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare
l’uso del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo
fosse l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno
vestigiale dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che
all’orizzonte si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non
lo è ancora diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si
gioca. All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di
«traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per
strada la fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono
venuto sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un
importante elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle
poetiche o letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io
qualifichi tali creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o
anima o mente che dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono
rimasto, quindi, in un universo che non ha più nulla di spirituale – un
universo fatto solo di corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo
stesso obiettivo che mi sono posto, prova evidente di una mia confusione, come
se volessi ammettere oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente
all’ambito fisico e spirituale? In realtà sono queste domande a provare
qualcosa: quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il
cartesianesimo, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo
più semplice e chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo
essere un modo di vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal
corpo. Un corpo si anima quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano
di spirito ludico: è spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire
«in quanto danza», purché per danza s’intenda una pratica creativa, non
puramente rituale e aperta ai movimenti della parola e del pensiero: una danza
nello spazio esistenziale.) La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a
buon mercato: anche se giaccio del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata
senza speranza di salvezza alla routine più inflessibile, sono comunque una
mente, una sostanza pensante; all’ottusità del mio corpo è comunque offerto
questo riscatto. Per me invece lo spirito compare quando il corpo si accende di
vitalità; il suo fiato è quello che avverto quando qualcosa mi stimola, mi
provoca e mi risveglia; e occuparsi di libri o concetti non dà nessuna garanzia
che lo spirito sia presente – basta guardare al mondo accademico per rendersene
conto. Siccome anche gli estremi di questo spettro sono astrazioni teoriche e
ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione fra di essi, tutti noi siamo in
ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e in parte inerti. Lo siamo, però,
non come convivenza di due entità radicalmente distinte ma come coesistenza di
due distinte modalità di comportamento di una medesima entità. E, in
conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che «il gioco, qualunque sia
l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si riveli in esso un
carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è spirito, cioè materia
che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco (cioè la materia) è
spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono stupendi. L’aspetto
fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato in tempi recenti
(posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella tesi seguente:
la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne colgo con
assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso sbagliarmi. Posso
sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza, ma non sul fatto
che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico detentore di tale
certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o voglio, non può far
altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al riguardo.Ci sono voci
molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La psicoanalisi stabilisce
quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base a un’osservazione del
mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le intenzioni e i desideri
che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di poter determinare se ho
un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma, per quanto in difficoltà
fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia padrone a casa mia (cioè
nella mia mente) continua ad aver fortuna nella cultura popolare, sostenuta da
potenti alleati: la responsabilità religiosa che ognuno deve assumersi per i
suoi peccati, la responsabilità legale che deve assumersi per i suoi crimini,
la responsabilità politica che deve assumersi per il suo voto. In tutti questi
casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo ha voluto fare, e solo lui (e
magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al massimo, potranno fare
congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un verdetto al di là di
ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di ogni dubbio,
ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il soggetto ha con sé
stesso come sostanza pensante. A giustificare questa convinzione c’è il modo in
cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe la funzione nota come
coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla nostra vita interiore,
incapace di errore, custode della verità del nostro essere. Io so che cosa
provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà un responso infallibile;
nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro ha diretto accesso ai
miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così concepita è un mito: non
esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi che abbia il compito di
farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una serie di episodi
indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla molteplicità che noi
siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo, un’obiezione, verso
l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta dirigendo i lavori. La
coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato di un’azione politica
(reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico esercizio critico che ha
come scopo la conservazione dell’ordine sociale – ritenendoci costantemente
osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non intendo sviluppare
ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui questo discorso
interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del significato
sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che Cartesio giudicava
infallibili, a determinare la dignità linguistica delle parole e frasi che
pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io sostengo l’inverso (e
sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che infallibili). La mia
posizione richiede così che si contesti il presunto carattere originario del
mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal non-mentale, e per
raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una volta una parola.
«Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di «mentale», è un
termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto privato di qualcosa,
come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo lavoro. Qual è dunque la
privazione che costituisce il dominio privato del soggetto e della sua mente?
Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante barriere si erigano per evitare
che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo spazio in cui giocano i
bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo gli oggetti che possano
essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà lui stesso a giocare,
troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario su un campo di calcio o
tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel quartiere o in fabbrica. E
spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare invece di farlo: si
accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui ogni mossa è lecita
invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del) suo corpo. Ma non si
è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con sovversivo spirito
ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del principale, essere
presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la nostra specie (e forse
non solo, ma è arduo decidere la questione) ha introdotto un’ulteriore misura
cautelare: molte parole sovversive, molte associazioni inappropriate, molti
racconti fantastici che attentano alle norme del vivere civile li enunciamo
solo a noi stessi, li vocalizziamo senza emettere alcun suono, senza neanche
muovere le labbra – li priviamo di ogni contatto con l’esterno. Ecco in che
senso il mentale dipende dal verbale: i pensieri sono parole non dette –
immagini mnestiche di tali parole, secondo l’espressione freudiana – perché
l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e apprezzarle, non c’è o forse non
c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo molti sforzi e qualche delusione, a
farle risuonare in un pubblico silenzio, unici testimoni della loro presenza.
Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto opposto di quello cartesiano. Quello
era popolato di infinite idee, acuto e perspicace nel cogliere quanto sfuggisse
ai sensi del corpo, solidamente risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi
su tutto ciò che non gli appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico,
povero di contenuto e di struttura, in costante pericolo di venire assorbito
nel pubblico chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con
straordinarie capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali,
però, è che ci risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il
filo, o cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo
avuto ieri; e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che
siamo penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non
ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così
importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e
capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e
abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama
«pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi
di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la
lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli
pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro
che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando
della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed
efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni).
Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci
si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero,
più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la
mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella
mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare
solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che
potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da
intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte
dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono
fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro,
trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro
saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la
stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i
critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e
passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo
esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che
starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che
le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per
le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento:
non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di
vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo
tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come
s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima
mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e
delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o
raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua
disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un
estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna
Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa;
certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come
racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura,
i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si
rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia,
perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma
di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a
giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione
propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo
che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più
avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo
per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di
distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume,
scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di
sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere
in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la
forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe
per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno
abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo
capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi
della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba
mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano
essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande
ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro
carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non
meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non
implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio,
la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui
s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la
noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione
e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale
affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente
nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse
intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero
queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la
soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di
crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e
sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi accusatori
e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di aggiungere dettagli
al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato un passo della
Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio, occorre riprenderlo
in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta esponendo uno degli
elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione che considera
derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la concezione
realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia mente) e
dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo che gli
corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di poter
prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia possibile
che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e il
tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa
spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia
prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida
con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge
il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]»,
Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo
«tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di
Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo
prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un
comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo,
un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il
comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte
previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto
dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non
sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo
il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la
conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e
l’immortalità assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come
tanti altri giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre,
usa parole magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in
contesti e in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta
devianti fra loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio –
lo stato d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente
nuovo. Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il
principio in base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo
comportamento non fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e
l’altro principio per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio
viene detto «metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e
quelli cui lo stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra
visione dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio.
Giocando s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello
stesso modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle
elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati
alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà
quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che
vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste costruzioni
decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra realtà
quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò càpita,
riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione filosofica
abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che viene detto
scientifico. Giocando abilmente con le lenti, Galileo riuscì a trasformare il
nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se vogliamo osservare un
pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la testa e aguzzare la
vista. Ma il mondo fisico di Galileo non esiste più, come non esiste più quello
di Aristotele (noi non ci viviamo più); altre costruzioni filosofiche ne hanno
preso il posto e sono oggi al cutting edge della scienza. Nel frattempo, i
nostri giorni continuano a essere popolati di pratiche e oggetti che sono il
lascito di giochi «scientifici» a lungo accantonati – di ciò che quei giochi
sono stati in grado d’insegnarci. La macchina a vapore fu inventata in base
alla teoria del flogisto, l’esempio più tipico di teoria screditata; molte
persone colpite da tubercolosi sono state curate dallo pneumotorace, anche se
la teoria «meccanica» su cui lo pneumotorace aveva basato il suo successo,
avanzata da Carlo Forlanini, si è volta presto in una simpatica curiosità. Nel
prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le fila dei nostri sforzi. Qui voglio
chiudere con una storia: un esempio di come funzioni il gioco
filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in meglio, forse
orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti che riferisco
sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The Mosquito Solution
e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le zanzare sono state
responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre
gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come
protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in
Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già
prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui
si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi
massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto
efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali
piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey
incontrò per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e
delle sue difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale,
pensò che, invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice
genetico in modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In
primo luogo, bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono
gli esseri umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione
genetica. In secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita
abbastanza a lungo, e fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni
mortiferi ai loro discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti,
le femmine siano molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili;
il primo problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu,
ugualmente per caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di
come la tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era
pronto: si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene
autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta immessi
nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima di
soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie.
Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri
paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti
protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato
questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio
nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine
sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano?
Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia
ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo,
intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande
globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un
pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una
specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani
come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un
esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e
prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un
disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che
cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma
invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei,
mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete
giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una
volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato
qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto
che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita.
Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo
giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle
conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima
che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che,
sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano
che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe
estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E
dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta:
che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella
soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non
ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio
promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi
fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge,
giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica
l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere,
non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco»
filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è
vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a
obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha
inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada
competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo
ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile.
Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora
con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore
destrezza; le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio
articolato; ha imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma
l’acqua che scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci
ritornerò fra breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a
dispetto delle complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a
scacchi, all’arte, alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi
senza alcun fine esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole
e istruttiva, appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è
imposta o le hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare
lo spirito che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo
delle operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente
soddisfatta. Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica
qua talis e nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo
atteggiamento risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul
piano dei valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente,
diciamo di essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della
saggezza, e fosse un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con
creatività e passione, ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che
meglio approssima la scoperta della realtà o della verità o della saggezza,
senza riguardo alla creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente
potesse pervenire alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in
ambito filosofico, gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto
il suo corso: Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è
definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la
saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e
trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di
verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e
partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere
ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire.
Nello stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo
scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio
se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto
comune, il che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro
e della saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro,
dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne
hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente,
peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e
comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non
fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un
testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di
sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri,
eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato,
dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si
ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi
il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da
percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi
lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in
quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo
libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e
perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco
(palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come
suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita,
allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse –
devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo
occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere
le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con
le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi
siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive,
allora è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una
pietra no; se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura
si stacchi (almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra,
allora formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no.
Supponiamo però di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è
vita, la vita è gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il
gioco/vita si svolge in uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali
premesse, non è forse gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due
volte nella stessa configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi
meandri o della sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme
delicate e idiosincratiche (ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di
una foresta che alterna grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne
flessuose? E non è forse vero allora che al mondo non esiste nulla di
inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi modi in cui possiamo
giocare con un altro: trattandolo da strumento o da compagno. Vorrei aggiungere
ora che trattare un altro da strumento significa trattarlo come un oggetto
inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio rapporto con lui (o lei)
sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i suoi tasti per ottenere
l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà percepito come un’oscura
minaccia e sarà causa di disagio o di terrore; sentimenti così penosi hanno
però un ruolo significativo – segnalano la possibilità ancora indistinta di
passare da un’utilizzazione a un incontro, quando si riescano a dominare
l’ansia e la paura. La medesima pluralità di atteggiamenti ci è disponibile nei
confronti di tutto l’essere. Possiamo giocare con la natura come con una
risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante di averla ridotta al nostro
servizio all’inquietudine che quando meno ce lo aspettiamo ci si apra la terra
sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone e petrolio al preoccuparci per
il buco d’ozono e il riscaldamento globale), oppure come con un compagno,
raccogliendone i suggerimenti, facendole delle proposte, cercando di costruire
insieme un bel castello. Chi vive il rapporto in questo secondo modo (molti lo
fanno, pur se spesso non hanno parole per dirlo) sente che una montagna lo
sfida ma anche lo assiste premurosa nel trovare una via per scalarla, che il
mare ti avverte quando vuole lottare con te, che la macchina ha piacere a
distendersi veloce fra curve e dislivelli con sapienti cambi di marcia, che il
caffè mattutino parla di energia, di fiducia, di piani ambiziosi per la
giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno pensi che il gioco mi ha
preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro, destino. Ma non posso che
congedarmi con una provocazione. Ho percorso un labirinto per dipanare il senso
di un’attività che è a sua volta labirintica, ferocemente intricata. A quello
che sembrava il termine del labirinto ho trovato un’indicazione, ancora in
buona parte misteriosa: che non si tratti di un labirinto qualsiasi, che la sua
natura labirintica sia la natura dell’essere in quanto tale. Perché solo chi
gioca, nelle mille disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è: è
vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere; il resto è uno
zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una risata divertita per farlo
scomparire.Ermanno Bencivenga. Keywords: il
piacere, teoria del linguaggio, logica libre, metodo della logica, calcolo di
predicati di primo ordine, logica di termini singolari, piacere, bello, logica
dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Bencivenga” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788090701/in/dateposted-public/
Grice
e Bene – Tancredi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Maruggio). Filosofo. Grice: “Molto bene”. Figlio da Lupo e
da Perna Longo, entra nell'ordine dei Teatini e fu professore. Lascia
importanti opere come l'Apologia del Tancredi e la Summa Theologica. A Maruggio,
in sua memoria è stato intitolato l'istituto comprensivo e una via
cittadina. Opere: “Apologia del
Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S. inquisitionis circa haeresim” “De
immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”, “Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso
del Bene. Nacque in Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della
diocesì di Taranto, come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi
dirli, ed è Commenda della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le
latine lettere, e le greche, la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini,
e ne professa l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di
lettore di filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per
cui ebbe in Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi
pensando e scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte,
e fu predo decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del
S. Uffìzio, e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine co’Tea-
tini Vincenzio Riccardi, ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y emendazione
dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella
congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio
de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di
modedamente rifiutare. On-? de terminò di vivere da semplice religioso in Roma.
(b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di Ascanio
Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta dall'arcidiacono
Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione di
quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha
parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag.
i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis
moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate, Dubitationes morale!.
Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa
Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill.
Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per
cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della
morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai
di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi
3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte!
di/lributttm. Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud, <5* Claud. Rigaud 1650.
in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan, O* Mar. Ant. Ravaud
in f. 5. Trattarui morale!: videlicet de Conscientia; de radice re/litu- rioni1
aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii &
irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti!, ubi etiam da alagiti
(5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo. Avtnione Guill.
Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi fregia in virj suoi
libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i reijitlri di S.Ao'* ea della
Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j.
e fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E poi Avtniont Jo. Fiat. T.z.
in f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli attribuire a quell’ Opera le
aggiunte fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y. Inquisitionit. (d) Il
Vezzofi lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il Mazzucchelii d’aver det-. t».
Digjtized by Google BENE BENEDETTI.,99 • 6. De Officio S.
Inquisitionis circa h<trejim cum Bulli* tam voteti- bus quam recentioribus
etc. Lugd. Jumpt. ] A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore poi compose, e vi uni le
seguenti: Additiones de loci theologicis ad tomo de Officio S. Inquisitionrs
perneceffa• ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi riftampò in 8. fenz’
alcu- na data, coi titolo di Trattanti in vece di Additiones. 7. De Juramento,
in quo de ejus 0" voti rclaxationibus &c. cui Dectftonet S- Rotte
Romana accedunt &C- Lugd. fumpt. guetan, 0" G. Barbier. in f,
CXI. da Capoa, ha rime nel Sello libro delle Rime di diverfi eccell.
Autori nuovamente raccolte ec. da G. Rufcelli. Vene*. G.M- Bottelli 1553. in 8.
(a), CXII. e Canonico Aquilano, diede alla luce: L' Imprefe della Mae/là
Cattolica di D. Filippi di Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate nel tumolo
ptr la Jua, morte eretto dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec. Aquila Lepido
Faci 1599. in 4. Toppi Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI (Giuf. dilettò di Poefia
volgare, ed era Paftor A/cade della Colonia Ater- nino, di cui fu Vicecuftode,
e vi fi denominò Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia de’ Velati di fua
patria egli era Principe nel 1717. (r). Fu anche accademico Infenfato di
Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò dall’Aquila
nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti T. 3. p. 346. S. BENEDETTO, Arciv. di
Milano. V. Crifpo (Benedetto ), BE-. to, edere (lato il libro de Comìtiis unito
dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti moralts: elfendo quello un
libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a quello unito. Ora in primo
luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di tutto ciò; e foltanto
riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io pure ho fatto, unendovi
deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come ognun vede. Ma poi non fo,
fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione. Io non’ ho il libro, ma lo
trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce Detiene (sbaglio prefo pure
dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de Comìtiis; e ciò, eh' è più, il
Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente dice:,, Io oltre l’ultima edizione
del libro de Co-,, mitiis etc. fi regillri nel modo, che fiegue: Tbeologia
moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis etc. II. de Alagiis etc. Un trattato
fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee unirli. (a) Quadrio, Crefcimbeai,
Tafuri. Tommaso Del Bene. Keywords:
Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale, cavalleria. Il santo
cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia, abiuratio,
conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786132173/in/dateposted-public/
Benedetto
(Crema). Flosofo. Insegna a Padova,
di cui divenne in seguito rettore. È ritratto in un dipinto di Giovanni Busi
detto il Cariani, allievo del Giorgione. Giovanni Benedetto da Caravaggio. Benedetto.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benedetto” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Benincasa – il nudo maschile nell statuaria italiana all’aperto – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Eboli).
Filosofo. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la svolta
dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a
turning point!” – Studia a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò
a lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von
Balthasar) per poi organizzare e curare mostre d'arte. Membro della Commissione Consultiva Arti
Visive della Biennale di Venezia e consigliere del Ministro per i Beni
Culturali e Ambientali. Insegna a Macerata,
Firenze e Roma. Scrisse saggi storico-critici su vari artisti. Opere: “Chiesa e
storia di Suhard e il Concilio Vaticano II, Paoline; “L'interpretazione tra futuro
e utopia” (Magma, Roma); “Poetica della negazione e della differenza” Il
Giudizio Universale (Magma, Roma); “Sul manierismo: come dentro uno specchio” (La
Nuova Foglio); “Babilonia in fiamme: saggi sull'arte contemporanea” (Electa,
Milano); “Architettura come dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi
sul pensiero antico, medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura
e arte” (Dedalo, Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C,
Roma); Oskar Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C,
Roma); Georges Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock: opere” (mostra,
Bari, Castello Svevo) Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici
sull'arte contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto
Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte
contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori,
Milano; Spirali/Vel, "Alfio
Mongelli: infinito futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti:
arte Professore: una nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano).
La citta disalerno ricerca repubblica repubblica archivio repubblica biennale-il- psi-fa-incetta-di-poltrone.
html1http://ricerca.repubblica. it repubblica/archivio/ repubblica
artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni. html2 lacittadisalerno/ cronaca
/benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto%20ieri%20a%20 Roma, autore
importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni Culturali%20e%20
Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori giudiziari, su
errorigiudiziari.com Carmine Benincasa.
Keywords: il nudo maschile nella statuaria italiana all’aperto, implicatura
plastica, la svoglia dell’interpretazione, umberto mastroianni, nudo maschile,
statuaria, il segno del teatro: rito, mascara, anabasi, arte come dis-identita,
futurismo, arte futurista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786101238/in/dateposted-public/
Grice
e Benvenuti – filosofia italina – Luigi Speranza (Montodine). Filosofo. Grice: “A good thing about
Benvenuti’s discussion of Agostino’s semiotics is that Benvenuti has a strictly
philosophical background, rather than in grammar or linguistics or belles
lettres, or even ‘theory of communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine
as *I* do!” -- Grice: “You gotta love
Benvenutti. He dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew
he was a saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of
Agostino’s semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs,
and inferenza – For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can
signify ‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali
including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by
one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno
scritto).” --. Cesare Benvenuti Cesare
Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire
dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare
un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città
di Dio Biografia Cesare Benvenuti nacque
dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La
prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole
tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due
fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della
Congregazione lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di
filosofia e teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie
città. Nel 1708 a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con
l'incarico di presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare
i giudizi relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe
la sua fama di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé
come teologo ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della
cause dei santi e si adoperò in particolare per la beatificazione del
venerabile Pietro Fererio che fu beatificato da papa Benedetto XIII. Cesare Benvenuti era anche dotato di
particolari capacità diplomatiche tanto da ricevere incarichi in tal senso in
Germania e a Vienna. Assieme a questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche
le pratiche caritative della sua ordinazione sacerdotale visitando e
prendendosi cura dei poveri e degli ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu
colpito da apoplessia e quivi morì nel 1746.
Altre opere: “Vita del gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e
dottore di S.Chiesa” (Stamperia Barberina); “Discorso Storico-Cronologico-Critico
della vita comune dei chierici de' primi sei secoli della Chiesa” (Stamperia di
Antonio de Rossi); “La città di Dio, opera del gran padre s. Agostino vescovo
d'Ippona, tradotta nell'Idioma italiano, Stamperia di Antonio de Rossi). stone
lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune deg'apostoli &the sono
i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne parla: la rispondechica vedere
la poca forza dell'argomento negativo. Vita comune de primi fedeli. Uti. Vita
comune e votiva de Santi Apostoli e de primi Fedeli Passò succesivamen s e la
Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e. De' terapeuti, che se ne dice.
Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre nelle decadenze di questo
primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo Sentimenti d'Origene. Della
Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo di vivere degli
Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino. SE G10LO 1L Comunità de' beni nello stato
dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune votiva del clero di
Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della comunità del clero
ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli Eclesiastici cosa
scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di Corinta ed
Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III. Clemente
Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva, triferita
da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI. III.
praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa
diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui
convertitieconfa. gratialculeo del Signore on la Cornunità
de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario
Pittavienfe. Esortazione del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici.
Comunità de'Cherici della Chiesa Rinocorurese. Basilio come parla a'
CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che scrise di Ermogene e di Zenon
neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se Epifanig. Che racconta Severo
Sulpizio della Povertà d'u n Prece, Tofimonio Postumiano. Del Clero vivente in
commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De Clero di Ambrogio di Milano. De
Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi. Della Comunità di Agostino nelle
vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo sopra lot Staro di Chorici.
Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu nità d'Agostino nel
PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta la Comunità di
Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa perl'Africa. Di
Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero Africano corso à Roma à
cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio possa
farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita comunend
Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli
Ecclesiastici della Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de
Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente
tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela
Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo,
Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione
di Longobardi nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e
dell'oratorio di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici
Regolari SECOLO VI, m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona
indicata negl'tti di Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il
Concilio Ilerdense. Che il Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio
d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica
sandria. Ill.Zin Canone del Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien
intejaper Buplio Diacono. Comunità Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1
Turonense. Che fece Leobina Vescovo nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni
del Concilio Arelaten fededucesi il metodo del vivere Chericale di que'
tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa nel Concilio di Tours. De vivere in
comune de Chericj in Romaforzo il Pontificato di Gregorio Magno. Note Fonte:
Francesco Sforza Benvenuti, Storia di Crema, Volume 2, 1859 p.37Filosofia Filosofo
del XVII secoloTeologi italiani 1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino.
Don Cesare Donato Benvenuti. Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords:
paganismo, religione romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i
ostrogoti, i longobardi, religione romana, religione ostrogota, religione
longobarda, mitologia romana, mitologia ostrogota, mitologia longobarda,
cultura romana, cultura ostrogota, cultura longobarda, le fonte pagane della
teoria del segno in Agostino – semeion, signum, segno, segnare, segnante,
segnato. Antecedenti di una teoria unitaria del segno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuti” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691252551/in/photolist-2mQPiYS-2mPC6Zb-2mLP9qE-2mKMbug-2mKbkhx
Grice
e Benvenuto – il grido – filosofia italiana (Napoli).
Filosofo. Grice: “Benvenuto is a good one; my fiavoruite is his ‘stupore e
grido,’ the functionalist idea that after some sensorial input (stupor) you get
the manifestation in behaviour alla Witters – the ‘grido’ – and then there’s
one which is J. L. Austin’s favourite: his “a man of words and not of deeds is
like a garden full of weeds,” – difficult to translate, but Benvenuto offers,
‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which aptly combines with ‘empiegatura, or in my
more Latinate (or learned) terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore
presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a
Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di
Psicologia del Profondo di Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e
diretto l'European Journal of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi
universitari all'Università Paris VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha
ottenuto la Maîtrise in Psicologia. Nel frattempo, ha seguito i seminari di
Roland Barthes e di Jacques Lacan. In seguito ha preparato un dottorato in
Psicoanalisi con Jean Laplanche all'Università Parigi 7. A Milano si è formato
in psicoanalisi attraverso gli psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e
Diego Napolitani, fondatore della Società Gruppo-Analitica Italiana. Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra
la ricerca in psicologia sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista,
e il lavoro di pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista
Lettera Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore
del trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest.
Nel 1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European
Psychoanalysis, divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che
tuttora dirige. Dal insegna psicoanalisi
all'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto
di Psicoanalisi Moderna di Mosca. Pensiero
Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra
loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica,
psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un
progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della
riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che
punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture
predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista
(interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la
fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una
Verità che si dipana nella storia umana).
Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne
allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a
ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il
Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione
artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta
sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni
teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo
causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo,
irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si
arresta. In Dicerie e pettegolezzi (dove
articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il
nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali
fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un
cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a
cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione
relativista rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non
tematizzato, presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal
Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla
“depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato
diversamente. In “Sono uno spettro, ma
non lo so” analizza la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti,
notando come la morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale
inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di
questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in
Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e
della psicoanalisi in generale, come fondata su una metafisica precisa della
“carne significante”. Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda
però a sua volta a qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione
come sorgente opaca e non-significante della soggettività. Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli,
Liguori); "Traduzione / Tradizione"
in Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell' anima, Milano,
Franco Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan); Dicerie e
pettegolezzi, Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa. Gli
argomenti del relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo);
Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri);
“Accidia. La passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore,
Milano, Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del
relativismo moderno”, Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini
dell'interpretazione. Freud Feyerabend Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno
spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein. Lo stupore e il grido,
Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano, MIMESIS, La
psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno.
Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi, Milano, Mimesis, Leggere Freud. Dall'isteria alla fine
dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante, tra Saussure e Lacan,
su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto della psichiatria
fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords: il grido, segnante,
segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established, recognised,
stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico, non-iconico,
convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale, non-artificiale,
procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto, idio-sincrasia,
popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente, nozione di
consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no naturale, Hobbes
sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare
naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad
placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei,
positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di
natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su
Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta
del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off
communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico,
confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51784990942/in/dateposted-public/
Grice
e Berardi – telepatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “You gotta love Berardi, but I
wonder if his background is in the classics – he has written on ‘il futuro
della comunicazione,’ and coined some nice neologisms, like ‘psiconautica,’ –
which is like my telementationalism, only different – and dialogued with Guattari
-- While Berardi is into ‘il futuro
della comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are usually into the
PAST of communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna), filosofo. Detto “Bifo”
-- Agitatore culturale italiano. All'età di quattordici anni si iscrive alla
FGCI, ma ne viene espulso tre anni più tardi per "frazionismo".
Partecipa al movimento del '68 nella facoltà di lettere dell'Bologna, ove nel
'67 conosce Toni Negri. Si laurea in Estetica con Luciano Anceschi e aderisce a
Potere Operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare di cui diviene figura
di spicco a livello nazionale. Nel 1970 pubblica il suo primo libro, Contro il
lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975 fonda la rivista A/traverso, un foglio
che era espressione dell'ala "creativa" del movimento bolognese del
1977; nei suoi scritti mette al centro della propria analisi il rapporto tra
movimenti sociali e tecnologie comunicative.
Nel 1976 partecipa alla fondazione dell'emittente libera Radio Alice e
subisce l'arresto per l'accusa di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui
viene assolto un mese dopo. Per richiederne la scarcerazione, Radio Alice
organizza una festa in Piazza Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila
persone. Berardi viene scarcerato poco dopo, e diviene il leader dell'"ala
creativa" della protesta studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura
della radio da parte della polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato
per "istigazione di odio di classe a mezzo radio", per sottrarsi all'arresto
fugge da Bologna. Si rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari e Michel
Foucault e pubblica il libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre (Éditions du
Seuil). Negli anni ottanta rientra
brevemente in Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora alle
riviste Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in Messico,
India, Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della crescita delle
reti telematiche e preconizza la futura esplosione della rete quale vasto fenomeno
sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni ottanta si trasferisce
in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk. Ritorna a Bologna e, in
veste di protagonista, partecipa al documentario Il trasloco di Renato De
Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla storia del suo
appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui Virus
mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la Castelvecchi
e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per MediaMente, la
trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta da Carlo
Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di
comunicazione. Dal 1992 al 2004
collabora alla rivista DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Dal 2000
al 2009 cura con Matteo Pasquinelli l'ambiente di rete Rekombinant. Nel 2002
fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada italiana. Nel 2005 un suo
pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali del nuovo sindaco di
Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle testate giornalistiche
nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto tecnico industriale Aldini
Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul quotidiano Liberazione, sulla
rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe. Collabora alla rivista canadese
Adbusters. Dal 2000 al 2009 ha animato la mailing-list Rekombinant con Matteo
Pasquinelli. Altre opere: “Contro il
lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del
soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani);
“Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano,
Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"”
(Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano,
Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza”
(Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna,
Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna,
A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk.
Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla
psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph
gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel
& Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi.
Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk.
Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro
zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi);
“Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit.
il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La
nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di
una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new
economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione
del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo
che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri);
“Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata.
Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto
del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna
(serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo.
Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo,
edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita,
ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà
capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive
del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the
future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk.
L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il
colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte, Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini
& Castoldi, Asma, C&P Adver
Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione
apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare.
Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”. Note
Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su
YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto.
Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto. E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente:
Franco Berardi, su mediamente.rai. 24 luglio
25 giugno ). Bifo: "Con la
Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento | Bologna la
Repubblica Cominciamo a parlare del
collasso europeo, alfabeta2 n.5, dicembre, pag. 5 rekombinant@liste.rekombinant.org, su
rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile. A/traverso | Casa Editrice Etichetta
Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. 26
giugno 26 giugno ). Félix Guattari Gilles Deleuze Movimento del
'77 Radio Alice Telestreet Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su
Franco Berardi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Franco Berardi Franco Berardi, su Internet Movie
Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul Through Europe Interregno[collegamento
interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi
Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e
Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco
(scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org.
podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu,
Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social Imagination
San Marino; scepsi.eu. 13 agosto 27
novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd. Franco
Berardi su Bookogs. Biografie Biografie
Letteratura Letteratura Politica Politica Categorie: Saggisti italiani del XX
secoloFilosofi italiani Professore1949 2 novembre BolognaMilitanti di Potere
OperaioMovimento del '77Studenti dell'BolognaFondatori di riviste
italianeAttivisti italiani. Franco Berardi. Keywords: telepatica, implicatura
del presagio, poetica ariosa, progetto ario, telepatia, pre-sagio, sagio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785716751/in/dateposted-public/
Grice
e Bernardi – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo. Grice: “We discussed Bernardi with
Sir Peter – when we were tutoring on ‘Categoriae’ – “Surely this is not
propedeutic logic! This is pure metaphysics, and even pure physics!” Bernardi
held the same view! On top, I love Bernardi because he does not use ‘logica,’
which he thinks for ‘kids,’ but ‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico,
nominato vescovo di Caserta. Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna
avendo come maestri Boccadiferro (l’autore di un trattato sui luoghi comuni
d’Aristotele) e Pomponazzi. Si trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese,
dove frequenta Bembo, Casa e Giovio, e si conquista una fama di filosofo
aristotelico e letterato. Consacrato
vescovo di Caserta. Poi a Parma nel
monastero di San Giovanni dei Cassinesi. Fu tumulato nel Duomo di Mirandola. In occasione del 5º centenario della sua
nascita, il 30 novembre 2002, il Centro Internazionale Giovanni Pico della
Mirandola gli dedicò un convegno. Lo
scrittore Antonio Saltini ha utilizzato la figura di Antonio Bernardi come
personaggio del suo romanzo storico L'assedio della Mirandola. Atre opere: “La Monomachia” -- dove si
sostiene che il duello è legittimo secondo la ragione e la filosofia morale ma
illecito sotto il punto di vista religioso. Note Vedi Google Libri. Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della
Mirandola (1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti
del convegno "Antonio Bernardi nel V centenario della nascita"
(Mirandola, 30 novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, 2009. 978-88-222-5846-5 Aristotelismo Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio
Bernardi Paola Zambelli, «BERNARDI,
Antonio», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 9, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia Categorie: Vescovi cattolici
italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore1502 1565 3 giugno Mirandola
Bologna. EVERSIONIS SINGVLARIS
CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen, quantum quidem
poterimus, fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere, ac pe
nitus ex animis hominum extirpare, (utpote quod ab homine qui Chriſti
ſeruatoris noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia
edituseſtliber quidam, infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam
diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui
libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino
lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio
agorti{ eup vxbés oszy: tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere
conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò
uerborum faciem intuentes, interius autem non expendentes reconditam rerum
ueritatem, putauerunt eius libri quem diximus, auctorem, Ariſtotelis ſenten
tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no.
ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam
tantum abeſleut ille (quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano
at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex
philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis
dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane
intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis
ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad
hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra
id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium,
uoluntas, quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm
loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ
fundamétum efle,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera. Verùm
antequam ueniamus adipfius uerba, uideamus quam facilè hoc eius fundamentum
peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma, quibus eius
impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed quia nos, qui
deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem Ariſtotelem
conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis, ponentes ea ante
oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam, deſtinatis ſententijs addicti
confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile intelligant quam
iniuſtè, quàm etiam con. tra hominum utilitatem, iſte in me quali grauiſsimum
aliquod facinus admiſillem, inuaferit. Sed iam ad rem ueniamus. Omnia
ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ, non ex fancta noftra religione
permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte loquitur:)ergo fun damentum
eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura genera: & quòd ob hanc
caufam unum genus fuerit permiſſum, &aliud nõ permiſſum. Ex quo poftmodum
emanat, me in libro Dehonore non eſſe lapſum, quia ignorauerim nomen &no.
tionem, uim; & originem fingularis certaminis,cum dixerim eius nomen apud
GræcosfuiffeMonomachiam,apud Romanos Singulare certamen: quia non fue runt
generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm nomina unius fpeciei uel generis.
Conſequentia perſpicua eft: id uero quod antecedit, probemus in hunc modum.
Illa certamina quorum eft idem finis, effe etiam eiuſdem generis uel ſpeciei
neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur genus & ſpecies. Propofitio
ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a diltinctione finium ſumpſit diſtin, a
ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem illorum certaminum:ut ex fine,qui erat
honor,concluſit unum genus cer, 2. Deanima. taminis. Sed probemus ipfam ex
Ariſtotele. etenim ipſe inquit: Quoniam autem à text.49. fineappellariomnia
iuſtum eſt. Item inquit: Determinatur enim & definitur u. 3.Ethic.o.
numquodą fine. Siquidem &ſuperabundantia ut nominetur ad finem,
&excellen " tia uirtutum oporter. Si ergo unumquodq; determinatur
&definitur fine: ſingu laria ergo certamina decerminabuntur &
definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una erit ſpeciesſingularis
certaminis:ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item Ariſtoteleshæcſcripta
reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű mundo,tex.116 eſt ipſum eſt
illius ſubſtātia. Quæ ergo certamina habent eundē finē, ut fint etiam 1.Oeconom.
eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé fubftantiæ &
formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia illa ſingularia
certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ, & illud etiam genus
quod nos conceſsimus in libris Deho. nore, ſunt certamina ſingularia, quorum
eſt idem finis:ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel ſpeciei,neceſſe eſt. Minor
probaturſic:llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt eiuſdem finis. Propofi tio
iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe conceſsit (utpugnare pro pa
tria,pro coniuge,pro regnis, honeſtum eſt finis:ergo habent eundem finem. Sed
oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem. Sienim honeſtum non effet eo.
rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene inſtituta: quandoquidem Rer
publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta, alioquin nõ eſec bene
inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc fimpliciter bona ſunt honeſta,
& quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui ergo facit pro patria, facit
propter honeltatem. " Item, Viri fortis finis eſt honeſtum. Qui pugnant
pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore. gno,ſuntuirifortes:ergo eorum
quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro filijs, pro regnis,eſt finis
honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt, declaraturtamen ab Ariſtotele his
uerbis, quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam citauimus ad aliud probandum: Finis enim,
inquit, omnis actionis eft fe., cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft
honeſta, &talis eſt finis: determinatur, ' & definitur unumquodq;
fine.Honeſtienim gratia fortis ſuſtinet &agit ea quę funt, ' ſecundum
fortitudinem Ergo uiri fortis eſt finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit:
Oportet autem non propter neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt.
Item paulo poſt inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira aūtadiuuatipſos."
1. Rhet... Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis, funt honeſta &
iufta: & opera iu. ftè facta,ſupple ſunt honeſta. Bernardi
(Ant., Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani,
epiſco- / pi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certa- / minis Libri XL. / In
quibvs cvm omnes inivriæ / ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum, &
côtentio- / num, quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- /
lendarum ratio traditur: & præter multos, ac propè in- ! finitos locos
Ariſtotelis, qui ſunt difficilimi, obiter expli- / catos. Animi etiā immor
talitas ex ipfius ſententia oſten- / ditur: Aſtrologiæ quoq; diuinatio omni
pene au- / toritate fpoliatur, atque libertas hu- / mana ſtabilitur. / -- Ad
amplißimum uirum Alexandrrm Farnesium Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium.
Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere / memorabilium, Index. ---
Basilea, Per llen- / ricum Petri. [ W - 1 '] In folio, p. 694 n. e p. 18 n. n.
al princ. Di queste: 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum locuple
tibimus Index. Nel testo alcune iniziali con vignette. La stessa opera di
questo autore, detto da alcuni il Mi randola, dalla patria, e da altri il
Caserta dalla dignità, è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo: ANTONII
BERNAR- / DI Mirandulani, epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In
qvibvs primvm ex professo / Monomachia (quam Singulare certamen Latini,
recentio- / res Duellum uocant) philoſophicis ra tionibus aſtruitur, & /
mox. diuina authoritate labefactata penitùs euertitur: om- / nes quoq:
iniuriarum ſpecies declarantur, easq'; conciliandi / & è medio tollendi
certiſsimæ rationes traduntur. Deinde / uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam
contemplatiuæ / quàm actiuæ, Loci / obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, /
(præſertim de Animæ immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae
diuinationibus) Ariſtotelica methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli
cantur. / Ad amplißimum uirum Alexandrem Farnesirm / Cardinalem, S. R. E.
Vicecancellarium. / - Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere /
memorabilium, Index. / - Basileae, Per Henriccm / Petri, et Nicolarm SCIENZA
CAVALLERESCA ANTICA 113 Bryling. | Anno 1562. / - (In fine:) Finis Qvadragesimi
et vltimi i libri Euerfionis fingularis certaminis. / [ * -Fer] In folio p. 694
con iniziali con vignette. Al princ. 18 p. 1. n. pel titolo, pella dedica al
Cardinale Far nese (nella quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo,
per essersi appropriata un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index. Il
Tiraboschi nel t. 1.o della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa
credere, che questa seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione,
della quale essố aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera
voluminosa del Bernardi, divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di
abbattere il duello, stampa il Maffei (op. cit., 1.a ed., a p. 252), che è
stata stesa; « con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli
scrittori, che si chiamano di Filosofia; ma procedendo sempre con « equiroci, e
confusion di vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e
difficili e talvolta manifesti e • palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei (a
p. 264 ), che dell'opera del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo.
In quell'epoca i libri di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che,
scrive lo stesso Maffei, quattro doppie è pur stata valutata un'edizione
dell'Ariosto, quella di Venezia 1566 per il Valvassori, « sol per poche righe,
che in alcuni luoghi vi si trovano con titolo di Pareri in Ducllo ». - In
quanto all'accusa di plagio dita apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino,
essa è abbastanza giustificata. Il G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e
questi ebbe dal maestro il suo lavoro sul duello per copiarlo, ma il Pos sevino
non si fece alcuno scrupolo di rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare
come proprio. È vero peró, che la pubblicazione dello scritto non avvenne per
opera del Possevino, ma di suo fratello Antonio, che appartenne alla Compagnia
di Gesù, ed anzi vuolsi, che G. B. Possevino morendo raccomandasse al fratello
di non pubblicare quell'opera sul duello da esso lasciata, ma Antonio Possevino
non avrebbe però tenuto conto di questa raccomandazione, tanto più, che al dire
del Tiraboschi, a vincer i suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta
all'orecchio la falsa notizia della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero
autore del trattato sul duello, ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il
Tiraboschi, che dapprima aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio
doveva finire per persuadersi, che tale accusa era ben fondata. Antonio Bernardi. Keywords: il duello, L’assedio della
Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti, mono machia,
duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il duello, statua di
due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi, aristotelismo
Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690032769/in/photolist-2mTpbrq-2mTdSm7-2mT5MZr-2mR7Xaf-2mPAWP1-2mN8Hgb-2mPtp3t-2mPV6V9-2mKEVTx-2mKMsLp-2mKHdnD-2mKBEmt-2mKAytU-2mKBsEN-2mKT4G5-2mKRu2r-2mKH3ZR-2mKGVxb-2mKDXUP-2mPE3Bq-2mKAuZM-2mKbpiZ-2mHGgw3-BpXH8h-CbigZ4-CiAmxk-CiA1AX-BK5eka-o5ZbYS-ncSGW3-nun896-njgV2D-nfDJGD-nhx6De-nhGayt-muuRMW-mutzz6-mut2s2
Grice e Bernardo – la tradizione
iniziatica italica -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Benne). Filosofo. Grice: “I
like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most Italian philosophers
are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro del Grande Oriente
d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare d'Italia. Diplomato
in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in Sociologia presso
l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì la carriera
accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza e di Logica,
nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e pubblicazioni sul tema
della filosofia delle scienze sociali e della logica delle norme. Fu iniziato alla massoneria nella loggia
bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro venerabile
della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno chiese e
ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di riservatezza
legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di riservatezza ebbe
la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese antico e accettato.
Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni della sua maestranza
tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa cattolica, dichiarò
espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista Italiano, e dovette
confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta Cordova" (dal nome del
pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al centro di polemiche anche con
i vertici del GOI, Di Bernardo decise di dimettersi dalla carica di Gran
maestro al termine della Gran Loggia annuale a Roma alla quale si era
presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto di una nuova
Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI gli succedette
il reggente Eraldo Ghinoi. La neonata
Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge fuoriuscite dal GOI,
caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese Emulation. Otto anni dopo
la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede alla guida dell'Obbedienza
Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine paramassonico, denominato
Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza regolare. Pur dichiarando di
essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo da anni si presta a rilasciare
interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a giornalisti che ad organi
inquirenti. Nel ha polemizzato con il
GOI dopo aver reso una dichiarazione alla Commissione Antimafia relativa a
presunte rivelazioni del defunto Ettore Loizzo (vedi ). Il GOI ha annunciato
l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione e calunnia. Il lo
stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il Gran Maestro del
GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a carico di Bisi
viene archiviata per insussistenza. Aldo
Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra cronaca e storia, Bastogi Editrice
Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn. Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo.
Aldo A. Mola. Pubblicazioni di Giuliano
Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del
deserto dal 1945 a oggi, GOI. Aldo A.
Mola, 801 e ss. Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova
Grande loggia, in Corriere della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order,
dignityorder.com. Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani,
Gran loggia regolare d'Italia Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su
Giuliano Di Bernardo Intervista a
Giuliano Di Bernardo del, Predecessore Gran maestro del Grande Oriente d'Italia
Successore Square compasses.svg Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore
Gran maestro della Gran Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg
Carica inesistente Fabio VenziB Filosofia Università Università Filosofo del XX secolo Filosofi
italiani Professore Penne Gran maestri del Grande Oriente d'Italia. Giuliano Di
Bernardo. Keywords. la tradizione iniziatica italica, logica dei sistemi
normativi, normativa sociale, l’implicatura del massone, psicologia filosofica,
Homo sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardo” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785611086/in/dateposted-public/
Grice
e Berneri – filosofia italiana nel ventennio fascista – filosofia italiana (Lodi). Filosofo. Grice: ‘I like Berneri; of course we need
to know more about his philosophical background and education – he represents
the epitome of what Italian philosophers call ‘filosofia militante,’ but then I
fought the Hun – so I was militante, too!” – Figlio di padre originario di
Ronco, frazione di Corteno Golgi (nella Val Camonica, in provincia di Brescia)
e da madre emiliana, ben presto, si trasferì con la famiglia dapprima a Milano,
poi a Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in provincia di Vercelli) e,
infine, a Reggio nell'Emilia. Qui, da
una testimonianza di Angelo Tasca risulta che Camillo Berneri militava nella
Federazione Giovanile Socialista di Reggio Emilia già dal 1912 (da
"Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo
Masini, Milano, 1966, pag 109). Dopo essere stato membro del Comitato Centrale
della Federazione Giovanile Socialista reggiana, e dopo aver collaborato
all'Avanguardia (organo nazionale della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni
dalla FGS, attraverso una lettera ai compagni, avendo maturato convinzioni
anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei compagni che, nonostante le dimissioni,
vorranno che presieda un'ultima riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del
mentore Camillo Prampolini, che lo convocherà per conoscere le ragioni del suo
dissenso. Berneri ricorderà sempre "i dolci ricordi del mio catecumenato
socialista". Nel 1916 si trasferisce ad Arezzo dove frequenta il liceo. Chiamato alle armi ed escluso dall'Accademia
Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel 1918; quindi,
ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in occasione dello
sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo pseudonimo Camillo
da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando per anni a vari
periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da L'avvenire
anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di Ancona. Laureatosi in filosofia, insegnò tale materia
per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la sua avversione
al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i contatti con gli
antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto Non mollare.
Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica italiana.
Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente in
Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era
Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie
Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i
primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria
esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di
Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al
di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche
l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del
socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale
"Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa
secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e
G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli
ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si
dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle
incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di
classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso.
In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del
legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni
rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni,
si batté vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione
ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma:
vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la
sostanza di numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta
alla ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre
anarchici era nel governo di Largo Caballero.
Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti politici
per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza del
Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la
socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente
impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai
comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero
così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti
antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i
miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte
circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa
resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le
giornate di Maggio. Il 5 maggio Berneri fu prelevato insieme con l'amico
anarchico Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le
rispettive compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati
crivellati di proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui
caduto in Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni
scrisse: "Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di
Barcellona, combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da
dire, e nella severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della
rivoluzione. Ma Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro
Nenni, Nuovo Avanti, Parigi). Altre
opere: “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico”
(Orvieto); “I problemi della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze);
“Un federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore,
Zurigo); “Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia); “Nozioni di chimica antifascista”;
“L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro attraente, Ginevra); “Ed ancora: Mussolini normalizzatore La donna e la
garçonne”; “Pensieri e battaglie Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo
di Freud”. da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo
Berneri, Edizioni Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag
115-117) Mirella Serri, I profeti
disarmati. 1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Cfr. Nicola Fedel, Introduzione e criteri di
edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel
(prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,, XVII-XIX , Enciclopedia POMBA. Camillo
Berneri, Anarchia e società aperta, Pietro Adamo, M&B Publishing, Milano
2006. Stefano D'Errico, Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica
all'anarchismo del Ventesimo Secolo, il "programma minimo" dei
libertari del Terzo Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo
Berneri, Mimesis, Milano 2007. Roberto Gremmo, Bombe, soldi e anarchia:
l'affare Berneri e la tragedia dei libertari italiani in Spagna, Storia
Ribelle, Biella 2008. Mirella Serri, I profeti disarmati. 1945-1948. La guerra
tra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Flavio Guidi, "Nostra patria
è il mondo intero". Camillo Berneri e "Guerra di Classe" a
Barcellona (1936-37), pubblicato dall'autore, Milano. Giampietro Berti, Giorgio
Sacchetti, Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi e
democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo, 5 maggio 2007, Archivio
famiglia Berneri A. Chessa, Reggio Emilia. Camillo Berneri, Lo spionaggio
fascista all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo Franzinelli),
Fondazione Comandante Libero, Milano,,
978-88-906018-9-7 Antifascismo
Archivio Famiglia Berneri Guerra civile spagnola Giornate di maggio Altri
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Camillo Berneri Collabora a Wikiquote Citazionio su Camillo Berneri Collabora a
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Berneri Camillo Berneri, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Camillo Berneri, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Camillo Berneri, su Liber Liber. Opere
di Camillo Berneri, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo
Berneri,. Camillo Berneri, su Goodreads.
Altri particolari sul sito dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. 6
aprile 2006 31 agosto 2006). Carlo De MariaUn convegno e una nuova stagione di
studi su Camillo Berneri, su storiaefuturo.com 26 luglio 2007). Socialismo
LibertarioProfili biobibliografici libertari, su socialismolibertario.
Abolizione ed estinzione dello stato (1936) Anarchismo e federalismo di Camillo
Berneri, su magozine. V D M Antifascismo. Anarchia Anarchia Biografie Biografie Politica Politica Storia Storia Filosofo del XX secoloScrittori
italiani del XX secoloAnarchici italiani
Lodi BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime
di dittature comuniste. Camillo Berneri. Keywords: normalizazzione, delirio
racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berneri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51710211987/in/photolist-2mRXUKj-2mQyhRc-2mKLGeD-2mPHbXQ-2mMsmt6/
Grice
e Berti – la morte di Cicerone – filosofia italiana – Luigi Speranza (Valeggio sul Mincio). Filosofo. Grice: “I like Berti; of
course he has philosophised on the only two philosophers worth philosophising
about Plato and Aristotle – his interest is in the ‘number idea’ in Plato, the
unity in Aristotle, and various other things – notably Socratic dialectic as
the basis for both!” -- Grice: “I also
love his courtesy: cf. Sir Peter, “Introduction to logical theory,” versus the
gentle “Un invite alla filosofia,” – for philosophy needs to be invited to,
rather than intro- and extro-ducted to and fro’!” Professore emerito di storia della filosofia,
presidente onorario dell'Istituto internazionale di filosofia. Laureatosi in filosofia all'Padova nel 1957,
è stato allievo di Marino Gentile. Dal
1961 al 1964 è assistente presso l'Padova. Nel 1965 diventa professore di
storia della filosofia antica all'Perugia e nel 1969 di storia della filosofia
nella stessa Università. Nel 1971 si
trasferisce all'Padova, dove insegna storia della filosofia. È poi docente
anche nelle Ginevra, di Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di
Teologia di Lugano. Dal 1983 al 1986
presiede la Società Filosofica Italiana.
Nel 1987 vince il premio dell'Associazione internazionale "Federico
Nietzsche" per la filosofia, nel 2005 il premio Iannone per la filosofia
antica, nel 2007 il premio Santa Marinella e il premio Castiglioncello per la
filosofia, nel 2009 il premio "Athene Noctua" e nel il premio giornalistico Lucio Colletti. Nel è
nominato "doctor honoris causa" dell'Università nazionale
capodistriana di Atene e nel Honorary
Fellow dell'"Interdisciplinary Centre for Aristotle Studies"
dell'Salonicco. Pensiero Interessato
particolarmente alla filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le
tracce nella metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar
modo per il problema della contraddizione e della dialettica. Berti si è poi inserito nella dibattuta
questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la
specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a
quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano
più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi
una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera»
della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi
dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità
(comprendente scienza, storia, individuo e società). Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica
della filosofia presocratica” (scuola di Crotone, la porta di Velia); “La filosofia del primo
Aristotele” (Padova, Milani); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero
politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la
porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi
sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”;
“Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Milani); “Ragione
scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di
Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola); “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino);
“Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos);:Le ragioni di
Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza);
“Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica,
Torino, POMBA); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele
e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero
occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia
antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza,
Roma-Bari); Sumphilosophein. La vita
nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici”
(Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della
verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un
"falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza:
dialogo perduto contro i governanti ricchi.
Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E.
Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e
riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana
È membro delle seguenti accademie e
istituzioni scientifiche: Accademia
nazionale dei Lincei Institut international de philosophie Istituto veneto di
scienze, lettere ed arti Société européenne de culture Fédération
internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia delle scienze
Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana di scienze,
lettere ed arti Società filosofica italiana Note festivalfilosofia, su festivalfilosofia 15
novembre 2008). Enciclopedia
multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai. 10 settembre 27 settembre ). Biografia Enrico Berti [collegamento interrotto], su comune.ancona. Aristotele
Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Enrico Berti,. Registrazioni di Enrico
Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti scheda nel sito dell'Padova
(con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani Professore1935 3 novembre Valeggio sul MincioProfessori
dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli Studi di
PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei
LinceiStorici della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli eleati --
Parmenide -- Zenone, Melisso -- Empedocle -- Gorgia --. LA FILOSOFIA
A ROMA Lo stoicismo medio il neo-epicureismo e Lucrezio -- L’Accademia nuova e
Cicerone -- Il neo-stoicismo romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio, Enrico Berti. Keywords. la morte di Cicerone, Cicerone res
publica – “De republica” – cf. il bene/il buono/il bello, “il bene e il buono”,
Cicerone e la filosofia politica classica, il De Republica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785770523/in/dateposted-public/
Grice
e Bertinaria – l’indole e le vicende della filosofia italiana – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical
cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified
‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’
has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo.
Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha
curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer,
professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di
filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della
Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel
1892. Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino);
“Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e
le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia
e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno
di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere
sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp.
sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e
Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia
dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea
latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni
con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour,
Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia
della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione,
Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il
positivismo e la metafisica” «Riv. cont.», Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e
Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e
condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione
ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile
universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale”
(Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato
sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il
problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le
dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi,
FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice,
Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda,
FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova”
(Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia
trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e
letterari nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia
della filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione
dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di
letture e conversazioni scientifiche di Genova», Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema
capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota
storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi,
Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F.
Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia
della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R.
Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione,
Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria,
«Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani,
T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia trascendente.Discorso,
Genova 1876, FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi ultima del sapere e
dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, XII, 1881, XXIII,
3-28, 231-249; XIII, 1882,
XXVI, 84-95. Estr.: Roma 1882.
Tolomio, 249-266. Note
Bertinaria, su dif.unige. Piero
Di Giovanni, Un secolo di filosofia italiana attraverso le riviste 1870-1960,
FrancoAngeli, 304, 978-88-56-86938-5. Altri progetti Collabora a
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Opere di Francesco Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie Biografie Letteratura Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti
italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore1816 1892 Genova. TAVOLA
GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA (1 ) (Secondo la legge di creazione)
I. Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi zionalmente
un essere razionale, vale a dire un ente creato, soggetto alle condizioni della
sua vita presente ossia all'orga namento terrestre. = UOMO MORTALE. A ) Teoria
o Autotesia; quello che v’ha di dato nello spirito dell'uomo per istabilirne le
facoltà fisiche ossia create. a ) Contenuto, ossia costituzione psicologica.
a2) Parte elementare. = FACOLTÀ ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi
primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale ossia neutro; facoltà
di sapere, = COGNIZIONE (Kenntniss]. (I) 64) Elementi primordiali ossia polari.
a5 ) Cognizione del Non - Io. = RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung]. (II) (1 ) Per
la lettura delle nostre Tavole genetiche noi.dobbiamo far notare alle persone
non peranco abituate a siffatta esposizione tabellare, che, a seconda della
divisione dicotomica, ch'è la sola rigorosamente logica, le due sottoclassi di
ciascuna classe suddivisa sono notate colle lettere a) e b) a destra
accompagnate da un numero superiore d'un'unità a quello che ha il medesimo
indice della classe così suddivisa. In tal maniera, muo vendo dai due generi
primitivi, designati da A) e B), ciascuno di questi due generi ha due classi
designate rispettivamente da a) e b); ciascuna di queste classi a) e 6) può
avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 ); ciascuna di queste ultime classi a2)
e 62) può avere di nuovo due sotto classi, designate rispettivamente da a3) é
73 ); e così di seguito finchè ciascuna di queste diverse sottoclassi ammette
divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34 TAVOLA GENETICA 65) Cognizione dell'Io. =
COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4)
Elementi derivati immediati ossia distinti. a5) Combinazione della Cognizione
colla Rappresen tazione. = SENSIBILITÀ. (IV) Nota. Qui hanno luogo i Sensi
esterni ed il Senso interno. 65) Combinazione della Cognizione colla Coscienza.
