Grice e Casanova – desiderio omoerotico – filosofia
veneziana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “It is
fascinating to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the
plural – bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less
acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife
hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo
Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista,
esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto
della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia. Benché
di lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici
d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di
matematica) e opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a
tutt'oggi ricordato principalmente come un avventuriero e, per via della sua
vita amorosa a dir poco movimentata, come colui che fece del proprio nome
l'antonomasia del soave e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un
playboy viene spesso chiamato "casanova". A questa sua fama di
grande conquistatore di donne contribuì verosimilmente la sua opera più
importante e celebre: Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui
l'autore descrive, con la massima franchezza (pur non per questo privandosi
d'anedotti romanzeschi e alcuni abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi
e, soprattutto, i suoi innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è
scritta in francese: tale scelta linguistica fu dettata principalmente da
motivi di diffusione dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua
più conosciuta e parlata dalle élite d'Europa. Fra corti e salotti vari, si
ritrovò a vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale
della storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento
che avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase
infatti ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e
credenze dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante,
l'aristocrazia, alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò
disperatamente di far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente
avviata al crepuscolo, per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse
dell'epoca che ebbe modo di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato
testimonianza diretta, si possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire,
Madame de Pompadour, Wolfgang Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di
Russia e Federico II di Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia,
Calle della Commedia (ora Malipiero) Giacomo Girolamo Casanova nacque a
Venezia, in Calle della Commedia (ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa
di San Samuele, dove fu anche battezzato, il 2 aprile del 1725.
Molte opere enciclopediche o letterarie recano erroneamente i nomi
di battesimo Giovanni Giacomo, la cui origine è sicuramente da ricercarsi nella
pubblicazione dell'opera del 1835 Biografia degli italiani illustri nelle
scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de' contemporanei, Emilio De
Tipaldo, in cui l'autore della voce relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba,
intestò erroneamente la voce a un certo Giovanni Giacomo Casanova.
Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella voce su Casanova
dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso. Si può leggere
il nome corretto nel documento relativo al battesimo del Casanova. «Addì
5 aprile 1725 Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe Casanova del
q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2
corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il
signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina
Salvi.» (Storia della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano Casanova,
era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando
alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova all'inizio dell'Histoire, gli avi
paterni sarebbero stati originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la
madre, Zanetta Farussi, era un'attrice veneziana che, nella sua professione,
ebbe di gran lunga maggior successo del marito, dato che la troviamo menzionata
persino da Carlo Goldoni nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova
bellissima e assai valente". La voce popolare lo considerava frutto di una
relazione adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4]
e Casanova stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori
né donne, di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a
suffragio della tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del
padre, i Grimani si presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse
oltre i normali rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie
veneziane praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo,
avevano servito la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la
giustizia della Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai
particolarmente nei suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri
cinque figli: Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena
Antonia Stella e Gaetano Alvise. Chiesa di San Samuele, Venezia
Rimasto orfano di padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre
costantemente in viaggio a causa della sua professione, Giacomo fu allevato
dalla nonna materna Marzia Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute
cagionevole e per questo motivo la nonna lo condusse da una fattucchiera che,
eseguendo un complicato rituale, riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era
affetto. Dopo quell'esperienza infantile, l'interesse per le pratiche magiche
lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui stesso era il primo a ridere della
credulità che tanti manifestavano nei confronti dell'esoterismo. All'età
di nove anni fu mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; nel
1737 s'iscrisse all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe
laureato in diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo
accademico è molto controversa: infatti Casanova descrive nelle Memorie gli
anni passati all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione
risulta anche dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui
frontespizio reca scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université
de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue.
Inoltre da documenti risulta che il Casanova abbia lavorato nello studio
dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si era presunto che, compiuti gli studi e
conseguita la laurea, fosse andato a compiere il praticantato presso il Da
Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a dubitare del titolo conseguito dal
Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto gli studi del Brunelli, il quale
aveva reperito documenti che dimostravano in modo certo l'avvenuta
immatricolazione al primo anno e le successive iscrizioni, convinsero tutti gli
autori dell'effettivo conseguimento del titolo accademico; in tal senso, tra i
tanti, anche James Rives Childs (Casanova). Successivamente Enzo Grossato pose
nuovamente in dubbio il conseguimento del titolo rifacendosi ai registri di
laurea, i quali non menzionano il nome del veneziano. Dello stesso avviso Piero
Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai registri consultati dal Grossato,
anche un ulteriore codice, il Registro dottorati 1737 usque ad 1747, non
riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò che il Casanova non aveva
mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando ormai ricostruire la
circostanza sarebbe stato difficile per chiunque. Terminati gli studi,
Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per poi rientrare a
Venezia nel 1742. Nella sua città natale ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato
Marco da Lezze. Il 18 marzo 1743 la nonna Marzia Baldissera morì. Con la morte
della nonna, alla quale era legatissimo, si chiuse un capitolo importante della
sua vita: la madre decise di lasciare la bella e costosa casa in Calle della
Commedia[E 7] e di sistemare i figli in modo economicamente più sostenibile. Questo
evento segnò profondamente Giacomo, togliendogli un importante punto di
riferimento. Nello stesso anno fu rinchiuso, a causa della sua condotta
piuttosto turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di
luglio. Più che l'applicazione di una pena, fu un avvertimento tendente a
cercare di correggerne il carattere. Messo in libertà, partì, grazie ai
buoni uffici materni, per la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che
si recava ad assumere la diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato
per le condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a
Napoli e a Roma, dove nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva,
ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse
presto, a causa della sua condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel
Palazzo di Spagna, residenza ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di
casa. Targa commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del
1744 arrivò ad Ancona, dove era già stato sette mesi prima. Durante il primo
soggiorno nella città era stato costretto a passare la quarantena nel
lazzaretto, dove aveva intessuto una relazione con una schiava greca,
alloggiata nella camera superiore alla sua.[E 9] Fu però durante il suo
secondo soggiorno ad Ancona che Casanova ebbe una delle sue più strane
avventure: si innamorò di un seducente cantante castrato, Bellino, convinto che
si trattasse in realtà di una donna. Fu solo dopo una corte serrata che
Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il castrato era in realtà una
ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per
sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva passare per un castrato in
modo da poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la
presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo
dell'Histoire, a testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle
capitali europee dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò
quindi a Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il
violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla
morte del padre, avvenuta prematuramente (1733), avevano assunto ufficialmente
la tutela del ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei
Grimani, Michele, fosse il vero padre di Giacomo. Nel 1746 avvenne
l'incontro con il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato
sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu
soccorso da Casanova e si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento,
aveva potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come
un figlio, contribuendo, finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate
in cui assisteva Bragadin, Casanova venne in contatto con i due più fraterni
amici del senatore, Marco Barbaro[E 11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si
affezionarono profondamente e, finché vissero, lo tennero sotto la loro
protezione. La frequentazione con i nobili attirò l'interesse degli Inquisitori
di Stato e Casanova, su consiglio di Bragadin, lasciò Venezia in attesa di
tempi migliori. Nel 1749 incontrò Henriette, che sarebbe stata forse il
più grande amore della sua vita. Lo pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità
di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su
altre identificazioni, i "casanovisti" si sono accapigliati per
decenni. In linea di massima, come è stato sostenuto da molti studiosi, i
personaggi citati nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore potrebbe
essersi cautelato con qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne
sposate, alcune sono citate con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta
l'età viene un po' modificata per galanteria o per vanità dell'autore che non
amava riferire di avventure con donne considerate, con i criteri di allora, in
età matura, ma in generale le persone sono identificabili e anche i fatti
riferiti sono risultati corretti e riscontrabili. Innumerevoli identificazioni
e notizie documentali hanno confermato il racconto. Se qualche errore c'è
stato, lo si deve anche al fatto che, all'epoca in cui furono scritte le
Memorie (dal 1789 in poi), erano passati molti anni dai fatti e, per quanto
l'autore si possa essere aiutato con diari o appunti, non era facile
incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto l'autore si faceva però
trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non rinunciava a qualche
"colpo di teatro", il che peraltro contribuisce a rendere la lettura
più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto casanoviano è
tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi, impossibile da
valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di aver intrattenuto con i
personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno
ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi
totalmente romanzati e di pura invenzione, basati comunque su personaggi
storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della
descrizione. Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di
Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De
Bernis. Si tratta di una delle parti più valide dell'opera dal punto di vista
letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione
emotiva dei personaggi di straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il
racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente tentata
l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura fantasia e
basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier), che
effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi
continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché
ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova romanziere.[E
15] Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel giugno successivo
decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico Antonio Stefano
Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta
della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, Casanova aderì alla
Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni
ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili
appoggi. «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non
vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei,
deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per sapere
superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene la
loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti
non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve
guardarsi dalle amicizie pericolose.» (Giacomo Casanova, Memorie) Ottenne
qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua
vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni
ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far
parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti
a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con
familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i
due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò
allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre
che, in molti casi, epistolare.[E 20] Ritornato a Venezia dopo il lungo
soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755,
all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca,
al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della
detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò
dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato
sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale
dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione
da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto
lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più
evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano
insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio. Sui motivi reali
dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova
era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle
spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i
comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In
definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne
sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in
generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del regime
aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto disordinata, ma
né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava,
barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia di religione e,
quel che è peggio, non ne faceva mistero. L'arresto di Casanova
(illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla
Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la
scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente appartenente
al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano e amante
dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma, l'oligarchia al potere
non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto socialmente pericoloso
restasse in circolazione. Tuttavia gli appoggi, di cui certamente poteva
disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono notevolmente, sia
nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la reclusione, e
forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è solo
apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per estrazione
e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua alla nobiltà,
ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a qualche titolo,
della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato che il suo
presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle famiglie più
illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e altrettanti
cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel libello Né
amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di corporatura
dei due avvalorasse parecchio la tesi. Dalla fuga dai Piombi al ritorno a
Venezia (17561774) Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a
Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni
Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo shock
dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo fu
vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il 1º
novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte,
attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il
frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di
nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia
del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che
pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti
al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di
allontanarsi fulmineamente con una gondola. Si diressero velocemente
verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava
un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli
Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi
soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono
economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della
scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a
Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e
quindi gli appoggi non gli mancavano. Illustrazione da Storia della
mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua
specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale
potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna
ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione,
dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione,
soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici. Il
28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da
quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte
trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François
Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV. Molto fantasioso,
come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di
rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far
contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era
talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa
venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore"
il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato
cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una
missione segreta nei Paesi Bassi.[26] Al suo ritorno fu coinvolto in
un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la
scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese,
Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione
con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di
sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici
famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a
causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo
scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a
Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà,
la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e
che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è
stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge
a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto
dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il
messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate. Casanova si prodigò per
darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive,
presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio,
Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché
l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta
presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere.
L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel
convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria,
Casanova si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una
manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione
delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono
lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il
provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse
dall'incomoda situazione.[30] Gli anni successivi furono un intenso
continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera,
dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il maggior
intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire ed è
riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno più
felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il
suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più
onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31]
Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude
Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene
tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte idee di
Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace generale
della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito), e quindi
rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per il
patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande
atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi
spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava
al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò
che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie
critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei
giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo
giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione
avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver
ragione.[31]» In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33]
Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il
soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII. Nel 1762
ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla
marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni
presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di
pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo
poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più
favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34] Nella capitale
inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una
relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato
debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che
fosse un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere
trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi
s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di
questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re
Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola
dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la
Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37] L'anno
successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38]
anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici
incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione
la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di
primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque.
Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della
curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi
delle capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che
in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma
Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.
Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il
duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della
ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone
veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao
II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura
politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso
pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato
in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile
conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un
duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia
in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne
avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di
Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza
da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne
l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza
seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La
buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove
fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia
della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per
Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da
una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di
lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della
marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le
pur cospicue sostanze di famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla
disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu
gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un
mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente
(gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette
che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un
ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli,
Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli
Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il
3 settembre 1774. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite
grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli
Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi
prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le
riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la
collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso
rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di
persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.
L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di
sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta
rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si
usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle
stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter
sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva
manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo
della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che
avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre
duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte
autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del
doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere
un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo
livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una
città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di
pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue
vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna
una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra
la classe reietta e quella privilegiata. In questo stesso periodo iniziò
una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che
per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia,
delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52]
utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti
tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima
relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche
quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal
crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre
a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in
cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di
cambio con discrete somme di denaro. Il nome della calle deriva dalla
presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in
dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate
vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di
Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di
Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di
Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata
13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di
proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete
a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la
soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione,
spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa
antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di
me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo
originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco
Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste,
Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti
i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi
incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di
fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era
quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di
rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo
primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare
fondata e verificabile[54]. Negli anni successivi pubblicò altre opere e
cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò
un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti,
col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone
di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi
componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur
sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne
chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan
Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento
della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano
Giustinian.[55] Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città
in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola
e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso,
era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso
l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo,
esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno
far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto
casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e
vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita,
di Giacomo Casanova".[56] Ritratto del 1788 Annotazione
della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e
si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore
veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto
di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì
trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla
servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata
per sempre. Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese,
alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno
di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo
conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo
tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione
della Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue
energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una
morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita
assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario
collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che
la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del
castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di
sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non
ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate.
Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della
chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre
opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio
Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale
servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La
Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del
Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina.
Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia.
Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio
del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.
Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia
Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie.
Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto
sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né
amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre
historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu...
Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le
deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition
raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà
le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla
Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac....
Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque
d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et
libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise
qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le
noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica
di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di
Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911.
1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre
vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans
l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de
Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de
Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de
l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme
deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur
le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie
de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en
Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique
de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au
sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10
Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de
Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue.
Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue.
1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni
italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara, traduzione Giancarlo
BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di
cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico
Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I
meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I
meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero
Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo
Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova
con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II
(1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani.
1985Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et
Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli.
Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e
Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri
libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a
Dux), Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des mortels, Tom
Vitelli. Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie.
Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition
présentée et établie par Francis Lacassin.
2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in veneziano
Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte, Venezia, Editoria Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano
Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del manoscritto
a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia vita,
traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll.
« I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo Casanova.
Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in
veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte. Venezia, Editoria Universitaria,
Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne,
88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione
integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria Universitaria.
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et
Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome I. Édition établie
par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie, tome II. Édition établie
par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie, tome II. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la
collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection
Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la
collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque
de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi.
Histoire de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe
Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi. Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi,
Milano, Luni Editrice,,
978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni
Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera casanoviana Presunto
ritratto di Giacomo Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da
alcuni[62][63], a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità storica
dell'opera di Giacomo Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna
distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado
gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e
addirittura matematico, Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto,
nessuna notorietà e nessun successo.[68] Successo che arrise invece all'opera
autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte
dell'autore. Disegno di un busto di Giacomo Casanova, ubicato
in origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua
produzione fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono
creati per ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione
della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte
durante la detenzione a Barcellona nel 1768, che avrebbe dovuto servire, e
infatti così fu, a ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto
sospirata grazia. Lo stesso si può dire per opere scritte nella speranza di
ottenere qualche incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia.
Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario
dell'autore ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto
dall'Historia della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e
varie edizioni, sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico
e di proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal
racconto dell'evasione. Sembra quasi che Casanova tollerasse le sue creature
autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non
autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu
acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles
Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di Casanova stava tutto
nei suoi racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la
narrazione salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era
brillante e trascinante quando parlava della sua vita[71]- osserva de
Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su
altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia mai voluto accettarlo.
E soffriva tremendamente di non avere quel riconoscimento letterario o meglio
scientifico a cui ambiva. Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti
di Voltaire, che nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione.
Quindi anche contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più
fortunati ma meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere
un grande successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in
misura molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu
iniziato tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che
costituì per decenni il cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu
pubblicata soltanto nel 1787. Inoltre l'opera "vera", cioè
quella in cui aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio
negli ultimi anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò,
in una lettera indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni
prima e che era stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età
mi fa credere di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia
vita...". Cioè sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva,
l'autore dovesse prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di
futuro davanti da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa
per chiunque, in particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro
irripetibile. Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la
fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente
impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto,
acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu
pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da
Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera, sopprimendo
passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando anche
l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle
oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché
di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un
fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario,
opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova
esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma
si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce,
indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non
appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]» Per
l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa
Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al
1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu
dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di
smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente
impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due
secoli dopo, modernità e realismo. Casanova è già uno scrittore di
costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni,
attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero
ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo
problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello
di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise
del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori
principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale. Probabilmente
si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non ha
incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]
Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo
insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana.
Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie
della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più
fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto.
Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di
successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo
Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando dell'Histoire, scrive
testualmente:... questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e
che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta...
perché io possa porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo
della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79]
Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi fece riferimento nella
prefazione: «J'ai écrit en
français, et non pas en italien parce que la langue française est plus répandue
que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la
lingua francese è più diffusa della mia.» Certo dell'immortalità della
sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova preferì utilizzare la
lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di
potenziali lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano,
forse perché sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come
avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre
veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di scrivere la propria
autobiografia in francese. L'autobiografia del Casanova, a parte il
valore letterario, è un importante documento per la storia del costume, forse
una delle opere letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in
Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le
frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori,
riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e
borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di
contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo.
Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano
degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di
ogni giorno. La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di
vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera
autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu
attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in
dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler,
Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio,
altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era
protagonista. Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna,
a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia
l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento.
La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi fu curata
nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti soggiorni
napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un saggio.Seguirono
Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un capitolo a parte
andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti quelli che si sono
occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della vita e dell'opera
del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si debbono infinite
identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi ritrovamenti di
documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito, Nell'Archivio di
Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono di essere studiati
e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che probabilmente
giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per l'Europa. La
grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua vita a un
certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura[91] Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don
Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di
numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi, benché
ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile,
lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il
collezionista puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente
all'immagine di sé e soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato
unicamente sul numero delle vittime della sua seduzione.
L'interpretazione del suo mito sarebbe fornita proprio dal libretto del Don
Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da Ponte, in cui Leporello, il servo di
Don Giovanni, in un'aria notissima recita: Madamina il catalogo è questo, delle
belle che amò il padron mio... e prosegue snocciolando le innumerevoli
conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che alla redazione del libretto
sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato sostenuto basandosi su
documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e Casanova si frequentassero e
che l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a Praga andò in
scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre 1787)è tutto sommato marginale.[senza
fonte] La partecipazione, comunque molto limitata, di Casanova alla
composizione del libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni, è
ritenuta molto probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un
autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è
ipotizzato facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da
Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel che è certo è che Casanova
si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più grande,
certamente più positivo e soprattutto reale. Mostre 1998 Praga, Palazzo
Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia). Catalogo:
Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico "Il
mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo Casanova, un
veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998. 88-317-7028-4
Francia "Casanova for ever, 33 expositions Languedoc-Roussillon".
Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille (dir.), Parigi, Editions Dilecta,
Parigi, Bibliothèque nationale de France “Casanova, la passion de la liberté”
(dal 15 novembre al 19 febbraio ).
Catalogo: Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque
nationale de France / Seuil,.
978-2-7177-2496-7 (BnF)
978-2-02-104412-6 (Seuil) Stati
Uniti d'America "Casanova: The seduction of Europe", varie sedi:
Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art Museum, Forth Worth; Fine Arts
Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The seduction of Europe MFA
Pubblications Museum of fine arts, Boston.
978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova Casanova (1918). Regia di
Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia di Erik Lund. Soggetto di
Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con Bruno Kasner, Ria Jende, Rose
Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und letzte Liebe (Austria, 1920).
Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia di Alexandre Volkoff Les
amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René Barberis L'avventura di
Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo Bassoli. Le avventure di
Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947). Regia di Jean Boyer. Il
cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo Freda. Con Vittorio
Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio Centa. Le avventure di
Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele Ferzetti, Corinne
Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose from Casanova,
titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia, 1966). Regia di
Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova,
veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing, Maria
Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W. Branbell,
Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi Maltagliati, Raoul
Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro (Italia, 1975). Regia di
Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna Schiaffino, Robert
Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei personaggi). Il Casanova di Federico
Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland, Tina
Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M.
Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982). Regia di Ettore Scola. Con Jean
Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla, Harvey Keitel,
Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A. Belle, E. Bergier, Laura
Betti. David di Donatello 1983 per la migliore sceneggiatura, scenografia e
costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale Le retour de Casanova
(Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice Luchini, E
Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro Borrelli. Con G.
Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il giovane Casanova (Francia,
Italia, Germania, 2002). Regia di Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi,
Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis, Catherine Flemming,
Katja Flint. Casanova (Stati Uniti, 2005). Regia di Lasse Hallström. Con Heath
Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la
meva mort (Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís
Serrat, Eliseu Huertas. Casanova variations
(Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael Sturminger, con John
Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io Casanova (Italia )
Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour (Francia ). Regia di
Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova), Stacy Martin (Marianne
de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo lontanamente ispirati
alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia 1942). Regia di Carlo
Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti 1944). Regia di Sam
Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli. Film comici La
grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod. Casanova &
Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis,
Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh
Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005). Regia di Sheree
Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura Fraser, Nina
Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino per
uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo
l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e
il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia
vita, Milano, Mondadori 2001, II pag.
925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il
racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state
compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di
ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla
Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi,
senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata
effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore burocratico,
di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso periodo
furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi, Mozart,
Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo stato, un
riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron d’Oro era
all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare l’esibizione in
pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo dell’opera
autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo
strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in
bibl.).[95] Note Esplicative
Casanova visse a lungo in Francia e conobbe personalmente molti
protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e Rousseau. Inoltre, in
patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica dominante appartenenti
all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva anche aderito alla
Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di personaggi
portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si definì
sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare cui, pur
non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore,
reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo
scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne
seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in
cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli eventi,
la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva assistito come
semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente potenzialità e
non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio, Montesquieu espresse
nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr. Montesquieu, Lettres
Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il governo della classe
nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed approfondito della
posizione politica del Casanova è stato compiuto da Feliciano Benvenuti
(Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa,
16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini, Venezia, ed. Leo S.
Olschki, 2001, pag. 1 e seg.) Il cognome
Casanova è attestato appartenere a nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano,
Parma, Torino-Dronero
Casanova afferma che dalla città spagnola il suo antenato, padre
Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una monaca, Donna Anna Palafox,
sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un rifugio dove, dopo aver
scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il perdono e la dispensa dei voti
sacerdotali da parte del pontefice in persona, potendo così unirsi in
matrimonio con la rapita. A questo riguardo è interessante la tesi di Jean-Cristophe
Igalens (G. Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par
Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, pag. XL, op. cit. in Opere
postume) il quale sostiene che la genealogia inserita dal Casanova all'inizio
delle Memorie sia del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia
di ciò che facevano regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i
quali, all'inizio dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a
ricercare una legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria,
le vicende di cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le
private rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se
si considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale
addirittura al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un
cognome, praticamente un toponimo, estremamente comune. A conferma del fatto che la nascita
illegittima di Casanova fosse oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de
La commediante in fortuna di Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia
un ritratto precisissimo di Casanova che chiunque era in grado di riconoscere
sotto le spoglie di un nome di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli
altri un certo Signor Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non
legittima estrazione, ben fatto della persona, di colore olivastro, di
affettate maniere e di franchezza indicibile". Evidentemente il
riferimento a tratti somatici tipici e riconoscibili fa pensare che le dicerie
fossero suffragate da una notevole somiglianza fisica con Michele Grimani.
L'identificazione del Signor Vanesio con Casanova è pacifica, tra i tanti
autori, concordi sul punto, si veda: E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di
Stato cit. in bibl. pag. 25.
(Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero 122, iscrizione al secondo
anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20 gennaio, 22 marzo e I maggio
1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in “Il Marzocco” 15 aprile
1923, pag 1-2) Il 2 aprile 1742 firmò un
testamento in qualità di testimone.
Sull'ubicazione esatta della casa natale di Casanova e di quella in cui
trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della morte della nonna materna
Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio Gaetano
e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa
come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80 ducati annui. Quindi molto
probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27 febbraio 1724, i coniugi
andarono a vivere a casa della madre di Zanetta, Marzia Baldissera, cheera
vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi poche settimane avanti il
matrimonio della figlia. E questa con ogni probabilità fu la casa in cui
Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza della levatrice Regina Salvi.
L'identificazione esatta della casa natale è assai ardua, ma comunque è stata
tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha identificato la casa di Marzia
Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle delle muneghe. Questa sarebbe
dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth Watzlawick, House of
childhood, house of birth; a topographical distraction, in Intermédiaire des
Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I coniugi Casanova si
trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno dalla fortunata
tournée londinese quando rientrarono a Venezia col secondogenito Francesco,
nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione risulta essere stata di
gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al secondo piano che fu
usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui era circa il doppio
della media che veniva corrisposta nel vicinato per appartamenti evidentemente
meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto chiaro, si tratta solo di
trovare in Calle della commedia un'abitazione che corrisponda alla descrizione:
grandezza, salone al secondo piano e camera al terzo, nonché corrispondenza con
la proprietà che si sa essere stata con certezza della famiglia Savorgnan.
L'unica che potrebbe corrispondere alla descrizione è quella sita nell'attuale
Calle Malipiero (già Calle della Commedia) al civico 3082. Ma su questo non
tutti gli studiosi concordano, tanto che la lapide apposta in calle Malipiero
dice "In una casa di questa calle, già Calle della Commedia, nacque il 2
aprile 1725 Giacomo Casanova" senza alcun altro più specifico elemento.
Alcuni sostengono che a causa di rimaneggiamenti interni non è più possibile
identificare la struttura originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico
Montecuccoli degli Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes,
Genève Année XX, 2003, pag.3 e seg.) un'analisi molto approfondita basata sulle
cosiddette "Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi
immobiliari che venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare
l'esattezza dei dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per
casa effettuata, in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo
ordine chiedendo a ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il
titolo di proprietà e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure
giurare le condizioni contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in
cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo
trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto prevedeva un affitto di 80
ducati annui e che l'immobile era di proprietà Savorgnan, conosciamo con
certezza i dati contrattuali e la residenza indicata sull'atto, cioè Calle
della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e catastali intervenute non
consentono con certezza l'identificazione, anche perché all'epoca non
esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso citato, l'abitazione è
da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle degli orbi che all'epoca
potrebbe essere stata designata come Calle della Commedia. Corrisponderebbero
sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque tutte queste ipotesi si muovono
entro un fazzoletto di spazio di poche centinaia di metri; infatti è certo che
i Casanova abitavano, per motivi di lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele,
di proprietà dei Grimani. Documento: Calle della Commedia 324|casa|Giovanna
Casanova comica al presente s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H
Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740 Atti della
Parrocchia di S.Samuele. Non nel noto
lazzaretto del Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente. Si è mantenuta la cronologia quale risulta
dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o
fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal
26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i
due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il
soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello
"Nuovo", pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare
solo nel 1748 allorché la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico.
Sull'argomento si veda: Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in
L'Intermédiaire des Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno pag. 711. In tale studio viene ricostruita la
situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con
le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli edifici
adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata
dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un
giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert
Laffont, I, Cronologia, pag. XXX, cit.
in bibl.) Il progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio",
datato 1817, si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e
Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo
stato del fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova. Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone
una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti
riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come
realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota
virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già
dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il
personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso
citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con
Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti
riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla
Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché
Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola,
le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con
Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova
che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra
gli altri Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè
pensano che Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi
derivanti da più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi
ispirato, in larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non
demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e
seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di
un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino
androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili. La
tendenza a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso particolarmente
stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre,
infatti, fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e
avendo frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta
che rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia
cantante o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo particolarmente
negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse profondamente
gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le peggiori
inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è una delle
eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per la non
rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è detto,
sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si
veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure of the actress in
Casanova's Histoire de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes, Genève, Année
2003 XX. Marco Barbaro (19 luglio
1688-25 novembre 1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San Aponal, figlio
di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato di sei zecchini
al mese. (Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral
du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont cit. in
bibl. I pag. 997, che rinvia a Salvatore
di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano) Marco Dandolo, patrizio veneziano del ramo
Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di Marco Dandolo 28
marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario
"...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo Casanova, che mi fu
in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha
mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj.
Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui
dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio orologio d'oro e le
mie quattro possate d'argento" (Fonte: L'Histoire de ma vie di
Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.29 nota 104). L'identificazione di "Henriette"
insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù
dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con
la centralità sentimentale di questi due personaggi nella vita di Casanova. Il
nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie e la sua identità è
stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le identificazioni che si sono
susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere a: John Rives
Childs (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de Saint
Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste Laurent Boyer de
Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del castello di Luynes,
che si trova nella zona descritta da Casanova come quella di residenza di
Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di Marie
d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996), che
avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786). Quest'ultima
ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso
una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia
della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione.
Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che secondo
André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da Casanova senza
nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova inoppugnabile, una
lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che consenta
l'identificazione certa. Molti studiosi
hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo
sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina
Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266. Sul rapporto tra romanzo e autobiografia
nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova
Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in.
Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal
padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a
Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie
d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a
un passaggio delle Memorie di Goldoni)
Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su
presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del
piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).
L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14
dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di
Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno
Mondadori, 2005). Nel novembre del 1750,
Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di
Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in
Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)
Malgrado la diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti
maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia pratica durante la
permanenza in Francia, il francese di Casanova non fu mai ritenuto
sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli “italianismi”
che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. Casanova riferisce con dovizia
di particolari il suo incontro con Crebillon e la successiva intensa
frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti:
infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma
non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. Casanova, Storia
della mia vita, Mondadori).
L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755 Venute a cognizione del
Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo Casanova principalmente in
disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo fecero arrestare e passar
sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio
Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova condannato anni cinque sotto li
piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula
Inquisitor. (VeneziaArchivio di StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB.
534245) Riferte di Giovanni Battista
Manuzzi, confidente degli Inquisitori di Stato Incaricata la mia obbedienza dal
Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è
figlio di un comico e di una commediante; viene descritto il detto Casanova di
un carattere cabalon, che si fa profittare della credulità delle persone come
fece col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di
quello... Giovanni Battista Manuzzi, 22 marzo 1755....Mi sovvenne allora che lo
stesso Casanova parlato mi avea ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi
i onori e vantaggi che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi
aveva dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta
Setta... Giovanni Battista Manuzzi, 12 luglio 1755. Secondo il casanovista Pierre Gruet, il
motivo fondamentale dell'arresto di Casanova è da ricercare proprio nella
relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con Marina Morosini è
corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti
dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), apparteneva ad una delle più
potenti famiglie del patriziato veneziano. I Morosini avrebbero quindi fatto
pressioni sugli inquisitori per far cessare la scandalosa situazione. Cfr.
Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit
original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 1065.
Bibliografiche Giacomo Casanova,
Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon, 1960-62. Giacomo Casanova, Examen des "Etudes de
la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint
Pierre, 1788-1789127. Carlo Goldoni,
Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.
Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de
ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in
bibl. G.Casanova,Storia della mia vita,
Mondadori 2001, I, pag. 502 cit. in
bibl. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia) (Fonte:
P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia
dell'Padova n°25, 1992) Aprile, maggio
1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie,
pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.
(Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire
de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit.
in bibl.) Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non
aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal
Grimani che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili
della casa paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta,
che doveva occuparsi della questione. Si
veda di Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova,
L'Intermédiaire des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti. Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand
Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche: una cultura della mobilità
nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian
Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag.
LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.
cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl, Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl. Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano.
La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl. Riguardo alla paternità del quadro in
questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim
Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle
ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di
origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un
restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato
tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che
recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto
rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il
naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di
ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il
fatto che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di
mano del fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per
il soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare
a una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile
di vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro
passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe
Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes XI, 1994, pagg. 17-23. Il
mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998,
cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n°
3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana,
che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è
consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata
dalla BNF,, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,
pag.68-71 Marino Balbi (1719-1783),
monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una casata barnabota,
cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni ricchezza e i cui
membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti barnabotti in quanto
gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire de ma vie di Giacomo
Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ).
Si trattava di un certo Andreoli, custode del palazzo, che il Casanova
vide approssimarsi, da una fessura del portone, "in parrucca nera e con un
mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per maggiore approfondimento, si veda
il commento di Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio
Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316.
Sentenza di condanna a carico di Lorenzo Basadonna, carceriere del
Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni de Piombi, che esisteva
nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali ne provenne la fuga al
primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi somasco, e di Giacomo
Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di contrasto con Giuseppe
Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la interfezione. Presi dal
Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi del non ordinario
avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del reo il caso per
proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il supplizio
maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di clemenza
è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo
Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia
condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani
Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato,
Annotazioni, R. 535 c.83. Jeanne Camus
de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de
Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre
figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed.
Mondadori 2001, II pag.1634 nota) G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2,
Volume 5, Capitolo 3 Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un
ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature
politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo
entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001 cit. in bibl. II,
Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori,
pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla
ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo
Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una
ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda
anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993
cit. in bibl. II, pag 21 nota 4
(con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.),
pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les
loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963,
pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio
di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des
Manuscrit Française 26469, fol. 198).
Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica
descritto da Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a
Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode
(1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal
1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il
documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma
vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre
Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard
Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero
le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un amore
veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e seg.). La lettera autografa di Giustiniana Wynne è
andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre 1999. Il collezionista
che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere l'anonimato, ne ha però
consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut Watzlawick, L'Intermédiaire
des Casanovistes anno 2003 pag. 25)
«...siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani,
Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...» G. Casanova, Storia della mia vita,
Mondadori, Edizione 2001, II, pag. 394,
cit. in bibl. Histoire, volume 15, capitolo XIX Nous avons ici une espèce de plaisant qui
serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les
ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres
complètes de Voltaire avec des notes... Parigi 1837, II pag. 91)
Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,, Chronologie, pag.
221. G. Casanova, Storia della mia vita,
Mondadori 2001, II, pag. 1508 cit. in
bibl. Marie Anne Geneviéve Augspurger,
detta La Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G.
Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001, III pag.117 nota). Un riscontro del soggiorno di Casanova a
Berlino deriva da una annotazione nel diario di James Boswell, datata 1º
settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da
Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove
anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove
Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di
dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un
perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the Private Papers of James
Boswell, London 1953, IV, pag. 67). Il
nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con un errore di grafia =
Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo cognome tradotto, con
diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge
come destinatario comte de Nayhaus de Farussi, Farussi era il cognome della
madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick, Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire
des Casanovistes, XXIII 2006, pag 41).
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII
pag. 271. Casanova passò la frontiera russa a Riga sotto il nome di Farussi,
cognome della madre (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXXIV in
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl.) Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 273, 274.
Secondo quanto affermato nelle Memorie, Casanova incontrò varie volte la
sovrana, sottoponendole vari progetti, ma senza alcun risultato. Franciszek Ksawery Branicki, conte di
Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si muoveva Branicki, che era
un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui collusione con la potente
nazione vicina rappresentò un vero e proprio tradimento, si può consultare la
voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in particolare il paragrafo "Ritorno
in Polonia". Anna Binetti (cognome
di nascita Ramon) celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il
ballerino Georges Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò
all'insegnamento della danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia
vita, ed. Mondadori 2001, III pag.1183
nota) G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001, III, pag. 285 e
seguenti, cit. in bibl. La vicenda
sollevò un clamore notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei
fatti, che ricalca sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la
veridicità, si trova in una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe
Antonio Taruffi, segretario del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e
spedita da Varsavia a Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed.
Zanichelli Bologna, 1878. La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati
pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX
pag. 288. Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di morte
di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26 ottobre),
Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova.
I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre 1743 al 23
febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il terzo dal 14
maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti, numerosissimi, sono
noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto
che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un
documento che certifica la presenza a Roma del Casanova durante la Quaresima
del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri parrocchiali di
S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia
Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie.anni 40 Margarita figlia zitella anni
16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni
40 Piggionanti Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni
18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni 46
L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella
piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era al secondo
piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.) Si è a lungo discusso circa l'esistenza di
ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale
dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima
pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è
stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va
quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle
vicende di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle
medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di
contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette.
Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando
i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo
Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini,
Casanova dalla felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le
notizie riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono
enormemente più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa
l'attendibilità e la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il
dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la
sostanziale veridicità. Il viaggio da
Trieste a Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una
notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua
il signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri
da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra
le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di
Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si
è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione
a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana”, Trieste, Deputazione di
Storia Patria per la Venezia Giulia, pag. 221-223). È da osservare che la notorietà del
personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che
di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima
del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer,
rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel
famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco
assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue
maniere sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua
prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della
Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della
Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice
culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero
Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.) Delle
lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la
Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie
rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute.
A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che
coprono il periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono
state riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà,
Milano, Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere
di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il
dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più
avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che
praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva
sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in
denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si
ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di
Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna
notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del
canone: A.Ravà, J. Marsan, Sui passi di
Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in
bibl. pag. 347 Fonte: G. Casanova,
Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il
testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata
Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani
abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il
libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma
manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue
memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).
Foscarini morì il 23 aprile del 1785.
Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più
acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del
maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La
diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher...
(vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le
persecuzionia suo diresubite. Il
concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della
mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14)...Ma il
Casanova è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per
l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i
colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino
all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era
un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei
sensi..... Il casanovista Helmut
Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII,
2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui
riferisce la notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di
una testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e
storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di
storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde
(Dresda, 1805 I parte seconda, pag. 172)
fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur en Droit de Padoue
et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il
mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le Comte lui a fait
ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon son propre
désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del
parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di gusto”
in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente
dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla comune appartenenza
alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico formale di bibliotecario
ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava, una pensione, che lo
mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso
dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi
più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna
e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo
scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente
verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco Casanova, fratello
minore di Giacomo e famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima
opera, un contributo biografico e che era ancora in vita al tempo della
redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per avere la prova certa,
bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al momento della morte del
Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati per la sepoltura e
l'erezione del monumento. Edizione in
tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF, con le varianti di
testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente () è l'edizione
critica di riferimento. Archivio
Alinari, su alinariarchives. Archivio
GrangerNew York Opere di
LonghiCasanovaUbication: Firenze Miti e
personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte,
musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori,: «Nell'arte. Di Casanova esistono
alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi
che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo
attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco
Narici) Il quadro, conservato un tempo
nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e
nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe
stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia
dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni
sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti.
Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno
dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco
Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della
collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto
ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca
in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere
di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la
passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su Alessandro
Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca'
Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende del
ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de
Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau
garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un cospicuo
dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo circa la
personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere critiche sulla
questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a
separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal
giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle
memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto
Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si
veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron
1914) pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore
di Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il
valore storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori,
come Ettore Bonora il quale scrisse...fissati i loro limiti. i Mémoires restano
un libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco,
un libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può
rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la
Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori
del Settecento, pag 717, citato in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della
modernità, citato in. Emblematico a
questo riguardo è il caso del romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che
costituì un tale insuccesso editoriale da minare definitivamente la già non
florida situazione finanziaria del Casanova. Malgrado gli sforzi dei
volenterosi sottoscrittori, si accumulò una perdita di duemila fiorini, secondo
una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di ottocento zecchini secondo una
lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque di grande rilievo che
costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a ricorrere a prestiti
usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e perfino capi di vestiario
(Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e
seg.). Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi
della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da parte delle
autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che
avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu sicuramente
appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele influenti, stava
compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova
si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali
molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di essere
aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche vicino ad
ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di
patrizi che sosteneva le ragioni di Casanova ed era fautore del perdono si veda
Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire
de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.25, 26 nota 90. Si
veda inoltre la lettera di Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del
1769, Epistolario di Giacomo Casanova,
Piero Chiara, cit. in bibl. pag. 105,106.
Il brano, un ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De
Ligne riuscì a cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema
obiettività gli elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere
consultato qui (Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise
Dupont et C. Parigi 1828). Su come
Casanova esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue
avventure, vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del
personaggio, che è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera
al fratello Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive:...V'è un certo uomo
straordinario per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano:
egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato
tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di
fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli
quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta
ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del
racconto, Alessandro replicava:...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da
lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni,
ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa
infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia,
Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.
La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova,
Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340 Alla morte di Casanova, il manoscritto
originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini
che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria
Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a
Dresda, dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e
i quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio,
il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato
l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di
Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Molti studiosi hanno analizzato, parola per
parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è
trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della
questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore
procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la
versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con
cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera
biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi
e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni
che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei
crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la
rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non
espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio
Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo). G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori
2001, I pag. 733, cit. in bibl. A questo proposito de Ligne scrive...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti,
pag. 189, cit. in bibl.), Illuminante, a
questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da
Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che
riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per
essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non
verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte
al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti
posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di
Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.) Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e
l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in
bibl. G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione
dell'Histoire (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral
du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la
scelta sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore
diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e
approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di
Trocchio, cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché
nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana;
perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi
a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello
italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle
vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un
problema di diffusione. Stendhal fa,
nella sua opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades
dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il
casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo
Casanova, Michele Mari cit. in bibl. pag. 383.
Foscolo, durante il soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani.
A proposito dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla
Westminster review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello
stesso anno), che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate
completamente inventate. Balzac si
ispirò largamente alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed
episodi per l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino
Cane o per desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si
veda Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia,
Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa
note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera
casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova,
Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs,
Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris
1962 Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e
scrive al padre:..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di trovare
un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella commedia
L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la cantante con
postfazione di Enrico Groppali, ed. SE).
Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra
cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di Casanova
(ed. Adelphi). Hesse scrisse il racconto
La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989) che fu pubblicato nel 1906. Márai scrisse il romanzo La recita di Bolzano
(ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come protagonista l'avventuriero
veneziano. Salvatore di Giacomo
"Casanova a Napoli" in Nuova antologia 1922. Benedetto Croce "Aneddoti di varia
letteratura", Napoli 1942. "Di un cantastorie del Settecento e di un
luogo delle Memorie di Giacomo Casanova" opera il cui autografo di sei
pagine è andato all'asta a Milano il 21.5.92.
Piero Chiara curò per Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata
sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova,
Mursia (1977) e molti articoli sull'argomento.
Scrive Casanova in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e
posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere.
(Fonte: Piero Chiara Il vero Casanova, Mursia 1977, pag.209). Tra le altre si veda Margherita Sarfatti,
Casanova contro Don Giovanni, ed. Mondadori (1950), citata in. La tesi è esposta in modo articolato da
Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert
Laffont, I, Préface, pag. X). Di questo
avviso Piermario Vescovo (Il mondo di Giacomo Casanova, pag. 187,, ed. Marsilio
1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad
Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono
probabile la partecipazione (Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G.
Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki 2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato
osservato che Da Ponte e Casanova si conoscevano e frequentavano, che Casanova
era certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia
lui che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la
rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per manifesta
insoddisfazione di alcuni cantanti, che Casanova era stato sempre molto vicino
per gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di
teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie.
Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare
varianti al testo del libretto per puro passatempo. Sull’argomento si veda lo studio di Furio
Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année XVII 2000, pag.
21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza
esito, nell'Archivio vaticano. Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà, Il
mondo di Giacomo Casanova, Venezia, Marsilio, Casanova, la passion de la
liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, Robert
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Il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato
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Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Il
manoscritto può essere consultato qui. Riviste di studi casanoviani Casanova
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Casanoviana. Rivista internazionale di studi casanoviani (), Antonio Trampus,
Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, Università Ca' Foscari
Venezia, Ca' Bembo. Libertino
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Manoscritto originale dell'Histoire de ma vie su Gallica, su
gallica.bnf.fr. Sito della BNF con
notizie sul manoscritto e iconografia, su expositions.bnf.fr. Testo dell'Histoire de ma vie edizione 1880,
su www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in
inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di Casanova
vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove
testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato
sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri
sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in
maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche
sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la
massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli
incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con
almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe
legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare
prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione
del seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e'
significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova
racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la
qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la
chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina
psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non
lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di Casanova:
Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Translate this page Fausto
Bertolini · 2021 FOUND INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle lezioni
dell'abate Gozzi, che l'aveva istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e
con un po' più di passione e di attenzione se lo era portato a letto per
iniziarlo alla pratica omosessuale che Casanova si... – Grice: “Casanova was
what I regard as a philosopher of sex. He fell for Bellino, an alleged
castrato. In bed with him, Bellino tells
him that his name was Teresa and that her penis was an artificial phallus.
Bellino had died years before but people wanted a castrato, not a girl with a
girl’s voice – and she added that working on the side as a harlot, she found
that most clients rather she be a ‘he’!” -- Grice: “His first experience was
with a Venetian nobleman; his second one cost him the expulsion from the
seminary – Altham alleges he (Casanova, not Altham) slept with “at least”
twenty males!” – Grice: “Altham’s favourite is the description of the ‘erotical
game’ as masked in Venice -- Giacomo Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione e conversazione” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775479910/in/dateposted-public/
Grice e Casati – Eurialo e
Niso; ovvero, dell’amicizia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Grice: “I like Casati; he is from Milano, and therefore, as the
Italians say, intelligent! – or ‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as
used by Plato to explain that there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,”
so the thing is the thing, but the idea stands for the thing, and the
expression stands for the thing that stands for the thing! But he has also
explored ‘amicizia’, as in the case of Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also
into the philosophy of sports – in sum, a typical Renaissance man of a
philosopher, as he should!” Studia a Milano con Bonomi. Pubblica la
raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici
(Laterza). Si occupa di fenomenologia dello spazio e degli oggetti.
Analizzato la rappresentazione di questi due elementi secondo il senso comune.
Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità insormontabili
(Laterza). Buchi e altre superficialità è un tentativo di analizzare i
diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un elemento che
evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di filosofia della
percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica e letteratura.
Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e il linguaggio
quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine filosofica e
di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso
quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo. Tra i suoi principali contributi
si annoverano la teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la
teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica
analitica: la teoria dei suoni come eventi localizzati, la regione
spaziale immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli
oggetti materiali, la teoria del futuro "strizzato" nella
metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle
ombre e il loro contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie
alla scoperta di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre
corrette che appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette),
scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione
"copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la
cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le
ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il
modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il
ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra).
Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati
principali in questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per
le mappe, una sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la
teoria dei "micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una
teoria generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore
di un progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura
normativa, in un contesto di democrazia partecipata. La sua Prima Lezione
di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato
concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella
società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è
proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia,
che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia.
Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della
rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La
scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità
insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti
metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di
immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza);
Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere,
Laterza); Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia,
Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente
diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo,
Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI
UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e
definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA
VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto
visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti
materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE
E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed
immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il
problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore
della teoria della somiglianza Somiglianza e rappresentazione.
Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della
percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in.
LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione
canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun
luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie
percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario
iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio
nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE.
Contesto di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza
iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione
ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di
Escher e il fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte:
rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia
estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella
materialità. La geometria dell'espressione. La dissoluzione della
rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di
esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la
comunicazione. Critica. Riferimento e generalità. La teoria che Grice e
Casati propongono può chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la
conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati
alternativi. La teoria di Grice e Casati sostiene che un artefatto (segno
artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo
precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione di profferire
una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di riempire lo spazio
lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto
è il seguente. Una emissione conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo
di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto
che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo
con lo sgombrare il campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che
“molte cose vengono create con lo scopo di suscitare una conversazione, e
queste non sono opere d’arte, come per esempio la produzione di gesti che
conducono alla disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla
stampa”. L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria metacognitiva
dello spunto conversazionale non dice che le opere d’arte vengono create con
l’intenzione di suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è compatibile
con l’ipotesi che le opere d’arte non vengano create con l’intenzione di
suscitare una conversazione. L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione
di creare oggetti che vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe
caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di suscitare una conversazione.
È irrilevante per la soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione
di suscitare una conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente
suscitata 4. Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo
presente il fatto che i due competitori diretti della teoria sono la teoria
della comunicazione e quella dell’intenzione artistica, laddove la prima
compete sull’aspetto sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale.
Secondo la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti
artistici non servono per una “comunicazione” semplice tra l’artista e il
pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso della teoria della
comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame preciso con
l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti utilitari,
devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri elementi
che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto sociale in
cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto sono
riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei fatti
poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba creare
l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in una
conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua
epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come
creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto
impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di
oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati.
4 La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances
artistiche come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere
d’arte sono particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli
aspetti impliciti di tutte le opere d’arte. 17 La teoria spiega perché i prodotti
artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa
sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea
che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo
perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare
una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella
conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra capacità di
inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è
più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto
avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la
possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione. In
modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello
spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla
comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici
hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati
problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere
sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente
complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della
loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di
conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le
fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta
avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve
anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La
teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti
di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure
irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale
spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata
inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che
certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore
un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito
si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti.
La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come
nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere
dal novero dell'arte.) 5 Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi
da Casati 2002. 18 Spiega l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché
certe cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati
estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un
certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La teoria spiega perché gli
artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è
particolarmente arduo da spiegare in una teoria della comunicazione o
dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le etichette e i
pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere d’arte vengono
acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla conversazione
scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con svariate
strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che
è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot
2002), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria
ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili
conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto
immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono
oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La
clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione
appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola
esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio
conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove
interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto
che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire
spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo
dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni
empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di
ricerca, una antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo
in questa direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo?
Conclusione La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta
un’ipotesi che cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su
che cosa è un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti
artistici e all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano.
Anche se è una teoria che si situa nella regione della dipendenza della
risposta, non non è una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche
sono un tipo di risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti
non artistici. Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe
aspettare di fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte
del 19 riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto
resta un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che
considera le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la
cui forma dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione
di controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria
metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo
oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente
articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un
oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione
sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi
comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste
uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio, D. 1990 L'arte come idea e
come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s
national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan
warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos.
Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course, various
thematic functions and will have resonated in various ways for a roman
readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the
eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text
might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski
for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments
for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds
particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus
and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their
relationship see Gordon Williams, pp. 205-7, 226-31, Lyne, pp. 228-9, 235-6,
and Hardie, 23-34). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma),
observing that Virgil has added tdhe motif of their friendship to his Homeric
models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO
INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS.
COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI
MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA.
Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de
l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are
cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two
valourus young Trojans has, of course, various thematic functions and will have
resonated in various ways of a Roman readership. Here I focus on only one
aspect of the narrative, namely the eroticiation of their relation Niso ed
Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus
primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir.
Aen. 5. 2292-6). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his
beauty and fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During
the ensuing footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry:
starting off in first place, he slips and falls in the blook of sacrificed
heifers, then deliberately trips the man who was in second place, in order the
Euryalus may come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non
ille oblitus amorum (Vir. Aen. 5. 334 -- ‘He was not forgetful of his love
Euryalus, not he! (The plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual
partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the
word in the plural to refer to a bull’s mate at Georgics 3 227. Indeed,
Servius, ad Aen. 5 334, writing in a different cultural climate, was worried by
precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS
CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI
TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his
earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY
SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as
PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear
in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an
effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a
number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus
first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself
upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair.
Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem
miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes
Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora
puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella
ruebant. Vir. Aen. 9 176-82. Nisus, sonof Hyrtacus was the guard of the gate, a
most fierce warrior, swift with the javeling and with nimble arrows, sent by
Ida the huntress to accompany Aeneas. And next to him was his companion
Euryalus. None of Aeneas’s followers, none who had shouldered Trojan weapons,
was more beautiful: a boy at the beginning of youth, displaying a face unshaven.
These two shared one love, and rushed into the fightin side by side. Virgil’s
wording is decorous but the emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and
particularly the absence of a beard on his fresh young face, as well as the
comment that the THWO SHARED ONE LOVE and fought side by side – imagery that is
repeated from the scene in Book 5 and is continued throughout the episode in
Book 9 – is noteworth For Euryalus’s
youth, cf. 217, 276 (puer) and especially the evocation of his beauty even in
death (433-7, language which recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho
– Lyne, pp. 229. For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM TALIA GESSI and 244-5
(VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE
FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly presents his plan to the
assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND EURYALUS’S (235-6: Likewise the question that Nisus asks
Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive resonances:
DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT DIRA CUPIDO?
Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase DIRA CUPIDO,
compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, 4. 1046, concerning men’s
desire TO EJACULATE and muta cupido at 4. 1057. Euryyalus, is it the gods who
put this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire
(dira cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a
desire to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire
could also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s
depiction of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the
enemy is notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s
intensely protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat
Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me,
me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil
iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum
infeliciem nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his
mind, unable to hid himself any longer in the shadows or to endure such great
pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me,
Rutulians! The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he
could not have done it. I swear by the sky above and the stars who know: the
only thing he did was to love his unahappy friend too much. There is, in short,
good reason to believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is
described in the circumspect terms befitting epic poetry, would have been
UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers
in the so-called SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their
eromenoi in fourth-century B. C. Greece (Note also that 9.199-200 (meme …
figis?) seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too
Makowski p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave sequar?
Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA RETRO
observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene were Aeneas
loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels with the
story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as to that of Aeneas
and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat. 761B.
Pelop, 18-9, Athen. 13.561F and 602A, and the probable allusion at Pl. Smp.
178e-179a. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his companion’s
lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth into a celebrated
eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum
morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam
memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet
imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen. 9. 444-9). Then he hurdled
himself, pierced through and through, upon his lifeless friend, and there at
last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has any power, no
day shall ever remove you from the remembering ages, as long as he house of
Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman
father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in death ould
hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac
union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA
DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT
BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those who
wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we
find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his wife
as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a joint
tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and
Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO
– SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE
491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR
QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA
RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC
IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too
Senece quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can
immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for
Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an
immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil
promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even
bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist.
21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI
AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary
in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males
– and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus
and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the
company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS,
Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND
PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between
Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo
and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship
between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is
then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while
those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one
partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and
Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are
transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of
ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist
paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war
side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they
certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold
plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA
POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe an enemy
leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI,
376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads
pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA
MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words,
although Euryalus is the junior partner in this relationship, not yet endowed
with a full beard and capable of being labeled the PUER, his actions prove him
to be, in the end, as much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his
older lover Nisus. There is a further complication in our interpretation of the
pair, and indeed all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s
epic is of course set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence
for the cultural setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused
with the influence of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather
elevated status of pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of
the DISTANCES both cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and
the character s of his epic. Yet, while the influence of Homer is especially
strong in these passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to
Cydon’s erotic adventures echoes the Homeric technique of citing some touching
details about a warrior’s past even as he is introduced to the reader and
summarily killed off), is is a much-discussed fact that there are no
UNAMIBUOUS, diret references in the Homeric epics to pedersastic relationships
on the classical model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was
understood by later Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch.
F.r. 135-7 Nauck – from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133,
141-50, Lyne, p. 235, n. 49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test
of the Iliad itself, while certainly suggesting a passionate and deeply intense
bond between the two, does not represent them in terms of the classical
pederastic model. See further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes,
v. 106 p. 381-96, Sergent, 250-8, and Halperin p. 75-87. Virgil might thus be
said to ‘out-Greek’ Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis
und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel for these lines. And yet the
pederastic relationships in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among
TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are strictly distinguished din the epic
from the Greeks, and who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS
of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric at 9.128-58 based on sharp
distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the weighty dialogue
between Jupiter and June at 12.808-40, where it is agreed that Trojans and
Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic
relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this
would have been unthinkable in a cultural context in which same-se
relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it
still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus,
and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a
male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas
with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship
that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be
considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female
relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This
tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that
in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between
Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe
o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY
could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find
HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also
Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not
extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female
relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be
univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that corresponds
to what would among Romans of Virgil’s own day be considered stuprum is capable
of being heroized in thee pic, a male-female relationship that the tect
implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is complex. Dido is of
course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance Aeneas’s relationship
with her does not constitute stuprum. But since Dido’s experiences are, in
important ways, seen though a Roman filtre, above all, the commitment to her
first husband that makes her a prototypical univira, her involvement with Aneas
(aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the moral framework poposed by
the text in a way that the relationship between Nisus and Euryalus does ot.
This distintion revelas something about the relative degrees of
problematization of the two types of relationships in the cultural environment
of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no day shall
ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of Aeneas dwells
upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans father holds
sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an adulterous couple ina
Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as the epitome of friendship
along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and Oreste e Palade. Luigi
Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo".
Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la
conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto,
segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo –
logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775216784/in/dateposted-public/
Grice e Casini – naturismo – il
concetto di natura a Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo. Grice: “I like Casini – he takes, unlike me, physics
seriously! But then so did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did
a lot of ‘physical’ rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a
Roma sotto Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con
“L'idea di natura”. I suoi interessi di ricerca in storia della
filosofia si sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze
sperimentali nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e
alla diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a
proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero,
non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in
tale contesto Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue
ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra
rivoluzione scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della
fisica di Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca
philosophia" e "antica sapienza italica", le dispute sorte attorno
al darwinismo. Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza);
Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana,
Laterza); Rousseau, Laterza); Introduzione all'illuminismo, Laterza --
razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia”
(Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino);
“Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del
Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il
concetto di creazione (Il Mulino). La lista di autorità e
l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.
Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella
cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo
passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura
romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni
storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni politiche del Sette-Ottocento.
Giuseppe Bottai o delle ambiguità
(Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa - La guerra
di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo Spirito:
«scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico dell'economia
corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e instabilità» -
«Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla ricerca del padre) -
3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia (Genius loci - Tra
Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» - Dottrina del fascismo -
Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di
Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e
catarsi - Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus
irritabile vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto
(A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi
pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il passaggio del fronte –
Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni
Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche - Ideologie in crisi –
Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti,
Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be - Anni di prova) -
Indice dei nomi Order Zoogonia e "Trasformismo" nella
fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a): 178. 1963.
Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana
Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark 10 Zev
Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific
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Academic Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN 0-7923-1054-3. £103.00,
$189.00, Dfl. 300.00 (review) British Journal for the History of Science 27
(2): 229-230. 1994. Like Recommend Bookmark 6 The "Enciclopedia
italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia 99 (1): 51-80. 2008.
Political Theory Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton
(review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993.
Isaac Newton Like Recommend Bookmark 10 Rousseau e l'esercizio della
sovranità Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques Rousseau
Like Recommend Bookmark 9 Il momento newtoniano in Italia: un
post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend
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Isaac Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark 27
François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton,
critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of
Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, 1992. Pp. xxii +
850. ISBN 0-7294-0374-2. No price given (review) British Journal for the
History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy
Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e la "Sacra
famiglia" Rivista di Filosofia 17 261. 1980. Like Recommend Bookmark Lumi
e utopie in uno studio di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia 13 109. 1979.
Like Recommend Bookmark 21 The New World and the Intelligent Design
Rivista di Filosofia 100 (1): 157-178. 2009. Anti-Darwinist ApproachesDesign
Arguments for Theism Like Recommend Bookmark Scienziati italiani del Seicento e
del Settecento Rivista di Filosofia 75 (3): 457. 1984. Like Recommend
Bookmark 9 Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia 95 (3):
377-418. 2004. Kant: Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica,
astronomia, relatività: Boscovich a Roma (1738-1748).« Rivista di Filosofia 18
354-381. 1980. Like Recommend Bookmark Introduzione All'illuminismo da Newton a
Rousseau Laterza. 1973. Like Recommend Bookmark Newton e i suoi biografi Rivista
di Filosofia 84 (2): 265. 1993. Like Recommend Bookmark Diderot e Shaftesbury
Giornale Critico Della Filosofia Italiana 14 253. 1960. Like Recommend
Bookmark 9 L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di Storia Della
Filosofia 4. 1996. Like Recommend Bookmark Per Conoscere Rousseau with
Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques Rousseau Like Recommend
Bookmark Toland e l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia 22
(1): 24. 1967. 17th/18th Century British Philosophy, Misc Like Recommend
Bookmark L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia 61 (3): 239-262. 1970.
Like Recommend Bookmark Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra
Studi Filosofici 1 (n/a): 77. 1978. Like Recommend Bookmark Il mito pitagorico
e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia 85 (1): 7-33. 1994. Like
Recommend Bookmark Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia Rivista di
Filosofia 24 397. 1982. Like Recommend Bookmark 13 Francesco Bianchini
(1662-1729) und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science and
Medicine 12 (1): 109-111. 2007. History of Science Like Recommend Bookmark
L'antica Sapienza Italica Cronistoria di Un Mito. 1998. Pythagoreans Like
Recommend Bookmark 16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de
l'Histoire» Rivista di Filosofia 102 (3): 381-404. 2011. Voltaire Like
Recommend Bookmark 7 La filosofia a Roma Rivista di Filosofia 94 (2):
215-284. 2003. Like Recommend Bookmark Vico's initiation into the study of
Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia 51 (4): 865-880. 1996.
Pythagoreans Topic Order Teoria e storia delle
rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia 61 (2): 213.
1970. Like Recommend Bookmark Il problema D'Alembert Rivista di Filosofia 1
(1): 26-47. 1970. Like Recommend Bookmark 5 Semantica dell'Illuminismo
Rivista di Filosofia 96 (1): 33-64. 2005. Like Recommend Bookmark George Cheyne
e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della Filosofia Italiana
383. 1967. Like Recommend Bookmark 1 Newton's Physics and the Conceptual
Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal for the History
of Science 27 (2): 229-230. 1994. Isaac Newton Like Recommend Bookmark 1
Diderot and the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de
Philosophie 38 (148): 35-45. 1984. Denis Diderot Like Recommend Bookmark
6 "Magis amica veritas": Newton e Descartes Rivista di Filosofia 88
(2): 197-222. 1997. Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi. 1975.
Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la metafisica
Rivista di Filosofia 87 (1): 83-94. 1996. Like Recommend Bookmark 9
Leopardi apprendista: scienza e filosofia Rivista di Filosofia 89 (3): 417-444.
1998. Like Recommend Bookmark 6 Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi
in Italia Rivista di Filosofia 97 (1): 117-130. 2006. Like Recommend
Bookmark 1 Il metodo di Foucault e le origini della rivoluzione francese
Rivista di Filosofia 83 (3): 411. 1992. Like Recommend Bookmark Rousseau e
Diderot Rivista di Storia Della Filosofia 19 (3): 243. 1964. Like Recommend
Bookmark Diderot « philosophe » Revue Philosophique de la France Et de
l'Etranger 162 324-324. 1972. Continental Philosophy 1 citation of this work
Like Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della Filosofia
Italiana 1 (1): 7. 1981. Like Recommend Bookmark La ricerca embriologica in
Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di Filosofia 78 (1): 137. 1987. 1
citation of this work Like Recommend Bookmark L'empirismo e la vera filosofia:
il caso Scinà Rivista di Filosofia 80 (3): 351. 1989. Like Recommend Bookmark
The Newtonian moment in Italy: A post-scriptum Rivista di Storia Della
Filosofia 61 (2): 299-316. 2006. Classical Mechanics Like Recommend
Bookmark 6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista di
Filosofia 93 (1): 65-88. 2002. Sigmund Freud Like Recommend Bookmark 1
Stanley Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A study in
enthusiasm (review) Studia Leibnitiana 2 (n/a): 147. 1970. Like Recommend
Bookmark Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di
Filosofia 21 (3): 372-91. 1981. Like Recommend Bookmark 14 Newton: the
classical scholia History of Science 22 (1): 1-58. 1984. 1 reference in this
work 15 citations of this work Like Recommend Bookmark Diderot et le portrait
du philosophe éclectique Revue Internationale de Philosophie 38 (1): 35. 1984.
1 citation of this work Like Recommend Bookmark Morte e trasfigurazione del
testo Rivista di Filosofia 83 (2): 301. 1992. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina
Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark 10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual
Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of
Science 127. Dordrecht: Kluwer Academic Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN
0-7923-1054-3. £103.00, $189.00, Dfl. 300.00 (review) British Journal for the
History of Science 27 (2): 229-230. 1994. Like Recommend Bookmark Éléments de
la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science 26
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"Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia 99
(1): 51-80. 2008. Political Theory Like Recommend Bookmark 9 Il momento
newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2.
2006. Like Recommend Bookmark 10 Rousseau e l'esercizio della sovranità
Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques
Rousseau Topic Order 5 Newton in Prussia Rivista
di Filosofia 91 (2): 251-282. 2000. Isaac Newton 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la
philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber.
The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor
Institution, 1992. Pp. xxii + 850. ISBN 0-7294-0374-2. No price given (review)
British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th
Century French Philosophy. Grice: “An assumption generally shared by those who
wrote and read the tests surveyed in Latin is that male desire can normally and
normatively be directed at either male of female objects. If this configuration
is held to be NORMAL or NORMATIVE, we might expect that it would also be
represented as NAATURAL, and it is thus worthwhile to consider the role played
by the discourse of NATURE in ancient representations of sexual behaviour. This
question is both hughe and complex.Important discussions include Boswell, 11-5,
49-50, 119-66, Foucault, 1986, 150-7, 189-227, and Winkler, 20-1 36-7 114 8. but
one thing is clear: the ancient rhetoric of nature, as it relates to sexual
practices, displays significant differenct from more recent discourses.
Boswell, for example, observes that while “what is supposed to have been the
major contribution of Stoicism to Christian sexual morality – the idea that the
sole ‘natural’ and hence moral use of sexuality is procreation, is in fact a
common belief of amny philosophies of the day’ at the same time, ‘the term
UNNATURAL was applied eto everything from POSTNATAL CHILD SUPPORT to legal
contracts between friends (Boswell, 129, 149 cf. 15: ‘The objection that
homsosexuality is ‘unnatural’ appears, in short, to be neither scientifically
nor morally cogent and probably represents mnothing more than a derogatory
epithet of unusual emotiona impact due to a confluence of historically
sanctioned prejudiced and ill-formed ideas about ‘nature.’”Thus, as Winkler
notes, the contrast between nature and non-nature, when deployed in ancient
writings simply ‘does not posess the same valence that it does today’ Winkler,
p. 20 Moreover, nearly all of the texts that offer opinions on whether specific
secual practice is in accordance with nature are works of philosophy. The
guestion does NOT seem to have seriously engaged the writers of texts that
directly spoke to and reflected popular moral conceptions (e. g. graffiti,
comedies, epigram, love poetry, oratory). For this important distinction
between the morallyity espoused by a philosopher and what we might call popular
morality, see the introduction and chapter 1. In short, as Richinlin warns us, the question
I ‘something of a red herring, since the concept of nature takes a larger and
more ominous form in our Christian culture than it did in AAncient Rome,
whetere itw as a matter for philosophers’.Richlin, p. 533. But it may
nonetheless be worthwhile to attempt a preliminary exploration of how the
rhetoric of NATURE was applied by some ROMAN PHILOSOPHERS to sexual practices,
particularly those between males.In other words. I would like to go a step or
two beyond that ‘nature’ is generally used by Roman moralists to justify what
they approve of’ (Edwards 88 n. 87). always bearing in mind, however, that to
the extent that it was mostly taken up by philsoeophers, the question of
‘natural’ sexual practice seems not to have played a significant role in most
public discourse among Romans. Nonphilosophical texts sometimes do deploy the
rhetoric of NATURE in conjunction with sexual practices, at least insofras they
as they offer representations of ANIMAL bheaviour, one possible component in
arguments about what is natural.2-6, and Win3, on Philo’s description of
crocodiles mating. kler, 2See for example Boswell, 137-43, 15 It will come as
no surprise that Roman writers images of animals’ sexual practices are
transparetntly influenced by their own cultural traditions. Thus in no Roman
text do we find an explicit appeal to animal bhehaviour in order to condemn
sexual practices between males as unnatural.Such an argument does occasionally
appear in Greek texts, such as Plato, Laws 836c (martua parag Omenos en ton
therios phusin kai deiknos pros ta toitauta oux aptomenon arena arrenos dia to
me phusei touto einai – and Lucian Amores 36. To Be sure, Musonius Ruffus’s
condemnation of sexual practices between males as para phusin might imply a
reference to animal practices, and it is possible that in some work now lost to
us the Roman Stoic followed in Plato’s footsteps in being explicit on the
point. A Juvenalian satire does make reference to animal behaviour in orer to
condemn cannibalism (claiming that no animas eat member s of their own species
Juv. 15 159-68. And in a passage discussed later in this appendix, Ovid has a
character argue that NO FEMALE ANIMAL experiences SEXUAL DESIRE for other
females. These claims are as unsupportable as the claim that sexual practices
between males do not occur anong nonhuman animals.This is obvious to anyone who
has spent time with dogs. With regard to the academic-study of the question,
the remarks of Wolfe, Evolution and Female Primate Sexual Behaviour, in
Understanding behaviour: what primate studies tell us about human behaviour
Oxford, p. 130 are as illuminating as they are depressing. ‘I have taked with
several (anonymous at their request) primatologists who have told me that they
have observed both male and female homosexual bheaviour during field studies.
They seemed reluctant t publish their data,
however, either because THEY FEARED HOMOPHOBIC REEACTIONS (‘my
ccolleagues might thank that I am gay’) or because they lack a framework for
analysis (‘I don’t know what it means’). On the latter point Wolfe insightfully
comments that the same problem affects our attempts to understand ANY sexual interactions
among primates. ‘Because the alloprimates do not possess language, it is
impossible to inquir into their sexual eroticism. In other words, homosexual
and heterosexual behaviours can be observed, recorded, and analysed, but we
cannot infer either homoeroticism or heteroeroticism from such behaviours (p.
131). But the fact that we do find animal behaviour cited by Roman authors to
CONDEMN such phenomena as cannibalism and same-sec desire among females, but
not SAME-SEX desire among males, merely proves the point. These rhetorical
strategies reveal more about ROMAN cultural concerns than about actual animal
behaviour. A poem in the Appendix Vergiliana introduces us to a lover hhappyly
separated from his beloved Lydia. In the throes of his grief he cries out that
this miserable fate NEVER BEFALLS ANIMALS: A bull is never without his cor, nor
a he-goat without his mate. In fact, sighs, the lover: ET MAS QUACUMEQUE EST
ILLA SUA FEMINA IUNCAT INTERPELLATOS SUMPAUQM PLORAVIT AMORES CUR NON ET NOBIS
FACILIS NAUTRA FUISTI CUR EGO CRUDELEM PATIOR TAM SAEPE DOLOREM? (Lydia 35-8). The
lover is melodramatically weepy and that consideration partially accounts of
his ridiculous claim that male animals are never to be seen without their
mates. Still, amatory hyperbole aside the verses nicely illustrate the tendency
to shape both natura and animal bheaviour into whatever form is convenient for
the argument at hand. Thus, Ovid,s suggesting that the best way to appease
one’s angry mistress is in bed, portrays sexual behaviour among early human
beings and animals s as the primary force that effects RECONCILIATION (Ars 2
461-92. The poet offers a lovely panorama in which animal behaviour is invoked
as a POSTIIVE paradigm for specific human practices: unting otherwise scattered
groups (2. 473-80) and mollifying an angry lover (2. 481-90). Less than two
hundred lines later, the same poet invokes animalas as A NEGATIVE PARADIGM,
again in support of a characteristically human concern: discretion in sexual
matters. IN MEDIO PASSIMQUE COIT PECUS HOC QUOQUE VISO AVETIT VULTUS NEMPE
PUELLA SUOUS CONVENIUNS THALAMI FURTIS ET IANUA NOSTRIS PARSQUE SUB INJIECAT
VESTE PUDDAN LATET ET SI NON TENEBRAS AT QUIDDAM NUBIS OPACAE QUAERIMUS ATQUE
ALIQUID LUCE PATENTE MINUS (Ovid, Ars, 2 615-20). Drawing his objets lesson to
a close, Ovid holds up his own behaviour as a pattern to follow. NOS ETIAM
VEROS PARCE PROFITEMUR AMORES TECTAQUE SUNT SOLIDA MYSTIFCA FURTA FIDE 639-40.
And we are reminded of the strategies of this pasage’s broader context. If you
want to keep your girlfriend happy, do not kiss and tell: that is the argument
in service of which animal behaviour is invoked as NEGATIVE paradigm. These to
Ovidian passages illustrate the utilyt of arguments from the animal world. Just
look ant the animals and see how much we resemble them; just look at the51-5. animals and see how far we have come.An
epigram by theGreek poet Strato gives the later poin an dineresting twist. We
huam beings, he writes, are SUPERIOR to animals in that, in addition to vaginal
intercourse, we have discovered ANAL INTERCOURSE, thus men who are dominated by
women are really no better than mere animals (A P 12 245 PAN ALOGON soon bivei
monon oi ligkoi de ton allon zoon tout exkomen to pleon pugizein eurotntes
hosoi de guanxi kratountai ton alogon zoon ouden exousi kleon. It all depends
on the eye – and rhetorical needs – of the beholder. OS it is that Roman
writers show how Roman they are through the picture they paint of sexual
practices among animals of the same sex. Ovid himself, in his Metamorphoses,
imagines the plight of young girl named Iphis who has fallen in love with
another girl. In a torrent of self-pity and self-abuse, she expostulates on her
passion, making a simultaneous appeal to NATURA and to the animals that is
reminiscent of Ovid’s sweeping review of animal bheaviour in the Ars amatorial
just cited. But this time the paradigm is an emphatically negative one. SI DI
MIHI PARCERE VELLENT PARCERE DEBUERANT SI NON ET PERDERE VELLENT NAUTRALE MALUM
SALTEM ET DE MORE DEDISSENT NEC CACCAM VACCA NEC EQUAS AMOR URIT EQUARUM: URIT
OVES ARIES SEQUITUR SUA FEMINA CERVUM SIC ET AVES COEUNT INTERQUE ANIMALIA
UNCTA FEMINA FEMINEO ONREPTA CUPIDINE NULLA EST (Ov. Met. 9. 728-34) As with
Lydia’s lover, so here we have the melodramatic expostulations of an unah[py
lover, and similarly her view of animal behaviour does not correspond to the
realities of that behaviour. Still, these arguments are pitched in such a way
as to invite a Roman reader’s agreement, and the sexual practices invoked as
natural and occurring among the animals demonstrate a SUSPICIOUS SIMILARTY to
the sexual practices and desired SEMMED ACCEPTABLE BY ROMAN CULTURE (the female
never leaves the male, heterosexual intercourse is a convenient and pleasurable
way of unting different social groups, and females never lust after females),
or to specifically HUMAN EROTIC STRATEGIES: we do not copulate in public, and
we should not kiss and tell if we want our to keep our partners happy. It
cannot be coincidental that, whereas Ovid invokes animal behaviour in the
context of a girl’s tortured rejection of her own passionalte yearnings for
another girl, the mythic compendium in which this natrratie is found is
peppered with stories involves passion and sexual relations between males. Both
Orfeo (after losing his wife Euridice) and the gods themselves (whether married
or not) are represented as ‘giving over their love to TENDER MALES, harvesting
the BRIEF springtime and its first flowers before maturaity sets in” Ov. Met.
10. 83-5 ORPHEUS ETIAM THRACUM POPULIS FUIT AUCTOR AMORET IN TENEROS TRANSFERRE
MARES CITRAQUE IUVENTAM AETATIS BREVE VER ET PRIMOS CARPERE FLORES. The stories
that Orfeo proceeds ts to relate include those of the young CYPARISSUS once
loved by Apollo Met 10.106-42 and the tales of Zeus and Ganumede, Apollo and
Hyacinth (Met 10 155-219 Consider also the beautiful sixteen yer old Indian boy
Athis and his Assyrian lover Lycabas (Met. 5 47-72. A passage which echoes of
Virgil’s lines on NISUS AND EURIALO discussed in chapter 2. And the remark that
the stunning but haughty young Narcissus, also in his sixteenth year, had many
admireers of both sexses (Met 3 351-5.None of Ovid’s characters arever
questions the NATURAL status of that kind of erotic experience or invokes the
animals in order to reject it. Aulus Gellius preserves for us some anecdotes
that further demonstrate the manner in which animal bheaviour could be made to
conform to human paradigms. Writing of (IMPLICITLY MALE) dolfns who fell in
love with beautiful boys (one oft them even died of a broek heart after losing
his beloved) Gellius exclaims that they were acing “in amazing human ways” 606C-D
and Plin N H 8 25-8 for this and other tales of male dolphins falling in love
with human boys. Gell 6 8 3 NEQUE HI AMAVERUNT QUOD SUNT IPSI GENUS SED PUEROS
FORMA LIBERALI IN NAVICULIS FORE AUT IN VADIS LITORUM CONSPECTOS MIRIS ET
HUMANIS MODIS ARSERUNS. Cf. Athen 13 Once again, the comment tells us more
about ‘human ways’ than about dolphins. The elder Plini, who alo relates this
story regarding the dolphin, introduces his encyclopeic discussion of elephants
by observing that they are nonly the largest land animals but the ones closest
to human beings in their intelligence and sense of morality. In particular,
they take pleasure in love and pride (AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS), and by way
of illustration of the ‘power of love’ (AMORIS VIS) among elephants he cites
two examples: ONE MALE FELL IN LOVE WITH A FEMALE FLOWER_SELLER, another with a
young Syractusan man named MENANDER who was in Ptolemy’s army. Likehise he
tells of a MALE GOOSE who fell in love with a beautiful young Greek MAN, and of
another who loved a female musician whose beauty as such that she alstro
attracted the attention of a ram. -4. NEC QUIA DESIT ILLIS AMORIS VIS, NAMQUE
TRADITUR UNUS AMASSE QUANDAM IN AEGYPTO COROLLAS VENDENTEM ALLUS MENANDRUM
SYRACUSANUM INCIPIENTIS IUVENTAE IN EERCITU PTOLEMACI DESIDERIUM EIUS QUOTIENS
NON VIDERET INEDIA TESTATUS 10.51 QUIN EST FAMA AMORS AEGII DILECTA FORMA PUERI
NOMINE OLENII AMPHILOCHI, ET GLAUCES PTOLOMAEO REGI CITHARA CANENTIS QUAM EODEM
TEMPORE ET ARIES AMASSE PRODITUR. Plin N H 8 1. MAXIMUM EST EPLEPHANS PROXIMUMQUE
HUMANIS SENSIBUS QUIPPE INTELLECTUS ILLIS SERMONIS PATRII ET IMPERIORUM
OBEDIENTIA, OFFICIOURM QUAE DIDICERE MEMORIA, AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS 8 13Turing
to the concept of NATURA as it applied to sexual pracyices by ancient writers,
we being with basica basic problem. The very term NATURA has various referents
in those texts. Sometimes NATURA seems simply to refer to the way things are or
to the INHERENT nature OF something, sometimes to the way things SHOULD be
according to the intention ordictates of some transcendent imperative. Thus
Foucault speaks of ‘the ‘three axes of nature’ in philosophical discourse. The
general order of the world, the orgginal state of mankind, and a behaviour that
is reasonably adapted to natural ends.Fouctault, p. 215-6. See also the
discussions in Boswell, p. 11-5, where he distinguishes between ‘realistic’ and
‘ideal’ notions of nature, Beagon, and Levy, “Le concept de nature a Rome: la
physique, Paris). The first two of these axes are evident in a wife-variety of
Roman texts. Departures from what is observably the usual PHYSICAL constitution
of various thbeings could be called NONNATURAL or UNNATURAL even by
nonphilosophical authors. The Minotuar, centaurs, a snake with feet, a bird
with four wings, and a sexual union between a woman (the muthis Pasiphae) and a
bull.snAnon De Differentiis 520 23 MONSTRUM EST CONTRA NATURAM UT EST
MINOTAURUS. Serv. Aen 6. 286 (centaurs) Suet Prata fr. 176.113-5 snakes with feet, birds with four wings.
Serv. Aen. 1. 235.11. Pasiphae and the bull. Te elder Plinty claims that breech
births are ‘against nature’ since it is ‘nature’s way’ that we should be born
head first.n N H 7 45 -6. IN PEDES PROCIDERE NASCENTEM CONTRA NATURAM EST RITUS
NATURAE CAPITE HOMINEM GIGNI MOST EST PEDIBUS EFFERRI. PLiQuintilian argues
that to push one’s hair back from the forehead in order to achieve some
dramatic effect is to act ‘against nature’.Quint I O 11 3 160 CAPILLOS A FRONTE
CONTRA NATURAM RETRO AGERE. and Seneca himself
opines that being carried about in a litter is ‘contra natural’a, since nature
has gives us feet and we should use them.Sen. Epist 55 ` LABOR EST ENIM ET DIU
FERI AC NESCIO AN EO MAIOR QUIA CONTRA NATURAM EST QUAE PEDES DEDIT UT PER NOS
AMBULAREMUS. Finally, the belief that physical disabilities and disease are
UNNAUTARAL, and thus, implicitly, that a healthy body displaying no marked
derivations from the form illustrates what nature designed or intended,
surfaces in a number of texts, arnign from Celusus’ mdical treatise to
Ciceroo’s philosophical works to declamations attributed to Quintilian, to a
moral epistle fo Seneca to the, to the Digest.2 1. 60 pr. MOTUS CORPORIS CONTRA
NATURAM QUAM FEBREM APPELLANT. Quint. Decld. Min. 298.12 WEAK AND MALFORMED
BODIES ARE IMPLICITLY CCONTRA NATURAM. Celsus Medic 3 21 15. On fluids that are
retained in the body contra naturam. Cic Off 3 30 MORBUS EST CONTRA NATURAM.
Gell. 4 2 3 Labeo defines morbus asHABITUS CUIUSQUE CORPORIS CONTRA NATURAM QUI
USUUM ETIUS FACIT DETERIOREM. Cf. D. 21 1 1 7. D. 4Along the same lines, some
ancient writers also suggest that to harm a healthy body with poisons and the
like is unnatural.Quint Decl. Min. 246.3 the plaintiff refers to a substance as
a venenum QUONIAM MEDICAMENTUM SIT ET EFFICIAT ALIQUID CONTRA NATURAM. Sen Epist
5. 4. To torment one’s body and to eat unhealthy food is CONTRA NATURAM. As for
the third of the axes described by Foucault, anthropologists and others have
long observed that proclamations concerning practices that are in acoordance
with nature often turn out to reflect specific cultural traditions. As Winkler
puts it, for nature we may often read culture.Winkler p. 17. In the same way
Edwards p. 87-8 discusses a passage from Seneca (Epist 95.20=1) discussed in
chapter 5, having to do with women who violate their ‘nature.’ She concludes
that ‘Seneca was not reacting to naturally anomalous bheaviour. He was taking
part in the reproduction of a a cultural system.’ So too Veyne , p. 26. ‘When
an ancient says that something is unnatural, he does not mean that it is
disgraceful (monstrueuse) that that it does not conform with the rules of
society, or that it is perverted OR ARTIFICIAL”. Roman sources of various types
certainly support that contention. Thus, for example, violations of traditional
PRINCIPLELS OF LANGUAGE AND RHETORIC which are surely among the most intensely
cutlrual of human phenomeno are SOMETIMES SAID TO BE UNNATURAL.Serv. Comm. Art
Don. 4 4 4 PLINIUS AUTEM DICIT BARBARISMUM ESSE SERMOVEM UNUM IN QUO VIS SUA
EST CONTRA NATURAM – Serv Aen. 4. 427. REVELLI NON REVULSI. NAM VELLI ET
REVELLI DICIMUS. VULSUS VERO ET REVULSUS USURPATUM EST TANTUM IN PARTICIPIIS
CONTRA NATURAM cf. Sen. Contr. 10, pr. 9 – tof the rhetorician Musa. OMNIA
USQUE AD ULTIMUM TUMOREM PERDUCTA UT NON EXTRA SANITATEM SED EXTRA NATURAM
ESSENT. One legal writer invokes the rhetoric of NATURA to justify the
principle of individual ownership (joint possession of a single object is said
to be CONTRA NATURAL.D. 41 2 3 5 CONTRA NATURAM QUIPPE EST UT CUM EGO ALIQUID
TENEAM TU QUOTE ID TENERE VIDEARIS. Interestingly, another jurist argues that
the principle underlying the institution of slavery – that one person can be
owned by another – is actually ‘unnatural’ (D. 1. 5. 4. 1. SERVITUS EST
CONSTITUTIO IURIS GENTIUM QUA QUIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATURAM SUBICITUR. In
a Horatioan satire we read that NATURA sees it that no one is every truly the
‘master’ of the land that he legally owns, and Natura puts a limit on how much
one can inherit (Hor. Sat. 2. 2. 129-30, 2.3.178). Sallust describes the
violation of the cultural and more specifically philosophical tradition
priviliengy the SOUL over the BODY as UNNATRUAL.Sall. Cat. 2. 8. QUIVUS PROFECT
CONTRA NATURAM CORPUS VOLUPTATI, ANIMA OVERI FUIT. SALLUST. Likewise, practices
violating Roan ideologies of MASCULINITY are represented as INFRACTIONS NOT of
cultural tranditions s but of the natural order. Cicero’s philosophical tratise
DE FINIBUS includes a discussion of the parts and with some clarity functions
of the BODY that illustrates the relation between NATURE and MSASCULINITY with
some clarity Our bodily parts, Cicero argues, are PERFECTLY DESIGNED to fulfil
their functions, and in doing so they are in conformance with nature. But there
are certain bodily movesmesns NOT in accord with nature (NATURAE
CONGRUENTES> If a man were to walk on his hand or to walk backwyasds, he
would manifestbly be rejecgting his identity as a human and thuswould thus be
displayeing a ‘hattred of nature’ (NAUTRAM ODISSE). Cic Fin 5 35. CORPORIS
IGITUR NOSTRI PARTES TOTAQUE FIGURA ET FORMA ET STATURA QUAM APTA AD NATURAM
SIT APPARET. The claim that walking on one’s hand is unnatural nicely
illustrates the gap between ancient and more recent uses of the rhetoric of
nature – cfr. Dodgson). The next illustration Cicer o offers of bodily moveents
not in accord with natura concerns correctly masculine ways of deporing
oneself. QUAMOBREM ETIAM SESSIONES QUAEDAM ET FLEXI FRACTIQUE MOTUS, QQUALES
PROTERVORUM HOMINUM AUT MOLLIUM ESSE SOLENT, CONTRA NATURAM SUNT, UT ETIAMSI ANIMI
VITIO ID EVENIANT TAMEN IN CORPOMUTRAR MUTARI HOMINIS NATURA VIDEATUR ITAQUE A
CONTRARIO MODERATI AEQUABILESQUE HABITUS AFFECTIONS USUSQUE CORPORIS APTI ESSE
AD NAUTRAM VIDENTUR (Cic. Fin 5. 35-6. Deemed ‘agaist natture’ are certain ways
of carrying oneself that are ‘wanton’ and ‘soft,’ movements lthat, like walking
on one’s hand or stepping backwards, clasi the with thvident purporse of the
body’s various parts. Implicitly then, nature wills men’s bodies to move and to
function in certain ways. Men who violate these principles of masculine
comportment are acting BOTH EFFEMINATELY (as we saw in chapter 4, militia is a
standard metaphor for effeminacy) AND UNNATURALLLY. Cultural traditions
regarding masculinity – here, appropriate bodily gestures – are identified with
the natural order.Similar conddemnations of inappropriate bodily comportment,
marked as EFFEMINATE, abound: walking daintily, scratching the hair delicately
wih onefinger, and so on (see chapter 4 in general and see Gleason for a
general discussion of physiognomy and masculinity in antiquity. How, then is
the rheotirc of nature applied to same-sex practices? One scholar has recently
suggested that the elder Pliny describes men’s desires to be anally penetrated
as occurring ‘by crime against nature’ Taylor, p. 325. But that is probably a
misinterpretation of Pliny’s language. IN HOMINUM GENERE MARIBUS DEVERTICULA
VENERIS EXCOGIGATA OMNIA, SCLERE (or CCCELERE naturae FEMINIS VERO AOBRTUS Plin
N H 10 172. The phrase DEVERTICULA VENERIS which one might translate (by-ways
of sex’ or ‘sexual deviations’ is vague. There is no reason to think that it
refers to specifically, let alone exclusively, to the practice of being anally
penetrated. Moreover, the phrase SCELERA NATURA or SCELERE NATURAE, rather than
‘crime against nature,’ is most obviously transated as ‘crime OF NATURE,’ that
is, a crime perpetrated BY NATURE.This is indeed the way Plinio uses the phrase
elsewhere, noting that we ought to call earthquakes ‘moracles of the eart
rather than crimes of nature’ (NH 2 206 – UT TERRAE MIRACULA POTIUS DICAMU QUAM
SCLEREA NATURAE. See Beagon, p. 29. In other words (pace Taylor and Rackham
Loeb Classical Library translation, I take the genitive NATURAE to be
subjective rather than objective. I have not found any parallels for such an
objective use of a genitive noun dependent upon scelus. In any case, Pliny is
not implying that all sexual desires or practices between males are unnatural:
in this same treatise, significantly called the HISTORIA NAUTRALIS or Natural
Investigations’ he reports the story of a male elephant who fell passionately
in love with a young man from Syractuse as an illustration of the obviously
natural power of love of love (amoris vis) among elephants; likewise, he
reports the story of a gosse who loved a beautiful young man.Plin N H 8 13-4,
10.51More explicitly referring to those men who take pleasure in being
penetrated, the speaker in Juvenal’s second satire riducules menwho have
wilfully abandoned their claim on masculine status by weaking makeup,
participating in women’s religious festivals, and even taking husbands, and
notes with gratitude, that nature does not allow them gto give birth.Juv. 2 139
40. SED MELIUS QUOD NIL ANIMIS IN CORPORI IURIS NATURA INDULGET STERILES
MORTUNTUR. For Further discussion see Appendix 2. The orator Labienus decries
wealthy men who castrate their male prostitutes (EXOLETI, see chapter 2) in
order to render them more suitable for playing the receptice role in
intercourse. These men use their rinces in UNNATURAL WAYS (contra natural), and
the natural standard they they violate is apparently the principle that mature
males both should make use of the PENISES and should be IMPENETRABLE.Sen Contr.
10. 4 17. PRINCIPES VIRI CONTRA NATURAM DIVITIAS SUAS EXERCENT CASTRATORUM
GREGES HABENT EXOLETOS SUOS AD LONGIOREM PATIENTIALM IMPUDICITIAE IDONEI SINT
AMPUTANT. Firmicus Maternus refers to men’s desires to be penetrated as CONTRA
NATURAL (5. 2. 11), and Caelius Aurelianus’s medical wirtings also reveal the
assumption that men’s ‘natural’ sexual function is TO PENETRATE and not to be
penetrated.9 137. NATURALIA VENERIS OFFICIA. Cael. Aurel. Morb. Chron. 4 In
short, nature’s ditactes conveniently accorded with cultural traditions, such
as those discouraging men from seeking to be penetrated, or those deterring
them from engaging in sexual relations with other men’s wives: in a poem that
urges on its male readers the principle that NATURA places a limit of their
desires, Horace remocommends, as implicitly being in line with the requirement
of nature, that men avoid potentially dangerous affaris with married women and
stick to their own slaves, bh male and female.Hor. Sat. 1 2 111. NONNE
CUPIDINIBUS STATUAT NATURA MODUM QUEM … Se chapter 1 for further discussion of
this poem. Cf. Sat. 1. 4. 113-4: NE SEQUERER MOECHAS CONCESSA CUM VENERE UTI
POSEEM. In one of his Episles (122) Seneca provides a lengthy and revealing
discussion of ‘unnatural’ behavours that include a reference to sexual
practices among males. He beings, however, by despairing of ‘those who have
perverted the roles of daytime and nightime, not opening their eyes, weighed down
by the preceding day’s hangover, until night begins its approach. Sen Epist 122
2 SUNT QUI OFFICIA LUCIS NOTISQUE PERVERTERINT NEC ANTE DIDUCANT OCULOS
HESTERNA GRAVES CRAPULA QUAM ADPETERE NOX COEPIT. These people are
objectionably not simply because of their overindulgence in goof and drink but
because they do not respect the proper function of night and day.Comparing them
to the Antipodes, mythincal beings who live n the opposite side of the globe,
he asks. Do you think these people know HOW to live when they don’t even know
WHEN to live? 122.3 HOS TU EXISTIMAS SCIRE QUEMADMODUM VIVENDUM SIT QUI
NESCIUNT QUANDO?and this pervesion of night and say, is, in the end,
‘unnatural’. INTERROGAS QUOMODO HAEC ANIMAO PRAVITAS FIAT AVERSANDI DIEM ET
TOTAM VITAM IN NOCTEM TRANSFERENDI? OMNIA VITA CONTRA NAUTRAM PUGNANT, OMNIA
DEBITUM ORDINEM DESERUNT (Sen Epist. 122.5). He then proceeds to tick off a
serioes of bheaviour that are similarly CONTRA NATURAM. First, people who drink
on an empty stomach ‘live contrary to nature’ Sen. 122 6 NON VIDENTUR TIBI
CONTRA NATURAM VIVERE QUI IEIUNI BIBUNT QUI VINUM RECIPIUNT INANIBUS VENIS ET
AD CIBUM EBRII TRANSEUNT. Young men nowadsays, Seneca continues, go to the
baths before a meal and work up a sewat by drinking heavily; according to them,
only hopelessly philistine hicks (patres familiae rustici … et verae volupatigs
ignari) save their drinking for after the meal.Sen Epist 122 6. ATQUI FREQUENS
HOC ADULESCENTIUM VITIUM EST QUI VIRES EXCOLUNT UT IN IPSO PAENE BALINEI LIMINE
INTER NUDOS BIBANT IMMO POTENT ET SUDOREM QUEM MOVERUNT POTIONIBUS CREBRIS AC
FERVENTIBUS SUBINDE DESTRINGAT POST PRANDIUM AUT CENAM BIBERE VULGARE ETS HOC
PATRIS FAMILIAE RUSTICI FACIUT ET VERA VOLUPTATIS IGNARI. The latter comment,
with its contrast between URBAN AND RUSTIC life, austerity and luxyry , is a
valuable reminder of us. The standard violated by those who drank betweofre
eating was what we would call a cultural norm. But for Seneca they were
violating the dicates of NATURE, abandoning the proper order (debitum ordinem)
of things. This important point bust be borne in mind as we turn to the next
practices that come under Seneca’s fire: NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM
VIVERE QUI OMMUTANT CUM FEMINIS VESTEM? NON VIVUNT CONTRA NAUTRA QUI SPECTANT
UT PUERITIA SPENDEAT TEMPORE ALIENO? QUID FIERI CRUDELIS VEL VISERIOUS POTEST?
NUMQUAM VIR ERIT, UT DIU VIRUM PATI POSSIT? ET CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS
ERIPUISSE DEBUERANT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET (Sen. Epist 122. 7). The
concept of the proper order is very much in evidence here, and here again the
order shows unmistakable signs of cultural influence. Just as those who turn
night into day or drink wine before they eat a meal are engaging in unnatural
activities, so men who wear women’s clothes live contrary to nature – yet what
could be more cultural than the designation of certain kinds of clothing as
appropriate only for men and others as appropriate only for women? Moving on to
his next point, Senceca continues to focus on extermal appearance. Men who attempt
to give the appearance of the boyhood that is in fact no longer theirs also
‘live contrary to nature’. Again the order of things has been disrputed. Boys
should be boys, men should be men. But these particular men want to LOOK like
boys in order to find older male sexual partners to penetrate them. Such is the
thenor of Seneca’s decorous but blunt phrase, ‘so that he may submit to a man
for a long time’ (ut diu virum pati possit’). If we filter out Seneca’s
moralizing overlay, this detail gives us a fascinating fglimpse oat Roman
realities. These MEN scorned by Seneca acted upon the awareness that MEN would
be more likely to find them desirable if their bodies seemed like those of BOYS
(not men): young, smooth, irless. Moreover, the very fact that these men made
the effort suggests that th actual age of the beautiful ‘boys’ we always hear
of may not have mattered to their loveers so much as their youthful APPEARANCE.Cf.
Boswell, p. 29, 81. All of this is very much a matter of CONVENTION, of
CULtURAL traditions concerning the ‘proper order’ of things, but Seneca
insistently pays homage to NATURA.Cf. Winkler, p. 21. “Contrary to nature means
to Senea not ‘outside the order of the kosmos’ but ‘unwilling to conform to the
simplicity of the unadorned life’ and, in the case of sex, ‘going AWOL rom
one’s assigned place in the social hierarchy’”. The importance of this order is
especially clear in the climactic illustrations of those who live ‘contrary to
nature’. These are people who wish to see see roses in winter and employ
artificial means to grow lilies in the cold season; who grow orchards at the
tops of towers and trees under the roofs of their homes (this latter proving
Seneca to a veritable outburst ofm moral indignation)., and those who construct
their bathhouses over the waters of the sea Sen. Epist 122 21 NON VIVUNT CONTRA
NATURAM QUI FUNDAMENTA THERMARUM IN MARI IACIUNT ET DELICATE NATARE IPSI SIBI
NON VIDENTUR NISI CALENTIA STAGNA FLUCT AC TEMPESTATE FERIANTUR. Finally Seneca returns to the example of
unnatural practices that sparked the whole discussion: those who pervert the
function of night and day aengage in the ultimate form of unnatural behaviour (Sen
Epist 122 9 CUM INSTITUERUNT OMNIA CONTRA NATURAE CONSUETUDINEM VELLE NOVISSIME
IN TOTUM AB ILLA DESCISCUNT LUCET SOMNI TEMPUS EST QUIES EST NUNC EXERCEAMUR
NUNC GESTEMUR NUNC PRANDEAMUS. That the practice ofs of growing trees indoors,
of building bathhouses over the sea, and of sleeping by day and partying by
night should be considered unnatural makes some sense in relation to notions of
the ‘proper order’ of things. Plants should e outdoors, buldings should be on
dray land, and people should sleep at night. But that thes practices should be
cited as the most egregious examples of unnatural bheaviour – they constitute
the climax of Seneca’s argument – demontrastes just how wide the gap is between
ancient moralists and their modern counterparts on the question of what is
natural. With regard to mature men who seek to be penetrated by men, the third
of Seneca’s examples of unnatural behaviour, Seneca makes in passing a
surprising remark. CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERAT NON NE AETAS
QUIDEM ERIPIET? 122.7. The clear implication is that a nature man certainly
ought to be safe from ‘indignity’ (here a moralizing euphemism for
penetration), but ultimately the very fact that he is MALE, REGARDLESS OF HIS
AGE, ought to protect him. With with one pointed sentence, then, Seneca is
suggesting that MALENESS IN ITSELF IS IDEALLY INCOMPATIBLE WITH BEING
PENETRATED, and since sexual acts were almost without exception conceptualized
as REQUIRING penetration, this amounts to positing the exclusion of sexual
practices BETWEEN MALES from the ‘proper order’. This is a fairly radical
suggestion FOR A ROAM MAN TO MAKE, and Seneca was no doubt aware of that fact.
He slips the comment quietly into his discussion, makes the point rather subtly
(it makight ake a second reading even to REALISE IT IS THERE), and then
instantly moves on to other, less controversial arguments. FOR as opposed to
Seneca’s suggestion that EVERY MALE, even a boy, should somehow be ‘rescued’
from ‘indignity,’ the usual Roman system of protocols governing men’s sexual
behaviour required the understanding that A BOY is different from A MAN precisely
because they COULD BE penetrated without necessarily forfeiting EVERY CLAIM to
masculine or male status (see especially chapter 5 on this last point). But
Seneca, waxing Stoic, here voices a dissenting opinion, as does the first
century A. D. Stoic philosopher MUSONIUS RUFUS, in one of twhose treatises we
find the remark that sexual practices BETWEEN MALES are ‘against nature’
(‘para-physical’) Muson, Ruf. 86. 10 Lutz para phusin. The remark needs to be
be put in the context of Musonius’s philosophy of nature. According to
Musonious, every createure has its own
TELOS beyond the goal of simply being aalive En a horse would not b e fully
living up to its telos if all it did was to eat, drink, and copulate (106.25-7
Lutz)., while the TELOS or goal of a human being is to live the life or arete
or VIRTUS. Thus, “each one’s nature (phusis) leads him to his particular
virtuous quality (arete), so that it is is a reasonable conclusion that a human
being is living in accordance WITH nature NOT when he lives in pleasure, but
rather when he lives in virtue” 108.1-3 Lutz). Elsewhere he opines that human
nature (phusis – anthropine phusis, natura humana, Hume, Human Nature) is not
aimed at pleasure (hedone, 106.21.3 Lutz). Consequently, luxury (truphe) is to
be avoided in EVERY way, as being the cause of INJUSTICE (126.30-1 Lutz). By
implication, then, eating, drinking, and aopulating are not in themselves evil,
but they can easily become sgns of a life of luxury, and if those activities
aconstitute the goals of our existence, we are FAILING TO FULFIL OUR POTENTIAL
AS A HUMAN BEING, namely, the practice of virtue, or reason, and consequently,
not living IN ACCORDANCE WITH NATURE, but against her (paa phusin). Thus, as
part of a regime of SELF-CONTROL (MALENESS OR MASCULINITY AS SELF-CONTROL, not
addictive behaviour or weakness of the will) Musonius argues that a man should
engage in a sexual practice only within the context of marriage for the purpose
of begetting children. Any other sexual relation, even within marriage should
be avoided. T”Those who do not live licentiously, or who are not evil, must
think that only those sexual practices are justified which are consummated
within marriage and for the creation of children, since these pratcttices are
licit (NOMIMA). But such people must think that those sexual practices which
hunt for mere pleasure are unjust and illicit, even if they take place within
marriage. Of Other forms of intercourse, those committed in moikheia (I e. a
sexual relation with a freeborn woman under another man;s control) are the most
illicit. No more moderate than this is the INTERCOURSE OF MALES WITH MALES,
since it is a DARING ACT CONTRARY TO NATURE. As for those forms of intercourse
with with females apart from moikheia which are not licit (kaTa nomon) all of
these are too shameful, because done on account of a lack of self-control. If
one utside to behave temperately
(TEMPERANTIA, CONTINENTIA) one would not dare to have relations with a
courtesan, nor with a free woman outside of marriage, nor, by Zeus, with one’s
own slave woman (Musonius Rufus, 86.4-14 Lutz). As I argued in chapter 1,
Musonius’s final remark reveals the extent to which the sexual morality that he
is preaching is at odds with mainstream Roman traditions. Nor is his suggestion
that men should keep their hans off prostitutes and their own slaves the only
surprising statement to be found in the treatises attributed to Musonius. He
elsewhere aargues against the obviously widespread practices of giving up for
adoption or even exposing unwanted children (96-97 Lutz), of EATING MEANT (here
he explicitly contrasts himself with the many hoi polloi who live to eat rather
than the other way around (118-18-20 Lutz) or SHAVING THE BEARD (128.4-6 Lutz),
of using wet nurses (42.5-9 Lutz), and most appositely, of allowing husbands
sexual freedoms not granted to wives (96-8 Lutz). Thus his condemnation of
sexual practices between MALES is issued in the context of a condemnation of
ALL SEXUAL PRATICES other than those between husband and wife aimed at
procreation (strictly speaking, vaginal intercourse when the wife is ovulating)
and also in the context of a a suspicion of all luxury oand of pleasures beyond
those relating to the bare necessities of life. Thus he condemns sexual
relations between males as contrary to nature (the implication being that the
two sexes ARE DESIGNED TO UNITE WICH EACH OTHER IN THE CONTEXT OF MARRIAGE),
while sexual relations between malesand female outside of marriage are
criticized as ‘illicit (para-noma) and as signs of lack of self-control. Here
Musonius is obviously manipulating the ancient contrast between law or
convention (nomos) and nature (phusis) and interprestingly procreative
relations within marriage are ultimately given his seal of approval not because
they are more ‘natural’ than tother sexual practices, but because they are
‘licit’ or ‘conventional’ (nomima), just as adulterious relations are most
‘illicit’ of unconventional (paranomotatai). In other words, Musonius invokes
the rhetoric of nature only by way of secondary support.. A male-male relation
is no more ‘moderate’ than a adulterious relationa dn anyway, he adds, they are
‘unnatural’. But a relation between a man and another man’s wife, while
implicitly ‘natural’,is in the end more ‘illicit’ than a male-male relation.
Even for the Stoic Musonious, NATURA may NOT be the ultimate arbiter. Interestingly,
when he describes sexual practices between males as being against nature,
Musonius does not appeal to animal bheaviour as does Plato in his Laws (836c).
Indeed, such an argument sould have ill-suited Musonius’s argument elsewhere
that humans are different from other animals and should not takem them as a
MODEL FOR BHEAVIOUR. Thus he argues that wise men ill not attack in return if
attacked – such revenge is the province of MERE ANIMALS – 78.26-7 Lutz) – and
that, while among animals an act of copulation suffices to procude offspring,
human beings should aim for the lifelong union that is marriage (88.16-17
Lutz). Finally, there is an important distinction to observe between Musonius’s
remark concerning sexual practices between males and later Christian
fulminations against ‘the unnatural vice’ which came to be a code term for
‘sodomy’. On the one hand, Musonius did not go so far as to condemn such
relations as THE unnatural vice. Indeed, if we think about the implications of
his words, relations between MALES do not even constitute the ULTIAMTE sexual
crime. He declare that ADULTEROUS relations are ‘the most illicit of all’
(paranomotatai) and thus clearly more ‘illicit’ than relations between males
which are howevery ‘equally immoderate’. Furthermore Musonius’s approach to the
problem of sexual behaviour differs from later Christian moralists in a
fundamental respect. As Foucault puts it, according to Musonius, ‘to withdraw
pleasure from this form (sc. Of marriage, to detach pleasure from the conjugal
relation in order to propoeseother ends for it, is in fact to debase the
ESSENTIAL composition of the human being. The defilement is not in the sexual
act itself, but in the ‘debauchery’ that would dissociate it from marriage,
where it has its natural form and its rational purpose” Foucault p. 170. Cicero
ro in a passage from one of this major philosophical works, the Tusculan
disputations, approaches the ascetic stance advocated by Seneca and Musonius
Rufus, although he nowhere makes an explicit commitment to the extreme
suggested by Seneca and preached by Musonius. Speaking in the Tusculan
Disputations of the detrimental effects of erotic passion, Cicero observes that
the works of Greek poets are filled with images of love. Focusing on those who
describe LOVE FOR BOYS (he mentions Alcaeus, Anacreon, and Ibycus), Cicero
notes thain an aside that ‘NATURE HAS GRANTED A GREATER PERMISSIVENESS (maiorem
liicnetial)” to men’s affairs with women. Cic. Tusc. 4. 71. ATQUE UT MULIEBRIS
AMORES OMITTAM QUIVUS MAIOREM LICENTIAL NATURA CONCESSIT QUIS AUT DE GANYMEDI
RAPTU DUBITAT QUID POETAE VELINT AUT NON INTELLEGIT QUID APUD EURIPIDEM ET
LOQUATUR ET CUPIAT LAIUS. The comparative (MAIOREM LICENTIAL is noteworthy.
NATURE has granted ‘greater’, not exclusive license to affais with women than
to affairs with BOYS. The Latter are evidently NOT FORBIDDEN BY NATURE.
Discouraged perhaps, but not outlawed. This is a BEGRUDGING ADMISSION, in
perfect agreement with the tenor of the whole discussion of sexual passion
which had opened thus. ET UT TURPES SUNT QUI ECFERUNT SE LAETITIA TUM CUM
FRUUNTUR VENERIIS VOLUPTATIBUS SIC FLAGITIOSI QUI EAS INFLAMAMATO ANIMO
CONCPISCUNT TOTUS VERO ISTE QUI VOLGO APPELATUR AMOR – NEC HERCULE INVNEIO QUO
NOMINE ALIO POSSIT APPELARI TANTAE
LEVITATIS EST UT NIHIL VIDEAM QUOD PUTEM CONFERENDUM. (Cic. Tusc. 4. 68). These
words disparage sexual passion as a whole – particularly a hot, inflamed desire
(QUI EAST INFLAMMATO ANIMO CONCUSPICUNT) whether indulged in with women or with
boys. NATURA, according to Cicero, makes it easier to indulge in this passion
with women, so that when men DO INDULGE
IN IT WITH BOYS, they show just who DEEPLY THEY HAVE FALLEN VICTIM TO LOVE –
that treacherous and destructive power, ‘te originator of disgraveful behaviour
and inconstanty (FLAGITTI ET LEVITATIS AUCTOREM (4. 68), as G. Williams notes. In
fact, remarkably enough, Cicero later claims that love itself is not natural.
Cic. Tusc. 4 76. If love were natural, everyone would love, they would always
love, and would love the same thing: one person would not be deterred from
loving by a sense of shame, another by rational thought, another by his satiety
– ETENIM SI NAUTRALIS AMOR ESSET ET AMARENT OMNES ET SEMPER AMARENT ET IDEM
AMARENT NEQUE ALIUM PUDOR ALIUM COGITATIO ALIUM SATIETAS DETERRERET. Cicero’s
remark on NATURA and sexual relations with women is in fact fact little more
than a a passing comment. Still, its implications deserve some consideration.
In what whays does NATURE grant ‘greater permisiveness’ to a relation with aa
woma than with a boy? Why does Seneca suggest that men’s MALENESS ought to
preclude them from being PENETRATED, and why does Musonius Rufus condemn ALL
SEXUAL PRACTICES BETWEEN MALES as unnatural? These philosophers’ comments seem
to rest on certain assumptions about the function of sexual organs. Certainly
Seneca emphasixes the notion of the proper order or debitus ordon, according to
which men should not drink wine before eating, grow roses in the winter, build
buildings over the sea, or PENETRATE MALES. In short, some kind of ARGUMENT
FROM DESIGN seems to lruk in the backgrounf of Cicero’s Seneca’s and Musoniu’s
claism. The penis is ‘designed’ to PENETRATE a vagina. TA vagina is deigned to
be penetrated by a penis. Similarly the passage from Phaedrus Fables 4 16
discussed in chapter 5 implies, whitout actually using the word NATURA, that
males who desire to be penetrated (molles mares) and females who desire to
penetrate (tribades) have A FLAWED DESIGN. When Prometheus was assuming these
people’s bodies from CLAY, he attached the genial organs of the opposite sex in
a drunken slip-up. But his more popularizing account only specifies that those
males who DESIRE to be penetrated are anomalous. It does not designate those
men who seek to penetrate other males as unnatural. On this model, a sexual act
in which a master penetrated his UNWILLING MALE slave is NOT UNNATURAL. By contrast, according the
philosophers discussed here (Musonius most expliclty) this act would be
unnatural. But on the whole very few
Roman writers seem to have taken this kind of argument to heart. In general,
ROMAN MEN’S BEHAVIOURAL codes reflect an AWARENESS that the PENIS IS SUITED for
purposes OTHER than penetrating avagina, and that the vagina is NOT the only
organ suited for being penetrated. Such is the implication of a witty comment
in an epigram of Martial’s addressed to a man who, instead of doing the USUAL
WITHIN with his BOY and analyy penetrating him, has been STIMULATING THIS
GENITALS. This is objectionable because it will speed up the process of his
maturation and thus hasten THE ADVENT OF HIS BEARD (11.22.1-8). Martial tries
to talk some sense into his friend and the epigram ends with an APPEAL TO
NATURE. DIVISIT NATURA MAREM PARS UNA PUELLIS UNA VIRIS GENITA EST UTERE PARTE
TUA Mart 1 22.9-10. The comment is of course a witticigm. Note the logical
contradiction that this playful invocation of nature creates. If the penis is
designed by nature for girls and the anus for mmen,how can a man use a boy’s
anus in the way nature intended (i. e. to be penetrated by men) and at the same
time use his own penis in the way nature intended (i. e. by penetrating a girl?
See chapters 1 and 5 for further fsucssion of this epigram together with
Martial’s humorous invocation of the paradigm of nature with regard to
masturbation. but if the humour was to succeed, the notion that a boy’s anus is
designed by nature for a man to penetrate cannot have seemed outrageous to
Martial’s readership. After all, the rhetorical goal of the epigram is to steer
tha man onto the path of right behaviour, the path which Martial’s won persona,
dutifully, even proudly, followed. This sort of comment – rather than the
passing remarks of such philosophers as Cicero, Seneca and Musonius Rufus,
reflects the mainstreat Roman understanding of what constitutes NORMATIVE and
NATURAL sexual beavhiour for a boy and for a man. It is significant, moreover,
that neither CCicero nor Seneca nor Musonius Rufus nor any other survinving
Roman text, philosophical or not, argues that a MAN’s *DESIRE* to penetrate a
boy is ‘contrary to nature’. Musonius, for one, speaks ony of the sexual act
(SUMPLOKAI). We return to the Epicurean perspective offered by Lucretius cited
in chapter i. SIC IGITUR VENERIS QUI TELIS ACCIPIT ICTUS SIVE PUER MEMBRIS
MULIEBRIBUS HUNC IACULATUR SEU MULIEUR TOTO IACTANS E CORPORE AMOREM UNDE
FERITUR EO TENDIT GESTITQUE COIR ET IACERE UMOREM IN CORPUS DE CORPRE DUCTUM.
Lucr. 4. 1052-6. This are lines from a poem dedicated to teaching its Roman
readers about ‘the nature of things’ (de rerum natura 1.25). cf. Boswell p. 149
“Lucretius’s De rerum natura dealt with the whole of ‘natura’ but it was the
‘rerum’ of things – which suggested to Latin readers what modern speakers mean
by ‘nature’”. Obviously the SUSCEPTIBILITY OF MEN to THE ALLURE of boys and
women is a PART OF THE NATURAL ORDER for Lucretius. The beams of atomic
particles that EMANATE from the bodies of boys and women and attract men to
them are an integral part of the nature of things. It is the mentalitly evident
in such diverse textsa Lucretius’s poetic treatise On the nature of Things,
Martial’s epigrams, and graffiti scrawled on ancient walls that we need to keep
in mind when we evaluate the comments of Musonius Rufus, Seneca, and Cicero.
These are the words of three philosophers. Cicero expounding on the danger s of
love, Senceca inveighing against the corrputions of the world around him, and
Musonius arguing that men should engage only in certain kind of sexual
relations and only with their wives, the goal being the production of
legitimate offspring and not the pursuit of pleasure. These pronouncements tell
u something about the world in which these three philosophers who made them
lived, and about what men and women in that world were actually doing. Seneca
for example is hardly fulminating about imaginary fices) but they tells us even
more about Cicero, Seneca, and Musoiuns, and their own philosophical
allegiances We have every reason to believe that comments like their rpersented
a minoriy opinion. Indeed, the men AGAINST whom Musonius argues, who believed that
A MASTER has absolute power to do ANYTHING HE WANTS to his slave, is precisel
that man shoes VOICE dominated the public discourse on sexual practice.
Moreover, as Winkler (p. 21) trenchangly observers, Seneca’s condemnation of
such ‘unnatural’ behaviour as growing hothouse flowers or throwing nightime
parties, ‘though articulated as universal, is OBVIOUSLY DIRECTED AT A VERY
SMALL AND WEALTHY ELITE – THOSE WHO CAN AFFORD THE SORT OF LUXURIES Seneca
wants ‘ALL MANKIND’ to do without”, It is telling, too, that Cicero himself
never makes this kind of APPEAL TO NATURA in the SEXUAL INVECTIVE sscattered
throughout the speeches he delivered in the public arenas of the courtroom,
Senate, or popular assembly (see chapter 5), and that the argument appears
NOWEHERE ELSE IN the considerable corpus of Seneca’s moral treatises. Likewise,
it is worth noting that Musonius Rufus’s who makes the most extreme case, not
only wrote his treatise in GREEK rather than Latin, as if to underscore its
distance from he everyday beliefs and practices of Romans, but as a philosopher
omitted to stoicis in a way that Cicero and and Seneca are not. As Haexter
reminds us, Cicero proposes manydifferent rhetorical and philosophical
positions in his speeches, letters, and dialogues, and Seneca’s epistles to
Lucilius offer a tentative and experimental mixture of Stoicism and other
philosophical schools (many of his earlier letters end with quotations from
Epicurus, for example). In any case, Boswell, cp. 130 citing ancient sources
claiming that the very founder of stoicism, Zeno, engaged in sexual practices
with males (perhaps even exclusively) tnote that many ancient stoics actually
seem to have considered the question of sexual praticess between males to e
ETHICALLY NEUTRAL. Finally, It is worth noting that both Seneca and Cicero were
thought not to have practiced what they prached. In a discussion of how
Seneca’s behaviour often stood in contracition to his own teachings, the
historian DIO CASSIUS observes that although he married well, Seneca also
“takes pleasure in older lads, and teachers Nero do to the same thing, too”.
Dio 61 10 4. Tas te aselgeias has praton gamon te epiphanestaton egme kai
meikarious exorois exaire kai tauto kai ton Nerona poietin edidaxe. The
historian goes on to insutate that Seneca fellated his partners, speculating on
the reason why refused to kiss Nero. One might imagine, Dio notes, that this
was because he was gisuted by Nero’s penchant
for oral sex. But that makes no sense given Seneca’s own relations with his
boyfriends (61 10 5 o gar toi monon an
tis hupopteuseien hoti ouk ethele toiouto stoma philein elegxketai ek ton
paidikon autou pseudos on). The younger
Pliny (Epist. 7.4) informs us that Cicero addresses a love poem to his faithful
slave and companion Tiro. Of course neither of these pieces of information
tells us anything about Cicero’s or Seneca’s actual experiences. Cicero’s poem
could have been a literary game and the stories a out Seneca that constituted
Dio’s source may well have been unfounded gossip (For Cicero and Tiro, see
McDermott and Richlin. P. 223, Canatarella p. 103 assumes that they actually
ENJOYED A sexual relationship)). On the other hand, is it not impossible that
Cicero actually DID experience DESIRE for Tiro and that Seneca DID enjoy the
company of MATURE MALE SEXUAL PARTNERS. And abovre all it is important to
recognize that later generations of Romans (the younger Pliny and Dio) were
willing to IMAGINE THOSE THINGS HAPPENING. Dio’s gossipy remarks and Pliny’s
comments on Cicero remind us of the
cultural context in which a philosopher’s allusion to NATURA must be placed. ( Paolo Casini.
Keywords: naturismo, naturalismo, natura, nazione, patto sociale, la legge
naturale, l’uomo, contra natura. “antica sapienza italica” razionalismo, la
metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto sociale -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773734737/in/dateposted-public/
Grice e Casotti – volere – filosofia
fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice:
“I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is
into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade
learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to
teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of
my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in
an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew
would scorn philosophers who use a verb with an article “l’essere” – or
a pronoun with an an emphatic word meaning ‘same’ – “the self!” Figlio di
Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto Amendola e Gentile. Con
quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica della storia” in cui
esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina gentiliana
dell'attualismo. Dopo aver aderito
all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento
della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale in direzione
della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e
rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella
redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni personali, unite all'esigenza di
approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera
piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire
all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a
Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia”
dell'aristotelismo aquinista. Egli
avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della
«lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta
all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto
tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa
dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità,
concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita,
incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che
consente il passaggio dalla potenza all'atto.
Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna,
rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua
filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come
disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno
speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e
adattare alle difficoltà del contesto.
Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze,
Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia
e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione,
Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e
Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau,
Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione,
Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale,
Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva,
Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano,
Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La
Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia,
La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà,
Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte
e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia,
La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia
Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti
e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico
degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale, in « L '
Educazione Nazionale », 1920, n.... L ' Idea Nazionale », 18, 20, 21 e 22
aprile 1920 ) vedere M. Casotti, Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra
Scuola », 1920, nn. 1 - È costituito un Fascio di educazione
nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei
problemi concernenti la... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario
Casotti, il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare... Casotti
Mario, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi,
Firenze, 1923. Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE GIOVANNI, Il Fascismo al
governo della Scuola, Sandron, Palermo, 1924. SGROI CARMELO. Casotti makes a
dramatic break with actualism early in his career. A tutee of Gentile, he
nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was called to teach
pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist scholars and
produced works on education with a distinct orientation. He is particularly
remembered as the founder and director of the review Pedagogia e vita, a
journal that took on new importance in the postwar years. A spiritualist who
came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer in
neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a conversion,
and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced critiques of
idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began a systematic
study of divided into three parts: teleology (the aim or end); anthropology
(study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINOSaggi di
filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si
vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle
quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato
abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia
cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato
verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e
generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non
sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per
arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una
conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore
Angelico LA PEDAGOGIA DI S. TOMMASO D’AQUINO Saggi di pedagogia generale
MARIO CASOTTI Professore nell’Università del Sacro Cuore BRESCIA, Editrice “La
Scuola”, 1931 * * * INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino
65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e
" Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195
L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari * * * PREFAZIONE Non c'è
nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo
presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia
pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto
in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche
in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha
sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo
riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione
dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande
maestro: San Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora
non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti
cattolici più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia,
o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della
filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo
dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di
qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana
contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere,
è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi
un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a
discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto.
Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi,
piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche
più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar
criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri
ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con
minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di
noi. Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui
raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora -
possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li
stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento
lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento,
vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno
monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi
problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della
verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito
moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della
ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto
orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione
verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo
e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo
riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di
autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo
naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo
denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San
Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua
critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va
meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità,
di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école
active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al
Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole
parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli
«attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S.
Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a
mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il
termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a
Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire,
nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro:
nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi
preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando
gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un
dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso
d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici
accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di
risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici
s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in
questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia
cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato
verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e
generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non
sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per
arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una
conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore
Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di
rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari
vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato
morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di
speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero di S.
Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e
l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle
scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia
cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo illumina
delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione: basta
menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e
pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della
pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia
conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono
nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche
questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli
di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S.
Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi
che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo
di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta
pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana
Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima
della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia
cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza
temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso
ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto
l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche
nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno
che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al
quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a
testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla
fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta.
Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto
dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine
a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è
anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e
delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più
urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i
metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere
senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso
permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di
discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e
didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
«De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con
tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?»
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile
l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa
valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono
intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare
dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto
malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto
dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle
particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella
pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione
stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e
caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile,
davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione
medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un
soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede
determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste
stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e
lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro
che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in
virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed
attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De
Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa
impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e
scaltrite filosofie dell'educazione. * * * Posto così, il problema dell'
educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche
pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il
formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno
sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione,
certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine «trasmettere» o
«comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire
l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in
maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del
processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora
parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o
cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò
che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la
scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel
significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto
interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto
impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è
impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia
spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato
problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la
difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due
soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa,
e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di
ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo
meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la
maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su
salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza
(mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava
interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a
dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello
stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando,
cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al
discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più
tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la
dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione:
dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la
concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che
immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo
via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al
soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la
sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall'
insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir
meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua
essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che
potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne
aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto
diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una
profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma
inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da
Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella
interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita
attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in
un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava
anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto
soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere
subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e
verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle
nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i
concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De Magistro di
Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si
capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello
nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non
si arresterà poi l'indagine di S. Tommaso, ai particolari problemi della
pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui
s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S.
Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è
possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo
scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende
in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire
tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in
genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o
scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche
ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale,
se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette
la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente
critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente
l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul
linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può
rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva
(spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una
esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica
realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col
dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della
scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta,
tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più
concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa,
per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha
sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od
«oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento
molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non
ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi
accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia
il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia
deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere
che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare
l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché,
effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non
sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete
la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un
segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S.
agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura
del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno
appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo
già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo,
allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se
non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La
parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente,
proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di
copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non
col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i
copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la
prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in
relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri,
per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i
segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere
i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben
lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli
qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire
ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la
possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro
allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere
veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili,
invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della
mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono
date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo
attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose
intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è
questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto
abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio;
chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre,
quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà»
[Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera
e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde
direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo
notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica,
dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana,
sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria
della reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico
maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione
fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto
l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può
insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità,
ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il
fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto
l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la
possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha
preso le mosse, dei rapporti fra maestro e scolaro. Nonostante gli spunti
geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e
tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci
desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è
infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà
precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma
la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non
le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del
problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III
L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il
problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o,
meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a
noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora,
il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare
l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso
le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di
teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più
recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del
Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di
alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci
permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo
il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il
che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che
passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De
unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto
quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le
tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di
polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente
insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è
ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi
problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da
augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla
luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior
esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella
questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella
questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell'
altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra
maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro
uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale
quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più
probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina
averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia
filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a
questa domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità
dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine
all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può
essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo
che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo
come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con
intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina
agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo
già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la
tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella
incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità,
non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie
incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo
benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e
che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi
fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa
essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem
numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si
cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso
Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...»
Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad
sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi
contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo,
ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che
questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema
della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla
polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate,
qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo
intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto
del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel
soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto
unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli
corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che
illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le
differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale
sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può
esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del
pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto
che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima
sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in
quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno
del corpo. Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale
l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze
d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte,
ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più
evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono
trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema
dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è
uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due
soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma
allora ecco risolta quella tal difficoltà della «comunicazione» fra
maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più
bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che
l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso
lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del
maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo
scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa
theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella
scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto
unico. Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il
peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano,
anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera
rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come
Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché
quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già,
filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile
riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di
infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria averroistica
sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa l'autodidattica, che da
Socrate e da Platone in poi si erano fatte energicamente sentire, nella storia
della pedagogia, poiché lo scolaro non vi riceve scienza dal maestro o,
comunque, dal di fuori, ma solo trae da se stesso, o da quell'unico intelletto
che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna. Sì che, in sostanza,
averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono col formare una sola
dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà già sollevate da
Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi, quel
completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana
attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio: il
difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa
trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto
appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un
soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo,
la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino
all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute
medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della
pedagogia moderna. Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un
significato ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro
gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e
negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come
Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano,
aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di
se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà
umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e
all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di
Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non
ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo
punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto
separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari
attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono
sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di
Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente
diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e
cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si sono dati
alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa
prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente
le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il
mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé
indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per
quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare,
l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente
o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei
commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante
posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno
ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio
naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro di S.
Tommaso. IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni
che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina
averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria
dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie
metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1,
l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa
i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza.
Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini
e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa
da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi
nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce
dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et
secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero
aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse
habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc
quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove
bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale
appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a
differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e
molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si
può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro,
non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo
all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire,
s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro
individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non
sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la
scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per
natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel
fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo
che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico;
mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il
maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio
della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e
ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla
luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come
adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua
chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante
a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non
formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali,
viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti particolari, e debbono
poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno
apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la
teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a
coprire col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e
grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa
formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle
singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e
ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè,
di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero,
che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando
l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei
fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione
che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la chiama S.
Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a
questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione
del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per
avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo,
Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico
intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti
bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i
soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire,
«immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità
o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si
chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei
singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile.
Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa
alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare
dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi
argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama
alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria
averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie,
ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel
1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da
una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta
soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro:
identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi
mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e
sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice
che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza -
numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma
che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella
che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum «...docens non dicitur
transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia
quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria
dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema
della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti
pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che
se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in
rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non
è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in
generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa
prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è
Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui
che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato,
considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio,
e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di
idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il
problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che
le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e
da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti
individuali. Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per
criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica,
se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri
credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme,
scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e
venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali:
come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam
vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita,
nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem
manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu
in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della
Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella
secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che
la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod
agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit
materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q.
117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è
efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di
questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia
concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista
se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin
dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè
precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come
sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica. La
dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la
dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto
contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una
idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un
medesimo idealismo. E, infatti, quanto all'insegnamento, che differenza
ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di
stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la
luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e
la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che
il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che
già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe
aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno
che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi
di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa
scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza
oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più
chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e
autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in
senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi
fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la
pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne
è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul
magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal
presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le
difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce,
quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo
scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla
dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale
contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era
proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le
conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce,
non capirà nemmeno i segni. A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro
il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza,
che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che
si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro
in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo
senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé
non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni
concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero
(l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale
offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri
concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi
su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo»
simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio
«apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e
con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più
tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui,
quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con
Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione
fra «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso,
che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due
teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso
completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione
che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si
vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività
dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam
scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare
immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o
le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni
scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti
primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro
concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe
formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali
sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia
escogitato o sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette
note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente,
esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto
vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta
tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in
atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata
o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi,
poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro
sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro
gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza
ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto
possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana:
essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività
sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti
i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che
percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente
nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle
che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre
che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per
mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De
Mag. Art. I (ad XII. mum) «...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia
consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus implicite
continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per officium rationis
ea quae in principiis implicite continentur explicando »]. L'intelletto,
cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante quelli, conosce
tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei primi principi, e
un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica
appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza, come vero, lo conosce
in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il processo del
ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno cose non incluse nei
principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si produrrà in
lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia concesso prima di procedere
oltre, fare un'osservazione: questa teoria di S. Tommaso riguardante i
primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è mai
stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e
radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato
contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un
segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai
potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza
relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome
dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto
dei principi si sono messe le «categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i
momenti e gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più
estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella
dell'«io», resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre,
appunto, in quanto è sembrato che l' «io» solo fosse un principio
immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose potessero esser note
solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente,
con molte parole diverse e qualche asserzione assai discutibile per di più, la
stessa posizione nella quale si trovano i «principi primi» della teoria
tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è dunque tanto «moderna» e
critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare
il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai
principi, della conoscenza intellettuale. Appunto per questo l'attività
intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget... motore) che la faccia
passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo
della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è un
processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da
Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza,
così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto
umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente
nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità:
esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di
tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il
ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo processo di
riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia
perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la maturità mentale
sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai
quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle
conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad
conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S.
Theol. loc. cit]. Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di
conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra
maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi
principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro
animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al
primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi
non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati
che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc.
(primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale»,
di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli
uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche
essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo
» ecc. Processo che S. Tommaso descrive così: «Cum autem aliquis
hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia, quorum
memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam acquirit
scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi
principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad
essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce
la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari
nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato
la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco
un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto,
delle nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa
saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua
osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le
cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales,
quas tamen ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei
aliqua sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex
quibus intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae».
S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del
maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e
strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile,
sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur
senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li
adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo
la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che
da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume
intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa
facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per
intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa
seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la
potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause
seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un
effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche
cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum
quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha
conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser
cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza
di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi
sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto
l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e
platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico,
o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli
agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale.
Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del
maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva
d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore:
nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. * * *
Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e
scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i
puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto? Per
rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che
saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti
all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal
maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio di
un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare,
in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto
materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e
identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una?
Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del
maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè,
le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per
prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma
sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali
persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una
identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha
punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto
materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa
formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria
scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del
maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che
siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente
identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno
nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il
processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della conoscenza.
Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi l'educazione
è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza senza oggetto
proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta. Altro equivoco
simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo scienza da noi
stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col quale apprendiamo
scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire uguale e sottostare
alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di numero. VII
Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato non facendo altro
che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo, il quale,
rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che qualche volta
guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo stesso modo il
maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che aiutare e stimolare
le forze intrinseche dell'organismo intellettuale: l'intelletto, l'esperienza,
l'uso dei primi principi. Il medico per guarir l'ammalato si fonda sulla
conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il maestro per insegnare si
fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali. Anche lo scolaro poteva,
rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero che vi sono sempre stati
degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto che «...in his autem
quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et per eadem media,
quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è ovvio, non vuol
dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica alla natura.
«Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo sanerebbe, così fa
anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la natura. Similmente
avviene pure nell'acquisizione della scienza, che, ricercando e
ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello stesso modo in
cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si cfr. la
traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la somiglianza fra
natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento come
nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o si
possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema della
«comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa, sia
pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche solo provocare
o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua? Ecco, come S.
Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento principale della
comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e siano i «segni»
ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che S. Agostino
aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il carattere sensibile
dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della scienza. Poiché il
«segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è
«sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto
diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità degli oggetti materiali
ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca
piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che
è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di quello che compete
alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma linguistico (parola od
altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o percezioni che ci vengono
dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei concetti nella mente, e,
nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una relazione molto più
immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi concetti.
Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: «il calore dilata i corpi». Che
è quella legge? Niente altro che una «forma». Nella natura é la «forma» di quel
processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella natura, può
esistere solo come esistono in generale le forme in una materia, come
conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere. Nella
natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei
singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la
sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare
a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni
pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto, osservando
prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo
ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge
universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso
condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi
ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione. Si noti, però, la
difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato
sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a
formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne
seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella
«forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma
pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come
concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con
tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono. Ma si prenda, invece, la
stessa legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o
dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi».
Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le
parole. Segni tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi
a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il
calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione
colla legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non
più come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi,
ma come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle
parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne
fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la
legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile
vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma
non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il
calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far
finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il
processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere
turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima
attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la
legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto
regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò
necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a
meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia
lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma,
svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza
l'apprendimento; nell'altro caso, no. È questa, forse, una delle più
originali caratteristiche della pedagogia delineata da S. Tommaso. Per la
quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici,
la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli
oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come
accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi»
escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire
certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta
moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma
fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e
la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che
c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri
oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo
senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto
al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori
dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni
intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole
dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che non i sensibili
che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni
intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita,
vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu
sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones
intelligibiles accipit; quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad
causandum scientiam quam sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt
signa intelligibilium intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire
quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto indice di
vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto,
dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte dalla
materia ed esistenti nella mente: le "specie" o
"intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli
oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere
senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere
dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente,
attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato
finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari
forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo,
è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e
sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo
scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli
elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli
elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può
anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce
se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del
maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e
farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al
nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del
maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che
la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e
valore. È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra
maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati
del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile
del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve
il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme,
il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello
scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non
si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume
intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la
verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo
soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i
primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il
raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il
maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire.
L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli
argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è già un'opera
creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale
e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e
inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla
creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo
qual è il maestro un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col
negargli ogni e qualsiasi attività od operazione. L'arte
dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura
stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una
vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo
assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova
nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e
spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. * * * VIII
Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi
di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere
l'autodidattica non solo un fatto evidentissimo e una realtà
incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni
educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì:
sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno,
maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la
pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il
principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in
ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione
precedente. E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che
c'è fra queste due espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé
ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé»
secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già
visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi. Applicando
tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli
giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente
come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono
solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito
della gravitazione e della dilatazione. È questa, così ottenuta, scienza
vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità
non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto
umano, una continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una
correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza
anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa
costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto
della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione
naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I
(in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con
un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma se questo
processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento»,
o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si
svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme
intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle
forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono
soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di
chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli
non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un
altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso
soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne
consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le
forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come
possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente
esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge
della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei
corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e
non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura
legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non
avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di
parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi
l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina)
per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene
due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di
estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è
caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e
l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale
acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno
per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e
propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto
l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per
potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che
l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non
accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)].
Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una
malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non
contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce
la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio
d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è
necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da
essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente
sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade
soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in
sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà
poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio
è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la
causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile,
contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come
forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo
essere di scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene -
un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al
contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio
in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò,
attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del
semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione
che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria
a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e
giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non
avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste
precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua
cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina
sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più
sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo,
anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver
scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E,
dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi
dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e
il più malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore
difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza
mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in
quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la
scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento»
[De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per
inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur
habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior
per doctrinam»]. Né si creda che quel ridurre a scienza «più
speditamente», sia solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di
principio, così importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso
veramente la differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica
e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o
l'idealismo. C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda,
dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e
notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza
non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento.
Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere
un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai
completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si
svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora,
un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto
realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma
aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto
di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì
potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza
passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di
conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene,
una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar
origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto
antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta,
derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera
l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre,
la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro,
derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di
conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e
dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in
potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme,
già ci vuol la pianta completa. Ecco la differenza fra la scolastica e
l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà
procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o
materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere,
insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un
Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono
eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei
valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio
primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco, quindi, la diversità fra la
doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire»
e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie
filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo
«scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in
realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio
presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto
essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme
stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere,
se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni
scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee,
o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e
modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè
del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha
un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza:
una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più
vicina a quella delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il
genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo
opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma
sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra
irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello
scolaro. * * * Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della
presente trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De
Magistro, che, nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico,
presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento
produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e
proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire
l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed.
«Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a
questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino,
dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che si può
considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la più
rigida e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il
Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché
l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché
la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio
stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo
la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a
tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria
scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai
Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si
estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in
questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo
preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla
operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi,
l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero
umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della
Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente
naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione
e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che
sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il
De Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi
della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e
nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla
quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e
possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della
Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della
Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare,
consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà che questo
metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la
libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente
un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come
l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto
impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata
sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina
rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella
sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un
pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento
della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben
lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto
liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia
moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto
diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché
per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
«medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa,
oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro
caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di
una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa
come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che
s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via
nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e,
viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della
lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma
soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la
pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi
generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro
possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente
costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente
insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti,
mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un
uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì
la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le
specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il
catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte:
avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e
soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di
più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e
commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del
Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole
forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione
divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli,
e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi
scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione
l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i
due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o
entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di
educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella
famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le
arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che
la ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo
caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo,
ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di
nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della
natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un
solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I
quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua
della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo
medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la
preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere
umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica
legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo,
verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo,
s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro
d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora
conosciuto. Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della
educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure
soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto
puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di
attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione
naturale. II Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di
queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise
come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle
quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non
potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad
affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione
sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando
non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le
permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità.
Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani
come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata,
appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e
nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle,
l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la
verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra,
come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o
le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la
natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto
varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i
maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non
si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche
nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità
del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi,
libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa
legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi
naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la
pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia
del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui
attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato
come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento
del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando
«errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe
al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà.
Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté
mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue
Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare
intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi,
giustamente orgogliosi. Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo,
una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé
delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto
spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non
è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie
moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario
all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha
nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento:
afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura
umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a
riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al
bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e
l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il
bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese
o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo
bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una
educazione naturale dell'uomo, ma respinge come assurda e satireggia come
ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un
elemento soprannaturale nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due
cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione
naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi,
sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti
gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli
uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene,
almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua
esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui
tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra.
Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo
ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità,
che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo
all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere
umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è
facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente,
o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità
e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità
delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé,
esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la
delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante
come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si
confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come
lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato
in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da
lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato
i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione
dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole
sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col
quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione.
Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non
è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per
educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che
intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva.
Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a
portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e
alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli
scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci
lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo
facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è
obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci
delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli
ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non
conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non
insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro
innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la serenità soltanto
tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta
dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come
nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in
maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i
fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata
l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine
al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate! Ma poi,
badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che
la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione
universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci,
tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo -
fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io
dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne
smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si
vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo -
uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e
affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose
abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia -
quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere -
l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di
fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far
diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al
vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando
si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei
non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano,
irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la
natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto
educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e
ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa,
inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un
fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora
abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche
di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi.
Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più
facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta.
Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla
mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i
ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non
lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la
chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro
imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi
che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare
andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha
già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle
idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni,
le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il
maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,
sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche
il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di
nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la
parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via. Ebbene,
la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una
critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è
sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà
servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che
si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal
maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno,
atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro»
che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso
all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza
la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito:
procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea
sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo»
che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel
prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della
sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si
rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole»
ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di
immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima
analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione
dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di
un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri
geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere
scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor
oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione
dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in
alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi
privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta
spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni
e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per
ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio
scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare
per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità
pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon
andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano
messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui
l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori
possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi;
supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o
limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità
sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo
conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà
che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un
Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i
più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti
dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un
altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno,
falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita
risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da
circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in
fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i
sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più
ideali e favorevoli condizioni. V Questo, per l'istruzione. Che cosa
bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere,
formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza,
che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro
l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura
umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta
insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per
conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e
atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al
sacrificio, generosi verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà
non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà
dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle
stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già
difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano
ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non
dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti
della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole
che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una
vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando
ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i
precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo
desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non
basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica
una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che
non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza
pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti,
esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati
moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella
educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti
predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la
virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo
necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta
costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo
dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che
l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per
imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee
scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari. Ma
questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad
organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne,
tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i
muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più
specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio
della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria
pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle
conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per
converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia
esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale
teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei
casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che
il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle
piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e
puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare
per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si
tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni,
delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina?
VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare,
emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie,
l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e
morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione:
e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la
civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la
compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale
dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur
difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più
che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte
merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più
cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini
hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a
mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che
di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi
di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può
mai abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in
quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe
giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo
fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi
è che realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose,
l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la
razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed
onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle
loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue
istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono
ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza
sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo
della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire
nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro
pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore
alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la
storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde
nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si
possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così
perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari
è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto
ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi
è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la
ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del
mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro
singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi
oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto
stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore
sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i
dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni.
L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede
dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo
di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per
l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che
dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo
un preciso disegno di cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche
parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione
del genere umano anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma
Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se
l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per
abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della
misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra
possibilità e realtà. La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui.
Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il
divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia con una
Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti morali
onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con una
assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione della
Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua
saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono
garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza
ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine
puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo,
irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente
necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione
naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione
intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione,
necessario di una necessità relativa e morale: utile nello stesso senso
in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una
sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba
indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe accadere
secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto, arresta il
suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la forza da cui
era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La natura umana
tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente educabile e
perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso. Pure, gli
attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle passioni,
dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono tesori
d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare ad un
uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono macchine
complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata quantità di
moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti i corpi,
compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di un
pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i
maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo,
possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che
tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i
suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il
pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di
Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la
corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato,
nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per
l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “
Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga
presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio
rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia
d'oggi.) Domando scusa se sono costretto a incominciare con
l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la
scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai
banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle
persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da
quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali
disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure
che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di
esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza
accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si
va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed
intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa
propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da
noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser
proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone,
ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella
pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in
primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica
scolastica. Ad esempio, per restare nell'ambito di quel che dicevamo poco
prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od
elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la
cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della
scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull'
imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo
ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi
un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo
trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
— forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura
decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili
moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente
pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli
individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per
propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si
contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo
troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire,
ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti
pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo
imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che
è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori
spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio
d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più
svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a
finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti,
leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe
comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta
estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la
proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica
neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non
vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della
riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si
faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto
naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno
agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale
che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi
sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico
l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio
alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo
preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero,
che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere
solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in
Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali
nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo
stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il
necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render
grazie alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è
formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto,
essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere
domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto
dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno
offerto alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo
gravata dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a
ieri, una nuova scuola universitaria? Problema difficile certo, e tale da
render pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in
Italia e del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo
perché non è argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido
a tale uopo nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in
certo modo quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto
quello che la ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto
d'insegnarvi, per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente
pessimista, tutto il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre
finalità, con un differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i
primi rudimenti, ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso
morto e oppressione ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere
se anche con sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la
propria vita. Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e,
direi quasi, un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che
avrete certo visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a
questa parte, in materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo
spirito che v'ha infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi
nel suo seno come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata
sotto le bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati,
ha trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e
dell'operare che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il
cielo e la terra cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé
un Istituto Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica,
voi certo sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e
allargare la cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed
ispettive, sono già compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con
tutta la nostra energia perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono
coloro che plasmano, in sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali
appunto in quelle scuole ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E
chi sono i direttori e gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto
l'organismo delle scuole elementari e, per conseguenza, l'educazione del
popolo. Ora, nessuno può negare che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle
classi dirigenti e l'educazione del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti
riforme delle quali i cattolici non possono in alcun modo disinteressarsi. E
non basta che tali riforme siano ormai sancite da un corpo di leggi del quale
l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma
occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le realizzi nella propria
intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in pochi giorni dalla
malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di secoli. Giacché la
nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo lungo indagare, non
ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva partecipazione delle
classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci sono stati, non meno
numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma solitari,
inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico che
li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si
assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una tradizione.
Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno Stato
moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi personalità
solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente
improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore, costretta a vivere
giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo
prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso dell'analfabetismo
grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o l’avvocato,
l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una certa levatura
non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano, i doveri della
propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le proprie ore
libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario, uscito
dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli ammalati,
coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va acquistando
una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa la fabbrica,
non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la casa di
quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica d'arte. Né
è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere, poniamo, per la
prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche difficile ramo di
ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima vecchiezza
un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi
nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che accadesse,
invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente
quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè, dell'Italia di...
altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la mentalità
democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta facendo
perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E invece,
da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti si sono
trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa incredibile.],
dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici, industriali e
finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni — altro modo
d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il caffè, il
giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere il peggio,
ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di studiare e di
dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda, frequentemente
rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una meraviglia così
ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli, fra il mestiere
dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai esistito il sospetto
d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile esempio viene dato
da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della parola le classi
dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la scuola per la
bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero e i più alti
salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del '20 e del '21
gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a vagabondare, a
gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe costose e
gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro,
inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste
la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel
professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio
lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della
meditazione, «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si
forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità
adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo,
dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi
seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una
vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che
nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei
vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i
ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto
escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi
la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano
necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e
al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla
esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e
sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche
la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e del cinematografo,
della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più
complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari;
ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco
la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità
dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come
meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente
simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli
annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello
«stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla
discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se
non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per
esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e
feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri
pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e
democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di
famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli
trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo
denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese
fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più
andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni
socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi
in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole,
erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse
presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti?
Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come
parlare al muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle
conseguenti bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto
sensibile della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli
articoli e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza
d'un problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta
per altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La
gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia
importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e
ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da
anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra
razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri
provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure
necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni
di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città:
quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono
ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre
nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi
ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto
e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro
popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola,
l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già
bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete
in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel
conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli
ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima
linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta
come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun
carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze,
opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello
spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il
Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le
conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa
farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che
ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere
nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle —
sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un
fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un
più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa
grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che
ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a
questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima
comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre.
Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e
delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili
valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel
contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo
la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema
d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri
pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che
tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle
favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni preoccupazione
estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete, è un programma
di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani generazioni
cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se aggiungo
subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho cercato ora
di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia, essere
abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello alla
coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi annovera
fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura, l'insegnare e
l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre migliori
energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si offrisse adeguato
rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana, ma possiamo
pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro dissidio dai
pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato di pari passo,
e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova che si aspetta
da noi, che è poi la ragione per cui non c'è parsa inutile, fra i troppi
istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro Magistero. Questa
parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico odierno sia
risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non crediamo, cioè,
che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si studia davvero
invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire d'averle educate. Anzi
noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia scuola fosse solo, come
tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e di programmi, a sanar
la quale basti preparare un personale insegnante colto e conscio dei suoi
doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e degli esami,
amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune discipline formative
a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di
prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi
cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero
fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha
troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini
del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della
Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore
Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe
risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la
corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe
stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale
ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene,
l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea
delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato
ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i difetti
che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale: rozzezza,
pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento brutale delle
esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo passa, sempre
più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni dell'anima giovanile è
proprio responsabile questa cultura che agli uomini del Rinascimento pareva
principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la cultura classica, la
preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se stesso, il cerebralismo
della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire
e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le critiche all'umanesmo si
moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il realismo scientifico
s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno
sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione
della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la formazione spirituale di
cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo
s'afferma ancora circondato da riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della
rivoluzione francese, ai positivisti del secolo XIX che annegano la scuola
addirittura in un'orgia di scienze positive, il realismo entra poco a poco,
come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica
di tutte le nazioni civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale,
almeno gli impone, attraverso la filologia che va impregnando di sé
gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi.
Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella
liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai
più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi
trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La
pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo
scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo
letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e
scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei
«fatti» e delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile:
pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo
scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore.
E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un
Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno
simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte
della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro
l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non
diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so
quali principi, onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato;
né essi sono mai tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta
a rivendicare i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica.
E quella rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso
modo con cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei
migliori umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante
i criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come
il segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo
il realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema
pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior
cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo
avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue
classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al
realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione,
della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel
proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui
metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come
“uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli
ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi
ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una
cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella
letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso:
Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise
attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure
per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore:
che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della
sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri,
deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno
egoista? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo
decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo
riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una
cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente
a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri
preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare
a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori;
anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno
all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di
sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non
se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi,
nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare.
L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso
parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura
scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche
tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più
caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est,
vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di
spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre.
Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un
circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una
realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro
forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini
v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in
un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una
cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni
frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni
frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del
mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per
la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per
cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona
infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha
sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana
avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala
infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo
multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità
d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire,
come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza
creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale
nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di
cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera
ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica”
alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può
andar mai disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione
dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre
reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo,
una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura
non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un
problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie
laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella
ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella
“consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo
pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica
via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé
l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque,
degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare?
Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più facile
in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli
forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società
moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche
ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni
della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni
intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del
giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille
servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di
polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un
intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo le
proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle
scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li
lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare,
insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo
antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri
beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è
condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni
dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti
agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia
fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i
lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo
che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra.
Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal
Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla
giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro
intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di
attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che
rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo
è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci
ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e
di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget
semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso,
alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre
rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la
gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava
compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo
aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta
attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per
la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno
per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che
non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al
mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del
lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile
tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da
realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo
numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale
sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio
della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare
colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che
è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben
sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni,
interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior
ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un
cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei
cieli. Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il
Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo
pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col
quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e
fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la
tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio
dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo,
pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali
consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo
che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando
l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante
pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto
filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente
intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato,
direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di
avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate
dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte
d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio.
Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere
aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre
migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere
per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio:
siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo
propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini
naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è
da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale
dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione
della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state già da secoli
implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che
tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura
consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto
indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale
abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione
intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché
cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo,
stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione
della libertà umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste
di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente
osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo
di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei
giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo,
dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a
riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro
di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui
lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della
moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone,
lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei
così detti “divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più
adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha
sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare
come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza
plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non
potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta,
senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è
stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina,
ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti
architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti
potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio,
dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e
delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima
dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i
principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli
illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico,
nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi
concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende
possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma
da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo
aspetto umano e naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un
grandioso dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno
docili strumenti della verità? — Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si
biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del
lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni
medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano
del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi
si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i
pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e
cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le
considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella
parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti
da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non
si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i
manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della
educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza
avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla
propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce
ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti
deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente
stati, i Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera
dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per
l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur
cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni
effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è
mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto
originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella
da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il
domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la
Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno
ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a
qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là
dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena
realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni
insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si
consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una
larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare
sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in
quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene
che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario
e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si
accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica
era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale
pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno
uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si
guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella
formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione
francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella
formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in
quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri
principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia
condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina
ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le
diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal
moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi,
un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una
infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della
sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per
cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di
superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira quando
la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o del
missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni
presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini
anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce
a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia
razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche
nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne
ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della
storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal
turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi
nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la
burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta
ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda
questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una
conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una
conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie
scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il
nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e
sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i
maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi
richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e,
possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie.
Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con
gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose
crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della
pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete
uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole
universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò
è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto
l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome
di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che
creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e
"filosofie" nelle scuole medie L'introduzione dell'insegnamento
religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato
secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e
coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo
di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita
nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli
scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio,
amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto
lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio,
quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo
quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire
maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa
o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica;
cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto
dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa. È
bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i
problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne
condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso
cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di circoscrivere
il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di cui si
parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal considerare
l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non aver impostato
con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema filosofico
che della questione stessa sta al fondo. Per convincersene basta aver la
pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può dire, sulle
bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti — questa dottrina
cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa
forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle
dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo
pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante,
anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che
si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle
Università, ma che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie,
senza ridurre l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote
formule, onde ogni vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual
differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio
del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di
pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza
cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un
unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente,
nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un
momento e un aspetto necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il
filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di
portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo
moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e tenuto
fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte
stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia
moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del
cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo,
segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per
sempre superato. E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già
si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e
il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar
sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun
insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e
che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio
di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari,
tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose
di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non
le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò,
a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni
sacri, all'edificante spettacolo. Ora, i timori - più o meno irragionevoli
- sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile
a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno
trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche
non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla
religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne
faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se
ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste accuse si esamini
spassionatamente il fondamento e il valore, prima di sentenziare. Giacché le
affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non vengono dimostrate si
riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa
eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo
coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze, la moltitudine. Sia
dunque lecito porre, al presente studio, questo fine: domandarsi qual valore
abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora
riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e
dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato
che si dovrebbe inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi
passionali coi quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione
degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza
dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione
a un tale stato di chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa
senza disperati sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle
quali poggia la nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo
errore nel quale ci sia avvenuto d'incappare. I. Cominciamo con
l'osservare subito che la questione che ora c'interessa non riguarda tanto i
rapporti, o i conflitti che possono nascere, nella scuola media, fra
l'insegnamento religioso in quanto puramente tale, e l'insegnamento della
filosofia. Che se il problema fosse questo, molti amerebbero risolverlo, almeno
in pratica, con una pacifica e cortese reciproca neutralità: l'insegnante di
religione insegni la sua religione; l'insegnante di filosofia insegni la sua
filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda, invece che l'insegnamento
della religione e quello della filosofia, due modi diversi di concepire
l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse concezioni della filosofia, o,
meglio, due diverse concezioni della verità, diverse tanto, che non possono
convivere pacificamente fra loro, né stare insieme senza distruggersi a
vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione finisce con l'essere
implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi effetti che quelle due
concezioni producono, e non possono fare a meno di produrre, nel modo stesso di
concepire la religione. Ma quali sono queste due diverse concezioni in
conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo ripetono a sazietà coloro che
formulano, contro la filosofia ispirata al cattolicesimo, quelle obiezioni che
or ora abbiamo sentito. Possibile mai che la verità debba essere qualcosa di
fisso, di statico, d'immobile, definibile una volta per tutte e racchiusa, per
tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di una determinata dottrina? Ma la
verità è invece, progresso, sviluppo, divenire: e, anzi, lo stesso sviluppo e
divenire del pensiero che incessantemente si accresce su sé medesimo, creando
sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna delle quali è un momento e un
aspetto immortale del vero, ma nessuna delle quali può aspirare ad esaurire in
sé la verità tutta quanta. Ecco dunque le cose singolarmente
semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte; verità in continuo
sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte, verità immanente, e
identica col divenire stesso del pensiero dall'altra; verità oggettiva, che il
pensiero filosofico può soltanto scoprire e riconoscere qual è, da una parte;
verità soggettiva, eternamente creata dal pensiero, dall'altra. Per rendere, se
non più semplice, più chiara questa antitesi, molti amano ricorrere alla storia
della filosofia e impersonare in alcuni nomi di filosofi celebri quelle due
diverse concezioni. Kant ed Hegel da una parte e San Tommaso dall'altra, quasi
due mondi l'un contro l'altro armati, la filosofia moderna contro il medioevo e
la filosofia scolastica. Contro, si capisce, per modo di dire poiché, chi
crede tutti i sistemi filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar
l'ostracismo a San Tommaso e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi
come un “momento” della immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di
dire, poiché chi pensa la verità come un continuo sviluppo non può poi, senza
darsi la zappa sui piedi, offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il
kantiano o l'hegeliano, a preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li
pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo,
compreso colui che adesso parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque,
questo appello alla storia della filosofia, se anche non riesce molto a
chiarire - e, anzi, vedremo che intorbida - la questione riesce tuttavia ad
ottenere un altro effetto di maggior vantaggio immediato. Quello di far
apparire manifestamente vera la concezione della verità alla quale si vuol dare
il nome di “moderna”, e, per necessaria conseguenza, manifestamente falsa la
concezione opposta, quella tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia
dire. Secondo tale concezione infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella
di san Tommaso; tutte le altre filosofie, da San Tommaso in poi,
costituirebbero un cumulo di errori, degni soltanto della più lacrimevole
compassione. Per altra parte, al filosofo che si proclamasse oggi scolastico e
cattolico, non rimarrebbe altra missione che quella di ripetere alla lettera
San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo nelle sacre pagine delle due
Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto, colonne d'Ercole oltre le
quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano della verità. Di modo che
il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa imbarazzante condizione:
dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della filosofia, diventata per
lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non è una storia) e di dover,
insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa scientifica nel campo della
filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non ha pregiudizi quanto a
storia della filosofia, che può intendere e ricostruire appieno appunto perché
può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più opposti, persuaso di
trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura può dar sfogo a tutte
le ardite idee e intuizioni geniali, significando liberamente quanto una
prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se così gli paresse,
anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per le magnifiche e
progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi delle platee sono
assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e gl'improperi ricacciano fra
le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato ardire di voler essere
al tempo stesso cattolico e filosofo, o “scolastico”, “tomista” e
filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una semplice
osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa piccola
commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del
filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono
parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera
ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande
effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò
accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in
questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua
asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di
ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser
progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere
ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di
progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.
Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la
filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica,
come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed
artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia
non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se
queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che
vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale
procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero
per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente
quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie. E,
infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener
vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o
irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è
costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa soltanto
un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed
inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale,
qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o
naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti
coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere
di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le
parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per
esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai
dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa
considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che
mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie
dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una
dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché
concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si
possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e
le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza
della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle
parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai
ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si
costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente,
lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a
memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate
idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi
scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia
quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali
il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco
ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo
scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad
imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San
Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e
da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n
positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino,
facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca
(nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano
essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a
conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà
della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver
nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato
vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è
garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto
l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol
quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa fanno, rispetto alla
scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male
intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano,
essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero
ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi
non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale
ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia
scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola,
l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici
d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano,
riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o
libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola
che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla quale, evidentemente, non si
può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla
quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler
indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e
siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni,
e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo
scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la
irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca.
Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse
altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano
vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale
di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non
d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così
com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e
ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo,
sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non
c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma
la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e
respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la
dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o
positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è
sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli
avversari della scolastica si compiacciono d'insistere. Infatti, una
dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che, naturalmente,
in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per forza apparire
un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché colui che esamina
la dottrina proposta non sia in condizione di passare all'interno, cioè
di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina medesima,
persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle espressioni, di
quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi qualcosa di
arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla, imperfezione e
limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente e
tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo
sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine,
idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali,
debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo
appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le
esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica
o positivistica, materialistica o scettica. Il che è ancor più manifesto
quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non
è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze
la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a
imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo
imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol
trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero
umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina,
idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si
dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in
quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara
svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché
il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o
restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni
e formule scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o
formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci
s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O
il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri
ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come
puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne,
in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo
è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri
insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così
come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica
diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la
libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo
e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili
con l’attività e la libertà del pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in
ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali,
per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato
oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia
tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la
loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei
sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di
non credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non
avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche
altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo
medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina
rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior
modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il pensiero sarà addirittura
quello di non formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né
scolastica, né materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe
l'ideale dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati,
legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito,
il difetto d'essere inattuabile. * * * Colla pura e semplice denunzia di
un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e
ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La quale non è un
insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è un vivente
organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono essere,
tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal pretendere
d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non vuole
essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene
ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro
che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La
filosofia scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e
dimostrabile tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a
chi non creda punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure
se una rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni
che si possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia
saldamente stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà.
Questo spiega perché sia molto meglio e più conforme alla precisione
scientifica parlare di filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o
“cattolica”, contenendo questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione
religiosa e alla teologia che non è ancora ammissibile, né dimostrabile,
durante la pura ricerca filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il
vantaggio di definire direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto
dottrinale o speculativo, senza introdurre altri elementi. Che se, ciò
nonostante, è gloria della scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche
l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione cattolica e della teologia
per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai infirmato
l'uso del primo, che vale durante la ricerca filosofica e prima di aver saputo
se c'è ed è possibile una rivelazione religiosa, così come l'altro vale dopo
averlo saputo ed essersi persuasi, cogli argomenti e della filosofia e della
teologia ”fondamentale” o apologetica, che una rivelazione è possibile, e c'è,
ed è proprio la rivelazione cattolica. III. Risulta, dunque, evidente da
quel che si è detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica da parte del
maestro, come per apprenderla da parte del discepolo occorre precisamente tanto
spirito inventivo ed originalità quanta ne occorre per insegnare od apprendere
qualunque altro sistema filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il
mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi
nell'insegnamento della filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi
nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo significa
che non c'è un criterio estrinseco col quale si possa decidere su due piedi
quali filosofie siano per riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali
liberatrici; ma che un tale criterio è soltanto interno, in altro non
consistendo che nella maggiore o minore verità delle filosofie stesse.
Fra le quali, secondo quanto già abbiamo avvertito prima, solo una dottrina
vera sarà sul serio liberatrice, e le altre riusciranno sempre e per forza
oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché solo il vero può imporsi
all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della persuasione, senza
ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle quali, invece,
debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono, dunque,
sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella scuola le
cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica, qualunque sia la
loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di libertà colle quali
si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci ritornati - sembra - al
punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col massimo buon volere,
e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la scolastica, è certo
che proprio in questa diversa concezione del quando e a quali condizioni debba
ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole fra il sistema
scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che la scolastica
introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e di scarso
spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la
scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero
che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per
forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà
medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si
svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola
dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un
atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a
quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico
non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il
filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della
filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a
“crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento,
questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela
almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso
cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran
numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge previsioni.
I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno malinconico - non sono
già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille, che più se ne ha
meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine filosofiche coincida
per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla libertà dello spirito,
mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse come il “progresso” e il
“mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai giorni nostri, e che
nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due ordini di realtà così
diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una dottrina filosofica,
poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si avrebbe ragione di dire che
chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo spazio ch'è al di là dei suoi
confini, come il misantropo che se ne sta dietro i cancelli di casa sua e non
vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è un campo o un orto, bensì un
atto immateriale del pensiero, e in quanto tale non ha altri confini che
il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se riesce a coglierla, essa non si
lascia fuori più niente, né ha bisogno di cercare altrove che in se stessa i
motivi d'un infinito progresso e sviluppo: ché essendo la verità per sua natura
infinita, non c'è mai un momento nel quale si possa dire d'averne esaurito la
conoscenza; ed essendo la filosofia un atto immateriale, non viene mai il
momento in cui si possa metter da parte in un cassetto per riprenderla
meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè pensarla davvero, con una
attività la cui originalità e spontaneità è inesauribile. Approfondire la
verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio l'errore che ci presenta
una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento di sistemi; poiché, dove
la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina
vera, è costretta a cercare un simulacro di progresso nel mutamento, e a
ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti sistemi, della effettiva miseria
inerente alla loro falsità. Per cui dal momento che la verità è una e gli
errori sono molti, le parti vanno invertite e quei filosofi che si vantano di
permettere, anzi, di introdurre nella scuola molte dottrine, o non sanno quel
che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda com'è insegnare l'errore e
mettere al bando la verità. E viceversa, quei filosofi che vogliono nella
scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla loro intelligenza di
filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito sanamente progressivo
e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza della verità.
Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento ha il solito
difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della verità ed
esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser colta da
una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione nel voler
che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non fosse tale che
potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le dottrine, come
appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di sostenere che la
presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici, sia utile e
necessaria? La risposta a questa obiezione non può essere che una sola:
non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le parole
colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso dal
nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli avversari
stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria filosofica
ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la storia della
filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e difendere come
vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i
sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito
argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia
di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto
cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la
contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire
ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia
vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire
distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e
che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia,
cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle
due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano
fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le
filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il
concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma
eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e
allora la loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi
sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la
verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e
precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo,
cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la
filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla
libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché,
però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di scegliersi
il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico, o
almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la
verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo
spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza
possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti
del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti
sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito
ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della
verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar
libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo
con un titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria
intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar
l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in
un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno
alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato,
ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla
resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono
effettivamente il potere. Così la storia della filosofia che i pensatori
moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in
una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la
mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è
sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo
sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà
che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di
Platone, di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di
Spencer, e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del
platonismo, della scolastica e del kantismo, del positivismo e
dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si
riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete
e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer,
sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare un'unica parte, quella del
filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista
consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora,
dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più
moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo
idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la
massima libertà, purché la sostanza sia sempre quella. Ma che volete
farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo idealista - Dal momento che
la dottrina idealistica è la vera e che l'intelletto umano non può, per quanti
sforzi faccia, appagarsi se non del vero, necessariamente in tutti i sistemi
escogitati dalla mente umana per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per
forza, qualche cosa dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro
che metterlo in luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi
credete una dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà
(e sia pur questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il
diritto di giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di
diverso la più intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che
cosa, se non precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte
le altre? Che cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in
quanto sono davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e
fantasmi dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici,
sono, parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente,
consapevolmente o no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non
configurare tutta la storia della filosofia, in quanto storia della scienza
filosofica, e non delle aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e
pratici dello spirito umano, come preparazione, svolgimento, decadenza,
rifioritura ecc. della filosofia scolastica? Ciò posto, non si vede in
che cosa, anche per questa parte, la posizione della scolastica sia inferiore a
quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro sistema filosofico che si
affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi mezzi consentiti dalla
ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più di qualsiasi altro
sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo, dato che una
tale accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è costretta a
poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il
fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono in maggior
numero per l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in epoche
cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel
XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità non ha
nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né si vede perché debba
appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser posseduta, in
forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da pochi o perché un
professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista meglio d'un frate
domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a prescindere da
apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la scolastica ha i suoi
rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo
espressioni volutamente moderatissime - non meno di qualsiasi altro
rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità” filosofica idealistica,
materialistica, pragmatistica e così via. Supponiamo che qualcheduno
dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T.
Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è
arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi antichi, dei Greci, ad
oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte
d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci
farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse
scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo
un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai
progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile e
nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo
del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile
applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia
della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo sistema,
dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti
secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della filosofia e
quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento
individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non
trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo,
mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che
può e deve, quindi, essere trasmessa e progredire. Ma si dimentica che
progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso
filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo
puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni
umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni,
cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale,
intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da
individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce
sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista
sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché
se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere
arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno
d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere
espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi,
il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento
individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la
verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde
segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter
l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché,
nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e
la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non
ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai
grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe
saputo scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi
filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche
che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione
cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le
sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di
filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e
che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo
capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E
può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della
filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo
scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la
vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo
la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta,
invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. * * * IV. Possiamo dunque
riconfermare, senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema
filosofico, idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può,
nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una
verità, la quale necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od
opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre
dottrine si rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito
di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché
contraddittorio, dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa
proposizione risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli
avversari pensano di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando
dalla scuola moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la
scolastica e il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra,
invece, nega il pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi
siete più ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente
consistenza è data dal duplice significato che s'attribuisce al termine
“ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende nel senso di
“condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra volta si prende
nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le condizioni
storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se
si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la scolastica
non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi
altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il
materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e insegnar come vera
la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica a quegli altri
sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri sistemi alla
scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso, allora anche
la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante rassegna di tutti i
sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo, metterli in
bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare
le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo,
corredando il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una
sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la
scolastica, possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di
quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della
formazione mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi
scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non
norunt, quia superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola,
più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si
compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo
scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla
necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto
sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla
storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita.
Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci. Ma l'accusa
del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di
essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si
scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la
maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura
filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle
tenebre della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a
raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi
antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di
richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora
ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è
una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo
di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in
ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di
Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi,
formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita?
Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di
studiare, possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico
dai sistemi filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo
qualche idea così vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni
carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che
l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e bisogna rifarla, o che
ciascuno è libero di seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità
avrebbe certo trovato anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e
larghe. Sì che si può dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine
filosofiche, in quello che hanno di specificatamente filosofico, passano senza
toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla
v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche
se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi
strada da sé ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica,
nei costumi e nelle scienze stesse. Ben più difficile e ben più
intollerante è, invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla
logica, sono costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il
cattolicesimo il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso
esclusivo della verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per
rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada
solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la
maggior parte del genere umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento
della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini,
i quali costituiscono certamente la maggioranza del mondo civile; una religione
che non ha mai cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti
dello spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e
sulla politica, sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle
scienze non meno che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche
sulla formazione del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di
più che le dottrine di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di
intellettuali che le hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una
dottrina falsa, fondata sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come
si spiega la sua vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà
moderna stessa che in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari
rispondono di non aver affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi,
ammettere e spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque
altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo
così come qualunque altro sistema filosofico umano significa, in realtà, non
ammettere affatto il cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di
esso, che prescinde precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di
una Rivelazione divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il
cristianesimo che si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi
sforzi filosofici, non è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che
già sfuma nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur
con diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo
il cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale
tanto poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove
solo attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel
protestantesimo, sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a
tutte le altre filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova
della costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad
afferrare ed assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del
cattolicesimo. E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta
la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per
opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad
esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione
e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico?
Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a
“storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la
filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana
della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di
Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle
tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori
bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal
cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia,
soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che
tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale
concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero
della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di
“moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non
ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel
non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua
rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia
moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica
quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al
pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e
la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si
accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in
sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa
entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del
pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva
simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama
irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto
parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo
oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad
esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero
medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo
storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che
l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il
semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano,
lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza,
volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che
è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di
certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la
scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione
apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile,
ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare,
per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine,
niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e progredire:
«Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus est »: ecco
l'unico programma - il programma della santità cristiana - che consente anche
al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito. Nonostante
ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto disposta ad
aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa
persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone - né
potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede
intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva
delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con
tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più
si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità
e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto
inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura
contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua
educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se
così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno
dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani
trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo
che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia
cattolica Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento
dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo Crispolti, possa
valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che
va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più
immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del Crispolti non
hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una
discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o
dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il Crispolti
onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e nemmeno
professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai alcuna
scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver
appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del
bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto
della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita.
Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni
alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti
alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non
credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per annettere
all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza in materia
educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa; ma quando è
vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope
professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente
del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si
celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone
poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa,
talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da
una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici
forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza,
all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti,
ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a
ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano
col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato
quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa
di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con
piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se
così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero
riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart,
bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici.
Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”,
nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita,
prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente
lievito d'una personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello
spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze
che maturavano nei nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare
il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine
sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo
cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una
presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è
manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno
tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano
lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano,
risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo
stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il
secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema
morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a
penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto
la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che
egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto
filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi”
e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina
religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta
a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se
con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto
metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una
dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della storia
e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del procedimento
prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui c'importa
soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche s'ispirano
infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con mano in
quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla formazione
dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo intellettuale
dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci perché sia un bene
morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba avere un siffatto
influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una educazione che dal
cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga conto solo come uno
fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito umano, alla stessa
stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia, delle antichità
classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei
“primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché
uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato in pieno la
tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto immanentistico
dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa
che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza
moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono
fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che
quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti,
anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo
circostante della cultura e della vita. Si direbbe anzi, più
precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a
quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al
filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di
mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni
snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo, grande
importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non
interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o
rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al
senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di
siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è,
secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la
religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima
analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli
esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il
coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un
villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a
ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi,
o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di
applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste
loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o
cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale,
pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una
conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è
disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche
senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta
di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto,
condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad
esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane
troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o
quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non
essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché
così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo
delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo
religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia
cagione e valore» (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto programma?
Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale
cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana
e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in contraddizione
colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la religione
cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo
ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la grande
preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo
rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere
appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo
d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha
anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente,
consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso
dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della
virtù”, definì or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più recente
speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile
sterminio di tutte le umane passioni e tendenze sulle cui rovine si erga
la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità
stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve
sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi
nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo
concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del
problema, la santità che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non
raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta,
correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro serrate con
un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore
che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono,
nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa,
essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il
sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti
umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da
tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa
complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità,
dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi
d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature
chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio
timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle
qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità
nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca la
difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere
tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a
rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro,
ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a
mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla
puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli
altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di
solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni
metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché
i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e
questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità,
ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali.
Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella
di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don
Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso
di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile
l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli
umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata
educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un
ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in
cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero
voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa
avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il
calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena
che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli
esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più
facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E
allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più
alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato
innanzi alle minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria
coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello
di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché
il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo»
e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili
vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e
la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla
ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di
difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico,
l'educatore dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser
preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale
di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori,
con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche
improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser
battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in
questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei
rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p.
49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene
concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica
immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per
cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova
gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel
significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che
sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o
l'abnegazione od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra
funzione dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore
speculativo, debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto
appunto del loro carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di
orgoglio, compiacenza di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno
passionali» perché presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli
ch'esse offrono, il loro esercizio sempre come un allargamento e una
esaltazione del proprio io. Di contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema
virtù: la santità, l'unica che non si fondi per sussistere sopra siffatto
stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une
per rendere possibile o, comunque, preparare, facilitare, supplire l'altra, significa
da un punto di vista religioso ricorrere già ad una «politica della virtù»: non
perché si sia facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni
come nell'etica immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai
mezzi di educazione umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un
sistema di virtù «umane» e perciò già in sé stesse «passionali».
Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana,
ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di
mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime
eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè,
in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della
consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la
dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta
persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi
del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il
Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale
per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della
pedagogia moderna secondo cui il rinvigorimento del corpo non è già la
formazione del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile
uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli
sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al
qual proposito bene osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di
educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel
titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel
tener sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra
fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù
sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i
giusti limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili
satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione
rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina»
cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case
dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello
religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia
cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana?
«Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo
della stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa
diventi superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia
cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia
ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che
e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico.
L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il
Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e
smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi
scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo
dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella
tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a
Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un
avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di
precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da
non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio
valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a
Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale
assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio,
si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire
la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la
difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di
qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel
mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in
un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa
che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata
umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La
filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di
sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è
tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano
della umiltà. Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale
nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già
abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista
il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle
sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa
a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della
scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del
curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà
cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto
e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza
di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio»
pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che
solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché,
tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di
addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di
rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una
cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto
acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani
alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita
intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure
non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in
cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola
che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti
bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro
senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un
interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni »
(p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina
dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto
con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede
pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei
propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso
bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la
Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema
di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli
esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve
parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei
grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad
esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza
d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo
a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla
conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti,
culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non
può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La
religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti,
crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che
filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi,
vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col
catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare
l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto
nella vita spirituale. Qualcosa di simile al già detto per la cultura
intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà
riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli
della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i
gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che
dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche
una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non
cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi,
poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La
ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere
o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno
sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio.
Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di
buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche
elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi
confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più
dei canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede
abbia fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver
fatto verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a
rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa
della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli
delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce (p. 163). Ciò è
quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha
bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può
dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo
estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero
moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si
pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente
ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte
a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica
moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto
opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle
convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti.
Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad
un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori
classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da
alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti
dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello»
(p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E
inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione
di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche
cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.):
talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici
della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta
riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è
affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di
interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei
grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita. Ma
sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta
finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva
a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico
e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta
ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni
intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel parlare delle
ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e
lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò
riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là
porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi,
scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche.
Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il
Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine
della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per
attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data
dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni
spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più
propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una
concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il
nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità
gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il
legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con
tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la
filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi,
cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la
educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai
accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista
del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi
pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non
è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo
proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente
dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze
filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera
tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al
fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi
moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su
senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del
fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti,
oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco?
Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i
luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di
questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole
esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli
incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di partenza” da
trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a
dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione
assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come
vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di
educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite
precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in
certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e
di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna.
Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene
le ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla
piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una
quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere,
come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere
ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua
lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il pensiero
moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti
naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo
ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini
diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e
di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica
fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato
questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il
Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle
donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il
Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna,
cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo,
«come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di
mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui
l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più
spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del
sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più
docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere
con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente
c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi
indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura
di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella
acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un
padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare
in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non
soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse
verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via
la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro:
per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo
dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole
idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione
per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a
compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il
mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore»
(p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel
far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace
quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del
valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una
difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma
dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con
qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai,
sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore
ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile
rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in
quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella
repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con
l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora
necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra
gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie
di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla
moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i
quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione
mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati,
seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività. Ed eccoci ora al
dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti
torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti
fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la
diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di
pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono
chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso,
la troppo intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del
senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente
senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la
vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata
dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e
nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che
facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici,
nei quali la mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non
acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di
baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle
scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi
istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava
intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi,
che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura
pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando
inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che
possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le
soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le
migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura
stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un
Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e
d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più
vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di
loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove
giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti
sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima
questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se,
invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte
degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione.
Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche
maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo
un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di
quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX
infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi personalità
tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura
diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera pratica (si
pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che siffatte
personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica,
non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi,
prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e
pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio,
dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi
alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se
non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli,
due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, «dove
è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni temperamento
insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che
cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi nel
richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi
anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà
di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento
interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero,
che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis,
potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma
finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso
dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una
realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano
edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità
e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia
pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è
andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento,
innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un
Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte
all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i
suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica
richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di
grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo
meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che
aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di
ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità
per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio
per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la
democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno
attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura
e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche
con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il
suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un
subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della
retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero
e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano
carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come
eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti
pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile
raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti
formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra
anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi
personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare
incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono
spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro
attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato
a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della
sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le
perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze,
dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico
e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è
una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per
sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima
una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio
dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni
ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale
della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi
schemi ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico)
ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica
delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da
formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono
essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino
opposte. L'INSEGNAMENTO RELIGIOSO NELLE SCUOLE ELEMENTARI Non è ancora
spenta l'eco delle discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per
la inaugurazione dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla
quale organi autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia)
hanno recato il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un
dibattito nel quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose
siano lasciate libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di
fuori di ogni altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto
che «I Diritti della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione
in materia, sia pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare
la scuola, e la scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi
aggiungiamo, sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se
così può dirsi, a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto
garbo e molta cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, «I Diritti
della Scuola» che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende
ancora la sua definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva
trattarsi, come pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare
dell'on. Gentile del gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti»,
ispirati a una ben diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico
formalismo» ma «poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento
religioso; e non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure
più edificanti del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro
del maestro. E il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i
«Diritti della Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali
parole: «La tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che
parlasse al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua
dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé
e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella
sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il
proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il
fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a
poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia,
nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo
catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal
sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre
il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come
la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e
forse non deve) dalla lettera dei sacri testi». Noi non vogliamo
rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono
state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che,
quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da
eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro
forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la
religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si
basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come
incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe
minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i
«dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo
«irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della
fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi
assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i
«sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui
egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o
«meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete
rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il
decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della
Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si
voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla
circolare del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e
l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la
teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni
così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con
molto rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola».
Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità
d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a
un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi
cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al
canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma
brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai
sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo,
assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone
davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale
è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre
scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli
apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più
begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come
«canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le persone di più
difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua
opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano
a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale,
del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta
cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione
dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre
scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è
evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una
volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo
nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli
assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo
anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli
elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato
d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia,
quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste,
colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro
pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa
serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la
natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo
«intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei
suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi
illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali
e poeti erano di là da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa
della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe
desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile
zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va
facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società
francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele
Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei
molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto
opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche
ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo
Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa,
mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il
grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie
sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e
giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno
potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa,
che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere
persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le
panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario
a scala ridotta del metodo montessoriano. E passo all'altro,
apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che
sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un
catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la
esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo.
Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene l'altra, a meno di
non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti
puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e
anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei
mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e
praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in
fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di
anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di
sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque,
facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o
comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una
buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia,
cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che
tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze
dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato:
ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza,
si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o
ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del
più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della
transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e
sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne?
Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza
fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum
resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il
catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un
insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo"
condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui
viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta,
costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità
l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi
o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con imparzialità
e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione catechistica
impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero attendere,
la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una società
come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di qualsiasi
didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro troveranno
sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in abbondanza anche
per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che le massime, gli
esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo spesso indifferenti
o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le definizioni
catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il segreto per
avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia, e
perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non
nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino
della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il
decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso
ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al
fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle
cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni,
il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di
molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il
Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il
decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che
nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della
filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il
cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo
duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo
in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto,
la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e confortante:
è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter
introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una
verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono
passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì,
colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che
minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due
bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo
energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano riservate.
Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le ragioni
d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte delle
filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. INDICE 5
Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93
L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie "
nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Il problema della dialettica oxoniense suscita una
difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile che il tutore (Socrate)
comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra
implicare, se non addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi
insormontabile, dato che il termine "tra-smettere" o
"co-municare" o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a
definire l'azione di Socrate su Alcebiade ("conversare") non sembra
possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è
veramente caratteristico del processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di
un oggetto materiale o corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo
ch'esso potesse "co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar
sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense
*ciò che* si "tras-mette" è essenzialmente un valore ideale,
immateriale, non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù,
un contenuto proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E
questo complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
«tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come
Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto
di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del
soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile
che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade! XI suo soggiorno in Italia* Terminata la sua
opera, Schopenhauer non si decise a tornare nel Nirvana, come torse si
sarebbe potuto credere; al contrario senza nem¬ meno aspettare le prove
di stampa, egli partì pel paese più bello e più ottimista che vi sia
sotto il sole, per la. véna terra promessa, per il paese dei paesi, per
la bella Italia, Con ragione si è detto che ! abitu¬ dine di vedere la
vita in nero, sparisce e sembra innaturale sotto il cielo splendido d’im
paese meridionale. Dintorni poco graziosi spesso di¬ ventano Ja causa
d’un falso pessimismo; ma de v ? esser genuino il pes¬ simismo che
persiste anche in un ambiente bello ed incantevole. Il fatto che Schopenhauer
non ismani il suo pessimismo è una prova convin¬ cente, se prova ci
vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo pessimismo era piuttosto
comprensibile nel freddo settentrione; ma é un altro conto ritenerla in
mi paese ove tutto sorride, ove la natura stessa c* invita a prendere con
leggerezza resistenza ed a gettare lon¬ tano da noi ogni cura, ove Paria
stessa respira la leggerezza di cuore, ove il dolce far niente è il
programma di vita degPindigeni, T resoconti del suo viaggio in Italia
sono tutt ? altro che blandi. Schopenhauer, più si faceva vecchio, pili
si rinchiudeva in se stesso, e non vi sono nè giornali nè lettere che
possano colmare questa lacuna nella sua biografia. D’ora innanzi era il
suo espresso desiderio di sfug¬ gire alla pubblicità. Non voglio che la
mia vita privata formi mPesea « per la curiosità fredda e maliziosa del
pubblico », così rispose molti anni più tardi a coloro che lo esortavano
a fornire maggiori informa’ zioni su se stesso ai dizionari biografici. I
suoi notiziari presero il posto del giornale, ma siccome contengono
piuttosto riflessioni suggerite dagli avvenimenti senza raccontare
.questi, non spargono sugl 5 incidenti del suo viaggio che poca
luce. Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3 avere scritto
una gran¬ d'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il risultato.
Non era tanto indifferente in quanto alla accoglienza della sua opera
quanto voleva far credere. Il trattato sulla Quadruplice
Radice era stato ben accolto dai cri- 74 ARTURO
SCHOPENHAUER tiei, -ed. aveva chiamato all 5 autore l’attenzione
generale più di quanto sogliono farlo le dissertazioni universitarie; era
giustificabile che spe¬ rasse che la sua opera maggiore dovesse suscitare
almeno lo stesso in¬ teresse. Egli corresse le prove di stampa che gii
furono mandate ed a petto k pubblicazione, sfogando intanto i suoi
sentimenti in linguag¬ gio poetico. Unv er schami e Vers
e. A us ] anggehegten, tiefgefuhlten Schmerzen Wand sich’s
einpor aus meinetn innern Herzen, Es festzuhaHen haMch lang
gemngen, I>och weiss ich, dasz zuletzt es mir gelungen.
Mogi Euch drtim irnrner, wie Ilir wollt, gebar cleri, Des
Werkes Le ben kòimt ihr nìcht gefahrden; Àufh&ffieii kònnt
Ilir's, mirini ermehr vernichterq Ein Denkrnrj! wird die Nachwelt mir
ernchten. Nel frattempo visitava le principali città <MP Italia
settentrionale; frequentava i musei ed il teatro, continuando a studiare
la lingua ita¬ liana die egli già sapeva assai bene. E* in Italia die
egli s 5 invaghì cosi profondamente della musica di Rossini, di cui
andava spesso a sentire le opere. Degli autori italiani egli predilìgeva,
-— ed è questo un fatto abbastanza curioso, — il Petrarca, il poeta di
Laura e dell 5 amore. « Fra tutti gli scrittori italiani, preferisco
il mio caro Petrarca. « Non vi e in tutto il mondo un poeta che lo abbia
mai superato nella « profondità e nell’ardore del sentimento; le sue
parole vi vanno dritto a al cuore. Per' ciò in preferisco i suoi sonetti,
i suoi trionfi e le sue can- a zoili alle follie fantastiche dell 5
Ariosto ed alle orrende contorsioni di « Dante. Trovo il fiume naturale
delle parole, che sgorgano dal cuore, « molto più opportuno del
linguaggio ricercato ed affettato di Dante, a Petrarca è sempre stato e
rimarrà per sempre il poeta del mio cuore. « Quello che concorre a
confermarmi nella mia opinione è il tempo a presente, a quanto pare,
tanto perfetto che osa parlare con disprezzo a di Petrarca. T T na prova
sufficiente sarebbe il confronto di Dante e « Petrarca nel loro costume
intimo e non ricercato, cioè in prosa, eon- K frontando per esempio i bei
libri di Petrarca, ricchi di pensieri e di « verità, De \ ita
solittì-rui, De Coafemptu mundi, De rimediu ufrius- z que fortume eoe., colla
scolastica sterile ed asciutta di Dante ». Dante coi suoi modi
didattici non corrispondeva al gusto rii Scho¬ penhauer che considerava
tutto Pinfenio come un’apoteosi della cru¬ deltà. ed il penultimo canto
come una glorificazione della mancanza del sentimento d’onore e di
coscienza. Non aveva neppure alcun affetto per Ariosto e Boccaccio; anzi
più volte espresse la sua meraviglia in quanto alla fama europea di
quest’ultimo, il quale dopo tutto non aveva scritto che Delle ehtonique.s
scandaleuse*. Gli piacevano PAlfieri ed il Tasso, SUA
VITA E SUA FILOSOFIA 75 ma li considerava come autori
tli seeoncVordine; egli non riteneva il Tasso degno d'essere posto come
quarto in una linea coi tre grandi poeti italiani. Per quanto
riguardava Parte, egli si sentiva maggiormente attirato dalla scultura e
dall'arekitettura che dalla pittura. Ciò non potrebbe sorprendere e non
sarebbe in contraddizione coll 1 indole generale della sua mente* se la
sua intimità con Goethe non lo avesse fatto entrare nello studio dei
colori. Schopenhauer non volle mai ammettere che i due anni possati
in Italia fossero stati per lui due anni felici, sosteneva, che mentre
gli altri viaggiavano per divertimento, egli lo faceva per raccogliere
nuovi ma¬ teriali in appoggio del suo sistema, e nel suo notiziario
scrisse has- stoma di Aristotile : 6 TQ aAuTCtfO orò TU
fiSìl. Però ricordava con piacere questi due anni, dico con piacere
e s'in¬ tende fin dove Schopenhauer ammetteva il piacere; negli ultimi
giorni della sua vita non poteva mai menzionare Venezia senza che la sua
voce tremasse, il che prova che Pamore che ivi lo tenne stretto, non era
inte¬ ramente dimenticato, sebbene fosse morto. Senza dubbio, la
seguente nota scritta a Bologna in data del 19 novembre 1818 tradisce
qualche contentezza. « Appunto perchè ogni felicità è
negativa, accade che non ce ne « avvertiamo affatto, quando ci troviamo
in uno stato di benessere; la¬ ti sciamo tutto passare dinanzi a noi
liscio, e con dolcezza fino a che tf questo stato è passato. La perdita
soltanto* che ci si fa sentire con « chiarezza, pone in rilievo la
felicità, svanita; è allora soltanto che ci a accorgiamo di ciò che
abbiamo trascurato di assicurarci, ed il rimorso « si aggiunge alla
privazione, b Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia-
In quel tempo vi era anche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili.
E J strano che essi non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel
genio di Byron la più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi
sarebbero an¬ dati d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè
Leopardi. Un dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il
giovane conte era¬ no confrontati, fu pubblicato nella rivista
contemporanea del 1858, e Schopenhauer non si diede pace prima che non sì
fosse assicurato di averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf
azione il trovarsi asso¬ ciato col giovane che egli ammirava così
profondamente (ed a cui, dicia¬ molo tra parentesi, Io scrittore De Sanctis,
non ha reso giustizia); gran parte della sua soddisfazione, proveniva
vinche dal fatto die egli vedeva elio la sua filosofia si era fatto
strada fino in Italia. Non avveniva spes¬ so che egli fosse contento di
quanto sì scriveva sulle sue opere, non tro¬ vava mai che lo avessero
letto con sufficiente attenzione; ma quest 1 uo¬ mo, così diceva, lo
aveva assorbito in sucóurn et tangm nem . 76
ARTURO SCHOPENHAUER Quando -Schopenhauer arrivò a Venezia per la
prima Tolta, e pii scrisse : « chiunque si trova repenti nani ente
trasferito in un contrada « totalmente straniera, ove prevale un modo di
vivere e di parlare dif- « ferente da quello a cui e pii è abituato, ha
il sentimento di chi ina- « spettata mente ha messo il piede nel F acqua
fredda. Egli avverte su- « bito la differenza di tempera tura, sente una
forte influenza che agi- « sce dal di fuori e che lo rende infelice; egli
si trova in un elemento « estraneo in cui non sa muoversi comodamente, A
questo si aggiunga « che egli si accorge come ogni cosa attira la sua
attenzione e che teme « di essere a ne Ir e gl i osservato da tutti. Ma
dal momento che si è eal- « maio, che ha incominciato ad assorbire la.
nuova temperatura e ad « abituarsi al nuovo ambiente, egli si trova bene
come difatti si trova « un uomo nell* a equa fresca. Egli si è assimilato
a!1 J elemento, ed averir « do perciò cessato di occuparsi della propria
persona, rivolge la sua a attenzione esclusivamente a ciò che lo
circonda: ed ora, appunto per- « che lo contempla con oggettività
neutrale, egli si sente superiore al « suo ambiente come prima se ne
sentiva schiacciato, « Viaggiando le impressioni dlogni genere
abbondano, ed il nutria s mento intellettuale ci viene in tale quantità
che non ci rimane tempo c per la digestione. Ci rincresce che le
impressioni le quali si succedono a rapidamente non possano lasciare una
impronta permanente. In real- tà però avviene qui quello che ci accade
quando leggiamo. Quante «* volte ci lamentiamo di non essere capaci di
ritenere la millesima par- «te di quanto abbiamo letto! W confortante
però in ognuno dei due « casi il sapere che ciò che abbiamo visto e
letto, ha fatto sulla nostra « mente un'impressione, prima d'essere
dimenticato, impressione che « concorre a formare e nutrire la mente,
mentre ciò che riteniamo a « memoria serve soltanto a riempire i vuoti
della testa con materie che « ci rimangono sempre estranee, perchè non le
abbiamo mai assorbite; « il recipiente dunque potrebbe anche essere rimasto
vuoto come prima. » Schopenhauer era d’opinione elle, viaggiando,
possiamo riconosce- re quanto areno radicate le opinioni pubbliche e
nazionali., e quanto sia difficile di cambiare il modo di pensare d T un
popolo, « Mentre cerchiamo d'evitare uno scoglio, ne incontriamo un
altro; « mentre fuggiamo i pensieri nazionali di un paese, in un secondo
ne « troviamo degli altri, ma non dei migliori. Il cielo ci liberi da
questa « valle di miseria! « \ i a gg ian do veci i a m o 1 a
v ita u ma n a s ot t o ni olle fori n e dive rs e : « ed è questo
appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma, ving- « g i a n d o,
non v e d i a m o c he il lato esteriore del la v if a u ni a n a ; cioè
ne « scorgiamo soltanto quello che se ne vede generalmente. D'altra
parte « non vediamo mai la vita interiore del popolo, il suo cuore ed il
suo « centro, cioè il campo in cui Vazione del popolo si svolge, in cui
il «suo carattere si manifesta,,., quindi,, viaggiando, vediamo il
mondo SUA VITA E SUA FILOSOFIA 77
a come un paesaggio dipinto con un orizzonte vasto che abbraccia
molte <i cose, ma che non li a personaggi spiccati. Di lì, nasce pure
la stan¬ tìi ehezza del viaggio. » Schopenhauer studiò
profondamente gl’Italiani, i loro costumi e la loro religione. Di
quest’ultima dice: La religione cattolica è un ordine per ottenere
il cielo mendicando, giacche sarebbe troppo disturbo doverlo guadagnare.
I preti sono i me¬ diatori di questa transazione. « Ogni
religione positiva dopo tutto non fa che usurpare il trono « che per
diritto spetta alla filosofia ; i filosofi quindi la coniti attera uno a
sempre, anche se dovessero considerarla come un male neccessario ed «
inevitabile, un appoggio per la debolezza morbosa della maggior pur- « te
degli uomini. a La nuda verità non ha la forza di frenare le menti
rozze e di co¬ te stringerle ad astenersi dal male e dalla crudeltà
giacche esse non san¬ ti no afferrare queste verità. Di lì il bisogno di
storne, di parabole e di « dottrine positive. « In dicembre
ièlS la sua grande opera vide la luce per la prima volta. Schopenhauer ne
mandò una copia a Goethe. Poi nella prima¬ vera del 1819, egli si
trasferì a Napoli; Goethe accusò ricevuta del do¬ no per mezzo di Adele
Schopenhauer, una delle predilette del vecchio poeta. «
Goethe ha ricevuto il tuo libro con grande piacere, scrive Adele, a Egli
immediata mente divise V opera voluminosa in due parti e cornili- « ciò a
leggerla. Un’ora dopo egli mi mandò il biglietto qui unito, di- « eendomi
che egli ti ringraziava molto e credeva che tutto il libro .do- « vesso
esser buono, giacche aveva sempre la fortuna di aprire i libri « nei
posti più notevoli; così egli mi disse d'avere letto le pagine indi- «
caie (pag. 22 e pag. 340 della prima edizione,) ed egli spera di po- «
ferii scrivere quanto prima la sua opinione completa. Intanto egli «
desiderava che io ti dicessi questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi dis- «
se che il di lei padre leggeva il tuo libro con un interesse che lessa «
fino allora non aveva mai osservato in lui. Egli le Ka detto che ora ave-
« va. un divertimento per tutto ranno, giacché intendeva leggere il tuo
libro da capo in fondo e credeva che ciò lo avrebbe occupato per un «
anno. Disse a me ch’egli si sentiva proprio felice di saperti sempre « a
lui devoto, nonostante il vostro disaccordo sulla teoria dei colori. «
Disse pure che nel tuo libro gli piaceva sopra tutto la chiarezza della «
rappresentazione e del linguaggio, sebbene la tua lingua differisce da
quella degli altri e che occorresse prima avvezzarsi a chiamare le « cose
come tu lo vuoi. « ila, continuò, quando una volta si é pervenuto a
queste, allora « la lettura procede con facilità e comodo. Anche la
disposizione della « materia gli piaceva ; solfante la forma
immaneggiabile del libro non 78 ARTURO
SC1-10PENHAU£R a gli dava pace, e si convinse che F opera dovesse
consìstere di due vo- a fumi* Spero di rivederlo solo ed allora egli mi
dirà iorse qualche cosa « di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il
solo autore che Goethe « legga in questo modo e con tanta serietà*
» Nondimeno Schopenhauer ritenne F opinione che Goethe non lo
legasse con sufficiente attenzione ; che il poeta avesse già speso il po~
co interesse che aveva per le questioni filosofiche* A Napoli
Schopenhauer fu principalmente in rapporto con giovani inglesi.
L’elemento inglese aveva per lui, durante tutta la sua vita, un fascino
speciale; credeva che gl"Inglesi erano quasi giunti ad esse)e il più
gran popolo del mondo, e che soltanto alcuni loro pregiudizi si
opponevano, acciocché infatti lo fossero. La sua cognizione della loro
lingua ed il suo accento erano tanto perfetti che anche gl T Inglesi
stessi per- qualche tempo lo prendevano per un loro cOmpatriftta, un errore
die sempre lo esaltava* Tutto quanto vide, concorse a confermare ed
a sviluppare il suo sistema filosofico * Rimase specialmente colpito dal
quadro di un gio¬ vane artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte
; di questo quadro illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le
lagrime che, secondo il nostro filosofo, si spargono sempre per
compassione di sé stesso* Il quadro rappresentava, il passo dell 1
Odissea, ove Ulisse piange alla Cor¬ te di re Alcinoo, il feaco, sentendo
cantare le proprie sventure, « Questa « è Fespressione più alta idi e
possa avere la compassione di se stesso. » Schopenhauer aveva oramai
raggiunto la piena maturità e forza dell’uomo. Secondò lui il genio
dell’uomo non dura più della bellezza delle donne, cioè quindici anni,
dal ventesimo al trentesimo quinto* & La ventina e la prima parte
della trentina sono per Fintelletto quello « che è il 'uose di maggio per
gii alberi, questi durante la stagione prh <t maverile emettono
soltanto dei bottoni che poi diventano frutti* » L’esteriore, di
Schopenhauer doveva essere caratteristico, ma la sua bel¬ lezza stava
nell 9 animo e non nella faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti anche
nella vecchiaia, nella gioventù rischiaravano quella testa poten¬ te col
loro sguardo acuto e limpido. Verso quel tempo un vecchio si¬ gnore* a
lui perfettamente estraneo, gli si accosto in istrada per dirgli che
egli, Schopenhauer, sarebbe stato un giorno un grand’uomo* An¬ che un
Italiano, che pure non lo conosceva, venne da lui e gli disse: € Signore,
lei deve aver fatto qualche grande opera; non so cosa sia, a ma lo vedo
nel suo viso* » Un Francese che alla tal)le cVhote, gli sede¬ va
dirimpetto, ad un tratto esclamò: « Je ooudrais savori- ce qu il penr- «
se de nous autres j nous devom par altre hien ■ petit s à ses yeiux ! ?>
Un giovane Inglese rifiutò assolutamente di cambiare posto con le
parole: « Yoglio stare qui, perchè mi piace vedere la sua faccia
intelligente. » Nel riposo egli rassomiglia va a Beethoven; entrambi
avevano la stessa testa quadrata, ma il cranio di Schopenhauer dev’essere
stato SUA VITA E SUA FILOSOFIA 79
piu grande come lo prova la misura elle ne fu presa dopo la sua
morie e che recai un’idea delle prò pozioni straordinarie eli questa
testa, E no¬ tevole la distanza che correva tra un occhio e V altro; egli
non poteva portare occhiali ordinari. Era di statura media, tarchiata e
muscolosa , aveva le spalle larghe ; In sua bella testa era portata da un
collo troppo breve per esser bello* Capelli biondi e ricci Liti
circondavano la sua fron¬ te e cadevano sulle sue spalle; quando era
giovane, mustacchi biondi coprivano la sua bocca ben formata, che
coll'accrescersi degli anni perdette la sua bellezza a misura che perdeva
i denti. Il suo naso era di bellezza speciale e cosi pure le sue piccole
mani* Egli stesso faceva una distinzione fra la fisionomia, intelletuale
e morale à- un uomo; cer¬ cava la prima nelPocchio e nella fronte, la
seconda nelle forme della bocca e del mento. Era soddisfatto della sua
fisionomia intellettuale, ma non della sua fisionomia morale* Vestiva
sempre bene e con elegan¬ za, il.suo contegno era aristocratico e
leggermente altero. Portava Seni¬ li re V abito, cravatta bianca e
scarpe; i suoi abiti erano sempre dello stesso taglio senza riguardo alla
moda, eppure egli non pareva mai stra¬ no, talmente aveva adattato il
vestito alla persona. He il popolo in istra¬ da spesso lo seguiva collo
sguardo, ne era causa il suo esteriore animato dal fuoco dei genio, e non
il suo vestito. Più tardi fu fatto il suo ri¬ tratto con la fotografia e
colla pittura; la tradizione soltanto ci parla dèi suo esteriore, quando
era nel fiore degli anni virili. Velia biografia, del laborioso
antiquario e storico I. E. Bolline! tro¬ viamo runica menzione fatta del
viaggio di Schopenhauer a Roma. Allora era un'epoca di misticismo per
Parte e per la religione della Germania, epoca che produsse nella storia
un Biniseli, nell’arte un Cornelius ed un Qverbeck. I giovani artisti
tedeschi, chiamati dal loro console ad ornare la di lui villa sul monte
Pine io, avevano l'abitudine di riunirsi quotidianamente con certi poeti
e giornalisti nel caffè Greco, diventato il punto d'incontro per tutti i
Tedeschi di Bontà. Il poeta Ruekert ed il novelliere L, Schefer,
ottimisti per professione, frequen¬ tavano allora quella- casa. Molti
degli uomini più importanti della Ger¬ mania allora viventi, si trovavano
nella eterna città. Schopenhauer, come gli altri, frequentava il caffè
Greco, ma pare che il suo spirito mefistofelico fosse un elemento
disturbatore per i visitatori ordinari che desideravano che egli si
allontanasse* Un giorno egli annunciò alla società che la nazione tedesca
era la più stupida di tutte, ma che era in un punto a tutte superiore,
cioè che era arrivata al pùnto di poter fare a meno della religione.
Questa osservazione suscitò una tempesta ili disapprovazioni, ed alcune
voci gridarono: fuori! alla porta met¬ tetelo fuori ! Dà quel giorno in
poi il filosofo evitò il caffè Greco, ina le sue opinioni sui Tedeschi
rimasero inalterate. « La patria tedesca * in me non si è allevato un
patriota », disse un giorno ; e spesso anda¬ va dicendo ai suoi compatì
lotti * a Francesi ed a Inglesi che egli si ver- 80
ARTURO SCHOPENHAUER goigmva di essere Tedesco, piaceli è
questo popolo era tanto stupido, a Se « io pensassi così della mia
nazione », rispose un Francese, « almeno « non lo direi. » «
Questo Schopenhauer è un sala miste) (N&rr) insopportabile », scrive
Bòhmer. « Questi filosofi antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero «
essere tutti quanti rinchiusi pei bene comune, » Schopenhauer non
menava una vita santa ed ascetica, uè pretese die gli altri lo
credessero. Egli sprezzava le donne; considerava ibi more sessuale come
una delle manifestazioni più caratteristiche della volon¬ tà; tuttavia
non era dissoluto. Sospirava con Byron : «Più che vedo « gli uomini meno
mi piacciono; tutto sarebbe bene se potessi dire lo « stesso delle donne.
» Egli differiva dagli uomini ordinari, parlando di ciò che gli altri
sopprimono. I suoi discepoli troppo zelanti die cre¬ devano vedere
qualcosa di divino in tutte le sue azioni, trassero alla luce del giorno
anche questi suoi discorsi e quindi attirarono sul mae¬ stro
un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le idee di Schopen- haner
coincidevano con questa osservazione di Buddha ; « Non v ? è pas- « sione
più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa nessun’ultra «merita
d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di questa forza, « per la
carne non vi sarebbe più salute ! » E di lì nacque senza dub¬ bio il
timore di Sdì operili auer « di non poter raggiungere il Nirvana », come
egli disse con rincrescimento al dottor Grwinner. In mezzo a questi
trastulli leggeri colla bellezza femminile gli giunse ad un tratto la
notizia che V antica ditta di Danzi e a, in cui era implicata gran parte
della sua sostanza e tutta quella di sua madre, era minacciata di
bancarotta. Senza indugio si trasferì in Germania; ia perdita del suo
avere era il male che Schopenhauer temeva maggior- mente., il male che
egli sapeva di poter sopportare più difficilmente, tenuto calcolo del suo
temperamento. Egli non era adatto a guada' gnarsi il. pane; la sua intelligenza
non era di quelle che si possono dare in affitto. L’indipendenza
materiale che egli aveva ereditata gli parve sempre uno dei più grandi
beni della sua vita, dacché s ! era tutto dedi¬ cato a ? suoi
studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on (lem was Einer hai , egli
scrive : « Non. istimo indegno della mia penna di raccomandare hi
cura « della fortuna che si è acquistata per lavoro o per eredità. E 5 un
van- « faggio inapprezzabile il possedere fin da principio quanto occorre
per « vivere, sia anche solo e senza famiglia, comodamente ed in vera
im.1L « p e n d e n z a, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; q uè s t o s ta to
re n d e huomn esente ed « immune dalla privazione e quindi dalla servitù
universale, sorte ca¬ ie ninne dei mortali. Colui soltanto che dal
destino fu favorito in questo « modo è veramente nato uomo libero,
giacché soltanto egli è vwr j.arix, « padrone del suo tempo e delle sue
facoltà e può dire ogni mattina ; il « giorno è mio. Per questa ragione
la differenza tra colui che hn mille SUA VITA E SUA
FILOSOFIA ai a scudi d’entrata e colui clie ne La
centomila- è molto minore di quella « che corre tra il primo e colui che
non La nulla. La fortuna ereditari si « acquista un sommo valore, quando
cade in mano ad un uomo il quale, « dotato di capacità
intellettuali d’ordine elevato, segue tendenze in- « compatibili col
lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo ricevette da! « destino un
doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma egli coni¬ ti pensa cento
volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando cosa « che nessun
altro potrebbe effettuare, e producendo qualcosa pel bene « ed anzi per V
onore comuni, TTn altro in questa condizione privile- « gìata con
tendenze filantropi eh e saprà meritarsi la gratitudine d el¬ ee
l’umanità. D’altra parte sarà un pigro spregevole colui che si tro¬ te va
in possesso d’ una fortuna ereditaria e non cerca in nessun modo, «
neppure acquistando a fondo qualche scienza, di rendersi utile al- « r
umanità, » a Questo ora- è riservato al più alto grado di
perfezione iute Ilei- ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il
genio solo si occupa escili- sivamente dell’esistenza e della natura
delle cose, per poi esprimere a i suoi concetti profondi, secondo la propria
inclinazione, per mezzo <* dell’arte, della poesia e della filosofia.
Pei uno spirito di questo ge- « nere il commercio non interrotto con sé
stesso, co’ suoi pensieri e colle « sue opere è un bisogno urgente. Ad
esso è cara la. solitudine, e l’ozio « è il suo bene maggiore; il resto
non gli è indispensabile, anzi talvol- « ta gli è gravoso. Di tal uomo
soltanto possiamo dire con ragione che « abbia in sé stesso il suo punto
di gravità. Cosi si spiega perchè queste « persone tanto rare, anche se
hanno il miglior carattere del mondo, « non mostrano per gli amici, per
la famiglia e pel bene comune quella a -simpatia ardente ed illimitata,
di cui dispongono tanti altri; giacche « dopo tutto possono consolarsi
d’ogin cosa finché hanno sé stessi* In « loro vive un elemento
d'isolazione tanto più attivo quanto meno gli «altri possano dar loro
soddisfazione; questi altri uomini, essi non li « considerano interamente
come loro pan; e dal momento che corniti- « ciano a vedere che tutto a
loro è eterogeneo, prendono V abitudine di « camminare in mezzo agli nomi
ni, come se questi fossero esseri da loro « diversi; nei loro pensieri ne
parlano come di terze persone, dicendo: « essi, loro , e mai noi...