= INTELLETTO. (V) Nota. Qui hanno luogo l'Intelligenza, il Giudizio e la
Ragione condizionale (quella che si trova incarnata nel. l'organismo fisico
ossia terrestre dell'uomo). 64) Elementi derivati mediati ossia transitivi. =
IM MAGINAZIONE, a5) Transizione dalla Sensibilità all'Intelletto. = IM
MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota. —Qui hanno luogo la Memoria e la
Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto alla Sensibilità. = IM MAGINAZIONE
PRODUTTIVA. (VII) Nota. — Qui hanno luogo la Costruzione e la Fantasia. 62)
Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3)
Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza
parziale. a5) Influenza della Rappresentazione nella Coscienza. = SENTIMENTO. (I)
65) Influenza della Coscienza nella Rappresenta zione. = COGNIZIONE. (II) b4)
Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra la
Rappresentazione e la Coscienza per mezzo del loro concorso teleologico alla
generazione delle Cognizioni. = COMPRENSIONE. (III) NOTA. Qui hanno luogo il
Giudizio teleologico (per la cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico (per
la cogni zione del bello e del sublime). DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35
63) Identità finale nella riunione sistematica dei due ele menti distinti,
della Sensibilità e dell'Intelletto, per mezzo dell'elemento fondamentale ossia
neutro, for mante la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo,
nell'aspetto speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il
GENIO, e nel l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità,
la VOLONTÀ. b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte elementare
della costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4) Per
l'elemento fondamentale; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE. 64) Per gli
elementi primordiali: a5) Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5)
Forma della Coscienza. = SUBJETTIVITÀ. 63 ) Per le facoltà organiche: a4) Immediate
o distinte. a5) Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE (An schauung). 65) Forma
dell'Intelletto. = CONCETTO (Begriff ). 64) Mediate o transitive. a5) Forma
dell'Immaginazione riproduttiva. = IM MAGINE. 65) Forma dell’Immaginazione
produttiva. = SCHEMA. 62) Nella parte sistematica della costituzione
psicologica. a3) Nella diversità sistematica. a4 ) Per l'influenza parziale
degli elementi primordiali. a5) Forma del Sentimento. = APPRENSIONE. 65) Forma
della Cognizione. = APPERCEZIONE. 64) Per la loro influenza reciproca; forma
della Com prensione. = RIFLESSIONE. 63) Nell'identità finale degli elementi
distinti; forma della Potenzialità. = AZIONE [Thaetigkeit ). 36 TAVOLA GENETICA
B) Tecnia o Autogenia; quello che bisogna fare pel compimento delle facoltà
fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel contenuto ossia nella costituzione
psicologica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione. ' a3) Per gli
elementi immediati ossia distinti. al) Compimento della Sensibilità. =
PERFEZIONE ESTE TICA. 64) Compimento dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA.
Nota. —I caratteri di questa doppia perfezione, estetica e logica, sono:
l'estensione, la chiarezza, la varietà, la precisione, il complesso e la
certezza. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento
dell'Immaginazione riproduttiva, per la legge d'associazione delle immagini. =
As SIMILAZIONE (spiritualizzazione delle intuizioni). 64) Compimento
dell'Immaginazione produttiva, per la legge di schematizzazione delle idee. =
MOSTRA (corporificazione dei concetti ). 62) Nella parte sistematica di questa
stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor
mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Rappresentazione e nella
Coscienza; la quale armonia prestabilita fornisce le ragioni sufficienti per la
desi gnazione reciproca (facultas signatrix ) dei concetti per mezzo delle
intuizioni, e delle intuizioni per mezzo dei concetti. = LINGUAGGIO (in
generale). 63) Per il compimento dell'identità primitiva negli ele menti
distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto; la quale identità fornisce il
compimento della Potenzialità per via d'indefinita ascensione ai principii, e
per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze, siccome legge suprema delle
umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 ) Nella forma ossia nella
relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 37 a2) Nella parte
elementare di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà organiche in
ordine all'uniformità nella generazione delle cognizioni umane, siccome regola
ossia canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte sistematica di
questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine
all'identità finale negli oggetti delle cognizioni umane, siccome pro blema
universale della Psicologia. = IDEE (trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ). II.
Facoltà spirituali ed iperfisiche dell'uomo, le quali ne fanno in
condizionatamente un essere razionale, vale a dire un ente assoluto,
indipendente da qualsivoglia condizione. = UOMO IMMORTALE. Nota. - Questa
seconda parte della vera psicologia, da niuno finora avvertita, appartiene
solamente alla filosofia assoluta del Messianismo. Essa non potrebbe in alcun
modo venir raggiunta dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano
l'oggetto sono, non solamente iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire
poste fuori del mondo creato, dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e
dell'espe rienza. Eccone la genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia; quello che
vha di dato nell'ipostasi dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue
facoltà iper fisiche ossia creatrici. a) Contenuto ossia costituzione
eleuterica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di
sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale
o neutro; principio ipo statico nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE. (I) 64)
Elementi primordiali o polari. a5 ) Coscienza potenziale del Non - 10. =
ALTERIETÀ. (II) 65) Coscienza potenziale dell’Io. = IPSEITÀ. (III) 38 TAVOLA
GENETICA 63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati
immediati o distinti. a5) Combinazione della Coscienza potenziale coll’Al
terietà. = ETERONOMIA. (IV) 65) Combinazione della Coscienza potenziale con
l'Ipseità. = AUTONOMIA. (V) 64) Elementi derivati mediati o transitivi. a5)
Transizione dall'Eteronomia all'Autonomia. = RELIGIONE RIVELATA. (VI) 65)
Transizione dall'Autonomia all'Eteronomia. = RELIGIONE ASSOLUTA. (VII) 62)
Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità
nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale.
a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. = ETEROTELIA. (I) 65)
Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA. (II) 64) Influenza
reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra l’Alterietà e
l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione propria
dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. (III) Nota. Questo è il principio più alto della
filosofia di Hegel; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem meno
l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente peristilio.
63) Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti
dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro,
formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA
ASSOLUTA. (IV) b) Forma o relazione eleuterica. a2) Nella parte elementare
della costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le
facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; formadella Coscienza
potenziale. = GENIALITÀ. 64) Per gli elementi primordiali. a5) Forma
dell'Alterietà. = RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. =
PROPRIETIVITÀ (nella co scienza ). 63) Per le facoltà organiche: a4) Immediate
o distinte. a5) Forma dell'Eteronomia. = MORALITÀ. 65) Forma dell’Autonomia. =
MESSIANITÀ. 64 ) Mediate o transitive. a5) Forma della Religione rivelata. =
GRAZIA. 65) Forma della Religione assoluta. = MERITO. 62) Nella parte
sistematica della costituzione eleuterica. a3) Nella diversità sistematica. a4)
Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma dell'Eterotelia.
= DIPENDENZA PROVVI DENZIALE. 65 ) Forma dell'Autotelia. = INDIPENDENZA UMANA.
64) Per l'influenza reciproca; forma dello Spirito. = SPONTANEITÀ. 63)
Nell'identità finale degli elementi distinti; forma dell'Assoluto nella
coscienza. = RAZIONALITÀ CREATRICE. B ) Tecnia o Autogenia; ciò che bisogna
fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o creatrici nell'uomo. a) Nel
contenuto o nella costituzione eleuterica. a2) Nella parte elementare di questa
costituzione. a3) Per gli elementi immediati o distinti. a4) Compimento
dell’Eteronomia; stabilimento proprio, operato dall'uomo stesso, del suo essere
assoluto. = AUTOTESIA. 40 TAVOLA GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64)
Compimento dell'Autonomia; stabilimento proprio, operato dall'uomo stesso del
suo sapere assoluto. = AUTOGENIA. 63) Per gli elementi mediati o transitivi.
a4) Compimento della Religione rivelata. = Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO.
64) Compimento della Religione assoluta. = Per mezzo della LEGGE DI CREAZIONE.
62) Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il
compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi
primordiali, nella Alterietà e nell'Ipseità; armonia che fornisce le ra gioni
sufficienti per l'esplicazione della Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO.
63) Per il compimento dell'identità primitiva nei due elementi distinti,
nell'Eteronomia e nell'Autonomia; identità che fornisce il compimento
dell'Assoluto nella coscienza per mezzo della sua identificazione col Verbo,
come legge suprema della creazione propria dell'ờomo. = ARCIASSOLUTO ossia ciò
che è INDICIBILE (nell'ipostasi della coscienza umana ). b) Nella forma o nella
relazione eleuterica. a2) Nella parte elementare di questa relazione;
compimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella pro pria
creazione umana, come regola o canone eleuterico per la liberazione dell'uomo
dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE SPIRITUALE DELL'UOMO. 62) Nella
parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà
sistematiche in ordine all'identità finale nel risultamento della propria
creazione umana, cioè in ordine all'individualità assoluta dell'uomo, come
problema universale di questa parte eleuterica della Psi cologia. = CREAZIONE
PROPRIA DELL'UOMO (Immortalità ). COMMENTO ALLA TAVOLA GENETICA DELLA.
PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO WRONSKI PARTE PRIMA PSICOLOGIA
FISICA Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi
zionatamente un ESSERE RAZIONALE, vale a dire un ente creato, soggetto alle
condizioni della sua vita presente, ossia all'organamento terrestre. - UOMO
MORTALE. Commento. — In questa prima parte della Tavola genetica della
Filosofia della Psicologia l'Autore tratta solamente delle facoltà spirituali
da lui dette fisiche per ciò ch'esse sono date immediatamente dalla natura, e
si svolgono per necessità della costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi
di trattare delle facoltà iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa.
L'Autore dice che le facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un
essere razionale, e spiega l'avverbio, chiamando l'uomo, in quanto egli è
solamente fornito di tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni
della sua vita presente. Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si
trovi solamente iniziato alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì,
avrà motivo d'inarcare le ciglia udendo queste espressioni; ma colui il quale
sappia che l'Autore ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è
opera dell'Ente supremo, e costituisce, rispetto alla mente umana che la
contempla, l'ordine eterono mico governato dalla necessità, e la seconda è
opera dello Spi ſito creato, e costituisce, rispetto allo spirito stesso,
l'ordine autonomico governato dalla libertà di cui egli è dotato, capirà pure
facilmente che l'uomo, quale creatura di Dio, è essenzial mente eteronomico, e
per conseguenza soggetto alle condizioni 44 PARTE PRIMA dell'organamento
terrestre, al quale la sua vita è vincolata in forza delle leggi necessarie del
cosmo; e quale autore del proprio svolgimento, egli è essenzialmente
autonomico, vale a dire crea tore di se stesso. Posta questa teoria ontologica,
si debbono pure ammettere due ordini di umane facoltà, fra loro così distinti
che non vadano mai fra loro confusi, sebbene siano fra loro collegati come
qualità di un medesimo soggetto, ed il primo si trovi logi camente e
cronologicamente anteriore al secondo, che in dignità gli è superiore. Laonde,
chiamando naturale o fisica l'entità eteronomica, e soprannaturale od
iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si vengono a caratterizzare benissimo
i due ordini di facoltà fra loro così diversi, che quelle del primo fanno
dell'uomo bensì un ente razionale, ma condizionato, laddove quelle altre del
secondo rendono l'uomo stesso ente razionale incondizionato cioè assoluto. A
Teoria o Autotesia. Presso le colonie greche nell'Italia inferiore, le
quali erano per lo più composte di Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento
di vita esteriore ed interna; imperocchè vennero a rinomanza per le
legislazioni di Saleuco e Caronda, per l'arte orato ria e la poesia lirica, per
un'eccellente scuola me dica stabilita in Crotone, città salita a prospera for
tuna, e per molti vincitori ai giuochi olimpici, che quivi ebbero i natali. $
65 PITAGORA da Samo, nato verso il 584, portossi a Crotone e dimorò per lo più
nella Magna - Grecia. La sua vita è oscura e molto favolosa. Egli fu dotto
particolarmente in matematica, musica teoretica, astronomia e ginnastica. Le
favole lo dicono tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere
figlio d'Apollo e d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi
nello stesso tempo. Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il
dono della ricordanza della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe
ridestare la medesi PRIMO PERIODO -- PITAGORICI. 91 ma in altri. Egli sentiva
l'armonia delle sfere celesti, e venne considerato come una divinità. Però è
che si parla di un culto sacro e di orgie pitagoriche. Egli deve aver
conosciuto Ferecide e Talete, ed essere stato educato dai sacerdoti egiziani;
ma da se stesso si procacciò la maggior parte di sue cogni zioni. Fondò a
Crotone una società segreta in cui si professavano i principii politici
dell'aristocrazia: Pri ma che un individuo venisse accettato in quella do veva
subire prove. I membrisi distinguevano in eso. terici ed essoterici, cioè più e
meno iniziati. In tale società praticavanşi esercizii corporali e spirituali,
vita e costumi comuni e regole, parole simboliche, invocazioni al fondatore
(aútòs špa ), banchetti (ovo oltia ) e funerali; ma non già comunione di beni.
I fini principali della società erano prima la mo rale religiosa, poi la
scienza, particolarmente la matematica e la musica. La società pitagorica ebbe
influenza diretta sugli interessi politici nelle città di Crotone, Sibari,
Metaponto, Locri e Tarento; ma essendo stata cagione di una guerra, molti
Pitago rici perirono e fors’anche lo stesso Pitagora mori a Metaponto, e dopo
morte fu onoratissimo. I Pita gorici perseguitati e scacciati, conservarono
pure influenza politica. A molti di essi, come Timeo, Archita ed Ocello da
Lucania, sono attribuiti scritti, e le lettere attribuite a Pitagora ed a sua
moglie o figlia Teano, come pure i versi d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra
gli ultimi Pitagorici i migliori sono Filolao ed Archita, e dei primi scritti
riman gono ancora frammenti. 92 FILOSOFIA GRECA S 66 Quantunque la filosofia
pitagorica abbia seguito varie direzioni, pure dobbiamo considerarla nella sua
unità. L'esporre la medesima riesce difficile sia pella diversità delle vedute
de'varii scrittori che le appartengono, sia pei segni simbolici di cui servi
vasi quella scuola per significare le idee ed i varii sensi a cui
s'impiegavano. -Come Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva che Erebo
aveva dato forma al Caos e ne venne il Tempo, Pitagora volle la pluralità
generata dall'unità, ossia dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od il
principio (apxn) di tutte le cose. Il numero è pensato come uno, però anche
quale unità di due antitesi, del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono
i principii delle cose. La diade è il principio della sostanza informe, ossia
il numero indeterminato; la monade è il principio ordinatore. La sostanza
informe viene alla pluralità ed alla varietà per mezzo dell'unità; però tutte
le cose si fanno ad imitazione del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il
numero. è il principio generale tanto della natura, quanto della cognizione.
Cosi l'uno è l'essenza del numero, il numero semplicemente, il fondamento di
tutti i numeri, l'unità suprema, la divinità nel mondo. I Pitagorici dissero
triade il numero del tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e
fine. La tetrattisi è importante, perchè i primi quattro nu meri formano
assieme dieci, ed i primi quattro PRIMO PERIODO — PITAGORICI. 93 pari e dispari
formano trentasei; parimente im portante è la deca, e vale come l'unità per sim
bolo del principio di tutte le cose. Nell'essenza del numero, ossia nell'unità
suprema, si contengono tutti i numeri, e per conseguenza gli elementi della natura
e dell'universo. Questa teoria si accorda colla divisione dei toni del
monocordo inventato da Pitagora. Dividendo in due parti una corda tesa, la metà
produce l'ottava; cosi il tono fondamentale della corda intiera sta all'ottava
come 2: 1, che è la perfetta proporzione musicale. La corda divisa in tre parti
dà 2/3 della corda divisa, la quinta che sta al tono fondamentale come 2: 3;
così 3/4 della corda dà la quarta, che sta al tono fondamen tale come 3: 4.
Questi tre intervalli formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei
segni 1, 2, 3, 4. L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura
sono compresi nelle seguenti dieci antitesi: 1. Limitato, illimitato: 2.
Dispari, pari: 3. Uno, più: 4. Destro, sinistro: 5. Mascolino, femminino: 6.
Quiete, moto: 7. Retto, curvo: 8. Luce, tenebra: 9. Buono, cattivo: 10.
Quadrato, rettangolo. Tuttavia non furono escluse altre antitesi. L'uno 94
FILOSOFIA GRECA è solo nella terza antitesi, perchè ha due signifi cati, come
principio e come sintesi di tutte le an titesi. Nelle antitesi il primomembro
significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto nel mondo risulta dal
perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento di tutti i numeri,
perchè è pari e dispari nello stesso tempo, non solamente è il principio del
perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto, ossia il buono, non è dunque
primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade; perciò avviene in
prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile; imperocchè
l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente secondo
sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per fondamento
delle cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e pari? Nella
tavola si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato. Il
limitante è secondo loro, rispetto ai corpi, una pluralità di punti che formano
un numero. L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo spazio di
mezzo; la quale espressione aveva grande significato nella musica e geometria
loro. Dagli spazii musicali mezzani, ossia intervalli, essi derivavano
l'accordo de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio e la fine,
l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la geometria
secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli, la superficie da
due, la linea da un solo; il punto non ha intervallo, è l'u nità. Dal limite e
dall'illimitato, ossia dalle unità e dagli intervalli, viene la grandezza dello
spazio. PRIMO PERIODO -PITAGORICI. 95 Ma d'onde lo spazio mezzano? Il secondo
membro delle loro antitesi è il negativo; perciò l'illimitato, o lo spazio
mezzano, è il vacuo. La separazione delle unità, ossia numeri, avviene per
mezzo del vacuo; questo è dunque principio e solamente un'altra espressione
dell'illimitato o pari, perchè tutti i membri posteriori delle antitesi possono
es sere mutati, e cosi anche i membri anteriori. Qual fu l'opinione dei
Pitagorici intorno l'origine del mondo? Le cose provengono dalle unità in
diversi spazii mezzani, esse formano un numero di unità, ed in ciò consiste la
loro natura e la loro origine, non 'secondo il tempo, ma secondo la maniera
umana di pensare. L'unità suprema come circon data dall'infinito, ossia dal
vacuo, si sforza di di vidersi in antitesi e di ricongiungersi di nuovo. L’uno
si divide in una pluralità di cose per mezzo dello spazio vacuo, perció
l'illimitato si partisce in più parti affinchè entri nel limitante. Il vero
essere ha dunque il suo fondamento nel limite. L'entrare dell'illimitato nel
limitato vien detto l'alito ossia la vita del mondo. Perciò bisogna prendere il
mondo come numero, come unità, le quali sono congiunte in Dio, che è l'unità
primitiva, e separate dallo spazio mezzano. Dalla composizione delle unità
provengono diverse relazioni, che sono ordinate armonicamente e con simmetria.
Il legame di ogni relazione è l'armonia. Ora l'unione delle antitesi trovandosi
nell'unità suprema, essa è il principio dell'armonia e l'universo numero ed
armonia, ed anche l'armonia è di bel nuovo il principio dell'u 96 FILOSOFIA
GRECA nità di tutte le cose. Ma nell'armonia è pur anco compreso il concetto di
ordine. Avuto riguardo all' importanza della deca, adottavano dieci corpi
mondani che si trovano in armoniche distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono
fondamentale all'ot tava adottavano sette -vocali. La monade è il punto, la
diade la linea, la triade la superficie, la tetrat tisi il corpo geometrico, la
pentattisi i corpi fisici. In questo modo arbitrario continuavano essi a porre
cinque elementi, e dicevano paragonando: Il cubo significa la terra, la
piramide il fuoco, l'ottaedro l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro
l'etere come quinto elemento. Il migliore di questi ele menti è il fuoco,
probabilmente perchè fra le dieci antitesi la luce e l'inerte significano il
perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo del mondo ed è la guardia ο castello di
Giove (Διός φυλακή.Ζηνός πύργος), ha la forma di un cubo, perché questo,
essendo consi derato il corpo più perfetto a cagione dei tre inter valli
simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u niverso; il qual fuoco si
forma prima da sè e guida poi la formazione del mondo. Dal mezzo il fuoco si
spande per tutto l'universoe lo abbraccia. Attorno al fuoco centrale sono
ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo delle stelle fisse, i cinque
pianeti, il sole, la luna, la terra e la controterra (artiyJabí), il quale
ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano in direzione circolare, ad eccezione
della terra im mobile nel mezzo (probabilmente con la contro terra ), e la
quale contiene il fuoco; perchè anche il mondo intiero corrispondente alla deca
è una PRIMO PERIODO PITAGORICI. 97 palla: onde l'armonia delle sfere, perchè
ogni corpo vibrandosi rende un tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia,
giacchè appartiene alla nostra so stanza, e come ogni tono si può solo sentire
pel contrapposto del silenzio, l'armonia delle sfere è senza pausa. I corpi
circolanti sono otto solamente, e questi sono ordinati in quattro intervalli e
sette toni, talchè la sfera delle stelle fissé ha il tono più basso, quello
della luna il più alto. L'imperfezione è particolarınente sulla terra; però la
luna e gli altri mondi sono più perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il
cangiamento disordinato ed in appa renza molto fortuito; essa stessa è soggetta
all'in stabilità. S 67 Si annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e
d'imperfezione in senso morale. La diade è principalmente il simbolo
dell'immorale. L'anima dell'uomo è parimenti un numero od armonia, l'intelletto
o pensiero è l'uno, la scienza il due, l'immaginazione il tre, il sentimento il
quattro. L'anima è inserita nel corpo pel número e relazione armonica del corpo,
perciò non è corporea, ma solo apparente in una relazione corporale. Vi sono
anche anime prive di corpo che hanno vita di fan tasma, e le quali non sono mai
entrate in alcun corpo o di nuovo ne sono uscite; queste sono i de moni. A
questo si riferisce la dottrina esoterica della metempsicosi e la fede nella
ricompensa dopo H 98 FILOSOFIA GRECA morte, a cui conseguita la personalità e
l'immor talità dell'anima. L'unione dell'anima con un corpo è la pena di
qualche empietà; la vita terrena è uno stato d'infelicità, ma necessario ed
ordinato al buo no per mezzo dell'unione col tutto. L'anima umana possiede
l'essenza ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle bestie solamente
la seconda, però ha qualche germe d'intelligenza. La virtù è armonia, la
giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la cura divina: il
suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica dei Pitagorici si
appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico; essi inculcavano la
moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore, l'amicizia, il
lavoro, la costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la dottrina pitagorica è
in parte etica, rappresentata dall'armonia e dalla musica, in parte fisica per
la matematica, pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della sensibilità; la
quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in una pluralità di
cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve unire ambe queste
parti. L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua attività, nello
sviluppo mondano della sensibi lità è composta; il soprasensibile ossia l'unità
su prema è indeterminato. In ciò sta riposta senza dubbio l'idea di Dio come
creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato con cui si presenta
all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle cose singolari e la
loro connessione, e dalla nozione simbolica e particolarmente matematica PRIMO
PERIODO -PITAGORICI 99 della provvidenza divina. Onde l'applicazione di
questa dottrina alla parte spirituale è difficilissima. Pertanto la dottrina
pitagorica è nell'etica tanto difettosa, quanto pare siano stati eccellenti i
parti giani di essa nell'esercizio della virtù. I lonii e Pitagorici
tentarono spiegare l'origine del mondo; essi ammettendo la produzione delle
cose riuscirono realisti. Per l'opposto gli Eleati sono idealisti, tendono alla
cognizione del non -sensibile ed affermano: Nulla viene all'essere, tutto
esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella Magna Grecia, dov'era la
sede principale di questa scuola filosofica. S 69 SENOFANE da Colofone, sede
della poesia epica e gnomica, contemporaneo di Pitagora, si portò verso il 536
ad Elea nella Magna Grecia, e fu prima poeta epico ed elegiaco. Rimangono solo
frammenti delle sue opere. La sua tesi fondamentale è questa: Dio è, e non può
divenire; come pure in generale nis 100 FILOSOFIA GRECA suna cosa può cominciare
ad esistere; imperocchè il generato dovrebbe essere uguale al generante, epperò
ambi non sarebbero fra loro differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio,
che il più pic colo nasca dal più grande e vi ritorni, si deve attri buire
all'opinione insussistente che alcuna cosa non esistente possa venir prodotta
da ciò che esiste. Per ciò vi ha solamente l'uno, e questi è Dio, il quale
forma col cielo e la terra un essere solo, unico (in TÒ öv xai tò Tây). Per
conseguenza il politeismo o la mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i
miti immorali. Sostenne contro le scuole jonica e pitagorica che Dio non è
mosso e limitato, nè inerte ed illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro
prie della pluralità, le altre appartengono al non esistente. Dio è perfettamente
uguale perchè non ha parti; considerato spiritualmente è pura intelli genza,
considerato corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii
era impossibile una spiegazione della natura. Cosi egli oppose alla verità
l'opinione, ossia l'intuizione sensibile; ep però non seppe trovare il nesso
tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che l'ignoranza sia
retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista; ma importante il suo
pensiero dell'essere assoluto. S 70 PARMENIDE da Elea fece verso l'anno 460 con
Zeno ne un viaggio ad Atene, dove forse conobbe Socrate. PRIMO PERIODO 101.
ELEATI. Egli sviluppò il sistema di Senofane; tuttavia non prese le mosse dal
concetto di Dio, ma da quello dell'essere e del non -essere, della certezza e
dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di Dio siccome quella che è riposta
nell'esistente. Secondo lui v'ha un doppio sistema di conoscenza, quello della
ra gione ossia del vero, e quello dei sensi ossia del l'apparenza. Il suo poema
sulla natura trattava di ambe le maniere, ma dai frammenti che pervennero a noi
conosciamo la prima meglio della seconda. Es sere, pensare e conoscere è
tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto l'essere è identico; perciò il
reale non lią cominciamento, è invariabile, indivisibile, riempie tutto lo
spazio, da se stesso si limita, sussi ste per legge di necessità: onde
qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera apparenza. Ciò non ostante
la stessa apparenza è regolata da una legge, per cui le rappresentazioni delle
cose sono costanti (80% a ). A fine di spiegare la natura di tali
rappresentazioni ricorre a due principii, il caldo, ossia il fuoco etereo, il
freddo ossia la notte della terra; il primo è penetrante, positivo, reale,
pensante (Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il secondo è denso,
pesante (@an), negativo, sola mente una limitazione del primo. Questa dottrina
della natura è meccanica. Da tali due principii de rivò egli tutti i
cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è un composto di
fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla cognizione della verità
ed all'apparenza.: 102 FILOSOFIA GRECA $ 71 MELISSO da Samo, verso l'anno 444,
celebre an che come politico e capitano di flotta contro Pericle, adottò lo
stesso idealismo, e prese a combattere particolarmente la filosofia naturale
della scuola ionica. Non si deve far parola degli dei, perchè gli uomini non
hanno cognizione alcuna di tali enti. Presso Melisso ritorna il concetto di
perfezione. Ciò che esiste è infinito, non è prodotto, nè può perire. Non v'ha
movimento o trasformazione, perché avvi un essere solo e nissun vacuo; epperò
non si danno la porosità e la densità. L'esistente non può essere diviso, cosi
non ha parti, non è corporeo. La plu ralità è sola apparenza sensibile. Quello
che in ve rità esiste è dotato di vita. $.72 ZENONE d'Elea, discepolo ed amico
di Parmenide, fece con questo un viaggio ad Atene e si distinse tanto per acume
d'intelletto e sottile dialettica, quanto per fortezza d'animo, avendo
sacrificata in battaglia la propria vita a difesa della patria. Egli sostene va
il sistema di Parmenide in ciò che nega la plu ralità delle cose, il movimento
e lo spazio. Data la pluralità delle cose, ne dovrebbe conseguitare che nello
stesso tempo fossero infinitamente piccole ed infinitamente grandi; la prima
condizione perchè risultano di ultime unità indivisibili, il cui aggre PRIMO
PERIODO - ELEATI. 103 zo. gato non può produrre grandezza; la seconda con
dizione perchè risultano da una quantità infinita di parti sempre più estese e
per conseguenza divisi bili. Qui il sofisma consiste in ciò, che nel primo caso
suppone l'indivisibilità, nel secondo la rigetta. In seguito diceva: la
pluralità è ad un tempo limitata ed illimitata; limitata perchè più o meno
determinata, illimitata perchè ogni distanza da un punto di una grandezza fino
all'altro è infinito, avuto riguardo all'infinita quantità di parti di mez Egli
contestava il movimento per le contrad dizioni inerenti a questo concetto;
imperocchè bi sogna che lo spazio misuratore, il quale consta di parti infinite,
venga percorso in un intervallo limi tato. Onde l'argomento detto l'Achille,
con cui af fermava che se una testuggine avesse il vantaggio d'un passo avanti,
non potrebbe essere raggiunta da Achille, perchè la distanza non cesserebbe mai
appieno, quantunque si facesse sempre più breve. Diceva poi che non dovevasi
accettare la dottrina del movimento, risultando da semplici momenti di quiete,
in quanto ciò che si muove perpetuamente si sviluppa in qualche parte. Lo
spazio vacuo è ines cogitabile, appunto perché la pluralità ed il mo vimento
non sono pensabili. Che se fosse alcun che reale, esso dovrebbe trovarsi in uno
spazio, giac chè ogni realità è compresa in quello, epperò una continuazione
senza fine dovrebbe trovare luogo in uno spazio che la contenesse. Queste prove
apago giche, appoggiate all'assurdità dell'opinione con traria, sono sofistiche
per lo scambio delle forme 104 FILOSOFIA GRECA rappresentative logico
-matematiche di valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo.
Nell'Achille si trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione,
ossia del tempo allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe
rienza Zenone pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo, che ben
presto venne continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la
filosofia greca. $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in Sicilia, verso l'anno 460,
naturalista, medico, celebre come taumaturgo, perfezionò la fisica degli
Eleati, siccome Zenone la metafisica. L'unità delle cose è il mondo, simile ad
un globo, ragione per cui lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui
governata, a lui iden tica. La materia e la forza non si decompongono. L'amore
irradiandosi dal centro penetra tutto ed è ad un tempo necessità: dipende da
tutto pel con trasto delle forze. Essendo l'uomo solamente una parte della
divinità, la cognizione umana non può essere che imperfetta,''e quantunque
conosca gli elementi del tutto, non può penetrarne l'unità, che Dio solo può
comprendere. Egli distingue dalla mas sa la forza movente. Le forze solamente
movono, ma non variano le cose; però questa dottrina della natura è meccanica.
Egli è impossibile che il nulla produca alcuna cosa, e che venga a mancare ciò
che esiste. Egli ammette quattro elementi, fra i PRIMO PERIODO - ELEATI. 105
quali dà preferenza al fuoco, considerandolo come l'essenza divina delle cose;
imperocchè tutto si ri cava dal fuoco ed in esso tutto si risolve. La sepa
razione avviene per odio, ma senza che riman gano intervalli vacui. L'amore
congiunge le cose eterogenee, l'odio le omogenee, operando la sepa razione del
composto. Vi sono periodi nella for mazione del mondo. Ma il mondo mosso è sola
mente una parte del tutto, il dominio dell'odio solo sottordinato, ed anche
solo presente nella rappre sentazione. Prima si formano le cose elementari, il
sole, l'aria, il mare, la terra, poi da questi pro vengono le organiche per
mezzo dell'amore; le piante e gli animali si formano dal concorso degli
elementi, ma in principio le membra esistendo se paratamente hanno prima luogo
i mostri. La na tura organica essendo formata dall'amore è il pas. saggio alla
vita beata nello sfero. Gli spiriti sono trasmigrati in corpi per delitto,
epperò sono neces sarie le purificazioni. Tutto è ripieno di ragione e
partecipa alla conoscenza. Gli elementi non godono di vita pacifica, essendo
svelti dallo sfero, mossi dall'odio, epperciò ricevono diverse forme senza
propria metempsicosi. Tale migrazione per tutte le forme è la miseria delle
cose, conseguenza dell’o dio. Rimedio contrario è l'intiero abbandono all'a
more. Non v'ha guarentigia d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La
cognizione de' corpi ha per fondamento l'osservazione sensibile, ed è opera
dell'unione meccanica de'corpi per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e
delle correnti che pene 106 FILOSOFIA GRECA trano in altri corpi per via
de'pori (xotha ). L'unione delle impressioni sensibili nella coscienza,
spiegasi col congiungersi del sangae nel cuore. Questa co gnizione procura
l'opinione, ma non il vero sapere. La cognizione divina è somministrata dalla
ragione ed avviene in maniera mistica per mezzo della pu rificazione. — La
filosofia di Empedocle è il primo tenue saggio per rettificare le nozioni
sensibili coi puri concetti della ragione, e disgiungere dai feno meni fisici
la cognizione del vero reale, ossia il fondamento sensibile delle cose. La sua
fisica ha tutti i difetti della spiegazione meccanica della na tura. Anch'egli
si duole della ristrettezza dell'uma no intendimento. Si racconta che incontrò
la morte nel cratere dell'Etna. Empedocle aveva scritto un poena didattico
sulla natura, ma non ne perven nero a noi che frammenti. GORGIA da Leonzio, verso l'anno 440, discepolo
d’Empedocle, fu anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e
buono. Egli si portò 112 FILOSOFIA GRECA in Atene in qualità d'ambasciatore, si
attirò gli sguardi per una nuova maniera oratoria, viaggið all'intorno,
raccolse molto danaro dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue
orazioni sono meramente pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde.
Egli si vantava di parlare all'im provviso di tutto, sia brevemente sia a
lungo, e di sapere a tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria
consiste in artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù,
tenendo l'arte di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli
Eleati pose il non - esistente. Egli sosteneva tre tesi: 1 ° egli v'ha niente,
nè l'essere nè il non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve
aver principio o deve averlo, od ambi assieme. Se non ha principio è eterno,
perciò un non - essere, è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od
in se stesso od in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo
contenente e contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito;
però ambi i casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o
dall'esistente o dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la
presupposizione eterno e non avrebbe principio, nel secondo dovrebbe il nulla
come non esistente, produrre alcuna cosa. Ma il nulla esistendo, l'es sere
dovrebbe essere non esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti.
L'essere poi non po trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per
essere un'antitesi. Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti
l'essere PRIMO PERIODO - ATOMISTI E SOFISTI. 113 stesso non potrebbe essere. 2°
Quand'anche qual che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe conoscere, perchè non
si può pensare che il pensabile, non il reale che è fuori del pensiero. Vi ha
differenza tra il pensato ed il reale (questa distinzione è vera, maGorgia ne
fece un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa fosse pensabile, essa
pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il concetto ed il discorso si
possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone aveva già adoperato gli ele
menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse stesse la loronullità a
frontedella verità puramente razionale; Gorgia si prevalse degli elementi della
dottrina eleatica intorno alla ragione per annullare l'ultima stessa, essendo
contraria alla verità delle nozioni sensibili, ed il pensiero potendo solamente
produrre apparenze. $ 80 In tal maniera fini il primo periodo della filosofia
greca. I lonii partirono dalla natura, ossia dalmondo, gli Eleati da Dio; i
primi rifletterono meno alla Di vinità, facendone conto solamente come
dellaforza prima della natura o della vita; imperocchè per essa solamente
intendevano a spiegare l'origine del mondo o per via dinamica o meccanica,
finchè Anassagora separò Dio dalla materia, però ad ambi attribuendo pari
originalità e concedendo solo al primo la direzione del mondo. Gli Eleati
rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al monismo, ma 114 FILOSOFIA GRECA
non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del mondo,
cercando un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma solo ap
parente. Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli finalmente
Dio, la religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato la mo rale
in un canto. Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del mondo col
suo ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe riguardo al
morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi un nuovo
eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate, quantunque egli non
abbia seguito la direzione scientifica, ma solo la pratica e religiosa. A ciò
conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per investigare la
natura, Dio e la moralità; ma anche questi uomini dovettero soccombere al
grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e circospetto il
secondo. Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti e Sofisti sul
finire del primo periodo, a proteggere la sensualità e l'ateismo. Per opera
degli Scettici prese a domi nare il dubbio; si cercò invano di risolvere il pro
blema dell'unione della materia e dello spirito, dell'intuizione e del pensiero,
e bisogno gettarsi nelle braccia del teosofismo: Così terminava la fi losofia
greca, avendola dal principio alla fine ac compagnata il dubbio e la tristezza.
Il Cristiane simo salvo poiil mondo dalla corruzione intellettuale e morale. I
Romani non ebbero mente filosofica. Essi ac colsero la filosofia greca,
particolarmente l'epicu rea, che rispondeva al loro lusso, e Tito LUCREZIO
TERZO PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. 177 ne fece soggetto di un poema
didattico, cui diede l'antico titolo: Della natura delle cose; anche più
famigliare si resero la dottrina stoica, che accor dandosi all'antico carattere
romano, esercitò in fluenza sulla loro legislazione ed amministrazione, e trovò
ancora rinomati partigiani al tempo del l'impero, cioè Lucio ANNEO SENECA,
maestro di Nerone, autore di molti scritti filosofici, EPITTETO da Terapoli in
Frigia, verso lo stesso tempo, schia vo, il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da
Nicomedia compilò in greco un piccolo manuale (éyxezpidcov) secondo le lezioni
del maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO, imperatore romano dall'anno 164 fino al
180, autore di meditazioni in lingua greca sotto il titolo: Eis éautóv. Seneca
fu più eclettico, Epit teto si attenne ai voti della natura e ridusse la
dottrina stoica alla formola ανέχον και απέχου, 81 stine et abstine. Lo scritto
di Antonino ha carattere di dolcezza e pietà; tutti e tre abbracciarono sola
mente la parte etica della filosofia stoica. Che se questi Epicurei e Stoici
romani si mantennero fedeli ad un solo sistema, MARCO TULLIO CICERONE diede
esempio di un compiuto eclettismo, e tanto egli contribui co'suoi numerosi
scritti a rendere acces sibile ai Romani la filosofia greca, quanto gli mancò
originalità filosofica. Nella pratica preferi il sistema stoico, nella
teoretica l'accademico, accettandovi anche l'epicureo e l'aristotelico. In
generale poi le dottrine di Platone ed ancora più quelle di Aristo tele rimasero
pei Romani tesori nascosti. Francesco
Bertinaria. Keywords: l’indole e le vicende della filosofia italiana. Refs.: determinazione
dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688571982/in/photolist-2mKxrDy
Grice
e Berto – reductio ad absurdum – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “I like Berto, but then, my
first unpublication is on negation and privation! Against my tutee, Sir Peter,
I always took Aristotle’s tertium non datur pretty seriously, but the
consequentia mirabilis I had to re-label implicature; for, as Tertulliano used
to say, ‘Just because it is deaf (ab-surdum), I believe it!” -- Grice: “If Peirce (I lectured on him for
years, and deem him my friend) is right that ‘dictum,’ in Roman, is cognate
with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to translate ‘anti-phasis’ as
‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s phrastic, while the dictio can
be just a signal – as a spoon casting the shadow of a fork, to use Berto’s
genial example!” – Grice: “Berto likes to pose the thing as an x-rhetorical
question: che cosa e una contradizione, -- implicaturum: ‘if anything AT ALL!”
– “He is friends with Priest, so what can you expect!? J). Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia
con una tesi su Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa
università con una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un
post-doc in Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato Chaire
d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia all'École
Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della Scienza e
della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute for Advanced
Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato Logica anche
all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute San
Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van
Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla
University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al
dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair
all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van
Amsterdam. Nel 2007 ha vinto il Premio
Filosofico Castiglioncello, nella sezione giovani, con il libro Teorie
dell'assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione. Nel
l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha assegnato il Premio
Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani ricercatori. Nel ha
ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran Bretagna un finanziamento di 240.000
sterline per il progetto "The Metaphysical Basis of Logic". Nel ha
ottenuto dall'European Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro
per il progetto "The Logic of Conceivability". Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che
cos'è una contraddizione” (Roma, Carocci); “L'esistenza non è logica: dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili” (Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per
Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza);
“Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari, Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali
del Principio di Non-Contraddizione” (Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica
hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La
Dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”;
“Sistemi intelligenti”; “Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il
Giornale di metafisica. Comune
RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno. 3 febbraio 19 luglio ).
Università Ca'Foscari di Venezia, su unive. 23 aprile 20 luglio ).
Aberdeen Amsterdam Archiviato il
12 febbraio in. Aberdeen Archiviato il 9 settembre in.
PhilPapers.org Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23 aprile 23 aprile ).Filosofia Filosofo del XXI
secoloLogici italianiAccademici italiani Professore1973 10 luglio
VeneziaProfessori dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti
dell'Università Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: reductio ad
absurdum, pegaso, il quadrato redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System
Q, Myro’s System G, Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica,
contradizzione, negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione,
Hegel e la contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto,
incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino
come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di
predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della
dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian
dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica
ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786036434/in/dateposted-public/
Grice
e Betti – la lupa; ovvero, problemi di storia della costitutzione politica e
sociale nell’antica Roma – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Camerino). Filosofo. Studia
a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della repubblica e la genesi del
principato in Roma). Insegna per un anno Lettere al Liceo classico di
Camerino e nel 1915 vince il concorso per la libera docenza presso l'Università
di Parma. Trascorre lunghi periodi di studio all'estero, grazie a diverse borse
di studio, nelle più prestigiose università europee (Marburgo, Friburgo e
altre). Nel 1917 diviene professore ordinario all'Università degli Studi
di Camerino. In seguito insegna diritto nelle Università degli Studi di
Macerata (1918-1922), Pavia (1920), Messina (1922-1925, dove ha tra i suoi
allievi Giorgio La Pira e Tullio Segrè), Parma (1925-1926), Firenze
(1925-1927), Milano (1928-1947), Roma (1947-1960). Come Gastprofessor e
visiting professor svolge corsi nelle Università di Francoforte sul Meno, Bonn,
Gießen, Colonia, Marburgo, Amburgo, Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Porto
Alegre, Caracas. Betti è stato uno dei più importanti giuristi italiani di tutti
i tempi e fu tra i principali artefici del codice civile italiano del 1942
tuttora vigente. Collocato fuori ruolo 1960, emerito dal 1965, è chiamato a
insegnare ius romanum alla Pontificia Università Lateranense. Nel corso
della sua attività accademica ha coperto tutti i rami del diritto, in
particolare il diritto romano, civile, commerciale e processuale[2]. Nel 1955
ha fondato presso le Università di Roma e di Camerino l'Istituto di Teoria
dell'interpretazione. È stato socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei e
dottore honoris causa delle Università di Marburgo, Porto Alegre e
Caracas. Per il suo sostegno intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla
Liberazione fu messo agli arresti nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa
un mese per decisione del CLN[3]. Nell'agosto del 1945 fu sospeso
dall'insegnamento e sottoposto a giudizio di epurazione. Il procedimento lo
prosciolse da ogni imputazione. Produzione scientifica Le sue scelte
politiche comunque non hanno compromesso il pregio e l'importanza delle sue
opere. Le sue opere principali sono: Teoria generale del negozio giuridico,
Teoria generale delle obbligazioni, Teoria generale della
interpretazione. Fin dal 1939 fece parte delle commissioni ministeriali
che hanno redatto il codice civile del 1942. L'influenza di Betti fu
determinante nella soluzione, adottata dal guardasigilli Dino Grandi,
dell'abbandono del progetto italo-francese delle obbligazioni e dei contratti
del 1927, che negli intenti originari del piano per la nuova codificazione
avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto libro del codice civile. Altre
opere: “Sulla opposizione dell'exceptio sull'actio e sulla concorrenza tra
loro”; “La vindicatio romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto
privato e nel processo”; “L'antitesi storica tra iudicare (pronuntiatio) e
damnare (condemnatio) nello svolgimento del processo romano”; “Studii sulla
litis aestimatio del processo civile romano”; “Sul valore dogmatico della
categoria contahere in giuristi proculiani e sabiniani”; “La restaurazione
sullana e il suo esito: contributo allo studio della crisi della costituzione
repubblicana in Roma”; “La struttura dell'obbligazione romana e il problema
della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista
dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto
romano”; “La tradizione nel diritto romano classico e giustinianeo”; “Esercitazioni
romanistiche su casi pratici”, “Anormalità del negozio giuridico”; “Diritto
romano”; “Diritto processuale civile italiano”; “Teoria generale del negozio
giuridico”; “Interpretazione della legge e degli atti giuridici: teoria
generale e dogmatica”; “Teoria generale delle obbligazioni”; “Teoria generale
della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni in diritto romano”; “L'ermeneutica
come metodica generale delle scienze dello spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità
di una teoria generale dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la
genesi del principato in Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di
studio approfondito da parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del
Novecento: Emilio Betti: il ruolo del giurista, Milano: Franco Angeli, Ritorno
al diritto: i valori della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^ Sull'intervento a
suo favore di Giuseppe Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà, l’autobiografia in
un’intervista: formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica, Il
Fatto quotidiano, 24 giugno 2017. Bibliografia Crifò, Giuliano (1978). Emilio
Betti. Note per una ricerca, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico, 7, 1978, pp. 165-292. Ciocchetti, Mario (1998). Emilio Betti,
Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, Massimo (2015). Emilio
Betti e l'incontro con il fascismo. Roma Tre-Press. Voci correlate Filosofia
del diritto Ermeneutica giuridica Collegamenti esterni Dizionario Biografico,
su treccani.it. Controllo di autoritàVIAF (EN) 109887066 · ISNI (EN) 0000 0001
1082 3180 · SBN IT\ICCU\CFIV\070637 · LCCN (EN) n79113001 · GND (DE) 11885139X
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· WorldCat Identities (EN) lccn-n79113001 Biografie Portale Biografie Diritto
Portale Diritto Categorie: Giuristi italiani del XX secoloStorici italiani del
XX secoloAccademici italiani del XX secoloNati nel 1890Morti nel 1968Nati il 20
agostoMorti l'11 agostoNati a CamerinoAccademici dei LinceiProfessori della
Sapienza - Università di RomaProfessori dell'Università degli Studi di
CamerinoProfessori dell'Università degli Studi di FirenzeProfessori
dell'Università degli Studi di MacerataProfessori dell'Università degli Studi
di MessinaProfessori dell'Università degli Studi di MilanoProfessori
dell'Università degli Studi di ParmaProfessori dell'Università degli Studi di
PaviaProfessori dell'Università di MarburgoProfessori dell'Università di
ViennaStudiosi di diritto romanoStudenti dell'Università degli Studi di
ParmaStudenti dell'Università di BolognaStudenti dell'Università di
FriburgoStudenti dell'Università di MarburgoStudiosi di diritto civile del XX
secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi di diritto processuale civile del
XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: la lupa; ovvero, problemi di storia
della costituzione politica e sociale nell’antica Roma, auslegung,
auslegungslehre, storia della repubblica romana, diritto romano, exception,
action, vindication, dirittop rivato, iudicare, pronuntiatio, damnare,
condemnation, processor omano, litis aestimatio, processo civile, contaheer,
giurista proculiano, giurista sabiniano, restauraziones ullana, constitutziane
rpeubblicana, obbligazioner omana, cosa giudicata, diritto romanoc lassico,
diritto romano guistinaneo, diritto processuale civile, negozio giuridico,
interpretazione, genesi del principato, lingua romana, lingua latina, base
etnica della antica Roma, i latini, l’eta monarchica, il signficato di ‘rex’
(regere, cf. lex, legare), l’eta repubblicana, res pubica used during l’eta
monarchica, Romolo, il primo re, Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la
stirpe dei patrizi, patrizio, cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio
di Caesar, il principato, Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator
Augusto Ottaviano’, imperio, imperatore, pater familias, paternalism, diritto consuetudinario,
il fuhrer, l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile, romanita,
diritto romano ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano, nazione
romana, romano e sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini,
vocabulario del diritto romano, dizionario di diritto romano, lexicon di
diritto romano, concetto autenticamente romano di auctoritas, lex, legare,
eddictum, decretum, suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio,
diritto penale, diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano,
stato autoritario, concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu,
pontificex massimo, laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785983424/in/dateposted-public/
Grice e Bianco – filosofia dello
spirito; ovvero, la morte di Patroclo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervinara). Filosofo. Grice: “I
like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but ‘della
vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a
‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha
vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua
intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto
il mondo. Laureato in lettere,
filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del
pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo,
dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo
nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al
premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane. Nel corso della sua carriera ricevette per
tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri: nel 1953, nel
1975 e, infine, nel 1995. Accademico di Francia, membro della Columbia Academy,
nella sua lunga attività letteraria conseguì diversi diplomi e riconoscimenti.
Nel 2003 vinse il premio "Elsa Morante" che gli venne consegnato da
Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino
gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore della Campania nel
mondo. Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue straniere,
compresi alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi africani, che aveva
avuto modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva conseguito, inoltre,
una laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di Parigi gli conferì una
laurea honoris causa in lettere. Un
saggio biografico del 2001 e una raccolta di poesie curata da Alfredo Marro,
direttore del Caudino (mensile cervinarese col quale il filosofo ha a lungo
collaborato), si occupano del filosofo cervinarese. Nell'autunno, Franco
Martino gli dedicò una poesia dal titolo "A Carlo Bianco" nel suo
libro Paese mio carissimo. Bianco morì
il 9 aprile a 99 anni mentre stava
lavorando su un testo di Tommaso d'Aquino. Il 29 ottobre la città di Cervinara gli ha dedicato una
piazza nella natia frazione dei Salomoni.
Altre opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria,
Bergamo); “Saggio di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui
confini dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale
come scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di
Sofistica” (Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini
Editore, Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche
Internazionale, Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto
Fiorentino. Vedi Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3
settembre, Sezione Napoli, Archivio storico.
Vedi È morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel 2006
articolo de la Repubblica, 11 aprile, Sezione Napoli, Archivio storico. Alfredo Marro, Un gigante del pensiero,
Edizioni Il Caudino, Cervinara 2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi,
Edizioni Il Caudino, Cervinara 2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie
scelte di Carlo Bianco, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2006. Filomena
Stanzione, Carlo Bianco nella Cultura Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino,
Rotondi 2000. Carlo Bianco, poeta della
fede e del dolore biografia e nel sito
"carlobianco.blogspot". Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX
secoloFilosofi italiani del XX secoloLetterati italiani 1911 25 luglio 9 aprile Cervinara Cervinara. Carlo
Bianco. Keywords: la filosofia dell spirito; ovvero, la morte di Patroclo, Centro
Ricerche Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia dello spirito, kantismo,
spiritualismo, morale, vita, liberta, piazza bianco, cervinara. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Bianco” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51784476367/in/dateposted-public/
Grice e Bobbio – il bisogno del bisogno del senso
del senso – filosofia italiana – Luigi Speranza(Torino). Filosofo. Grice: “My
favourite Bobbio must be his ‘dialettica’ – he knows all about it, since he is
into the Plato/Aristotle models that run most philosophy – some think there is
a third model at play – but …” – “Bobbio is a good one; like me, he is a
philosophical cartographer – into the longitudinal and latitudinal unity of
philosophy – even if he can be picky when it comes to the longitudinal: Italian
only, and uncanonical, like Cattaneo, Gramsci, Croce, … -- Especially
Cattaneo!” Grice: “Bobbio – this is the philosopher, not the infantry general –
is a Griceian in that ‘fiducia reciproca’ becomes an essential meta-goal; he
has been involved with the dispute naturalism/positivism, and has come with
some interesting points about the ‘regole del gioco’ – and whether ‘custom’ can
be a ‘normative fact’!” – “All in all, his philosophy is about trying to look
for an answer to what I deem the fundamental question regarding rational
co-operation – His appeal to philosophical biology or zoology is interesting –
Toby trusts Tibby, the squarrels, as Jack trusts Jill and vice versa – but does
a ‘lupus’ trust a ‘lupus’? Hobbes, who didn’t know the first thing about
zoology, philosophical or other – thought so!” Essential Italian philosopher,
who’s written on Fregeian sense ‘senso,’the need for sensethe search for sense,
meaning meaning. «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi
quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.» (Norberto
Bobbio, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 195515.). Considerato
«al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo
[italiano] della politica […] nella seconda metà del Novecento», fu
«sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura filosofico-giuridica
e filosofico-politica e che più generazioni di studiosi, anche di formazione
assai diversa, hanno considerato come un maestro». Bobbio nacque a Torino
il 18 ottobre 1909 da Luigi (medico) e Rosa Caviglia. Una condizione familiare
agiata gli permise un'infanzia serena. Il giovane Norberto scrive versi, ama
Bach e la Traviata, ma svilupperà, per causa di una non ben determinata
malattia infantile «la sensazione della fatica di vivere, di una permanente e
invincibile stanchezza» che si aggravò con l'età, traducendosi in un taedium
vitae, in un sentimento malinconico, che si rivelerà essenziale per la sua
maturazione intellettuale. Studiò prima al Ginnasio e poi al Liceo
classico Massimo D'Azeglio dove conoscerà Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare
Pavese, poi divenute figure di primo piano della cultura dell'Italia
repubblicana. Dal 1928, come molti giovani dell'epoca, fu infine iscritto al
Partito Nazionale Fascista. La sua giovinezza, come da lui stesso
descritto fu: "vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e
un altrettanto fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti
antifascisti, come Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto
intransigenti antifascisti come Leone Ginzburg e Vittorio Foa".
Allievo di Gioele Solari e Luigi Einaudi, si laureò in Giurisprudenza l'11
luglio 1931 con una tesi intitolata Filosofia e dogmatica del Diritto,
conseguendo una votazione di 110/110 e lode con dignità di stampa. Nel 1932
seguì un corso estivo all'Marburgo, in Germania, insieme a Renato Treves e
Ludovico Geymonat, ove conoscerà le teorie di Jaspers e i valori
dell'esistenzialismo. L'anno seguente, nel dicembre 1933, conseguì la laurea in
Filosofia sotto la guida di Annibale Pastore con una tesi sulla fenomenologia
di Husserl, riportando un voto di 110/110 e lode con dignità di stampa, e nel
1934 ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto, che gli aprì le porte
nel 1935 all'insegnamento, dapprima all'Camerino, poi all'Siena e a Padova (dal
1940 al 1948). Nel 1934 pubblicò il primo libro, L'indirizzo fenomenologico
nella filosofia sociale e giuridica. Le sue frequentazioni sgradite al
regime gli valsero, il 15 maggio 1935, un primo arresto a Torino, insieme agli
amici del gruppo antifascista Giustizia e Libertà; fu quindi costretto, a
seguito di una intimazione a presentarsi davanti alla Commissione provinciale
della Prefettura per discolparsi, a inoltrare esposto a Benito Mussolini. La
chiara reputazione fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una
piena riabilitazione, tanto che, pochi mesi dopo, con il richiesto intervento
di Mussolini e di Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a
Camerino, che era occupata da un altro ordinario ebreo, espulso a seguito delle
leggi razziali. Dopo un diniego iniziale a causa dell'arresto di tre anni
prima, fu reintegrato grazie all'intervento di Emilio De Bono, amico di
famiglia, mentre era presidente di commissione il cattolico e dichiarato
antifascista Giuseppe Capograssi. È in questi anni che Norberto Bobbio
delineò parte degli interessi che saranno alla base della sua ricerca e dei
suoi studi futuri: la filosofia del diritto, la filosofia contemporanea e gli
studi sociali, uno sviluppo culturale che Bobbio vive contemporaneamente al
contesto politico temporale. Un anno dopo le leggi razziali, infatti,
esattamente il 3 marzo 1939, giurò fedeltà al fascismo per poter ottenere la
cattedra all'Siena. E rinnovò il giuramento nel 1940, a guerra dichiarata, per
prendere il posto del professor Giuseppe Capograssi, a sua volta insediatosi
nel 1938 nella cattedra del professor Adolfo Ravà estromesso dall'Padova perché
ebreo. Questo episodio della sua vitaspesso riportato come se Bobbio avesse
preso direttamente il posto di Ravàfu poi oggetto di svariate polemiche.
Nel '42, un giovane Bobbio affermò davanti alla Società Italiana di Filosofia
del Diritto che Capograssi crebbe in «quel rinascimento idealistico del XX
secolo, nel nostro campo di studi iniziato, stimolato, e, quel ch'è di più,
criticamente fondato da Giorgio Del Vecchio». Nel 1942 partecipò al
movimento liberalsocialista fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e,
nell'ottobre dello stesso anno, aderì al Partito d'Azione clandestino.
Nei primi mesi del 1943 respinse l'"invito" del ministro Biggini (che
poco dopo redasse, su impulso di Mussolini, la costituzione della Repubblica di
Salò) a partecipare a una cerimonia presso l'Padova durante la quale si sarebbe
dedicata una lampada votiva da collocare al sacrario dei caduti della
rivoluzione fascista nel cimitero della città. Nel 1943 sposò Valeria
Cova: dalla loro unione nacquero i figli Luigi, Andrea e Marco. Il 6 dicembre
del 1943 fu arrestato a Padova per attività clandestina e rimase in carcere per
tre mesi. Nel 1944 venne pubblicato il saggio La filosofia del decadentismo,
nel quale criticò l'esistenzialismo e le correnti irrazionalistiche,
rivendicando al contempo le esigenze della ragione illuministica. Dopo la
liberazione collaborò regolarmente con Giustizia e Libertà, quotidiano torinese
del Partito d'azione, diretto da Franco Venturi. Collaborò all'attività del
Centro di studi metodologici con lo scopo di favorire l'incontro tra cultura
scientifica e cultura umanistica, e poi con la Società Europea di
Cultura. Nel 1945 pubblicò un'antologia di scritti di Carlo Cattaneo, col
titolo Stati uniti d'Italia, premettendovi uno studio, scritto tra la primavera
del 1944 e quella del 1945 dove sosteneva che il federalismo come unione di
stati diversi era da considerarsi superato dopo l'avvenuta unificazione
nazionale. Il federalismo a cui pensava Bobbio era quello inteso come
"teorica della libertà" con una pluralità di centri di partecipazione
che potessero esprimersi in forme di moderna democrazia diretta. Nel
1948 lasciò l'incarico a Padova e venne chiamato alla cattedra di filosofia del
diritto dell'Torino, annoverando corsi di notevole importanza come Teoria della
scienza giuridica (1950), Teoria della norma giuridica (1958), Teoria
dell'ordinamento giuridico (1960) e Il positivismo giuridico (1961). Dal
1962 assunse l'incarico di insegnare scienza politica, che ricoprirà sino al
1971; fu tra i fondatori della odierna facoltà di Scienze politiche all'Torino
insieme con Alessandro Passerin d'Entrèves, al quale subentrò nella cattedra di
filosofia politica nel 1972 mantenendola fino al 1979 anche per l'insegnamento
di Filosofia del diritto e Scienza politica. Dal 1973 al 1976 divenne preside
della facoltà ritenendo che mentre gli incarichi accademici fossero «onerosi e
senza onori» era l'insegnamento l'attività principale della sua vita: «un abito
e non solo una professione». La politica, del resto, divenne via via un
tema fondamentale nel suo percorso intellettuale e accademico, e parallelamente
alla pubblicazioni di carattere giuridico, aveva avviato un dibattito con gli
intellettuali del tempo; nel 1955 aveva scritto Politica e cultura, considerato
una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969 era uscito il libro Saggi sulla
scienza politica in Italia. Nei venticinque anni accademici all'ombra della
Mole Antonelliana, Bobbio svolse anche diversi tra corsi su Kant, Locke, lavori
su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo, Hegel, Vilfredo Pareto, Gaetano
Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con una pluralità di saggi,
scritti, articoli e interventi di grande rilievo che lo portarono, in seguito a
diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della British Academy. Divenuto
condirettore con Nicola Abbagnano della Rivista di filosofia a partire dal '53,
fu come questi socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, della quale entrò
a far parte il 9 marzo dello stesso anno per essere confermato socio nazionale
e residente dal 26 aprile 1960. Significativa la collaborazione, sul tema
pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo Capitini, le cui riflessioni
comuni sfoceranno nell'opera I problemi della guerra e le vie della pace
(1979). Nel 1953 partecipò alla lotta condotta dal movimento di Unità
Popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel 1967 alla Costituente
del Partito Socialista Unificato. Nel tempo delle contestazioni giovanili,
Torino fu la prima città a farsi carico della protesta, e Bobbio, fautore del
dialogo, non si sottrasse a un difficile confronto con gli studenti, tra i
quali il suo stesso primogenito Luigi che militava all'epoca in Lotta Continua.