« Tln uomo munito di questa ricchezza interiore non chiede al mon-
« do esterno nulla, all* infuori d'un dono negativo, cioè la libertà di
svi- « lappare e di migliorare le sue facoltà intellettuali, di godere la
sua « ricchezza interiore, vale a dire di essere interamente a sé in ogni
gioì■ « no. in ogni ora e durante tutta la sua vita. Quando un uomo è
desti- « nato a lasciare l’impronta del suo intelletto all’intera razza
umana, « egli non può conoscere che una sola gioia, cioè quella di vedere
le « sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di compiere
l’opera e sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito. Ogni
altra, cosa 6 - SCHOPENHAUER S3
ARTURO SCHOPENHAUER « è insignificante ; e intatti troviamo
clic in tutti i tempi le menti più *; elevate abbiano pregiato sopra ogni
altra cosa E ozio, ed il valore di « quest'ozio equivale appunto al
valore deli-uomo stesso. » Volentieri Schopenhauer citava questa
massima di Mienstone : la libertà è un cordiale più fortificante del
Tokay, Pieno dei più cupi presentimenti egli si portò con fretta in
(xer - mania, (tra zi e alla sua- energia e alla siili diffidenza d ogni
prò Fessio- nej riuscì a salvare la maggior parte della propria sostanza.
Sua in mire non volle prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe
finale essa ed Adele rimasero quasi senza un centesimo,
Questo incidente dimostra die Schopenhauer non era filosofo
(/truche e poco pratico; egli certamente non avrebbe inciampalo,
guardando cri ammirando le stelle ; al genio egli univa il senso pratico,
una combina¬ zione molto rara, la cui origine egli faceva risalire a suo
padre nego¬ ziante. Ed è questa qualità che fa di Schopenhauer il vero
filosofo pei bisogni d’ogrii giorno, lasciando da parte il -suo
pessimismo. Egli aveva vissuto nel mondo e non era uno di quegli studiosi
che vivono rinchiu¬ si nel loro studio ; egli conosceva i bisogni e le
richieste del mondo i suoi aforismi ed assiomi non sono troppo elevati
per essere messi in pratica s oltreché sono esposti in linguaggio chiaro
ed intelligibile ed esprimono spesso le percezioni d’ogni mente che
pensa. Though man a tlilnkmg being is ci e fine d, Few
use thè great prerogative oi minti; How few thiiik jusUy oì thè
tliiriking few; II ow manv n e ver inmk, who think they do.
Sfortunata incute il loro numero è infinito ed a loro non occorre
nè filosofo, nè poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella vita una
guida sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate si
tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die
welt as will –volere – filosofia fascista -- la volonta di potere, un invento della
sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casotti” – The Swimming-Pool Library
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714156301/in/photolist-2mSSQnN-2mMNyYv/
Castelli
Grice e Castrucci – il guerriero
indo-germanico -- sul conferimento di valore – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Monterosso al Mare). Filosofo. Grice: “Castrucci is wrong.”
Frequenta il liceo classico di La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove
si è formato negli studi filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola
di Vallauri e di Grossi, laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in
quell'ateneo il ruolo di ricercatore universitario di filosofia del diritto. A
Firenze è entrato in contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con
l'area di Autonomia Operaia espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza
ha scritto la sua tesi di laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze).
Insegna a Genova e Siena. I suoi studi riguardano principalmente la
filosofia politica e la storia delle idee giuridiche, avendo come oggetto
alcuni aspetti costitutivi della dimensione contemporanea, tra i quali si
possono ricordare: i presupposti antropologici del politico; i fondamenti dello
jus publicum europaeum, la critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua
ricerca riguarda inoltre le origini e le forme del pensiero giuridico europeo
moderno, la ricostruzione delle linee fondamentali della teoria dello Stato
tedesca del primo XX secolo, le radici giuridiche e teologiche della tradizione
culturale dell'Occidente. Castrucci ne ha sviluppato autonomamente la
concezione del manierismo politico nei propri scritti sulla filosofia politica
convenzionalista del XVII secolo. Nel corso della sua ricerca ha approfondito in particolar modo filoni di
pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice europea, contribuendo
inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del nomos della terra,
con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e di Legge e
giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi
rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza
kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del
diritto. Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di
potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di
un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come
acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità:
Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del
Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento
materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di
appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e
comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento
all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata
da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già
rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.
L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare,
seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura,
una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva
concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla
"nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi
particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci,
la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste,
l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori
classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e
Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas,
nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un
mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno suscitato polemiche
alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre col quale si riferiva a figure storiche
naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di
Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere
che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il
mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo
la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri,
ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti
nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex
Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver
semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori
della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e
successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai
aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore,
sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e
paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande
speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver
"dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla
gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in
procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole
del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di
negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla
Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare
sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al
licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento
presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per
motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero
decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il
pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la
decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul
conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del
diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la
proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma
giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La
scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria
politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano,
Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione
di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi;
Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi
giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del
'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos
della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi,
Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica, 15, Il Mulino); Dai diritti individuali ai
diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un
recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari
della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo
Novecento, Milano, Giuffrè); Ordine
convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali
dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la
decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista.
Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la
decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia
giuridico-politica, Milano, Giuffrè). HOMO ABSCONDITUS
(.ioif(,i:sl)i'Mi;/n L’IDEOLOGIA TRI PARTITA DEGLI
INDOEUROPEI a )N I ’N S \( A il( ) INTKM H )| TFIV( ) I >1 |l
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Cerchio Iniziative editoriali
L'IDEOLOGIA TRIPARTITA DEGLI INDOEUROPEI costituisce una
sinte¬ si completa ed accessibile degli studi di Georges Dumézil.
che hanno rivolu¬ zionato la nostra conosceza delle anti¬ che civiltà
euro-asiatiche. La struttura fondamentale del pensie¬ ro
religioso e sociale delle popolazioni uscite dalla comune radice
indoeuro¬ pea. dallTrlanda allTndia, la triparti¬ zione sociale in
Sacerdoti. Guerrieri e Contadini che è presente nelle origini di
Roma così come nei miti iranici, germanici e celti, si rivela essere
lo specchio di un'armonia divina, in cui gli stessi dèi sono così
suddivisi, clas¬ sificati e diversamente adorati. È la
dimostrazione di come, nelle ci¬ viltà tradizionali, anche l'aspetto
so¬ ciale e politico dipenda radicalmente dalla dimensione
mitico-religiosa. e il mondo del divino diviene l’archetipo che dà
forma a tutta la società degli uomini. GEORGES
DUMÉZIL (1898-1986) è una figura fondamentale nel panorama
culturale europeo. Filologo e storico, nel ‘900 ha riav¬
viato gli studi attorno alla civiltà in¬ doeuropea nelle grandi civiltà
precri¬ stiane: Roma. l'India. l'Iran, la Grecia, le popolazioni
celtiche e germaniche. Ha lasciato una bibliografia sterminata,
solo parzialmente tradotta in italiano, fra cui ricordiamo almeno La
religione ro¬ mana arcaica, Gli Dèi dei Germani, Mito ed Epopea e
Gli Dèi sovrani de¬ gli Indoeuropei. € 16,00
HOMO ABSCONDITUS Georges Dumézil L’ideologia
tripartita degli Indoeuropei Con un saggio introduttivo
di JULIEN RlES il Cerchio Iniziative
editoriali Titolo originale: L'idéologie
tripartie des Indo-Européens, Bruxelles 1958 Traduzione:
Andrea Piras In copertina: Sigillo del re ittita
Tarkummuwa, re di Mera. Walters Art Museum, Baltimora. ©
2015 II Cerchio Srl info@ilcerchio.it
www.ilcerchio.it Tutti i diritti riservati ISBN
978-88-8474-436-4 Julien Ries La riscoperta del
pensiero religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Georges Dumézil
(1898-1986) Nel 1730 il gesuita francese Jean Calmette rinvenne i
primi due Li bri dei Veda, u n documento coni p letamente sco nosciuto i
n occiden¬ te, e nel 1739 i preziosi manoscritti giunsero nella
Biblioteca Reale di Parigi. Nel 1786, davanti aWAsiatic Society
ofBengala, William Jones (1746-1 794) pronunciò un dotto discorso in cui
dimostrò l’esistenza di una lingua comune, madre del sanscrito e del
greco. Eccoci alle so¬ glie della riscoperta del pensiero
indoeuropeo. 1. Il primo dossier indoeuropeo Il XIX
secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di com¬ piere nuove
scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti dell’antica
mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione dei Germani al
Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare alle origini
spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolar¬ mente due
pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la celebre opera
di G.F. Creuzer ( 1771-1 858), Simbolik undMvlhologie der altea Vòfker ,
tradotto in francese nel 1825; infine nel 1810 J.J. Gòrres pubblicò il
suo Mythengeschichle der asiatischen Welt, in cui 5
questo precursore del romanticismo religioso cercò di d imostrare che
i miti dell’India, dell’Iran e della Grecia veicolavano una dottrina
co¬ mune su Dio, l’Anima e l’immortalità. Sulla scia dei loro
maestri i mitografi romantici si lanciarono alla ricerca delle prime idee
religiose dell’infanzia umana. Oltre a ciò questa corrente si occupò dell’espressione
e delle modalità di trasmis¬ sione del messaggio religioso sin dalle
origini dell’umanità. A questa corrente romantica si oppose la
ricerca storica e filolo¬ gica, rappresentata da Karl Otfried Miiller
(1797-1840), da Franz Bopp (1791-1867), da Antoine de Chézy e da tutta la
linea degli spe¬ cialisti in filologia comparata che studiarono
scientificamente i testi dei Veda e dell’Avesta per familiarizzarsi col
pensiero dell’India e dell’Iran antichi. Tra questi ricercatori Max
Miiller (1823-1900) occu¬ pa un posto di primaria importanza.
Specializzatosi in sanscrito, in grammatica comparata ed in filosofia del
mito ad Oxford, istituì una Cattedra divenuta celebre: egli credette che
la filologia comparata fos¬ se la chiave che avrebbe permesso di aprire
le porte della storia delle religioni. Ai suoi occhi la lingua è un
testimone autentico del pensiero. Miiller sostenne che in origine l’uomo
ha agito, e per descrivere i suoi atti inventò il linguaggio. Da allora i
miti non sono altro che la personi¬ ficazione degli oggetti e delle
azioni che 1 ’uomo ha dovuto esprimere e descrivere.
Continuando le sue ricerche in direzione delle origini, Miiller
tradusse i Veda, testo in cui credeva di trovare il primo pensiero in¬
do-europeo e la chiave della religione degli antichi Ariani. Così secon¬
do il nostro Autore i poemi vedici sarebbero la fonte del pensiero reli¬
gioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma tra le ricerche di
Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred Books of thè Easl
(in 50 volumi) che potè terminare prima della propria morte, la¬ sciando
così agli studiosi occidentali una vera summa dei libri sacri dell’antica
Asia. 2. Il primo cammino di Georges Dumézil Il dossier
indoeuropeo del XIX secolo è già abbastanza ricco: scoperta della
corrispondenze all’interno del vocabolario delle lingue indoeuropee;
presentimento dell’esistenza di una cultura arcaica aria- 6
na come pure di una civiltà comune alle diverse popolazioni. J.G.
Fra- zer (1854-1941) tentò d’intraprendere un vasto studio comparato
at¬ torno al mito romano della morte rituale ed al mito nordico del
dio Balder. Tutta la sua opera, The Golden Bough (1890, in 11
volumi) cerca di delineare una sintesi di questa mitologia, ma le sue conclusio¬
ni sono deludenti. Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il
metodo fra- zeriano, Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra
per volger¬ si verso la linguistica e la filologia comparata. Le sue
guide furono A. Meillet e J. Vendryes. In un articolo intitolato Les
correspondances de vocabulaire enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique
(in «Mémoires de la Société Linguistique», 20, 1918, pp. 265-285),
Vendryes ha sottoli¬ neato le corrispondenze esistenti tra parole
indo-iraniche da una parte ed italo-celtiche dall’altra. Si tratta di
termini relativi al culto, al sacri¬ ficio ed alla religione, c vi sono
anche parole mistiche relative all’effi¬ cacia degli atti sacri, alla
purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’of¬ ferta fatta agli dèi,
all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla protezione divina ed
alla santità. Questa scoperta fu molto importante, poiché dimostra
l’esistenza di una comunanza di termini religiosi presso i popoli che in
seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici, gli Italici ed i
Celti. La permanenza di questo vocabolario religioso alle due estremità
del mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella Gallia ed in Italia, è
un dato molto significativo, benché la scomparsa di questo vocabolario presso
popoli come i Germani e gli Scandinavi non abbia mancato di incuriosire
Vendryes. Riflettendo, egli ha consta¬ tato che questi termini religiosi
si sono mantenuti presso quei popoli clic disponevano di collegi
sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti ave¬ stici, i druidi, il
Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e trasmettere questo
vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi sacri ed alle
preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa c di una fonte
importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il mondo
indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic
veicolava grazie ad un linguaggio comune. 3. La scoperta
dell’eredità indoeuropea Alla luce delle ricerche dì Vendryes, G.
Dumézil ha compreso quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al
termine di vent’an- 7 ni di studio egli doveva
trovare la chiave che gli permise di penetrare gli arcani del pensiero
religioso indoeuropeo arcaico. La pubblicazio¬ ne de L'idéologie
tripartie des Indo-Européens nel 1958 è il compi¬ mento di una lunga
marcia ed il punto di partenza per tutte le scoperte .successive. L’esame
del problema flamen-brahman c dei flamini maggiori a Roma condusse
Dumézil ad una conclusione decisiva: «/ più antichi Romani, gli
Umbri, avevano portato con toro in Italia la stessa concezione conosciuta
dagli Indo-Iranici e su cui noto¬ riamente gli Indiani avevano fondato il
loro ordine sociale »' Era la scoperta e la messa a fuoco di
un’eredità indoeuropea, di una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla
sommità della quale si trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita
dalla forza fisica che s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si
situa la fecondi- tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza
ma indispensabile al loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa
griglia di lettura lo studioso francese si c avventurato nello studio di
tutta la documenta¬ zione disponibile. Si tratta di uno studio
comparativo il cui oggetto c il dato indoeuropeo. Durante il
III c II millennio a.C. delle bande di conquistatori si spostarono verso
l’Atlantico, il Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate erano fatte di
diversi dialetti provenienti da una lingua comune, il che suppone un
fondo intellettuale e morale identico, ed un minimo di ci¬ viltà comune.
Popoli senza scrittura, gli Indoeuropei hanno lasciato pochi documenti.
Solo gli Hittiti, stabilitisi in Anatolia all’inizio del II millennio
a.C., hanno adottato una scrittura cuneiforme che consentì loro di
conservare degli archivi. Ma ciò che c notevole c la persistenza del
vocabolario religioso legato all’organizzazione sociale, alle prati¬ che
cultuali ed ai comportamenti religiosi. Parecchi fatti presuppon¬ gono l’esistenza
di una religione che rappresenta una dottrina coeren¬ te, una spiegazione
del cosmo, una concezione dell’origine, del presente c del futuro.
1 G. DUMÉZIL, Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans
les épopees despeuple indo-européens, Gallimard, Paris 1968, p. 15
(Trad. italiana, Einaudi, Torino 1982 - NdT) 8
Volendo spiegare quest’eredità e la sua struttura, Dumézil ha
elaborato il proprio metodo comparativo, che lui stesso chiama «gene¬
tico)} 2 . La prima fase del lavoro consiste nel mettere in evidenza
delle corrispondenze precise e sistematiche, che permettano di
tracciare uno schema del rituale: miti, riti, significati logici ed
articolazioni es¬ senziali. Questo schema viene proiettato nella
preistoria, al fine di comprendere la curva dell’evoluzione religiosa.
Possedendo delle corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo
storico delle ci¬ viltà e lo storico delle religioni procedono per
induzione in direzione delle origini. Utilizzando i dati dell’archeologia,
della mitologia, della filologia, della sociologia, della liturgia e
della teologia arcaica, lo sto¬ rico giunge a comprendere le grandi linee
del pensiero di questi popoli e la loro evoluzione, sino alle soglie
della storia. Grazie a questo lavo¬ ro lungo ed arduo si è riusciti a
stabilire un’archeologia del comporta¬ mento e delle
rappresentazioni. 4. LE TRE FUNZIONI SOCIALI G. Dumézil
non ha preteso di resuscitare la religione degli Indoeuropei come venne
vissuta nei tempi preistorici. Si è accontentato piuttosto di delineare
lo schema concettuale delle società collegate tra loro nello sviluppo
della storia, e si è servito di questi schemi per giun¬ gere a spiegare i
testi ed i fatti che resistevano ad ogni spiegazione. Nelle civiltà
indoeuropee il nostro autore trova una struttura so¬ ciale articolata in
tre funzioni. Sono queste i tre varna dell’India: i brdhmana, sacerdoti
incaricati del sacrificio e custodi della scienza sacra; gli ksatriya,
guerrieri incaricati della protezione del popolo; i vaisya, produttori
dei beni materiali, del nutrimento. Secondo il Rg-Vecla (Vili, 35) queste
tre «caste» sono molto antiche. In Iran l 'Avesta menziona tre gruppi di
uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guer¬ rieri, i radaci.star montatori di
carri; gli agricoltori-allevatori, chiama¬ ti vàstryò.fsuycmt. Una
struttura identica ha lasciato tracce presso gli Sciti ed i loro
discendenti, gli Osseti del Caucaso, e presso i Celti ed i loro druidi,
la loro aristocrazia militare ed i loro boairig, gli allevatori 2
G. DUMÉZIL, L ’heritage des indo-curopéens à Rome, Gallimard, Paris
1949. 9 di buoi. L’analisi delle origini di
Roma condotta da Dumézil si è rive¬ lata particolarmente illuminante.
Queste tre funzioni sono attività fondamentali e indispensabili per
la vita normale della comunità. La prima funzione, quella del sa¬ cro,
regola i rapporti degli uomini fra loro e sotto la garanzia degli dèi,
determina il potere del re e traccia i limiti della scienza, inseparabile
dalla manipolazione delle cose sacre. La seconda funzione, quella re¬
lativa alla forza fisica, interviene nella conquista, nell’organizzazione
della società e nella sua difesa. La terza ricopre un vasto ambito, quel¬
lo della sussistenza degli uomini e della conservazione della società:
fecondità animale ed umana, nutrimento, ricchezza e salute. Dumézil ha
dimostrato che la società indoeuropea era governata in profondità grazie
ad una mentalità fondata su una struttura trifunzionale. 5. Una
teologia delle tre funzioni La teologia si trova al centro del
mondo indoeuropeo. Una delle grandi prove di ciò è la lista degli dèi
ariani di Mitanni trovata su una tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa,
capitale dell’impero hittita. Scoperta nel 1907, questa tavoletta
contiene il testo di un trattato con¬ cluso nel 1380 a.C. tra il re
hittita Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti
della loro alleanza ognuno dei re invo¬ ca i propri dèi: il re di Mitanni
invoca gli dèi considerati i protettori della società ariana:
Mithra-Varuna, India e i Nasatya. Sono gli dèi delle tre funzioni che
ritroviamo in India ed in Iran. In quest’ultimo paese è la riforma di
Zarathustra e la formulazione delle sei entità divi¬ ne - gli Immortali
Benefici - che illustra in maniera illuminante questa teologia
strutturata su tre piani ed articolata in tre funzioni. Dai
Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto all’Ita¬ lia ove ha
rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio) in Umbria ed a
Roma la triade precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus. Questi dati
indicano chiaramente che l’ideologia è correlata ad una teologia delle
tre funzioni. Nell’India vedica ciò comporta un’associazione di tre
coppie di dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi Mitra e Varuna, signori
del primo livello, si dividono la sovranità di questo mondo e dell’altro:
Indra, scortato dai Marut, un battaglione di giova¬ ni guerrieri,
proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin IO
sono distributori di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed
armen¬ ti; si tratta dunque di una teologia tripartita. Il
documento di Hattusadel 1380 a.C. ci mostra che questa teo¬ logia è
anteriore alla redazione dei Veda e che fa parte della tradizione ariana
arcaica; d’altra parte, la presenza dello schema trifunzionale nella
teologia di Zarathustra ed il suo riflesso sugli «Arcangeli» rag¬
gruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda conferma l’attacca¬ mento ad
una struttura di pensiero ariano sia presso i sacerdoti che i popoli
dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si rinviene anche in
Italia, presso i Celti, i Germani e gli Scandinavi.
Conclusioni E stato necessario tutto il XIX secolo per
costituire il dossier in¬ doeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c stato
quello di aver consa¬ crato un 'intera vita all’interpretazione di questa
documentazione. Egli ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr
c di James Frazer: una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al
dominio del culto e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del
vocabolario del sa¬ cro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli
italo-ccltici dall’al¬ tra, hanno fornito allo studioso l’idea di
studiare più a fondo i paralleli attorno alle divinità ed ai sacerdoti,
poiché questi popoli sono i soli tra gli indoeuropei ad aver conservato
per molti secoli i loro collegi sacer¬ dotali. Questa nuova
via fu illuminante, poiché ha condotto alla sco¬ perta di un’eredità
indoeuropea ancora visibile agli inizi della storia dei popoli italici,
celtici, iranici cd indiani. L’assenza di vestigia ar¬ cheologiche
concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un meto¬ do comparativo
genetico fondato sull’archeologia delle rappresenta¬ zioni c del
comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce
dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio
egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -
della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale
che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei
della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:
classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori. Mezzo
secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa visione nuova del
mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle vestigia della
civiltà e della religione indoeuropea e di far indietreg¬ giare di più
d’un millennio i lempora ignota. Julien Ries Università di
Louvaìn-la-Neuve 12 Introduzione
Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà menzione de\V habitat
degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni, della loro civiltà
materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo qui im¬ piegato non
ha presa e d’altra parte la loro soluzione non interessa molto i problemi
qui posti. La «civiltà indoeuropea» che noi conside¬ reremo è quella
dello spirito. Al pari degli Indiani vedici, come ci vengono
presentati dai loro inni, gli Indoeuropei non furono uomini senza
riflessione e senza im¬ maginazione, tutt’altro. Esattamente da vent’anni
ormai la compara¬ zione delle più antiche tradizioni, dei diversi popoli
parlanti lingue in¬ doeuropee, ha rivelato un fondo considerevole di elementi
comuni, elementi non isolati ma organizzati in strutture complesse delle
quali non ci è offerto un equivalente in altri popoli del mondo
antico. L'esposizione, che ci si appresta a leggere, è consacrata alla
più im¬ portante di queste strutture. L’obiettivo essenziale
è quello di guidare lo studente, tramite una serie di riassunti ordinati
e consequenziali, attraverso una mole di argomenti poco agevoli a causa
della loro eterogeneità e del loro fra¬ zionamento. Nello
stesso tempo si vorrebbe fornire ai lettori già informati una prima e
provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo un ordine ma una messa a
fuoco alla correlazione generale che solo uno sguardo d’insieme può
imporre ai risultati parziali. Un problema che per anni è stato
capitale e in primo piano - pen¬ so al valore trifunzionale delle tre
tribù romane primitive - si trova qui limitato in un secondo livello; al
contrario, le numerose applicazioni 13
ideologiche delle tre funzioni, le cui segnalazioni si trovano
disperse nelle pubblicazioni più svariate, acquisteranno ora, io spero,
potenza grazie ad un parallelismo che farà risaltare il loro semplice
riavvicina¬ mento. Questo doppio disegno non prevederànote a
piè di pagina: si è preferito costruire una sorta di commentario bibliografico
distribuito secondo i paragrafi del libro, indicando i testi affinché
ognuno riepilo¬ ghi o perfezioni a proprio piacimento; oppure segnando c
datando su ogni punto importante i progressi o le svolte della ricerca; o
ancora, rinviando ad altri paragrafi per segnalare correlazioni che non
avreb¬ bero potuto ingombrare l’esposizione discorsiva iniziale.
Non si è tenuto conto che dell’opera principale dell’autore e di un
certo numero di colleghi francesi e stranieri che, pur senza voler formare
una scuola, si dedicano da più o meno tempo alle stesse mate¬ rie con
metodi simili e che si tengono costantemente in contatto tra loro.
Altre visioni sul pensiero degli indoeuropei, incompatibili con
questa, non saranno qui esaminate, non per disprezzo ma perché le di¬
mensioni del presente libro sono ristrette e l’intento è costruttivo e
non critico. Tuttavia, nelle note finali si troveranno
riferimenti a numerose discussioni. Il mio caro collega Marcel
Renard mi ha permesso di presentare nella collezione Latomus, poco tempo
dopo Les Déesses latines , que¬ sta nuova esposizione in cui il popolo
romano non interviene che prò virili parte. Egli ha così voluto
confermare, sensibilmente ai nostri studi, cd io lo ringrazio, la
necessaria alleanza tra studi classici e indo¬ europei, tra metodi
filologici e comparativi, che ho sempre invocato con augurio.
Uppsala, ottobre 1956 - Parigi, dicembre 1957 G.D.
14 Capitolo primo Le tre funzioni
sociali e cosmiche 1. Le classi sociali in India Uno
dei tratti più sorprendenti delle società indiane post-rgve- diche è la
loro divisione sistematica in quattro «classi», dette in san¬ scrito i
quattro «colori», varna, le prime tre delle quali benché diverse sono
pure perché propriamente arya, mentre la quarta, formala indub¬ biamente
dai vinti della conquista arya, è sottomessa alle altre tre ed è quindi
irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe eterogenea non si
Lralterà qui ulteriormente. I doveri di ognuna delle tre classi
arya servono per definirle: i brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano
la scienza sacra e cele¬ brano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i
guerrieri, proteggono il po¬ polo con la loro forza e con le loro armi;
ai vaisya è affidato l’alle¬ vamento e l’aratura, il commercio e più in
generale la produzione dei beni materiali. Si costituisce
così una società completa e armonica presieduta da un personaggio a
parte, il re, rdjan, generalmente nato e qualitativa¬ mente estratto dal
secondo livello. Questi gruppi funzionali e gerarchizzati sono
conchiusi tutti su loro stessi in base all’ereditarietà, all’endogamia e
a un codice rigoro¬ so d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi
è dubbio che il si¬ stema non sia una creazione propriamente indiana
posteriore alla 15 maggior parte del Riveda-, i
nomi delle classi non sono menzionati chiaramente che nell’inno del
sacrificio deH’Uomo Primordiale, nel X libro della raccolta, così
differente da tutti gli altri. Ma una tale crea¬ zione non è nata dal
nulla, bensì da un irrigidimento di una dottrina e di una pratica sociale
preesistente. Nel 1940 uno studioso indiano, V.M. Apte, fece una
collezione dimostrativa dei lesti dei primi nove libri del Riveda (principalmente
Vili, 35, 16-18) che provano come sin dai tempi della redazione di questi
inni la società fosse pensata composta da sacerdoti, guerrieri e
allevatori e che se questi gruppi non erano an¬ cora designati dai nomi
di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya (sostanti¬ vi astratti, nomi di
nozioni di cui i nomi di questi uomini non sono che i derivati) erano già
composti in un sistema gerarchico che definiva di¬ stributivamente i
principi delle tre attività. Brc'ihmun (al neutro) «scienza e utilizzazione
delle correlazioni mistiche tra le parti del rea¬ le visibile o
invisibile», kyatrei «potenza», vis «contadinanza» o «habi¬ tat
organizzalo» (la parola c apparentala al latino vTcus e al greco
(w)oùco<;), al plurale visuh «insieme del popolo nel suo raggruppa¬
mento sociale e locale». È impossibile determinare in quale misura
la pratica si confor¬ masse a questa struttura teorica: vi era forse una
parte più o meno con¬ siderevole della società che indifferenziata o
altrimenti classificata sfuggiva a questa tripartizione? L’ereditarietà
all’interno di ciascuna classe non era forse corretta nei suoi effetti da
un regime matrimoniale più flessibile c con delle possibilità di
promozione? Sfortunatamente ci è accessibile solo la teoria. 2.
Le classi sociali avestiche Da un quarto di secolo, confermando le
osservazioni di F. Spie- gel, di E. Benvenisle e di me stesso, abbiamo
sostenuto che almeno nella sua forma ideologica la tripartizione sociale
era una concezione già acquisita prima della divisione degli «Indo-Iranici»
in Indiani da una parte ed Iranici dall’altra. In diversi
passaggi VA vesta menziona i componenti della socie¬ tà come gruppi di
uomini o di classi (designate da una parola che si ri¬ ferisce al colore,
pistra): i sacerdoti, àBuurvan o uBravun (cf. uno dei sacerdoti vedici,
Vdtharvan), i guerrieri, luBciè.star («guidatori di car- 16
ri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto del dio guerriero Indra) e
gli agri¬ coltori-allevatori, vàstryó.fsuyant. Un solo
passaggio avestico e più notoriamente i testi palliavi, pongono come
quarto termine alla base di questa gerarchia, gli artigia¬ ni, huiti,
altri indizi (come il fatto che raggruppamenti triplici di nozio¬ ni sono
talvolta messi maldestramente in rapporto con le quattro clas¬ si, cf.
SBE, V, p. 357) ci portano a considerarla una aggiunta a un antico
sistema ternario. Nel X secolo della nostra èra il poeta persiano
Ferdusi, fedele testimone della tradizione, racconta come il favoloso re
Jamsed (lo Yima Xsaéla dell’A vesta) istituì gerarchicamente queste
classi: se¬ parò inizialmente dal resto del popolo gli *asravctn
«assegnando loro le montagne per celebrarvi il loro culto, per
consacrarsi al servizio di¬ vino e restare nella luminosa dimora »; gli
*artesfar, posti dall’altra parte, «combattono come dei leoni, brillano
alla testa delle armate e delle province, grazie a loro il trono regale è
protetto e la gloria del valore è mantenuta »; quanto ai *vùstryós, la
terza classe, « loro stessi arano, piantano e raccolgono; di ciò che
mangiano nessuno li rimpro¬ vera, non sono servi benché vestiti di
stracci e il loro orecchio è sordo alla calunnia». A
differenza dell’India le società iraniche non hanno irrigidito questa
concezione in un regime castale: esso sembra essere rimasto un modello,
un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed enunciare l’essenzialità
dell’argomento sociale. Dal punto di vista della ideolo¬ gia in cui noi
ci poniamo, questo è sufficiente. 3. Le leggende sull’origine degli
Sciti Un ramo aberrante della famiglia iranica, molto importante
poi¬ ché si è sviluppato non in Iran ma a nord del Mar Nero, fuori dalla
mor¬ sa degli imperi, iranici o altri, che si sono succeduti nel Vicino
Orien¬ te, testimonianello stesso senso: sono gli Sciti - i cui costumi
insieme a molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e a qualche altro
autore antico - la cui lingua e tradizione si è mantenuta sino ai nostri
giorni grazie a un piccolo popolo del Caucaso centrale, originale e pieno
di vitalità, gli Osseti. Secondo Erodoto (IV, 5-6) ecco come
gli Sciti raccontano l’origine della loro nazione: 17
«Il primo uomo che comparve nel loro paese, prima di allora
deserto, si chiamava Targitaos, che si diceva figlio di Zeus e di una fi¬
glia del fiume Boriysthene (il Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre fi¬
gli, Lipoxais (variante Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais. Quando
erano in vita caddero dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti d’oro:
un carro, un giogo, un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi t/uyòv mi
cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa vista il più anziano si af¬ frettò a
prenderli ma quando arrivò l ’oro si mise a bruciare. Così si ri¬ tirò e
il secondo si fece avanti ma senza migliore successo. Avendo i primi due
rinunciato all 'oro bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro si spense.
Lo prese con sé e i suoi due fratelli, davanti a questo segno,
abbandonarono la regalità interamente all'ultimogenito. Da Lipoxa¬ is
sono nati quegli Sciti che sono chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh-
atai; da Arpoxais quelle dette Katiaroi e Traspies (variante: Trapies,
Trapioi) e in ultimo, dal re, quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si
chiamano Skolotoi, dal nome del loro re » Mi sembra certo che
bisogna, al pari di E. Benveniste, rendere yévoq con «tribù». Gli Sciti
contano quattro tribù, una delle quali è la tribù capo. Ma tutte hanno
realmente o idealmente la stessa struttura: è chiaro infatti che questi
quattro oggetti si riferiscono alle tre attività sociali degli Indiani e
degli «Iranici deH’Iran»; il carro e il giogo (E. Benveniste ha
analizzato un composto avestico che associa queste due parti della
meccanica dell’aratura) evocano l’agricoltura; l’ascia era con l’arco
l’arma nazionale degli Sciti; altre tradizioni scitiche conser¬ vate da
Erodoto, come pure l’analogia coi dati indo-iranici conosciuti,
incoraggiano a vedere nella coppa lo strumento e il simbolo delle of¬
ferte cultuali e delle bevande sacre. La forma ben distinta che
Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà alla tradizione, conferma questa esegesi
funzionale; egli fa dire agli amba¬ sciatori degli Sciti che cercavano di
convincere Alessandro Magno a non attaccarli: «Sappi che
abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per buoi, un carro, una lancia, una
freccia e una coppa (iugum bovum, aratrum, hasta, sagitta et patera). Ce
ne serviamo con i nostri amici e contro i nostri nemici. Ai nostri amici
doniamo i frutti della terra che ci procu- 18
ra il lavoro dei buoi; con essi offriamo agli dèi libagioni di vino;
quan¬ to ai nostri nemici, li attacchiamo da lontano con la freccia e da
vicino con la lancia». 4. La famiglia degli eroi Narti
È interessante vedere sopravvivere questa struttura ideologica
della società nell’epopea popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n
frammenti ma in numerose varianti da circa un secolo e che una gran¬ de
impresa folklorica russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistema¬
ticamente raccolto. Gli Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i
Narti, erano divisi essenzialmente in tre famiglie. «/ Boriatee -
dice una tradizione pubblicata da S. Tuganov nel 1925 - erano ricchi in
armenti; gli Alcegatce erano forti per intelligen¬ za; gli
/Exscertcegkatce si distinguevano per eroismo e vigore ed erano forti per
i loro uomini». I dettagli del racconto che giustappongono od
oppongono a due a due queste famiglie, soprattutto nella grande
collezione degli anni ’40, confermano pienamente queste
definizioni. II carattere «intellettuale» degli Alaegatae riveste una
forma ar¬ caica, non appaiono che in circostanze uniche ma frequenti: c
nella loro casa che hanno luogo le solenni bevute dei Narti in cui si
produco¬ no le meraviglie di una Coppa magica detta la «Rivelatrice dei
Narti». Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto,
è ri¬ marchevole che il loro nome sia un derivato del sostantivo
cexsur(t) «bravura», che è, con le alterazioni fonetiche previste nelle
parlate sci¬ tiche, la stessa parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico,
come abbia¬ mo visto, del fondamento della classe guerriera.
I Boriala; e il principale tra essi, Burafscrnyg, sono costante-
mente e caricaturalmente i ricchi, con tutti i rischi e i difetti della
ric¬ chezza e in più, in opposizione ai poco numerosi vExsaertaegkatae,
sono una moltitudine di uomini. 5. Gli Indoeuropei e la
tripartizione sociale Riconosciuta così come retaggio comune
indo-iranico, questa dottrina tripartita della vita sociale è stata il
punto di partenza di un'inchiesta che prosegue da più di vent’anni e che
ha portato a due ri- 19 sultati complementari
che possono riassumersi in questi termini: 1) al di fuori degli
Indo-Iranici i popoli indoeuropei conosciuti in età antica o praticavano
realmente una divisione di questo tipo oppure, nelle leg¬ gende in cui
spiegano le proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti «componenti»
iniziali fra le tre categorie di questa stessa divisione: 2) nel mondo
antico, dal paese dei Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Li¬ bia e
dall’Arabia agli Iper borei, nessun popolo non indoeuropeo ha
esplicitato praticamente o idealmente una tale struttura o se l’ha fatto
è stalo dopo un contatto preciso, localizzabile c databile, che ha
avuto con un popolo indoeuropeo. Ecco qualche esempio a sostegno di
que¬ sta proposizione. 6. Le classi sociali presso i
Celti Il caso più completo è quello dei più occidentali tra gli
Indoeu¬ ropei, i Celti e gli Italici, il che non è sorprendente una volta
che si c prestata attenzione (J. Vendryes, 1918) alle numerose
corrispondenze che esistono nel vocabolario della religione,
dell’amministrazione e del diritto, tra le lingue indo-iraniche da una
parte e quelle ilalo-celli- che dall’altra. Se si ordinano i
documenti che descrivono lo stato sociale della Gallia pagana decadente
conquistala da Cesare, insieme ai testi che ci informano sull’Irlanda
pocoprima della sua conversione al cristiane¬ simo, ci appare sotto il
*rig (l’esalto equivalente fonetico del sanscrito rcij- o del latino réf*-),
un tipo di società così costituita: 1) Al di sopra di tulli c forte
oltre ogni limile, quasi super-nazio¬ nale come la classe dei brahmani,
vi c la classe dei clruicli (*dru-uid), cioè dei sapienti, sacerdoti,
giuristi, depositari della tradizione. 2) Segue poi l’aristocrazia
militare, unica proprietaria del suo¬ lo, \a flciith irlandese (cf. il
gallico vlata- c il tedesco Gewcdt), propria¬ mente la «potenza», esatto
equivalente semantico del sanscrito ksatrà, essenza della funzione
guerriera. 3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini
liberi ( ciirif.;) che si definiscono solamente come possessori di vacche
( bó). Non è sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R.
Thurney- scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che
questa ul¬ tima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che
designa lutti i membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono
protetti dalla legge, 20 concorrono
all’elezione del re, partecipano alle assemblee - airecht - e ai grandi
banchetti stagionali) sia un derivato in -k di una parola impa¬ rentata
con l’indo-iranico * city a (sanscrito city a, àrya\ antico-persiano
ariya, avestico airya; osseto Iceg «uomo», da *arya-ka-). Ma poco im¬
porta: il quadro tripartito celtico ricopre esattamente lo schema reale o
ideale delle società indo-iraniche. 7. I COMPONENTI LEGGENDARI DI
ROMA E LE TRE TRIBÙ PRIMITIVE La Roma storica, benché risalga ad
epoca remota, non ha divi¬ sioni funzionali: l’opposizione tra patrizi e
plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è l’effetto di un’evoluzione
precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agli Etruschi benché
rivestila di nomi d’origine appa¬ rentemente etnisca come Ramnes,
Luceres, Titienses - era ancora in qualche modo del tipo che studiamo: è
ciò che ci suggerisce chiara¬ mente la leggenda delle origini.
Secondo la variante più diffusa, Roma si sarebbe costituita da tre
elementi etnici: i compagni latini di Romolo e Remo, gli alleati etruschi
condotti a Romolo da Lucumone e i nemici sabini di Romolo comandati da
Tito Tazio; i primi avrebbero dato nascita ai Ramnes, i secondi ai
Luceres c i terzi ai Titienses. Ora, la tradizione annalistica
colora costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti
funzionali, i Sabini di Tazio sono es¬ senzialmente ricchi di armenti;
Lucumone c la sua banda sono i primi specialisti dell’arte militare
arruolati come tali da Romolo; Romolo è il semi-dio, il rex-augur
beneficiario della promessa iniziale di Jupi- ter, il creatore <le\Y
urbs e il fondatore istituzionale della respublicu. Talvolta la
componente etnisca è eliminala, ma l’analisi «tri- funzionale» non viene
meno poiché Romolo c i suoi Latini accumula¬ no su loro stessi la doppia
specificazione di capi sacri e di guerrieri esemplari ed hanno in loro
stessi, come dice Tito Livio (1,9; 2-4), deos et virtutem e non gli
mancano temporaneamente che opes (e le donne) che saranno loro fornite
dai Sabini (cf. Floro, 1,1) i Sabini riconciliati che si trasferiscono a
Roma c cum generis suis a vitas opes prò dote so- cicint).
Eliminando così gli Etruschi, il dio Marte in persona, nel terzo
libro dei Fasti di Ovidio (178-199), mette a nudo il movente ideologi¬ co
dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: « La
21 ricca vicinanza (viciniadives) non voleva questi
generi senza ricchez¬ za (inopes) e non aveva riguardo del fatto che io
ero (un dio) la fonte del loro sangue (sanguinis auctor)... Io ho
risentito di questa pena e ho messo nel tuo cuore, Romolo, una
disposizione conforme alla natura di tuo padre (patriam mentem, cioè
marziale); io ti dico, tregua di sol¬ lecitazione, ciò che domandi,
saranno le armi a donartelo (arma da- bunt)». Dionigi di
Alicarnasso che segue la tradizione delle tre razze, ripartisce tra
quelli gli stessi tre vantaggi: le città vicine, sabine o altre,
sollecitate da Romolo per mezzo di matrimoni, rifiutano (II, 30) di
unirsi a questi nuovi venuti « Che non sono da considerarsi neper ric¬
chezza (xpTipaoi) né per altre imprese (taupnpòv Èpyov)». A Romo¬ lo,
relegato così alla sua qualità di figlio di dio e di depositario dei pri¬
mi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari di professione
come l’etrusco Lucumone di Solone, «Uomo di azione e illustre in materia
di guerra» (xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq). 8. Properzio iv, i,
9-32 Ma è Properzio, nella prima elegia romana (IV-1), che ha dato
a questa dottrina delle origini, e nella forma delle tre razze, l’espres¬
sione più completa: nel momento in cui nomina, con Romolo, le tre tri¬ bù
primitive mettendo in risalto le loro etimologie tramite le correla¬
zioni tradizionali coi nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere i
caratteri funzionali distintivi, 1’«essenza», potremmo dire, della mate¬
ria prima di ogni tribù: 1 ) i compagni di Remo e di suo fratello (il
nome di Romolo è riservato per coprire la sintesi finale); 2) Lygmon
(Lucu- mo); 3) Tito Tazio. Il testo di Properzio merita di
essere esaminato più da vicino. L’intenzione del poeta all’inizio di
questa elegia è di opporre (c un luogo comune dell’epoca) l’umiltà delle
origini all’opulenza della Roma di Augusto. Dopo qualche verso che
introduce il tema applican¬ dolo al luogo, ecco gli abitanti (versi
9-32), presentati in tre parti ine¬ guali, seguite da una
conclusione: «sul pendio dove si elevava un tempo la povera
casadiREMO 22 10) i (due) fratelli avevano un
solo focolare, immenso reame. La Curia, il cui splendore copre oggi
un'assemblea di toghe preteste, non conteneva che senatori vestiti di
pelle e dalle anime rustiche. Era la tromba che convocava, per i
colloqui, gli antichi cittadi¬ ni; cento uomini in un prato, tale era
spesso il loro senato. 15) Nessuna tela ondulante sulle profondità
di un teatro, nessu¬ na scena che esalasse l'odore solenne dello
zafferano. Nessuno si cu¬ rava di andare a cercare dèi stranieri; la
folla tremava, attaccata al culto ancestrale. 20) E ogni anno
le feste di Pale non erano celebrate che con fuochi di fieno i quali
valevano bene te lustrazioni che si fanno oggi giorno grazie a un cavallo
mutilato. Vesta era povera e trovava il suo piacere in asinelli
coronati di fiori; delle vacche scarnite portavano in processione degli
oggetti senza valore. Dei maiali ingrassati bastavano per
purificare gli stretti cro¬ cicchi e il pastore, al suono della
cennamella, offriva in sacrificio le interiora di una pecora.
25) Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle correggie vil¬
lose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci scatenati.
Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi ter¬
ribili: ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo
campo fu stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del gene¬
rale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON. 30) E la
ricchezza di TATI US era essenzialmente nelle sue pe¬ core: è da là che
si formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, ori¬ ginari di Solonio; è
da là che Romolo lanciò la sua quadriga di cavalli bianchi »
Il percorso di questo sviluppo è ben chiaro: come una favola verso
la sua breve morale, tende verso l’ultimo distico che prima di menzionare
il «radunatore» Romolo, nell’apparato dei suoi trionfi, enumera sotto i
loro nomi le tre tribù riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre
tribù provengono da uomini che sono stati precedente- mente descritti e
in effetti, in accordo con la tradizione erudita, Proper¬ zio mette i
Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del verso 30 e i Luceres (v.
31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes (v. 23
31), conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati
simmetri¬ camente alla menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il
po¬ sto di comando di questa società composita (v. 31 e 32) ed è
rimpiazza¬ to da Remus al verso 9, o insieme a lui in frotres al verso
10. In altre parole, prima di mostrarli trasformati (hinc...) sotto
Ro¬ molo, nei tre terzi della città unificata, Properzio comincia col
presen¬ tare successivamente, sotto i loro eponimi e nella loro esistenza
ancora separata, le tre componenti della futura Roma, nell’ordine: le
genti di Remoedi suo fratello; l’etrusco Lucumoneeil sabinoTazio. Si
spiega così come le feste dei versi 15-26, appartenenti ai futuri Ramnes,
siano quelle che la tradizione considera anteriori al sinecismo e
praticate già, nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma non
è tutto. Non è meno lampante che le tre successive pre¬ sentazioni delle
future tribù siano caratterizzate secondo le tre funzio¬ ni a cui è
consacrato il presente capitolo: 1) dal verso 9 («Remo») al verso
26, il poeta non evoca che il ca¬ rattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE
POLITICA (v. 9-14; semplicità dei «re», di ciò che rappresentava allora
il senato e l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di
solenni¬ tà e di dèi stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da
aprile a feb¬ braio - dei Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia,
senza alcuno sfarzo). 2) dal verso 27 al verso 29 (« Lygmon»)
il poeta evoca le forme primitive della GUERRA che rimangono elementari
(«un berretto di pelle-») anche col primo tecnico militare.
3) Nel solo verso 30 (« Tatius ») il poeta evoca la forma pura¬
mente pastorale della RICCHEZZA primitiva. La nettezza delle
articolazioni del testo e, in conseguenza, delle intenzioni
classificatorie del poeta, il confronto nel distico 29-30 di Lucumo come
generale e di Tazio come ricco proprietario di armenti, mettono in
risalto il fatto che, benché concepite come componenti et¬ niche, le tre
tribù nel pensiero degli eruditi di epoca augustea erano ca¬ ratterizzate
funzionalmente. I Ramnes, raggruppati intorno ai «fratelli», dediti
soprattutto al governo e al culto; Lucumoneei Luceres come guerrieri;
Tito Tazio e i Tities (più spesso Titienses) come ricchi
allevatori. 24 9. Le divisioni degli Ioni
Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi ateniesi erano stati
ini¬ zialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo
nell’organizzazione sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono
molto chiari, al pari della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni
o, come dice Plutar¬ co, nei quattro |3ioi «(tipi di) vite», ma questi
tipi sono molto probabil¬ mente sacerdoti o funzionari religiosi, guerrieri
o «guardiani», agricol¬ tori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1; cf.
Platone, Timeo, 24 A). Plutarco 0 Solone 23), per una falsa etimologia
del nome ordinario ricollegato ai sacerdoti, omette i sacerdoti e sdoppia
agricoltori e pastori. È probabile che le tre classi della
Repubblica ideale di Platone - filosofi che governano, guerrieri che
difendono e il terzo stato che pro¬ duce ricchezza - con ogni loro
armonizzazione morale o filosofica, così prossima talvolta alle
speculazioni indiane, siano state ispirate in parte dalle tradizioni
ioniche, in parte da ciò che si sapeva allora in
GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei pi¬ tagorici
che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o pre¬ ellenico.
10. La tripartizione sociale nel mondo antico A questi schemi
concordanti si è cercata invano una replica in¬ dipendente nella pratica
o nelle tradizioni delle società ugrofinniche o siberiane, presso i
Cinesi o gli Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo- tamia sumerica o
accadica, o nelle vaste zone continentali adiacenti agli Indoeuropei o
penetrate da essi. Ciò che salta agli occhi sono delle organizzazioni
indifferenziate di nomadi in cui ognuno è sia combat¬ tente che pastore;
delle organizzazioni teocratiche di sedentari in cui un re-sacerdote o un
imperatore divino è contrapposto ad una massa spezzettata aH’infinito ma
omogenea nella sua umiltà; oppure ancora delle società in cui lo stregone
non è che uno specialista fra tanti altri senza preminenza, malgrado il
timore che la sua competenza suscita. Niente di tutto questo
ricorda né da vicino né da lontano la strut¬ tura delle tre classi
funzionali gerarchizzate e non vi sono delle ecce¬ zioni.
Quando un popolo non indoeuropeo del mondo antico, ad esempio del
Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa struttura è 25
perché l’ha acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato
vicino a lui, da una di quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti,
Hittiti, Arya - che nel secondo millennio si sono arditamente sparse
lungo di¬ versi percorsi. E il caso ad esempio dell’Egitto
«castale» in cui i Greci del V secolo credevano di aver trovato il
prototipo, l’origine delle più vec¬ chie classi funzionali ateniesi che
sono state menzionate poco fa. In re¬ altà questa struttura si è formata
sul Nilo grazie al contatto con gli Indoeuropei, che apparendo in Asia
Minore e in Siria nella metà del secondo millennio prima della nostra
èra, rivelarono agli Egiziani il cavallo e tutti i suoi usi.
Solamente dopo questa data il vecchio impero dei Faraoni si
riorganizza per poter sopravvivere, formandosi ciò che non aveva mai
avuto: un’armata permanente e una classe militare. Il più antico testo
«multifunzionale» del tipo di quello che sarà conosciuto da Erodoto
(Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione in cui Thaneni si vanta di aver fat¬
to un vasto censimento per conto dei suo Faraone Thutmosis IV (J.H.
Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty, 1906, p. 165):
«M uste ring ofthe whole land before his Majesty making an in-
spection ofevery body, knowing thè soldiers, priests, royal serfs and all
thè craftsmen ofthe whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle,
by thè military scribe, beloved of his lord Thaneni » Ora,
Thutmosis IV (1415-1405) è giusto il primo Faraone che abbia mai sposato
una principessa arya dei Mitanni, la figlia di un re dal nome
caratteristico di Artatama. Sembra che la differenziazione di una classe
di guerrieri col suo statuto «morale» particolare, unito ad una sorta di
alleanza flessibile a una classe ugualmente differenziata di sacerdoti,
sia stata la novità degli Indoeuropei e il cavallo e il carro la ragione
e il mezzo della loro espansione. Le iscrizioni geroglifiche e cuneiformi
ci hanno trasmesso il ricordo del terrore che causarono alle vecchie
civiltà questi specialisti della guerra, così arditi e impietosi come
quei conquistadores che tremila anni più tardi nel Nuovo Mon¬ do
comparvero ai capi e ai popoli degli imperi che schiacciarono. Essi
li designavano con un nome - marianni - che in effetti gli Indoeuropei
usavano: i mdriya, incuiStig Wikander seppe riconosce- 26
re nel 1938 i membri dei «Mcitinerblinde» dello stesso tipo studiato
da Otto Hofler presso i Germani. 11. Teoria e pratica
La comparazione dei più antichi documenti indoiranici, celtici,
italici e greci, se da una parte permette di affermare che gli Indoeuro¬
pei avevano una concezione della struttura sociale fondata sulla di¬
stinzione e sulla gerarchizzazione delle tre funzioni, dall’altra parte
non può insegnare grandi cose sulla forma concreta - o sulle diverse
forme - in cui si sarebbero realizzate queste concezioni. Bisogna ora
generalizzare ciò che è stato detto più sopra a proposito degli Arya ve¬
dici. È possibile che la società sia stata interamente ed esausti
vamen- te ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può anche
pensare che la distinzione avesse solamente portato a mettere in risalto
qualche clan o qualche famiglia «specializzata», depositaria nell’un caso
dei segre¬ ti efficaci del culto, nel secondo delle iniziazioni e delle
tecniche guer¬ riere e nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie
deH’allevamento, mentre il grosso della società, indifferenziata o meno
differenziata, si affidava alla direzione degli uni o degli altri,
secondo le necessità o le occasioni. Si è infine liberi di
immaginare moltissime forme intermedie, ma queste non saranno che punti
di vista dello spirito. Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia
rivelare la sopravvi¬ venza di formule molto precise: così, nel Rgveda i
«33 dèi» riassumo¬ no una società divina concepita ad immagine della
società aryae sono talvolta scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3
supplementari; oppure, a Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei
quali 30 (cioè 3 per 10) riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei
Ramnes, Luce- res e Titienses, completate da 3 àuguri. 12. Le
tre funzioni fondamentali Così, non è il dettaglio autentico e storico
dell’organizzazione sociale tripartita degli Indoeuropei che interessa di
più il comparatista, ma il principio di classificazione, il tipo di
ideologia che essa ha susci¬ tato, realizzato o formulato, e di cui non
sembra essere più rimasta che un’espressione tra tante altre.
27 Diverse volte nell’esposizione che si è letta è
stata incontrata una parola importante: quella di funzione, di tre
funzioni, e bisogna così intendere certamente le tre attività fondamentali
assicurate da gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri, produttori - per
il sostentamen¬ to e la prosperità della collettività. Ma il
dominio delle «funzioni» non si limita a questa prospetti¬ va sociale.
Alla riflessione filosofica degli Indoeuropei esse avevano già fornito -
come sostantivi astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi delle tre classi
nella riflessione filosofica degli Indiani vedici e posl-vedici - ciò che
può essere considerato, secondo il punto di vista, come un mezzo per
esplorare la realtà materiale e morale o come un mezzo per mettere ordine
nel patrimonio delle nozioni ammesse dalla società.
L’inventario di queste applicazioni non propriamente sociali della
struttura trifunzionale, è stato intrapreso e continuato, dal 1938, da E.
Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre sulla prima e sulla
seconda «funzione» un’etichetta che copra tutte le sfumature: da una
parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli
uo¬ mini tra di loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto,
ammi¬ nistrazione), e così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai
suoi delegati in conformità con la volontà o il favore divino e infine,
più ge¬ neralmente, la scienza c l’intelligenza, allora inseparabili
dalla medi¬ tazione e dalla manipolazione delle cose sacre; dall’altra
parte la forza fisica brutale e l’impiego della forza, uso principalmente
ma non uni¬ camente guerriero. È meno facile delincare in
poche parole l’essenza della terza funzione, che ricopre delle province numerose
fra le quali intercorro¬ no dei legami evidenti ma la cui unità non
comporta un centro ben de¬ finito: fecondità umana, animale e vegetale,
ma, nello stesso tempo, nutrimento e ricchezza, santità e pace (con le
gioie c i vantaggi della pace) e anche voluttà, bellezza c l’importante
idea del «gran numero», applicata non solo ai beni (abbondanza) ma anche
agli uomini che compongono il corpo sociale (massa). Non sono queste
delle defini¬ zioni a priori ma insegnamenti convergenti di molte applicazioni
dell’ideologia tripartita. Gli indologi hanno familiarità con
questo uso straripante della classificazione tripartita sin dai tempi
vedici: per un impulso che ri- 28 corda, nel
suo vigore e nei suoi effetti, la tendenza classificatoria del pensiero
cinese - che ha distribuito tra lo yang e lo yin sia coppie di no¬ zioni
solidali che antitetiche -1’India ha messo le tre classi della socie¬ tà,
coi loro principi, in rapporto con numerose triadi di nozioni preesi¬ stenti
o create per la circostanza. Queste armonie, queste correlazioni
importanti per l’azione simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta
un senso molto profondo, talvolta artificiale e altre volte puerile.
Così, ad esempio, le tre «funzioni» sono distributivamente con¬
nesse ai tre guna (propriamente, «figli») o «qualità» - Bontà, Passione,
Oscurità - delle quali la filosofia sùrìikhyu dice che gli intrecci
variabili formano la trama di tutto ciò che esiste; o ancora, nei tre
stadi superiori dell’universo, le si vede non meno imperiosamente
collegate ai diver¬ si metri e melodie dei Veda o ai diversi tipi di
bestiame o a comandare minuziosamente la scelta dei diversi tipi di legno
con cui saranno fatte le scodelle o i bastoni. Senza arrivare
a questi eccessi di sistematizzazione, la maggior parte degli altri
popoli della famiglia presentano aspetti di questo ge¬ nere che,
ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del globo, hanno la
fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei. Non si potrà
presentare in questa sede che qualche inventario. 13. Triadi di
calamità f.triadi di delitti Da circa vent’anni E. Benveniste ha
individualo presso gli Ira¬ nici c gli Indiani delle formule molto simili
in cui un dio è pregalo di allontanare, da una collettività o da un
individuo, tre flagelli, ognuno dei quali si riconnettc a una delle tre
funzioni. Per esempio, in una iscrizione di Pcrscpoli (Persep. d 3)
Dario domanda ad Ahuramazdà di proteggere il suo impero «r/a// ’esercito
nemico, dal cattivo anno e dall'inganno» (quest’ultima parola, drau- ga,
nel vocabolario del Gran Re designava sopralutto la ribellione po¬
litica, il misconoscimento dei suoi diritti sovrani; ma si riferiva anche
al peccalo maggiore delle religioni iraniche, la menzogna). Parallela¬
mente, al momento delle cerimonie vcdichc del plenilunio c del novi¬
lunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule che, diver¬
samente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per esempio Tditt.Sariìh.,
I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo comune:
29 «Conservami dalla soggezione, conservami dal
cattivo sacrifi¬ cio, conservami dal cattivo nutrimento».
L’enunciato indiano è parallelo a quello iranico, con la riserva
che, al primo livello, il re achemenide parla di inganno e il ritualista
vedico di sacrificio malfatto: questo scarto nei timori corrisponde ad
evoluzioni divergenti - da una parte più moraliste e dall’altra più for-
maliste - delle religioni delle due società. Mi è stato possibile
dimostrare in seguito che i più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti,
i cui usi sono talvolta così sorprendente¬ mente simili a quelli vedici,
utilizzavano la stessa classificazione tri¬ partita delle maggiori
calamità. La principale compilazione giuridica dell’Irlanda, il
Senchus Mór, comincia con questa dichiarazione ( Ancient Laws oflreland,
IV 1873, p. 12): « Vi sono tre tempi in cui si produce il deperimento
del mondo: il periodo della morte degli uomini (morte per epidemia o per
carestia, precisa la glossa), la produzione accresciuta di guerra e la
dissoluzione dei contratti verbali». I malanni sono così ripartiti fra le
tre zone della salute o del nutrimento, della forza violenta e del
diritto. I Galli non hanno inserito nei loro libri giuridici delle
tali for¬ mulazioni astratte, ma un testo che parrebbe essere la
trasposizione ro¬ manzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd a
Llevelis è consacrato all’esposizione delle tre «oppressioni» dell’isola di
Bretagna e al modo in cui il re Lludd vi mise fine. Queste
calamità sono: 1) una razza di uomini «saggi» il cui «sa¬ pere» è tale
che essi intendono per tutta l’isola ogni conversazione, fosse anche a
bassa voce, e interferiscono così nel governo e nei rap¬ porti umani; 2)
ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due draghi, il drago
dell’isola e il drago straniero che viene a «battersi» col primo,
cercando di «vincerlo», e le urla del drago dell’isola sono tali da
paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che il re
ac¬ cumula in uno dei suoi palazzi una «provvista di cibarie e di
vivande», fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte
seguente e porta via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una volta
come le tre oppres¬ sioni si sviluppino qui negli ambiti della vita
intellettuale, dell’ammi¬ nistrazione della forza e infine del
nutrimento; in più, considerate in 30 base ai
loro agenti e non in base alle vittime, esse definiscono tre delit¬ ti:
abuso di un sapere magico, aggressione violenta e furto di beni.
Sembra che il più antico diritto romano ugualmente consideras¬ se i
delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu- tio),
violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto
{furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione
C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,
prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una di¬
stinzione sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in «furto,
violenza fisica e incantesimo» (kXotcti, pila, yor|TEÌa). 14. Tre
medicine E. Benveniste ha raffrontato la classificazione avestica
dei me¬ dicamenti ( Vidèvdàt , VII, 44: medicine del coltello, delle
piante e del¬ le formule d’incantesimo) con l’analisi che fa un inno del
Riveda sui poteri medici degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) «.guaritori
di chi è cieco (male misterioso, magico), di chi è smagrito (male
alimentare) e di chi ha una frattura (violenza)». È lo stesso
procedimento che nella III Pythica di Pindaro il cen¬ tauro Chirone
insegna ad Asclepio per guarire « le dolorose malattie degli uomini»
(versi 40-55: incantesimi, pozioni o droghe, incisioni) ed è stato
sospettato che dietro questi fatti paralleli si celi l’esistenza di una
«dottrina medica» tripartita ereditata dagli Indoeuropei. Se i vec¬ chi
testi germanici non applicano questo schema classificatorio ai ma¬ lanni,
ai delitti o ai rimedi, è vero che l’utilizzano in altre circostanze: il
Canto di Skirnir nell 'Edda è un piccolo dramma in cui il servitore del
dio Freyr costringe, malgrado la sua volontà, la gigantessa Gerdr a
cedere ai desideri amorosi del suo maestro. Inizialmente tenta
invano di comprare ( kaupu ) il suo amore con dei regali d’oro (strofe
19-22); poi, non meno inutilmente, minaccia di decapitarla (str. 23-25)
con la sua spada {ma.’.ki)\ infine al suo terzo ten¬ tativo non gli
rimane che minacciarla con gli strumenti della sua ma¬ gia, bacchette ( gambantein
) c rune (str. 26-37). 15. Elogi tripartiti Quando un
poeta indiano vuole fare brevemente l’elogio totale di un re, passa in
rassegna le tre funzioni in tre parole: così, all’inizio 31
del Raghuvamsa (I, 24) il re Dilàpa merita di essere chiamato padre
dei suoi sudditi « perché assicura loro buona condotta, li protegge e li
nutre». Con delle formule generalmente meno concise, l’epopea irlan¬ dese
procede allo stesso modo. In un bel lesto, il Paese dei Viventi, cioè
l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti immortali, è caratte¬ rizzalo
dall’assenza di morte in base ai tre aspetti seguenti: «.non vi è né
peccato né errore...] vi si mangiano pasti eterni senza servizio; l'in¬
tesa regna senza lotte ». L’originalità del paese meraviglioso
consiste nel fatto che tutto è buono e facile, ma questa idea si analizza
e si esprime nel pensiero dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni
(virtù, guerra, abbon¬ danza alimentare); la seconda funzione, di tipo
violento, considerata come un male c rifiutata, mentre le altre due sono
sviluppale al massi¬ mo grado (J. POKÒRNY, «Conio’s abcnteucrliche Fahrt»
ZCP XVII, 1928, p. 195). In un a simile analisi, per fare 1 ’
elogio del re Conchobar, u n lesto del ciclo degli Ulati dice che sotto
il suo regno vi erano «pace e tran¬ quillità, saluti cordiali», «ghiande,
grasso e prodotti del mare», «con¬ trollo, diritto e buona regalità» (K.
MEYER, «Milleil. aus irischen Handschriflen» ZCP, III, 1901, p. 229):
cioè il contrario della guerra, della carestia c dell’anarchia, il
contrario dei tre flagelli contro i quali il re Dario a Persepoli domanda
al gran dio di conservare il suo impero. 16. Le tre funzioni e la
«natura delle cose» Si può obiettare talvolta che queste formule
non siano troppo naturali, così troppo ben modellale sull’uniforme e
inevitabile dispo¬ sizione delle cose perché il loro accumulo e la loro
somiglianza provi¬ no un’origine comune c resistenza di una dottrina
caratteristica degli Indoeuropei. Una riflessione anche
elementare sulla condizione umana e sul¬ le risorse della vita collettiva
non dovrebbe forse mettere in evidenza, in ogni tempo c in ogni luogo,
tre necessità, cioè una religione che ga¬ rantisse un’amministrazione, un
diritto c una morale stabile, una forza protettrice c conquistatrice,
infine dei mezzi di produzione, di alimen¬ tazione e di gioia? E quando
l’uomo riflette sui pericoli che incontrac sulle vie che si aprono alla
sua azione, non è ancora a una qualche va¬ rietà di questo schema che si
riporta? Basta uscire dal mondo indoeu- 32
ropeo, in cui queste formule sono così numerose, per constatare
che, malgrado il carattere necessario e universale dei tre bisogni ai
quali si riferiscono, esse non hanno la generalità o la spontaneità chesi
suppo¬ ne: al pari della di visione sociale corrispondente, non le si
ritrova in al¬ cun testo egizio, sumerico, accadico, fenicio e biblico,
né nella lettera¬ tura dei popoli siberiani, nè presso i pensatori
confuciani o taoisti così inventivi ed esperti di classificazioni.
La ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per una civiltà,
sentire vivamente e soddisfare dei bisogni impellenti è una cosa; por¬
tarli alla chiarezza della coscienza e riflettere su di essi, farne una
struttura intellettuale e uno schema di pensiero è tutta un’altra. Nel
mondo antico solo gli Indoeuropei hanno fatto questo cammino filo¬ sofico
e così si percepisce nelle speculazioni e nelle produzioni lette¬ rarie
di tanti popoli di questa famiglia, che la spiegazione più econo¬ mica,
come per la divisione sociale propriamente detta, è ammettere che il
percorso non è stato fatto e rifatto indipendentemente in ogni provincia
indoeuropea dopo la dispersione, ma che è anteriore alla di¬ visione ed è
opera di pensatori dei quali i brahmani, i druidi e i collegi sacerdotali
romani sono in parte i diretti eredi. 17. Meccanismi giuridici
triplici Una delle applicazioni più interessanti ma più delicate è
quella che in riferimento alla concezione indoeuropea chiarifica presso i
di¬ versi popoli (India, Roma, Lacedemoni) i quadri e le regole
giuridi¬ che. Lucien Gerschel, ricordando il diritto romano, ha
dimostrato che questo, così originale nei suoi fondamenti e nel suo
spirito, conserva nelle sue forme un gran numero di procedure in tre
varianti a effetti equivalenti (che si spiegano solitamente, ma senza
prove, come crea¬ zioni successive dell’ uso e del pretore) che almeno
qualcuna di queste sorprendenti «tripartita» si modella sul sistema delle
tre funzioni qui considerate. Citerò unodei migliori esempi: un
testamento può essere fatto con lo stesso valore sia nell’assemblea
strettamente religiosa dei Comitia Curiata, presieduti dal gran
pontefice; sia sul fronte di una battaglia davanti ai soldati; sia
tramite una vendita fittizia a un «emp- torfamiliae» (Aulo-Gellio, XV,
27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1). Gerschel non pretende che sia
esistito a Roma un «diritto sacerdota¬ le», un «diritto guerriero» e un
«diritto economico», o che i tre tipi di 33 testamento
abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti differenti, non più
dei tre tipi di affrancamento o delle altre tricotomie giuridiche che si
possono interpretare in questo senso. Questo quadro così
incredibilmente frequente, questa triade di possibilità a effetti
equivalenti e l’omologia delle distinzioni che si di¬ stribuiscono,
sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che «i creatori del diritto romano
hanno da molto tempo pensato i grandi atti della vita collettiva secondo
l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto volen¬ tieri tre processi,
tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti cia¬ scuno dal
principio (religioso; attualmente o potenzialmente milita¬ re; economico)
di una delle tre funzioni ». 18. Le tre funzioni e la
psicologia La stessa psicologia non sfugge a questo schema. I
sistemi filo¬ sofici indiani dosano nelle anime, come nella società, dei
principi come la legge morale, la passione, l’interesse economico
(dharma, kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle tre classi della sua
Repubblica ideale - filosofi governanti, guerrieri, produttori di
ricchezze - delle formule di virtù che distribuiscono e combinano la
Saggezza, il Co¬ raggio e la Temperanza; in un’espressione apparentemente
tradizio¬ nale e legala all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la
mitica regina Medb, depositaria e donatrice della Sovranità, pone come
tripli¬ ce condizione a chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di
«essere senza gelosia, senza paura, senza avarizia» (Tdin Bó Cualnge ed.
Win- disch, 1905, pp. 6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi
brillante- mente interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo
per eccel¬ lenza, Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione
di tre principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale.
Si tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza anti¬
chissima; nei trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17,
9; Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole
concepire un bambino maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin
e a Indra (quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le
va¬ rianti) e a nessun altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo
seguen¬ te, alla lista arcaica indo-iranica degli dèi che incarnano e
patrocinano la prima, la terza e la seconda funzione.
34 19. Talismani simbolici delle funzioni
Un’altra via di sviluppo per il pensiero trifunzionale è stata
quella del simbolismo: tanto i tre gruppi sociali quanto i loro tre
princi¬ pi sono stati legati figurativamente e solidalmente a degli
oggetti ma¬ teriali semplici, il cui raggruppamento li evocava e li
rappresentava. Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia
principalmente portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani
e un venta¬ glio di colori. Ci si ricordi della leggenda
tramite cui gli Sciti, secondo Erodo¬ to, spiegavano le loro origini: gli
oggetti d’oro caduti dal cielo - carro e giogo per l’agricoltore, ascia
(o lancia o arco) come arma guerriera, coppa cultuale - hanno dei valori
nettamente classificatori secondo le tre funzioni. Ora,
questi oggetti non erano solamente mitici: erano conserva¬ ti lutti
insieme dal re e ogni anno venivano solennemente portati attra¬ verso le
terre scitiche. Anche la leggenda irlandese attribuisce alla pe¬ nultima
razza che avrebbe occupato l’isola, e che in realtà è costituita dagli
antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé Danann, «Le tribù della dea Dana»),
un gruppo di oggetti talismani: il «calderone di Dagda» che conteneva e
donava un nutrimento meraviglioso; due armi terribi¬ li, la lancia di Lug
che rendeva il suo possessore invincibile e la spada di Nuada, al cui
colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai infine, sede della sovranità,
il cui grido rivelava quale dei candidati doveva essere scelto come re
(V. HULL«Thefourjewels oftheT.D.D» ZCP, XVIII, 1930, pp. 73-89). Le
mitologie vediche e scandinave collegano allo stesso modo dei gruppi di
tre oggetti caratteristici a degli dèi che ve¬ dremo ben presto e che
sono distribuiti secondo le tre funzioni. 20. Colori simbolici
delle funzioni presso gli Indo-Iranici Quanto ai colori simbolici,
l’importanza e l’antichità sono già segnalate, per il mondo indo-iranico,
dal fatto che i tre (o quattro) gruppi sociali funzionali sono designati
in base alla parola sanscrita varna e alla parola avestica pìstra (cf. il
greco 7touciXoq «screziato», russo pisat' «scrivere»), che con sfumature
diverse designano il colo¬ re. Di fallo è un insegnamento costante
nell’India che brdhmunu, ksatriya, vaisya e sùclru siano rispettivamente
caratterizzati (e le spie¬ gazioni non mancano) dal bianco, il rosso, il
giallo e il nero. 35 Di certo che vi è stata
un’alterazione in seguilo alla creazione delle caste inferiori ed
eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di cui rimangono tracce nei
rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S. IV, 2, 6) e senza dubbio
anche uno nel Riveda («nero, bianco e rosso è il suo cammino » dice X,
20,9 di Agni, il più triplice e trifunzionale de¬ gli dèi), sistema
formato semplicemente da tre colori senza il giallo e dove vi era il nero
(o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli allevato¬
ri-agricoltori. In effetti anche l’Iran ha mantenuto questa
ripartizione: una tra¬ dizione «mazdeo-zurvanita» che è stata
progressivamente stabilita e interpretata da H. S. Nybcrg (1929), G.