Nel contempo, venne anche incaricato dal Ministero per la Pubblica Istruzione
quale membro della Commissione tecnica per la creazione della facoltà di
sociologia di Trento. Guido Calogero e Norberto Bobbio alla Rencontres
internationales de Genève Nel 1971 Bobbio fu tra i firmatari della lettera
aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso sul caso Pinelli. Nel 1998
Norberto Bobbio in una lettera indirizzata ad Adriano Sofri pubblicata su La
Repubblica ripudiò il tono del linguaggio utilizzato nell'appello ma senza
ritrattarne l'adesione al contenuto di critica sui fatti legati a Piazza
Fontana. Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò intorno al problema
democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che «questa nostra democrazia è
divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento dietro cui si
nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato, sempre più
esorbitante [...] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la
tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno
a un'oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto
con la corruzione. La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è
l'ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime
che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso
separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che
dove c'è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare. Sono
molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a
poco a poco [...] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili
degenerazioni».[25] A metà degli anni settanta, nel solco di un sempre
più vivace impegno civile, e alle soglie di uno dei periodi più drammatici in
Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro), provocò un vivace
dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista sia trattando
estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo. L'8 maggio 1981,
alla vigilia dei referendum sull'aborto, rilascia un'intervista al Corriere
della Sera nella quale afferma la sua contrarietà all'interruzione della
gravidanza. Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una
"politica per la pace", con motivati distinguo a sostegno del diritto
internazionale in occasione della Guerra del Golfo del 1991. Delle
venticinque lettere inedite che fanno parte della corrispondenza epistolare che
Bobbio tenne con Danilo Zolo e che ora sono state rese pubbliche nel volume
L'alito della libertà, a cura dello stesso Zolo, interessante quella del 25
febbraio 1991 riguardante la "Guerra del Golfo" che vide protagonisti
nel gennaio del 1991 gli Stati Uniti di George Bush senior, le forze dell'ONU e
vari paesi arabi alleati contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il
Kuwait. Bobbio definì "giusta" questa guerra non rendendosi conto che
quella parola «... poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo
intesa io... come guerra "giustificata" in quanto rispondente a
un'aggressione.» Bobbio quindi si lamentò delle polemiche nate al riguardo da
parte di "pacifisti da strapazzo". Il fatto che l'ONU, scrisse
Bobbio, avesse autorizzato l'intervento in guerra contro l'Iraq, la rendeva
"legale", in questo senso, "giusta". Bobbio però
riconobbe che l'ONU fosse stato successivamente, nel corso della guerra, messo
da parte e gli "spietati bombardamenti" su Baghdad hanno fatto sì che
si possa temere che «...se la pace sarà instaurata con la stessa mancanza di
saggezza con cui è stata condotta la guerra, anche questa guerra sarà stata,
come tante altre inutile.» Nel 1979 fu nominato professore emerito
dell'Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della
Costituzione italiana, avendo «illustrato la Patria per altissimi meriti» in
campo sociale e scientifico, fu nominato senatore a vita dal Presidente della
Repubblica Sandro Pertini. In quanto membro del Senato si iscrisse prima come
indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto ed infine dal
1996 al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi
divenuto dei Democratici di Sinistra.[27] Norberto Bobbio e Natalia
Ginzburg a Barolo per festeggiare gli ottant'anni di Vittorio Foa. Dopo la stagione
di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima Repubblica, venne pubblicato
il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti provocarono un notevole dibattito
culturale, agitando non poco l'humus della politica italiana. Il libro toccò le
cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato l'anno
successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici. A
riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto,
della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo, tra ethos
e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università, tra le
quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in particolare
alla Complutense) e Bologna,[29] e vinse il Premio europeo Charles Veillon per
la saggistica nel 1981, il Premio Balzan ed il Premio Agnelli nel 1995.
Nel 1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione
aggiornata del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel
2001 morì la moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita
pubblica, pur rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero
rumore le sue osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi sia
della partitopenia (ossia mancanza di partiti)[31], e le riflessioni sulla
crisi della sinistra e della socialdemocrazia europea. Il 18 ottobre 2003,
ricevette il "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno
politico e il contributo alla riflessione storica e culturale". Dopo
avervi trascorso la maggior parte della vita, Norberto Bobbio morì a Torino il
9 gennaio 2004. Secondo le sue volontà, alcuni giorni dopo la morte, la salma
venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di
Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia di Alessandria.[32][33] Il
pensiero di Norberto Bobbio si forma nei primi decenni del Novecento in una
temperie filosofica dominata dell'idealismo. Tuttavia, come molti studiosi
torinesi, non abbraccia mai questa visione del mondo: dopo un primo accostamento
alla fenomenologia, significativamente attestato dalle sue opere sulla
filosofia di Husserl, si avvicina al filone neorazionalista e neoempirista
fiorito in Europa, specialmente oltralpe in Germania ed attorno al Circolo di
Vienna. Negli anni quaranta e cinquanta Bobbio entra in contatto con la
filosofia analitica di tradizione anglosassone. Compie studi di analisi del
linguaggio, tracciando le prime linee di ricerca della scuola analitica
italiana di filosofia del diritto, di cui è ancora oggi riconosciuto figura
eminente di riferimento. Al riguardo vanno menzionati perlomeno i due saggi:
Scienza del diritto e analisi del linguaggio del 1950[34] e Essere e dover
essere nella scienza giuridica del 1967[35]. Dedica studi specifici a
Hobbes, a Pareto e a molti filosofi e teorici della politica di cui già s'è
detto. Vede nell'Illuminismo un modello di rigore e di rifiuto del dogmatismo
di cui riprende l'ideale razionalistico, traducendolo anche nell'analisi del
sistema democratico e parlamentare. Sino dagli anni cinquanta si occupa di temi
quali la guerra e la legittimità del potere, dividendo la sua produzione tra la
filosofia giuridica, la storia della filosofia e i temi di attualità
politica. Durante gli ultimi anni del fascismo, Bobbio matura la convinzione
della necessità di uno Stato democratico, che sgombri il campo dal pericolo
della politica ideologizzata e delle ideologie totalitarie sia di destra che di
sinistra; auspica una gestione laica della politica e un approccio
filosofico-culturale ad essa, che aiuti a superare la contrapposizione fra
capitalismo e comunismo e a promuovere la libertà e la giustizia. Nel
saggio Quale socialismo? (1976), Bobbio critica sia la dialettica marxista sia
gli obiettivi dei movimenti rivoluzionari, sostenendo che le conquiste borghesi
dovevano estendersi anche alla classe dei proletari. Bobbio ritiene
fallimentare solo l'esperienza marxista-leninista, mentre prevede che le
istanze di giustizia rivendicate dai marxisti possano, in futuro, riaffiorare
nel panorama politico. Il pensiero di Bobbio diviene così, soprattutto
tra gli intellettuali dell'area socialista, un modello esemplare, grazie al suo
'sapere impegnato', certamente «più preoccupato di seminare dubbi che di
raccogliere consensi». Egli stesso riprenderà la riflessione su un tema a lui
caro, quello del rapporto tra politica e cultura, proponendo, tra le pagine di
Mondoperaio, una «autonomia relativa della cultura rispetto alla politica»
secondo la quale «la cultura non può né deve essere ridotta integralmente alla
sfera del politico». Nel 1994 esce l'opera Destra e sinistra, nella quale
Bobbio focalizza le differenze fra le due ideologie e i due indirizzi
politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è caratterizzata dalle tendenze
alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è ispirata da interessi, mentre la
sinistra persegue l'uguaglianza, la trasformazione, ed è sospinta da ideali. In
quest'opera, Bobbio si esprime anche in favore dei diritti animali[36].
Nell'opera L'età dei diritti (1990), Bobbio individua i diritti fondamentali
che consentono lo sviluppo di una democrazia reale e di una pace giusta e
duratura. Una partecipazione collettiva e non coercitiva alle decisioni
comunitarie, una contrattazione delle parti, l'allargamento del modello
democratico a tutto il mondo, la fratellanza fra gli uomini, il rispetto degli
avversari, l'alternanza senza l'ausilio della violenza, una serie di condizioni
liberali, vengono indicati da Bobbio come capisaldi di una democrazia, che
seppur cattiva, è preferibile ad una dittatura. Per tutta la vita
scrittore di numerosissimi articoli, anche tramite interviste, Norberto Bobbio
incarna l'ideale della filosofia critica e militante che lo vede protagonista
anche del Centro di studi metodologici di Torino e tra i fondatori del Centro
studi Piero Gobetti di Torino che conserva la sua biblioteca e il suo
archivio, «Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché
ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o
esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande
domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello
che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di
me.» (Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni,
Milano 19948.) Contrario alla figura dell'intellettuale «Profeta»[37],
preferendo il ruolo del «Mediatore» impegnato «nella difficile arte del
dialogo» (e ciò è anche testimoniato dal colloquio intrattenuto con i marxisti
per un riesame critico del loro «dogmatismo e settarismo» che coinvolse anche
Togliatti), il suo atteggiamento teoretico fu segnato da una positiva
«ambivalenza» fra una posizione realista e una idealista che non rifuggiva le
complessità del discorso, ricorrendo sovente al paradosso. Ciò gli valse, in
virtù dell'amore per il dibattito che consideri «il pro e il contro» di ogni
questione, la qualifica di filosofo «de la indecisión» (Rafael de Asís
Roig)[41][42], giacché ogni suo «ragionamento su una delle grandi domande [si
concludeva] quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o
ponendo ancora un'altra grande domanda». Nell'ultimo libro che raccoglie saggi,
scritti e testimonianze su maestri, amici ed allievi, Bobbio comincia
ricordando i tre maestri Francesco Ruffini, Piero Martinetti e Tommaso Fiore.
L'elenco degli amici è lungo e annovera compagni di studio come Antonino
Repaci[44][45] come Renato Treves e Ludovico Geymonat e colleghi come Nicola
Abbagnano, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves e Giovanni Tarello.
Bobbio ricorda poi gli allievi Paolo Farneti, Morris Lorenzo Ghezzi, Amedeo
Giovanni Conte, Uberto Scarpelli che, come Bobbio stesso scrive, nel 1972 fu
naturaliter suo successore a Torino sulla cattedra di Filosofia del diritto.
Traggono ispirazione dal pensiero di Bobbio le "lezioni Bobbio",
svoltesi nel 2004, e la manifestazione "Biennale Democrazia" di
Torino. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e
dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della
scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1966.[46] Gran Croce del
Merito Civilenastrino per uniforme ordinariaGran Croce del Merito Civile —
Roma, Laurea honoris causa in Scienze Politichenastrino per uniforme ordinaria Laurea
honoris causa in Scienze Politiche — Università degli Studi di Sassari, 5
maggio 1994. Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Aztecanastrino per
uniforme ordinaria Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Azteca — Torino, Intitolazioni A Norberto Bobbio è stata
intitolata la biblioteca dell'Torino, sita in Lungo Dora Siena, 100 A.
Gli è stato inoltre intitolato un istituto di istruzione superiore a Carignano,
nella provincia di Torino, denominato appunto "I.I.S Norberto
Bobbio". A lui è intitolata la biblioteca civica di Rivalta Bormida,
paese natale della madre Rosa Caviglia. Altre opere: “Saggi” (Roma-Bari,
Laterza); “L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica” (Di
Lucia, Torino, Giappichelli); “Scienza e tecnica del diritto” (Torino, Istituto
giuridico della Regia Università); “L'analogia nella logica del diritto” (Di
Lucia, Milano, Giuffrè); “La consuetudine come fatto normative” (Torino,
Giappichelli); “La filosofia del decadentismo, Torino, Chiantore); “Stati Uniti
d'Italia. Scritti sul federalismo democratico” (Roma, Donzelli); “Teoria della
scienza giuridica, Torino, Giappichelli); “Politica e cultura” (Torino,
Einaudi); “Studi sulla teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli);
“Teoria della norma giuridica” (Torino, Giappichelli); “Teoria dell'ordinamento
giuridico, Torino, Giappichelli); “Teoria generale del diritto, Torino,
Giappichelli); “Il positivismo giuridico, Lezioni di Filosofia del diritto” (Torino,
Giappichelli); “Locke e il diritto naturale” (Torino); “Da Hobbes a Marx. Saggi
di storia della filosofia” (Napoli, Morano); “Italia civile. Ritratti e
testimonianze” (Firenze, Passigli); “Giusnaturalismo e positivismo giuridico”
(Roma-Bari, Laterza); “Profilo ideologico del Novecento italiano” (Milano, Garzanti);
“La scienza politica in Italia” (Roma-Bari,
Laterza); “Diritto e Stato in Kant” (Torino, Giappichelli); “Una filosofia militante”
(Torino, Einaudi); “La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero
politico” (Torino, Giappichelli); “Quale socialismo? Discussione di
un'alternativa” (Torino, Einaudi); “Il problema della guerra e le vie della
pace” (Bologna, Il Mulino); “Studi hegeliani. Diritto, società civile, Stato,
Torino, Einaudi); “Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia,
socialismo, comunismo, terza via e terza forza, Firenze, Le Monnier); “Il
futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Torino, Einaudi); “Maestri
e compagni, 3ª ed., Firenze, Passigli); “Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla
pace e sulla guerra” (Casale Monferrato, Sonda); “Hobbes, Torino, Einaudi); “L'età
dei diritti, Torino, Einaudi, “Il dubbio
e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma,
Carocci); “Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore);
“Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” (Roma,
Donzelli); “Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana” (Roma,
Donzelli); “Eguaglianza e libertà” (Torino, Einuadi); “De senectute e altri scritti
autobiograficiPolito, prefazione di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi); “Né con
Marx né contro Marx, C. Violi, Roma, Editori Riuniti); “Autobiografia, A.
Papuzzi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza); “Teoria generale della politica, M.
Bovero, Torino, Einaudi); “Trent'anni di storia della cultura a Torino”
(Torino, Einaudi); “Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo
e Democrazia” (Milano, Simonelli); Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo”
(Bari, Dedalo); “Etica e politica. Scritti di impegno civile” (Mondadori). Premio
"Artigiano della Pace"giovanipace.sermig.org, su
giovanipace.sermig.org. 3 dicembre
(archiviato dall'url originale l'8 dicembre ). Premi e
riconoscimenti a Norberto Bobbiocentenariobobbio, su centenariobobbio. Fondazione
Internazionale BalzanPremiati: Norberto Bobbiobalzan.org Hegel-Preis der Landeshauptstadt
StuttgartStadt Stuttgart: Bisherige Preisträgerstuttgart.de Luigi Ferrajoli, L'itinerario di Norberto
Bobbio: dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia, in
Teoria politica, N. Bobbio, seconda tavola fuori testo. Scrive Bobbio:
«[Fui] esonerato, per mia vergogna, dalle ore di ginnastica per una malattia
infantile restata, almeno per me, misteriosa». (Norberto Bobbio, De senectute,
Einaudi, Torino Fondo Norberto BobbioL'Inventario: Stanza studio Bobbio
(SB)centrogobetti, su centrogobetti, N.
Bobbio18. Cesare Maffi, Massimo
Bontempelli: punito da fascisti e antifascisti, in ItaliaOggi, n. 206, 1º
settembre 11. Nello Ajello, Una vita per
la democrazia nel secolo delle dittature, su ricerca.repubblica, Anna Pintore,
RAVÀ, Adolfo Marco, in Dizionario biografico degli italiani, 86, Torino, Treccani,. 28 aprile. A puro titolo d'esempio si veda Diego
Gabutti, Norberto Bobbio non esitò a occupare la cattedra del professore ebreo
Adolfo Ravà, cacciato dall'università per motivi razziali, in ItaliaOggi, Francesco Gentile, Società italiana di
filosofia del diritto (atti del XXV Congresso), La via della guerra e il
problema della pace, Vincenzo Ferrari, Filosofia giuridica della guerra e della
pace, Milano, Courmayeur, Franco Angeli,
"Laicità e immanentismo nel pensiero di Norberto Bobbio", di
Alfonso Di Giovine, in Democrazia e diritto, Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,
volume 9. Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale, POMBA, Torino Norberto Bobbio, Tra due repubbliche: alle
origini della democrazia italiana, Donzelli Editore, Fortini si reca in Cina in
visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese con la prima delegazione
italiana formata, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Enrico
Treccani e Cesare Musatti. Il viaggio durerà un mese e il diario della visita
verrà pubblicato l'anno seguente in Asia Maggiore. Così Fortini chiama scherzosamente Bobbio
assimilandolo a Cartesio (Descartes) e al suo razionalismo Franco Fortini, Asia Maggiore, Einaudi,
Torino Ricordo di Norberto bobio, in Rivista
di Filosofia, Bologna, Società Editrice
Il Mulino, Proiflo biografico di Norberto Bobbio, su accademiadellescienze, N. Bobbio, decima tavola fuori testo. "Non dobbiamo chiedere scusa per Piazza
Fontana" Guido Fassò, La democrazia
in Grecia, Giuffrè Editore, Milano «con
l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il
concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni:
«Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri
come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non
uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il
privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».(in Intervista a
Bobbio) Senato della Repubblica, su
senato. N. Bobbio, ventesima tavola
fuori testo. Centenario Norberto Bobbio,
su centenariobobbio 5 aprile 2009).
Premio Balzan [collegamento interrotto], su balzan.com. I timori di Bobbio Democrazia senza partitiLa
Repubblica Ha lasciato scritto Norberto
Bobbio: «Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina a
dire il vero, l'ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure
lontanamente pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante
le affettuose cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi
accade spesso nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione
'stanchezza mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza 'mortale' è il riposo
della morte. Decido funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei
figli. In un appunto del 10 maggio 1968 (più di trent'anni fa) trovo scritto:
vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione
dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per
tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico.
Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la
ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano
in vari modi. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di
coloro che sono più vicini, il silenzio. Breve cerimonia in casa, o, se sarà il
caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso
dei discorsi funebri». (Ne La Repubblica la cronaca del funerale di
Bobbio.) Né ateo né agnostico ma lontano
dalla Chiesa, in «La Repubblica», 10 gennaio 2004. Norberto Bobbio, Scienza del diritto e
analisi del linguaggio, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
n. 2, giugno 1950, 342-367. 5 luglio. Norberto Bobbio, Essere e dover essere nella
scienza giuridica, in Rivista di filosofia, n. 3, luglio-settembre 1967, 235-262. 5 luglio. «Mai come nella nostra epoca sono state messe
in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza
ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella
piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è
uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso
l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti
sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti
della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare,
il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile
estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del
genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono
eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per
cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa
dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano». (da Destra
e sinistra, Donzelli, Roma 1994) N.
BobbioLIV, nota 11: «È significativo che nella sua ultima lezione accademica
tenuta come titolare della cattedra di Filosofia della politica a Torino ipresente’
come egli stesso ricorderà ‘il collega cui mi sentivo intellettualmente e
politicamente più vicino, Alessandro Passerin d'Entrèves’, Bobbio abbia citato
‘con forza la celebre frase che subito dopo la Prima guerra mondiale, di fronte
agli allievi, che pretendevano dal celebre professore un orientamento politico,
Max Weber pronunciò: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti»’.
(N. Bobbio, Il mestiere di vivere, il mestiere di insegnare, il mestiere di
scrivere, colloquio con Pietro Polito, in “Nuova Antologia”, N. Abbagnano, Storia
della filosofia, IX, POMBA per Gruppo
Editoriale L'Espresso S.p.A., Torino ove è detto: «Bobbio, dai primi anni
Cinquanta in poi, ha ricorrentemente tallonato la sinistra marxista,
provocandola con intenti costruttivi e spingendola ad un esame critico del suo
persistente dogmatismo e settarismo. Il documento più importante di tali
provocazioni, nel decennio in esame, è la raccolta di saggi Politica e cultura
del Alcuni di questi saggi appaiono in origine sulla rivista ‘Nuovi argomenti'
che [...] costituisce in quegli anni uno dei più significativi luoghi
d'incontro tra area laica e quella marxista. Lì appare, nel 1954, uno dei saggi
più provocatori, in senso costruttivo, [...] rivolti a quest'area (dalla quale
si risponderà con gli interventi di Della Volpe e di Togliatti): quello dal
titolo molto significativo Democrazia e dittatura». Scrive Bobbio: «Pur non essendo mai stato
comunista [...] [e] avendo dedicato la maggior parte degli scritti di critica
politica a discutere coi comunisti su temi fondamentali come la libertà e la
democrazia [...], [ho] sempre considerato i comunisti, o per lo meno i
comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un
dialogo sulle ragioni della sinistra». (N. Bobbio, Teoria generale della politica,
Einaudi, Torino 2009618) Sul pensiero di
Bobbio circa il comunismo, si veda anche l'intervista Giancarlo Bosetti, «No,
non c'è mai stato il comunismo giusto», in l'Unità, 3 aprile 1998. Segue alla pagina
successiva Archiviato N. Bobbio203. N.
BobbioXVII. N. Bobbio, Elogio della
mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.
Antonino Repaci, magistrato e uomo della Resistenza, nipote di Leonida
Repaci Istituto storico della Resistenza
e della società contemporanea in provincia di Cuneo, su beniculturali.ilc.cnr:8080.
19 febbraio 26 aprile ). Sito della Presidenza della Repubblica,
quirinale Comune di Rivalta Bormida | La
Biblioteca, su comune.rivalta.al. 14 luglio. Norberto Bobbio,
Giuseppe Tamburrano, Carteggio su marxismo, liberalismo, socialismo, Roma, Editori
Riuniti, Pier Paolo Portinaro,
Introduzione a Bobbio, Roma-Bari, Laterza, Voce "Norberto Bobbio" in,
Biografie e bibliografie degli Accademici Lincei, Accademia dei Lincei, Roma, Enrico
Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di Norberto
Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino, Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio
l'accento sulla democrazia, in "Storia e problemi contemporanei", Angelo
Mancarella, Norberto Bobbio e la politica della cultura. Le sfide della
ragione, "Ideologia e Scienze sociali", 26, Lacaita Editore,
Bari-Roma 1995 Giuseppe Gangemi, Meridione, Nordest, Federalismo. Da Salvemini
alla Lega Nord, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Girolamo Cotroneo, Tra
filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio, Soveria Mannelli, Rubbettino,
1998, Silvio Paolini Merlo, Consuntivo
storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino
(1940-1979), Pantograf (CNR), Genova Morris Lorenzo Ghezzi, La distinción entre
hechos y valores en el pensamento de Norberto Bobbio, Editorial U. Externado de
Colombia, Bogotá, Tommaso Greco, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale
tra filosofia e politica, Donzelli, Roma 2000 Costanzo Preve, Le contraddizioni
di Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale, CRT, Pistoia
2004 Gustavo Zagrebelsky, Massimo L. Salvadori, Riccardo Guastini, Norberto
Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005 Marco Revelli, Norberto
Bobbio maestro di democrazia e di libertà, Cittadella Editrice, Assisi 2005
Valentina Pazé, L'opera di Norberto Bobbio. Itinerari di lettura, Milano, Franco
Angeli, Roberto Giannetti, Tra liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul
pensiero politico di Norberto Bobbio, Plus, Pisa 2006 Antonio Punzi, Omaggio a
Norberto Bobbio, Metodo, linguaggio, Scienza del diritto, Giuffrè, Milano 2007
Paola Agosti, Marco Revelli, Bobbio e il suo mondo. Storie di impegno e di
amicizia nel '900, Aragno, Torino 2009 Enrico Peyretti, Dialoghi con Norberto
Bobbio su politica, fede, nonviolenza, Claudiana, Torino () Nunzio Dell'Erba,
Norberto Bobbio, in Id., Intellettuali laici nel '900 italiano", Vincenzo
Grasso editore, Padova, 235–254 Pier
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PensieroDiritto, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Ruiz Miguel
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biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Norberto Bobbio, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Norberto Bobbio, su Find a Grave. Opere di Norberto Bobbio, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra
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Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio
(altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra
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Repubblica. Registrazioni di Norberto
Bobbio, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Le opere di Norberto Bobbio (Biblioteca e Archivio "Norberto
Bobbio" del Centro Studi "Piero Gobetti" di Torino), su erasmo.
Commemorazione di Norberto Bobbio, su giornaledifilosofia.net. Epistolario
Norberto BobbioDanilo Zolo Norberto Bobbio, dal sito dell'ANPIAssociazione
Nazionale Partigiani d'Italia (ultimo accesso del 15 ottobre 2009) I
presupposti filosofici nell'opera di Norberto Bobbio di Franco Manni V D M Antifascismo
V D M Senatori a vita di nomina presidenziale Filosofia. Norberto Bobbio. Keywords: il bisogno del bisogno del
senso del senso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bobbio," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685954349/in/photolist-2mTBDZh-2mTsNRZ-2mSXjtg-2mT5MZr-2mSVv1C-2mSSQnN-2mS25MY-2mRFcpq-2mRsvph-2mRgKq7-2mRfyWo-2mQwYd8-2mQjVch-2mQjnue-2mQ81kz-2mPQGvz-2mPUHFB-2mPyn68-2mPvJmk-2mPoj9X-2mPqEPu-2mN9XHg-2mMZzKx-2mLQdrQ-2mKFrQ6-2mKHfUW-2mLznXk-2mPnLLb-2mLGv16-2mKwv6q-2mPHbXQ-2mPLygi-2mKbok1-2mKhn9c-2mKfNvB-2mKbfaU-2mKbkhx-2mJR8Pr-2mJPC2N-2mKj2vX-2mKgCuj
Grice
e Boccadiferro – luogo comune – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “Boccadiferro is a good one; he
is what Oxonians call ‘a Renaissance man,’ and all’italiana, he has a beautiful
carved grave – He was into ‘physica,’ or physics, what Lord Russell would call
‘stone-age metaphysics,’ but the Italians call ‘fisica medievale,’ and he was
surely an Aristotelian – Platonic physics is a florentine, rather than a
Bolognese thing – no wonder the first stadium ever in Italy started in Bologna,
not Firenze, whose Accademia platonica was the place to see and be seen!” -- Ludovico Boccadiferro Bologna: la tomba di Boccadiferro nella
basilica di San Francesco Ludovico Boccadiferro (Bologna) filosofo e umanista
italiano. Il suo nome latino è 'Ludovicus Buccaferrea, Da una illustre famiglia cittadina, dopo aver
seguito le lezioni dei filosofi Alessandro Achillini dal quale derivò il suo
orientamento averroistico, e forse Pietro Pomponazzi, presso lo Studio di
Bologna, Ludovico Boccadiferro insegnò a sua volta filosofia nella medesima
università. Nel 1525 si trasferì alla Sapienza di Roma ove ebbe modo di farsi
apprezzare anche da papa Clemente VII. Alla Sapienza rimase sino al 1527
quando, a seguito del rovinoso sacco di Roma dei lanzichenecchi, tornò a
Bologna per riprendere l'insegnamento che mantenne fino sua alla morte,
avvenuta nella città natale a circa sessantatré anni nel 1545. È sepolto in una
tomba monumentale all'interno della basilica di San Francesco a Bologna. Scrisse diverse opere, in buona parte edite
postume o mai pubblicate, sulla filosofia aristotelica. Altre opere: “Explanatio
libri I physicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Nova explanatio
Topicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Lectiones in quartum meteororum
Aristotelis librum” (Venezia, Francisci Senensis); “Philosophi praeclarissimi
Lectiones super primum librum meteorologicorum Aristotelis, nunc recens in
lucem editae, additi etiam sunt duo indices, tum rerum, tum quaestionum
copiosissimi” (Venezia, Ioannem Baptistam Somascum Papiensem); “Lectiones super
tres libros de anima Arist. Nunc recens in lucem aeditae, cum copiosissimo
indice tam rerum notabilium quam quaestionum quae in uniuerso opere
continentur” (Venezia, apud Ioan. Baptistam Somascum, & fratres); “Explanatio
libri primi physicorum Aristotelis lectionibus excerpta recenti hac nostra
editione quam potuit diligentissime expolita atque elaborate” (Venezia, Hieronymum
Scotum); “Lectiones in Aristotelis Stagiritae libros, quos vocant Parva
naturalia” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones, in secundum, ac tertium
meteororum Aristotelis libros” (Venezia, Hieronymum Scotum); “In duos libros
Aristotelis de generatione et corruptione doctissima commentaria a Ioanne
Carolo Saraceno nunc primùm castigata atque diligentissimè repurgata necnon
copiosissimo atque locupletissimo indice ab eodem nunc primùm amplificata atque
illustrata” (Venezia, Franciscum de Franciscis Senensem); “Lectiones super
primum librum Meteorologicorum Aristotelis, duo additi etiam sunt indices,
nempe rerum ac quæstiorum copiosissimi” (Venezia, hæredem Hieronymi Scoti). Vedi
Treccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in. Fonte Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti in. Antonio Rotondò,
«BOCCADIFERRO, Ludovico», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 11,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Charles H. Lohr, «The
Aristotle commentaries of Ludovicus Buccaferrea», Nouvelles de la république
des lettres, 1984, pp. 107-18.
Alessandro Achillini Averroè Aristotelismo Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ludovico
Boccadiferro Ludovico Boccadiferro, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ludovico Boccadiferro, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Ludovico Boccadiferro, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Ludovico Boccadiferro,. Ritratto di Ludovico Boccadiferro Quadreria
dell'Bologna, Archivio storico. il 24 marzo. Averroismo, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo Professore1482
1545 3 maggio Bologna BolognaUmanisti italiani. Eex decem illis
capitibus, quæ præmittenda eſſe alias diximus, cetera, ut mi- Quz præmis nus
neceſſaria huic tra & ationi,prætermittentes, hæc potiſsimú attingemus,
tenda ſunt an te expolitio quodnam fit philoſophi propoſitum in his libris
Topicorum, quæ ſit huius nem Topico partis utilitas, quæ inſcriptio, qui ordo,
& quæ operis diuiſio: quibus abſo- rum lutis,ad textus expofitionem
accedemus. Propolitum igitur in his libris eſt, quod fit phi diale& icam
methodum tradere.quare,ut, quid hoc propofitum nobis polli pofitum in li
ceatur, intelligamus, cognoſcendum eftquid fit diale & ica. & quoniam
tunc bris Topico rem unamquanque optime cognofcimus, fi ipfam à ſui fimilibus
fciamus rum. diſtinguere; dialectica autem maxime ſimilis effe uidetur
rhetoricæ; ideo ui debimus, quo modo conueniant, differantg; inter ſe
dialectica, & rhetorica. DIALECTICAM Stoici definiunt ſcientiam bene
dicendi. bene dicereautem quidfit diale effe uolunt uera dicere, ac rei
conſentanea.cum autem folus philoſophus corum ſente Čtica ex Stoia hoc
efficiat, ipfi ad philoſophiam ſolum diale &ticæ nomen referunt, ac ſolus
cia. philoſophus, ex eorum ſententia, diale&icus eſt. PLATO uero, ut
Alexanderrefert, diale&icam eſſe exiſtimauit diuiſiuam me quid iterú fit
thodum: cuius opus eft, & ex uno plura facere, & plura in unum compone-
Placonis fena ex re. hanc enim in Phædro dialecticã appellat, ubi eā ſummis
laudibus extollit. tentia, Vervm alia forte eſt Platonis ſententia: uult enim
ipſe, ut patet in dialogo alia, & uera, de iufto, diale&icam eſſe
facultatem, qux conatur ordinecerto,circa unum Platonis fen: quodque, quid
ipſum ſit, inuenire. cum autem hæc facultas dupliciter tentia de dia lectica,
quid conſiderari poſsit, primout eius regulæ, ac præcepta ſeorſum
conſiderantur; lit. fecúdo, ut hæ regulæ rebus ipſis applicantur;
diale&ticam Plato à rebus non feiunxit, ideo diale & icum metaphyſicum
appellauit, qui rationem capit cu iuſlibet eſſentiæ, & non ſolum regulas,
& præceptiones callet, quibus inter rogandum reſpondendum ue fit fed, &
interrogare fic, & reſpondere, quod eſt diale & ici proprium. cum autem
huius fit uel præcipuum inſtrumentum diuifio, ideo eam in Phædro tantopere
commendauit. ARISTOTELES autem diale & icam poſuit ſyllogiſticã methodum ex
proba- Ariſtotelis sé bilibus agentem de quacunque re propofita. methodum
appellat fyllogifti- tentia de dia cam ex probabilibus, quoniammultipliciter
fyllogiſinidifferunt, uel ſcilicet lectica, quid ſecundum propofitionis ſpecies,
uel ſecundum modos, &figuras, uel ſecun dummateriam,in qua ſunt. ſecundum
quidem propofitionum ſpecies alii funt categorici, alii hypothetici.ſecundum
modos, & figuras, alii ſunt per- quomodo fe fe& i, aliiimperfecti, alii
in aliis figura, & modo. fecundum autem materiam cundum mo differunt,
quoniamalii ſuntex ueris, & propriis, qui demonſtratiuidicun- dos &
figu tur; atque ars, quæ huiuſmodi ſyllogiſmos docer conſtruere, appellaturme
ſyllogiſmi,et thodus demonſtratiua. Alexander eam dicit appellari
demonſtrationem. quomodo fe alii autem ſyllogiſmi ex probabilibus probant, qui
diale &tici appellantur; at cundum ma que ars, quæ huiuſmodi fyllogiſmos
docet conſtruere, diale & ica methodus teriam. A eſt EXPOSITIO LIB. 1. tedicta
decla rat. eſt peripateticis, de qua philoſopho propoſitum eſt agere in his
topicorum libris. at uero ſyllogiſmi, qui ex apponentibusprobabilibus
procedunt, ſo exemplis an phiſtici ſunt; ac ſophiſtica ars eft, quæ de ipſis
agit, horum autem differen tia hinc perſpici poteſt. ſienim dicamus, nullum
bonum eſt imperfe & um,uo luptas eſtquid imperfe & um, ergo uòluptas
non eſt bona, hic eſt demonſt ra tiuus ſyllogiſmus, quiex uoluptatis
diffinitione procedit. at ſi dicamus, om ne bonum bonos efficit poſsidentes,
fed uoluptas bonos non efficit, ergo uoluptas non eſt bona: hic erit
dialecticus ſyllogiſmus. quod enim bonum bonos efficiat, eſtquidem probabile,
non tamen neceſſario uerum. ſcien tia enim bona eſt, quæ tamen bonos poſsidentes
non efficit. at ſi quis dicat, quod eft bonum, eſt appetibile, ſed uoluptas eſt
appetibilis, ergo uoluptas quare diale- elt bona: ettfyllogiſinus ſophiſticus,
quiex apparentibus probabilibus pro ética ex pro- cedit: fallit autem ex loco à
conſequenti.quòd fi quis cauſam quærat, cur babilibus,& dialectica ex
probabilibus tantú procedat,hæcnimirum eſſe uidetur, quòd, te propolita cum
diale&tica interrogare doceat,acreſpondere,(id quod uerbum Sráneye agat.
sou, à quo dialectica di& a eft, nobis indicat ) oportet, utdiale & ica
de rebus omnibus differat, cum res omnes interrogando, & reſpondendo
tractari poſsinc. ſi igitur diale & icus de quacunque re propoſita agit,
neceſſe eſt, de rebus etiam fallis quandoque diſſerat. quod li ita fit,
impoſsibile eſt, ut ex rebus ueris ſemper probet: neque enim ex ueris falſum
colligi aliquo mo: do poteſt. ad probabilia igitur diale&icus conuertitur,
quæ élicit à reſpon quare diale- dente, ex illisq; propofitum concludit: neque
enim probabilia omnino ue etica lit à phi ra ſunt. ita igitur patet, quid
peripateticis diale&tica fit. lofopho ap- Quæ cum ita fint, re& e
di& um eſt à philoſopho, diale &ticã eſſe avtispoçor rhet pellata avti-
toricæ. tribus enim modis potiſsimum conueniunt rhetorica, & diale
&tica: primo quidem, quia definitum genus non habent circa quod uerſentur,
ſicut & modis inter aliæ omnes diſciplinæ. nam & medicina, &
mathematica,& naturalis philofo fe conueniát phia, & ciuilis ſcientia,
& artes omnes ſubie & um quoddam agnoſcunt, in dialectica & tra
cuius ambitum continentur. nihil enim, quod ad humanum corpus non rhetorica.
pertineat,medicina conſiderat: neque arithmetica, quod ad numerum.at diale
&tica de quacunque re propofita poteſtagere.eodem modo & rhetoris ca
proprium ſubieci genus,circa quod uerſetur, non habet. ſecüdo, conue niunt
dialectica, & rhetorica, quia utraque non ex propriisrerum princi piis, ſed
ex rebus communibus probat. aliter enim deremedica agit diale Žicus, quam
medicus. hic ex propriis eius artis principiis diſſerit:diale&ti cus uero
ex communibus: eodé modo & orator. Tertio conueniunt, quia circa oppoſita
æque uerſantur, id eft, utranque partem contradictionis tuen tur. ſimiliter
enim diale & icus tuebitur uoluptatem effe bonam, &non bo,: nam, animam
effe mortalem, & immortalem:& orator, aliquid effe iuſtum, & non
iuſtum, utile & non utile, laudabile, & uituperabile, eodem modo de
fendet. aliæ autem omnes artes, etfi utrunque oppoſitorum cognofcant, non tamen
utrunque eorum efficiunt, fed, quod melius eſt, ſemper ſibi pro ponunt.medicus,
exempli cauſa, quæ ſanitatem efficiunt,fimul& quæ mor bum, perſpecta habet,
non tamen fanitatem, & morbum indifferenter effi cit, ſed ſanitatem ſibi
ſemper proponit.eodem modo & aliiomnes artifices. quare diale- ſola diale
& ica, ac oratoria ars circa utrunque oppofitæ indifferenter uerſan rica à
philo tur.atque hinc eſt, quòd hæ duæ artes à philoſophis poteſtates ſolent
appel fophis lint ap lari. poteftas enim proprie oppofitorumeſt: hæ autem artes
non unum mat pellatę pote- gis oppofitorum, quam alterum tuentur, licet alii
iccirco ipſas appellari po ſtate; idý; teftates dicant, quoniam potentesreddunt
eos, qui ipſis inſtructiſunt.quid spopoo rheto ! tici & rheto enim E x P O
ŞI T'IQ LI B. I'I 2 tur. enim non poteſt, qui hominibus probare, ac perſuadere,
quod libeat; pofsit? alii uero iccirco eas poteſtates appellari dicunt, quoniã
ad bonú æque busci nfirma tribus rationi ad malú uſum his uti poffumus: atque
hinc eft, quòd neſcias, bonine an mali plus hominibus hæ artes attulerint:
ficut enim,fiad honeſtas rariones dedu cantur, ut ueritatis inuentionem,
iuſtitiæ defenfionem, ac commoda pa trix maxime proſunt, ita fiad oppoſita
trahantur, maxime obelle ſolent his igitur tribus cóueniunt dialectica, &
rhetorica, quòd definitum genus ſub je& um non habent, quod non ex propriis,
ſed ex communibus probant, & quòd utranque oppofitorum æque tuentur.
TOTIDEM etiã modisinter fe differút.primoenim diale & ica circa quam- quot
modis cunque materiam uerſatur. rhetorica autem ciuilem materiam quodammo inter
fediffe dofibiappropriat. ſecundo diale &interrogando ica, &
reſpondendo de re- rat rhetoria busagic, ac prolixitatem uerborum fugiens
quambreuiſsime differit: rhe- lectica: torica uero continuata, ac diffuſa
oracione uritur, quod confiderans Zeno reéte admodum rhetoricam manui expanſæ,
dialecticam uero eidem in pu gnum contractæ comparauit. tertio differunt, quia
diale&ica circa séris: quid ſie 94 sherorica uero circa uzóleous uerſatur.
eft autem Siois quæſtio nullis certiş is; & quid finibus temporum locorum,
perſonarum concluſa. úzóteous uero quæ defini ta eft uelomnibus, uel pluribus
horum, ut fi quæramus, an philoſophiæ ope ra fit danda, siois eſt, fi quæramus,
an nobis hoc temporephiloſophiz ſiç uacandum, utóðeris eft. IT A igitur paret,
quod ſie philoſophi propoſitum in his Topicorum libris agere, ſcilicet de
dialecticamethodo, uidimusý;, quid eſſet diale &tica, & quid cum
rhetorica conueniat, quid ue ad ipfa differat. AlterVM, quod diſcutiendum
propoſuimus, eft, quænam ſit huius operis diale &icz u. utilitas eftautem
eius utilitas ad quatuor præcipue.primo ad diſputationes, tilitas, & ad
fecundo ad oratoriam facultatem,tertio ad ueritatis inuentionem, ultimo quot
res cöfe ad ſcientiarum principia probanda.ſi quis ea demoliri tentet, ad
difputatio- ratpotiſſimú, nes quidem utilis eſt diale&ica, quoniam loca
nobis ſubminiſtrat; unde e. quid.confe Tuantur argumenta ad quodlibet problema
conſtruendum, uel deftruédum. ad diſputa - præterea docer quomodo interrogare,
ac reſpondere debeamus. quare fi ţiones. alios interrogabimus, quodlibet
probare poţerimus: fiautem interroganti reſpondebimus, fententiam noſtram egregie
ſuſtinebimus, atque ad ircon ueniens non deducemur.quàm autem adrhetoricam
conferat,hinc patet', quàm confen quod omnes fere, qui de rhetorica
conſcripſerunt, non aliunde, quam ex riam faculta docis, qui hic traduntur,
probationes fuas, quæ ſunt quaſi orationis cor, de- cem, ſumi tradunt, neque
tamen eo minor eft hæc utilitas, quòd plerique rhe cores ex his Ariſtotelis
libris, quod ad rem ſuam faceret, iamdudum mutua cti ſunt.magni enim intereſt,
fi quis aquam ex riuulis hauriat potius quam ex fonte, id autem uel hinc patere
poteſt, quòd, cum apud Ariſtotelem tradi ti ſint tercentum, atque eo amplius
loci, ita diſtincte ſecundum quæſtionum differentias, ut nihilmagisrhetores eos
omnes ad uiginti fere deduxerunt, quam ampla facultas in quantascoa&a anguſtias.
Ad ueritatis autem inuent quàm confe tionem dialectica confert, quoniã cum in
unaquaquere poſsimus ad utran- rat ad uerita quepartem diſputare ex
probabilibus. probabilia autem non fint exomni tis inucntio parte falſa, ideo
ex ipſis aliquid ueri colligere poterimus, quod Ariftotelis reſtimonio
confirmatur, qui plerunque in rebusdifficillimis diale & icos fyl logiſmos
pro utraque parte præmittit.deinde fententiam ferens folet often quim confe
dere quoquo modo rem ita ſe habere, & quoquomodo non. Confert de rat ad
ſciena mum diale & ica ad ſcientiarum principia defendenda: nulla enim
ſciétia pro A 2 pria nem. EXPOSITIO. LIB. I. 1 Iteriorum. tiarum prima pria
principia poteſtprobare, fed ea pro ueris aſſumens, alia omnia ex illis
pendapaa pro probat: at fi huiuſmodi principia negentur, nullus præter
dialecticum,& metaphyſicum poterit ipſa probare.maxima igitur, utpatet, eſt
diale &ticæ utilitas,atque ideo immerito quidam ipfam damnarunt, &
fuftulerunt.fie quòd quidã nim diale &tici quidam pernicioſas opiniones
intulerunt, ut Protagoras, dialectica im qui cum in dialecticis excelleret,
Deos in dubium reuocauit, unde decreto merito dam- publico Athenienfes eius
libros arſerunt,ipſumą; Athenis ablegarunt, tan narint, idq; Protagoræ e quam
hominem reipublicæ, ac philoſophicæ ueritati perniciofum, id non xemplo. dialecticæ
contigit uitio, ſed eorum potius, qui dialecticam à rerum cogni tione
ſepararunt, quod profecto aliud non eft, quàm fi quis corpus ab ani ma ſeparet,
aut oculum à uiſua facultate: unde mirum non eft, fi poftea dialectica ad
deteriorem partem abufi fuerint. quæ fit hu - SEQUITUR, ut inquiramus,quæ ſit
huius operis inſcriptio, et inſcriptionis ius operis in- caula. inſcribuntur
autem hi libri Torine, græco nomine, à uerbo Tótosi, infcriptionis. quodlocum
nobis ſignificat. eſt autem locus, ut Rodulphus definit,com munis quædam
reinota, cuius admonitu, quid in quaque re probabile ſit; poteft inueniri, atq;
hinc libri, qui de huiufmodi locis agut, Topica appellati. Iam illuduidendum
eſt, qui ſit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui fit ordo facultatis.
primoq; inquirendum eſt, an libri Topici ſequi debeant libros huius libri.
pofteriorum reſolutoriorum: deinde an etiam ſequi debeant libros priorú, et
primo an Primo quidem, quòd pofteriorum libri, qui de demonſtratione agunt, To
cedere debe- pica conſequi debeant; ex eo probatur, quoniam demonſtratio eft
finis to ant libros Po tius logicæ tractationis, ut Græci atteſtantur, de ea
igitur ultimo loco agen dum eſt.præterea cum probabilia uiam nobis aperiant ad
ipſam demonſtra tionem, fintq; inuentu, ac cognitu faciliora, dehis igitur
priori loco agen huius ratio dum eſt. his itaque rationibus Topica præcedere
Poſteriora ſtatuamus. an uero præcedant, an ſequantur Priora, non minor eſt
difficultas. Marcus Ci Topica cero, cuius fententiam ſequitur Boetius, logicam
facultatem, quam dili - Lebeidlibros gentem rationem diſſerendi appellat, in
duas partes dicit efle diductam, u. Priorum, nam inueniendi,alteram
iudicandi:inueniendi artem ordine naturæ priorem idậ; ex fen- dicit. ſi hæcita
ſunt, cum inueniendi ars in Topicis libris tradatur, iudican tentia Cice-
diuero in Prioribus, ergo Topica procedut Priora.quæ enim priora ſuntin ronis,
& Boe doctriva ordinata, prius etiam tradi debent.uerum quoniam plerique ne
çit. fciunt qua ratione pars illa appelletur iudicatiua,ideo hoc ipſum nunc:0.
ſtendamus. Appellatur hæc pars inuentiua eo quòd locos, utdiximus, con partes
logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur.pars uero altera iudicatiua
dicitur, altera inuen- quoniam doceſ, quo pacto, probabilia illa, quæ inuenimus,
fint conne& en tiua,altera ne da, qua ſcilicet figura, & quomodo, ut
aliquid concludamus, non ſolum ma appellentur. teria opuseft, qua id efficiamus,
ſed etiam recto, & artificioſo connexu., non aliter, quam qui cercas,
autáreasimagines fundunt, non ſolum materia indlgent, fed etiam typis quibuſdam,per
quos fuſa materia debitam formam fufcipiat.pars igitur illa, quæ de locis agit,
inuentiua, quæ uero de modis,ac figuris ſyllogiſmorum, atque inſuper
decautionibuscaptioſarum argumen opinionis fu- tationum, iudicatiua eſt
appellata. ſed, ut ad rem propoſitam redeamus, perioris effi - concludebat
prior ratio Topica debere præcedere librospriorum, ſed huic cax oppofi -
fententia opponitur efficax ratio.in Prioribus enim agitur de ſyllogiſmo in.
communi, in Topicis autem de ſyllogiſmo dialectico.cum autem commu niora femper
præcedere debeant, ergo priorum libri præcedent Topica, hancq; ſententiam
peripateticiomnes, Græci, Latini, & Arabes concordes cui caméopi
conſequuntur.Si cui tamen prior ſententia magis arrideat, quòd ſcilicet TO nis
confirma tio. an qua ' ratione. I O PICOR VM ARIŞ T. 3 Ctio. $ Topica
præcedane, non concedet; quod oppoſita ratio aſſumit, quòd fcili- nioni magis
cet in Topicis de diale&ico ſyllogiſmo agatur, ſed dicețibi agi de materia
& eiustatio diale & ici fyllogiſmi, quæ ſunt ipſa probabilia.hæc poſtea
quomodo ſyllogif- nis confirma mosautalia argumentationis fpecieconnecti
debeant,in prioribus traditur. tio. quòd Gi philoſophus Topicoru initio dicit
ſe in propoſita tractatione diale &icum fyllogiſmum quærere, hoc propterea
dicit, quoniam hæc omnia gra- niobiectio. huic opinio tia diale & ici
ſyllogiſmitra & antur: quid enim conferent probabilia, nifi ipfi huius
obie– recte componere, ac connectere ſciamus? non tamen ſupponunt do
&trinam ctionis diflo de fyllogiſmo, quæ in prioribus traditur: Id neque ex
eo oſtendi poteſt, hanc lutio. tračiationem eam fupponere, quæ eſt de
fyllogiſmo, quoniam philoſophus alia huius ra obie initio primi Topicorum de
ſyllogiſmo, atque eius ſpeciebus agit:non enim ob aliud de his agit, niſi ut
dialectici fyllogiſmi materiam inueniat, de qua huius obie hoc loco nou
diffiniret, eiusg; ſpecies, cum dehis in reſolutoriis abunde e- ftionis dißio
lutio alia, giffet.ita igitur Topica librum de interpretatione conſequentur,
Priorum conclufio. autem, ac Pofteriorum libros præcedent. Illvd deniū uidendum
ſuperelt, quæ fit huius operis diuiſio.diuiditur au- quæ fic huius tem in tres
partes. in primo enim libro oſtendit partes, ex quibus compo- operis diui –
nuntur orationes dialecticæ, & partium partes, uſque ad fimpliciſſimas. in
fio. fecunda parte oitendit loca, ex quibus fumantur argumenta ad conſtruen dum,
& deftruendum omnegenus quæſiti, quod fit in ſex ſequentibus libris. in
tertia autem parte; uidelicet in o & auo libro interrogantem inftruit, quo-.
modo debeat interrogare, ac reſpondentem, quomodo debeat reſpódere. In hoc
primo capite proponitphiloſophus propoſitum ſuum in his Topicis libris.
&quoniam hæc omnia,quæ in hoc uolumine tractantur, gratia diale quid in hoc
Etici fyllogiſmi tractantur, ideo præmittit, quid ſit fyllogiſmus, & quæ
fint agendum pro eius differentiæ.primo igitur definit fyllogiſmum, deinde
definit ſyllogiſ- ponac philo mum demonſtratiuum: & quoniam demonltratio
conſtat exprimis, & ueris, fophus. oftendit, quænam ſint hæc prima, &
uera, definit etiam diale &ticum ſyllogif mum. & quoniam conſtat ex
probabilibus,oftendit quænam ſint probabilia. definit deinde litigioſum
fyllogiſmum, poftremo definit paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, ac concludens
dicit ſe ſummatim dehis egiſſe, admonetą; ſe non effe de rebus his exactam do
& rinam traditurum, ſed qualis pro poſitæ methodo conuenit. Propoſitum )
Duæ ſunt apud philoſophos uoces cognatæ, propofitum, & fub- quid inter se
iectum. ſubiectum eſt circa quod unaquæque diſciplina uerfatur: propoſitum
differantpro uero eſt id, quod artifex ſibiproponit, & quo effe & to
ceſſat ab opere, exem- pofitum; & plicauſa,fubie& um in medicina
efthumanum corpus, propoſitum uero eſt ſubiectum. fanitatem efficere in humano
corpore, & femper propoſitum comprehen dit etiam ſubiectum, quare Græci
interpretes, cum ſemper expofitum quæ rant, de ſubiecto nunquam fere uerba
faciunt notandum autem eſt, quòd in hoc differre uidentur artes factiuæ à diſciplinis
contemplatiuis, quòd in pro- quomodo fa pofito artium faciuarum tria
complectuntur, effectio primum, quæ eſt cu- ctiuz artes à juſlibetartis finis,
deinde forma, quæ ab artifice introducitur, quæ & ipſa differant. fubie
& um artis propinquum appellatur, ſicut eſt in medicina ſanitas: ptäte rea
ipſum ſubiectum, atque hæc tria in propoſito artis explicantur, nilicon tingat
formæ illi, &fubiecto unum eſſe nomen impofitum. in propofito au tem
contemplatiuarum diſciplinarum comprehenditur cognitio, quæ eſt cuiuſlibet
fcientiæ contemplatiuæ finis, & ipſum ſubie & um licet fiquis in his
etiam diligentius inſpiciat, uidebit formam quandam latere naturalis
philoſophi.propofitum eſt res naturales cognoſcere, fed forma latet modus 1 1
торт сок у м ARIST, di, dus, ſcilicet & character quo illas cognofcit,
nempe phyſice eodem modo, &arithmetici propoſituni eſt numeros cognoſcere
ledlatet illud mathema tice, quod eſt quali forma eius cognitionis. notandum
etiam eft aliud effe proris differ. propofitum eius, qui ſcientiam aliquam
tradit, &ipſius ſcientiæ, exempli se àpropoſ- cauſa,philoſophipropofitum
eſt in hoc uolumine de dialectica agere, ipfius to ſcientiæ, uero diale
&ticæ propofitum eſt probabiliter diſputare de quacunque propofi quä ipfe
fcri- to problemate. utrunque autem propofitum indicant uerba philoſophi. ptor
tradit. quid ſit me Methodum. utcognoſcamus quid methodusſit, quæ res, ſicuti
non facilis eſt; thodus. ita digniſsima eft cognitione, notandum eſt,quòd
methodus, ficut nomen indicat, elt uia quædam, qua unum poft aliud certo quodam
ordine poſitum eft, quare diſciplinæ omnes, quæ certum quendam ordinem
obſeruant, me: quæ fint pro- thodi appellantur: ſed inter ipſas diſciplinas
aliæ ſunt, quæipſis diſciplinis prie mecho- tradendis deſeruiunt, & iccirco
diſciplinarum inſtrumenta dici poflunt, cu juſmodi ſunt definiendiars, &
diuidendi, & aliæ quædam. aliæ uero ſunt di ſciplinæ, quibus illæ
deferuiunt, proprie quidem methodi nomen diſciplinis deſeruientibus conuenit,
quæ omnes ad logicam tractationem pertinent, quæ etiam in cauſa ſunr, cum aliis
diſciplinis applicantur,ut niethodi nomé accipiant: unde & medendimethodus,
& phylica methodus dicitur, cum ſci licethæ diſciplinæ certo quodam ordine
traduntur, quod non aliunde ha bent, quam ex illis logicis mechodis. quod hæc
ars Inuenire. dixit hoc philoſophus, quoniam ante ipſum hæc ars nondum erat
nondum inué conſtituta: etſi multa apud Platonem, & alios ueteres philoſophos
reperi ta erat,ſed ip rentur, illa tamen erant præcepta quædam ſparſa, &
difie & a,neque colle ſe primus ea inuenit, & p &a in artem. primus
omnium Ariftoteles hæc diligenter perſecutus artem fecit, hanc inſtituit, fimul
& perfecit. A quapoterimus etc, cum diale & icainterrogando, &
reſpondendo conſiſtat, quid diale & i- oftendit philoſophus, quidnam ipſa
conferac tum interroganti, tum reſpon ca cöferat in denti.confert enim
interroganti, quoniam docet ipſum diſſerere de qua reſpondenti cunque re, quæ à
reſpondente proponi poſsit: confert reſpondenti, quonia inftruit ipſum, ne
abinterrogante deducatur ad inconueniens:ſed ſenten tiam ſuam egregie ſuſtinear,
De omni, hoc dicens philoſophus quodam modo diale & icam d rhetorica ſe
parauit. etſi neutra earum habeatſubie & um limitatum,non æque tamen rhe
torica de omni quæſtione diſputat, ſicut dialectica.circa ciuilia enim nego cia
magis uerſatur, quod quædā Propoſito problemate. Quid ſit problemainferius
oftendet philoſophus. diſpu non ſunt dia- tat diale & icus de rebus
ciuilibus, de rebus naturalibus, de rebus medicis lettica pro- aliisg;, in his
tamen quædam ſunt, quæ non ſuntdialectica problemata, ne blemata. que enim
diſputabit de his, quæ indigentſenſu, aut pæna,utquòd ignis fic callidus, neque
de his, quæ propinquam habent demonſtrationem, led de his quæ dubitationem
aliquam habent. Ex probabilibus.quare diale & icus ex probabilibus
diſſerat, ſuperius diximus. quid philofo. Primum igitur. particula igitur
coniungit hanc partem cum eo, quod dixit gat illa parti ſyllogizare.fi enim
docet hæc ars fyllogizare ex probabilibus, ergo oppor Cula,Primum tet,
utcognoſcamus, quid fit fyllogiſmus; præterea debemus uidere, quæ igitur. ſint
ſyllogiſmorum differentiæ, ut manifeſtum fiat, quòd fit hic fyllogiſinus ex
probabilibus, quo dialectica methodus utitur. dubitatio an Hunc enim quærimus.
dubitant quidam, cum diale&icus ſyllogiſmus ſit huius hisusubiectului
operis fubie& um, quomodo dicat philoſophus, hunc enim quærimus, quo fit
dialecticus niam fubie & um debet præcognoſci in qualibet ſcientia,
cuiuseſt ſubie & um: 1 1 1 quod TOPIC Q R VM. ARIS 1.: 4 tionem. quod autem
eft præcognitum, non poteſt eſſe quæſitum: ſed dicendum eft, fyllogiſmus, quòd
in hoc uolumine fubie & um eſtnon dialecticus ſyllogiſmus, ſed diale &
i- methodus. ca methodus, cuius tamen præcipuum opus eſt ſyllogiſmus
diale&icus. ſed li folutio Tupe etiam ſupponamus ſubiectum eſſe ſyllogiſmum
diale& icum,nó tamen eſt in- rioris dubita conueniens, quòd quæratur,
quoniam ſubie &tum in ſciétia ſupponitur, quod aliaetiam for fit, &
quid ſignificet. ſed poteſt poſtea quæri, quid fit, quæ ſint eius partes, lutio.
paſsiones, &proprietates.non igitur idem erit ſuppofitum, & quæſitum.