Widengren (1938), S. Wikan- der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955)
descrive nella cosmogonia l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella
dei guerrieri come rossa o variopinta e quella degli
agricoltori-allevatori come blu scura. Altri Indoeuropei praticavano lo
stesso simbolismo. V. Basanoff ha intelli¬ gentemente i nterpretato in questo
senso un rituale hiltita di evocatio in cui i diversi dèi della città
nemica assediata sono pregali di lasciarla e di giungere presso gli
assedianti attraverso tre cammini - il che suppo¬ ne tre diverse
categorie di dèi - avvolti uno in una stoffa bianca, il se¬ condo in una
stoffa rossa e il terzo in una stoffa blu ( Keilischrifturk aus
Bof’azkbi, VII, 60; J. FRIEDERICK, Deralte Orient, XXV, 2,1925, pp.
22-23). 21. Colori simbolici delle funzioni presso Celti e
Romani Tra i Celti della Gallia e dellTrlanda il bianco è il colore
dei dm- idi e il rosso, nell’epopea irlandese, è quello dei guerrieri; a
Roma un Albogalerus caratterizza il più sacerdote tra i sacerdoti, il
flamen diu- lis, mentre il paludumentum militare è rosso come il drappo sulla
testa del generale o come la trabea dei cavalieri o dei sacerdoti armati
che sono i Salii. Un sistema completo a tre termini del
simbolismo coloralo s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il
caso più interessante è quello dei colori delle fazioni del circo che
assunsero grande impor¬ tanza sotto l’impero e nella nuova Roma del
Bosforo, ma che sono si¬ curamente anteriori all’impero c che gli
studiosi di antichità romane ricollegano del resto alle origini stesse di
Romolo. 36 Le speculazioni esplicative di
questi antichisti sono molteplici e intrise di pseudo-filosol'ia e di
astrologia, ma una di queste, conser¬ vata da Giovanni il Lido, De mens.
IV, 30, si riferisce a delle realtà ro¬ mane e afferma che questi colori,
che sono quattro, in epoca storica erano inizialmente tre ( albati ,
russati, viricles) in rapporto non solo con le divinità Jupiler, Mars e
Venus (quest’ultima solo apparente¬ mente sostituita a Flora) i cui
valori funzionali sono evidenti (sovrani¬ tà, guerra, fecondità), ma
anche con le tre tribù primitive dei Ramnes, Lucercs e Titienses.
A proposito di questi ultimi si è ricordalo più sopra che erano,
nella leggenda delle origini, sia componenti etnici (Latini, Etruschi,
Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c governanti, da guer¬
rieri professionisti e da ricchi pastori) e che in un altro passaggio {De
magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come paralleli alle tribù
funzionali degli Egiziani e degli antichi Ateniesi. Nel 1942 Jan de
Vries raccolse un gran numero di esempi anti¬ chi e moderni (religiosi,
l'olklorici c letterari) di questa triade di colori: quasi lutti
provenivano dall’area di espansione indoeuropea o dai suoi confini, o
dalle regioni che furono esposte all'influenza degli Indoeu¬ ropei e
alcuni hanno chiaramente un valore classificatorio del tipo qui
considerato. 22. Le scelti- dei tigli di Feridùn
Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle narrazioni mol¬
to diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone qual¬
che esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui ulti¬
mogenito raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi oggetti d’oro
simboli delle tre Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a una tradi¬
zione dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli del l’eroe che V
Ave¬ sta chiama ©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi persiani
Feridùn. Eccola nella traduzione data da M. Molé a un passaggio dell
'Àyàtkar i JàmcispTk: «Da Frètòn nacquero tre figli; Salm,
Tòz ed Eric erano i loro nomi. Egli li convocò tutti e tre per dire ad
ognuno di essi: «Io sto per dividere il mondo tra di voi, che ciascuno di
voi mi dica ciò che gli sembra bello affinché io glielo doni». Salm
chiese grandi ricchezze, 37 Toz il valore ed
Eric, su cui era la gloria dei Kavi (cioè il segno mira¬ coloso che
distingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la religione. Frètón
disse: «Che a ciascuno di voi giunga ciò che ha chiesto». Ed egli donò
infatti la terra di Rum a Salm, il Turkestan e il deserto a Toz e l’Iran
e la sovranità sui suoi fratelli a Eric». Un’interessante variante
di Ferdusi giustifica la stessa divisio¬ ne geografica con un altro
criterio, anche se col medesimo senso. Esposti a titolo di prova a uno
stesso pericolo (un dragone minaccio¬ so), ognuno dei tre fratelli si
rivela in accordo con la propria natura e col proprio «livello
funzionale»: Salm fugge, Tòz si precipita cieca¬ mente all’assalto e Iraj
evita il pericolo senza combattere, con l’intelligenza e il nobile
sentimento che ha della dignità regale della sua famiglia.
23. La scelta del pastore Paride È un tema simile, presente
fra i Greci d’Asia Minore e forse in¬ fluenzato dagli Indoeuropei di
Frigia, che ha fornito la materia del «giudizio di Paride», piacevole
racconto dalle pesanti conseguenze poiché è destinato a spiegare come,
malgrado la sua ricchezza e il suo valore, Troia finisca per soccombere
ai Greci. Paride, il bel principe pastore, vede giungere presso di
sé tre dee (che simboleggiano le tre funzioni) che gli chiedono un
giudizio emi¬ nente; secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig. Aul,
V. 1300- 1307) ognuna si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della
propria attività: Era, « fiera del letto regale del sovrano Zeus », Atena
con l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che
la «potenza del desiderio». Secondo un’altra variante (Euripide,
Troia¬ ne, v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio
promettendo un dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa,
Atene la vit¬ toria e Afrodite la donna più bella. Paride
sceglie male e assegna il premio ad Afrodite, scelta che causerà ben
presto il rapimento dell’incomparabile Elena e, malgrado dieci anni di
combattimento, la fine di Troia, distrutta da una coalizio¬ ne di uomini
e divinità tra le quali Era ed Atena non saranno le meno accanite.
38 Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai
tempi moderni. L. Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere,
tedesche ed austriache raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente
indipendenti dalla leggen¬ da greca, che presentano un giovane uomo che
deve scegliere (ma ge¬ neralmente «bene») fra tre offerte nettamente
funzionali; oppure tre fratelli che si spartiscono tre doni funzionali
dei quali solo uno, quello della «prima funzione» assicura a chi lo
possiede un destino piena¬ mente «buono». Ecco per esempio la forma
originale rigorosamente ricostruita da Gerschel, delle leggende tedesche
sull’origine dello «Jodeln» (Johlen). «Res, il vaccaro di
Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre esseri sovrannaturali in
procinto di fare il formaggio: a un certo pun¬ to il latticello è versato
in tre secchi e nel primo è rosso, nel secondo secchio è verde e nel
terzo è bianco. Res apprende che deve scegliere un secchio e berne il
latticello; allora uno dei vaccari fantasmi ag¬ giunge: «Se scegli il
rosso sarai talmente forte che nessuno potrà combattere con te». Il
secondo vaccaro disse a sua volta: «Se tu bevi il latticello di colore
verde possiederai molto oro e sarai ricchissimo». Il terzo infine spiegò:
«Bevi il latticello bianco e tu sarai Jodeln mera¬ vigliosamente». Res
rifiutò i due primi doni e si decise per il latticello bianco, diventando
un perfetto Jodler ». Gerschel rileva che questa tecnica vocale ha
nelle diverse va¬ rianti un effetto magico (tutte le bestie vengono
incontro allo jodler e. l'accompagnano; tavole e panche danzano nella sua
capanna: le vac¬ che si alzano sulle loro zampe posteriori e danzano; la
vacca più selva¬ tica si addolcisce e si lascia mungere facilmente,
etc.). 24. Talismani di Roma e di Cartagine Verso la
fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio orga¬ nizzato su un tale
tipo di schema la garanzia della sua vittoria finale: una testa di bue,
poi una testa di cavallo (trovate dagli scavatori di Di- done sul sito in
cui si ergeva, con Cartagine, il tempio della «sua» Giu¬ none) avevano, a
detta di loro, garantito alla città africana l’ opulenza e la gloria
militare. Ma in virtù della testa d’uomo che gli spalatori di Tarquinio
avevano un tempo trovato sul Campidoglio, nel sito del fu-
39 turo tempio di Jupiter O. M, è Roma che detiene la più
alta promessa, quella della sovranità. L. Gerschel, a cui si deve ancora
questa sor¬ prendente interpretazione, ha ricordato che presso gli
Indiani vedici uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori
delle vittime ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme
alle teste delle due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno
in apparenza, essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare
l’importante altare del fuoco, in mancanza del santuario permanente che
non esiste i n India. 25. I TRE PECCATI DEL GUERRIERO
Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico la tripar¬
tizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema di
grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato in India,
in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio o di un
uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III capi¬
tolo) un personaggio della «seconda funzione», un guerriero. Indra,
il dio guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei Brahmano e nelle
epopee la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è lun¬ ga e varia. Ma
il quinto canto del Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo schema delle tre
funzioni: Indra uccide prima il mostro Tricefalo, morte necessaria poiché
il Tricefalo c un flagello che minaccia il mon¬ do, ma tuttavia morte
sacrilega poiché il Tricefalo ha il rango di brah¬ mano e non vi è
crimine peggiore del brahmanicidio e di conseguenza Indra perde la sua
maestà, la sua forza spirituale, tejas (1-2). Poi, es¬ sendo stato
generato il mostro Vrtra per vendicare il Tricefalo, Indra s’impaurisce e
contravvenendo alla vocazione propria del guerriero conclude con Vrtra un
patto infido che viola, sostituendo alla forza l’inganno; di conseguenza
perde il suo vigore fisico, baia (3-11). Infi¬ ne, tramite un’astuzia
vergognosa, assumendo la forma del marito, adesca una donna onesta in
adulterio e perde così la sua bellezza, rùpa (12-13).
L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a rintracciarne la
storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in lingua scandinava -
conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr (Starcatherus),
guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e devoto ai re che
1’accolgono, salvo che in tre circostanze. 40
Egli è infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una
vita prolungata sino alla misura di tre vite normali, a condizione che
in ognuna di esse egli commetta una penalità. Ora, il quadro
di queste tre penalità si distribuisce chiaramente secondo le tre
funzioni. Essendo al servizio di un re norvegese l’eroe aiuta
criminalmente il dio Othinus (Ódinn) a uccidere il suo signore in un
sacrifìcio umano (VII, V, 1-2). Trovandosi poi al servizio di un re
svedese /ugge vergognosa¬ mente dal campo di battaglia dopo la morte del
suo signore abbando¬ nandosi, in quest’unica occasione delle sue tre
vite, alla paura panica (Vili, V). Servendo infine un re danese,
assassina il suo signore procu¬ randosi per mediazione centoventi libbre
d’oro, cedendo eccezional¬ mente per qualche ora all’appetito di questa
ricchezza di cui fece altro¬ ve, in atti e discorsi, professione di
disprezzo (VII, VI, 14). Essendosi così estinta 1 a sua triplice
carriera non gli rimane che cercare la morte ed è ciò che compie in uno
scenario grandioso (Vili, Vili). Il carattere e le gesta di Starkadr
ricordano in molti punti quelle di Eracle. Nelle esposizioni sistematiche
che sono fatte - relativamen¬ te tarde ma non inventate - la vita intera
dell’eroe greco (concepito da Zeus e Alcmene durante tre notti) è
scandita da tre mancanze che han¬ no un effetto grave sull 'essere dell’
eroe e ognuna di questecomporta il ricorso all’oracolo di Delfi (Diodoro,
IV, 10-38). 1) Euristeo re di Argo comanda ad Eracle di compiere dei
lavori e ne ha il diritto in virtù di una promessa imprudente di Zeus e
di un’astuzia di Era: Eracle commette tuttavia l’errore di rifiutare,
malgrado l’invito formale di Zeus e l’ordine dell’oracolo. Approfittando
di questo stato di disubbi¬ dienza agli dèi, Era lo colpisce nel suo
spirito: egli è così preso dalla demenza ed uccide i suoi bambini, dopo
di che ritorna penosamente alla ragione, si sottomette e compie così le
Dodici Fatiche, aggravate da altre fatiche (cap. 10-30). 2) Volendosi
vendicare di Erito, Eracle attira suo figlio Iphitos in un tranello e lo
uccide non in duello ma con l 'inganno (Sofocle nelle Trachinie 269-280
sottolinea il carattere for¬ temente antieroico di questo sbaglio).
Eracle, punito, cade in una ma¬ lattia psichica da cui non si libera:
viene così informato dall’oracolo che deve vendersi come schiavo e
rimettere ai figli di Iphitos il prezzo di questa vendetta (cap. 31). 3)
Benché infine legittimamente sposato aDeianira, Eracle cerca di sposare
un’altra principessa, poi ne rapisce 41 una
terza e la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva il terribile di¬
sprezzo di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di Nesso e i terri¬
bili e irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può liberarsi, dietro un
terzo ordine di Apollo, che con la propria apoteosi, col rogo (cap.
37-38). Oltraggio a Zeus e disobbedienza agli dèi; morte vile e
perfida di un nemico senz’ armi; concupiscenza sessuale e oblio della
propria don¬ na: i tre errori fatali di questa gloriosa carriera si distribuiscono
sulle tre zone funzionali esattamente come i tre peccali di Indra e con
la stessa specificazione (concupiscenza sessuale) della terza, alterando
l’essere stesso dell’eroe. Ma queste alterazioni, progressive e
cumulative nel caso di Indra, sono invece successive nel caso di Eracle:
le prime due possono essere riparate mentre la terza trascina alla
morte. In una tradizione avestica, senza dubbio ripensala e
ri-orientata dallo zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo, Yima, è
punito per un unico grande peccalo (menzogna o, più lardi, orgoglio c
rivolta contro Dio e usurpazione degli onori divini) e viene privato in
tre tempi dello x' arvnah , di quel segno visibile e miracoloso della
sovranità che Ahu- ra Mazda pone sul capo di coloro destinati ad essere
re. I tre terzi di questo x v arvnah successivamente sfuggono per
collocarsi nei tre per¬ sonaggi corrispondenti ai tre tipi sociali dell’
agricoltore-guaritore, del guerriero e d c\V intelligente ministro di un
sovrano (Dènkart , VII, 1, 25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl
XIX, 34-38). 26. Il problema del re Questo rapido
excursus è sufficiente per mostrare le direzioni e i diversi ambili in
cui l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha uti¬ lizzato la struttura
tripartita; ancora una volta dobbiamo ora volgerci, come per le altre
applicazioni di questa struttura, verso i popoli non indoeuropei del
mondo antico per ricercare se intorno a un eroe si è prodotto un tema
epico o leggendario, la messa in scena di una lezione morale o politica,
la giustificazione colorita immaginifica di una prati¬ ca o di uno stato
di fatto. Al momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da
Gilga- mesh a Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi
della Cina, dalla saggezza araba agli apologhi confuciani, nessun
personag¬ gio storico o mitico ha rivestito in alcun modo l’uniforme
trifunziona- 42 le in cui si trovano al
contrario molte figure degli Indoeuropei. È dun¬ que probabile che questa
divisa sia solo indoeuropea e che solo in questa vasta partedel mondo, e
prima della loro dislocazione, gli Indo¬ europei abbiano
intellettualmente scandagliato, meditato e applicato all’analisi e
all’interpretazione della loro esperienza, e infine utilizza¬ to nei
quadri della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità
fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano di soddi¬
sfare. Terminando quest’esposizione molto generale vorrei
sottoline¬ are ancora che il riconoscimento di questo fatto così
importante non ci fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale
effetti voo le istitu¬ zioni (senza dubbio variabili da provincia a
provincia) degli «Indoeu¬ ropei comuni». Noi non possediamo
che un principio, uno dei princìpi e dei quadri essenziali. Una delle
questioni più oscure rimane ad esempio il rapporto fra le tre funzioni e
il «re», del quale ci è assicurala l'esistenza antichissima nella parte
senza dubbio più conservatrice degli Indoeu¬ ropei, cioè presso gli
indiani vedici (/•«/-), i latini (/ <?#-) c i celti (n#-).
Questi rapporti sono diversi sui tre domini c su ognuno vi è stata
una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così qualche fluttuazio¬
ne nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c notoria¬
mente della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla strut¬
tura trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura
amministrazione del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul
sovrano e i suoi ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governato¬
re) è al contrario il più eminente rappresentante di queste funzioni.
Oppure si presenta una mescolanza variabile di clementi presi dalle
tre funzioni e in special modo dalla seconda, dalla funzione e dal¬ la
classe guerriera da cui solitamente proviene: il nome differenziale dei
guerrieri indiani, ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di ràjanya,
derivato dalla parola ràjanl Queste difficoltà, insieme ad altre,
potranno essere meglio for¬ mulale, se non risolte, quando avremo indirizzato
lo studio su ciò che fu l’armatura più solida del pensiero di questa
società arcaiche: il siste¬ ma divino, la teologia e i suoi prolungamenti
mitologici ed epici. 43 Note ai paragrafi
§ 1. V.M. AFTE, «Were castes formulateci in thè age of thè Rig
Veda?», Bull, of thè Decenti College Research Institute, II, pp. 34-36.
Per brahman vedi L. RENOU, «Sur la nolion de bràhman», JA, CCXXXVII,
1949, pp. 1 -46. Questa interpretazione, facile da conciliare con i fatti
iranici segnalali da W.B. HENNTNG,' «Brahman», TPS, 1944, pp. 108-118,
rende caduco il senso ammesso nel mio Flamen-Brahmnti (1935). Il
«Brahman» di P. THIE- ME, ZDMG, 102, 1952, non ha fatto avanzare
l’analisi e non altera il risultato dello studio di Renou. Circa i
rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia discussione con J. GONDA (
Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII, 1950, pp. 255-258 eCXXXIX
1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente la questione di questi
rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo in vedico e
appartiene per certi impieghi al vocabolario del «primo livello»; ma la
concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito ksatriya per designare
l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome dell’arcangelo sostituito
nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo livello (vedi qui sotto II § 8) e
infi¬ ne di /Exscert-ieg come nome della famiglia degli uomini
differenzialmente “forti” nell’epopea degli Osseli (vedi sotto, 4),
garantisce che fin dai tempi indo-iranici questo termine fosse una
designazione tecnica dell’essenza del secondo livello. § 2.
DUMÉZIL, «La préhistoire indo-iranienne des castes», JA, CCXVI, 1930, pp.
109-130. B ENVENISTE, «Les classes sociales dans la tradilion ave-
stique», JA, CCXXI, 1932, pp. 117-134; «Les mages dans l’ancien Iran»,
Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938, pp. 6-13; «Tradilions
in- do-iraniennes su les classes sociales», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-550;
H.S. NYBERG, Die Religione/} cles alteri Iran, 1938, pp. 89-91; DUMÉZIL,
JMQ, pp. 41-68 (= JMQ it. pp. 24-45). § 3. L’interpretazione
è stata progressivamente costituita negli articoli e nei libri citati al
§ 2, partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le pre¬ mier homme...
I, 1918, pp. 137-140. § 4. JMQ, pp. 55-56 (= JMQ il., p. 35). Sulle
tradizioni degli Osseti vedi il mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il
risultato delle grandi inchieste degli anni ‘40 pubblicale in Osetinskije
Nartskije Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in osseto: Narty kailcliitce ibid.
1946). Il testo citalo di Turganov è nell’articolo «Klo takie
Narty?»,/zv. Oset. histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak), 1925, p.
373. § 5. Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de Franco
(1949), pp. 15-19 e BGDSL, 78, 1956, p. 175-178. § 6. JMQ,
pp. 110-123 (=JMQ il. pp. 77-87). Sette anni più tardi, dopo la guerra,
T.G.E. POWELL ha ripreso la mia dimostrazione, «Ccltic Origins; a Stage
in thè Hnquiry», J. ofthe R. Anthropol. Institute, 78, 1948, pp. 71-79:
« Of greatest interest is thè recognition of a three folci clivision o f
society 44 among thepeoples concerned [Indiani,
Italici, Celti ],providing in thehighest rank a class oflearned and
sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo- west thè ordinary
people » etc. Circa il nome di aire apparentato ad aiya, io credo che
bisogna rinunciare all’etimologia che accosta il nome dell’eroe ir¬
landese Eremon al dio indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in
conse¬ guenza sopprimere l’ultimo capitolo del mio Troisième Souverain,
1949. § 7-8. Questa analisi è stata fatta progressivamente in JMQ,
pp. 129-1 54 (= JMQ it., pp. 90-107); NR, pp. 86-127 (= JMQ it. pp.
230-263); JMQ IV, pp. I 13-134. In parte qui riproduco il riassuntode
L'heritage... pp. 127-130 e 190-209. Gli Umbri distinguevano nella
società i rappresentanti delle tre fun¬ zioni: «Ner - et uiro - dans les
sociétés italiques», REL, XXXI, 1953, pp. 183-189. § 8. Delle
obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in NR, cap. II
(= JMQ it. pp. 230-262), riassunto in L’heritage... pp. 196-201 e 229-23
1. Ho anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - «superbum
Rhamnetem» -come nomeproprioda Virgilio (Aen., IX. 327) è perdesignare un
re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome della
gens Lucretia, una delle più militari delle leggende dei primi tempi della
Re¬ pubblica (e proprietaria del cognome Tricipitinus, che senza dubbio
allude a un mito del Tricefalo); che il radicale di Titienses (F.
BUCHELER, Kl. Sdir., Ili, 1930, pp. 75-80) si trova in altre parole in
rapporti diversi ma convergenti con la fecondità, l’amore, la voluttà:
questo conferma l’orientamento diffe¬ renziale di ognuna delle tribù
verso una delle tre funzioni. Ho infine ricercato delle allusioni
letterarie alle «tre funzioni» e ai loro rappresentanti, come componenti
di Roma o di altre società concepite a sua immagine: JMQ IV, pp. 121-136;
REL, XXIX, 1951, pp. 3 18-329; ma i testi degli storici e quello di
Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità della fusione
dei Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a questa ma
differente, vedi sotto, II i? 17, nota. § 9. JMQ, pp. 252-253
(=JMQ it., pp. 269-270); in compenso le classi do¬ riche sono di un altro
tipo, malgrado JMQ, pp. 254-257 (soppresso in JMQ it.). Un recente studio
di MARTIN P. NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults, myths, oracles
andpolitics in ancient Greece, 1951, pp. 143-149) presenta delle
difficoltà che esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente pro¬ posto
di riconoscere la tripartizione sociale indoeuropea nei testi micenei:
TPS, 1954, pp. 18-53; Acliaeans and Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture,
Oxford 1954, pp. 1 -22. Quanto ai «tre stati» della Repubblica di Platone,
vedi JMQ, pp. 257-261 (= JMQ it. pp. 170-171 ): « Se le più antiche
tradizioni degli Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale
quadripartita della so¬ cietà (sacerdoti, guerrieri, agricoltori,
artigiani), la città ideale di Platone non potrebbe forse essere, nel
senso più stretto, una reminiscenza indoeuro¬ pea? Essa è costituita
dalla concatenazione armoniosa di tre funzioni, tò (pu7.CXKlKÓV O
(3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ XpimOtTlCTTUCÓV «CUStO-
45 dum genus, uuxiliarii, questuarti», come traduce Marsilio
Ficino, cioè i filo¬ sofi che governano, i guerrieri che combattono e il
terzo-stato, agricoltori e artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La
solidarietà dei primi due gruppi al di sopra del terzo è fortemente
marcata, ma soprattutto l’originalità di cia¬ scuno: ogni stato agisce
conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia, evita la confusione
, 7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della vita politica, è
assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una «formula di virtù»
particolare: il terzo stato deve essere temperante, acótppcov; alla
temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio, àvSpeia; i
«guardia¬ ni» saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa immaginare,
per quel po ’ che li si è praticati, i trattati politico-religiosi
dell’India: stessa definizione dei tre stati sociali; stessa solidarietà
dei primi due, ubhe vlrye; stesso anate¬ ma contro la confusione,
varnanàm samkaram,- stessa esortazione ad atte¬ nersi al modo di azione a
cui si appartiene, stessa distribuzione dei doveri e delle virtù dello
stato. I legislatori indiani e la Repubblica si fanno eco: none forse
perché essi recitano la medesima canzone ancestrale?... Che si pensi a
tutte le vie per le quali questa «filosofia indoeuropea» tripartita ha potuto
di¬ scendere fino a Platone: non solo le tradizioni sulle origini degli
Ioni, ma i contatti molteplici con quel conservatore di dottrine, non
ariane, ma anche ariane, che fu l'impero degli Ac he me nidi; l'orfismo,
in cui deiframmenti del¬ la scienza dei sacerdoti traci e frigi si sono
depositati e in cui non mancavano le triadi; il pitagorismo, su cui Henri
Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a non trascurare le componenti
«iperboree»; infine il folklore...» Cf. qui sotto § 18, per le
applicazioni psicologiche della divisione tripartita nell’India e in
Platone. § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano
ma-ra-ya-na\ cunei¬ forme mar-ya-an-nu ; forse come l’ha proposto
Albrighl, dall’accusativo plu¬ rale arya mdrycin + la terminazione
hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN, «New light on thè Maryannu as
chariot-warrior», Jb. f kleinas. Forschung, 1951, pp. 308-324. I libri
fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der arische Mannerbund, 1938 e H.
LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da confron¬ tare con O. HÒFLER,
Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934. Una delle grosse differenze
tra il «Mannerbund» degli Indiani e quello dei Germa¬ ni consiste nel
fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna), mentre il secondo a
Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della «funzione guer¬
riera» presso i Germani (cf. II § 22); vedi MDG, p. 92, n. 1 e più
specificata- mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch., II, 1957, §§
405-412. § 11. Un’interpretazione delle corrispondenze del tipo
«33» fra Roma e l’India vedica è proposta in JMQ IV, pp. 156-170 (= JMQ
it., pp. 389-405), L'heritage..., pp. 213-227.1 «33 dèi» vedici sono
ripartiti frai tre piani del mondo (JMQ IV, pp. 30-33; riassunto in DIE,
pp. 7-9) essi stessi in rapporto con le tre funzioni (JMQ, p. 65 = JMQ
it. pp. 42-43 ). Il carattere indo-iranico dei «33 dèi» è garantito dalla
concezione avestica dei «33 ratu» (spiriti pro- 46
tettori o prototipi delle diverse specie di esseri): JMQIV, pp.
158-159(=JMQ it., pp. 294-395), secondo J. Darmesteter e S.
Wikander. § 12. È nel suo articolo «Traditions indo-iraniennes sur
les classes socia - les», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-549, che E. BENVENISTE
ha per la prima volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in
cui il fatto era ben cono¬ sciuto, che l’ideologia tripartita supera
largamente l’organizzazione sociale che finalmente non appare più se non
come un’applicazione particolare. Come disse all’inizio di un altro
articolo, per riassumere l’insegnamento di questo («Symbolisme social
dans les cultes gréco-italiques» RHR, CXXXIX, 1945, p. 5): «La elivisione
della societe'i in tre classi, sacerdoti, guerrieri, agricoltori, è un
principio di cui gli Indo-Iranici avevano piena co¬ scienza e che
presentava ai loro occhi l’autorità e la necessità di un fatto na¬
turale. Questa classificazione regge così profondamente l’universo
indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le enunciazioni
esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA, 1938, p. 529
e segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate e che sono
fuori dal¬ la sfera propria del sociale, al punto che ogni de finizione
di una totalità con¬ cettuale tende inconsciamente a riflettere il quadro
tripartito che organizza la società degli uomini. Da parte sua, G.
Dumézil, in una serie di brillanti stu¬ di ha riportato sino alla
comunità indoeuropea l’origine di questa classifica¬ zione, scoprendola
nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale antica e
principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella
reli¬ gione romana». Le posizioni variabili della «tecnica» in rapporto
alla tripar¬ tizione sociale sono esaminate in «Les métiers et les classes
fonclionnelles chez divers peuples indoeuropéens» che sarà pubblicato
quest’anno in Anna- les. Economies, Sociétés, Civilisations.
§ 13. BENVENISTE, «Traditions indo-iran. sur les classes sociales»,
JA CCXXX, 1938, pp. 543-545; DUMÉZIL, «Triades de calamités et triades
de délits à valeur trifonclionnelle chez divers peuples indoeuropéens»,
Ltito- mus, XIV, 1955, pp. 173-185. § 14. BENVENISTE, «La
doctrine médical des Indo-Européens», RHR, CXXX, 1945, pp. 5-12; Dumézil,
art. cit. al paragrafo precedente, p. 184, n.2. § 15. JMQ, pp.
114-115 (= JMQ it., p. 80) § 17. «Les trois fonctions et le droit
romain selon L. Gerschel», frammenti di una memoria inedita di L. G.,
pubblicata in appendice a JMQ IV, pp. 170-176. § 18. Per
Platone e l’India vedi JMQ, pp. 259-260 (=JMQ it., pp. 171 -172)
«Dopo aver scoperto la formula tripartita della società, Platone si
volge sull’individuo, sull'«Uno umano» e in questo microcosmo ritrova gli
stessi elementi in una stessa gerarchia, le stesse condizioni di armonia
comandano le medesime virtù. L'uomo giusto, dal punto di vista della
giustizia, non diffe¬ risce in niente dallo Stato giusto; ha in sé
l'equivalente dei saggi, dei guerrie¬ ri, degli uomini ricchi: questi
sono i principi della conoscenza, della 47 flussione
e dell ’appetito , xò à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,- che
effli subordina in modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i
due primi dominino insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la
parte più considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di
ricchezze; poi¬ ché apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli
spazi spirituali che convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere.
Allo stesso modo l’India, con l’instabilità delle rappresentazioni e
delle formulazioni che le è propria, compone l’anima o meglio l'involucro
dell’anima, di tre guna al pari della società e dell'universo: queste
qualità, che furono inizialmente luce, crepu¬ scolo e tenebra, sattva,
rajas e tamas, sia perla loro presenza isolata che per la loro
combinazione, costituiscono gli individui e lo Stato: talvolta il senso
della legge morale, della passione e dell’interesse, dharma, kama e artha,
si uniscono in una triade equivalente a quella dei guna e il loro
equilibrio lode¬ vole o biasimevole definisce i tipi umani; talvolta,
seguendo uno schema prettamente indiano, è la conoscenza serena,
l’attività inquieta o l’ignoran¬ za fonte di errori, che si disputano il
nostro effimero edificio e questa sempli¬ ce enumerazione disegna una
terapeutica...» Per l’Irlanda e la regina Medb vedi JMQ, pp. 115 -116 (=
JMQ it., pp. 80-82); è la stessa Medb che commen¬ ta chiaramente la sua
seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valo¬ roso in guerra
e anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in questi
termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché «non sono mai stata
senza un uomo nell’ombra di un altro » - allusione alle costanti competi¬
zioni intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e conferisce. Nella
lon¬ tana posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul. Hon.,
espone magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima (o delle tre
anime) c ritro¬ va, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di Medb
(ma col «timore» al primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris
ira; seruitiipaliere iugum... - Per «Zoroastro tripartito» vedi K.
Barr, «Irans profet som xéXeioq avOptonoq», Festkr. tilL.L. Hammerich,
1952, pp. 26-36. § 19. Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi
JMQ, cap. VII (soppri¬ mendo le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici
(la Vacca magica per il dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai
pcrlndra, ilearro a tre ruote che ser¬ ve agli Aévin per portare la loro
benevolenza al mondo: p. es. RV, I, 161, 6) e scandinavi (P anello magico
per Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle setole d’oro per
Freyr) vedi Tarpeia, IV («Mamurius Veturius»), pp. 205-246. §
20. Nei rituali vedici vi sono tracce di un’antica assegnazione del nero
ai vaiéya: per costruire la sua casa un indiano sceglie un suolo
diversamente co¬ lorato, bianco per un brahmano, rosso per uno ksatrya e
per un vaiéya, giallo secondo certi trattati ( Àsvalàyana G.S., II, 8, 8)
e nero secondo altri ( Gobhila G.S., 7, 7; Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per
la tradizione iranica vedi in ultimo luogo ZaEHNER, Zurvan, 1955, pp.
118-125 (testo del Grande Bundahisn c del Denkart, pp. 321-336 e
374-378). Per il rituale hittita vedi BasaNOFF, Euocatio, 1947, pp. 141-150.
48 § 21. DUMÉZIL, Rituels cap. Ili («Albati, russati,
virides») e IV («Ve- xillum caeruleum»); J. DE VRIES, «Rood, wit, zwart»,
Volkskimde, II, 1942, pp. 1-10. § 22. MOLE, «Le partage
du monde dans la tradition des Iraniens», JA, CCXL, 1952, pp.
456-458. § 23. DUMÉZIL, «Les trois fonctions dans quelques
traditions grecques» Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L. Febvre ),
I, 1954, pp. 25-32, dove sono studiate in questo senso il «Kroisos-Logos»
di Erodoto e certe forme dell’apologo di Mida e del Sileno; L. GERSCHEL,
«Sur un schème trifon- ctionnel dans une famille de légendes
germaniques», RHR, CL, 1956, pp. 55-92, in cui sono esaminati due tipi
imparentati di leggende, una che com¬ porta l’opzione proposta a un
individuo fra tre «offerte funzionali» (es. l’origine di «Jodeln» citata
nel testo) e l’altra che presenta tre fratelli che si spartiscono tre
doni funzionali il cui valore si rivela disuguale a vantaggio del dono
della prima funzione (es. il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT D’ARLINCOURT,
Le Pélerin, III, 1842, pp. 268-291 ha pubblicato un buon esempio).
§ 24. L. GERSCHEL, «Structures augurales et tripartition
fonctionnelle dans la pensée del’ancienneRome», JP, 1952, pp. 47-77.
L’estrema antichità e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e
pratiche augurali di Roma (la parola augur è indoeuropea) sono state
stabilite in diversi articoli: «L’inscription archaique du Forum et
Cicéron, De divin., Il, 36», RSR, XXXIX-XL ( =Mél. J. Lebreton. I), 1951,
pp. 17-29, prolungata da «Le iuges auspicium et les incongruités du
taureau attelé de Mugdala», NC, V, 1953, pp. 249-266; Rituels..., cap. II
(«Aedes rotunda Vestae»); «Les trois premiè- res regiones caeli de
Martianus Capei la», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A M. Niedermamì),
1956, pp. 102-107. Sulla parola augur e la sua preistoria in¬ doeuropea,
vedi «Remarques sur augur, augustus», REL, XXXV, 1957, pp. 126-151.
§ 25. Aspects..., p. 63-101 («Les trois péchésdu guerrier»). Citiamo
anco¬ ra L. GERSCHEL, «Coriolan», Eventail de l’Histoire vivante (=Mél.
L. Feb¬ vre), II, 1954, pp. 33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma,
resiste alle ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto
il corpo sacerdo¬ tale rivestito delle sue insegne sacre e con gli
strumenti di culto, ma cede alla terza, a quella di tutte le donne di
Roma che portano i loro bambini - la «parte germinativa» di Roma -
condotte dalla sua propria madre e da sua moglie. § 26. Sulla
diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre funzioni, vedi la
mia comunicazione al Vili Congresso Internazionale di Storia delle
Religioni (Roma 1956), «Le rex et les flamines maiores», riassunta negli
Atti..., 1956, pp. 118-120. Sul re germanico nella prospettiva
trifunzionale vedi J. DE VRIES, «Das Kònigtum bei den Germanen»,
Saeculum, VII, 1956, pp. 289-309. 49
Capitolo secondo Le teologie tripartite 1.
Espressione teologica dell’ideologia delle tre funzioni Le teologie
dei diversi popoli indoeuropei non sono essenzial¬ mente degli accumuli
incoerenti di dèi stratificati dai flussi e riflussi fortuiti della
storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente infor¬ mati è facile
riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si definiscono le
une con le altre e che si spartiscono le province del sa¬ cro, secondo il
piano spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi sono stati per
lungo tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal compresi.
Il loro riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo itali¬ co
e mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a partire
dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi;
all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta
penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei
diversi ambiti. 2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli
inni e nei RITUALI VEDICI I sacerdoti dell’India
vedica, in un certo numero di circostanze rituali importanti, associano
(per delle invocazioni, delle offerte o del¬ le enumerazioni
classificatorie) i due sovrani dell’universo, Mitra e 51
Varuna, il dio guerriero per eccellenza, lnd(a)ra, c i due
gemelli, quasi sempre designati al duale con un nome collettivo, i
Ncisatya o Asvin, guaritori, datori di discendenza e di ogni sorta di
bene. Talvolta al se¬ condo livello, evidentemente per analogia col
raggruppamento bina¬ rio del primo e terzo livello, Indra compare
associato a un altro dio, spesso variabile (Vàyu, Agni, Surya, Visnu).
Abbiamo già visto (I § 18) questo insieme divino (Mitra-Varuna, i due
ASvin, Indra con Agni o Sùrya), invocati per ottenere la formazione di un
feto maschio, obiet¬ tivo più importante in questi tempi arcaici che non
oggi. L’ordine di numerazione mette gli ASvin al secondo posto,
pri¬ ma di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un avvenimento
che è propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione differente
dell’ordi¬ ne che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento
costituisce la lista dei principali «dèi in coppia» invocali al momento
culminante della spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico);
sono Indra-Vàyu, Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV,
1, 3-5) ed è lui che comanda il piano di un certo numero di inni del
Rive¬ da ispirati da questo rituale. Il contesto di questi
inni è sovente istruttivo, garantisce e illu¬ stra il valore funzionale
di ogni livello divino: per esempio in I, 139 Indra-Vàyu sono
caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c nella stessa strofa ( 1),
della parola sàrdhas, termine tecnico che designa il battaglione dei
giovani guerrieri divini: la strofa di Mitra-Varuna (2) è riempita dalla
nozione di rtù c dnrta, cioè dell’Ordine cosmico e mo¬ rale e dal suo
contrario; gli ASvin (3) sono invece presentati come i si¬ gnori delle
due varietà di «vitalità», srlyah e prksah. Nei due inni
complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualifi¬ cati come nani,
«Mànner, eroi» (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è detto che «con
l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto un’elevata efficienza »;
quanto agli Asvin, « donano gioia a molti» (3, slr. 1). 3.
Lis ti-: ascendenti e discenden ti Più spesso l’ordine canonico sia
ascendente che discendente è rispettato. Ecco inizialmente due casi molto
«puri» in cui Indra è solo al suo livello. 52
Nel rituale arcaico e minuzioso d’erezione dell’importante alta¬
re del fuoco, al momento in cui si tracciano i sacri solchi che devono
li¬ mitare l’area, viene fatta un’invocazione alla vacca mitica,
Kàmadhuk («quella che quando la si munge dona ciò che si
desidera»). L’invocazione contiene la sequenza divina che ci riguarda,
nel senso discendente, con un prolungamento che ne garantisce i valori
funzio¬ nali: «Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna,
a Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei
sfidra), alle creature, alle piante!» (cf. Éat. Brdhm., VII, 2, 2, 12).
In una tale numerazione ordinata, al di sopra delle piante, degli animali
ed even¬ tualmente degli uomini non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin
non possono patrocinare che tre varietà di uomini arya, quelli che
corri¬ spondono rispettivamente e gerarchicamente alle loro tre
nature. In un sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli
stessi dèi sono invocati nell’ordine ascendente con un complimento
colletti¬ vo ed esauriente (Taittir. Sarnh. , II, 3, 10, 1 b): «tu sei il
soffio degli dèi Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il soffio
di Mitra-Varuna... tusei il soffio di Tutti gli Dèi!». Con
Agni associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osser¬ va la stessa
sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interes¬ sante ( RV ,
X, 125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine delle strofe):
è il famoso inno panteista, messo nella bocca di un perso¬ naggio che è
senza dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta come il
supporto e l’essenza comune di tutto ciò che esiste. La prima
strofa è questa: «Io vado con i Rudra, con i Vasu, con gli Àditya e con
Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due Mi¬ tra-Varuna; sono io
che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due Asvin!». È degno di nota
che nelle strofe seguenti, analizzando la pro¬ pria polivalenza o, come
ella dice, i « diversi luoghi » c «soggiorni» in cui «glidèi l’hanno
introdotta » (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in ri¬ salto, come parti
della sua opera in rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6 =AV str. 4, 3,
5) il nutrimento e la vita, poi la parola «assaporata dagli dèi e dagli
uomini» e il bene che concede ai personaggi sacri (bruh- man, rsi),
infine l’arco «la freccia che uccide il nemico del brahmàn» c il
combattimento. È chiaro che, qualunque sia l’intenzione dottrinale
(si è parlato in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo poema
utilizza nel- 53 le sue espressioni il più
antico sistema concettuale degli Arya: con la sua esposizione di nozioni
parallele (dèi, azioni) conferma che la se¬ quenza Mitra-Varuna, Indra
(solo o accompagnato) e i due Asvin riu¬ nisce i patroni e le espressioni
teologiche delle tre funzioni. 4. Gli dei arya dei Mitanni
Talvolta leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è spesso
possibile comprendere, questa stessa sequenza si ritrova in di¬ versi
testi dell’India arcaica, ma ora voglio giungere senza indugio a un
documento molto importante. È risaputo che tra gli Indo-Iranici un
ramo parlante sia il futuro «indiano-vedico», che un dialetto molto
vicino a quelli che si possono chiamare «para-indiani», invece di
emigrare verso Est, verso l’Indo e il Panjab, deviò verso Ovest, presso
l’Eufrate e fino alla Palestina, in¬ correndo in un destino brillante ma
effimero e lasciando sue tracce in molti scritti cuneiformi. Mentrei
loro fratelli orientali, autori degli inni vedici, sfuggono alla storia,
questi, circondali da popoli archivisti e armati di una scrit¬ tura, sono
localizzabili e databili con una grande precisione. Sono loro che hanno
fatto tremare e talvolta crollare antichi reami del Vicino Oriente con le
loro bande di guerrieri specialisti, di cui si c parlato più sopra,
quelli che i testi babilonesi ed egiziani chiamano marianni. Il
gruppo più interessante di questi «Para-Indiani» è quello che, inquadrando
e dirigendo un popolo di altra origine, ha fondato nella metà del secondo
millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero hurri- ta dei Mitanni, che
per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto trattare da pari a
pari. Nel 1907, a Bogazkòy, negli archivi di un re hittita, gli
scavi hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un trattato
concluso da questo principe, verso il 1380, col suo vicino dei Mitanni,
il re Mati- waza. Restaurato sul suo trono dall 'Hittita che gli aveva
inoltre donato sua figlia, il Mitan no stabilì un’alleanza col suo
benefattore nella debi¬ ta forma. Il testo enumera le
maledizioni celesti in cui egli accetta di in¬ correre se mancherà alla
parola. Secondo l’uso, i due contraenti con¬ vocano come garanti tutti
gli dèi che i loro due imperi riconoscono. Fra gli dèi mitanni, vicino a
un gran numero di dei sconosciuti e di altri 54
riconoscibili come divinità locali o babilonesi, s’incontra una
sequen¬ za che è stata immediatamente identificata dagli indianisti e su
cui i fi¬ lologi hanno lungamente lavorato, esaminando le particolarità
grafi¬ che e grammaticali del testo. Oggi renumerazione si può rendere
con sicurezza nel modo seguente: «Gli dèi Mitra-(V)aruna
[variante Uruvcma] in coppia, il dio Indura [var. Inclar], i due dèi
Nàsatyu ...». Per più di trentanni, senza aver preso in visione i
documenti ve¬ dici principali citati, si sono proposte per questa
riunione di dèi delle spiegazioni strane (W. Schulz, 1916-17) o
insufficienti (S. Konow, 1921 ). Il danese A. Christensen ( 1926) con
un’analisi serrata si è avvi¬ cinato alla verità, riconoscendo che
Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya non compaiono a Bogazkòy come tecnici di
atti diplomatici, né come interessali di questa o quella clausola particolare,
ad esempio matri¬ moniale, del trattalo, ma poiché erano «dèi principali»
della società arya. Sfortunatamente egli ha «pensato» questo stato
maggiore solo nel quadro dualista dell’opposizione *asura-daiva
preminente nell’I¬ ran, reale ma meno importante nell’India vedica, c
l’ha ripartito artifi¬ cialmente, contrariamente alle indicazioni del
testo, in due gruppi, Mitra-Varuna da una parte e Indra-Nàsatya
dall'altra. E solo nel 1940, grazie a un dossierve dico delle tre
funzioni e ai testi vedici che associano gli stessi dèi presenti nel
trattalo di Bogaz¬ kòy, che è apparsa l’interpretazione più semplice che
io ho riassunto in questi termini nel 1945: «A Boguzkòy,
sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che pa¬ trocinano ciò che è sacro
e ciò che è giusto, dèi della regalità coi suoi necessari ausiliari,
sacerdoti e giuristi, Indura e i Nàsatyu, rappre¬ sentanti duplici di uno
stesso tipo di dèi, non sono sullo stesso piano: a un secondo livello vi
è Indura, dio della funzione guerriera e dell’ari¬ stocrazia militare dei
marianni; poi, a un livello ancora inferiore vi sono i patroni del
terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi dèi insie¬ me e in quest’ordine,
il re fa due operazioni precise: vincola con se stesso tutta la società
del suo reame, presentata nella sua forma rego¬ lare, ed evoca le tre
grandi province del destino e della provvidenza. Questo corrisponde del
resto alla stesura delle maledizioni che accet- 55
tu di attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla
sua persona al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e
oblio, odio generale da parte degli dèi ». 5. Connotati degli
dèi caratteristici delle tre funzioni NELLA RELIGIONE VEDICA
Non sarà inutile, per agevolare il lettore nelle analisi particolari
che seguiranno, precisare ora in qualche parola, nella prospettiva delle
tre funzioni, gli orientamenti e i limiti di questi diversi dèi che gli
ar¬ chivi di Bogazkòy, confermando le formule degli inni e dei rituali
in¬ diani, comprovano essere un raggruppamento formulare
pre-vedico. Ecco come questi valori sono stati riassunti nel mio piccolo
libro Les dieux des Indo-Européens (1952). «Non è un caso se
il primo livello è spesso rappresentato da due dèi: nella sovranità che
questi antichi indiani concepivano vi erano due facce, due metà
antitetiche ma complementari e ugualmente ne¬ cessarie, incarnate e
patrocinate da due «re», Mitra e Varuna. Se dal punto di vista dell'uomo
Varuna è un signore inquietante, terribile, possessore della màyà, cioè
della magia creatrice delle forme, armato di nodi e di reti, che opera
cioè avvinghiameli immediati e irresistibili, Mitra, il cui nome
significa Contratto, e anche Amico, è rassicurante e benevolo, protettore
degli atti e dei rapporti onesti e stabiliti, estraneo alla violenza.
L'uno, Varuna, dice un testo celebre, è l’altro mondo; questo mondo è
invece Mitra. Varuna è più despota, più dio stesso se così si può dire;
Mitra è quasi un sacerdote divino. Più che della prima funzione, Varuna
sembra avere maggiori affinità con la seconda, violenta e guerriera;
Mitra, per la tranquilla prospe¬ rità che dischiude grazie, alla terza.
L'opposizione è così netta che da tempo si sono potuti sottolineare i
tratti quasi demoniaci di Varuna: non è forse l’àsura per eccellenza ? E
nelle forme post-vediche della religione, come già in molte strofe del
Rgveda, gli usura non sono for¬ se dei misteriosi demoni? In Ind(a)ra si
riassumono tutte altre cose: i movimenti, i seni zi, le necessità della
forza brutale che applicate alla battaglia producono vittoria, bottino e
potenza. Questo campione vo¬ race, armato di folgore, uccide i demoni e
salva l’universo, per com¬ piere le sue imprese si inebria di soma che
dona vigore e furore. Egli è 56 il danzatore,
nrtti; il suo splendido e ardente seguito è formato dai Marut,
trasposizione atmosferica del battaglione dei giovani guerrie¬ ri, màrya.
Per lui e per essi si esprime una morale dell'exploit e dell'esuberanza
che si oppone all'onnipotenza immediata e rigorosa, come alla benevolente
moderazione che si riunisce nel primo livello. Gli dèi canonici
dell'ultimo livello, i Ndsatya o Asvin, non esprimono che una parte del
dominio complesso tipico della terz.a funzione. Sono soprattutto datori di
salute, giovinezza e fecondità, dèi taumaturghi soccorritori degli
infermi, degli amanti, dei figli senza fidanzata o del bestiame sterile.
Ma la terza funzione è molto più di tutto questo, non solo salute e
giovinezza ma nutrimento, abbondanza in uomini e in beni, cioè massa
sociale e ricchezza economica, attaccamento al suolo, a questa gioia
tranquilla e stabile dei beni, che si esprime in sanscrito con
l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono spesso rinforzati al loro livello
dagli dèi e dalle dee che garantiscono altri aspetti della terza
funzione, come la vita animale, l’opulenza, la maternità ( Pùsan,
Puramdhi, Dravinodà, il «Signore dei Campi», SarusvatT ed altre dee
madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale, collettivo, tota¬
le («Tutti-gli-Dèi», paradossalmente concepiti come una classe parti¬
colare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che Rgveda Vili, 35
oppone come etichetta della terza funzione ai singolari neutri bràh- man
e ksatrà, caratteristici delle due funzioni supreme». Abbiamo qui
un buon esempio di struttura, una teologia artico¬ lata difficile da
pensare come formata da un assemblaggio di pezzi e frammenti: l’insieme c
il piano condizionano i dettagli; ogni tipo divi¬ no nel suo orientamento
proprio esige la presenza di tutti gli altri e non si definisce che per
rapporto agli altri, con la vivacità che solo l’antitesi produce. Il
riconoscimento di questa sequenza divina e del suo carattere prc-vcdico
ha permesso di compiere, nel 1945, un passo decisivo nell'interpretazione
delle religioni iraniche c di rendere con¬ to di un tratto importante
della teologia aveslica da tempo osservalo. 6. Gli dèi indo-iranici
delle tre funzioni nella riforma ZOROASTRIANA Sotto il
nome di Zoroastro si è avuta una profonda riforma che ha notevolmente
alteralo il paganesimo ancestrale, somma di una serie 57
di riforme progressive nello stesso senso. Tuttavia, considerando
il ri¬ sultato storicamente attestato di questo processo riformatoree il
punto di partenza preistorico, determinabile poiché era sicuramente
vicino allo schema vedico e pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee
direttri¬ ci del movimento appaiono immediatamente.
Nell’Ave.vra nongàthico, dove è mitigato l’intransigente mono¬ teismo
delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura Mazda - senza dub¬ bio anche
lui sublimazione dell’Asura supremo, quello che l’India chiama Varuna, -
ricompaiono delle figure mitiche di alto rango che portano i nomi dei
principali dèi della lista di Bogazkòy (MiGra, Indra, Nàr|ai0ya). È degno
di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra (al pari di un altro dio,
Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto differen¬ te, ma certo, con la
forza e la violenza) e Nàr]ai0ya - enunciati ancora sempre in quest’ordine
come nelle formule indiane in cui i Nàsatya se¬ guono Indra - sono i nomi
dei grandi demoni: segno di una riforma che (operata da sacerdoti, uomini
della prima funzione, e destinata a im¬ porre uniformemente a tutta la
società mazdaica la morale elevata del primo livello purificalo) ha
rigettato, anatemizzato, demonizzato i pa¬ troni divini che
tradizionalmente rappresentavano e giustificavano al¬ tri comportamenti
come lo scatenamento guerriero c l’orgia, meno sanguinante ma certo non
meno libera, dei culti della fecondità. 7. Le Entità
zoroastriane Quanto alla nuova teologia monoteista allo stato puro,
quella delle Gùthà, essa riposa, in un’altra maniera, sullo stesso
schema. Il tratto saliente è 1’esistenza di un gruppo di Entità astratte
associate al Gran Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un nome
collettivo, ma sono quelle che si vedranno in seguilo costantemente
raggruppate in un ordine fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli
Immortali Bene¬ fìci (o Efficaci). Si è discusso a lungo per sapere se
nelle Gùthà queste Entità siano già delle creature o delle emanazioni
separate da Dio - una sorta di arcangeli - o semplicemente degli aspetti
di Dio, ma questo non cambia niente quanto al problema delle loro origini
che qui ci inte¬ ressa. La lingua e lo stile delle Gùthà sono molto
oscuri, di un’oscurità volontaria e raffinata, ma fortunatamente per
orientarsi si dispone di talune considerazioni che non dipendono dalle
incertezze di parola per parola. 1) Il senso e la struttura grammaticale
dei nomi che designano 58 le Entità forniscono
qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengo¬ no quasi tutti i nomi di
una o più Entità sono assai numerose per per¬ mettere delle osservazioni
statistiche - frequenza relativa di ogni Enti¬ tà, frequenza delle loro
associazioni diverse - che rivelano dei tratti molto importanti del
sistema. Per esempio, se l’intenzione, la forma e lo stile di questi inni
lirici non costringono il poeta a presentare le Enti¬ tà in lista nel
loro ordine razionale, come faranno più tardi i testi rituali in prosa,
tuttavia la tavola delle frequenze di menzione delle Entità, prese
separatamente e in conseguenza delle importanze relative che i poeti le
attribuiscono, riproduce esattamente l’ordine gerarchico che esse avranno
in seguito sotto il nome di Amaste Spanta: questa gerar¬ chia dunque
esisteva già. 3) Un altro elemento d’interpretazione è for¬ nito dalla
lista degli «elementi materiali» che la tradizione associerà, parola per
parola, alla lista delle Entità, gemellaggio a cui gli inni stes¬ si
fanno allusioni certe e precise. 4) Infine, nell’À vesta non gàthico, ad
ognuna delle Entità è opposto un arcidemone che in molti casi le chia¬
rifica. Il quadro è il seguente: Entità astratte Elementi materiali
arcidemoni opposti PATROCINATI 1) VohuManah bue
(Il Buon Pensiero) 2) Asa (l’Ordine) fuoco 3)
XsaGra (la Potenza) metallo 4) Àrmaiti (il Pensiero terra Pio)
5) Haurvatà( acque (l’Integrità, la Salute) 6)
AmarstàJ (la piante Non-Morte, l’Immortalità) 8.
Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni, trasposti nelle
ENTITÀ Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si
interpretino le Entità, questo quadro suscita delle domande: perché
questi gli eletti e Il Cattivo Pensiero Indra
Saurva NàqaiOya La Sete La Fame
59 non altri che sarebbero più facilmente
concepibili? Perché, non dispo¬ nendo che di così poco posto, gli autori
del sistema ne hanno in qual¬ che modo sprecato una alla fine, raddoppiando
la Salute con rimmortalità, che quasi senza eccezioni è nominata insieme
ad essa? Perché questi posti precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre
arcidemoni che sono antichi dèi funzionali condannati dalla
riforma? Un confronto delle Entità zoroastrianc con la lista vedica
e mi¬ tannica degli dèi funzionali, mostra dove bisogna cercare la
soluzione d’insieme. 1 ) Le ultime due, fra i cui nomi vi è
assonanza e che sono presso a poco inseparabili, ricordano per le nozioni
così simili che esprimo¬ no, per gli elementi materiali associali c per
il loro posto gerarchico, i gemelli Nàsatya, indissociabili, donatori di
salute e di vita, ringiovani- tori dei vecchi, tecnici delle virtù
medicali contenute nelle acque c nel¬ le piante. 2) Prima di queste,
la terza Entità è la Terra in quanto madre, nu¬ trice e modello della
padrona di casa iranica: ricorda così la dea varia¬ bile (Sarasvatl,
notoriamente) che si vede talvolta unita ai Nàsatya nel¬ le enumerazioni
vedichc che segnalano la terza l’unzione. Così il dominio delle tre
ultime Entità zoroastrianc, designate tutte da sostan¬ tivi femminili,
mentre quelle superiori sono nominale da neutri (cf. in vcdico vis,
femminile, contro brahman c ksutriì, neutri), è quello della terza
l’unzione. In più, nella persona di Àrmaili, è a una Entità della ter¬ za
funzione che il sistema oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazio¬ ne
(ridotta a un unico personaggio) delle due divinità canoniche della
stessa funzione, i Nàsatya. 3) Al di sopra, la terza Entità si
chiama XsaOra, cioè la stessa pa¬ rola di ksatni da cui deriverà il nome
indiano degli ksatriya c che lin da Riveda Vili, 35 caratterizza
differenzialmente la seconda l'unzione, come nell’epopea narta degli
Osscli la forma a‘xsctrta , }> fornisce diffe¬ renzialmente il nome
della famiglia degli croi forti. Il «metallo» che gli è associato è il
metallo in tulle le sue valenze, ma dei lesti espliciti lo precisano come
il metallo delle armi; l’arcidemonc a lui opposto, Saurva, porla il nome vedico
di Sarva, varietà di Rudra, personaggio complesso che non può qui essere
esaminato, ma che nella sua qualità di arciere c di padre dei Marut è
vicino a lui nella seconda funzione. 4) Le due prime Entità, le più
frequentemente pregate o men¬ zionale, le più vicine a Dio c spesso
associate, portano dei nomi signi- 60 ficativi:
ASa è la parola avestica (cf. antico-persiano aria-) che corri¬ sponde al
vedico ria, l’Ordine cosmico, rituale, sociale, morale, patrocinato dagli
dei sovrani ma principalmente (e negli epiteti che gli sono propri)
dall’inflessibile e terribile Varuna. Vohu Manah, il «Buon Pensiero», in
una serie di passaggi gàthici e in tutta la letteratu¬ ra non gàlhica, è
presentato, al contrario, come vicino all’ uomo, al pari del benevolo e
amichevole Mitra, vicino all’uomo e a «questo mon¬ do», in opposizione a
Varuna che è «l’altro mondo». Yasna XLIV contiene a questo
proposito due strofe rivelatrici, le strofe 3 e 4, in cui si divide il
cosmo lontano e il nostro scenario più vicino, tra A3a e Vohu Manah, in
modo così netto come fa Rgveda IV, 3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con
degli ausiliari di cui si parlerà nel capitolo seguente). L’elemento
materiale associalo a Vohu Manah c il bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica,
si c da tempo riconosciuto (A. Christensen) che il bue era sotto la
protezione particolare del sovrano Mitra. Infine, la coppia dell’Entità
ASa e dell’arcidemone Indra ricor¬ da che molti inni del Rgveda inscenano
delle tenzoni tra i 1 sovrano Va¬ runa e il guerriero Indra, depositari
di due morali, la cui divergenza sfocia facilmente in un conflitto.
9. Intenzione di questa riforma zoroastriana Altri
particolari dello stesso genere arricchiscono e sfumano il confronto, ma
questi sono sufficienti per fondare la soluzione del pro¬ blema delle
origini degli Amasa Spanta che io ho estesamente svilup¬ pato nel 1945
nel mio libro Naissance d’Archanges: la lista delle sei Entità dello
zoroastrismo monoteista c stata ricalcala, copiata, dalla li¬ sta degli
dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico; più esatta¬ mente, da
una variante di questa lista, come si trova in India, che ai cin¬ que dèi
maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella terza
funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copia¬ tura?
Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non hanno
semplicemente e puramente soppresso questi «falsi dèi»? Senza
dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quel¬ la struttura
trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia come mezzo
di analisi c come quadro di riflessione sulla vita; senza dubbio perché
gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro predicazione e
che volevano persuadere o costringere, erano essi stcs- 61
si attaccati a questa forma di pensiero e bisognava dunque fornire
un sostituto esatto di ciò che si toglieva loro. Infine, senza dubbio
perché così presentata la lezione era più eloquente: uno degli oggetti
pratici della riforma, come si è visto, era distruggere la morale
particolare dei gruppi di guerrieri e allevatori, a vantaggio di una
morale ripensata e purificata dalle funzioni sacerdotali.
Elevando, ad esempio, al posto in cui infieriva sino allora l’au¬
tonomo Indra, l’esemplare figura di una «Potenza», XSaGra, devota alla
santa religione, si portava ai sostenitori dell’antico sistema un col¬ po
più rude della semplice negazione del dio pagano o della semplice
soppressione di questa provincia della teologia. In un certo senso si può
dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo delle Entità, sia con¬
sistita nella sostituzione di ogni divinità della lista trifunzionale con
una equivalente, che conservava il suo rango ma che essenzialmente era
privata della propria natura e animalo da un nuovo spirito, dallo spirilo
conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio unico. Si spiega
così l’impressione di sconforto che provano gli stu¬ diosi al primo
contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi, questa Entità che
si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili. Si spiega così come
lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il dio funzionale a
partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino uniformemente a
pensare, circa il loro comportamento, al gruppo in¬ diano dei due primi
livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra e Varuna sono i
principali. Questa analogia, che è un fatto incontestabile e che B.
Geiger e K. Barr hanno avuto ragione di mettere in risalto ampiamente,
non ha comunque risolto il problema delle origini delle Entità: esse non
sono gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani vedici, ma gli
equi¬ valenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli
energicamente ri¬ portati al tipo unico di una «santità» esigente: dèi
sovrani certo, ma an¬ che, sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi
vivificanti che li completano. 10. Gli dèi indo-iranici delle
tre eunzioni e le spiegazioni CRONOLOGICHE Questa
spiegazione degli Amasa Spanta, immediatamente am¬ messa da molti
iranisti, ha ricevuto in seguilo degli ampiamenti e alcu- 62
ni li ritroveremo al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui
limitarmi e sottolineare la principale conseguenza del punto di vista
comparativo. Riportando ai tempi indo-iranici la lista canonica mitannica
e vedica degli dèi delle tre funzioni con la loro gerarchia, ci è
precluso ogni ten¬ tativo di spiegare questa lista e questa gerarchia con
avvenimenti sto¬ rici o della preistoria recente dei tempi vedici.
Indra non è, non può più essere considerato come un «gran dio» che,
ad esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conqui¬ sta
sarebbero «in procinto» di sostituire a un più antico «gran dio» Va¬ runa
che in seguito avrebbe sviluppato il suo prestigio alle spalle di un più
vecchio dio Mitra. Se così fosse, come comprendere che questa
situazione, effime¬ ra per natura, questi rapporti instabili di dèi in
crescita e di dèi che re¬ trocedono si siano fissati e cristallizzati
allo stesso stadio di evoluzio¬ ne, disegnando lo stesso quadro d’insieme
(arrestando per secoli allo stesso massimo il progresso di uno dei
termini e allo stesso minimo la soppressione dell’altro),pressoi
Para-Indiani dei Mitanni, negli inni e nei rituali propriamente vedici e
ancora, nel politeismo iranico che si lascia leggere in filigrana sotto
la teologia di Zoroastro? La «storia» non può essere stata in
questo punto tre volte identi¬ ca, aver avuto degli effetti intellettuali
così simili in queste tre società precocemente separate. La
sola interpretazione plausibile è che egli Indo-Iranici ancora indivisi,
qualunque fosse il loro punto di partenza, erano arrivati ai li¬ miti
delle loro Terre Promesse in possesso di una teologia in cui i rap¬ porti
di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano già come li ritroviamo
negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il raggruppa¬ mento degli
dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato fortuito di
avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico, un’analisi e una
sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così fortemente come la
«destra» presuppone e chiama la «sinistra», in breve, presuppone una
struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è pensato di
ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di Varuna rispetto
a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in cui questi dèi
si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno stesso in cui Indra
si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che messe in scena del¬
la tensione che esiste tra 1’«aspetto Varuna» della funzione sovrana e
63 la funzione di Indra, e devono esistere affinché
la società ne risenta pienamente i benefici. I miti collegati
ai signori divini delle funzioni devono, almeno in parte, illustrare con
chiarezza la divergenza delle funzioni e devono farlo senza i riguardi e
i compromessi che la pratica sociale impone: è chiaro, ad esempio, che se
la sovranità magica assoluta e la pura forza guerriera fossero portate
agli estremi sfocerebbero in dei conflitti e di fatto in certi momenti
della vita della società a causa di tali conflitti si producono
usurpazioni, anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la teologia dei
rapporti tra Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella grande
maggioranza dei casi essi collaborano, ma in qualche testo dia¬ logato i
poeti sono portati a questo estremo, che i politici evitano sag¬ giamente
e per meglio definirli, per «vederli» e «farli vedere», li han¬ no
opposti come rivali. Stando così le cose, si tratta di un esercizio
retorico sicuramente antico, poiché come si è visto lo zoroastrismo ha
scelto Indra scomunicato, demonizzato, per farne l’avversario parti- col
are di Asa, cioè dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna.
11. Comunicazione tra gli dèi delle tre funzioni Questa
osservazione deve essere completata da un’altra inver¬ sa. La definizione
funzionale dei tre livelli divini è statisticamente ri¬ gorosa (la letteratura
vedica è assai abbondante perché la statistica vi possa trovare un
appiglio certo), precisa non solo nei testi dove tali funzioni sono
intenzionalmente classificate o perlomeno raggruppate, ma anchenella
maggior parte dei testi in cui un poeta considerao invo¬ ca gli dèi di un
solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni religio¬ ne le
effusioni della pietà, della speranza e della confidenza talvolta
debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è soprattutto vero
per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso dei tempi stori¬
camente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli inni), han¬
no così spesso portato a riconoscere l’identità profonda dell’essere
sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per esprimere con¬
cretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli attributi
degli altri. In più, nella pratica, ciò che interessa l’uomo pio è
sicuramente la diversità dei soccorsi che può ricevere e delle porte
mistiche a cui 64 può bussare, ma è anche e
soprattutto la solidarietà e la collaborazione di tutti gli dèi che gli
rispondono. Infine, nelle opere stesse per le quali gli uomini
chiamano gli dèi, capita che la totalità o più parti deH’insiemc
funzionale si trovino interpellati da degli specialisti che gli sono
estranei. L’esempio mag¬ giore è quello della pioggia che gonfia le acque
del suolo, che fornisce direttamente o indirettamente il tipo di
ricchezza pastorale e agricola, la salute stessa, di cui si occupano gli
dèi della terza funzione; ma essa c ottenuta grazie alla battaglia
celeste, strappata sotto forma di fiume o di vacche celesti agli avari
demoni della siccità, e questo è il compito, il gran compito di Indra c
dei suoi aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei Marut. Congiungere il
cielo e la terra e assicurare la sopravvivenza del mondo è anche
l’interesse degli dèi sovrani c l’operazione tecnica si svolge infine
grazie allo specialista Parjanya. Ma perché mai il poeta si
assoggetterebbe a lare sempre questa giusta c rigorosa distribuzione dei
meriti? L’opera c comune c quindi la lode è unitaria c non ci si stupirà
che il grande guerriero Indra sia così spesso celebrato, nel risultalo
come nella forma della sua azione, in quanto donatore di fecondità e di
ricchezza. Ma il lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai
dimenticare il modo violento che Indra esercita per procurarsi gli
armenti o per li¬ berare le acque: egli non c una Sarasvall al maschile c
non è nella cer¬ chia dei Pfisan o dei Dravinodà. 12.
Teologia delle tre funzioni presso altri popoli INDOEUROPEI
Se una tale équipe divina c così sicuramente esistita tra gli
Indo-Iranici prima della loro divisione, come l’ideologia tripartita,
l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica ancora c deve es¬
sere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c necessario ri¬
cercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei antichi, c suffi¬
cientemente conosciuti, se delle équipes analoghe sono attestate dagli
usi rituali o da formulari. Questa ricerca, intrapresa fin dal
1938, ha immediatamente portalo a risultati nei domini italici e
germanici. Ma allo stesso tempo, in questi domini in cui gli specialisti,
nella loro autonomia, avevano da lungo tempo costruito delle maestose c
dotte spiegazioni di ogni cosa. 65 la nuova
interpretazione ha dovuto rimettere i n questione molti pseu¬ do-fatti,
dimostrando la fragilità di molte pseudo-dimostrazioni, in modo tale che
spesso non è stata considerata la benvenuta. In sintesi, le
opposizioni sono soprattutto nate dal fatto che le «filologie separate»,
sia scandinava che latina, si erano abituate a pen¬ sare cronologicamente
- secondo una cronologia ipotetica e soggettiva - la preistoria, la
«formazione» dei quadri teologici complessi, presen¬ tati dai documenti
antichi, mentre questi quadri, guardati in base alla prospettiva
comparativa che a grandi linee viene qui ricordata, s’interpretano
immediatamente, per l’essenziale, come strutture con¬ cettuali che
esprimono la distinzione e la collaborazione delle tre fun¬ zioni
esplicitate dagli Indoeuropei. 13. Jupiter, Mars, Quirinus e
Juu-,Mart-, VOFION(O)- Le due società italiche di Iguvium e Roma -
l’una umbra e l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci
informano, presenta¬ no due varianti di una triade in cui i due primi
termini sono identici: Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars,
Quirinus nella più antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo
incoraggia a non cer¬ care per la triade romana, com’è d’uso, una
spiegazione fondata sul caso, sugli apporti successivi o sui compromessi
di una storia locale: com’è possibile infatti che due serie di
avvenimenti indipendenti pos¬ sano suscitare due gerarchie divine e due
teologie così simili? 14. La triade precapitolina
L’esistenza della triade romana, che si è anche voluto contesta¬ re
ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal fatto che questi dèi sono
rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti da tre sacerdoti senza omologhi,
rigorosamente gerarchizzati ( ordo sacerdotum: Festo, p. 198,
Lindsay) che sono, al di sotto del rex sacro rum, erede ridotto e sa¬
cerdotale degli antichi re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7
amines maiores, cioè il dialis, il martialist il quirinalis. Questa triade
capito¬ lina, vero fossile nell’epoca storica, respinto dall’attualità di
una tria¬ de differente formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è
rima¬ sta legata a molti rituali e a rappresentazioni evidentemente
arcaiche. 66 Una volta all’anno, in una
cerimonia la cui fondazione era attri¬ buita a Numa (Tito Livio I, 21,
4), i treflciminesMciiores attraversava¬ no solennemente la città in uno
stesso carro e facevano congiuntamen¬ te un sacrificio alla dea Fides. I
sacerdoti Salii che conservavano tra i dodici ancilici indiscernibili il
talismano caduto dal cielo cui era stata attribuita la fortuna di Roma,
erano in tutela Jovis, Martis et Quirini (Servio, ad Aen., Vili,
663). Il tragico rituale della devotio, con il quale il generale romano,
per salvare il proprio esercito, si immolava agli dèi sotterranei
contemporaneamente all’esercito nemico, era introdotto da una for¬ mula,
da un’enumerazione di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di certo
trascritto esattamente e che dopo Janus, dio di ogni inizio, nominava
innanzitutto l’antica triade: Giano, Jupiter, Mars Pater , Quirinus, poi
Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la conclusione di un trattato, secondo Po¬
libio (III, 25, 6), i sacerdoti feziali prendevano come testimoni prima
Jupiter, poi Mars e infine Quirinus. Il carattere comune di queste
circostanze, in cui la triade preca¬ pitolina è presentata come tale, è
che il corpo sociale di Roma è inte¬ ressato nel suo insieme e nella sua
forma normale: mantenimento del¬ la fides pubblica, senza cui la coesione
sociale è impossibile; protezione continua o urgente; impegno
diplomatico. Il sacrificio a Fides è particolarmente rivelatore
poiché è la sola circostanza conosciuta in cui i tre flamines maiores agiscono
insieme; ma lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro,
l’unità dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la
garanzia di Fides l’unità delle tre «cose» che Jupiter, Mars e Quirinus
patroci¬ nano distributivamente; tre «cose» la cui sintesi o
aggiustamento sono essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste
«cose»? 15. Valore di Jupiter e di Mars nella triade
precapitolina La risposta non necessita di grandi sforzi, sempre
che si preferi¬ sca il sentimento dichiarato dai Romani stessi contro le
ricostruzioni ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli epigoni di W.