Eft itaque ſyllogiſinus. fyllogiſmum interpretatus eft Cicero ratiocinationem,
quid nobis fi in eius definitione orationem poſuit philoſophus loco generis
(cum enim gnificet fyllo aéros duo fignificet, græci omnesaccipiunthoc loco pro
oratione )non folu gulmus: enim ſyllogiſmum, fed & alia plura oratio
comprehendit.quæ omnia à fyllo Pelindorecas giſmo ſeparauitphilofophus quatuor
adiectisdifferentiis: eam enim oratio fumatphilo nem, in qua poſitis quibuſdam,
aliud quid neceſſario accidit, propter po- fophus ora fita ſyllogiſmum
appellat. Quibufdampoſitis, per hocſyllogiſmum ſeparauitab his orationibus, in
quibus quid ſeparec nihil ponitur, qualis eſt enarratiua oratio. pofitis autem
ſignificat fumptis, hac particula & conceſsis: oportet enim, ut quæ ad
ſyllogizandum ſumuntur, etiam con atis. quibufdá po cedantur, uel ſcilicet ab
alio, fi cum alio quis ratiocinetur, uel faltem à ſe ipſo, ſiſecum ratiocinetur,uelab
audiente non expetit reſponſionem. præ utrú illud, po terea illud, poſitis,
comprehendit non folum affirmatiuas propoſitiones, ſitis,compre uerum &
negatiuas.nam & negatiuæ nihilo fecius ad fyllogizandum ſumun- hendat &
af tur, quàm affirmatiuæ.præterea illud, poſitis, proprie reſpicit categoricas
negatiuas p propoſitiones. hypotheticæ enim non ponuntur, fed fupponuntur, unde
ca politiones: tegorici ſyllogiſmi ſimpliciter, acproprie fyllogiſmi dicuntur.
hypothetici utrú illud po ſitis compre non ſimpliciter dicuntur ſyllogiſmi, fed
hoc totum ſyllogiſini hypothetici. dixit præterea pofitis, & non pofito,
quoniam ex uno pofito nihil poteft fyi ricas, aneuí logiſtice concludi, ſed
utminimum ex duobus.argumenta enim illa, quæ ex hypoteticas. uno polito aliquid
concludunt, uti ſunt enthymemara, & quæ Antipatri ſe- quomodo co
&tatores Moronéquata appellarunt, defectuoſa funt,quod
deprehenditur,quiasnofcai qua fi id, quod prætereunt, ſuppleamus, nihil eft in
argnmentatione ſuperuaca veum, quod profe & o fieret,fi huiuſmodi
argumentationes non eflent defi- etuoſa. cientes, ut in ſyllogiſmis uidere
eft.fiuntautem enthymemata, ubi propofi quando pof lint fieri en tio aliqua
præteriri poteſt, quoniam euidens eſt, & manifefta, ut reſpirat, thymemata
ergo uiuit: at ſi huiuſmodi propoſitio latens ſit, tunc no poſſunt effici
enthy- quando non memata, ut fi dicamus,motus eſt,ergo uacuum non eſt, ſed hæ
appellantur poſsint fieri illationes, & conſequentiæ, non etiam enthymemata.
enthymema Aliud quid à poſitis, oftendit his uerbis philoſophus fyllogiſmi
utilitatem.nul fyllogiſmi uci lum enim eft aptius inſtrumentum ad cognoſcendum,
quàm fyllogiſmus: cú litas. enim nos fimus cognitionis participes, non tamen
fine diſcurſu res cogno- quotuplici - fcamus, ſicuti beatæ métes, quæ intuitiue
cognoſcunt, ideo ab uno ad aliud ter abuno ad procedimus.cum autem hoc
quadrupliciter fieri pofsit, uel à noto ad notū, datur. uel ab ignoto ad
ignotum,uel ab ignoto ad notum, uel à noto ad ignotum; tres primi modi nihil ad
cognitionem conferunt, ſed ſolus quartus, quo pro cedimus à noto ad ignotum,
hoc autem fit per fyllogiſmum:quare cum im poſsibile fit, ut idem fit notum,
& ignotum, ideo oportet, ut in fyllogif mo aliud concludatur ab his, quæ
poſita ſunt: quia fialiquid concludaturno aliud à pofitis, ea oratio non erit
ſyllogiſmus, quia fyllogiſmi uim nó habet, quinam fyllo ſicut oculumnon
dicimus, qui uidendi uſu caret, ut eſt pidus, autlapideus. gifni à toi merito
igitur à fyllogiſmi definitione excluduntur, qui ſyllogiſmi siapapouueror
pellari Siepo iſtoicis appellantur, in quibus aliud à pofitis non concluditur,
ut uel dies pouuevos. eſt, do argu menta defe ta. aliud proce TOPIC OR VM ARI
S. T. 1 obie &tio. eſt, uelnox eſt, ſed dies eſt,ergo dies eft.Sed obiiciet
quis, liſyllogiſmi funt, qui hoc modo ex diuifione procedunt, uel dies eſt, uel
nox eít, ſed dies eſt, non ergo nox eſt: quare non etiam priores illi
fyllogiſmi erunt. uidetur e nim quòd idem ſit, nox non eſt, & dies eſt,
etſi in uerbis fit differentia.uer borum enim differentia, fi idem ſit
ſignificatum, nihil omnino facit. dicen ſolutio obie- dum eſt, quòd illatum
illud noxnon eſt, ſignificat quidem diem eſſe, non ta ctionis. men primario,
ſed ſecundario. primo enim ſignificat no &is negationem, ſe cundario autem
ſignificat diei præſentiam, eo quòd non exiſtente no & te ne cellario dies
eſt:quemadmodum & nox eſt, primo ſignificat no &i præſen tiam,
ſecundario uero diei priuationem. cum igitur aliqua fit inter hæc dif ·
ferentia, quoniam non eandem rem primario lignificat, ideo hi ſyllogiſmi quòd
fyllogif ſunt. illiuero, in quibus nulla prorſus eſt differentia, inter
aſſumptum, et illa mi,quifiunt tum non merentur dici ſyllogiſmi, eadem ratione
& fyllogiſmi illi ſunt, qui ex contradi- ex contradi& tione fiunt, ut
uel dies eſt, uel dies non eſt, ſed dies eſt, non er merentur di- go non
eſt.aſſumptum enim illud primario ponit diem efle, fecundario au ci ſyllogiſmi.
temnegat diem non eſſe. quæna fit ha Ex neceſſitate accidit. declarat hac uoce
philoſophushabitudinem,quæ eſt in bitudo inter ter concluſionem, &
præmiſſas, quas appellauit pofita. oportet enim quòd præmillas, & concluſio
à pofitis neceffario inferatur. notandum autem eſt,aliud eſſe con quid differat
cluſionem neceſſariam, quàm quæ ex neceſsitate accidit.conclufio enim eſt inter
conclu- neceſſaria, quæ eſt in neceſariamateria, uthomoeft mortalis: concluſio
ue fioné necella ro ex neceſsitate eſt, quæ à poſitis neceſſario dependet, quod
non minus riá, & de ne: uerum eſt in materia neceſſaria, quam in
contingenti. ſeparauit autem hoc dentem,& de dicens philoſophus,
ſyllogiſmum ab indu & ione, in qua, quoniam non om neceffario, nia
ſingularia inducuntur, & fi inducantur, non tamen oportet, quòd eodem
ſcilicet é hæc modo fe habeat uniuerfale, ficut unumquodque ſumptorum, ideo
conclu conclufio in lio in ea non accidit ex neceſsitate. fiigitur conclufio
non accidit ex neceſsi Cario, tate, non erit ſyllogiſmus: atquehinc merito
litigioſus ſyllogiſmus in forma peccans nonmereturdiciſyllogiſmus. quot de cau-
Propter poſita. quatuor de cauſis hoc adiecit Philoſophus, primout deficien lis
philoſo - tes fyllogiſmos ſepararet, in quibus deficit altera propofitio ad
ſyllogiſtica il phus poſuerit lationem, ut lac habet, ergopeperit. ſecüdo, ut
ſepararet ſyllogiſmos ſuper in definitione ſyllogiſmi uacaneos, in quibus
aſſumitur propofitio aliqua ad concluſionem non necef particulă hâc faria, ut
fi dicamus, omne iuſtum eſt honeſtum, omne honeftum eft bonum, ſcilicet Pro-
omne bonum eſt eligibile, ergo omne honeftum eſt eligibile.tertio,ut ſepa pter
poſita raret orationes, in quibus propria conclufio non infertur, fed aliquid
alie tuor de cap - num, ut, quod eſt ſecundum naturam, eſt eligibile, uoluptas
eſt ſecundum na Gis. turam, ergo uoluptasbona eſt. talis elt Epicuri ratio, de
morte diſſolutum non ſentit: quod non ſentit, nihil ad nos pertinet:mors ergo
nihil ad nos pertinet. quarto, ut ſepararet eas orationes, in quibus non
ponitur aliqua propoſitio uniuerſalis,utſi dicamus, linea a eſt æqualis lineæb,
&linea c eſt æqualis eidem lineæb, ergo linea a, & linea c funt æquales
inter ſe. hæc enim concluſionon ſequitur expofitis, fed ex uniuerſali
prætermiffa, quæ dicit, quæ ſunt æqualia uni tertio,funt æqualia inter ſe. quid
differae Demonſtratio igitureſt, quando ex ueris, & primis ſyllogiſinus
eft. Aliud eft demon inter demon- ftratio, & demonſtratiua methodus.eſt
enim demonſtratiua inethodus ip deinonitrati ſa ars, & diſciplina, quæ
demonſtrationes efficit. demonftratio uero eſt uam metho demonſtratiux
methodiopus.cum igitur uelit philoſophus fyllogiſmi dif duin. ferentias
definire, à demonſtratione incipit, quæ eft omnibus aliis nobiliſſi ma. dicit
autem ipſam eſſe fyllogiſmum, qui conſtat exprimis, & ueris, uel. hoc eft
qua 1 ex торгсок у м AA 5 R I S T. ex his, quæ pro aliqua prima,& uera ſuæ
cognitionis principium ſumpſe runt.oportet igitur, fi definitionem aliquam
cognofcere debemus, icire quænam ſint prima, & uera, quod ipſe paulo poſt
oftendit, quòd ſcilicet ſunt fcientifica principia diſciplinarum, quæ nonex
aliis, ſed ex ſeiplis fidem ha- quòd ſcienti bent. hxc enim quoniam funt
principia,non poſſunt ex aliis demonſtrari, exte, non au quia non amplius
eflentprincipia, ſi ex aliis poflent demonſtrari. & cum ex tem ex aliis ipfis
alia demonftrentur,opus eſt, quòd ex ſeipſis fidem habeant, alioqui o- fidem
habét. mnia demonſtrata eſſent incerta. ſunt igitur ipſa principia ſcientiarum
cer ta, & euidentia: ex his autem quædam funt nobiſcum innata, & quæ à
præce ptore non diſcuntur, ac proinde appellantur communes animi conceptio nes,
dignitates, & proloquia, ſeu profata. alia uero ſunt, quæ non poſſunt
quidem demonſtrari, nobiſcum tamen non ſunt inſita, ſed admonitione quadam,
& declaratione indigent.leui enim declaratione ipfis affentimur, & hæc
appellantur poſitiones, quæ duplices ſunt, uel enim dicunt aliquid ef
quotuplices lint politio ſe, uel non eſſe, &dicuntur petitiones, uel
poftulata, uel quid fit res indi- nes. cant: ſed non dicunt aliquid efle,
uel non efle, & appellantur definitiones, quæ omnia apud mathematicos
manifefta funt. Quod autem dicit philoſophus, Non enim oportet in
diſciplinalibus principijs inquirere propter quid. Videri poſſetali- obie
&tio, 9 cui dubium, cum Themiftius primo poſteriorum dicat, prima principia
fcilicet prima ſcientiarum habere cauſam, propter quam illis affentimur lumen,
ſcilicet fciétifica prin intellectus agentis: præterea principia cognoſcimus
per terminos, ſed ter- habent,pro mini ſunt cauſamaterialis principiorum, ergo
principia habent cauſam.di- pterquam il cendum eſt, quòd prima principia habent
quidem cauſam, quæ affentimur ip nöautem ex ſis, non tamen habent caufam,propterquam
poffintdemonſtrari. ad ſecun- fe habentcau dum dicendum eft, quòd ex terminis
quidem cognofcuntur priucipia, non fam. tamen ex illis
poſſuntdemonftrari,quoniam termini ſunt incomplexi: ne que omnis cauſa dicitur
propter quid, ſed ea, ex qua poſſit aliquid demoſtrari. HABEmvs igitur, quæ
ſint prima, & uera: addit uel ex his, quæ per aliqua quare philo prima,
& uera, &c. niſi enim hoc eſſet additum, primæ ſolum illæ effentde-
fophus in de monſtrationes, quæ ex principiis demonſtrantur, cum non minus
etiam de- nis definitio monſtrationes ſint, quæ demonſtrantur ex demonſtratis
primis, ſed quamuis ne poſuerit ca, ex quibus fit demonſtratio, prima non fint
ſemper, tamen ſunt priora etiã hæc uer concluſione. ſemper enim debent eſſe
caufæ conclufionis, non folum in in- ba, uel ex his, ſerendo, ſed etiam in
eſſendo. propterea dubitat Alexander, fi quis ab effe- quæ penalina &u ad
cauſam procedat, utrum debeat dici demonſtratio,andiale& icus ſyl- uera luz
co logiſmus, quia enim procedit ex ueris, non uidetur, quòd fit diale &
icus; qui gnitionis prin ex probabilibusprocedir: & quoniam ex pofteriori
procedit, non uidetur, сіруй fumple quòd fit demonitratio, quæ ex primis
procedit. ſoluit Alexander, quòdu trunque tueri poſſumus, & quòd ſit
dialecticus fyllogiſmus, quoniam huiuf modi uera ſumuntur pro probabilibus, ut
lac habet, ergo peperit. luna de ficit, ergo terra inter ipſam, & folem eſt
interpofita. poffumus etiam dice re, quod fit demonſtratio, fed demonſtratio
quo ad nos, quia in ea accipi mus ea.quæ nobis notiora ſunt.eſt igitur
demonſtratio imperfe & a, & im proprie dicta. Dialecticus autem
ſyllogiſmusex probabilibus ſyllogizans.Non poflumus autem hanc quænam fint
definitionem intelligere, niſi cognoſcamus,quæ fint probabilia, ideo fubdit
probabilia. philoſophus,probabilia ſunt, quæ uidentur uel omnibus, uel pluribus,
uel ſapientibus,& his uel omnibus, uel pluribus, uel maxime cognitis, &
pro- omnibus pro batis, omnibus quidem probabilia ſunt, ut fanitatem eſſe
expetendam,ui- babilia. runt. quænam ſint B tam торт сок у м A R I S T.. tam
eſe expetendam, fcire pulchrum eſſe, parentes eſſe honorandos: hæc e nini
omnibus probantur, quòd fi quialiter affirmant,id aduerſus intrinſeca rationem
dicunt. plurimis autem probabilia ſunt, prudentiam effe diuitiis plurimis
quænam fint eligibiliorem, & animam corpore præftantiorem. notató; hoc loco
Alexan pro babilia. der, quòd fi diale&icus de his ſoluni diſputaret, quæ
in communi notione uerfantur, ea ipfi ſufficerent, quæ omnibus, uel pluribus
probātur: fed quo niam plerunque etiam de his, quæ à communi notitia remota
ſunt, ideo ea quænam fint etiam probabilia aſſumit, quæ ſapientibus
uidentur.omnibusautem ſapien pbabilia om- tibus uidentur, quæanimi bona ſcientia,
ſcilicet & uirtus fint præftantiora nibusſapien- bonis corporis,quòd ex
nihilo nihil fiat. plurimis autem ſapientibus proba bilia ſunt uirtutem effe
per ſe expetibilem: & fi aliter Epicurus ſentiat felici tatem à uirtute
fieri, quòd non detur aliquod corpus indiuiſibile; & fi aliter ſentiat
Democritus, quòd non ſint mundi infiniti; & ſi contra Anaxagoras quænam
fint opinatus ſit; celeberrimis autem probabilia ſunt,animam humanam eſſe im
probabilia ce mortalē, quæ fuit Platonis opinio, uel effe quoddam quintum
corpus,quam leberrimis fa- dicit Alexander fuifle Ariſtotelis ſententiam, quod
& M. Tullius eidem at pientibus. quòd etiam tribuit, licet alii omnes
aliter ſentiant de Ariſtotelis opinione. ſunt autem,pbabilia ſunt hæc
probabilia, & fiuel pauciadmodum, uelunus tantum forteita ſit opina ea, quæ
uel tus, quoniam ſicut illi probatiſsimi ſunt, ita eorum opiniones maxime pro
unus, uel pau babiles eſſe uidentur. notandum autem eſt differre probabile à
uero, non eo fenferint-, quòd probabile falſum ſit,utplurimum enim probabile,
neque omnino eft illi probabi- uerum, neque omnino falſum, ſed differunt
iudicio.dicitur enim uerum ex les fuerint. ipſa re, quando ſcilicet cum re
conſentit. probabile autem dicitur ex audie tium opinione: fi enim ita
audientes opinentur, probabile dicitur.probabi lia enim quatenus probabilia
ſunt, neque uera, neque falſa ſunt: quædam e nim uera probabilia ſunt, ut Deos
eſſe: quædã etiam uera ſunt,quæ non funt probabilia, ut quòd extra cælum nihil
ſit: quædam etiam ſunt falſa, & proba bilia, ut quòd Deus omnia pofsit,
neque enim mala poteſt, ſicut & pleraque ſunt, &faiſa, & non
probabilia: ſed ex his nulla fit argumentatio. notandum etiam eft, pleraque
probabilia eſſe inter ſe oppoſita. fæpe enim quod proba turuulgo,non probatur à
fapientibus, ut quòd bona animi præſtentcorpo quid fit pro- ris bonis. M.
Tulius primode inuétione probabile dicit effe id, quod fere fie babile ex M. ri
ſolet, ut matres diligere filios ſuos, & id, quod in opinione pofitú eft,
ut Tullii opinio, impiis apud inferospenaseffe paratas:&quòd ad
hochabetquandã ſimilitu dinem, ut ſi his, qui imprudenter ceſſeruntignoſci,conuenit:
his, qui ne in quot par- ceſſario profuerunt, haberigratiam non oportet. hoc
autem probabile in tes diuidatur quatuor partesdiuiditur, in lignum, quod uel
negocium præcedit, uel comi probabile. tatur,uel conſequitur. credibile
iudicatum, quod eſt uel religioſum, uel commune, uel approbatum: &
comparabile, cuius partes tres ſunt, imago, collatio, exemplum, quotuplex ſit
Litigioſus autem ſyllogiſmus. duplicem oftendit philoſophus eſſe ſyllogiſmum
fyllogiſmus litigiofum, & qui procedit ex apparenter probabilibus, ſed
re&am ſeruar litigiofus. connexionem: & quiconnexionem prauam habet,
uel fit ex uere probabi libus. ftatuita; philoſophus eum, quiin connexione
fyllogiſtica peccat, non eſſe dicendum ſyllogiſmum, fed hoc totum fyllogiſmum
contentioſum, quemadmodum homo mortuus non dicitur homo, fed hoc totum homo
mortuus. qui uero ſyllogiſticam connexionem ſeruat, ſed procedit ex ap
parentibus probabilibus, dici poteſt ſyllogiſmus. ratio autem quare hic ſit
fyllogiſmus, hic uero non eſt, quoniam uitiatur fyllogiſtica connexio, pe rit
fyllogiſmi natura non aliter, quam homo deſinit elle, quod eſt, li anima
priuetur, ne. E X POSITIO LIB L IB. 1. 6. priuetur, quoniam non poterat hæc
definitio intelligi, nifi cognoſceremus quid etient apparenter probabilia,
& quid differrenta uere probabilibus, quid fint ap ideo hocipfum declarabit
philofophus. dicit enim, quòd nihil eorum, quæ bilia; & quid funt
probabilia in ſuperficie idem, funtapparenter probabilia, habet omni differant
à ue no fantaſiam idem, funtuero probabilia.id autem eſt apparenter probabi- re
probabili le & in ſuperficie, quòd facile redarguitur,quia ſcilicet promptam
habet bus. inſtantiam, ut ſi dicamus, quod uidet, oculoshabet.ſi quis enim hoc
admit -tat, fateri cogetur oculum habere oculos, ita ſi quis fateatur, quæ
loque ris, ex ore exeunt, audire poterit, currũ loqueris ergo: currus ex ore
exit. eodem modo qui oculos habet, uidet, fed dormiens habet oculos, ergo
uidet.in his fi quis parum infpiciat, mox deprehendet mendacium, quod
nonhabeantea, quæ uere probabilia dicuntur:neque enim hoc facile quis
redarguet, quod maiori bono contrariuin eſt,maius malum eft: in multis eniin
hoc uerum eſt, falſum tamen quandoque deprehenditur.nam morbus, qui eſt maius
malum, quàm mala babitudo, contrariatur ſanitati, quæ eſt minus bonum, quàm
bona habitudo. Principii litigioſarum orationum. per hoc intelligit philoſophus
propoſitiones, ex quibus litigiofi ſyllogiſmi fiunt, non autem horum
argumentorum loca. NOTAND v M autem eft differre litigioſum, ſeu contentioſum
ſyllogiſmũ quid differat à ſophiſtico ex utentis inſtituto.contencioſus enim
eſt,qui ui& oriam aſpi- litigiofus fyl rat:fophifticusautem, qui gloriam.
ſophiſtice enim ex fucata fapientia glo logiſmus à ſo phiftico. riam captat, ut
inde pecunias acquirat,ut dicitur,primo Elenchorum ca pite decimo. Adhuc autem
præter dictos omnes fyllogiſmos. aliam ſyllogiſmidifferentiam affert quidfit
para philoſophus, qui eſt paralogiſmus, quifit in ſcientiis expropriis
quidéprin- logiſmus. cipiis alicuius fcientiæ procedens, ſed male dedu &is,
atque ideo falſis. appel lauit autem philoſophis ſcientiis geometriæ cognatas
ſtereometriam,per- fcientiæ geo fpe &tiuam, aſtrologiam, arithmeticam,muficam,
archite & uram, chofmo- metriä сo graphiam, mechanicen, & alias
quaſdam.quòd autem huiuſmodiſyllogiſmi gnatæ. à ſuperius di&is differant,
patet: non enim ſuntdemonſtratiui, quia falſum concludunt. nam etſi propria
principia alicuius fcientiæ aſſumant, quxuera funt, eo tamenmodo intellecta,
quo falſus deſcriptor illis utitur, ſunt falla. neque etiam huiuſmodi
ſyllogiſmidicipoffunt diale & ici; quoniam ex proba bilibus non ſunt: neque
enim quæ omnibus probantur, neque quæ pluribus affumunt, neque quæ omnibus
fapientibus, neque quæ plurimis, neque celeberrimis, ſed nequedicipoffunthi
ſyllogiſmi litigiofi,quoniam non af fumunt apparenter probabilia. propria enim
principia non uulgo, ſed his, qui in ſcientia ſunt uerſati,cognoſcuntur quare
probabilia dici non poffunt, & cum ad prauum ſenſum deducuntur, non etiam
dici poterunt apparen ter probabilia. Λημμάτων. λήμματα funt apud Αriftoteleim
propofitionesfyllogifmorti quas λήμματα. nos præmiffas appellamus, &
ſumpta: undelyllogiſinidefe & uofi, qui ex ana qua ſint. tantū propoſitioni
conſtabāt,ab Antipatro coronéiuuati ſunt appellati.notan dum eft paralogiſmum,
qui in ſcientiis fit, qui pſeudographusappellatur;ita quonam mo fe habere ad
demonſtrationem, quemadmodum fe habet contentiofus ad do paralogiſ diale&
icum.notandum præterea eſt paralogiſmi nomine, comprehédi utrun- mus habeat que
modum ſyllogiſmi contentiofi, fyllogiſmum ſophiſticum pſeudogra- ftrationen
phum, & tentatiuum. Species igitur fyllogiſmorum, ut figura quadam
complecti licet. Plures affert ratio. rationes qua nes Alexander, quare dixerit
philoſophus, ut figura quadam comple & i licet, re philofo B 2 uel phus
dixerit, quænam Gnt E XPOSITIO L 1 B. I, 1 tiuus. ut figura qua uel quoniam non
tradiderit diligentem, & exquiſitam horum definitionem, dam comple Eti
licet. nonenim ad hoc inſtitutum pertinebat, uel quia non omnes fyllogiſmorum
differentias eſt perſecutus.eas enim prætermiſit, quæ fumuntur pencs dif
ferentias propofitionum, & quæ penes earum connexionem, uel quoniam
prætermiſit enthymema, quod quamuis non fit fimpliciter fyllogiſmus, eſt tamen
ſyllogiſmus rhetoricus, uel quoniam prætermiſit ſyllogiſmum tenta quid fit
fyllo tiuum,dequo alibi fa&a eſt mentio.eft autem fyllogiſmus tentatiuus,
qui gıſmus tenta procedit ex probabilibus, non ſimpliciter, ſed reſpondenti.
eft enim ten tatiuus ſyllogiſinus ad eos refellendos, qui fingunt fe aliquid
ſcire, quod ne ſciunt: fed dubitat Alexander,ac fere affirmat idem effe
Tyllogiſmum tenta tiuum, ac pſeudographum. philoſophus enim in Elenchorum libro
tenta tiuum fyllogiſmum definit, quod fit ex his, quæ reſpondenti probantur:
& quæ neceſſario tenere debetis, qui profiteturſe habere ſcientiam. hoc au
qua in re ten tem idem eſt, ac fi diceret ex peculiaribus fcientiæ principiis.
hæc enim tene tatiuus fyllo- re debet, qui ſcientiam habere profitetur.
appellatur autem tentatiuus à Fat a pſeudo propoſito, & inftituto
interrogantis, pſeudographema autem ab effe& u. grapho. Vtautem
uniuerſaliter dicamus. Admonet philoſophus in his, quæ di &a ſunt, ac
quòdnon in in omnibus, quæ ſunt dicenda, non eile expectandam certam, ac demon
omnibus re- ftratiuam ſcientiam, quia propoſita tra & atio id non fert, cum
de probabili renda demó- bus fit, quorum certa, atque exquiſita fcientia haberi
non poteft, ut dicebat ftratiua fcien in ſecundo metaphyſices, certitudo
mathematica non eſt in omnibus expe tenda, neque omnium poteſt haberi
demonſtratio. dubitatio Q- QVAER VNT quidam, cum philoſophus attulerit duos
fyllogiſmos con phus attule- tentiofos,alterum,qui peccat in materia,alterum,
qui peccat in forma, fit du os fyllo cur unum tantum pſeudographum, qui in
materia peccat, foluunt, quòd giſmos con- peccatum formæ eſt commune omnibus
ſyllogiſmis: quoniam igitur ipſum tentiofos, & expoſuit in fyllogiſmo
contentioſo: ideo hoc loco ipſum prætermiſit, at pſeudogra- peccatum materix
eſt fingulis proprium. Sequitur, ut inquiramus, quæ sit huius operis
inscriptio, et inscriptionis ius operis incausa inscribuntur autem hi libri
topice, græco nomine, a verbo topos inscriptionis munis quædam rei nota, cuius
admonitu, quid in quaque reprobabile sit, potest inueniri, atq hinc libri,
quide huiusmodi loci sagut, topica appellati. Iam illud videndum est, quisit
horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui sit ordo facultatis primo q;
inquirendum est, an libri topici se qui debeant libros huius libri ant libros
totius logicæ tractationis, ut græci attestantur de eaigitur ultimo loco agen
Iteriorum.dumest. prætere a cum probabilia viam nobi saperi anta dipsam
demonstrationem, ling inventu, accognitu faciliora, dehi sigitur priori loco
agen huius ratio, dumest his itaque rationibus topica præcedere posteriora
statuamus: an uero præcedant, ansequantur priora, non minor est difficultas.
Marcus Cicero, cuius sententiam sequitur Boetius, logicam facultatem, quam
dili-, posteriorum resolutoriorum: deinde an etiam sequi debeant libros priori
et primo an Primo quidem, quod posteriorum libri, qui de demonstratione agunt,
Topica cedere debe- consequi debeant, ex eo probatur, quoniam
demonstratio est finisto præcedere gentem rationem differendi appellat, in duas
partes dicites sedidu &am, unam inveniendi, alteram iudicandi: ioveniendi
artem ordine naturæ priorem ida; exfen- dicit si hæc ita sunt, cum inveniendi
ars in topicis libris tradatur, iudican tencia Ciceronis diueroin prioribus,
ergo topica procedúr priora quæ enim priora sunt in sciunt qua ratione pars
illa appelletur iudicativa, ideo hoci p sum nunc o qua ratione stendamus.
Appellatur hæc pars inventiva eo quod locos, ut diximus, con partes logicæ
tinet, ex quibus probabilia eruuntur. pars vero altera iudicatiua dicitur,
altera inven quoniam docer, quo pa & t o probabilia illa. Locus
sigitur, ut definit Alexander, est principium, & occasio epicherema-
secundumA eo tis, cum inprimo ea omnia tradiderit, quæ præcognoscenda
erant, antequa traderentur loci: merito igitur hic incipit explicare locos sed
hic duo sunt secundo libro et si enim de hacrenon nulla dixerimus, minandaante
examinanda primoq,uidsit locus nunc est diligentius explicatione libri, hoc
ipsum tamen cum agebamus de inscriptione sit de locis, par est, explicandum cum
enim omnis futura tractatio d u o efle exatis est autem in ixeípnucdiale &
icus syllogismus. Theophrastus autem hoc mo lexandrum. do definivit locum, quod
est principium quoddam, u elelementum, a quo principia, quæ circa unum quodque
sunt, accipimus, ratione quidem circumscriptionis universalium definitum,
ratione vero singularium indefinitum in hac definitione per illud, quæ sunt
circa unum quod que principia, intelligere debemus, quæ de uno quoque
problemate afferri possunt argumenta per illud autem rationem quidem
circumscriptionis universalium definitum, rationeuero singularium indefinitum,
intelligeredebemus, quod huius modi principium & elementum universale ipsum
definit & determinat singularia autem indefinite comprehendit, neque enim
de hoc, aut de illo singulari loquitur, fedde ipso universali, sub quo omnia
singularia indefinite comprehenduntur, exempli causa, hic est locus, fia licui
contrario aliquod inest contrarium, reliquo quoque contrario reliquum
contrarium inerit in hac propositione universale est determinatum, singularia
vero indefinite comprehenduntur atque exea argumenta accipimus ad unum quod que
eorum, quæ subea comprehenduntur sienim quæ raturutrum bonum pro exemplum, sit,
ab eo loco accipiemus propositionem huic proposito problemati convenientem; si
enim malum obest, ergo bonum prod est patet autem, quod hæc propositio ex eo
loco & est, & probabilitatem nacta est, eodem modo si quæratur, ut rum
albus color sit disgregativu suisus ex prædi &o loco conveniens, argumentum
proposito problemati accipiemus hoc modo, si nigrum est congregatiuum uisus,
ergo album est disgregatiuum eodem modo pro babimus voluptatem esse bonam si
enim tristitia mala est, ergo voluptas est bona hæc igitur omnia, & plura
alia in eo loco indefinite, & indeterminate comprehenduntur hic etiam est
locus, si id, quod magis videtur alicui inef senonin est, tamen neque id, quod
minus videtur in esse ipsiinerit, qui sicut & in priori visum est,
universale quidem definite, singularia vero indefinite comprehendit neque enim
de hoc, aut illo quicquam pronunciat ex definitio loci ANTIQVAM contextum
philosophi exponamus, videamus priuseiuspro } H roncm. quando que
ingrediuntur argumentatione, quando queuero extra positæ vim solum ipsi
tribuunt. Cicero autem intelligit locum esse terminum, unde hæ maxime
propositiones desumuntur cum enim hæ maximæ propositiones plurimæ sint termini
autem,unde sumuntur, longe pauciores; ideo universa earum multitudo in paucos
illos terminos collecta est, ut aliæ in definitione consistant, aliæ ingenere,
aliæ in roto, at que aliæ in aliis, at quehiter mini a Boetio appellantur
differentiæ, eo quod maxime proposiciones per ipsos dividantur, sicut igenus
per differentias maximæ enim propositiones aliæ sunt ex toto, aliæ ex partibus,
aliæ ex genere, &c & sicut maximæ illæ propositiones minorum
propositionum copiam intra suum ambitum continent, ita termini ili, in quos
maximæ illæ propositiones convenienti ratione re ducuntur, illas continere
quodam modo videntur ideoq loci dicuntur ita igitur locum intelligit M.
Tullius, deilisý; in suis Topicis agit, cum Aristoteles priori modo locum
intelligat, ac de illis agat. Sed incidit hoc loco non indigna contemplatio
quis scilicet melius, atque ad usum accomodatius rem hanc tractaverit, an
Aristoteles, qui universales, & maximas illas propositiones explicaverit;
an M. Tullius, qui maximis propositionibus præter missis eos tantum terminos,
in quos illæ colliguntur, exposuerit hoc autem ita investigari psse videtur
siquis exterminis ilis uelit in proposita quæstione argumenta sibi consicere,
cum ad argumenta conficienda necessariæs intpropositiones id eo oportet, ut
exterminis illis propositiones inveniat, ex quibus argumenta construat sed hoc
dificilli mum est, & multa indiget prudentia, & longa consideratione
quis enim possetstatim inspecto termino propositionum, quæ probabiles sint
& indubita txcopiam inuenire; atque ex hiseas, quæ propositæ quæstioni
conveniat, eligere si hoc ita est, patet longe consultius, & præstantiu
segisse philosophum, qui has propolitiones nobis invenerit, & explicauerit;
easq; secundum unum quodque quæstionis genus certo ordine ita digesserit, ut quam
vis plurimæ sint, nihil tamen confusionis pariant, sed maximam, accertamin una
quaquere argumentorum copiam suppeditant neque tamen prætermit tit philosophus
terminos, exquibus maximæ propositiones desumuntur: hoc enim facile ad modum
est exeiusdi & iselicere sed noluit ipse terminorum ordinem sequi, quoniam
ordo ille problematum ordine minterturbasset, qui longe præstantior est &
ad usum accomodatior qai igitur terminorum do &rinam sequitur, primo
propositiones ignorat; quarum præcipuus est usus in argumentis & fine
quibus nullus est terminorum usus deinde nullum secundum quæstionum genera
ordinem habet, quo sit, utinomni qux sionis genere per omnia loca temere
vagaricoa & us sit atque ita patet lon dubitatio, TOPICORVM ARIST. cota
mende his omnibus possumus argumentari, ut si velimus probare diuitias non esse
bonas, ex eo loco hoc modo argumentabimur si sanitas, quæ magis videtur esse
bona, quam divitiæ, bona tam en non est, ergo neque divitiæ bonæ sunt si enim
deinde probemus sanitatem non esse bonam ex eo forte, quod aliquibus sit causa
mali, ex loco proposito ostensumerit divitias non esse bonas. probare uule
NOTANDVM autem hoc loco est,alio mod.
Ludovicus Buccaferreus. Ludovicus Buccaferrea. Ludovico Boccadiferro. Keywords:
luogo comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boccadiferro” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785435563/in/dateposted-public/
Grice
e Boccanegra – esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “Boccanegra is a good one; we
often laugh at Aquinas because he is a saint – but we have to recall that
Aquinas never knew it – for centuries after his death he ain’t one! Boccanegra
prefers to call him ‘Aquino,’ or ‘Aquinate,’ --.” Grice: “Boccanegra is like me
a systematic philosopher: dalla metafisica alla etica – is that possible? Yes,
what is the ‘paraidm,’ in Kuhn’s use of this tricky word? Esperienza, alla
Locke! And co-experience in my conversational model!” -- Alberto Boccanegra (n. Venezia), filosofo.
Osvaldo Boccanegra nacque a Venezia, figlio primogenito di Antonio e Ida
Camerin. Partecipò alla seconda guerra mondiale come sottotenente del Regio
esercito, richiamato alle armi nel 1941. Nei giorni successivi all'armistizio
di Cassibile riuscì a sottrarsi alle rappresaglie naziste e si ricongiunse
all'esercito italiano a Catanzaro, dove spesso prestò servizio presso la Croce
rossa. Formazione Durante gli anni della
leva trovò il tempo per dedicarsi allo studio dell'intero Organon di
Aristotele. Nel 1948 ottenne il dottorato in filosofia presso l'Università
Cattolica di Milano con una tesi dal titolo I primi principi in Duns Scoto.
Presupposti e corollari. Nell'ateneo milanese, dove Boccanegra frequentava la
cerchia dei neo-tomisti radunatisi attorno a Gustavo Bontadini, gli venne
offerta la cattedra di filosofia teoretica che lui, tuttavia, rifiutò. In
quegli anni scrisse e divulgò le sue idee alternative sulla rivista filosofica
Vita e Pensiero. Entrò a far parte dell'Ordine Domenicano a San Domenico di
Fiesole il 10 ottobre 1948 con il nome religioso di frà Alberto, che lo
accompagnò di lì in poi anche in occasione della pubblicazione delle sue
opere. Il 14 ottobre 1949 entrò al
Pontificio Ateneo Angelicum di Roma per lo studio delle materie filosofiche e
teologiche dove nel 1953 discusse la sua tesi dottorale in filosofia (De
dynamismo entis) e nel 1954 ottenne il lettorato in teologia grazie al suo
Fundamenta metaphisica, tractatus de Deo secundum S. Thomam. Ordinato sacerdote
a San Marco di Firenze il 25 luglio 1953 non abbandonò più il convento di San
Domenico di Fiesole. Attività
filosofica, teologica e critica Boccanegra lasciò per sempre incompiuto il suo
trattato dottorale in teologia, ma nel 1969 pubblicò comunque una esauriente
sintesi del suo pensiero su vari numeri della rivista filosofica “Sapienza”. Fu
per anni vice direttore della Commissione per la traduzione della Somma
Teologica di Tommaso d'Aquino in Italiano presieduta da Tito Centi. Gli
imponenti schemi riassuntivi sono consultabili nei 35 volumi editi dalle ESD di
Bologna. Degne di nota furono le sue corpose introduzioni alla Summa di
d'Aquino pubblicate in più edizioni a partire dal 1959. Neotomista, è considerato da alcuni filosofo
metafisico per altro tra i più rilevanti, mentre altri lo ricordano tra i
teologi cattolici di spicco. La sua attività preferita tuttavia, fu
l'insegnamento e la divulgazione. Negli anni settanta Professoreè professore di
filosofia al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma. Di tale corso ci restano le dispense
dal titolo: Frammenti di metafisica iniziale. Per più di vent'anni ha insegnato
filosofia e teologia nello Studio Teologico Accademico Bolognese e nello Studio
Teologico Fiorentino. Migliaia di pagine
manoscritte sono conservate dopo la sua morte nell'archivio conventuale di San
Domenico di Fiesole. Fu autore di pubblicazioni ed articoli filosofici comparsi
o recensiti su riviste italiane ed internazionali. Fu confessore ricercato soprattutto dai
giovani. Nonostante una malattia che lo ha accompagnato e provato per quasi
tutta la vita costringendolo a cure costanti, riusciva quotidianamente a fare
escursioni per diversi chilometri. Quando negli ultimi anni le sue forze non
gli permisero di continuare la ricerca, si dedicò alla preghiera costante, sia
di giorno che di notte. Saggi e
pubblicazioni La beatitudine Gli atti umani (I-II, qq. 1-21), Edizioni Studio
Domenicano, 1985 La prova radicale dell'esistenza di Dio e i suoi rapporti con
l'antropologia, 1969 Osservazioni sul fondamento della moralità, 1975
Pluralismo teologico di «tolleranza» o di «diritto»?, 1966 Circa la relazione
di G. Bontadini, 1973 La persona umana centro della metafisica tomistica, 1969
Note Nome di battesimo. Angelo Belloni, Biografia di Alberto
Boccanegra, Ordine dei frati predicatori Domenicani, Provincia Romana di S.
Caterina da Siena, luglio Relatore
Amato Masnovo. Alberto Boccanegra,
L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su “Sapienza”, numero
3-4, XXII (1969), 410-513 Alberto Boccanegra, “La Somma
teologica”, VIII, La Beatitudine; Gli
Atti umani (I-II, qq.1-21)” (Prima edizione 1959, seconda 1984) Giuseppe Del
Re, The cosmic dance: science discovers the mysterious harmony of the universe,
Templeton Foundation Press, 2000,
1890151254.62 Giuseppe Barzaghi,
Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere, Volume 3,
Studio Domenicano, 1997,
887094270870. Giovanni Cavalcoli,
Enrico Maria Radaelli, La questione dell'eresia in Rahner. Archiviato il 30
dicembre 2009 in., articolo uscito su «Divinitas», anno LI, n. 3, III
quadrimestre 2008. Alberto Boccanegra,
L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su
"Sapienza", nn. 3-4, XXII, 1969,
410-513 Alberto Boccanegra, Il rinnovamento metodologico nell'insegnamento
della filosofia, "Revue internationale de philosophie", Edizioni
87-90, 1969 L'homme et la moraleOrigine et sources de la morale
thomisteÉlaboration de la théologie comme science dans l'œuvre de saint Thomas,
"Revue thomiste", recensione, Volume 62, Saint-Maximin (France),
École de théologie pour les missions176. "Revista nacional de
cultura", recensione, Edizioni 173-178, Ministerio de Educación, Instituto
Nacional de Cultura y Bellas Artes, 196653.311595467 Identities-311595467 Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Filosofo del XX secoloTeologi
italiani 1920 19 ottobreMorti l'11
luglio Venezia FiesoleDomenicani italiani. Alberto Boccanegra. Boccanegra.
Keywords: esperienza. The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bocchi – solidarii – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “Bocchi is a good one; and Bocchi
is a good one – Gianluca Bocchi is a curator who lives in a Roman palazzo and
whose expertise is ‘natura morta.’ Gianluca Bocchi is also a philosopher of
science – as he calls it – My favourite piece by Bocchi is about collective
thinking, -- solidarieta – Surely when I wrote ‘In defense of a dogma’ with my
tutee we were being solidary with each other, and we own each sentence –
collective thinking --.” Grice: “I could have called my desideratum the
principle of conversational solidarity – I am thinking of course Butler in
mind, and the whole bit is to see why (if at all – cf. Stalnaker) an
utilitarian justification is insufficient, and we need recourse to Kant!” -- Gianluca
Bocchi «La nostra età non ha soltanto
vissuto l'esperienza della relatività da ogni punto di vista. Ha fatto
soprattutto l'esperienza dell'incompiutezza di ogni punto di vista. La
contingenza, la singolarità e l'irripetibilità di ogni punto di vista sono
condizioni indispensabili per avere accesso al mondo, per dialogare con gli
altri punti di vista, per creare nuovi mondi»
«Per noi, raccogliere la sfida della complessità significa considerare
la scienza una via importante per riannodare i legami con le altre tradizioni,
per riscoprire con interesse i loro significati profondi, per esplorare la
varietà delle esperienze cognitive, emotive, estetiche, spirituali della specie
umana» «Il nostro continente è sempre
stato sede di migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra
popoli e stirpi differenti, e questa diversità di radici è un elemento
integrante dei suoi sviluppi passati e presenti.» Niente fonti! Questa voce o sezione
sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti
sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti
attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. -- Gianluca Bocchi (n.
Milano), filosofo. Gianluca Bocchi È un filosofo della scienza e della storia,
esperto di scienze biologiche ed evolutive, di storia globale, di storia
urbana, di geopolitica, di storia delle idee, delle culture, delle lingue. Ha
fra l'altro introdotto in Italia, con Mauro Ceruti, le tematiche concernenti le
scienze dei sistemi complessi e la connessa epistemologia della complessità,
contribuendo altresì alla loro diffusione a livello internazionale. Pubblicazioni Disordine e costruzione.
Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget (con Mauro Ceruti),
Milano, Feltrinelli, 1981. Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul
pluralismo evolutivo (con Mauro Ceruti), Bari, Dedalo, 1984. La sfida della
complessità (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1985, (nuova edizione con
nuova introduzione, Milano, Bruno Mondadori, 2007). Un nouveau commencement
(con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Seuil, Paris, 1991. L'Europa nell'era
planetaria (con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Milano, Sperling and Kupfer, 1991.
Origini di storie (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1993, 88-07-10295-1. (tr. inglese The Narrative
Universe, NJ, Hampton Press; tr. spagnola El sentido de la historia, Editorial
Débate, Madrid; tr. portoghese Origens e Historias, Instituto Piaget, Lisbona).
La formazione come costruzione di nuovi mondi, Roma, Formez-Censis, 1993.
Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica (a
cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, 1994. Le radici prime
dell'Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici (a cura di, con Mauro
Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, 2001. Origini della scrittura. Genealogie di
un'invenzione (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, 2002.
Educazione e globalizzazione (con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina,
2004, 88-7078-865-2. Una e molteplice.
Ripensare l'Europa (con Mauro Ceruti), Milano, Tropea, 2009. Le città di
Berlino (con Laura Peters), Bologna, Bononia University Press, 2009. Le vie
della formazione. Creatività, innovazione, complessità (con Francesco
Varanini), Milano, Guerini,. L'Europa globale. Epistemologie delle identità,
Roma, Studium,, 978-88-382-4323-3.
Borderscaping: Imaginations and Practices of Border Making (a cura di, con
Chiara Brambilla, Jussi Laine, James W. Scott), Farnham (Surrey, UK), Ashgate,.
Note Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti,
Origini di storie, Prefazione, Milano, Feltrinelli, 199312, 88-07-10295-1
Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, La sfida della complessità, Introduzione
alla nuova edizione, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p.XXII. Gianluca Bocchi, L'Europa globale.
Epistemologie delle identità, Mille anni d'Europa, fra globale e locale, Roma,
Studium, 26. 978-88-382-4323-3. Sito ufficiale, su gianlucabocchi. 10
aprile (archiviato dall'url originale
l'8 settembre ). CE.R.CO, su cercounibg. 2 giugno 14 maggio ). Filosofia Filosofo Professore1954
19 dicembre Milano. Oddly, my favourite Bocchi philosopher is Francesco Bocchi!
Keywords: solidarii, Francesco Bocchi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bocchi”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785686384/in/dateposted-public/
Grice e Bodei – geometria delle passioni
– filosofia sarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cagliari). Grice: “Bodei is a good one; of course
he is sardo -- my favourite of his tracts is one on ‘condivisione’ and ‘beni
communi’ – which is what my conversational pragmatics is all about --; he has
also philosophised on the tricky Grecian concept of ‘harmony’, and the very
charming Roman concept of ‘con-cordia’ – and he has explored the diagogic form
of philosophy in his historical analysis of ‘la dialettica,’ – he has explored
‘ragione,’ vis-à-vis what he calls the ‘geometria delle passioni,’ and he has
also shed light on the univocity or lack thereof of ‘virtu cardinali” – virtue
is unitary, but some virtues are more unitary than others!” Grice: “Bodei has
explored ‘coraggio,’ and other virtues.” – “In his geometry of passions, he
sheds light on Plato’s convoluted idea that in my head I have the reason of a
man; in my heart I have the will of a lion-like warrior, and in my gut I have
the love of a multi-headed monster!” --
Essential Italian philosopher. Remo Bodei (n. Cagliari) filosofo e
accademico italiano. Laureato all'Pisa, perfezionò la sua preparazione
teoretica e storico-filosofica a Tubinga e Friburgo, frequentando le lezioni di
Ernst Bloch ed Eugen Fink; a Heidelberg, con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi
all'Bochum. Conseguì inoltre il diploma di licenza e il diploma di perfezionamento
della Scuola Normale Superiore. Fu visiting professor presso le
Cambridge, Ottawa, New York, Toronto, Girona, Città del Messico, UCLA (Los
Angeles) e tenne conferenze in molte università europee, americane e
australiane. Dal 1981 al 1983 fu nel comitato redazionale della rivista
Laboratorio politico. Dal 1995 collaborava con Massimo Cacciari, Massimo
Donà, Giuseppe Barzaghi, Salvatore Natoli e Stefano Zamagni nell’iniziativa La
filosofia nei luoghi del silenzio, un tentativo di coniugare filosofia e contemplazione
nella forma del ritiro comunitario. Dal 2006 fu docente di ruolo in
Filosofia alla UCLA di Los Angeles, dopo aver a lungo insegnato Storia
della filosofia ed Estetica alla Scuola Normale Superiore e all'Pisa, dove
continuò a tenere, sia pur saltuariamente, qualche corso. Era anche
membro dell'Advisory Board internazionale dello IEDIstituto Europeo di
Design. Dal 13 novembre Remo Bodei
fu socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze
Morali, Storiche e Filosofiche. Remo Bodei è morto il 7 novembre, a 81
anni. Era marito della storica Gabriella Giglioni. I suoi libri sono
stati tradotti in molte lingue. Pensiero Si interessò a fondo della
filosofia classica tedesca e dell'Idealismo, esordendo con la fondamentale
monografia Sistema ed epoca in Hegel, dopo aver già tradotto in italiano
l'importante Hegels Leben (Vita di Hegel) di Johann Karl Friedrich Rosenkranz.
Appassionato cultore della poesia hölderliniana, all'autore dell'Hyperion
dedicò saggi di notevole interesse. Con il volume Geometria delle passioni
estese la sua meditazione anche a protagonisti della filosofia moderna come
Cartesio, Hobbes e soprattutto Spinoza. Studioso del pensiero utopistico del
Novecento, in particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di autori
'francofortesi' come Theodor Adorno e Walter Benjamin, intervenne nella
discussione sulla filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando in
particolare con Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Salvatore Veca e Nicola
Badaloni. Nei suoi studi sull'estetica curò l'edizione dell'Estetica del brutto
di Johann Karl Friedrich Rosenkranz e analizzò in particolare concetti centrali
come le categorie del bello e del tragico. Costante la sua attenzione per
Sigmund Freud e gli sviluppi della psicoanalisi, per le logiche del delirio e
per fenomeni in apparenza quotidiani ma sconvolgenti come l'esperienza del déjà
vu. Filosofo di una ragione laica, sulla scia di Ernst Bloch, autore di Ateismo
nel cristianesimo, cercò di distillare anche nel teorico del compelle intrare,
Agostino d'Ippona, le possibili linee di un "ordo amoris" capace di
assicurarci quell'identità in cui, come vuole il Padre della Chiesa, saremmo
noi stessi pienamente: dies septimus, nos ipsi erimus ("il settimo giorno
saremo noi stessi"). Nel 1992 vinse il Premio Nazionale Letterario
Pisa Sezione Saggistica. Bodei inoltre curò la traduzione e l'edizione
italiana di testi di Hegel, Karl Rosenkranz, Franz Rosenzweig, Ernst Bloch,
Theodor Adorno, Siegfried Kracauer, Michel Foucault. Molti suoi lavori
hanno per oggetto lo spessore e la storia delle domande che riguardano la
ricerca della felicità da parte del singolo, le indeterminate attese collettive
di una vita migliore, i limiti che imprigionano l'esistenza e il sapere entro
vincoli politici, domestici e ideali. Già in Scomposizioni (1987), affrontò
alcuni temi della genealogia dell'uomo contemporaneo e propose la metafora
della geometria variabile per indagare le strutture concettuali ed espositive
che, contraendosi o espandendosi sino a noi, orientano la percezione e la
formulazione di problemi. La sua analisi dell'interazione di queste
configurazioni mobili proseguì in Geometria delle passioni (1991) e in Destini
personali (2002) che hanno avuto rilevante successo di pubblico. Alla
divulgazione dell'amore per la filosofia dedicò alcune conferenze e un libro
(Una scintilla di fuoco, 2005). Negli ultimi tempi stava lavorando sulla
storia e sulle teorie della memoria. Citazioni «Ciascuno di noi vive
nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per
loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza.
(citato in Corriere della sera, 16 gennaio 2009)» «Malgrado i ripetuti
annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è affatto 'morta'.
Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che
vengono continuamentee spesso inconsapevolmenteriformulati. A tali domande,
mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la
deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia
il nostro comune pensare e sentire» (Remo Bodei, La filosofia nel
Novecento, Roma, Donzelli, 1997188) «Nel passato il progresso delle civiltà
umane era relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite,
che ne spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita» (Remo
Bodei, Limite, Il Mulino, 66) Opere Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il
Mulino, 1975. Riedizione ampliata con il titolo: La civetta e la talpa. Sistema
ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino,. Hegel e Weber. Egemonia e
legittimazione, (con Franco Cassano), Bari, De Donato, 1977 Multiversum. Tempo
e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979 (Seconda edizione ampliata,
1983). Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, 1987.
Riedizione ampliata, Bologna, Il Mulino,. Hölderlin: la filosofia y lo trágico,
Madrid, Visor, 1990. Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste,
Bologna, Il Mulino, 1991 (Terza edizione ampliata, 2005). Geometria delle
passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano,
Feltrinelli, 1991 (Settima edizione ampliata, 2003). Le prix de la liberté,
Paris, Éditions du Cerf, 1995. Le forme del bello, Bologna, Il Mulino, 1995.
Seconda edizione riveduta e ampliata Bologna, Il Mulino,. La filosofia nel
Novecento, Roma, Donzelli, 1997. Se la storia ha un senso, Bergamo, Moretti
& Vitali, 1997. La politica e la felicità (con Luigi Franco Pizzolato),
Roma, Edizioni Lavoro, 1997. Il noi diviso. Ethos e idee dell'Italia repubblicana,
Torino, Einaudi, 1998. Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia,
Roma-Bari, Laterza, 2000. I senza Dio. Figure e momenti dell'ateismo, Brescia,
Morcelliana, 2001. Il dottor Freud e i nervi dell'anima. Filosofia e società a
un secolo dalla nascita della psicoanalisi, Roma, Donzelli, 2001. Destini
personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli,
2002. Delirio e conoscenza, Remo Bodei, in Il Vaso di Pandora, Dialoghi in
psichiatria e scienze umane, X, N. 3,
2002. Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia, Bologna, Zanichelli, 2005.
Piramidi di tempo. Storie e teoria del déjà vu, Bologna, Il Mulino, 2006.
Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, Bompiani,
2008. Il sapere della follia, Modena, Fondazione Collegio San Carlo per
FestivalFilosofia, 2008. Il dire la verità nella genealogia del soggetto
occidentale in A.A. V.V., Foucault oggi, Milano, Feltrinelli, 2008. La vita
delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009. Ira. La passione furente, Bologna, Il
Mulino,. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra (con Sergio Givone),
Torino, Lindau,. Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Milano,
Feltrinelli,. Limite, Bologna, Il Mulino,. Le virtù Cardinali (con Giulio
Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca), Roma-Bari, Laterza,. Dominio e
sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Bologna,
Il Mulino,. Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana.nastrino per uniforme ordinaria Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito
della Repubblica Italiana. — 1º giugno 2001. Di iniziativa del Presidente della
Repubblica. Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademichenastrino per uniforme
ordinaria Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademiche immagine del nastrino
non ancora presente Cittadino onorario di Siracusa, Modena, Carrara e Roccella
Jonica. Note È morto il filosofo Remo
Bodei, aveva 81 anni, su fanpage, 7 novembre.
Repubblica 18/08/ Albo d'oro, su
premionazionaleletterariopisa.onweb. 7 novembre. «Bodei Prof. Remo: Grande Ufficiale Ordine al
Merito della Repubblica Italiana», sito della presidenza della repubblica.
Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Remo Bodei Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Remo
Bodei Remo Bodei, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Remo Bodei, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Remo Bodei,.
Pubblicazioni di Remo Bodei, su Persée, Ministère de l'Enseignement
supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.
Registrazioni di Remo Bodei, su RadioRadicale, Radio Radicale. Remo Bodei: Spinoza, un filosofo maledetto,
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai.
Scheda del professor Bodei nel sito del Dipartimento di filosofia dell'Pisa, su
fls.unipi. V D M Vincitori del Premio Dessì Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1938 3 agosto 7 novembre Cagliari PisaAccademici
dei LinceiAccademici italiani negli Stati Uniti d'AmericaProfessori della
Scuola Normale SuperioreProfessori dell'Università della California, Los
AngelesProfessori dell'PisaStudenti dell'Pisa. Bodei. Keywords: geometria delle
passioni, filosofia sarda, I concordati, Concordia, armonia, condivisio. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Bodei," per
Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685630143/in/photolist-2mTwHiJ-2mSug6h-2mQtVUe-2mQjVch-2mPYYve-2mPmWDG-2mKhnJa-2mKhn9c-2mKbcpy/
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