Mannhardt o da archeologi poco coscienti dei limiti della loro arte;
sempre che non si dimentichi che questi dèi sono stati associati e
gerarchizzati a Iguvium e a Roma poiché rendevano dei servizi
differenziati e complementari; e infine, a condizione che si attribuisca
un valore particolare, trattan- 67 dosi di
divinità dei tre flamines maìores, a ciò che insegna l’ufficio di questi
sacerdoti. Se si osserva questa regola, e queste precauzioni, si
riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello stesso tempo il Dius (nel
capitolo seguente si mostrerà il senso di questa sfumatura), onora¬ to
dagli atti del flamen dialis , e dal suo comportamento pieno di innu¬
merevoli precetti positivi e negativi, è il dio che dall’alto del cielo
pre¬ siede all’ordine e all ’osservazione più esigente del sacro, garante
della vita, della continuità e della potenza romana. Quanto a
Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegna¬ mento dei migliori
testi epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio com¬ battente di
Roma, patrono della forza fisica, di quella forza che può, al pari del
vedico Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non di più)
dal contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno biso¬ gno di
essere forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o
invisibili, possono minacciare. Questa forza è sempre rimasta la
forza che dona la vittoria, sin dai tempi favolosi delle origini e fino
al declino dell’impero, nella schiacciante maggioranza degli impieghi
conosciuti. 16. QuiRINUS Per Quirino, l’unico
«invecchiato» fra i tre dèi in epoca storica, gli eruditi antichi hanno
generosamente costruito, su dei pressapochi- smi etimologici allora
correnti, delle teorie contraddittorie che com¬ plicano il lavoro; ma
fortunatamente disponiamo degli uffici adem¬ piuti dal suo flamen e di
molti altri fatti cultuali, del suo nome e di qualche indicazione oggettiva
degli antichi. Queste diverse fonti informative forniscono un
quadro com¬ plesso ma coerente. I ) Siamo a conoscenza di tre
circostanze in cui officia il flamen quirinalis. Ai Robigalia del 25
aprile sacrifica un cane in un campo nei pressi di Roma e allontana così
(verso le armi da guerra, aggiunge Ovidio) la ruggine che minaccia le
spighe. Ai Consualia del 21 agosto sacrifica sull’altare sotterraneo di
Consus, dio del grano messo in provvista ( condere ); il 23 dicembre
sacrifica sulla «tomba» di Laren- tia, la cortigiana che incarna in una
celebre storia la voluttà, la ricchez¬ za e la generosità e che ha
meritato di ricevere un culto, legando la sua fortuna a quella del popolo
romano. La festa propria di Quirino, i Qui- 68
rinatici del 17 febbraio, coincide con (e probabilmente è) l’ultimo
atto dei Fornacalia, cioè delle feste curiali della torrefazione del
grano. Nelle altre due circostanze rituali in cui appare, Quirino è
asso¬ ciato alla dea Ops, cioè all’Abbondanza rurale personificata: una iscri¬
zione ci insegna che il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figura¬
no tra le divinità onorate senza dubbio contro gli incendi (C/L I 2 , p.
326). La leggenda che giustifica l’esistenzadei Salii di Quirino, dimo¬
stra che il voto fondante questo collegio è stato fatto per la stessa ra¬
gione del voto che istituiva la festa di Ops e di Saturno. Tutti
questi dati, che costituiscono l’intero dossier cultuale del dio,
attestano che la sua attività è uniformemente e unicamente in rap¬ porto
con le sementi (tre feste, tra cui la sua), con le divinità agricole
Consus e Ops, con la ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso senso si
spiega il fatto che nel 390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando bisognava
seppellire gli oggetti sacri di Roma, questo compito non spettasse al rex
o al flamen dialis, primi sacerdoti dello stato, come ci si sarebbe
aspettato, ma al flamen quirinalis. 2) Il nome di Quirino è
sicuramente inseparabile da quello dei Quirites, cioè dall’insieme dei
Romani considerati nelle loro attività civili in opposizione totale a ciò
che essi sono in quanto milites (un aneddoto ben noto di Cesare lo
prova). P. Kretschmer aveva proposto di spiegare Quirites con
curia (volscio couehriu), come «gli uomini riuniti nei loro quadri sociali»,
essendo QuTrinus (cf. dominus da domus) il patrono di questa entità della
«massa sociale organizzata» ( *co-uir-io/a -). L’etimologia, in sé e prsé
soddisfacente, è stata resa molto probabile da V. Pisani ( 1939) e in¬ dipendentemente
da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato come il nome dell’omologo
di Quirinus nella triade umbra di «Jupiter, Mars, Vofionus» possa essere
il compimento fonetico rigoroso di un *Le- udh-yo-no «patrono della
massa» (cf. il tedesco Leute, latino liberi, «massa di uomini liberi,
bambino di nascita libera» etc.), esatto paralle¬ lo e sinonimo dal
latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al pari della coltivazione
del suolo, aspetti considerati dalla terza funzione. 3) Ma lo stile
di questa pace è marcato dall’impronta romana e contribuisce al
sorprendente meccanismo che in qualche secolo ha conquistato e
romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico e stabilisce il
pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si è 69
mai trattato di una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi
erano deposte ma conservate; in cui i civili Quirites erano anche
mobilitabi¬ li, i milites del domani; in cui i comitia legiferanti non
erano che l’ exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto
nei suoi quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla
guerra. È questo regime, questo stato di spirito che Quirino
governa e che esprime eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei
flamines minores, il Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle
porte ( por¬ tele ) delle città, prima di essere quello dei porti
(j)ortus ) - ha l’incarico di ungere le «.armidi Quirino» (Festo s
.v.persillum, p. 238, Lindsay), cioè di compiere il gesto di ogni mobilitazione
alle armi: le quali pos¬ sono anche non essere utilizzate, al momento, ma
verso le quali può sopraggiungere improvvisamente l’esigenza di
ricorrervi. Questa ambivalenza Quirites-milites dei Romani, questa
con¬ cezione militare della pax romana , spiegano sufficientemente
come Quirino possa essere stato considerato una varietà di Marte e come
i Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi, abbiano scelto per
tradur¬ re il suo nome quello di un vecchio dio guerriero, differente da
Ares, ’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo contesto
su due note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un
tempo «assurde», ma alle quali la nuova prospettiva «trifunzionale» ha
con¬ ferito pieno valore (ad Aen. I, 292; VI, 859): «...
Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum saevit) quando è pacifico
(cum tranquillus est), Quirino. A Roma possiede due templi: uno
all’interno della città, in qualità di Quirino, cioè di guardiano e di
dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),' l'altro sul¬ la via
Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio guerrie¬ ro o
Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte che
presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro Roma
mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio fuori Roma
». 17. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti leggendari di
Roma Questa rapida esposizione, spogliata dalle innumerevoli
di¬ scussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i punti,
basterà 70 a dimostrare qual è, nell’unità
armoniosa della triade precapitolina, l’orientamento proprio e
l’equilibrio interno di ogni termine. Cielo ed essenza stessa della
religione come supporto di Roma; forza fisica e guerra; agricoltura, sottosuolo,
massa sociale e pace vigilante: queste etichette definiscono tre ambiti
complementari che disegnano una struttura sicuramente anteriore a Roma e
a Iguvium, dunque italica, e quindi così vicina alla struttura
indo-iranica da dirsi risalente ai tempi indoeuropei. Non
sarà inutile ricordare qui i valori funzionali di cui appaiono rivestite,
nei racconti sulle origini di Roma, le tre componenti etniche, base
leggendaria delle tre tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi com¬ pagni
sono i depositari del potere sovrano e degli auspici; i suoi alleati
etruschi, sotto il comando di Lucumone, sono gli specialisti dell’arte
militare; i suoi nemici, Tito Tazio e i Sabini, sono provvisti di donne,
ricchi in bestiame e in più detestano la guerra e fanno di tutto per evi¬
tarla. Una variante frequentemente attestata (l’abbiamo ricordata in I §
7) minimizza la componente etrusca e concentra le due prime caratte¬
ristiche su Romolo e i suoi compagni. Sotto questa forma la triade
precapitolina si divide molto ade¬ guatamente tra i due gruppi di
avversari e futuri associati: Romolo è costantemente il protetto di
Jupiter (gli auspici iniziali; Jupiter Fere- trius e Jupiter Stator in
battaglia) ma è figlio di Mars e trova riuniti in sé i favori dei due
primi dèi della triade; Quirino (in questo insieme leggendario soltanto)
è considerato come un dio sabino, il «Marte sa¬ bino» portato in dote da
Tito Tazio a Roma nella riconciliazione fina¬ le, allo stesso modo del
nome collettivo dei «Quirites» (ma questa pse- udo-sabinità dei Qui riti
e di Quirino, benché conf orme al carattere dei Sabini della leggenda,
portatori della terza funzione, si spiega col gio¬ co di parole, popolare
tra gli eruditi di Roma, «Quirites-Cures»), Si sa che un’altra
forma della leggenda, incompatibile con que¬ sta, fa di Quirino il nome
postumo di Romolo, riunendo così sul solo fondatore i tre termini della
triade divina in base agli auspici, alla filia¬ zione e
all’apoteosi. 18. Varianti della triade Jupiter, Mars,
Quirinus Della leggenda delle origini, Varrone (De ling. lat., V,
74) e Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato un aspetto
impor- 71 tante: all’epoca della
riconciliazione di Romolo con Tito Tazio e dell’entrata dei Sabini di
Tito Tazio nella comunità, ormai completa e in via di sviluppo, ognuno
dei due re istituisce dei culti e mentre Ro¬ molo fonda solo il culto di
Jupiter, Tito Tazio instaura Quirinus e un gran numero di dèi e dee che
hanno rapporto con la vita rurale, la fe¬ condità e il mondo
sotterraneo. Questa tradizione è molto interessante perché
sottolinea ciò che è stato già segnalato a proposito dell’India (II, §
5); la molteplicità de¬ gli aspetti, l’inevitabile frazionamento di
questa «terza funzione» che Tito Tazio incarna, ma soprattutto perché tra
gli «dèi di Tito Tazio» (che non sono certamente sabini ma romani, a
dispetto della colorazio¬ ne etnica della leggenda) molti f igurano in
terza posizione, nelle triadi che non sono altro che varianti della triade
canonica «Jupiter, Mars, Quirinus», come Ops (abbiamo già segnalato i
suoi rapporti con Quiri¬ no) o Flora. 1 tre gruppi di culto
della Regia, della «casa del re», che corri¬ spondono senza dubbio alle
tre camere che ancora si trovano giustap¬ poste nelle rovine, sono: 1 )
culti assicurati dai personaggi sacri del più alto rango, il rex (a
Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del flamen dialis (a Jupiter
stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium Marti.?, 3) cul¬ ti del
sacrarium Opis Consivae, la dea dell’abbondanza. Questa
collocazione dei tre livelli funzionali manifestava sensi¬ bilmente che
la stessa forma di religione che si analizzava e che si dis¬ sociava
nelle persone dei tre grandi flamines, creava al contrario una sua sintesi
quando passava nelle mani del rex, quando era il rex che l’amministrava,
non più in quanto incarnazione ma, nel nome di Ro¬ ma, come gestore delle
forze sacre. Quanto alla triade «Jupiter, Mars, Flora» (rimpiazzata
più tardi da Venere) sembra essere stata lei a patrocinare i tre carri
delle corse primitive (in relazione con le tre tribù funzionali e i tre
colori bianco, rosso, verde; vedi sopra I, § 21 ). Flora meritava due e
tre volte questo posto, per il suo potere sulla vegetazione, per la
leggendache faceva di lei un doppione della cortigiana Larentia e perché
era assimilata a Roma stessa, senza dubbio più alla massa romana che
all’entità politi¬ ca patrocinata da Quirino. Un’altra
variante della triade - «Jupiter, Mars, Romulus, Re- mus» - presenta
Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla fondazio- 72
ne di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica
in¬ do-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la
protezione del terzo livello. 19. Gli dèi delle tre funzioni in
Scandinavia Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello
stes¬ so tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente,
come ul¬ timo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di
quella precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile -
se¬ condo schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e
sin¬ cretismi tra culti successivamente comparsi. Lacritica a
questo tipo di spiegazioni facili e seducenti, che cre¬ dono di basarsi
logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrap¬ pongono arlifi
cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora esse¬ re fatta
poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia volentieri. Nel piano
ridotto del presente libro dovremo semplicemente prescin¬ derne ma dichi
arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm (1925,1946, 1953), da E. Wessén
( 1924) a E. A. Philippson (1953), i numerosi ten¬ tativi fatti per
dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa re¬ cente (sostituito a
*Tiuz) o che in Scandinavia il più antico «gran dio» è Pórr (sempre che
non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto dell’intelligenza,
dell’erudizione e del talento dei loro autori. Ci limiteremo dunque
ai fatti e quindi all’esistenza stessa della triade in quanto tale. E
questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo di Brema ha vi sto regnare
nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la de¬ scrizione del meccanismo
trifunzionale (Gesta Hammaburgensis eccl. Pontificium, IV, 26-27); è lei
che appare dalle formule di maledi¬ zione come dai poemi eddici o dagli
scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr, Njòrdr: Egilssaga, 56); è lei che si
sprigiona dal racconto della batta¬ glia escatologica ( Vòluspà , 53-56)
in cui ognuno dei tre dèi lotta con¬ tro uno dei maggiori avversari che
soccombe sotto i suoi colpi; è lei che si spartisce i gioielli divini
(Skaldskaparmal, cap. 44) ed è lei che rappresenta l’intera mitologia in
cui le altre divinità - salvo la dea Freyja, strettamente associata a
Freyr e Njòrdr e che li completa - sono come comparse che circondano
questi «primi ruoli» e che si definisco¬ no in rapporto ad essi.
73 20. Dèi Asi e dèi Vani Ci si ricorderà
che nella leggenda delle sue origini Roma si è ri¬ dotta spesso a due
componenti, benché comprendesse tre tribù che rappresentavano tre
funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi compagni, detentori di cleos et
virtutem, la potenza del sacro e i talenti guerrieri, il dominio di
Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i suoi Sabini erano quelli che
apportavano delle specialità loro connesse, cioè le donne e le ricchezze,
opes. Il quadro scandinavo della formazione della società
divina completa è dello stesso tipo: i componenti riuniti per una
riconcilia¬ zione ed una fusione conseguente a una guerra terribile, sono
due, gli Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il capo, mentre Pórr è il più
eccelso dopo di lui; trai Vani sono invece Njòrdr, FreyreFreyjaipiù
eminenti e i soli nominati individualmente. La distinzione
funzionale degli Asi c dei Vani è chiara e costan¬ te. I Vani,
specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano al massimo la tipologia,
anche se capita loro di essere o di fare altre cose, sono in¬ nanzitutto
dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di ricchezze e patroni del
piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa, della fecon¬ dità e
della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente ed
economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o al mare
in quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr). A questi
tratti dominanti si oppongono quelli dei principali Asi. Né Ódinn né Pórr
certamente si disinteressano delle ricchezze del su¬ olo, ecc., ma da
quando la mitologia scandinava ci è conosciuta i loro centri sono
altrove: l’uno è un mago potente, signore delle rune, capo della società
divina; l’altro è il dio col martello, nemico dei giganti ai quali
peraltro assomiglia (si pensi al suo «furore»); è il dio tuonante (nel
suo stesso nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia e anche
nel folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellico¬ sità in
maniera atmosferica e violenta, non terrena c progressiva. Il senso
da attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il pro¬ blema
centrale che domina tutte le interpretazioni delle religioni scan¬ dinave
c di quelle germaniche, anche laddove le spiegazioni cronolo¬ giche c
storiche (di storia immaginaria) affrontano con vivacità le spiegazioni
strutturali e concettuali. 74 I fatti riuniti
dall’inizio di questo libro apportano un grande so¬ stegno agli
strutturalisti: il parallelismo delle teologie indo-iraniche e italiche
ci fa precisamente attendere, presso i popoli imparentati, una teologiaed
unamitologiadel tipo presentato dagli Scandinavi, che op¬ pone per meglio
definirli e che ricompone per creare un insieme vitale: 1 ) delle figure
divine che patrocinano ciò che è sotto il magistero degli Asi, Ódinn e
Pórr, l’alta magia e la sovranità da una parte, e la forza brutale
dall’altra; 2) delle figure divine del tutto differenti che patroci¬ nano
ciò che è sotto il magistero dei tre grandi Vani, la fecondità, la
ricchezza, il piacere, la pace, etc. etc. 21. La guerra degli Asi e
dei Vani e la guerra dei Protoromani e dei Sabine formazione di una
società TRIFUNZIONALE COMPLETA La frattura iniziale,
che separa i rappresentanti delle due prime funzioni e quelli della
terza, è un dato indoeuropeo comune: lo stesso sviluppo mitico
(separazione iniziale, guerra e poi indissolubile unio¬ ne nella
struttura tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a Roma, sul piano
umanoenei racconto delle origini dell’Urbe(guerrasabinae sinecismo), ma
in India, dove è detto che gli dèi canonici del terzo li¬ vello, gli
Asvin, non erano inizialmente degli dèi, ma entrarono nella società
divina come terzo termine al di sotto delle «due forze» (ubhe virye)
solamente in seguito a un conflitto violento conclusosi con una
riconciliazione e un’alleanza. Come si potrà prevedere, i dettagli
di queste leggende sono stati scelti e raggruppati in modo tale da
mettere in rilievo le «funzioni» ri¬ spettive delle diverse componenti
della società e i procedimenti speci¬ fici che queste «funzioni»
attribuiscono ai loro rappresentanti. L’ana¬ lisi comparata della leggenda
romana sulla guerra iniziale tra Romani e Sabini e della leggenda
scandinava sulla «prima guerra nel mondo» degli Asi e dei Vani (a cui
bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le strofe 21-24 della Vòluspà), ha
rivelato un interessante parallelismo e conferito un senso sia all’una
che all’altra. Ambedue sono formate da un dittico, da due scene in
cui ciascu¬ no dei due campi nemici ha il vantaggio (vantaggio limitato e
provvi¬ sorio poiché è necessario che il conflitto finisca senza vittoria
e con un 75 patto liberamente consentito) ed è
debitore di questo vantaggio alla sua specificità funzionale. Da una
parte i ricchi e voluttuosi Vani che corrompono daH’interno la società
(le donne!) degli Asi, inviando loro la donna chiamata «Ebbrezza
dell’Oro»; dall’altra parte Ódinn che lancia il suo famoso giavellotto di
cui è noto l’irresistibile effetto magico e di panico. Allo
stesso modo i ricchi Sabini, da una parte, ottengono quasi la vittoria
occupando la posizione-chiave dell’avversario, non col combattimento, ma
acquistando con l’oro Tarpeia (in una variante, grazie all’amore cieco di
Tarpeia per il capo sabino); dall’altra parte Romolo, grazie a
un’invocazione a Jupiter (Stator) ottiene dal dio che l’armata nemica
vittoriosa venga improvvisamente, e senza motivo, invasa dal
panico. 22. Sviluppo della funzione guerriera presso gli
antichi Germani Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi
conseguenze che ha determinato ben presto, e non solamente presso gli
Scandinavi ma fra tutti i Germani, una deformazione della struttura delle
tre fun¬ zioni e della teologia corrispondente. Da nessuna
parte, certamente né a Roma né in India, gli dèi del primo livello,
Varuna e Jupiter, si disinteressavano della guerra: se è vero che non
combattono propriamente come Indra o Marte è anche vero che mettono le
loro magie al servizio della parte che favoriscono e sono loro, in
definitiva, che attribuiscono la vittoria, la quale, se è in effetti
conquistata con la Forza, interessa soprattutto l’Ordine per le sue
conseguenze. Non ci si sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire
nelle battaglie, senza combattere molto, ma gettando sull’armata che
ha condannato un panico paralizzante, il «legame dell’esercito» herfjò-
\)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è certo che la parte della
«guerra» nella sua definizione è di gran lunga piu considerevole che
nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in lui - e anche
nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel prossimo ca¬ pitolo e
che è interpretato da Tacito come Marte - si constata più di una osmosi,
un vero e proprio ribaltamento e straripamento della guerra
nell’ideologia del primo livello. All’epoca in cui si sono formate le
76 loro epopee, gli «eroi odinici» - Sigurdr, Helgi e
Haraldr Den- te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e
nell’aldilà sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie
guerriere, che Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in
certi luo¬ ghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario,
ad averperso il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli
uomini) ed è sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici
contro i giganti e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha
giustificato e popo¬ lari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato
Freyr dal la parte agri¬ cola della sua provincia. Questa doppia
evoluzione sembra essere sta¬ ta spinta all’estremo tra gli Scandinavi
più orientali, presso i quali così Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i
tre dèi della triade di Uppsala. «Thor presici et in aere, qui
tonitrus et fulmina, ventos ymbre- sque, serena et fruges gubernat. Alter
Woclan, id est furor, bella gerit hominique ministrai virtutem contro
inimicos. Tercius est Fritto (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens
mortalibus... Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur,
sibellum, Woda- ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi».
Anche se si ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi di
Uppsala fosse più ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle brevi
osservazioni di Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio principale
poiché figura nel mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un martello che
ha scambiato per uno scettro e perché, tuonante, lo ha as- similato a
Giove), non vi è ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo
scivolamento della guerra nel dominio di «Wodan» e lo scivolamento
inverso di «Thor» al servizio dei contadini sono dei fatti. Ma se ne comprende
l’origine (come su altri punti relativi alla Scandinavia) e dove lo
stesso fenomeno si osserva, i valori dei tre dèi restano essen¬ zialmente
vicini a quelli dei loro omologhi indiani e romani. 23. Stato del
problema presso i Celti, i Greci e gli Slavi Sulle altre parti del
dominio indoeuropeo, a causa di diverse ra¬ gioni - cronologia troppo
recente, imprestiti massicci da sistemi reli¬ giosi non indoeuropei - è
difficile constatare immediatamente le strut¬ ture teologiche
corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi 77
dei ragionamenti e di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato.
Questo stato di cose è particolarmente spiacevole nell’ambito greco o
celtico in cui l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna
rassegnarsi. In Grecia, dove la religione non è essenzialmente
indoeuropea, il raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore
Paride resta ad esempio un gioco letterario e non forma evidentemente
un’autentica combinazione religiosa. In Gallia, dove la
classificazione degli dèi riportata da Cesare (e confermata dai testi
irlandesi sui Tuatha Dé Danann) ricorda per molti versi la struttura
delle tre funzioni, quest’analogia con la filiazione, e i ritocchi che
suggerisce, suscitano più problemi invece che risolverli. Quanto al
paganesimo degli Slavi, questi sono così poco conosciuti perché i
tentativi di spiegazione tripartitapossano essere altra cosa che
brillanti ipotesi. Ma la concordanza delle testimonianze sui tre domini,
in¬ do-iranico, italico e germanico, in cui le antiche religioni sono
state de¬ scritte in maniera sistematica dai loro stessi rappresentanti,
è sufficiente a garantire che sin dai tempi indoeuropei l’ideologia
tripartita aveva dato luogo a una teologia della stessa forma; a un
gruppo di divinità ge- rarchizzate che esprimevano i tre livelli; e ad
una «mitologia eziologi¬ ca» che giustificava la differenza e la
collaborazione di queste divinità. 24. Divinità che sintetizzano le
tre funzioni Ci limiteremo a segnalare nella teologia un altro
utilizzo fre¬ quente della struttura tripartita, non analitico ma
sintetico. Vi sono in¬ fatti divinità che sia i saggi che i fedeli
tengono a definire, in opposi¬ zione agli dèi specialisti delle tre
funzioni, come onnivalenti, domiciliate ed efficienti sui tre livelli.
Questo tipo di espressione si è prodotta indipendentemente in diversi
luoghi, per esempio nelle civil¬ tà mediterranee, quando una divinità
patrona o eponima di una città ha assunto un’importanza a svantaggio di
altri dèi o di équipes divine: così, presso gli Ioni di Atene, dove
sembra che una teologia tripartita (Zeus, Athena, Poseidone, Efesto)
concernesse innanzitutto le quattro tribù funzionali (sacerdoti,
guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena che in epoca storica domina
la religione. Così, seguendo la felice osservazione di F. Vian,
durante le pic¬ cole Panatenee, ella riceveva successivamente degli
omaggi divini in 78 quanto Hygieiu, Polias e
Niké, vocaboli che evocano le funzioni di sa¬ lute, sovranità politica e
vittoria. Allo stesso modo, nello zoroastrismo si è prodotta la tripla
titolatura Buone, Forti, Sunte dei geni tutelari, le FravaSi, che sono in
effetti trivalenti. 25. Dee trivalenti Tuttavia, tra
queste figure sembra che bisogni far risalire alla comunità indoeuropea
un tipo di dea la cui trivalenza è così messa in evidenza e che è
intenzionalmente congiunta agli dèi funzionali: que¬ sta dea, che per il
suo stesso sesso e per il suo punto d’inserimento nel¬ le liste è
connessa alla terza funzione, è tuttavia attiva in tutti e tre i li¬
velli e sembra che la sua presenza nelle liste esprima il teologhema di
una multi valenza femminile che raddoppia la molteplicità degli spe¬
cialisti mascolini. Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle
liste trifunzio¬ nali vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli
ASvin: ora, gli epi¬ teti di SarasvatT, benché non raggruppati in
formule, la definiscono chiaramente come pura, eroica, materna. Indipendentemente
l’uno dall’altro, sia io (1947) che H. Lommel (1953) abbiamo proposto
di interpretare come un’omologa di SarasvatT e come l’erede della
stessa dea indo-iranica, la più importante delle dee del \'Avestu
non-gàthico, anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il nome completo e
triplice di Anàhità, fa evidentemente riferimento alle tre funzioni:
«l’umida, la forte, l’immacolata», AradvT, Suri, Anàhità. Ed è ancora per
sublima¬ zione dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo
puro ab¬ bia creato la sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur
ordinariamente al terzo livello (dopo XsaSra, «Potenza» e prima di
Haurvatà(-Amar,?là(, «Salute» e «Immortalità») e benché non in possesso
di una tripla tito¬ latura, porta un nome che significa «Pensiero-Pio»,
aiuta Dio nella sua lolla contro il Male ed ha come elemento materiale la
terra nutrice dif¬ ferenzialmente associata. Nel Lazio, a
Lanuvium, Giunone era onorata sotto il triplice epiteto di Seispes Mater
Regina, i due ultimi epiteti riportano alla teo¬ logia della Giunone
romana (Lucina, etc.; Regina) patrona della fe¬ condità regolata c dea
sovrana; ma a Roma la specificazione guerriera manca, mentre era in
evidenza nella figura di Giunone lanuvia e certa¬ mente era espressa dal
primo epiteto, l’oscuro Seispet- (rom. sospit-, da *sue-spit-? cf. Indra
svà-ksatra, svu-pati, eie.). 79 Infine, nel
mondo germanico, considerando i Germani conti¬ nentali, sembra che una
dea unica e polivalente (se non onnivalente), *Friyyò fosse congiunta ai
multipli dèi funzionali di cui abbiamo par¬ lato più sopra; se la
specificazione guerriera non è attestata, il poco che si sa di essa la
mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano il nome dei Lombardi) e
«Venus» ( *Friyya-dcigaz , «Freitag»), Presso gli Scandinavi questa multi
valenza è esplosa: la dea si è raddoppiata in Frigg (esito regolare di
*Friyyó in nordico), sposa sovrana del signore magico Ódinn, e in Freyja
(nome rifatto su Freyr), dea tipicamente Vani, ricca e voluttuosa.
In Irlanda un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea epo¬ nima
del luogo più importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re pagani
del 1 ’ Ulster con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti-
vamente questo carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni,
poiché è sfociata in tre personaggi, in un «trio di Macha» ordinato nei
tempi. Una Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne- med,
«il Sacro», che muore per un’emozione profonda in seguito a una visione; poi
una Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il suo generalissimo
e che muore uccisa; infine una Madre che accresce meravigliosamente la
fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e che muore durante
l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possi¬ bile determinare
quali rapporti avesse nella religione con gli dèi ma¬ schi della stessa
funzione. 26. Le teologie tripartite e i loro elementi
Dopo aver preso una visione globale dei sistemi teologici in¬
do-iranici, italici e germanici che esprimono l’ideologia delle tre fun¬
zioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza paralleli per giustifi¬
carne la spiegazione nei termini di un’eredità indoeuropea comune. Non è
che l’inizio: senza perdere di vista la struttura d’insieme, l’esplorazione
dovrà concentrarsi successivamente su ognuno dei tre termini; esaminando
la funzione della sovranità religiosa in se stessa, poi quella del la
forza e della fecondità e infine, tram ite la comparazio¬ ne tra i dati
indiani, iranici, latini etc., cercare di determinare come gli
Indoeuropei concepivano, suddividevano e utilizzavano ciascuna di
esse. 80 Note ai paragrafi § 1.
Sulla necessità, per lo storico delle religioni, di non perdere mai di
vi¬ sta e di riconoscere le strutture teologiche di cui studia i
frammenti, vedi prin¬ cipalmente L’heritage..., cap. I («Matièrc, objet
et moyens de étude») - al quale rimando una volta per tutte circa le
questioni di metodo - e DIE, cap. II («Structure et cronologie»),
§ 2-3. Il riconoscimento del raggruppamento arcaico «Milra-Varuna
Indra e i Nàsatya», l’inventario delle circostanze in cui appaiono, sono
state fatte progressivamente in: JMQ, pp. 59-60 (= JMQ it, pp. 38-39); NA
pp. 41-52; Tarpeia, 1947, pp. 45-56 (dove sono studiati in dettaglio sei
inni del Riveda fondali su questa struttura); «Mitra-Varuna, Indra et le
Nàsatya, com- me palrons des trois fonclions cosmiqucs et sociales»,
Studia Linguistica, II, 1948 pp. 121-129; JMQ IV, pp. 13 - 35 ( «Les
dieux palrons des trois f onctions dans le Rg Veda et dans le
AlharvaVeda»); in queste due ultime esposizioni la divisione degli dèi in
tre gruppi «Aditya, Rudra, Vasu», è interpretata nello stesso senso (cf.
DIE pp.7-9). § 4. La discussione delle spiegazioni anteriori e l’interpretazione
nuova formano il primo capitolo di NA, pp. 15-55 («les dieux Arya de
Mitani»), Il carattere indiano degli Arya di Mitani è reso probabile
dalla forma del nume¬ ro «uno» (aika: sanscrito eka, contro l’iranico
comune *aiva ); P.E. DUMONT ha interpretato senza difficoltà tutti nomi
d’uomini conosciuti grazie al vcdi- co (JAOS, 67, 1947, pp: 251-253). In
seguilo G. Widengren ha sottolineato in questi nomi propri c nella
variante u -ru- wa - na del nome di Varuna (nel trattato di Bogazkoy),
qualche fatto fonetico che rinforza questo parlare di iranico: Numen, II,
1955, pp. 80-81 e note 167, 170. § 5. DIE.pp. 11-14. Un gruppo di
raffigurazioni su una faretra cassila c stata interpretata come
rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo Indra (o Vàyu) e in
basso i gemelli Nàsatya in una scena di medicazione mira¬ colosa
conosciuta dal Rg Veda : «Dieux cassiles et dieux vediques, à propos d’un
bronze du Lourislan» RHA, 52, 1950, pp. 18-37. Riprenderò prossima¬ mente
il problema a partire da una migliore fotografia (la scena c le insegne
di «Mitra e Varuna» devono essere spiegate altrimenti: non vi sono degli
altari ma un vaso raffigurante una lesta di leone) e con degli altri
documenti sui «gemelli» § 6-9. La spiegazione degli Amai a
Spanta costituisce la materia di NA, cap. II-V; la quarta Entità,
Àrmaiti, che sembrava creare allora difficoltà, è stala spiegata in
seguito in Tarpeia , cap. I (=JMQ il.pp. 305-313). Questa in¬
terpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE, «Une legende
indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos de
Hàrut-Màrut», Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947, pp. 10-18; J. DUCHE-
SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 1948 pp. 47-80; Onnazd et Ah rimati, 1953, p.
23; The Western Response to Zoroaster, 1958 pp. 38-51 (vedi specialmente
pp. 45-46 contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER (vedi sotto,
nota 81 al III cap. § 13); J.C. TAVADIA «From
Aryan Mythology to Zoroastrian The- ology, aReviewofDumézil’sResearches»,
ZDMG, 103, 1953, pp. 344-353; K. Barr, Avesta, 1954, pp. 52-59 e 197; G.
WlDENGREN , «Stand und Aufga- ben deriranischenReligionsgeschichte»,
Numen, I, 1954, pp. 22-26; S. Har- TMAN in molti articoli specialmente
«Ladisposition de l’Avesta», Orientatili Suecana, V, 1956, pp. 30-78; e
inoltre da altri importanti iranisti. È stata inve¬ ce rigettata senza
discussione da I. Gerschevitch e W. Lentz e non è menzio¬ nala nei libri
di W.B. Henning e R.C. Zaehner. § 10. Questo tipo di spiegazione è
stata estesa alle Entità già gathiche come SraoSa e ASi (considerale come
sublimazioni degli dèi prezoroastriani equivalenti agli dèi vedici
Aryaman e Bhaga): vedi qui sotto, III, § 8; poi al non gathico Rasnu e
alla Fravasi (considerate come figure purificate corri¬ spondenti a Visnu
e ai Maj'ut): «Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa- striennc»,
JA, CCXLII, 1953, pp. 1-25; infine a Busyastà (considerata come una
demonizzazione della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques,
1956, pp. 34-37. § 11. DIE, pp. 22-23. § 12. Gli
attacchi più vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi- sta;
vedi a proposito di H.J. ROSE, RHR, CXXXIII, 1948, pp. 241-243 e Dé¬
esses latines..., 1956, pp. 118-123. I germanisti ostili hanno in generale
preferito “ignorare”; tuttavia ho recentemente avuto una gradevole
discus¬ sione - la prima - con K. HELM, BGDSL, 77, 1955, pp. 347- 365;
78, 1956, pp. 173- 180. Un grande numero di «risposte alle obiezioni» si
trovano dis¬ seminate nelle prefazioni, note e appendici dei miei libri.
Le ultime in ordine di tempo che hanno un valore generale sono; «Examen
de criliques réccnles; John Brough, Angelo Brelich», RHR, CLII, 1957, pp.
8-30. § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano
solitamente Vo- fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi.
Perla triade umbra vedi «Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium»,
RP, XXVIII, 1954, pp. 225-234 e «Notes sur le début du riluel d’Iguvium»,
RHR, CXLVII, 1955, pp. 265-267. La triade romana è comparsa proprio a fornire
il titolo comune degli studi sulle tecnologie trifunzionali indoeuropee,
pubblicati dal 1941 al 1948. § 14. L’interpretazione è stata
presentata per la prima volta in un articolo che conteneva in potenza
tutto il lavoro ulteriore: «La préhisloirc des flami- nes majeurs», RHR,
CXVIII, 1938, pp. 188-200. Sono comparsi in seguito JMQ, cap. II c III,
poi lutto NR; riassunto in L'hèritage... pp. 72-101. § 15. Contro
il «Marte agrario» vedi NR, pp. 38-71 (=JMQ it., pp. 191-217) e
Rituels... pp. 78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR., pp. 71-76 (= JMQ it.
pp. 218-222); è importante non vedere in Giano (dio dei prima, di tut¬ ti
i prima) un «predecessore» né un doppio di Jupiter (dio dei summit): DIE,
pp. 91-102 e«Jupiler-Mars-Quirinus et Janus», RHR, CXXXVIII, 1951, pp.
209-210; sugli «dèi dei prima» indo-iranici, Tarpeia, pp. 66-96.
82 § 16. La spiegazione del complesso Quirino è stata
formata in tre tempi: 1) JMQ, pp. 72-77, 84-94, 143-148, 182-187 (=JMQ
it„ pp. 49-53, 58-66, 101-104); 2°), NR, pp. 194-221 (=JMQ it., pp.
264-285) e Tarpeia, pp. 176-179; 3°) JMQ, pp. 155-170 (specialmente pp.
167, 169 e n. 2, 170). Vedi anche L. GERSCHEL, «Saliens de Mars et
Saliens de Quirinus», RHR, CXXXVIII, 1950, p. 145-151. Ho sostenuto
numerose discussioni, special- mente: «La triade Jupiter-Mars-Janus?»,
RHR, CXXXII, 1946, pp. 115-123 (con V. Basanoff); REL, XXXI 1953, pp.
189-190 (con C. Koch);«A propos de Quirinus», REL, XXXIII, 1955, pp.
105-108 (con J. Paoli); «Remarques sur les armes des dieux de troisième
fonction», SMSR, XXVIII, 1957, pp. 1-10 (con A. Brelich). Generalmente
ogni nuovo avversario non tiene alcun conto delle risposte fatte ai
precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire psychotogique et
historique de la religìon roinaine, 1958, p. 118 (che tratta anche della
triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di Jupiter Mars
Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le considerazioni
nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso più profondo e
una data più antica di quanto non si facesse generalmente (vedi «La
bataille de Sentinum, remarques sur la fabrication de l’histoire romaine»
Annales, Eco¬ nomie, Sociétés, Civilisations.VU, 1952, pp. 145-154).
Sulle etimologie pro¬ poste per Vofionus, vedi RP, XXVIII, 1954, p. 225,
n. 4 e p. 226, n. 1; la spiegazione con *leudhyono- sitrova in Pisani
«Mytho-etymologica», Rev. desEtudes Indo-Européennes (Bucarest), I; 1938,
p. 230-233 e in BENVENI- STE, «Symbolisme social dans les cultes
gréco-italiques», RHR, CXXIX, 1945, pp. 7-9. § 17. Una
questione connessa è quella della realtà o della non realtà di una
componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto al
no¬ stro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti
storici, e in più, una risposta affermativa non genererebbe affatto
l’interpretazione funzionale delle leggende sulle origini, di cui
bisognerebbe solamente ammettere (la qual cosa è ordinaria) che
presentano l’avvenimento «ripensato» in un qua¬ dro ideologico ed epico
preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che que¬ sta
interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la
tesi dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra
diverse difficol¬ tà. In L’heritage .... pp. 179-181, si troverà
riassunta la lunga discussione del capitolo III di NR («Latins et Sabins,
histoire et myhte» non tradotta in JMQ it.: vedi p. 263), condotta
principalmente in funzione della tesi di A. PlGA- NIOL, Essai surlesorigines
de Romei 1915) che dominava allora gli studi. Da quattordici anni che
questa discussione è stata pubblicata ho letto molte affer¬ mazioni
calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina lontana dalla fon¬
dazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto archeologico che
non fosse già stato prima esaminato e che facesse pendere decisamente la
bilan¬ cia; cf. JMQ IV, p. 182 (sugli argomenti che si sono voluti
demandare alla strana disciplina della «geopolitica») e RE XXXIII, 1955,
pp. 105-107 (su un curioso argomento che J. Paoli ha creduto di poter
ricavare dalla triade um¬ bra). Quanto a me, continuo a trovare
soddisfacente nel suo principio la spie- 83
gazione data nel 1886 della leggenda del sinecismo latino-sabino da
T. MOMMSEN, «Die Tatiuslegende», ripreso in Gemmiti. Schr. IV, pp. 22-35.
In una memoria intitolata «Céramiques des premiers siècles de Rome,
VIII-V siècles», manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus
de l’Académie des Inscriptions , 1950, p. 287-295, F. Villard si è
pronuncialo per l’omogeneità della popolazione romana dell'ottavo
secolo. § 18. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi
JMQ, pp. 144-146 (= JMQ it., pp. 101-012) (dove bisogna correggere nella
citazione di Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de Hadingus,
1953, pp. 109-110. Per la triade «Jupiter, Mars, Ops» vedi «Lcs
cultes de la Regia, les trois fonclions et la triade JMQ», Latomus, XIII,
1954, pp. 129-139. Per la triade «Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus)», vedi
Rituels..., p. 54 e p. 60, note 37-40. Per Romolo-Remo come
corrispondenti dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, § 24. Inoltre
l’utilizzazione delle tre funzioni c della triade «JMQ» da parte di
Martianus Capella è stata esaminala in «Remarques sur Ics trois premières
re¬ gione s erteli de Mart. Cap.», Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M.
Nieder- memn) 1956, pp. 102-107. § 19-20. Jan de Vrics è
stalo condotto dalle sue ricerche a una visione strutturale delle
religioni germaniche. Quando è uscito MDG, 1939, egli av¬ vertì la
parentela della mia concezione e della sua e la complementarietà dei
nostri argomenti. Da allora, benché divisi su qualche dettaglio, siamo
d’accordo, credo, su tutte le maggiori questioni: che ci si riporti alle sue
chia¬ re, obiettive c generose esposizioni del suo Altgermanische
Relìgionsge¬ stiti cht e. 2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai suoi articoli:
«Dcr heutige Stand der gcrmanischen Rcligionsforschung», Gemi. - Roman.
Monatsschrift , N.F., II, 1951, pp. 1-11 ; e «L’élat acluel
dcséludes sur la rcligion germanique», Dio¬ gene, 18, aprile 1957, pp.
1-16; altri articoli che toccano le questioni qui trat¬ tale: «La valeur
religicuse du mot irmin», Cahiers du Sud, n. 314, 1952, pp. 18-27; «Die
Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl», Atta Philol. Stand., 1952, pp.
172-180; «La loponymiect l’hisloire des religions»,RHR, CXLVI, 1954, pp.
207-230; «Uber das Wort Jarl und seine Vcrwandlen», NC, VI, 1954, pp.
461-469. Nell’opera collettiva Deutsche Philologie ini Aufriss, Miinchen,
1957, la sezione «Die altgermanische Religion» (col. 2467-2556),
redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo germanico, e specialmente scan¬
dinavo, un’eccellente interpretazione, originale c ripensata, nel quadro che
io ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in questo stesso schema:
«L’élymologic du terme germanique *ansuz, dieu souverain», Études
Germuniques, 1953, pp. 36-44 e «La religion germanique primitive, rcflccl
d’une slruclurc socia¬ le», Le Flamheau, 1954,4, pp. 437-463.1 miei MDG,
oggi felicemente esau¬ riti, hanno sofferto di essere stali pubblicati
agli esordi delle ricerche sulla tripartizione indoeuropea: non era che
una prima vista d’insieme e un pro¬ gramma carico d'ipotesi di lavoro,
alcune delle quali si sono verificate c altre no; presto pubblicherò una
seconda edizione interamente rimaneggiata. Non ho qui ancora il posto per
esaminare la teologia dei Germani continentali (specialmente Tacito,
Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio c 84
Marte, Ercole, «Iside»): vedi DIE, pp. 23-26. PerÓdinn bisogna
aggiungere l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R.
Otto, 1932): vedi J. De Vries, op. cit., II, § 405. § 21.
Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella dei Latini di
Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia, pp. 247-291 (= JMQ
it.,pp. 108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione
in «giganto- machia» della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8,
1924, e la pre¬ sentazione generale in L’heritane..., pp. 125-142.
§ 23. Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23.
PerglidèigallidiCesaree i loro corrispondenti irlandesi nei loro rapporti
(in ogni caso molto alterati) con la tripartizione, vedi MDG, p. 9, NR,
pp. 22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux de la Gaule, 1957, pp. 4, 19-21, 31-33,
94. R. JAKOBSON ha tentato di inter¬ pretare nel quadro delle tre
funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art. «Slavic Mythology»
in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore, II, 1950, pp.
1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un giorno
favorevole alla nostra inchiesta. § 24. Sulla tripla titolatura di
Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La guerre dea géants, le mytheavant
l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258. § 25. Su SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti
e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tar¬ peia, pp. 55-66; H. Lommel ha
trovato indipendemente la corrispondenza Sa- rasvatl-Anàhità c l’ha
pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954, pp. 405-413. Per i dati latini,
irlandesi e germanici vedi «Iuno, S.M.R.», Eranos, LII, 1954, pp. 105-119
e «Le trio des Macha» RHR, CXLVI, 1954, pp. 5-17. 85
Capitolo terzo Le diverse funzioni nella teologia, nella
mitologia e nell ’epopea 1. Avanzamento disuguale
dell’analisi teologica delletre FUNZIONI L’esplorazione
di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo indoeuropeo implica tre
compiti molto considerevoli, a tult’oggi pro¬ grediti in maniera assai
discontinua. Non è stalo possibile giungere ra¬ pidamente a risultati
sistematici che al primo livello. Se importanti aspetti del secondo e del
terzo sono stati determinati in breve tempo, essi non sono tuttavia che
un insieme strutturalo ancora in fase di ap¬ profondimento. Non si è
potuto dunque fare altro che dare per essi de¬ gli orientamenti generali
e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di lavoro. 2. I
DUE ASPETTI DELLA PRIMA FUNZIONE PRESSO GLI INDO-IRANICI; Varuna e
Mitra, ASa e Vohu Manah Il principio fondamentale intorno a cui si
organizzavapresso gli Indo-Iranici la teologia della prima funzione è già
stato segnalato; nel trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che
sono state confronta¬ te, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e
Varuna, che la rappresenta¬ no, ed c ancora questa coppia che presuppone
la coesistenza di due fi- 87 gure, il «Buon
Pensiero» e 1’«Ordine», che gli corrispondono in testa alla lista delle
entità sostituite da Zoroastro agli dèi funzionali. Questa dualità
è stata spiegata in molte maniere dai commenta¬ tori indiani e dalle
diverse scuole mitologiche degli ultimi cento anni. Attualmente è stata
fatta luce su ciò che in parte si può dedurre dai loro stessi nomi: se la
parola Veruna, apparentata o no al greco oùpavóq, wpavoq, resta oscura
(la si è interpretata con radici che significano «coprire», «legare»,
«dichiarare»), al contrario, Mitra è sicuramente, come ha spiegato
Meillet in un celebre articolo (1907), per la sua eti¬ mologia, il
Contratto personificato. Nella grande maggioranza dei casi, tra questi
dèi i cui nomi appaiono spesso al duale doppio, cioè con una forma
grammaticale che esprime il più stretto legame, i poeti non fanno
differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari soli¬ dali del
più grande potere, e quando non nominano che uno dei due, non si fanno
scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attri¬ buti di
questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia della
funzione sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, co¬
stituisce per gli uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo
piano nella credenza e nell’espressione. Ma capita spesso felicemente,
anche nel lirismo degli inni ma soprattutto nei libri rituali, che il
poeta o il liturgista travalichi questo primo piano e voglia distinguere
i due dèi per meglio spiegare o utilizzare la loro solidarietà.
In tale caso le diverse immagini che appaiono sono tutte dello
stesso senso: Mitra e Varuna sono i due termini di un gran numero di
coppie concettuali e di antitesi, la cui sovrapposizione definisce due
piani, ogni punto del piano potremmo dire, richiamando sull’altro un
punto omologo; e queste coppie tanto diverse possiedono tuttavia un’aria
di parentela così netta che di ogni nuova coppia assegnata al¬ l’insieme
si può provare a colpo sicuro quale sarà il termine «mitria- co» e quello
«varunjco». Fra le specificazioni così diverse dell’antitesi sarà
difficile estrarne una da cui il resto può essere derivato e senza dubbio
questo tentativo, una volta fatto, non avrebbe gran senso. Sarà molto
meglio procedere a un breve inventario, osservando e definendo l’antitesi
in rapporto alle principali categorie dell’essere divino (cf. II § 5).
Quanto ai loro domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a ciò che è
vicino all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che si
ri- 88 trova nettamente fra le Entità
zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°); passando al limile, dei
testi affermano che Mitra è questo mondo mentre Varuna Valtro mondo, come
è certo che ben presto Mitra rappresentò il giorno e Varuna la notte.
Mitra è assimilato alle forme visibili e usuali del soma e del fuoco,
mentre Varuna alle loro forme invisibili e mitiche. Nelle modalità
d'azione, se Mitra è propriamente il «contratto» e stabilisce tra gli
uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande mago, signore della
màyà, la magia creatrice delle forme, e in posses¬ so dei «nodi» con cui
«afferra» i colpevoli con una presa irresistibile. Nondimeno essi
si oppongono per il foro carattere : l’ami¬ chevole Mitra è benevolo,
dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna è impietoso, violento, a
volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applica¬ zioni illustrano questo
teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che è cotto a vapore, a
Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il soma
inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò che
è ben sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc.. Tra le
funzioni diverse da quelle che gli sono proprie, Mitra ha più affinità
per la prosperità, la fecondità e la pace, Varuna per la guer¬ ra e la
conquista, tra le province stesse della sovranità, Mitra è piutto¬ sto -
come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy - il potere spirituale,
mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i casi ri¬ spettivamente il
brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin. II, 1956, p. 110)
ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente, di Varuna per
l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovra¬ ni Mitra e
Varuna, di diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno che
l’altro. Se gli inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò non
avviene perché egli è «in procinto» di prendere un’importanza maggiore
rispetto a un «più vecchio» dio Mitra, ma perché, semplice¬ mente, la
specificazione magica e inquietante della sua azione solleci¬ ta all’uomo
più preoccupazioni cultuali del rassicurante e chiaro do¬ minio del
giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c mai
conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una co¬
stante collaborazione. 3. I DUE ASPETTI DELLA PRIMA FUNZIONE A
ROMA: JUPITER E DlUS Fidius Questo schema indiano, e
prima ancora indo-iranico, ha fornito la chiave per qualche difficoltà o
enigma delle mitologie occidentali. 89 A Roma,
dove tutto il pensiero è concreto e patriottico, in cui il cosmo e le sue
diverse parti richiedono attenzione e riflessione solo nella mi¬ sura in
cui possono essere utili o nocive all’ Urbe, non ci si può aspetta¬ re di
osservare la bipartizione nelle sue generalità: la lontananza del cielo,
l’ordine dell’universo, cose di Varuna, lasciano i Romani total¬ mente
indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna delle sue specificazio¬ ni
indiane, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma storica
Dius, Dius Fidius - il dio «luminoso» e garante della ftdes, della lealtà
e dei giuramenti - non è più che un aspetto di Jupiter, è vero che sembra
esservi stata tutt’altra situazione nei primordi. Certo, i due dèi erano
strettamente associati e il nome del primo flamine e più vicino a Dius
che a Jupiter. Ma il dominio stretta- mente giuridico che Dius si
accolla, nella sovranità, porta a considera¬ re il resto (gli auspici su
cui Roma vive, la direzione mistica della poli¬ tica romana, i miracoli
salvifici della storia romana) come più propriamente caratteristici del
suo grande socio. Allo stesso modo, nella teoria dei lampi Dius Fidius ha
una specificazione nettamente «mitriaca»: sono i lampi del giorno che gli
appartengono, mentre quelli della notte rivelano una varietà oscura e
«varunica» di Jupiter, Summanus. È probabile che questa
teologia complessa abbia risentito, pri¬ ma dei nostri testi più antichi,
della promozione e, nello stesso tempo, della riforma teologica di
Jupiter che ha coinciso con la creazione del suo culto capitolino e con
la sostituzione di una triade «Jupiter O.M, Giunone Regina, Minerva»
all’antica triade «Jupiter, Mars, Quiri- nus». Lo Jupiter del Campidoglio
sembra essere stato quasi subito im¬ perialista, fagocitando Dius e
concentrando in sé tutta la sovranità; ma forse i due piani tradizionali
complementari sono ancora segnalati nel¬ la strana doppia titolatura del
dio: Optimus, cioè il molto servizievole e Maximus cioè il più alto,
posto nell’infinita classificazione delle mci- iestcìtes. Sono questi, in
rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondo¬ no nell’ideologia vedica
a Mitra e Varuna. 4. I DUE ASPETTI DELLA PRIMA FUNZIONE IN
SCANDINAVIA: ÓdINN E Tyr Ma è nel mondo germanico che
l’analogia indiana è particolar¬ mente illuminante. Né «Mercurio» (cioè
*Wópanaz ) nella Germania 90 di Tacito, né
Ódinn nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino a loro vi è
quello che Tacito, per delle ragioni comprensibili e interes¬ santi,
chiama Marte (cioè *Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr. Que¬ sto dio,
omonimo del vedico Dyauh e del greco Zeus, e che al pari di questi due o
del Dius Fidius latino evoca l’idea del cielo luminoso, è generalmente
considerato nei suoi rapporti con *Wópanaz come un dio «più antico»,
impallidito di fronte a un nuovo venuto. Benché sia strano che, a otto o
dieci secoli di distanza, Tacito da una parte e i poeti scandinavi
dall’altra abbiano conosciuto e registrato, proprio allo stesso stadio,
l’avanzamento di uno e l’arretramento dell’altro, le con¬ siderazioni
comparative ci incoraggiano a dare un senso strutturale a questa
associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio eclissato a causa dell
'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per cui Mitra, teori¬
camente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei poeti e come
lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini hanno più attenzione
per la sovranità magica che per quella giuridica. La grande
originalità del mondo germanico è quella segnalata da Tacito con la sua
interpretatio romana di *Tiuz in Marte. Essa per¬ viene a delle
considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in cui abbiamo visto
il mago Ódinn annettersi una parte della funzione guer¬ riera. La stessa
cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo de¬ finisce
(Gylfaginning cap. 25). «Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È
molto intrepido e co¬ raggioso, ha un grande potere sulla vittoria in
battaglia. Perciò è bene che i guerrieri valorosi lo invochino. Di
alcuni, che sono più co¬ raggiosi degli altri e che non hanno paura di
niente, si dice prover¬ bialmente che sono figli di Tyr » Questa
«marzializzazione» del sovrano giurista dei Germani non è senza analogia
con quella che a Roma ha fatto di Quirino, dio ca¬ nonico della terza
funzione, patrono dei Romani nella pace e nelle opere di pace, una
varietà di Marte. Nei due casi l’evoluzione sociale ha reagito sugli dèi:
dal giorno in cui - forse con la riforma di Servio - i Quiriti hanno
coinciso coi milites e sono diventati «i militi in congedo tra due
appelli», era naturale che Quirino si volgesse verso il Mars tranquillus,
il Mars qui praeest paci aspettando di saevire. 91
In altre condizioni, meno formali e più violente, le società ger¬
maniche antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi di pace i
quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello spirito guer¬
riero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva l’assemblea legisla¬
tiva, si riuniva al Campo di Marte ma senza armi. Che si rileggano, al
contrario, i passi coloriti in cui Tacito (Germania , 11 -13) descrive il
Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro bande, le armi brandite o
battute in segno di voto, le forme tutte militari del prestigio e
deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si formulava il diritto e si
regolavano i processi. Qualche secolo più tardi l’antichità scandinava
non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci si riunisce in armi, si
approva alzando la spada o l’ascia o battendo la spada sullo scudo. Non è
dunque sorprendente che il dio al centro di queste riunioni giuri-
dico-gueiTiere, erede del dio giurista indoeuropeo, rivestisse l’uni¬
forme dei suoi ministri e li accompagnasse nel loro passaggio, facile e
costante, dalla giustizia alla battaglia e che gli osservatori romani lo
avessero considerato come un Marte. Alcune dediche trovate in Frisia sono
rivolte a un Mars Thincsus che compie l’esatto legame tra lo stato
indoeuropeo probabile e il risultato scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel
Tyr di cui è stato notato che il nome segnala, nella toponimia, gli anti¬
chi luoghi del Ping. Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri popol
i, gli antichi Ger¬ mani abbiano così riconosciuto, a parte ogni
questione dell’apparalo guerriero, l’analogia profonda tra la procedura
del diritto - con le sue manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie
senza appello - e il combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è
un mezzo per essere il più forte e per ottenere vittorie che spesso
eliminano l’avversario così radicalmente come in un duello. Quando si
dice che Tyr, in segui¬ to a un’astuzia giuridica, per aver rischiato la
sua mano destra come pegno di un’affermazione utile ma falsa, « è
divenuto monco e non è chiamato pacificatore di uomini», non si tratta
che della controparte, del completamento morale di un fatto materiale: la
riunione del Ping in armi, con intenzioni di potenza (più che di equità)
che vede la guerra in ogni luogo. Queste indicazioni molto
generali aiuteranno a comprendere come un ■■ Tiuz-Mars abbia potuto
formarsi a partire da un dio indoeu- 92 ropeo il
cui dominio specifico era il diritto e il cui carattere si è purifi¬ cato
e moralizzato, aiutato dalla civilizzazione progressiva. 5. Gli dèi
sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e Bhaga vicino a Mitra Ma
negli inni del Rgveda il giurista Mitra e il magico Varuna, benché
sembrino dividersi equamente il dominio della sovranità, non sono
isolati. Essi non sono che quelli più frequentemente nominati dal gruppo
degli Àditya, o figli della dea Aditi, la Non-Legata, cioè la Li¬ bera,
l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e delle funzioni de¬ gli
Àditya in tutti i contesti, lo studio delle frequenze di menzione di
ognuno, frequenze dei loro diversi raggruppamenti parziali e del loro
legame con altri dèi, hanno permesso di interpretare la struttura che di¬
segnano. Non è qui possibile beninteso riassumere molto
brevemente queste analisi e questi calcoli, i cui dettagli sono stati
pubblicati in due tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla letteratura epica
è conservato il ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i due principali
tra loro, van¬ no a coppie e in seguito arriveranno sino a dodici. Nel
Rgveda sembra che vi sia già stata un’oscillazione tra un’antica cifra di
seie una prima estensione a otto, per addizione di due dèi
eterogenei. Di questi sei, Mitra e Varuna formano la prima coppia;
di ognu¬ na delle altre due coppie è facile vedere che un termine agisce
sul pia¬ no e secondo lo spirito di Mitra, mentre 1 ’ altro,
simmetricamente, agi¬ sce sul piano e secondo lo spirito di Varuna, di
modo che è legittimo e comodo chiamare queste figure complementari
«sovrani minori». Ma questa cifra di sei sembra essere stata estratta,
per ragioni di simme¬ tria, da un sistema più breve di quattro dèi
sovrani, in cui il sovrano «vicino agli uomini» Mitra, aveva solo due
assistenti, mentre Varuna rimaneva solitario nelle sue lontananze. I nomi
e le distribuzioni di questi Àditya primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman +
Bhaga; 2) Varuna. Il principio della stretta associazione di Aryaman,
Bhaga, Mitra, pro¬ vato dalle statistiche delle menzioni simultanee, è
semplice: ognuno di questi dèi esprime e precisa lo spirito di Mitra su
ognuna delle due province che i nteressano 1 ’ uomo, quelle che il
diritto romano ritroverà con un altro orientamento, più individualista,
distinguendo le perso- nae e le res. 93
Sotto Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il tono e il
modo generale d’azione che si conosce (giuridico, benevolo, regolare,
orientato verso l’uomo), Aryaman si occupa di preservare la società degli
uomini ari a cui deve il suo nome, mentre Bhaga, il cui nome si¬ gnifica
propriamente parte, assicura la distribuzione e il godimento regolare dei
beni degli Arya. 6. Aryaman Aryaman protegge l’insieme
degli uomini che, uniti o no politi¬ camente, si riconoscono Arya in
opposizione ai barbari, e li protegge non in quanto individui ma come
elementi di un insieme: gli aspetti principali del suo servizio
multiforme sono i tre seguenti: 1 ) Favorisce le principali forme
di rapporti materiali o contrat¬ tuali tra Arya. È il «donatore»,
protegge il «dono» (il che lo obbliga a interessarsi alla ricchezza e
all’abbondanza) e in particolare l’insieme complesso delle prestazioni
che formano l’ospitalità. P. Thieme (Der Frenullinx im Riveda, 1938) ha
messo in risalto questo punto col torto di farne il centro di ogni
concetto divino e di dedurne o negarne tutto il resto. Infatti Aryaman
non c meno primariamente interessato ai matri¬ moni: c pregato come dio
delle buone alleanze, scopritore di mariti (subandhùpativédana: A V, XIV,
1,17); cerca un marito per la fanciul¬ la giovane o una donna per il
celibe (A V, VI, 60,1 ). La sua preoccupa¬ zione per i cammini e per la
libera circolazione (c àtùrtapanthà, «colui il cui cammino non può essere
interrotto»; RV, X, 64,5) non deve esse¬ re negata o minimizzata come è
stato fatto da B. Geiger, H. Giintert c P. Thieme: tutto ciò risalta da
un gran numero di strofe di inni e da un lesto liturgico che lo definisce
come il dio che permette al sacrificante «di andare ove e^li desidera» e
di « circolare felicemente » ( Tait- tir.Samh., II-, 3, 4, 2).
2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha anche un aspetto litur¬
gico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la prima volta la Vacca
mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si tiene a fianco
dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV, 1,139,7, col
commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9) di espellere
sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle libagioni
(uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. 94
3) Poco curiosi dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano di
un’altra forma di servizio che è, al contrario, la sola di cui l’epopea
con¬ servi un ricordo molto vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro
mondo Aryaman presiede il gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome
chiari¬ sce abbastanza l’origine: sono infatti una rappresentazione degli
ante¬ nati morti, e Aryaman è il loro re, che prolungano così nel
posl-mortem la felice promiscuità e la comunità degli Arya viventi. Il
cammino che porta presso i Padri, riservato a quelli che durante la
propria vita hanno praticato esattamente i riti (in opposizione agli
asceti e agli yogin), è chiamato «il cammino di Aryaman » (Mahàbhdrata ,
XII, 776 etc.). 7. Bhaga Bhaga si occupa
fondamentalmente della ricchezza ed è a lui che ognuno - debole, forte e
il re stesso - si rivolge per averne una par¬ te (RV , VII, 41, 2). Un
esame completo delle strofe vediche che lo no¬ minano o che impiegano il
termine bhd^a come appellativo, ha per¬ messo di constatare che questa
parte è dotata di qualità richieste alla metà dell’amministrazione
sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare, prevedibile, senza sorprese,
giunge a scadenza perlina sorta di gesta¬ zione (il bambino pronto perla
nascita «rut> giunge Usuo bhd^a»: RV, V, 7, 8); essa è il risultalo di
un’attribuzione senza rivalità, implicante un sistema di distribuzione
(verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day, cf. il greco Sou|.iov); infine è acquisita
e conservata nella calma, è la retribuzione degli uomini maturi,
assennali, seniores, opposti agli iuvenes (RV, I, 91,7 ; V, 41,11 ; IX,
97, 44). L’altra varietà della parte, imprevedibile, violenta,
«varunica», che si conquista con la battaglia o con la corsa, è designata
da un’altra parola che sin dai tempi indo-iranici aveva una risonanza
combattiva e che ha giustamente fornito ai teologi vedici il nome del
«sovrano minore varunico» simmetrico di Bhaga, Amsa. 8.
Trasposizione zoroastriane di Aryaman e Bhaga: SraoSa e A$i
Abbiamo la certezza che questa struttura era già indo-iranica: come
in Iran la lista degli dèi canonici delle tre funzioni è stala subli¬
mata dallo zoroastrismo puro in una lista di Entità che gli corrispondo¬
no termine per termine (vedi II § 8); così gli dèi sovrani minori asso-
95 ciati a Mitra hanno prodotto due figure
complementari non comprese nella lista canonica delle Entità, ma vicine,
le cui statistiche dei ruoli mostrano l’affinità esclusiva dell’una
rispetto all’altra, e di tutte e due rispetto a Vohu Manah (sostituito di
*Mitra); e anche nei testi in cui questo dio ricompare, in relazione a
MiGra, mentre niente lo lega ad Asa (sostituto di *Varuna). In più, per
il loro nome come per la loro funzione, queste due Entità - Sraosa,
VObbedienza e la Disciplina , e Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si
può attendere da un Aryaman o da un Bhaga ripensati dai riformatori. E
facile vedere punto per punto che Sraosa è per la comunità dei credenti
ciò che Aryaman era per la comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza
la nazionalità. 1) H. S. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la
personificazione «derfrommen Gemeinde», il termine «genio protettore»
sarebbe più esatto ma i 1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è «capo
nel mon¬ do materiale come Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e
materiale» {Greater Bundahisn, ed. e trad. B. T. Anklesaria, 1957, XXVI,
45, p. 219) presiede all’ospitalità come già faceva l’Aryaman vedico (e
già indo-iranico; cf. persiano èrmdn, «ospite», da *airyaman), quando
è concessa, si sa, all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII, 14
e 34). Se non lo si vede più occupato, specialmente delle
alleanze ma¬ trimoniali e della libera circolazione sui sentieri, nondimeno
la sua azione sociale sulle anime è precisata: egli è il patrono della
grande virtù della vita in comune, di quella che assicura la coesione,
cioè la giusta misura, la moderazione ( Zdtspram , XXXIV, 44); è anche il
me¬ diatore e il garante del famoso patto concluso tra il Bene e il
Male (Vasi XI, 14) e il demone che gli è personalmente opposto è il
terribile Aesma, il Furore, distruttore della società ( Bundahisn XXXIV,
27). Rimane una precisa traccia mitica della sostituzione di Sraosa
a un dio protettore degli Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35
è lui il signore e il re del paese chiamato Eràn vèz. (avestico
Airyanam vaèjò), quel soggiorno degli Arya da cui, dice l’A vesta, sono
venuti gli Iranici ( Vidèvdat , I, 3). 2)11 ruolo liturgico
di Aryaman si è naturalmente amplificato in Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8,
dice che fu il primo a sacrificare e cantare gli inni e tutto l’inizio
del suo Yast (XI, 1-7), unicamente consacrato 96
all’elogio della preghiera e all’ esaltazione della loro potenza, si giusti-
fica per questo ricordo. Simmetricamente, alla fine dei tempi, al
tempo del supremo combattimento contro il Male, è Sraosa che sarà il
sacerdote assistente nel sacrificio in cui Ahura Mazda stesso sarà
l’officiante principale (.Bunclcihisn , XXXIV, 29). 3)
Infine, come l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della dimora in cui
vanno - attraverso «il cammino di Aryaman» - i morti che hanno
correttamente praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruo¬ lo decisivo
nelle notti che seguono immediatamente la morte: egli ac¬ compagna e
protegge l’anima del giusto sui sentieri pericolosi che la conducono al
tribunale dei suoi giudici, di cui egli stesso è parte {Dùuistun-TDénTk
XIV, XXVIII, etc.). Asi è sempre una «distribuzio¬ ne» come lo era Bhaga
ma la nuova religione, che conferisce più im¬ portanza all’aldilà che al
mondo dei viventi, gli domanda soprattutto di vegliare sulla giusta
«retribuzione» post-mortem degli atti buoni o cattivi dell’uomo. Tuttavia
anche nelle Gàthà, c palesemente nei testi post-gathici, pur badando in
avvenire al tesoro dei suoi meriti, non di¬ mentica nella vita terrestre
di arricchire l’uomo pio c di riempire la sua casa di beni.
9. JUVENTAS E TERM1NUS VICINO A JUPITER O.M. L’analisi di
questa concezione, già indo-iranica, della sovranità che non altera la
grande bipartizione ricoperta dai nomi di Mitra e Va- runa, ma dona
solamente a Mitra due assistenti che l’aiutano a favorire il popolo arya,
illumina una particolarità della religione romana di Ju- pitcr che
sfortunatamente è conosciuta solo nella forma capitolina di questa
religione. Jupiler O.M, in cui si concentra tutta la sovranità, sia
quella «diale» che quella propriamente «gioviana» (vedi sopra § 3),
ospitava in due cappelle del suo tempio due divinità minori, Juvenlas e
Terminus. Una leggenda giustificava la coabilazione singolare di
questi tre dèi facendola risalire alla fondazione del tempio capitolino,
ma questa leggenda (che utilizzava del resto un vecchio tema legalo
al concetto di Juvenlas) non prova evidentemente che l’associ
azione fosse più antica. L’analogia indo-iranica ci incoraggia a
considerarla come preromana. 97 Infatti,
secondo degli slittamenti tipici della società romana, Ju- ventas e
Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli compara¬ bili a quelli
di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice la leggenda
eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la sta¬ bilità sul
suo dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la du¬ rata e Bhaga
la stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da questa
leggenda, le due divinità romane sono molto di più di tutto que¬ sto:
Juventas è la dea protettrice degli «uomini romani» più interes¬ santi
per Roma, gli iuvenes, parte essenziale e germinati va della socie¬ tà;
Terminus garantisce la spartizione regolare dei beni, dei beni sopratutto
immobili, catastali, appezzamenti di terreno, non delle greggi erranti
che presso i nomadi indo-iranici o tra gli indiani vedici costituivano la
ricchezza essenziale. 10. Gli dèi del gruppo di Ódinn
Nel mondo scandinavo un tale schema di sovrani minori non si è
ancora lasciato identificare, al momento. Non è che intorno a Ódinn non
vi fossero degli dèi che, secondo il poco che si sa di loro, non aves¬
sero avuto l’incarico di esercitare dei frammenti specializzati della so¬
vranità, ma queste specificazioni e l’analisi della funzione sovrana che
suppongono sono originali e i loro rappresentanti non hanno omo¬ loghi
indo-iranici e neppure romani. Vi è Hoenir, riflessivo e prudente e che
secondo la fine della Vòluspó è proiezione mitica di una sorta di
sacerdote; vi è Mimir, consigliere di Ódinn, ridotto a una testa che ri¬
mane pensante e parlante anche dopo la sua decapitazione; oppure Bragi
patrono della poesia e dell’eloquenza. Ho pensato un tempo ai due
fratelli di Ódinn, Vili e Vé, sicura¬ mente antichi poiché l’iniziale del
loro nome non si allittera in scandi¬ navo che con una forma preistorica
del suo nome (*Wòt>anaz), ma si conoscono troppo pochi dati per
interpretare questa triade e tutt’altra soluzione sarà proposta più
avanti. 11. Condizioni dello studio teologico della seconda e
TERZA FUNZIONE I procedimenti di analisi e di statistica che
hanno permesso di dispiegare e di esplorare la sovranità - nell’India
vedica inizialmente e 98 poi progressivamente
nell’organizzazione intema della teologia della prima funzione - non sono
applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e al momento non si è
riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dub¬ bio questa differenza
è propria della natura delle cose; per i suoi stessi concetti (i nomi dei
personaggi divini sono in gran parte etimologica¬ mente chiari e molti
sono delle astrazioni animate) la prima funzione si prestava facilmente
alla riflessione psicologica e non bisogna di¬ menticare che i primi
filosofi, appartenenti al personale di questa fun¬ zione, erano dei
sacerdoti e non potevano evitare di applicarvi con pre¬ dilezione la loro
analisi. La controparte è che nel Rgveda questa teologia così ben
sviluppata non si raddoppia in una mitologia ricca in proporzione: di
Mitra non è quasi «raccontato» niente; di Varuna si dice molto di più, ma
la lista delle scene in cui interviene è ridotta e in generale si tratta
di potenze e qualità degli dèi sovrani più che della loro storia, del
loro tipo d’azione piuttosto che di azioni precise com¬ piute da
loro. Al contrario, la funzione guerriera e la funzione di
fecondità e prosperità si basano in gran parte su immagini: più che
grazie a dichia¬ razioni di principio, è il ricordo inesauribile delle
imprese o dei famosi benefici che provano l’efficacia di un dio forte o
dei buoni dèi tauma¬ turghi. Così queste due province divine sono più
adatte a degli svilup¬ pi mitologici che a una messa a fuoco teologica; o
forse è meglio dire che la dottrina si abbellisce, si dissimula e si
altera sotto il rigoglio dei racconti. Per il comparatista
questa differenza comporta grandi conse¬ guenze. Senza che questo fatto
capitale sia stato ancora pienamente enunciato, il lettore ha già potuto
osservare che è il confronto delle re¬ ligioni vedica e romana il più
adatto a stabilire o suggerire, grazie al conservatorismo della seconda,
dei fatti indoeuropei comuni, mentre la religione scandinava non
interviene che a titolo di conferma dopo che il percorso comune è già
stato riconosciuto e assicurato. Ora, allo stato delle nostre
conoscenze, la religione romana pre¬ senta ancora una teologia ben
costituita: nel raggruppamento «Jupiter Mars, Quirinus» o nel
raggruppamento trasversale di «Jupiter, Juven- tas, Terminus», essa ha
registrato coscientemente delle articolazioni concettuali molto chiare.
Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere che la religione romana non è
più che una teologia: per un processo ra- 99
dicale che caratterizza Roma, i suoi dèi - e questa volta non solo gli
dèi sovrani, ma anche Marte, Quirino, Ops, eie. - sono stati spogliati
di ogni racconto e limitati asceticamente alle loro essenze, alla loro
pro¬ pria funzione. Se dunque (per la determinazione del quadro
generale tripartito e per l’esplorazione dei primo livello) il confronto
di una teo¬ logia vedica facilmente determinabile, e di una teologia
romana im¬ mediatamente conosciuta, ha permesso i risultali netti
coerenti, c sem¬ pre più completi che si sono appena letti, la stessa
cosa non avviene quando si passa ai due livelli seguenti.
India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della pro¬ pria
natura che mediante delle avventure alle quali Marte e Quirino non
corrispondono, se non per mezzo della loro scarna definizione c per ciò
che è possibile intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro sa¬
cerdoti: i documenti e i linguaggi delle due religioni che sono i princi¬
pali sostegni del comparatista non si combinano più. 12. Mitologia
ed epopea La difficoltà sarebbe probabilmente irriducibile senza un
altro fallo, ancora più importante per i nostri studi, di cui i
precedenti capi¬ toli del presente libro hanno già discretamente fornito
qualche esem¬ pio. Le idee di cui vive una società non danno luogo
solamente a delle speculazioni o a immaginazioni relative agli uomini. La
teologia e la mitologia sono raddoppiate dalle «storie antiche», dall’epopea
in cui degli uomini prestigiosi applicano c dimostrano dei principi che
gli dèi incarnano e dei comportamenti che dipendono da loro.
Certo, ben altri fattori contribuiscono alla formazione dell’epo¬
pea di un popolo, ma è raro che questa non abbia avuto, in alcuni dei
suoi grandi temi c dei suoi primi moli, un rapporto essenziale con
l’ideologia che dirige le rappresentazioni divine dello stesso popolo.
Per i nostri studi comparativi indoeuropei questa felice circostanza
gioca a nostro favore in due maniere: la seconda è stata da me ricono¬
sciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta nel 1947 dal mio col¬
lega svedese Stig Wikander. Da una parte, la più grande epopea
indiana, il Mahàbhcirata, sviluppa le avventure di un insieme di eroi che
corrispondono parola per parola ai grandi dèi delle tre funzioni della
religione vedica e pre¬ vedrà, di modo che l’India presenta, con questo
enorme poema c col 100 Riveda, lina doppia
edizione rispondente, a due differenti bisogni e con sensibili varianti,
alla sua «ideologia in immagini». Dall’ altra par¬ te, se Roma ha perduto
tutta la sua mitologia e ha ridotto i suoi esseri teologici alla loro
scarna essenza, ha conservato al contrario, per costi¬ tuirla in seguito,
la storia meravigliosa e ragionevole delle proprie ori¬ gini, un antico
repertorio di racconti umani, colorati e molteplici, pa¬ ralleli a quelli
che avrebbero dovuto essere in tempi meno austeri le raccolte mitiche
degli dèi. Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in
storia da Roma stessa? Oppure essa prolunga direttamente un’epopea
prero¬ mana e italica, coesistente con una mitologia che Roma avrebbe
per¬ duto senza traslazione e senza compensazione? L’una e l’altra
tesi possono trovare argomenti nel dettaglio dei fatti, ma per il
comparati¬ sta questa discussione non incide: in ogni caso, il primo
libro di Tito Livio contiene una materia ideologicamente conforme al
sistema de¬ gli dèi romani e drammaticamente comparabile all’epopea e
alla mito¬ logia dell'India. Per tentare di guadagnare qualche
chiarimento sui dettagli delle rappresentazioni indoeuropee della seconda
e terza fun¬ zione è dunque necessario introdurre questi nuovi elementi
nel lavoro comparativo. 13. Il fondo mitico del Mambhjrata
secondo S. Wikander Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie
il Mahàbhdra- ta, i personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un
gruppo di cinque fratelli, i Panda va o «figli di Pàndu», che fra i molli
tratti notevoli pre¬ sentano quello di avere in comune una sola sposa per
lutti c cinque, Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi,
questo regime di poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli
Arya ma attribuito qui agli croi che glorificano l’India arya, ha
costituito per più di un se¬ colo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander
ne ha fornito la soluzione soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la
chiave di tutto l’intrigo del poema. In realtà i «figli di
Pàndu» non sono i suoi figli. Sotto il peso di una maledizione che lo
condanna a morte nel momento in cui compirà l’alto sessuale, Pàndu si
assicura una posterità con un procedimento eccezionale. Una delle sue
mogli, KuntI, in seguilo ad un’avventura giovanile, aveva ricevuto un
privilegio inaudito: le era sufficiente in- 101
vocare un dio perché questo sorgesse immediatamente davanti a lei e
le donasse un figlio. Dietro preghiera di suo marito invoca dunque
in successione di¬ versi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi
sono Dharma, «la Legge, la Giustizia» (entità in cui si ritrova il
vecchio concetto del giu¬ rista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine
Indra. I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e
Arjuna. Suo marito la prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua
moglie, di questa fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così
Madri prende dalla situazione la parte migliore e chiede che vengano
evocati i due inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli
ulti¬ mi dei cinque «figli di Pàndu», Nakula e Sahadeva. Wikander
segnalò ben presto che la lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e
gli ASvin - riproduceva nell’ordine gerarchico la lista canonica degli
antichi dèi dei tre livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello
(Dharma che rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna),
mentre al secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva
ancora più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei
padri doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le
azioni epiche dei figli, come in effetti accade. Yudhisthira
è il re, mentre gli altri Pàndava sono solamente de¬ gli ausiliari; un re
giusto, virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza specialità o virtù
guerriere, come si conviene a un rappresentante della «metà di Mitra»
della sovranità. Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti
dell’insieme. Quanto ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e
devoti servitori dei loro fratelli, come nella teoria delle classi
sociali: infatti, la grande vir¬ tù dei vaiSya del terzo livello è quella
di servire lealmente le due classi superiori. L’enigma della loro unica
sposa si risolve immediatamente in questa prospettiva. Non si tratta
dunque di un’usanza aberrante ma della trasposizione epica della
concezione vedica, indo-iranica e pri¬ ma ancora indoeuropea, che
completa la lista degli dèi maschi, tra i quali si analizzano e
gerarchizzano le tre funzioni, con una dea unica ma plurivalente, meglio ancora
trivalente, come la vedica Sarasvatl che comprende in se stessa la
sintesi delle tre funzioni. Sposando DraupadI al pio re, ai due
guerrieri e ai due gemelli servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che
RV, X, 125 formulava 102 quando faceva
proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl): «Sono io che sostengo
Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che sosten¬ go i due Asvin», o
che ancora si ritrova nella triplice titolatura (con un’ulteriore
specificazione della terza funzione) della principale dea dell’Iran,
«l’Umida, la Forte, l’Immacolata». 14. I DUE TIPI DEL GUERRIERO IN
INDIA Questa scoperta è stala il punto di partenza di un’
esplorazione di tutto il poema, soprattutto dei primi libri (che
precedono la grande battaglia) ed è stata certamente chiamata a rinnovare
i nostri studi: per la sua abbondanza, la sua coesione e la sua varietà,
la trasposizione epica permette, partendo dal sistema trifunzionale, da
ogni funzione e dalle molte rappresentazioni connesse, uno studio più
profondo e più avanzato di quanto non lo permettesse l’originale
mitologico cono¬ sciuto sopralutto dalle allusioni dei testi lirici.
D’altra parte, sin dal suo articolo del 1947, Wikander ha stabilito un
punto molto importante: la struttura mitologica trasposta nel Mahàbhdruta
è sotto molti aspetti più arcaica di quella del Rgveda poiché conserva
dei tratti sfumali in questo innario ma che le analogie iraniche provano
come fosse in¬ do-iranica. Per tale ragione uno dei primi servigi
apportati da questo nuovo studio è stato quello di rivelare nella
funzione guerriera una di¬ cotomia che il Rgveda ha quasi completamente
dimenticato a tutto vantaggio di Indra. Infatti, come è già
stato dimostrato da lavori anteriori della scu¬ ola di Uppsala, Vàyu c
Indra erano i patroni, nei tempi prevedici, di due tipi molto differenti
di combattenti i cui figli epici, BhTma e Arju- na, rendono possibile
un’osservazione dettagliala e certamente una parte dei caratteri fisici
dell’Indra vedico devono essere restituiti a Vàyu per un periodo più
antico. Questi due tipi sono facilmente defini¬ bili in qualche
parola. L’eroe del tipo Vàyu è una sorta di bestia umana dotato di
un vi¬ gore fisico mostruoso, le sue armi principali sono le sue braccia,
pro¬ lungale talvolta da un’arma che gli è propria: la clava. Non è bello
né brillante, non è molto intelligente c si abbandona facilmente a
disa¬ strosi eccessi di furore cieco. Infine, opera spesso da solo,
fuori da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore designato, per
cercare l’avventura e per uccidere principalmente dei demoni e dei
geni. 103 Al contrario, l’eroe del tipo Indra è
un superuomo, un uomo compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata;
maneggia delle armi perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere
e uno spe¬ cialista delle armi da lancio); è brillante, intelligente,
morale e soprat¬ tutto socievole, guerriero da battaglia più che
cercatore di avventura e generalissimo naturale dell’armata dei suoi
fratelli. 15. I DUE TIPI DEL GUERRIERO PRESSO GLI IRANICI. I GRECI
E GLI Scandinavi Questa distinzione è conosciuta anche
dall’epopea iranica, nel¬ la persona del brutale Kó>rasàspa armato di
mazza e legato al culto di Vàyu, oppure nel tipo dell’eroe più seducente
come ©raètaona. In Grecia ricorda l’opposizione tipologica di
Ercole e Achille, ma soprattutto permette di dare una formulazione più
precisa, in Scan¬ dinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr e più in generale
a quelli della pri¬ ma e seconda funzione. E stato segnalato, nel secondo
capitolo, che Ódinn si era annesso una parte importante della funzione
guerriera. Vediamo ora che si tratta principalmente (senza che la
discriminazio¬ ne sia rigorosa: è Pórr che al pari di Indra rimane il dio
tuonante dello sconvolgimento atmosferico) della parte che presso gli
Indo-Iranici era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte di *Vàyu
era piuttosto quella di Pórr, il brutale picchiatore e l’avventuriero
delle spedizioni solitarie contro i giganti. Tuttociò appare ancora più
chiaramente se si considerano nell’ epopea gli eroi che corrispondono a
ciascuno di que¬ sti dèi: gli eroi odinici come Sigurdr, Helgi e Haraldr
sono belli, lumi¬ nosi, socievoli, amati e aristocratici, mentre l’unico
«eroe di Pórr» co¬ nosciuto dall’epopea, Starkadr, appartiene alla razza
dei giganti, un gigante ridotto da Pórr a forma umana, arcigno, brutale,
errante e soli¬ tario, vera replica scandinava di Bhlma o Ercole.
16. Caratterizzazione funzionale dei Pàndava Nei primi libri
del Mahàbhàrata i poeti, sicuramente consape¬ voli di questa struttura,
si sono cimentati nel dare delle rappresentazio¬ ni differenziate dei
cinque eroi, dettagliando le loro diverse maniere di reagire a una stessa
circostanza. Ne citerò solo due. Nel momento in cui i cinque fratelli
lasciano il palazzo per un ingiusto esilio che avrà 104
fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno la loro
rivincita, il pio e giusto re Yudhisthira avanza « Velandosi il volto col
suo abito per non rischiare eli bruciare il mondo col suo sguardo
corrucciato». Bhlma «guardale sue enormi braccia» e pensa: «Non vi è uomo
ugua¬ le a me per la forza delle braccia »; egli « mostra le sue braccia,
inor¬ goglito dalla forza delle sue braccia desidera fare contro i
nemici un 'azione pari alla forza delle sue braccia ». Arjuna sparge la
sabbia «raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro
i nemici». Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra:
Nakula, il più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di
cenere dicen¬ do: « Che io non possa mai trascinare sulla mia strada il
cuore di una donna!» e suo fratello Sahadeva allo stesso modo si imbratta
il viso (II, 2623-2636). 17. IL TRAVESTIMENTO CARATTERISTICO
DEI PÀNDAVA All’inizio dei libro IV (23-71 e 226-253), i cinque
fratelli scel¬ gono un mascheramento per soggiornare in incognito alla
corte del re Virata: Yudhisthira, eroe della prima funzione, si presenta
come un brahmano; il brutale Bhlma come un cuoco-macellaio e un
lottatore; Arjuna, coperto di braccialetti e orecchini, come un maestro
di danza; Nakula come un palafreniere esperto nella cura dei cavalli
malati, mentre Sahadeva come un bovaro, informato di lutto ciò che
riguarda la salute e la fecondità delle vacche. Queste due
specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono interessanti: se i 1
Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzio¬ ne nella coppia
indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato l’importanza del
criterio qui rivelato. Sempre restando prima di tutto degli abili
medici che ignorano l’agricoltura (il che ci porta a far risalire
indietro di molto questa con¬ cezione), Nakula e Sahadeva si dividono le
due principali province deH’allevamento, riservandosi rispettivamente
l’uno la protezione delle vacche e l’altro quella dei cavalli, che nel
Rgvedu forniscono loro il loro secondo nome collettivo, Aévin, un
derivato di àsva, «ca¬ vallo». Abbiamo così il primo modello
delle formule che si osservano anche altrove a proposito degli omologhi
funzionali dei Nàsatya -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad esempio, entità
zoroastriane sosti- 105 tuitesi ai gemelli, la
ripartizione si compie all’interno del genere «sa¬ lubrità», sotto le
acque e le piante; così pure, almeno parzialmente, tra il Njòrdr e il
Freyr degli Scandinavi, la distinzione nell’uniforme be¬ neficio
dell’«arricchimento» si compie secondo le due fonti della ric¬ chezza, il
mare e la terra. Si nota qui chiaramente come la considerazione
dell’epopea metta in risalto dei tratti strutturali e suggerisca
inchieste feconde. Il travestimento di Arjuna non è strano a un primo
approccio, poiché è arcaico e di un arcaismo che è conosciuto dal Riveda,
in cui Indra è il «danzatore» e i suoi giovani compagni la banda
guerriera dei Marut che si adorna il corpo di ornamenti d’oro,
braccialetti e anelli da cavi¬ glia che li fanno apparire come dei ricchi
pretendenti. Comune alle più vecchie mitologie c alla sua trasposizione
epica, questo tratto è certa¬ mente da riconnetlerc all’insieme del
«Mànnerbund» indo-iranico. E forse, nello stesso ordine di idee, la
trasposizione epica lascia intrave¬ dere un aspetto che gli inni fanno
passare in silenzio e che riguarda la morale particolare di questi gruppi
di giovani, quando essa insiste sul carattere «effeminato» del
travestimento scelto da Arjuna. 18. Pàndu e Varuna
Progressivamente sono stale individuate altre corrispondenze tra
l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c prevedica, sem¬ pre con
lo stesso vantaggio che l’epopea, narrazione ampia e continua, facilita
in ogni caso l’analisi che, al contrario, c infastidita dal lirismo degli
inni c dalla loro retorica dell’allusione. Ho così potuto
dimostrare come Varuna non sia assente dalla trasposizione; solo si trova
nella generazione anteriore, inattuale, morta, quando il corrispettivo di
Mitra, il figlio di Dharina, diviene re. Pàndu, il padre putativo dei
Pàndava, anche lui re prima del suo figlio maggiore Yudhisthira, presenta
in effetti due caratteri originali e im¬ probabili che i libri liturgici
e un inno attribuiscono anche a Varuna; a uno di questi caratteri deve il
suo nome: pàndu significa «pallido, gial¬ lo chiaro, bianco», e infatti
un incidente di nascita, o meglio, del con¬ cepimento di Pàndu, ha fatto
sì che avesse la pelle insanamente pallida o bianca. Ora, Varuna è
rappresentato in certi rituali come sukla «bian¬ chissimo» e atigaura
«eccessivamente bianco». L’altro aspetto c di più ampia portata: Pàndu c
condannalo all’equivalente dell’impo- 106 tenza
sessuale, condannato a perire (e così in effetti perirà) se compie l’atto
d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze diverse ( AV , IV, 4, 1 :
rituale della consacrazione regale) è presentato come uno divenuto
momentaneamente impotente, devirilizzato (evirazione che si fa a
vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il mito importante del greco
Urano castrato dai suoi figli). Il lavoro insomma è appena
cominciato. Sia io che Wikander speriamo di estrarre da questa riserva
importante del materiale abbon¬ dante e abbastanza chiaro per delucidare
molte incertezze e difficoltà che sono ancora irrisolvibili sul piano
degli inni e per fornire alla rico¬ struzione indoeuropea degli elementi
privi di ambiguità. 19.1 primi re di Roma e le tre funzioni
L’epopea romana ha utilizzato in altra maniera l’ideologia delle
tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano non
sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente gerarchizzati;
essi si succedevano nel tempo e progressivamente costituiscono Roma. Non
si succedono però nell’ordine canonico ma in un altro or¬ dine: 1)
gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano «gioviano» se¬ mi-dio,
creatore ed eccessi vo (pri ma funzione del tipo di Varuna) e poi sovrano
«diale», umano, pio, regolatore (prima funzione del tipo Mi¬ tra); 3)
infine, un re strettamente guerriero (seconda funzione). In più, il
sovrano gioviano non è altro che uno dei due gemelli sopravvissuto alla
coppia ma profondamente trasformato. Questa doppia singolarità schiude
nuove prospettive all’inchiesta comparativa ma inizialmente considereremo
i rappresentanti delle due prime funzioni che non implicano problemi
inediti. 20. Romolo e Numa e i due aspetti della prima
funzione Nella tradizione annalistica i due fondatori di Roma,
Romolo e Numa, formano un’antitesi abbastanza regolare, sviluppata nello
stes¬ so senso di quella di Varuna eMitra nella letteratura vedica. Ogni
cosa si oppone nel loro carattere, nei loro fondamenti e nella loro
storia, ma in un’opposizione senza ostilità: Numa completa l’opera di
Romolo donando all’ ideologia regale di Roma il suo secondo polo,
necessario quanto il primo. 107 Quando
nel VI canto d t\VEneide, negli Inferi, Anchise li pre¬ senta tutti e due
in qualche verso al suo figlio Enea (vv. 777-784 e 808-812), definisce
Romolo come il bellicoso semidio creatore di Roma e, grazie ai suoi
auspici, l’autore della potenza romana e della sua Crescita continua (et
huius, nate, auspiciis illa inclita Roma impe- rium terris, animos
aequabit Olympo)\ poi Numa come il re-sacerdote portatore di oggetti
sacri, sacra ferens, coronato di olivo che fonda Roma donandogli delle
leggi, legibus. Tutto si ordina intorno a questa differenza -
«l’altro mondo e questo qui» - in cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha
l’iniziativa, equili¬ brano eccellentemente gli auspicio, in cui l’uomo
non fa che decifrare il linguaggio miracoloso di Giove. Si
verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi di sovrani
ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna e Mitra
(vedi III, § 2). Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella
genesi di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa metà del
mondo. Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo,
quando spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del
regno, una osservazione molto giusta (Numa, 5,4-5): «Si attribuisce a
Romo¬ lo la gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è
stato nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione
particola¬ re della divinità; io, al contrario, sono di una razza
mortale, sono sta¬ to nutrito e allevato da uomini che voi
conoscete». I loro modi di azione non differiscono di molto e la
differenza si esprime in maniera sorprendente in ciò che si possono
chiamare i loro dèi prediletti. Romolo stabilisce solo due
culti che sono due specificazioni di Jupiter - quel Jupiter che gli ha donato
la promessa degli auspici - Jupi- ter Feretrius e Jupiter Stator che si
accordano nel fatto che Giove è il dio protettore del regnum, ma
relativamente ai combattimenti e alle vittorie; e la seconda vittoria è
dovuta a una prestidigitazione sovrana di Giove, a «un cambiamento di
vista» contro il quale nessuna forza può niente e che capovolge l’ordine
normale e consueto degli avveni¬ menti. Al contrario, tutti gli autori
insistono sulla devozione particola¬ re che Numa rivolge a Fides.
108 Dionigi di Alicamasso scrive (II, 75): « Non vi è
sentimento più elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di
stato che nei rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa
verità Numa, il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides
Publica e istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli
delle altre divi¬ nità». Plutarco {Numa, 16,1) dice similmente che fu il
primo a costrui¬ re un tempio a Fides e insegnò ai Romani il loro più
grande giuramen¬ to, il giuramento di Fides. Si vede bene come questa
distribuzione sia conforme all’essenza delle due divinità sovrane
antitetiche, Varuna e Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due
dèi si oppone allo stes¬ so modo: Romolo è un violento, descritto dagli
annalisti come un ti¬ ranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con
dei tratti sicura¬ mente antichi: « Vi erano sempre vicino a lui - dice
Plutarco ( Romolo , 26, 3-4) - quei giovani chiamati Celeres a causa
della loro prontezza nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in
pubblico che preceduto dai littori armati di verghe, con le quali
respingevano la folla, cinti di corregge con cui legavano sul posto
quello che lui ordinava di arre¬ stare». A questo sovrano, così
materialmente «legatore» come Varu¬ na, si oppone il buono e calmo Numa,
la cui prima iniziativa una volta di venuto re fu quella di sciogliere il
corpo dei Celeres e come seconda di organizzare ( ibidem) o creare (Tito
Livio, I, 20) i tre flamines maio- res. Numa è privo di ogni passione,
anche di quelle sti mate dai barbari, come la violenza e l’ambizione
(Plut. Numa, 3, 6). Di conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte
per la funzione guerriera, quelle dell’altro per la funzione di
prosperità. Anche nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre
trionfi, prescrive ai Romani: rem militarem colant (Tito Livio, I, 16,
7). Numa si assegna il compito di disabituare i Romani alla
guerra (PI ut. Numa, 8, 14) e la pace non è rotta in alcun momento del
suo re¬ gno (ibidem, 20, 6); offre un buon accordo ai Fidenates che
compiono razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo
una va¬ riante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle
forme che im¬ pediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso,
II, 72; Plu¬ tarco, Numa, 12, 4). Distribuisce ai cittadini
indigenti i territori occupati da Romolo «per sottrarli alla miseria,
causa quasi necessaria della perversità, e per spingere verso l ’ag
ricoltura lo spirito del popolo, che domando la 109
terra si addolcirà»-, divide tutto il territorio in vici, con ispettori e
com¬ missari che lui stesso controlla « giudicando i costumi dei
cittadini in base al lavoro, premiando con onori e poteri coloro che si
distinguono perla loro attività, biasimando i pigri e correggendo le loro
negligen¬ ze» (Plut. ibid. 16,3-7). Limitiamo a ciò la comparazione che
potrebbe comunque proseguire dettagliatamente, poiché è evidente che gli
an¬ nalisti si sono ingegnati a spingere in ogni direzione l’opposizione
tra i due re, l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da
que¬ sti) senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis,
sepolto piamente dai senatori, antenato di numerose genti.
Delle pretese gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno
potuto introdurre più di un dettaglio e in di verse epoche in queste
«vite parallele inverse» e sicuramente in quella di Numa. Ma
è chiaro che queste stesse innovazioni si sono uniformate a un dato
tradizionale, la cui intenzione era di illustrare due tipi di re, due
modelli di sovranità, quelli stessi conosciuti dall’India sotto i nomi di
Varuna e Mitra. 21. Tullo Ostilio e la funzione guerriera
Dopo la funzione sovrana la funzione guerriera, dopo Romolo e Numa,
vi è Tullo Ostilio, che Anchise presenta ad Enea ( En . VI, 815) come
colui «che riporterà alle armi, in arme, i cittadini divenuti casa¬
linghi e disabituati ai trionfi». Arma, come auspicia e sacra per i suoi
predecessori, segnala qui l’essenza del suo carattere e della sua opera:
militaris rei institutor dirà Orosio e prima di lui Floro: «La regalità
gli fu conferita in base al suo coraggio: è lui che ha fondato tutto il
siste¬ ma militare e l'arte della guerra; di conseguenza dopo aver
esercitato in maniera sorprendente la iuventas romana osò provocare gli
Alba¬ ni». 22.1 miti di Indra e la leggenda di Tullo
Ostilio È in questo caso che il confronto tra l’epopea romana e la
mito¬ logia ha dato ( 1956) i risultati più inattesi e ha permesso di
ampliare lo studio dettagliato della funzione guerriera indoeuropea, il
cui solo confronto della teologia esplicita non lasciava intravedere che
i mag¬ giori aspetti: nelle loro «lezioni» ma anche nelle loro
affabulazioni, i 110 due episodi solidali che
costituiscono la «storia» di Tulio - la vittoria del terzo Orazio sui
treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salva¬ no Roma del pericolo
che correva il suo nascente imperium, uno per la subordinazione di Alba,
l’altro per la sua distruzione - rispecchiano da vicino i due principali
miti di Indra che la tradizione epica presenta spesso come conseguenti e
solidali, cioè la vittoria di Indra e di Trita sul Tricefalo e la morte
di Namuci. Non è possibile qui che mettere in un quadro schematico le
omologie, pregando il lettore interessato di riportarsi al libro in cui
gli argomenti e le conseguenze sono lunga¬ mente esposti. A,
a) (India). Nell’ambito della loro rivalità generale coi demo¬ ni, gli
dèi sono minacciati dall’imbattibile mostro a tre teste che è tut¬ tavia
il «figlio dell’amico » (nel Riveda) o il cugino germano degli dèi (nei
Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e cappellano degli dèi:
Indra (nel Rgveda) spinge Trita «il terzo» dei tre fratelli Àptya, a
uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide, salvando gli dèi. Ma
quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di un brahmano, com¬
porta un’impurità che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che la liqui¬
dano ritualmente. Da allora gli Àptya sono specializzati nell’eli¬
minazione delle diverse impurità e in particolare, in ogni sacrificio, di
quella che comporla l’inevitabile messa a morte della vittima. b)
(Roma). Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e Alba si disputano
Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli Orazi e i tre
gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella degli Orazi e
che, anche nella versione seguita da Dionigi di Alicar- nasso, sono
cugini germani degli Orazi). Nel combattimento ben presto non
rimane che un Orazio, ma questo «terzo» uccide i suoi tre avversari dando
Vimperium a Roma. Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini
rischia di produrre un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché
i Curiazi hanno accettato per primi l’idea del combattimento, la
responsabilità cade su di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue
famigliare è ripartita subito, trasferita, su un episodio che non ha
paralleli nel racconto indiano: il terzo Orazio uccide sua sorella che lo
ha maledetto per la morte del suo fidanzato. La gens Oratia deve dunque
liquidare quest’impurità e ogni anno continua a offrire un sacrificio
espiatorio: la data di questo sacrificio, all’inizio del mese che pone
fine alle campagne militari (ca¬ lli lende di
ottobre), suggerisce che queste espiazioni riguardavano (da là la
leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a Roma, macchiati dalle
inevitabili morti della battaglia. B, a) (India). Il demone Namuci
dopo leprime ostilità conclude un patto di amicizia con Indra che si
impegna a non ucciderlo «né di giorno né di notte, né col secco né con
l'umido ». Un giorno, approfit¬ tando a tradimento di un momento di
debolezza, in cui Indra è stato messo dal padre del Tricefalo, Namuci
spoglia Indra di tutti i suoi at¬ tributi: forza, virilità, soma,
nutrimento. Indra chiama in suo soccorso gli dèi canonici della terza
funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli ren¬ dono la sua forza e gli
indicano il sistema per mantenere la parola data pur violandola: egli non
deve che assalire Namuci all’alba (quando non è né giorno né notte) e con
della schiuma (che non è né secca né umida). Indra sorprende così Namuci
che non sospetta c lo decapita in maniera bizzarra, «burrificando» la sua
testa nella schiuma. b) (Roma). Dopo la disfatta dei tre Curiazi,
il capo degli Albani, Mezio Fufezio, si pone in Alba sotto gli ordini di
Tulio, in virtù della convenzione. Ma segretamente tradisce il suo
alleato e durante la bat¬ taglia contro i Fidenati si ritira con le sue
truppe su un’altura, scopren¬ do il fianco dei Romani. In questo pericolo
mortale Tulio fa dei voti alla divinità della terza funzione, Quirino, e
diventa vincitore. Benché al corrente del tradimento di Mezio, finge di
lasciarsi abbindolare e convoca al pretorio, per felicitarsi, gli Albani
che non sospettano. Là sorprende Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a
una pena unica nella storia di Roma, lo squartamento. 23.
Rapporti della funzione guerriera con le altre due Attraverso questi miti
e queste leggende è tutta una filosofia della necessità, dell’impeto cdei
rischi della funzione guerriera, che si esprime, come pure una concezione
coerente dei rapporti di questa l’unzione centrale con la terza, clic
mobilita al suo servizio; e con l’aspetto «Mitra-Fides» della prima che
tuttavia non rispetta affatto e che non può rispettare poiché, impegnata
nell’azione e nei pericoli, come potrebbe mai accettare che la fedeltà ai
princìpi invalidi questa azione disarmandola di fronte ai pericoli? Anche
i rapporti di Indra e Tulio Ostilio con l’aspetto «Varuna-Jupiler» della
funzione sovrana non procedono senza scontri: abbiamo già ricordato gli
inni vedici in cui Indra sfida Varuna, vantandosi di
sconfiggere la sua potenza (e gli Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo
oppongono Ódinn e Pórr in un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a
Roma uno scandalo vi¬ vente, il re empio e la fi ne della sua storia non
è che la ten ibile vendet¬ ta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si
prende contro questo re troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo
tempo. Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate tuttavia
a continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso contrae una
lunga malattia; dice allora Tito Livio (I, 31,6-8): «lui, che
fino a questi tempi aveva creduto che niente è meno degno di un re che
applicare il proprio spirito alle cose sacre, improv¬ visamente si
abbandonò a tutte le superstizioni, grandi e piccole, e propagò anche fra
il popolo delle vane pratiche... Si dice che il re stes¬ so consultando i
libri di Numa vi trovò la ricetta di certi sacrifìci se¬ greti in onore
di Jupiter Elicius. Egli si appartò per celebrarli. Ma sia all’inizio che
nel corso della cerimonia commise un errore rituale, di modo che, invece
di veder comparire una figura divina, irritò Jupiter con un'evocazione
mal condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la sua casa»
Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il
grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è per¬ ché
egli è un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che
più interessano gli uomini. 24. I GEMELLI VEDICI E ROMANI,
MITOLOGIA ED EPOPEA DELLA TERZA FUNZIONE Quanto ai gemelli -
che Roma nel Lazio non era l’unica a onora¬ re, poiché la leggenda
prenestina poneva una coppia nei tempi delle sue origini - l’epopea
romana li mette al posto d’onore nella persona di Romolo e Remo. Vi è una
differenza totale tra il Romolo re, che abbia¬ mo visto opposto a Numa
nella seconda ed ultima parte della sua car¬ riera, e il Romolo prima di
Roma, il Remo cumfratre Quirinus. Questa differenza risalta in effetti a
proposito della stessa fondazione, nella disputa degli auspici e nella
morte d i Remo: Romolo cessa allora di es¬ sere «uno dei due gemelli», il
socio fedele e senza contesa di suo fra- 113
tello, per diventare il re prestigioso, creatore, terribile, tirannico e
isti¬ tutore di quegli uomini che portano davanti a lui delle corde, pronte
a «legare» nel senso letterale del termine, al pari del suo omologo
del pantheon vedico, Varuna, armato di lacci. La
corrispondenza tipologica dei gemelli dell’epopea romana e degli dèi
gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la lista trifunzionale indo-iranica,
è precisa. Sino alla loro dipartita da Alba, e alla fondazio¬ ne
dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori allevati da un pastore,
vivono una vita esemplare da pastori messa in risalto solo da un gusto
marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In questa definizione
pastorale l’evoluzione della proto-civilizzazione romana (scomparsa del
carro da guerra) ha eliminato la «parte del cavallo» (in evidenza nella
parola ASvin), non rimane quindi che la «parte del bue e del montone»,
per si¬ tuare maggiormente Romolo e Remo nell’economia rurale.
I Nàsatya, come si ricorderà, sono inizialmente tenuti a distanza
dagli dèi perché troppo «mescolati agli uomini» ( Éat. Brùhm ., IV, 1,5,
14, etc.) e nella letteratura posteriore saranno considerati come degli
dèi Sfldra, dèi di ciò che vi è di più basso e fuori-casta, in rapporto
alla società ordinata. Così vivono, pensano e agiscono Romolo
e suo fratello. Non vi è in essi niente di «sovrano», nessun rispetto per
1 ’ ordine. Devoti ai più umili, disprezzano gli intendenti, gli
ispettori e i capi del bestiame del re (Plutarco, Romolo, 6, 7). Il
gruppo che li seguirà nella loro rivolta sarà un gruppo di pastori (Tito
Livio, 1, 5, 7) o un’assemblea di indi¬ genti o schiavi (Plutarco, Romolo
, 7, 2) prefiguranti l’eterogenea po¬ polazione dell’Asilo ( ibidem , 9,
5). Sono raddrizzatori di torti: come i Nàsatya passano il loro
tem¬ po a riparare le ingiustizie degli uomini o della sorte. Essendo
sempli¬ cemente degli dèi i Nàsatya compiono le loro liberazioni, restaurazio¬
ni e guarigioni per mezzo di miracoli, mentre Romolo e Remo non possono
ricorrere che a mezzi umani per proteggere i loro amici contro i
briganti, ristabilire nei loro diritti i pastori di Numitore maltrattati
da quelli di Amulio e, finalmente, punire Amulio. Uno dei più celebri
ser¬ vigi dei Nàsatya, origine della loro fortuna divina, è stato quello
di aver ringiovanito il vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa
di Romolo e Remo, origine della fortuna del primo, fu allo stesso
modo 114 quella di aver riabilitato il loro
vecchio nonno che era stato privato del¬ la regalità di Alba.
I due Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono in¬
sieme ma tuttavia un testo segnala una grave disuguaglianza che ricor¬ da
quella dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è fi¬
glio di un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è differente ma
considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi proseguirà la sua
carriera diventando un dio - il dio canonico della terza funzione, Quiri¬
no -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i soli onori abi¬
tuali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro {Fasti, II
395-6): « ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen ex
illis iste vigoris habet ...» Certe azioni estranee ai Nàsatya -
mal conosciute come tutta la loro mitologia - sembrano ricordare dei
tratti della leggenda di Romo¬ lo e Remo, talvolta solo con una
inversione (protettori e non protetti) che testimonia come essi siano
degli dèi e i gemelli romani degli uomi¬ ni. Uno dei servigi frequenti
dei Nàsatya è di fare cessare la sterilità delle donne e delle femmine;
ora, Romolo e Remo sono i primi capi dei Luperci, un compito dei quali è
di rendere madri le donne romane con la flagellazione (una leggenda
eziologica, che pone l’origine di questo rito dopo la fondazione di Roma
c il ratto delle Sabine, dice che è stato destinato inizialmente a far
cessare una sterilità generale). In tutto il Rgveda il lupo è un
essere mal visto, è il nemico; l’unica eccezione si trova nel ciclo dei
Nàsatya: un giovane uomo ave¬ va sgozzato cento c un montoni per nutrire
una lupa e per punizione suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera
della lupa i gemelli divi¬ ni resero la vista allo sfortunato. Nella
storia di Romolo e Remo, c solo in essa a Roma, non è più in quanto
nutrita ma come nutrice che la lupa occupa il posto eminente che ben si
conosce. Nei riti e nelle leggende dei Luperci (Ovidio, Fasti, II, 361-379),
nel racconto sulla giovinezza di Romolo e Remo (Plutarco, Romolo, 6, 8)
le corse giocano un ruolo considerevole; ugualmente le corse in carro
ncl4 mitologia degli ASvin. Un aspetto sfortunatamente oscuro
della festa rustica di Palcs (il «cavallo mutilato», curtus equos), come
pure il concetto stesso del¬ la dea «Pales», così strettamente legato a
Romolo e Remo e alla fonda¬ zione di Roma, ricordano la leggenda in cui i
Nàsatya rimettono in for- ze la giumenta detta «Pula del w.f»
(vis, principio della terza funzione e anche «clan») che durante una
corsa si era spezzata le gambe. Questo confronto sommario è sufficiente a
stabilire che, nella loro carriera «preromana», Romolo e Remo
corrispondono così precisamente ai Nàsatya come Romolo, divenuto re, e il
suo successore Numa corri¬ spondono a Varuna e Mitra e Tulio a Indra.
Quando Romolo muore verrà deificato sotto il nome del dio canonico della
terza funzione, Quirino, ritornando quindi al suo valore primigenio e,
sia dello di sfuggita, questa notevole convergenza spinge a rivedere
l’idea gene¬ ralmente ammessa che l’assimilazione di Romolo a Quirino sia
secon¬ daria e tardiva. 25. La terza funzione, fondamento
delle altre due Riguardo l’ordine di apparizione delle tre funzioni
nell’epopea delle origini romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello
stesso Romolo da «Nàsatya» in «Varuna», queste non sono senza paralleli c
rivelano un aspetto della struttura trifunzionale che ancora non abbiamo
avuto occasione di segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto
cer¬ to che, se è vero che la terza funzione è la più umile, nondimeno
essa è il fondamento e la condizione della altre due. Come vivrebbero
maghi e guerrieri se i pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella leggenda
iranica, Yima al pari di Romolo diviene un re prestigioso e eccessivo
sfidando Ahura Mazda - dopo essere stato differenzialmente, nella
primaparte della sua vita, un buon «eroe della terza funzione» dai ric¬
chi pascoli, sotto cui la malattia c la morte non affliggevano ne l’uomo
né la bestia né le piante ( Yust , XIX, 30-34). Nell’epopea osscla (vedi
sopra I § 4), i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei quali il secondo
uc¬ cide il primo in un eccesso di gelosia, genera poi la famiglia degli
i£xsaertaegkalae (la famiglia dei Forti, dei Guerrieri) che sono usciti
se¬ condo certe varianti dalla razza di «Bora», cioè dai Boratae (una
fami¬ glia di ricchi). È la stessa filosofia che si esprime
nei rituali indiani sulla stessa area sacrificale: devono essere riuniti
tre fuochi corrispondenti alle tre funzioni; un fuoco che trasmette le
offerte agli dèi, un fuoco che difen¬ de contro i demoni e un fuoco
padrone della casa; ora, quest’ultimo presenta i caratteri di un «fuoco
vatéya» che è il fuoco fondamentale acceso per primo e che serve per
accendere gli altri. 26. Sviluppo della ricerca
Il lettore è stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui
sono classificati i risultati ma, per la teologia e la mitologia di
ognuna delle tre funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo
si è l'at¬ to penetrare nel campo degli stessi scavi in cui il
comparatista si batte ancora con la sua materia. Il lavoro continua, con
le sue procedure or¬ dinarie che non sono solo ritrovamenti nuovi ma anche
delle correzio¬ ni, delle reinterpretazioni dei dettagli alla luce
dell’insieme meglio compreso e generalmente delle riflessioni critiche
sui bilanci anterio¬ ri. Prima di prendere congedo la guida deve
ricordare che, per impor¬ tante o centrale che sia l’ideologia delle tre
funzioni, essa è ben lungi dal costituire tutta l’eredità indoeuropea
comune che l’analisi compa¬ rativa può intravedere o ricostruire. Un gran
numero di altri cantieri più o meno indipendenti sono aperti : sugli «dèi
iniziali», sulla dea Au¬ rora e su qualche altro, sulla mitologia delle
crisi del sole, sulle varietà del sacerdozio, sui meccanismi rituali e
sui concetti fondamentali del pensiero religioso, la comparazione, e
specialmente la comparazione dei fatti indo-iranici e romani, ha già
permesso c permetterà di ricono¬ scere delle coincidenze che è difficile
attribuire al caso. Note ai paragrafi § 2. La
struttura bipolare della sovranità è l’argomento di MV; il capitolo III
di NA studia i fatti iranici (Vohu Manah c Asa). A proposito di questi
ulti¬ mi la critica di W. LENTZ, «Yasna 2<f», Abh. Ak. tV/'.r.r. li.
Ut. Mainz.., 1954, p. 963, non regge; non più dei poeti del Riveda per
Mitra e Varuna, quelli delle Gàthà avevano la preoccupazione, in tutte le
circostanze o in molte circostan¬ ze, di caratterizzare differenzialmente
Vohu Manah c Asa; questo è vero per lo Yasna 28 in cui ogni strofa nomina
contemporaneamente le due Entità esattamente come RV, V, 69, in cui ogni
strofa nomina simultaneamente i due dèi senza cercare di distinguerli.
Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The f>reai Vohu Manah and thè
Apostle ofGod, 1945. Per Mi9ra e Ahura Mazda nella nuova prospettiva vedi
MV, cap. V, § v (da correggere dopo WlDEN¬ GREN, Numen, I, 1954, p. 46,
n. 148); J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Zoroastre , 1948, pp. 87-93; da S.
WlKANDER, Orientalia Suecana, I, 1952, pp. 66-68 (sul Mesoromazdés di
Plutarco). L’importante affinità del Varuna vcdicocon F
oceano, f ortemente marcata da H. LUDERS, Varuna , I ( Varuna linci die
Was- ser), 1951, sarà esaminata ulteriormente i n un quadro
comparativo. § 3. MV, cap. IV. § 4. MV, cap. VII: si
hanno ora le esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm. Rei. -Gesch., Ir, 1957,
§§ 409-412 e di W. BETZ (vedi sopra, nota a II, §§ 19-20) «Die altgerm.
Religion», col. 2485-2498. § 5. Le troisième souverain, essai sur
le_ clieu indo-ircuiien Aryaman, 1949; DIE, pp. 40-59. Su Aditi, madre
degli Aditya, in quanto «madre e fi¬ glia» di uno di essi, vedi Déesses
latines et mythes védique , 1956, cap. III. Ri¬ fiutando e caricaturando
in ZDMG, 117, 1957, pp. 96-104 la rettifica che avevo proposto alla sua
interpretazione (1938) di ari (non importa quale «Fremdling», ma già con
una nota di nazionalità, l’insieme o un membro del mondo arya - alleato o
avversario), P. THIEME compie il tour de force di di¬ scutere senza
menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto naturale di questa
rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo sintetico, intuitivo,
etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una analisi completa e
detta¬ gliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò
successivamente questa curiosa risposta nel JA e spero che P. Thieme
userà più fair play nello studio che sta preparando, mi dicono, su
«Mithra e Aryaman», (vedi l’Appendice). § 6. DIE, pp. 50-51,
riassumendo Le troisième souverain. § 7. DIE, pp. 51-52. Sugli
Àditya Daksa e Amsa, ihid., pp. 55-58. § 8. DIE, pp. 59-67; K.
Barr, Àvesta, 1954, pp. 184-185, 193, 215. § 9. DIE, pp.68-75. Per
Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro nel mondo celtico: come
Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favo¬ re di Jupiter
O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio, così
l'irlandese Mac Oc («il Giovane Figlio»), antico dio protettore della
gio¬ ventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda
e si fa concedere «un giorno e una notte », poi arguendo che il giorno e
la notte fanno la totalità del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro
del luogo («Jeunessc, éternité, aube», Annales d’histoire économique et
sociale , 1928, pp. 289-301. § 10. DIE, pp. 76-77.
§ 11. Vedi la prefazione di Aspects... § 12-24.1 servigi che
bisogna richiedere alla pseudo-storia delle origini romane comparata con
la mitologia indiana o scandinava, sono stati ben pre¬ sto riconosciuti:
JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces, 1942, pp. 65-70; Ser- vius et la
Fortune , 1943, pp. 112-119; riassunto in L’hérìtage..., cap. Ili e in
«Mythes romains», Revue de Paris, die. 1951, pp. 105-118. Sull’epoca in
cui I’affabulazione definitiva degli antichi miti si è prodotta (senza
dubbio tra il 350 e il 280 a giudicare dagli anacronismi che vi sono
inseriti), vedi L’héritage..., p. 181, n. 49. § 13. L’interpretazione
dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S. WlKANDER in un suo
articolo fondamentale, «Pandava-sagan och Mahàbhàratas
myliska fòrutsattningar», Religion neh Bibel, VI, 1947 pp. 27-39, in gran
parte tradotto e commentato nel niio JMQ IV, pp. 37-85; cf. WlKANDER,
«Sur le fonds commun indo-iranien des épopées de la Perse et de l’Inde»,
NC, VII, 1950, pp. 310-329. Nel dominio germanico un caso paralle¬ lo (il
trasferimento su Hadingus della Mitologia di Njordr) è stato studialo in
La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I, V-VIII), du mythe au roman,
1953. Mentre il presente libro era in stampa, in Orientalia Sue vana, sotto il
ti¬ tolo «Nakula e Sahadeva». WlKANDER faceva considerevolmente
avanzare l’analisi dei gemelli epici e divini (vedi sotto § 24).
§ 14. Su Vàyu-Indra, vedi «Pàndava sagan...», pp. 33-36; è il risultalo
dei lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des altea Iran, 1938, pp. 75,
300, 317; di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini alten Iran, 1938, pp.
188-215; di S. WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV ha riconosciuto il dio
indo-iranico * Vayu nel nome generico dei «giganti» (f orti, catti vi,
bestie) presso gli Osse- ti, weijug (da *Vayu-ka-), Trudy lnstituta
Jazykaznanija, VI, 1956, pp. 450-457, che io ho commentato in «Noms
mythiqucs indo-iraniens dans le folklore des Osses», JA, CCXLIV, 1957,
pp. 349-352. § 15. Aspects..., pp. 9, 70, 80. § 16. JMQ
IV, p. 56. § 17. «Pàndava-sagan...», p. 36; JMQ IV, pp. 59+60,
67-68. § 18. Pandu come trasposizione di Vanina, vedi JMQ, IV, pp.
77-80. La trasposizione di un mito vedico (duello di Indra c del Sole, la
ruota del carro del Sole «infossata») è stata riconosciuta nel racconto
della morte di Karna, fratello uterino e nemico dei Pàndava, figlio del
Sole come essi lo sono degli dèi delle tre funzioni: «Karna et Ics
Pàndava», Orientalia Suecana, III ( =Do- num natal. H.S. Nyberg), 1954,
pp. 60-66. Una trasposizione (dei passi di Visnu al servizio di Indra) è
segnalata in «Les pas de Krsna et l’exploit d’Arjuna», Orientalia Suecana,
V, 1956, pp. 183-188; e altri due (i sovrani minori Aryaman e Bhaga,
trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una conferen¬ za fatta
all’Università di Copenhagen nel nov. 1956, pubblicala quest’anno nell’
Inclo-1 ninian Journal («La transposilion des dieux souverains dans le
Mahàbhàrata»), Il personaggio di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella
stessa prospettiva. § 19. Le leggende romane sugli inizi della
Repubblica presentano due croi che ricordano, per la forma e il senso
delle mulilazioni, il dio cieco monco della mitologia scandinava, cioè i
due dèi sovrani Ódinn e Tyr: questi sono Orazio Coclite («il Ciclope») c
Muzio Scevola («il Mancino»), i due salvatori di Roma nella guerra contro
Porsenna; la comparazione è stata sviluppata in MV cap. IX e ripresa
diverse volle, specialmente ne L’heritage..., pp. 159-169 c Loki, 1948,
pp. 91-97. Sui primi redi Roma vedi il riassunto degli studi anteriori in
L’heritage..., pp. 143-159; un notevole «ritocco» parallelo al «ritocco»
zoroastriano degli dèi trasporti in Entità della tradizione romana nel De
Republica di Cicerone, è stato studiato in «Les archanges de Zoroastrc et
Ics rois romains de Ciceron», JP, XLIII, 1950, pp. 449-463.
119 § 20. Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane...,
pp. 146-154. §21. Horate et les Curiaces, 1943, pp. 79-88; L
’héritage..., pp. 154-156. § 22. Aspetta ..., pp. 15-61: «La geste
deTullus Hostilius et les mythes de Indra»; cf. pp. 3-14 dello stesso
libro, studio dell’Indra vedico come «solita¬ rio» a dispetto dei suoi
associati ( ekci -) e come «autonomo» (sva-). La biblio¬ grafia degli
studi comparativi sullasecondafunzioneèdatain DIE, pp. 38-39 e completala
in Aspetta..., p. 1. § 24. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti
ai gemelli Nàsa- tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN,
«Harlekintracht...», Orientalia Sueca- na , II, 1953, pp. 96-97;
Aspetta..., pp. 20-21. Non ho ancora pubblicato su questa interpretazione
dei gemelli romani il libro preparato nel 1951-1952; è comparso solo un frammento:
«Le turtus equos de la fète de Pales et la muti- lationde lajument
ViSpala», Ercinos, LIV (=G. Bjiirck meni. Saturni), 1956, pp. 232-245.
Altre corrispondenze tra dèi ed eroi gemelli dei diversi popoli
indoeuropei sono state segnalale in La saga de Hadinf>us, 1953, pp.
114-130, 151-154.1 Dioscuri greci sono solo parzialmente comparabili.
Sembra che altri aspetti della terza funzione (massa popolare; sviluppo
della ricchezza e del commercio; piacere) abbiano ispirato i racconti sul
quarto re di Roma, Anco Marzio, successore del guerriero Tulio; vedi
Tarpeia, III («Jactanlior Ancus») e la discussione con J. Bayet in JMQ
IV, pp. 185-186 (dove impor¬ tanti questioni di metodo sono
toccate). § 26. DIVINITÀ: sugli «dèi iniziali», vedi «De Janus à
Vesta», Tarpeia, pp. 31-113 (=JMQ it., pp. 287-353), DIE, pp. 84-105; in
Rituels..., pp. 33-39, sono state rilevate delle concordanze tra il culto
di Vesta c imiti vedici di Vi- vasvat; in Déesses latines et mythes
védiques, 1956, dei dati indiani hanno chiarificaio e giustificaio le
rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas; vedi anche RENOU, Études
védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les Hymnes à l'Aurore du Riveda,
pp. 1-104, specialmente pp. 8-9,10, 65), della silenziosa Diva Angerona, dea
degli angusti dies del solstizio d’inverno (cf. Atri opero¬ sa con la
preghiera silenziosa nella crisi del sole), della Fortuna Primigenia
prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf. Aditi, madre e figlia del
sovrano Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti). RITUALI in «Suouetaurilia»,
Tarpeia, pp. 115-158 (= JMQ it., pp. 355-388) si è stabilito lo stretto
parallelismo di que¬ sto sacrifico triplice, offerto a Marte, con la
sautrànicuiT indiana (sacrificio di un loro, di un montone c di un capro
a Indra «Buon Protettore»); in Rituels in- doeuropéeus à Rome (oltre a
qui sopra, I, § 21), i Fordicidia sono stali resi chiari, nei dettagli
dei riti, dal sacrificio vedico della «Vacca dagli otto pie¬ di»;
l’opposizione del santuario rotondo di Vesta c di templi quadrati, orien¬
tali, è stala riavvicinata all’opposizione tra il fuoco rotondo (di riserva e
di accensione, «fuoco del padrone di casa», attaccalo alla terra) e il
fuoco qua¬ drato (che dirige verso gli dèi le offerte degli uomini)
sull’ara sacrificale ve- dica; i rapporti rituali degli equidi, c in
special modo del cavallo, con ciascuno dei tre livelli funzionali, sono
stati riconosciuti come idèntici sia a Roma che nell’India vedica; in
«Quacstiunculac indo-italicac, 1-3» (da pub¬ blicarsi in REL, XXXVI,
1958) il tulmen inane fabae della fumigazione dei 120
Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco durante i Volcanalia e la
prescrizione bigarum victricum clexterior del Cavallo di Ottobre sono
chiarificati dai dati vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a I, §
1, per Jlamen-brahman ): «Meretrices et virgines dans quelques légendes
politiquesde Rome et des pe- uples celtiques», Ogcnn, VI, 1954, pp. 3-8;
«Remarques sur le ius feriale », REL, XXXIV, 1956, pp. 93-111; REL, XXXV,
1957, pp. 126-151, contiene uno studio su augur, inaugurare, augustus.
NOZIONI: «A propos de latin ius». RHR, CXXXIV, 1947-48, pp. 95-112;
«Ordre, fantasie, changemente dan les pensées archaiques de l’Inde et de
Rome, à propos de latin mos», REL, XXXII, 1954, pp. 139-160; in «Maiestas
elgravitas, de quelques diffé- rences entre les Romains et les
Austronésiens», RP, XXVI, 1952, pp. 7-28 e XXVIII, 1954, pp. 9-18; queste
sono invece due nozioni prettamente romane che sono state analizzate
contro la scuola primitivista; su gratus, gratin emi¬ nentemente spiegate
con un usovedico della radicegurC^V, Vili, 70,5), vedi L.R. PALMER, «The
Concept of Social Obligation in Indo-European», Coll. Latomus, XXIII (
=Homm. M. Niedennann), 1956, pp. 258-269. E. BENVENI- STE ha delucidato
comparativamente un gran numero di nozioni religiose e sociali, vedi in
special modo «Symbolisme social dans les cultes gré- co-italiques» RHR,
CXXIX, 1945, pp. 5-16 (vedi una conferma di un dato importante nel mio
Rituels...)', «Don et échange dans le vocabulaire in- do-éuropéen»,
L'Année Sociologique, 1951, pp. 7-20 e «Formes et sens de pvaopai»,
Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A. Debrun¬ ner), 1954,
pp. 13-18. Storia degli Studi e bibliografìa
Dopo lo scacco del saggio intelligente ma prematuro fatto dalla scuola di
Adalbert Kuhn (1812-1881) c di Friederich Max Miiller ( 1823-1900) teso a
ricostruire la mitologia comune degli Indoeuropei, l’impresa fu per un
certo tempo dichiarata illusoria. Daunaparte, sotto l’influenza di
Wilhelm Mannhardt (1831-1880), gli studi si spostaro¬ no sui rituali e le
credenze agricole, popolari, di un tipo abbastanza uniforme per tutta
l’Europa e ci si applicò a ridurvi, senza pretendere di stabilire
filiazioni né parentele particolari, un gran numero di culti e miti delle
diverse religioni e in special modo quelle dei popoli classici. Da
un’altra parte, per effetto della crescente settorializzazione delle
specialità, gli studiosi dei diversi domini, indiano, greco, latino, ger¬
manico, etc., rifiutando ogni considerazione comparativa, costruirono per
spiegare la genesi e lo sviluppo delle religioni da loro studiate delle
ipotesi che presero sovente per dati di fatto e che non si accordavano
che per un punto: la riduzione a poche cose, per non dire a niente,
dell’eredità conservata dal passato comune indoeuropeo. Rari autori
continuavano a parlare di «religione indoeuropea» come ad esempio A.
CARNOY, Les Indoeuropéens (1921) p. 154-240. Tuttavia nel secondo
quarto di questo secolo si produssero delle reazioni. In Germania bisogna
citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der Arische Weltkonig und Heiland
(1923); R. OTTO, Gotlheit und Got- theilen derArier (1932); F. CORNELIUS,
Indogermanische Religion- sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che
prosegue brillantemente, degli articoli c dei libri di F.R.
Schroder. A partire dal 1924 e nel corso di dodici anni io stesso
ho fatto un primo sforzo di revisione della «mitologia comparata», ma con
dei 123 mezzi filologici insufficienti e
rimanendo prigioniero, per la spiega¬ zione, delle concezioni
mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im- morIalite 1924, Le crime des
Lemniennes 1924 e qualche articolo di cui non vi sono grandi cose da ritenere;
il Leproblème des Centaures, 1929 e Flamen-Brahman, 1935, i cui frammenti
rimangono utilizzabi¬ li). Non è che a partire dal 1938 che, inizialmente
solo e poi, dopo il 1945, raggiunto e spesso superato da altri
ricercatori, spero di essere riuscito a delineare dei tratti importanti
della struttura dell’eredità in¬ doeuropea comune, in una coscienza più
chiara delle condizioni c dei mezzi deH’inchiesta. Quest’inchiesta non si
riporta ad alcun sistema preconcetto di spiegazione, ma utilizza gli
insegnamenti della socio¬ logia e dell’etnografia, come pure il ricorso
all’analisi linguistica dei concetti. Essa ha due postulati:
ammette che tutto il sistema teologico e mitologico significa qualcosa,
aiuta la società che lo pratica a com¬ prendersi, ad accettarsi, ad
essere fiera del suo passato, confidante nel presente e nell’avvenire;
ammette anche che la comunità di lingua, presso gli Indoeuropei, implica
una misura sostanziale dell’ideologia comune alla quale deve essere
possibile accedere grazie a una varietà adeguata del metodo
comparativo. Una circostanza, sulla quale un articolo di J.
Vcndryes aveva at¬ tirato l’attenzione sin dal 1918, ha dato il via all
'inizio di molte ricer¬ che: il vocabolario religioso degli Indo-Iranici
da una palle c quello dei Celti e degli Italioti dall’altra presentano un
gran numero di con¬ cordanze precise e che sono loro proprie. Un
articolo-programma del 1938 «La préhistoire des flamines majeurs», RHR,
CVIII, pp. 1 88-200 ha dimostrato che questa parentela prossima non
si riduce al vocabolario ma si estende alla struttura della religione. E
dal 1938, in ogni tipo di materia, è in effetti la comparazione dei dati
vedici o in¬ do-iranici e dei dati romani che ha fornito i primi
risultati precisi sui quali è stato possibile fondare delle comparazione
più vaste. Così illuminati, i fatti germanici (benché il
vocabolario religio¬ so sia interamente differente) si sono ben presto
rivelati anch’essi no¬ tevolmente fedeli al passato indoeuropeo.
Benché conformandosi ai grandi quadri indoeuropei, il domi¬ nio
celtico pone ancora, in seguito allo stato della documentazione, un gran
numero di problemi irrisolti. La Grecia - per effetto senza dubbio
124 del «miracolo greco» e anche perché le più antiche civiltà
del Mare Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti dal
Nord - contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più
conside¬ revoli dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto
agli altri popoli del mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli
Slavi, non si è ancora riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali
lavori in cui è stata progressivamente analizzata l’ideologia tripartita
degli Indoeuropei che il presente libro espone sono i seguenti':
Mythes etdieuxdes Gennains, essaid’interprétation compara¬ tive
1939 (citato MDG) Mitra-Vurunu, essai sur deux représentations
indoeuropéen- nes de la souveraineté 1940, II ed. 1948 (citato MV)
Jupiter Mars Quirimis, essai sur laconception indoeuropéenne de la
société et sur Ics origines de Rome, 1941 (citato JMQ) Naissance de Rome
(=JMQ II) 1944 (citato NR) Naissance d'Archanges, essai sur la
formation de la théologie zoroastrienne (=JMQ III), 1945 (citato
NA) Jupiter Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ IV) L
’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux séries «JMQ» et «Mythes
Romains», 1949 Le troisième Souverain, essai sur le dieu Aryaman,
1949 Les dieux des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE) Rituels
Indoeuropéens à Rome, 1954 Aspects de lafonction guerrière chez les
Indoeuropéens, 1956 Déesses latine set mythes védiques. Coll. Latomus,
XXV, 1956 Una traduzione italiana di una versione migliorata in
diverse parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia (1947) e di JMQ
IV, è stata pubbl icata nel 1955 a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars
Quiri- I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di
JMQ. NR. NA ehc sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard.
Aspettando, l’edizione italiana dei primi due Corniscc un’idea delle
correzioni giudicale necessarie: le parli che non sono state tradotte
sono da eliminare. 125 ìtus (citato JMQ it.) 2
. Delle questioni di metodo, che io qui non affron¬ to, si trovano
discusse nelle prefazioni della maggior parte di questi li¬ bri e, più
sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage ... («Materia, oggetto
e metodi di studio»). 2 AUre abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL
= Beitrage zur Geschichte der Deutschen Sprache und Literatur: FFC =
Folklore Fellows Communications; J A = Journal Asiati que; JAOS = Journal
of thè American Orientai Society; JP = Journal de Psichologie: NC = la
Nouvelle Clio; REL = Revtte des Etudes Lalines; RHA = Revtte Hittite et
Asianique; RHR = Revtte de l ’Histoire des Religions; RV = Riveda; RP =
Revtte de Philologie. RSR = Recherches de Science Religieuse; SBE =
Sacred Books of thè East; SMSR = Studi e Materiali di Storia delle
Religioni ; TPS = Transaction of thè Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir
Celti sche Philologie; ZDMG = Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen
Gesellschafl. 126 Appendice
Aryaman e Paul Thieme Mentre correggo le seconde bozze di questo
libro (maggio 1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra
(nota al cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue
speranze che esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti
dell’articolo del JA, concernenti Aryaman e il metodo di Thieme,
menzionato nello stesso paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione
provvisoria su Mitra and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle
note di I e II i nu¬ meri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. = P.
Thieme, Der Frem- dling im Rig Feda, 1938; S = il mio Troisième
Sauveraine, 1949; Z = P. Thieme, Ari, «Fremder», ZDMG, 117, 1957. pp.
96-104. I Ma è soprattutto nei confronti del dio
vedico, e prima ancora in¬ do-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme
rivela la sua debolezza. In virtù dell’ipotesi {ari = «lo straniero», qualunque
sia) c del senso che ne risulta per aryó («l’ospitale»), Aryaman non può
essere che il «dio dell’ospitalità)). È così? E ancora,
sarebbe necessario che negli inni o nei rituali questa definizione si
verificasse sul suo centro, intendo dire, in occasione del ricevimento di
un ospite designato come tale. Ora, non soltanto non vi è un testo
rgvedico che riunisca il nome dell’ospite, àtithi e quello di
127 Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia, Aryaman non è
né invo¬ cato né menzionato ritualmente all’arrivo di un visitatore. Non
biso¬ gna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia curioso, se il
concet¬ to di ospitalità è stato sentito tanto importante da essere
personificato in uno dei due dèi sovrani, e nel più considerevole dopo
Varuna e Mi¬ tra, che questa origine non abbia avuto nessuna occasione
per espri¬ mersi chiaramente. Mitra, il contratto personificato, è certo
come dio molto più del contratto, ma si trovano dei testi in cui questo
legame è manifestato e sottolineato con delle parole senza ambiguità.
Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo corrispondente avesti- co
Airyaman, intervengono in circostanze che, salvo violenza, sono
irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo due. Prima di Thieme
molti vedisti avevano notato, con delle con¬ clusioni talvolta eccessive
o errate, i rapporti tra Aryaman e il matri¬ monio. 1 testi allegati sono
abbastanza numerosi". Per piegarli alla sua tesi, Thieme è stato
indotto a far loro subire dei trattamenti poco racco¬ mandabili. In tutto
il dossier vedico vi sono dei documenti più chiari e più netti, altri più
oscuri o più indeterminati. Il metodo ordinario è d’informarsi all’inizio
sui primi e con questi chiarificare o precisare in seguito i secondi. Per
il caso di Aryaman si ha, chiara e netta in A V, 1, 60, la formula
destinata a procurare un coniuge, la descrizione che fa di Aryaman la
prima strofa: tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah
asyci icchcinn agruvai pettini utd jàyàm ajànuye «Ecco
arrivare Aryaman con i riccioli sciolti, cercando per questa fanciulla un
marito e una moglie per chi non è sposato». Non meno esplicito vi è
in/l V, XIV, 1, inno rituale del matrimo¬ nio, la strofa 17 che riguarda
la giovane donna: aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam
urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah 11 I lesti
sono riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, II 2 ,1927, pp.
74-76, seguiti da un'interpretazione di Aryaman come «Feier», sicuramente
errata. 128 «Noi sacrifichiamo ad Aryaman (il
dio) delle buone alleanze, il trovatore dei mariti. Come unazuccadalsuo
legame io ti libero da qui (= dalla tua casa di ragazza), non da laggiù
(= dalla casa coniugale)». V icino a questi testi ve ne sono altri
che riguardano ancora siala «ricerca della sposa» che diversi episodi
precisi del rituale delle noz¬ ze, nei quali Aryaman interviene sempre,
ma associato ad altri dèi e di conseguenza con un ruolo non
immediatamente identificabile. Ciò che in questi casi incerti può
orientare l’interpretazione è evidente¬ mente la descrizione e la
definizione che su di lui hanno dato i testi espliciti del dossier: egli
cerca da ambedue le parti gli elementi delle coppie coniugali e fa delle
buone alleanze matrimoniali. Thieme procede all’ inverso
cominciando dalla seconda cate¬ goria di documenti. Consacra cinque
pagine per citarli in esteso e per tradurli inserendo tra parentesi, a
favore della loro indeterminazione, la sua concezione di Aryaman («die
Gastlichkeit», «der Gott der Ga- stlichkeit», «der Gott gastlicher
Aufnahme») e in seguito, in dieci ri¬ ghe che conclude allusivamente,
pretende che ciò che dice sui testi meno determinati permetta-infine! -
di ridurre alla loro «vera» porta¬ ta questi testi la cui precisione lo
imbarazza 13 : «Von hier aus wirdes nun erst mòglich, die Verse A
V. 6.60. 1, 14.1.17, Mp. 1.5.7, die H1LLEBRANDTan die Spitze seiner
Untersu- chungdes Verhàltnisses zwischen Aryaman und E he gestellt hat,
in ih- rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen. Als einer der Genien des
Hau- shalts, der auch bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman
als «Gattenfìnder» (A V. 14, 1.17) und Ehevermittler (A V. 6.60.1)
schlechthin in Zauberspriichen genannt, die anscheinend durch die
Erwàhnung eines so vornehmen Gottes, der im R Vin der Gesellschaft des
Mitra und Varuna aufzutreten pflegt, wirken wollten.» Al di fuori
dello stesso procedimento che consiste nel masche¬ rare ciò che è chiaro
con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è ten¬ denzioso: questi Zauberspriichen,
uno dei quali appartiene al rituale del matrimonio, non meritano alcun
disprezzo c sono sicuramente 12 F„ §§ 118-124; S. pp. 73-79.
13 F„ § 124. 129 adatti a chiarire la
funzione del dio che essi mobilitano. Pretendere che Aryaman non vi
figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un « gran nome» della
mitologia, è una spiegazione che generalizzata permette¬ rebbe
all’esegeta di sopprimere in ogni maniera le testimonianze im¬
barazzanti. Infine, la definizione di Aryaman come «einer derGenien des
Haushalts», è stata utilizzata, pefitio principii, usando la libertà
fornita dai testi meno determinati. Bisogna aggiungere che alcuni di
questi testi resistono al senso che si vuole loro dare. Quando Aryaman ad
esempio è pregato, ancora in un inno di matrimonio, «di ungere (forse la
novella sposa) fino alla vecchiaia» (o «affinché ella non in¬ vecchi»)' 4
, Thieme, ricordando che «in ogni paese del mezzogiorno» 15 il bagno di
ospitalità comporta un’unzione d’olio, traduce intrepida¬ mente: «Mòge
Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme) [Dich= die Braut ] inir der
Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht altseist ( =
inJugendschònheitglànzest)». Le giustificazioni di questa traduzione sono
leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale d’ospitalità e il
dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso inattendibile; come si
può mai dire alla giovane sposa: « Che il dio dell 'ospitalità ti unga
con olio affinché tu non abbia l'aria invecchiata »? Viceversa se si vede
in Aryaman il protettore del rapporto che si forma, è naturale che egli
sia pregato di garantire alla sposa lunga vita o vigorosa vec¬
chiaia. E non è tutto. Thieme assimila costantemente l’ospitalità e
il matrimonio, l’accoglienza che riceve l’ospite e quella che riceve la
fi¬ danzata. Ora, le due cose sono differenti: a dispetto del riferimento
a Mrs. Stevenson 16 , l’atto della donna che entra in casa di suo marito
per rimanervi, può identificarsi, nei riti, con l’atto del visitatore che
dopo essere entrato straniero se ne andrà, benché incaricato del dovere
di contraccambiare, ma sempre straniero? L’accoglienza fatta alla
futura madre può forse essere più ospitale, nello spirito e nei riti,
delle ceri- 14 RV, X, 85, 43: a nati prajath janayatu
prujàpatir àjarasàya sùm anaktv aryamù... Geldner:
«Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis zurhohcn Alicr soli nns Arya¬
man verschinelzcn». 15 Nell'India vedica? 16 F., p.
125, n. 1. 130 monie che in seguito
legalizzeranno il neonato come membro della stessa famiglia? Se
bisognasse avvicinare ad altre cose questa proce¬ dura sui generis del
matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto all’adozione che
all’ospitalità? Le nostre parole «accoglienza, Aufnahme», creano
un’ambi¬ guità che senza dubbio un Indiano, non più di un Romano, non
rischia¬ va di sentire vivamente. Io resisto particolarmente
all’interpretazione datadaThiemead AV, 14,1,39-sempre riguardo il rituale
nuziale 17 : aryamnó agnini pàryetu pùsan [var. ksiprdm]
prdtiksante svasuro devaras cu. «Sie umschreite das Feuer des
Aryaman (der Gastlichkeit), o Pùsan'*, es sehen entgegen Schwàher und
Schwager.» Sono certamente meno ben informato di Thieme sui rituali
ve¬ dici: quando un ospite entrava in una casa gli si faceva fare anche que¬
sta circumambulazione del focolare, che trova il suo esatto corrispon¬
dente, come molti altri tratti, nel matrimonio romano (dove ha valore di
rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità romana? Se è così m ’
inchino. Altrimenti, messa in luce dai testi precisi sul ruolo di Arya-
17 F„ § 122. 18 Piuttosto, secondo la variante «schnell». In
S., p. 78, vi è una cantonata nella tra¬ duzione che dopo dieci anni non
so ancora se la devo attribuire a un’ inavvertenza del mio manoscritto o
delle mie correzioni delle bozze: ,f vósuro devàsra.ica è reso con «i
suoceri e i cognati» invece de «i7 suocero c i cognati» il plurale della
secon¬ da parola avendo determinato meccanicamente, da me o dal
tipografo, il plurale della prima. Questo testoche sotto la protezione di
Aryaman f a intervenire dopo la giovane sposa il padree i fratelli dello
sposo, prova che nel matrimonio Aryaman si interessa a ben di piti che
l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è interessata da questo nuovo
membro che le procura un’alleanza con un’altra famiglia (cf. Aryaman
qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello stesso inno). Alla pagina 119
di S. ho commesso una svista più umiliante ma senza conseguenze per i miei
pro¬ positi, considerando svasurah di RV, X, 28, 1 come padre della
moglie (possibile nel sanscrito classico ma non nel vedico) emettendo la
strofa in bocca al marito. E l’inverso. La moglie parla e si sorprende
che il padre di suo marito non sia venuto al festino preparalo, mentre
vi.ivo... anyó arlh «ogni altro ari, tutto il resto dell'insieme ari » (e
non facendo sparire la parola essenziale «altro», « jederunde- re,
niimlichjeder ari», Thieme) è pervenuto. Il commento che ho fatto di
questo testo, per i rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste interamente
a condizione che si rimpiazzi «genero» con «nuora» (e co.si « prendere
moglie» con « prendere mari¬ to » e «ha scelto la jigliadel suocero» con
«è stato scelto dai figli del suocero»). 131
man nel matrimonio, l’espressione «fuoco di Aryaman» per designare
eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si forma il legame mi
sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo ruolo. Sono queste le
principali ragioni per le quali non mi è possibile dedurre il ruolo di
Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione che esige l’ipotesi di
Thieme. L’Airyaman avestico è invocato ( Yasna 54, 1) per
sostenere «gli uomini e le donne di Zoroaslro» e il Buon Pensiero; è
detto dotato di forza offensiva, distruttore di ogni resistenza, vincitore
dei nemici (ibid. , 2); la preghiera che è invocata dopo di lui è
onnipotente e guari¬ trice (Yast III, 5); Aryaman stesso è l’eroe di una
scena mitica in cui questa preoccupazione di guarigione è al primo posto:
quando Angra Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le 99.999
malattie, il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la
«Formula Efficace»: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina)
si av¬ vicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che
doveva divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo
19 . Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non
tenta la scommessa ma lascia intendere che tutto questo è
un’innovazione, un uso fuori dal dominio di un dio sentito come
importante: «Man hai also von Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der
AV von A/yaman», dice lui facendo allusione alla fine del § 124 che ho
cita¬ to 20 Temo che questa sia una maniera troppo rapida per eliminare
un elemento preciso del dossier. La stessa cosa avviene per altri aspetti
di Aryaman e per i suoi rapporti con le strade, ad esempio,
strumento utile di comunicazione sociale 21 : ci si riferisca all’analisi
del mio Troi- sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente per far capire
che Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità.
Infatti nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei
matrimo¬ ni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di
un gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche
il matrimonio siano possibili. 19 F. § 126-128; S„
81-83. 20 V. qui sopra n. 13. 21 S., p. 141-149. Per il
trattamento insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F., vedi S., p.
137-139. 132 L’Airyaman iranico protegge in una
maniera più ampia e fino alla sanità l’insieme di uomini e donne della
«buona società», definita dopo la riforma zoroastriana solamente in base
alla religione e non alla nazionalità. Bisogna dunque che il
concetto di arya - nel nome di Aryaman sia altra cosa rispetto a quello
detto da Thieme: minore in estensione, poiché il matrimonio non è
possibile con alcun ospite, ma più ricco in comprensione, poiché oltre
all’ospitalità comporta altre forme di lega¬ mi e in special modo
l’attitudine a contrarre il matrimonio. Si è così costretti a introdurre
in questo arya-e quindi in ari, un valore di nazio¬ nalità.
II Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto [in
S p. 113-127] (Icariano», collettivamente o genericamente), rende
conto di tutti i derivati e si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi
ai quali si adattava il valore generale («der Fremde, der Fremdling») di
Thieme, rende inoltre conto di un testo che resisteva a quest’ultimo. Il
dossier di ari contiene in effetti almeno un testo che direttamente
impone una traduzione limitata e mi sorprende che Thieme non l’abbia
riconside¬ rato nella difesa che mi oppone. Questo è RV, IX, 79, 3:
uta svàsyd ardtyd arir hi sa utdnydsyd ardtyd vrko hi
sah La costruzione e il senso sono limpidi:
«[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.
[Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo.» Questi
versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti equivalenti,
quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono di
conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita, ari : vi
è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è proprio,
imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, este¬ riore,
straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka desi-
133 gna l’uomo che merita di essere chiamato lupo
poiché il suo comporta¬ mento è selvatico. Così ariè. precisato
negativamente come un tipo di nemico distinto da questo nemico selvaggio
ed esterno che è posto al di fuori del gruppo i cui membri sono degli
svà\ positivamente ari è definito come intemo a questo gruppo. La
traduzione e il commentario fatto da Thieme a questo passaggio devono
essere citati per intero 12 : «/ Schutze] vor eigener, voranderer
(i.e. vorjeglicher) arati; sie (oder: das, was die arati ist)
istjaderFremdling (der den Frieden be- droht), sie istja der Wolf...
». Ich habe in der Ubersetzung vonab au/Nachahmung der Spre-
izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja sehr wohl nurstili-
stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in Abrede stel-
len, dass wir zu sagen hdtten: «vor eigener arati- sie ist ja ein
Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor an- derer
drdti-sie istja ein Wolf». La prima interpretazione, quella che
l’autore preferisce poiché sopprime le difficoltà, fa una violenza
inammissibile all’ordine e al rapporto delle parole: mantiene come tale
una delle due opposizioni equivalenti ma sopprime l’altra volgendola in
solidarietà; riducear/e vrka a un’unità (non essendo vrka che un rinforzo
del «cattivo» ari) di cui svà e anyà sarebbero lesuddivisioni. La
filologia non hatali diritti. La seconda interpretazione orienta
l'opposizione tra svà e anyà in un senso che non è il suo: svà non si
applica a ciò che è presso me temporalmente e accidentalmente senza
essere a me, ma segna un le¬ game permanente ed essenziale con me. In
più, questa traduzione sup¬ pone, dalla parte àeW'ari nemico, un comportamento
speciale, quello dell’ospite che una volta ricevuto in casa si comporta
male e « minac¬ cia la pace » come dice Thieme. Certo, l’ospitalità ha i
suoi rischi ma questi rischi si realizzano raramente e in ogni modo
nessun testo del RV vi fa allusione: sarebbe molto strano che fossero qui
l’oggetto di una preghiera e che, in questa preghiera, fossero messi
sullo stesso 32 P. 27, già II, 1956, p. 109. Se, come io penso,
ari ha già il valore etnico («ariano»), si concepiscono gli impieghi
elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella di¬ rezione «élite»,
«capo», etc. 134 piano, in contrapposizione, i
rischi costanti che fa correre il vrka bar¬ baro e brigante.
Questo testo è dunque decisivo contro il senso troppo esteso di ari
e impone un senso ristretto. Nei suoi Etudes védiques et pàninéen- nes.
III (1957), L. Renou mi sembra abbia ben riassunto l’insegna¬ mento del
testo nella formula: «.vrka il nemico straniero, ari il nemico interno».
Questo delimita ari, sia il buono che il cattivo: amico, ospite,
sposabile, correligionario, rivale, nemico, Vari porta alla considera¬
zione di chi lo menziona, la nota svà, che esclude la nota anyà n .
Ili Mitra and Aryaman è in gran parte un pamphlet contro di
me: fornisco perfino il titolo di un capitolo. Mi limiterò qui ad alcune
os¬ servazioni che faranno vedere a quale livello si situa il
dibattito. Prima di entrare nella materia, e per togliere ogni
credito ai miei argomenti, Thieme incomincia a dimostrare, secondo tre
punti, che io commetto molteplici e grossolani errori di grammatica
utilizzando gli inni vedici. Lo credo volentieri, ma vediamo che cosa mi
rimprovera (pp. 12-16): a) Io tratto dei duali come dei
plurali. Si tratta di due testi in cui si incontra la sequenza, del resto
frequente, dei tre principali dèi sovra¬ ni, Varuria, Mitra e Aryaman e
dove, a causa di un verbo o un aggettivo che sono appunto al duale,
Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman in un solo personaggio mitico che
chiama «Freund, Gasljreund» (nel 1938) e che ora preferisce chiamare «The
contract (God Contract) which is hospitality (God Hospitality )». È nel
riconoscere questo mo¬ stro, di cui non vi sono altre tracce nella
letteratura vedica, che mi sono rifiutato, nel 1949 (S., pp. 42-47). Non
ho cambiato parere: è inverosi- 33 Questa definizione di art come
sva basterebbe (vi sono altre ragioni) per fare scar¬ tare il paragone
etimologico con diana (l'opposto di svà) che è stato portato in ap¬
poggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, «Zur Bedeutung des Ariernamens»,
KZ, 68, 1941, pp. 42-52. D’altra parte, il fatto che RV, VI, 15,3 invita
Agni ad essere ùryi'ih pùrasyàntarasya lùrusah, «il vincitore dell'un
lontano e vicino» dimostra che lo svà di IX, 79, 3 non deve essere compreso
in un senso stretto né senza dub¬ bio locale. Il concetto di nazionalità
suggerito dai derivati soddisfa la doppia con¬ dizione: Vari per «un»
ariano è sia svà che para. 135 mile che in
questi due soli passaggi la triade ceda il posto a una coppia «Varuna e
Varyamàn Mitra» o a «Varuna e il mitra Aryaman». Uno di questi
testi è RV, V, 67, 1: varuna mitrdryaman vdrsistham ksatrdm àsiithe, «o
Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi avete ot¬ tenuto la più alta sovranità».
Perché si dice che il verbo è al duale? Il poeta vuole sottolineare la
stretta affinità di Mitra e Aryaman (che è fondamentale come spesso ho
detto) nei confronti di Varuna, di modo che si debba tradurre «o Varuna,
o Mitra e Aryaman»? Non lo so, ma la soluzione meno accettabile è di
fondere in un solo essere Mitra e Aryaman, poiché la strofa 3 dello
stesso inno enumera nuovamente i tre dèi al nominativo e questa volta con
due aggettivi e due verbi che sono correttamente al plurale. Noto che K.
Geldner comprende come me: «ihr habt die hòchste Herrschaft erreicht,
Varuna, Mitra, A rya- man» - i tre vocativi essendo esattamente
paralleli, come Thieme mi rimprovera di avere detto. L'altro
testo è RV, Vili, 26, 11 : vaiyasvdsya srutam narotó me asya vedathah/sajósasd
varuna mitrò aryamd. La prima parte non è ambigua: «Ascoltate, o voi due
eroi (= gli Asvin) [la parola] di Vai- yasva e conoscete questa [parola]
mia». La seconda è meno chiara, un aggettivo al duale (sajósusà, «in
accordo») precede i tre nomi di¬ vini. Geldner risolve la
difficoltà attaccando l’aggettivo non a ciò che segue, ma come attributo
a ciò che precede, ai due Asvin: « Horet aufden Vyasvasohn, ihrHerren,
und seid meiner hier ein^edenk, ein- miitig, (und mit euch) Varuna Mitra
Aryaman». Non so se ha ragione o se si può trovare una giustificazione
più sottile, ma come lui penso che gli dèi dell’ultimo verso, qui come
altrove, siano ire. b) Tratto dei plurali come dei duali. Si tratta
di RV, III, 54, 18, aryamd no dditir yajmydsah, «Aryaman, Aditi [sono]
degni (plurale e non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo sacrificare
ad Aryaman, ad Aditi». Thieme consentirà forse a credere che ho
consultato la tradu¬ zione di Geldner: «.Aryaman, Aditi sind uns
anbetun^swert», con la nota corrispondente: « Den Plur. yajnfyàsah, weil
der Dichter an die iibriffen Àditya ’sdenkt». Ma ciò che più
m’interessava perii mio argo¬ mento (S., p. 68) è che in questo lesto
della «terza funzione» (la fine della strofa domanda abbondanza di
bestiame e di bambini), il gruppo degli dèi sovrani distacca, in qualche
modo come i suoi soli delegati 136 espliciti,
la loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme non ho preso la
precauzione di ripetere in termini di grammatica una precisa¬ zione che
ogni vedista conosce. Il mio commento si è limitato a dire: «Sembrerebbe
che ancora qui sia l’iniziativa di Aryaman che orienta l'azione
collettiva degli Àditya verso questa grazia speciale». Non è abbastanza
chiaro? c) Tratto un singolare come un duale. Si tratta del lapsus
segna¬ lato più sopra (n. 18) che, in A V, XIV, 1, 39 (S, p. 78, 1.8 e 11
) mi ha fatto scrivere e non mi ha fatto correggere «i suoceri» invece
del «suo¬ cero», come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che
io abbia pensato ai «due suoceri». Mi reputa così ignorante da poter
cre¬ dere che io abbia preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in
-o, per un nominativo duale? La stessa parola, sotto la stessa forma non
è forse correttamente tradotta la seconda volta che la si incontra (S,
v. 1 19)? La spiegazione che mi parrebbe più plausibile è che,
essendo poco leggibile il mio manoscritto, il compositore abbia
congetturato i «suoceri» secondo i «cognati» che seguono immediatamente,
o che meccanicamente abbia messo allo stesso numero queste due
parole così analoghe [pères e frères nel testo. N.d.T.]. Può anche darsi
che il lapsus risalga al mio manoscritto. Mi dispiace molto ad ogni modo
che nella sovrabbondanza di correzioni che ho dovuto fare sulle bozze
quello mi sia scappato e che l’errore mi sia saltato agli occhi solamente
qualche mese dopo la pubblicazione. È in maniera sleale che Thieme
orchestra questo scandalo in due pagine e anche il mio errore su
svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito. Nondimeno Thieme
dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio argomento la menzione
del suocero e dei cognati (della moglie) in A V, XIV, 1,39 e quella del
suocero {della moglie) opposti al «resto dell’ari» in X, 28, 1
conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è stato mostrato qui
sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel matrimo¬ nio, non
si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti per l’alleanza che
la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa ammessa da Thieme nel 1957;
Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si com¬ piono all’interno
dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida «all’in¬ terpretazione errata!»
per mascherare il gioco di prestigio altrimenti grave fatto da lui stesso
all’insegnamento di tutti i testi che stabilisco- 137
no il vero ruolo di Aryaman nel matrimonio (vedi sopra 1 )'. Il libro è
in seguito infiorito di notae censoriae. Alcune mi sono sembrate
giuste ed utili e ne terrò conto, senza che nessuna cambi niente alle
figure e ai rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna dirlo, un puro bluff
poiché Thieme denuncia come antigrammaticale, errata o sprovvista di
sen¬ so, una traduzione possibile ma che non ha il suo favore 2 ,
caricaturan¬ do le mie esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni
peravere un motivo di risentimento in più 4 , etc. etc. 1
L’obiettivo di questo triplo assalto grammaticale si scopre a pagina 17:
«IJ'eel il my duty to warn especially Lutinists, who cannai be expecled
lo judge on thè me¬ riti of Dumez.il' s indological araumenti, agama
trusting hispresentation oflhe Jacts oJ'Vedic religion loo confidently,
andagainst believing ihal only his "expla- naiions" need be
discussed». Non ho questa pretesa. Domando solo senza grandi speranze che
latinisti o indologi, di St. Andrews o di Yale, che vogliano discuter¬ mi
lo facciano lealmente. 2 P.es.,pp. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 :
/?V, X. 136,3;p. 62: RV, X, 89,9; ctc. p. 67, in RV VII, 82, 5, Thieme
rende correttamente duvasyatil Ha sicuramente ragione, ad ogni modo, a
rimproverarmi la riga di S., p. 40 («Mitra offre dei sacrifici a Va¬
nirla), in cui ho esagerato la frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La
religion védique, III, p. 138: «In un passaggio in cui né Mitra né Varuna
sono del resto esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al
secondo come il sacer¬ dote al dio che onora»): duvasyati significa sempl
icementc «rendere gli onori do¬ vuti»; bisogna correggere in que.slo
senso Les dieux des Indoeuropéens, p. 42, 1.27: in RV, VII, 82, 5, Mitra
non è come un sacerdote di Varuna. 3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che
ho detto dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra- Varuna',
1948, pp. 79-83, non è compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho
semplicemente utilizzato i progressi che, dal suo articolo del 1907, i
sociologi hanno fatto compiere alla teoria del contratto presso i popoli
semi-civilizzati. Allo stesso modo, p. 82, la mia concezione dei rapporti
tra i diversi dèi sovrani si è de¬ formata: che si confronti il capitolo
II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia dei nomi divini (Varuna,
Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo quando è evidente
(Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses latineset mythes
védiques, 1956, p. 117): qualunque sia quella di Varuna (e non credo mol¬
to a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente,
l’insieme del suo comportamento e il suo rapporto con le altre figure
divine: un dio non c prigioniero del suo nome. 4 P. es., p.
74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e
136, a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà
facilmente che essa non esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo
così futilmente in contraddizione. P. 86, n. 60, sono accusato per due
parole di «mislranslations, wich might have been avoided by looking up
thè PW or any other good dictionary » ; Thieme vorrà rifarsi a A.B.
Keith, HOS XVIII, p. 167-168, di cui ho adottato la traduzione (e vi sono
ragioni per preferire questa interpretazione a quella di Thieme).
138 P. 9; Thieme non tiene conto della differenza
d’intenzione tra Mitra-Varuna e Le Troisième Souverain. A dispetto del
suo titolo in¬ diano il primo libro non tratta un soggetto indiano 1 ; si
propone di di¬ mostrare che presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e
fra i Germa¬ ni in special modo, esistevano delle coppie di dèi o di eroi
della prima funzione la cui articolazione è omologa a quella che A.
Bergaigne ha scoperto per Mitra e Varuna nel RV e che i Bràhmana
illustrano con una campionatura abbondante. Non avevo dunqueintenzione di
stabi¬ lire «gli insegnamenti degli inni stessi» e dei Bràhmana - che
altri (dopo Bergaigne e H. Glintert) avevano sufficientemente stabilito.
In Le Troisième Souverain, al contrario, con Aryaman abbordavo un
pro¬ blema specificatamente indo-iranico e poco trattato: ho dunque
dovu¬ to riprendere tutti i testi, discuterli e organizzare il dossier.
Non vi è da scrivere sul mio libretto da scolaro, di questo scolaro che
sono felice di essere e di rimanere, né contraddizioni né progressi nel
metodo: a dei soggetti, a dei bisogni diversi, a dei gradi ineguali di
maturità della materia hanno corrisposto dei procedimenti
differenti. Quanto alle tesi stesse di Thieme, le esaminerò nella
Revue de l'Histoire des Religions e mi sforzerò di rispondere con
un’argomen¬ tazione serena a questa scherma da gladiatore. Enumererò gli
apporti positivi poiché ve ne sono. E dimostrerò come sotto le apparenze del
rigore filologico Thieme misconosca costantemente le prospettive, ignori
i dati statistici più evidenti e distrugga i rapporti più probabili e
sulla via così sgombra si avanzi con una sovrana fantasia verso le pagi¬
ne sorprendenti che terminano il suo libro. In attesa, a coloro che
sarebbero impressionati da questo mec¬ canismo, non posso che consigliare
di rileggere, circa i grandi Àditya, l’ammirevole esposizione di Abel
Bergaigne, certamente vecchia su molti punti, ma attenta sia al dettaglio
dei testi che alle strutture del pensiero, onesta e intelligente.
I J.C. Tavadia si era inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più
leale riparazio¬ ne. 139 Bibliografìa
italiana di Georges Dumézil L’editoria italiana ha accolto con
favori e fortune alterne l’opera di un autore tanto discusso, controverso
e innovativo, quale fu Georges Dumézil, persona acuta, intelligente e
ironica, spirito polemico e non di rado pungente ma sempre pronto a
rimettersi in discussione, mano a mano che l’inchiesta scientifica
progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre che ai colleghi che
accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore nostrano troverà di
piacevo¬ le lettura la traduzione della intervista francese: Un banchetto
dì immortalità. Conversazioni con Didier Eribon , Guanda, Milano
1992. Spetta alle Einaudi l’esordio di Georges Dumézil nel panorama
edito¬ riale del nostro dopoguerra, all’intemo di quella “collana viola”
che non sen¬ za travaglio di intelletti e di coscienze (si legga il
carteggio C. Pavese - E. de Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950
, Bollati Boringhieri, Torino 1991 a c. di P. Angelini) ha contribuito a
diffondere autori importanti come C.G. Jung, K. Kerény,L. Frobenius, G.
van derLeeuw, M. Eliade. Il libro Ju- piter, Mars, Quirinus, Torino 1955,
è una traduzione di parti dell’originale, più capitoli di altri volumi
come Naissance de Rome, 1944, Naissance d'Archanges, 1945, e Jupiter,
Mars, Quirinus IV, 1948. Il catalogo della Ei¬ naudi ritornerà solo
tardivamente, nel decennio degli ’80, a rioccuparsi di Dumézil,
traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata, 1982 (= Mythe et epopee f)
e Gli dei sovrani degli Indoeuropei, 1986. Spetta alla Adelphi
(Milano) la maggiore percentuale di libri tradotti, a cominciare dalla
raccolta di storie e leggende del Caucaso: // libro degli Eroi. Leggende
sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili economici della Bompiani, Milano
1976), fino a Gli dèi dei Germani, 1974; Matrimoni Indo¬ europei, 1984;
Le sortì del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso gli
Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di questo libro, condotta sulla
precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier, 1969, si deve ai tipi
della Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura del guerriero,Tonno
1974). E infi¬ ne bisogna ricordare anche «...Il monaco nero in grigio
dentro Varennes», 141 1987 che è però un
divertissement enigmistico-letterario sulle profezie di
Nostradamus. Il catalogo della Rizzoli (Milano) si è arricchito di
due opere impor¬ tanti e poderose, oggi purtroppo introvabili, come La
religione romana arca¬ ica, 1977 eStorie degli Sciti, 1980; mentre II
Melangolo (Genova) ha tradotto due volumi quali Idee romane, 1987 e Feste
romane, 1989. Recentemente le edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto
La saga di Hadingus. Dal mito al romanzo, 2001. Fra le poche
opere italiane su questo autore ricordiamo J.-C. Rivière, Georges Dumézil
egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigil¬ lo, Roma
1993. Per una bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil cf. la
rivista Futuro presente 2/1993 diretta da Alessandro Campi (numero
monografico “Georges Dumézil e l’eredità indo-europea”): oltre a un
dibatti¬ to su Dumézil in base alle aree storico-geografiche consuete
nella sua ricerca (Roma, Indo-Iranici, Caucaso, Germani), vi è un
interessante articolo di J. H. Grisward sulle persistenze del modello
trifunzionale nella società medioeva¬ le - suddivisione in oratores,
bellatores, laboralores - e la traduzione di un ar¬ ticolo di Dumézil in
risposta alle critiche di una versione francese di un sag¬ gio di C.
Ginzburg (“Mitologia germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni Storici
57, 1984, pp. 857-882, ristampato in Id., Miti, emblemi, spie, Einaudi,
Torino 1986) su un argomento, le presunte simpatie per la cultura nazista,
già affrontato da A. Momigliano, Rivista storica italiana XCV/2, 1983,
pp. 245-261. Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi
indoeuropei cf. A. Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi
dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni di Ava/lon 5/1984, pp. 183-196 e
“Indoeuropeistica e cultura europea”, in L 'Europa di fronte
all'Occidente, Il Cerchio, Rimini 1997, pp. 7-17. Per uno studio
comparato delle istituzioni sociali, religiose, economi¬ che,
amministrative, giuridiche, delle diverse culture parlanti idiomi indoeu¬
ropei, cf. E. Benveniste, // vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I-II,
Ei¬ naudi, Torino 1979 (e più edizioni); si veda anche E. Campanile, “Antichità
indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue
indoeu¬ ropee, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 19-43 e J. Ries (a c. di), L
'uomo indoeu¬ ropeo e il sacro, Jaca Book-Massimo, Milano 1991.
Un argomento dibattuto da decenni come la nozione di “lingua poe¬
tica indoeuropea” (che consente di rintracciare nelle diverse letterature
- Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda, Avesta - elementi di una
fraseologia co¬ mune ed ereditaria) è stato di recente affrontato in un
libro eccellente di G. Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea,
Leo Olschki, Firenze 1998. 142
Indice Julien Ries La riscoperta del pensiero
religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Georges Dumézil (1898-1986)
Introduzione Capitolo primo Le tre funzioni sociali e
cosmiche Capitolo secondo Le teologie tripartite
Capitolo terzo Le diverse funzioni nella teologia, nella
mitologia e nell 'epopea Storia degli Studi e
bibliografia Appendice Aryaman e Paul Thieme
Bibliografia italiana di Georges DumézilEmanuele Castrucci. Castrucci. Keywords:
sul conferimento di valore, il guerriero
indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza
di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica.; Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774520261/in/dateposted-public/
Grice e Catalfamo – metafisica della
libertà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania).
Filosofo. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than
anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’!
Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the
concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a
few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical
personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della
corrente del "personalismo storico o critico". Si laurea in Pedagogia e in Scienze
Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce
unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era
formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo
collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e
infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di
Pedagogia all'Messina. Il suo pensiero
si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed
antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu
Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi",
fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico,
concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione
anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la
storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi
aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue
fenomenologie", " il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si
qualificherà come «storico»; la persona assume una significanza fenomenologica
di unità... in costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi
della persona al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso:
nell'influenza e stimolazione di questa verso quella e della trasformazione
della realtà oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto
agente impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo
in essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è
una realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine,
fa riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita
nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo
per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel
mondo". Catalfamo è stato fondatore
e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta;
fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al
1988. È stato anche Prorettore
dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la
Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la
Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi
dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta
una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa
commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato
intitolato un Istituto Comprensivo. Altre
opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e
filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia, "Biblioteca
dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio, Roma Il
fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa,
Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea
e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I
fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia
dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di
psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente,
Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze
Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad
Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo
Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in
collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La
filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina
Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M.
Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento
(in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo
spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età
evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma
Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS,
Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della
socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella,
Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia
L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione
della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento,
Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" a. IV, 246–248, D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo
Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Di
qui ap- punto si può anticipatamente scorgere, che le dif- ficoltà
più profonde incluse nel concetto di liberta, si potranno risolvere coll’
idealismo in sè preso, tanto poco quanto con qualunque altro
sistema parziale. L’ idealismo invero porge, della libertà,
V RICERCHE FILOSOFICHE 51 da un
lato il concetto più generale, dall’altro quello meramente formale. Ma il
concetto reale ’e vivente è, che essa consista in una facoltà del
bene e del male. Questo è il punto della difficoltà più grave,
che, in tutta la dottrina della libertà, è stata da lungo tempo
avvertita, e che tocca, non solo questo o quel sistema, bensì, più o
meno, tutti 1 : nel modo più spiccato di cerio il concetto
dell’immanenza; poiché, o si ammette un male reale, e allora è
inevitabile collocare il male nell’ infinita sostanza o nell’ originario
volere stesso, con che si distrugge interamente il concetto di un essere
perfettissimo; o bisogna negare in qualche maniera la realtà del
male, e con ciò svanisce insieme il concetto reale di libertà. Non minore
è l’intoppo, anche se inten- diamo nel modo più esteso la relazione tra
Dio e gli esseri mondani; poiché, dato pure che essa venga limitata
al cosiddetto concursus, o a quella necessaria cooperazione di Dio all’
agire delle crea- ture, che dev’ esser accettata grazie alla essenziale
dipendenza loro da Dio, anche se vuoisi del resto affermare la libertà:
in tal caso però Dio apparirà innegabilmente come cooperatore del male,
giac- ché il permetterlo in un essere in tutto e per tutto
dipendente non vai meglio che il contribuire a produrlo; o anche qui, in
un modo o nell’altro, dovrà esser negata la realtà del male. La
propo- sizione, che tutto il positivo della creatura venga da Dio,
anche in questo sistema dev’essere affer- mata. Ora, se si ammette che nel
male vi sia al- II sig. Fed. Schlegel ha il merito di aver fatto
valere questa difficoltà specialmente contro il panteismo nel suo
scritto sugl’ Indiani e in parecchi luoghi; ma è a deplorare soltanto che
quest’ acuto erudito non abbia creduto oppor- tuno comunicare la sua
propria veduta sull’ origine del male c sul suo rapporto col bene.
52 FEDERICO SCHELLINO cunchè di positivo, anche questo
positivo deriverà da Dio. Qui si potrà opporre: il positivo del
male, in quanto positivo, è bene. Con ciò il male non viene a
sparire, benché non venga neppure spie- gato Infatti, se ciò che nel male
sussiste' è bene, donde mai nasce ciò, in cui questo sussistente è,
la base, che forma propriamente il male? Tutta diversa da
quest’affermazione (sebbene spesso, anche di recente, confusa con la
prima) è 1’ altra, che nel male, in ogni caso, non vi sia nulla di
positivo, o, per usare un’espressione diversa, che esso non esista
affatto ( neppure con e in un altro elemento positivo), ma che tutte le
azioni siano più o meno positive, e che la differenza tra loro
consista in un semplice plus o minus di perfezione, con che non si
stabilisce alcuna opposizione, e però il male svanisce interamente.
Sarebbe questa la seconda possibile ipotesi in rapporto alla propo-
sizione, che tutto il positivo scaturisca da Dio. Allora la forza, che si
mostra nel male, sarebbe sì, al paragone, più imperfetta di quella che
appare nel bene, ma, considerata in sé, o fuori del para- gone,
sarebbe una perfezione pur sempre, la quale dunque, come ogni altra, dev’
esser derivata da Dio. Ciò che noi in tal caso chiamiamo un male, è
solo il minor grado di perfezione, il quale però solo per il nostro
bisogno di comparazione appare come difetto, mentre nella natura non è
punto. Che questa sia la vera opinione di Spinoza, non è possibile
negare. Qualcuno potrebbe tentare di sfuggire a quel dilemma,
rispondendo: che il positivo derivante da Dio sarebbe la libertà,
la quale è in se stessa indifferente verso il male e il bene. Ma,
se egli concepisce questa indifferenza, non in modo puramente negativo,
bensì come una 1 Nel testo: « Seietide. » (N. d.
T.) RICERCHE FILOSOFICHE 53 vivente e positiva facoltà
di determinarsi al bene e al male, non si vede come da Dio, che
vien considerato come pura bontà, possa mai seguire una facoltà di
eleggere il male. È evidente da ciò, per dirla di passaggio, che, se la
libertà è real- mente quel che in conformità di questo concetto
deve essere (ed è immancabilmente), non si può essa giustificare con la
già tentata derivazione della libertà da Dio; poiché, se la libertà è
un potere di far il male, essa dovrà avere una radice indipendente
da Dio. Così incalzati, si può esser tentati di gettarsi in braccio al
dualismo. Ma questo sistema, se dev’ esser concepito effettivamente
come la dottrina di due principii opposti e tra loro indi-
pendenti, non è se non un sistema del suicidio e dello sconforto della
ragione. Se poi il principio cattivo è pensato come dipendente in un
certo senso dal buono, tutta la difficoltà della deriva- zione del
male dal bene è certo concentrata in un solo essere, ma viene così ad
essere accresciuta anziché diminuita. Anche supponendo che questo
secondo essere fu dapprincipio creato buono e per propria colpa si staccò
dall'essere originario, resta sempre inesplicabile in tutti i sistemi,
che si son avuti finora, la prima facoltà di un atto di ribel-
lione a Dio. Perciò, anche se noi finiamo col sopprimere, non solamente
l’identità, ma ogni le- game degli esseri mondani con Dio,
considerando la loro esistenza attuale e quella del mondo con essa
come un allontanamento da Dio, la diffi- coltà è solo spostata di un
punto, ma non tolta. Infatti, per potere scaturire da Dio, essi dovevano
già esistere in un certo modo, e non si potrebbe menomamente opporre al
panteismo la dottrina dell’emanazione, presupponendo essa
un’originaria esistenza delle cose in Dio e quindi naturalmente il
panteismo. A spiegare quell’ allontanamento, si potrebbe solo addurre
quanto segue. O esso è 54 FEDERICO SCHELLINO
involontario da parte delle cose, ma non da parte di Dio: e allora,
siccome esse da Dio furono get- tate nello stato d’ infelicità e di
malizia, Dio è 1’ autore di un tale stato. O è involontario da ambe
le parti, cagionato forse da esuberanza dell’ essere, come alcuni
affermano: rappresentazione insoste- nibile affatto. O è volontario da
parte delle cose, uno svellersi da Dio, dunque la conseguenza di
una colpa, alla quale segue una sempre pivi pro- fonda caduta: e allora
questa prima colpa è già per se stessa il male, e non dà alcuna
spiega- zione dell’ origine di esso. Senza un tale espe- diente
poi, che, se spiega il male nel mondo, estingue viceversa, e interamente,
il bene, e invece del panteismo introduce un pandenionismo, sva-
nisce precisamente nel sistema dell’ emanazione ogni proprio contrasto di
bene e male; il Primo, si perde per infiniti gradi intermedii, mediante
un graduale attenuarsi, in ciò che non ha più alcuna parvenza di
bene, suppergiù allo stesso modo in cui Plotino, 1 con sottigliezza
bensì, ma senza lasciar appagati, descrive il transito del bene
ori- ginario nella materia e nel male. Invero, da un costante
processo di subordinazione e di allonta- namento, vien fuori un Ultimo,
di là dal quale il divenire è impossibile, e questo appunto (ciò
che è incapace di produrre ulteriormente) è il male. Ovvero: se
qualche cosa è dopo il Primo, dev’ es- serci anche un Ultimo, che del
Primo non ha più nulla in sè, e questo è la materia e la necessità
del male. Dopo tali considerazioni, non sembra giusto
rovesciare tutto il peso di questa difficoltà su di un solo sistema,
specialmente se ciò che di più alto si pretende di opporgli, è così poco
soddi- 1 Ennead. I. L. Vili, c. 8. RICERCHE
FILOSOFICHE 55 sfacente. Anche le generalità dell’
idealismo non ci possono dare qui alcun aiuto. Con dei concetti
lambiccati di Dio, come /’ actus purissimùs, del genere di quelli che
stabiliva la filosofia antica, o di quelli, che la moderna cava fuori pur
sempre, con la preoccupazione di tenere Dio a gran di- stanza dall’
intiera natura, non si riesce a nulla di nulla. Dio è qualcosa di più
reale che un sem- plice ordinamento morale del cosmo, ed ha in sè
ben altre e ben più vive forze motrici di quelle che P arida sottigliezza
degl’ idealisti astratti gli attribuisce. L’orrore per ogni realtà, quasi
che lo spirituale possa contaminarsi in ogni contatto con essa,
deve naturalmente produrre anche la cecità per l’origine del male.
L’idealismo, se non ha per base un realismo vivente, diviene un sistema
altret- tanto vuoto e lambiccato, quanto il leibniziano, lo
spinoziano, o qualunque altro sistema dogmatico. Tutta la nuova filosofia
europea dal suo principio (con Descartes) ha questo comune difetto, che
la natura non esiste per essa, e che le manca un vivo fondamento.
Il realismo dello Spinoza è per- tanto così astratto, come l’idealismo
del Leibniz. L’idealismo è l’anima della filosofia; il realismo n’
è il corpo; solo tutti e due insieme fanno un tutto vivente. Il secondo
non può mai offrire il principio, ma bisogna che sia la base ed il
mezzo, in cui quello si realizza, prendendo carne esangue. Se ad
una filosofia manca questo fondamento vivo, il che d’ ordinario è segno
che anche il principio idea'e aveva originariamente in essa una
debole efficacia: essa verrà a perdersi in quei sistemi, i cui
distillati concetti di aseità, modificazioni ecc. stanno nel più acuto
contrasto con la forza vitale e la pienezza della realtà. Dove poi il
principio ideale è fornito davvero e in alta misura di forza
operativa, ma non può trovare una base di conci- liazione e di
mediazione, produrrà un torbido e FEDERICO SCHELLINO
56 selvaggio entusiasmo, che finirà nella macerazione di se
stessi, o, come accadeva ai sacerdoti della dea Frigia, nell’ evirazione,
la quale in filosofia si compie abbandonando la ragione e la
scienza. È parso necessario incominciare questo trattato con
la giustificazione di concetti essenziali, che da lungo tempo, ma in
particolare ultimamente, sono stati ingarbugliati. Le osservazioni fatte
si- nora debbono perciò considerarsi come semplice introduzione
alla nostra indagine vera e propria. Noi l’abbiamo già dichiarato: solo
con i prin- cipii d: una vera filosofia della natura si può
svolgere quella veduta, che dà completa soddisfa zione al tema che ci
proponiamo. Noi non ne- ghiamo perciò che una tale esatta veduta sia
stata già da lungo tempo anticipata da alcuni intelletti. Ma erano
anch’ essi appunto quelli, che senza te- mere gli epiteti ingiuriosi di
materialismo, pantei- smo ecc., usuali da un pezzo contro ogni
filosofia realistica, cercavano il principio vivente della na- tura,
e, in contrapposto ai dogmatici ed agl’idea- listi astratti, che li
respingevano come mistici, erano filosofi naturali (nell’ uno e
nell’altro senso). La filosofia naturale dei nostri tempi ha per la
pri- ma volta introdotta nella scienza la distinzione tra l’essere,
in quanto esiste, e l’essere, in quanto è semplice fondamento di
esistenza. Tale distin- zione è vecchia quanto la prima esposizione
scien- tifica di essa. 1 Nonostante che proprio in questo punto
essa diverga nel modo più reciso dalla via di Spinoza, pure in Oermania
si è poiuto fin adesso affermare che i suoi principii metafisici siano
tut- t’uno con quelli di Spinoza; e sebbene quella distin- zione
appunto porti nello stesso tempo la più recisa 1 Si veda nella
Zeitschrift tur spekul. Physik Bd. II, Heft 2, § 54 nota, [IV, S. 146],
inoltre nota 1 al § 93 e la spiegaz. a p. 114 [S. 203).
57 RICERCHE FILOSOFICHE distinzione della natura da
Dio, ciò non ha im- pedito che la si accusasse di confondere Dio
con la natura. Poiché sulla medesima distinzione si fonda la
presente ricerca, sia detto quanto segue a fine d’ illustrarla.
Non esistendo nulla prima o fuori di Dio, con- viene che egli abbia
in se stesso il fondamento della sua esistenza. Cosi dicono tutti i
filosofi; ma essi parlano di questo fondamento come di un puro
concetto, senza farne alcunché di reale e di effettivo. Questo fondamento
della sua esistenza, che Dio ha in sé, non è Dio assolutamente con-
siderato, cioè in quanto esiste; poiché esso non è se non il fondamento
della sua esistenza, esso è la natura in Dio; un essere inseparabile,
è vero, ma pur distinto da lui. Questo rapporto si può chiarire
analogicamente con quello tra la forza di gravità e la luce nella natura.
La forza di gravità precede la luce, come suo eternamente oscuro
fondamento, il quale per se stesso non è actu e si dilegua nella notte,
mentre la luce (l’esistente) sorge. 11 suggello, sotto cui essa è
chiusa, non è sciolto interamente neppur dalla luce. ' Appunto perciò
essa non è nè l’ essenza pura nè l’essere attuale dell’ assoluta
identità, ma non fa se non seguire dalla sua natura;* * o essa è,
considerata in altri termini nella potenza deter- minata: poiché del
resto, anche ciò, che relati- vamente alla forza di gravità appare come
esistente, in se stesso poi appartiene al fondamento, e la natura
in genere è pertanto ciò che rimane di là dall’essere assoluto
dall’identità assoluta. 3 Per quanto del resto concerne quella
precedenza, essa non è a concepirsi nè come precedenza di tempo,
‘ Loc. cit. S. 59, 60 [S. 163]. * Ibi'!. S. 41 [?.
146]. » Ivi I. 114 (S. 203). 58 FEDERICO
SCHELLINO nè come priorità di essenza. Nel circolo, da cui
ogni cosa deriva, non v’ è alcuna contradizione ad ammettere che ciò, da
cui 1’ Uno è prodotto, sia alla sua volta prodotto da esso. Non v'è
qui un primo ed un ultimo, perchè tutto si presuppone a vicenda,
nessuna cosa è 1’ altra e tuttavia non è senza l’altra. Dio ha in sè un
intimo fondamento della sua esistenza, che in questo senso precede
lui come esistente; ma Dio a sua volta è del pari il Prius del
fondamento, giacché questo, anche come tale, non potrebbe essere, se Dio
non esistesse actu. Alla medesima distinzione porta la
riflessione scaturiente dalle cose. Primieramente è da lasciare
affatto in disparte il concetto dell’ immanenza, in quanto esprima per
avventura una morta compren- sione delle cose in Dio. Noi riconosciamo
piut- tosto, che il concetto del divenire sia l’unico ap- propriato
alla natura delle cose. Ma queste non possono divenire in Dio,
assolutamente conside- rato, mentre sono tato genere , o per parlare
più giusto, infinitamente diverse da lui. Per essere staccate da
Dio, occorre che divengano in una base differente da lui. Ma nulla
potendo essere fuori di Dio, la contradizione si scioglie solo am-
mettendo, che le cose abbiano la loro base in ciò che in Dio non è Egli
stesso ', ovvero in ciò che è base della sua esistenza. Se
vogliamo accostare maggiormente quest’ es- sere all’ intelletto umano,
possiamo dire : che egli sia il desiderio, che sente l’Eterno Uno, di
generare 1 È questo l’unico vero dualismo, cioè quello che
nello stesso tempo concede un’unità. Più su era in questione il
dualismo modificato, secondo cui il principio malvagio è, non coordinato,
ma subordinato al buono. C’e appena datemere che qualcuno confonda il
rapporto stabilito qui con quel dualismo, in cui il subordinato è sempre
un principio es- senzialmente cattivo, e appunto perciò rimane
totalmente incomprensibile nella sua origine da Dio.
RICERCHE FILOSOFICHE 59 se stesso. Non è l’Uno stesso, ma pure è
coeterno con lui. Vuol generare Dio, cioè l’impenetrabile unità, ma
in questo senso non è in se stess’o an cora V unità. È dunque,
considerato per sè, anche volere; ma volere in cui non c’è intelligenza,
e però anche, non autonomo e perfetto volere, perchè l’in- telletto
propriamente è il volere nel volere. Tuttavia esso è un volere che si
dirige all’ intelletto, cioè desiderio e brama di esso; non un conscio,
ma un presago volere, il cui presagio è l’intelletto. Noi parliamo
dell’essenza del desiderio in sè e per sè considerata, che dev’essere ben
tenuta d’occhio quantunque sia stata da gran tempo sop- piantata
dal principio superiore, che si è elevato da essa, e quantunque non
possiamo afferrarla sensibilmente, ma solo con lo spirito e col
pen- siero. Secondo l’eterno atto dell' auto- rivelazione, tutto
invero nel mondo, come lo scorgiamo adesso, è regola, ordine e forma; ma
nel fondo c’è pur sempre l’irregolare, come se una volta dovesse
ricomparire alla luce, e non sembra mai che l’ or- dine e la forma siano
l’originario, ma che qual- cosa di originariamente irregolare sia stata
solle- vata ad ordine. Questo è nelle cose l’inafferrabile base
della realtà, il residuo non mai appariscente, ciò, che, per quanti
sforzi si facciano, non si può risolvere in elemento intellettuale, ma
resta nel fondo eternamente. Da questo Irrazionale è,- nel senso
proprio, nato l’ intelletto. Senza il precedere di questa oscurità, non
v’è alcuna realtà della creatura; la tenebra è il suo retaggio
necessario. Dio solo — egli medesimo l’Esistente — abita nella pura
luce, poiché egli solo è da se stesso. La presunzione dell’ uomo si
ribella assolutamente a quest’origine, e anzi va in cerca di
principi! morali. Tuttavia non sapremmo che cos'altro po- tesse
maggiormente spinger l’ uomo a tendere con tutte le sue forze verso la
luce, che la coscienza 60 FEDERICO SCHELLINO
della profonda notte, da cui egli è stato tratto al- l’esistenza.
I lamenti feminei, che in tal modo si ponga F inintelligente come radice
dell’intelletto, la notte come principio della luce, si fondano in
parte su di un’equivoca interpretazione della cosa (in quanto non si
capisce, come con questa ve- duta la priorità dell’intelletto e
dell’essenza secon- do il concetto possa tuttavia sussistere); ma
essi esprimono il vero sistema degli odierni filosofi, che
volentieri produrrebbero fumum ex fulgore, al che non basta la
potentissima precipitazione fich- tiana. Ogni nascita è nascita dall’
oscurità alla luce; il seme dev’essere profondato nella terra e
morire nelle tenebre, affinchè la bella e luminosa forma vegetale si
aderga e si spieghi ai raggi del sole. L’uomo vien formato nel corpo
della madre; e dal buio dell’irrazionale (dal sentimento, dalla
brama , 1 splendida madre della conoscenza) germo- gliano i luminosi
pensieri. Noi pertanto dobbia- mo rappresentarci la brama originaria, come
diri- gentesi verso l’intelletto, che essa non ancora conosce, così
come noi nell’aspirazione aneliamo ad un bene ignoto e senza nome, e
agitantesi pre- saga, come un mare che ondeggia e ribolle, simile
alla materia di Platone, secondo una legge oscura ed incerta, senza la
capacità di formare qualcosa che duri. Ma, rispondendo alla brama, che,
quale fondamento ancora oscuro, è il primo segno di vita
dell’essere divino, si genera in Dio stesso un’ intima riflessiva
rappresentazione, mercè la quale, poiché non può avere altro oggetto
che Dio, Dio contempla in una immagine se stesso. Tale
rappresentazione è la prima forma in cui si realizza Dio, assolutamente
considerato, benché solo in lui stesso ; è in Dio inizialmente, ed è
Dio 1 Nel testo: « Sehnsucht ». (N. d. T.).
RICERCHE FILOSOFICHE 61 stesso generato in Dio. Tale
rappresentazione è ad un tempo l’ intelletto — il verbo di quell’
aspi-, razione,* e l’eterno spirito, che sente in ih il verbo e
insieme l’infinita aspirazione, mosso dal- l’amore, che è egli medesimo,
esprime il verbo, che oramai, accoppiandosi l’intelletto
all’aspira- zione, diviene volontà liberamente creativa e onni-
potente, e nella natura, dapprincipio sregolata, pro- duce come in un suo
elemento o strumento. 11 primo effetto dell’ intelligenza in essa è la
separa- zione delle forze, potendo egli solo così dispie- gare
l’unità che vi è contenuta inconsciamente, quasi in un seme, eppur
necessariamente, a quel modo stesso che nell’ uomo la luce s’ insinua
nel- l’oscuro desiderio di cercare qualcosa, per il fatto, che nel
caotico tumulto dei pensieri, che tutti s’intrecciano, ma ognuno
impedisce all’altro di sor- gere, i pensieri si scindono e sorge l’unità,
che è nascosta nel fondo e che tutti li comprende sotto di sè; o
come nella pianta, solo nel rapporto del di- spiegarsi e propagarsi delle
forze, si scioglie l’o- scuro vincolo della gravità e viene a
svilupparsi l’unità nascosta nella materia distinta. Poiché in-
vero quest’essere (della natura primordiale) non è altro che l’eterno
fondamento dell’esistenza di Dio, perciò deve contenere in se stesso,
benché chiara, l’essenza di Dio, quasi un lume di vita risplendente
nell’oscurità. II desiderio poi, eccitato dall’ intelligenza, tende ormai
a conservare quel lume di vita che ha accolto in sè, e a
rinchiudersi in se stesso, per rimanere pur sempre come fon-
damento. Quando perciò l’intelletto, o il lume posto nella natura
primordiale, spinge alla sepa- razione delle forze (all’abbandono
dell’oscurità) il desiderio che si ritira in se stesso, facendo
sor- 1 Nel senso in cui si dice: la parola dell’enigma.
62 FEDERICO SCHELLINO gere, appunto in questa
separazione, l’unità in- clusa nel distinto, il nascosto lume di vita,
nasce in tal modo per la prima volta alcunché di com- prensibile o
di singolo, e in verità, non per via di rappresentazione esterna, bensì
di vera imma- ginazione , ' poiché quel che sorge nella natura è
figurato di dentro; o, più esattamente ancora, per via di un risveglio,
in quanto che l’intelletto fa sorgere l’unità o l’idea occultata nel
fondamen- tale distinto . 1 2 Le forze separate (ma non comple-
tamente staccate) in tale distinzione son la materia, onde poi è
configurato il corpo; invece il legame vivente che nasce nella
distinzione, e però dall’imo fondo naturale, come centro delle forze, è
l’ani- ma. Siccome l’intelletto originario trae l’anima, come
elemento interiore, da un fondo indipen- den e da esso, rimane perciò
anch’essa indipen- dente, come un’essenza speciale e sussistente di
per sé. È facile vedere, che nella resistenza del desi-
derio, necessaria alla perfetta nascita, il legame strettissimo delle
forze si scioglie in uno svolgi- mento che avviene per gradi e, ad ogni
grado della separazione delle forze, sorge dalla natura un nuovo
essere, la cui anima sarà tanto più perfet- ta, quanto più contiene
distinto ciò, che negli altri è ancora indistinto. Mostrare come ogni
suc- cessivo processo venga ad avvicinarsi sempre più all’essenza
della natura, finché nella massima separazione delle forze si schiude il
più intimo centro, è ufficio di una perfetta filosofia della
natura. Per lo scopo presente è essenziale quanto segue. Ognuno degli
esseri, sorti nella natura 1 Nel testo ; Ein-Bildilng, onde un
gioco di parole intra- ducibile nella nostra lingua. (N. d. T.)
2 Alla lettera; « nel fondamento distinto »; in dcm geschie- denen
Grande. (N. d. T). RICERCHE FILOSOFICHE 63 secondo la
maniera indicata, ha in sè un doppio principio, che è uno e identico in
fondo, ma si- può considerare sotto due aspetti. Il primo prin-
cipio è quello, per cui essi son distinti da Dio, o per cui sono nel solo
fondamento; ma, siccome tra ciò, che è esemplato nel fondamento, e
ciò, che è esemplato nell’intelletto, ha pur luogo una originaria
unità, e il processo della creazione tende solo a trasmutare internamente
o a rischiarare nella luce il principio originariamente oscuro
(perchè l’intelletto, o la luce introdotta nella na- tura, cerca in fondo
propriamente la luce affine, rivolta a loro): così il principio tenebroso
per sua natura è appunto quello, che è insieme rischia- rato nella
luce, ed entrambi, sebbene in determi- nato grado, son uno in ogni essere
naturale. Il principio, in quanto nasce dal fondo ed è oscuro, è il
volere individuale della creatura, il quale però, in quanto non è ancora
assurto (non comprende) a perfetta unità con la luce (come principio
del- l’intelletto), è mera passione o brama, ossia vo- lere cieco.
A questo volere individuale della crea- tura si contrappone l’intelletto
come volere univer- sale, che si serve del primo, subordinandolo a
sè come semplice strumento. Se infine, proce- dendo la trasformazione e
separazione di tutte le forze, è messo in piena luce il punto più
interno e profondo della primordiale oscurità in un es- sere,
allora il volere di quest’essere è bensì, in quanto esso è un individuo,
egualmente un vo- lere particolare, ma in sè, o come centro di tutti
gli altri voleri particolari, è uno col volere origi- nario o
coll’intelletto, cosicché di entrambi si fa ora un unico insieme.
Quest’elevazione del più profondo centro alla luce non accade in
nes- suna delle creature a noi visibili fuorché nel- l’uomo.
Nell’uomo è tutta la potenza del principio tenebroso e ad un tempo tutta
la potenza della 64 FEDERICO SCHELLINO luce. In lui è
il più profondo abisso e il più alto cielo, o entrambi i centri. Il
volere dell’uomo è il germe occultato nell’ eterna brama di un Dio
esistente ancora nel fondamento; il divino lume di vita chiuso nel
profondo e che Dio vide, quando concepì il volere di crear la natura. In
lui soltanto (nell’ uomo) Dio ha amato il mondo; e la brama accolse
nel suo centro appunto quest’immagine di Dio, quando entrò in conflitto
con la luce. L’uomo per ciò, che egli scaturisce dall’ imo fondo (è
una creatura), ha in sè un principio indipen- dente per rapporto a Dio;
ma per ciò, che sif- fatto principio — senza cessare tuttavia di
essere tenebroso nel suo fondo — è chiarificato nella luce, si
schiude insieme in lui qualcosa di più alto, lo spirito. Infatti l’eterno
spirito esprime l’unità o il verbo nella natura. 11 verbo espresso
(reale) poi è solo nell’unità di luce e tenebre (vocale e consonante).
Ora in tutte le cose vi sono bensì i due principii, ma senza piena
conso- nanza, a causa della manchevolezza di ciò che è elevato dal
fondo. Solo nell’uomo dunque è piena- mente espresso il verbo, che in
tutte le altre cose è ancora arrestato e incompiuto. Ma nel verbo
espresso viene a rivelarsi lo spirito, cioè Dio, esi- stente come actu.
Essendo poi l’ anima identità vivente dei due principii, essa è spirito;
e lo spi- rito è in Dio. Ora, se nello spirito dell’ uomo
l’identità dei due principii fosse altrettanto indis- solubile che in
Dio, non vi sarebbe alcuna diffe- renza, cioè Dio, come spirito, non si
rivelerebbe. Quella medesima unità, che in Dio è inseparabile, deve
essere adunque separabile nell’ uomo, — ed ecco la possibilità del bene e
del male. libertà Capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza
costrizioni o impedimenti esterni, e di autodeterminarsi scegliendo
autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli. La l. può essere definita in
riferimento a tre elementi: il soggetto o i soggetti di l. (chi è libero), i
campi entro cui essi sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni
socialmente riconosciuti che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di
fare). Come vi sono vari tipi di agenti che possono essere liberi (persone,
associazioni, Stati), così vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e
innumerevoli generi di cose che essi sono liberi o non liberi di fare. In
questo senso esistono molte l. diverse (morale, giuridica, politica, religiosa,
economica, ecc.). Di conseguenza, quando cerchiamo di definire stati di l.,
abbiamo a che fare con questioni relative all’identificazione di chi, sotto
quale descrizione pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare
che cosa, rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato
sociale. La riflessione sul tema della l. accompagna tutta lo storia del
pensiero filosofico, dall’antichità all’epoca contemporanea, con accenti e
approcci diversi. Il tema della libertà nella filosofia antica. Nel
pensiero di Socrate hanno un grande rilievo i due motivi, strettamente connessi
tra loro, della involontarietà del male e dell’attraenza del bene. Socrate è
convinto che nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il
male, e che ognuno agisce sempre in vista di quello che egli crede sia il bene
e il meglio per lui. Se per questo verso Socrate resta all’interno del
cosiddetto soggettivismo dei sofisti, nel senso che anche per lui non è mai
possibile uscire dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze
individuali, tuttavia questi vengono continuamente giudicati, criticati e
discussi attraverso il διαλέγεσϑαι («il disputare») e ciò permette di ritrovare
criteri comuni e validi universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire
seguire un bene apparente invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il
bene, lo farebbe anche, perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae
irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è
preferibile. Di qui l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente
connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui,
implicitamente, una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la
scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di
una prospettiva escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica,X), il
guerriero che ha passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha
visto. L’anima, che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i
peccati che ha commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può
scegliere fra vari «modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della
propria scelta, «la divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per guidarla
nella sua vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la decisione,
non ci sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato la
filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di
questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la
filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e
conoscenza. Secondo l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1),
involontarie sono quelle operazioni «che avvengono per costrizione» o «per
ignoranza»; la costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione
sia esteriore, di modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per
nulla». Quanto alle azioni commesse per ignoranza, l’involontarietà deriva dal
fatto che «ogni malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve
astenere». Pare dunque, conclude Aristotele, che «sia volontario ciò il cui
principio si trova nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari
dell’azione». In questo modo Aristotele congiunge strettamente la l. del volere
alla scelta volontaria. Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà
ci dà Plotino nelle Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa
rimessa alla nostra libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci
trascinano, «noi ci domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per
avventura, altro che nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino
riconduce la l. del volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto
ragionamento e alla giusta tendenza»; è necessar io, insomma, che «la
ragione e la conoscenza si rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano».
Perciò esse devono rifarsi a un principio non-sensibile, a una non-sensibile
tendenza al bene. Coloro che sono guidati da impulsi sensibili, non potremo
considerarli, sostiene quindi Plotino, «compresi sotto un principio di l.,
perché anche agli incapaci, che agiscono per lo più in quel modo, non
riconosceremo mai l. del volere: a chi, invece, per la virtù operosa del suo
intelletto, è immune dalla passionalità del corpo, attribuiremo veramente la
libera indipendenza». ADVERTISING Cristianesimo e Riforma. Sul
concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del cristianesimo. Hegel
osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non avevano
mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i Romani, Platone e Aristotele,
e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è realmente libero in virtù della
nascita (come cittadino spartano, ateniese, ecc.) o in virtù della forza del
carattere e della cultura, in virtù della filosofia (lo schiavo, anche come
schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova idea di l. si afferma per opera
del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed
essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione
assoluta con Dio come spirito, e a far sì che questo spirito dimori in lui:
cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà. Se il concetto di l. del
volere diventa centrale per il cristianesimo, perché senza la l. dell’uomo non
sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe senso alcuno la
redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi strettamente a quello
di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e indipendente. Agostino sente
la necessità di affermare la responsabilità umana e insieme un prestabilito
disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere umano, dopo il peccato,
può anche volgersi al bene, Agostino risponde che certamente «può»; ma la
maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene che «può» volere è che
le reali forze di volerlo gli siano date da quello stesso vivente Bene a cui
volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino risponde che la
predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio (➔) umano e le sue scelte, e che, se Dio
concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero,
sebbene ridestato dall’aiuto divino, l’uomo riesca a volere il bene, sicché un
reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la
salvezza. Tommaso, a sua volta, sostiene che il poter fare il male proviene sì
dalla l., ma da un suo difetto, non da una sua perfezione: «che il libero
arbitrio possa scegliere oggetti diversi rispettando l’ordine delle finalità,
appartiene alla perfezione della l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale
ordine – ciò che è peccare – questo appartiene a un difetto di libertà» (Summa
theologiae). Dopo il Medioevo, nel quale la soluzione agostiniana è accolta da
taluni con più intensa accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere
umano, da altri con maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio
non è tolto neppure dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo
nel quale la questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di
Agostino sorgono le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni
libero arbitrio umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con
la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i
rifor- matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con
decisione la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero,
tornando a un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della
l. cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme
dei privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione
ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il
concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo
della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola
di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o secolare,
e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il rigetto
delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua sovraordinazione
all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla concezione moderna
della l. e al dibattito sul suo significato politico-giuridico. Il
dibattito su libertà e necessità. Nel Seicento, Spinoza ripristina il concetto
stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una l. che
non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel
riconoscimento e nell’accettazione della necessità universale stessa. Nel
secolo seguente abbiamo la concezione di Kant, con la sua distinzione tra leggi
della necessità, che regolano i fenomeni dell’Universo naturale, e le leggi morali
o leggi della libertà. Per «l. morale» si deve intendere, secondo Kant, la
facoltà di adeguarsi alle leggi che la nostra ragione dà a noi stessi. Noi
possiamo dunque scegliere tra il seguire la causalità empirica, che rende il
nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla legge morale che, esprimendo
l’essenza più profonda del nostro Io, rende il nostro volere autonomo e, così,
libero. E come l’essenza profonda del nostro essere è la l., così all’origine
dell’intero Universo che alla scienza si presenta determinato, è il libero
volere di un Essere intelligente, che ordina teleologicamente ciò che alla
conoscenza scientifica appare invece meccanicamente causato. La l. come
autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il grande concetto che Fichte
svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto, elaborato da alcuni scolastici, di
«l. o arbitrio d’indifferenza» (facoltà di volere, immotivatamente o
indifferentemente, l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle
due), che, non sapendo o non potendo risolvere la propria indifferenza, resta
in fondo un’inerte possibilità d’azione, Hegel oppone un concetto più concreto
della l., quello della l. come autodeterminazione e intima spirituale
necessità. Al determinismo positivistico reagiscono tutte le filosofie del
«ritorno a Kant», intese a salvare la l. della condotta morale. E, nel quadro
del ritorno all’idealismo classico dei primi decenni dell’Ottocento, i
movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità,
rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza. Il rifiuto
della concezione hegeliana della l. come processo speculativo della ragione
universale distingue invece il pensiero di Marx, che identifica la l. con un
processo di liberazione economica, politica e sociale volto ad affrancare
l’uomo dal bisogno e dalla lotta di classe e a creare le condizioni per una
concreta autorealizzazione materiale e spirituale. Per tutt’altra via passa
l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal contingentismo, per il quale nella
l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che
autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la filosofia dello «slancio
vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a coincidere con la stessa
necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che
accettarla consapevolmente o piombare nella «esistenza inautentica», come in
Heidegger. In L’essere e il nulla (1943) Sartre sostiene che l’uomo è
«essenzialmente» libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la
«mancanza», il «nulla» di essere, ed è perciò continuamente teso alla scelta di
possibilità esistenziali. L’equivalenza, di qui derivante, di tutte le scelte
viene tuttavia eliminata nelle opere successive. Il dibattito contemporaneo.
Il significato politico-giuridico del concetto di l. è al centro del dibattito
contemporaneo. Particolarmente influente è stata a questo riguardo la
distinzione espressa da Berlin fra l. negativa e l. positiva, fra l. da e l.
di: la prima concerne l’area entro la quale una persona è o dovrebbe essere
lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza interferenze
da parte di altre persone. La seconda riguarda l’area in cui si situa la fonte
del controllo e dell’interferenza che può determinare che qualcuno faccia o sia
una cosa piuttosto che un’altra. La l. negativa corrisponde alla l. dei
‘moderni’ di Constant, che ne definisce appunto il senso e il valore nella
celebre contrapposizione con la l. degli ‘antichi’; essa è l’indipendenza individuale
difesa da J.S. Mill: il soggetto della l. negativa è l’individuo, e l’arena
della l. negativa è circoscritta da un confine che, per quanto mobile e
variamente tracciato, separa la sfera ‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la
sfera individuale da quella collettiva. L’assenza di vincoli o interferenze va
quindi interpretata principalmente come assenza di vincoli o interferenze da
parte dei detentori di autorità legittima, che è tale se e solo se non viola o
viola il meno possibile l’autonomia individuale. Contro la distinzione
analitica dei due concetti di l. si è espresso Rawls nella sua teoria della
giustizia come equità. La l. o, meglio, il sistema delle l. è oggetto del primo
principio di giustizia. Esso prescrive che il sistema delle l. sia per ciascuno
il più ampio possibile, compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun
altro. Nella prospettiva di Rawls, la massimizzazione del sistema delle l.
individuali è prioritaria rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di
giustizia, il cosiddetto principio di differenza, che deve modellare le
istituzioni responsabili della distribuzione di una classe particolare di
risorse, considerate come beni sociali primari spettanti a tutti i cittadini.
Accettare la priorità dell’eguale sistema delle l. implica accettare un
principio di equità nella distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un
eguale sistema di l. non ha, di regola, eguale valore per individui
diversamente dotati. Proponendo un ordinamento fra l. ed equità, espresso dalla
priorità del principio di l. sul principio di differenza, Rawls ha di mira la
soluzione di un conflitto fra la l. e un altro valore sociale quale
l’uguaglianza (➔). A
questa prospettiva, e ai suoi importanti sviluppi ad opera di Sen e di Dworkin,
si contrappone radicalmente la tesi sui diritti negativi propria della teoria
libertaria. In partic., Nozick ha confutato la pretesa di teorie della
giustizia distributiva di proporre criteri o modelli di distribuzione giusta.
Se ci si basa sull’assegnazione di valore intrinseco alla l. individuale,
qualsiasi precetto distributivo è inaccettabile perché non può che violare la
l. individuale stessa. Nella più recente controversia nell’ambito della teoria
normativa, il conflitto distributivo ha finito per lasciare spazio ad altro
tipo di conflitto, il conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento.
E questioni relative all’assegnazione di valore alle l. si sono così connesse a
questioni di riconoscimento di nuove identità o di identità prima escluse, a
questioni di inclusione in o esclusione da comunità di ‘pari’ dai differenti
confini.Elzeviro
Catalfamo. Il personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: metafisica
della libertà, il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella
persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la
prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773681967/in/dateposted-public/
Grice e Catena – logica matematica, logica arimmetica – la base
arimmetica della metafisica – filosofia veneziana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Venezia).
Filosofo. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an
Aristotelian – and the confusing title he gave to his philosophising – Universa
loca Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist –
consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’
an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale, indaga
i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa cattedra in
seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del latino. Lettore
pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei. Pubblica a Venezia “Universa loca in logica
Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere
aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere
matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca mathematica
contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi mobilis
motus deprehenduntur canones” (Padova, Fabri); “Oratio pro idea methodi” (Padova,
Percacino). Agostino Superbi, Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti
dell'inclita e marauigliosa città di Venetia, per E. Deuchino. Domus Galilæ Biografia
universale antica e moderna; ossia, storia per alfabeto della vita pubblica e
privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù
e delitti; Catalogo breve de gl'illustri et famosi scrittori venetiani (Rossi);
Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici della rivoluzione
scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e logica. Con
riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On
this subject, Catena writes two works, in one of which, Universa Loca in Logica
Aristotelis in Mathematicas Disciplinas (Venezia), he tries to supply the lost
mathematical basis for Aristotle's theory of demonstration as explained in the
Posteriora Analytica. Dizionario biografico degli italiani. Della sua vita si conoscono pochissimi elementi:
nacque a Venezia nel 1501; nel 1547 fu nominato lettore di matematiche presso
l'università di Padova (la stessa cattedra che occupò più tardi Galileo Galilei).
Morì di peste a Padova nel 1576. L'importanza storica del C. consiste nel
fatto che egli fu uno dei primi, nel sec. XVI, a porsi il problema della
valutazione formale ed epistemologica della matematica euclidea, naturalmente
dal punto di vista della logica e della filosofia aristoteliche, inserendosi in
tal modo autorevolmente nella quaestio de certitudine mathematicarum che a metà
del Cinquecento impegnò noti autori dell'università padovana, come Francesco
Barozzi ed Alessandro Piccolomini, nell'ambito del più vasto dibattito europeo
sulla methodus delle scienze. ADVERTISING A questo riguardo assumono
particolare importanza tre sue opere: Universa loca in Logicam Aristotelis in
mathematicas disciplinas (Venetiis 1556); Super loca mathematica contenta in
Topicis et Elenchis Aristotelis (ibid. 1561); Oratio pro idea methodi composta
nel 1547(Patavii 1563). Nelle prime due il C. svolse un'analisi formale della
matematica euclidea attraverso la quale concluse per una sua differenza
strutturale, e quindi per una sua autonomia logica ed epistemologica, nei
confronti della logica sillogistica aristotelica, basandosi principalmente
sulla constatazione che le dimostrazioni matematiche non appartengono al genere
tradizionale delle cosiddette demonstrationes potissimae, e giungendo ad
affermare decisamente che la scienza matematica si differenzia nettamente da
qualsiasi scienza di tipo aristotelico. La differenza metodologica che
distingueva la matematica euclidea dalle restanti scienze in uso nel
Cinquecento venne posta in rilievo dal C. nella terza opera, ove affermò
chiaramente il legittimo costituirsi della matematica come metodo scientifico
autonomo, intervenendo così costruttivamente nel dibattito sulla methodus, che
ancora si trascinava in quegli anni, e contribuendo soprattutto alla creazione
di un clima culturale favorevole alla rivoluzione scientifica galileiana con
l'ampliare notevolmente la prospettiva gnoseologica tradizionale. Oltre
alle citate, il C. scrisse diverse altre opere: Astrolabii quo primi mobilis
motus deprehenduntur canones (Patavii 1549),che costituisce una correzione ed
un aggiornamento di un'altra opera anonima, che fu pubblicata a Venezia
nell'anno 1512, e che tratta dell'uso pratico del noto strumento astronomico;
Sphaera (Patavii 1561), un trattato di astronomia, redatto probabilmente ad uso
degli studenti, in cui viene esposto il sistemato tolemaico, e che, pur
basandosi naturalmente su trattati analoghi, allora notoriamente numerosi,
rappresenta l'opera astronomica più compiuta del C.; Procli Diadochi Sphaera
(Patavii 1565),traduzione del noto trattato del matematico e filosofo
neoplatonico; De primo mobili librum singularem; Ephemerides annorum XII; De
calculo astronomico libros II; queste tre ultime sono citate dal Papadopoli e dal
Poggendorff senz'altra indicazione e non se ne è rintracciato alcun
esemplare. Nel corso della sua attività accademica, il C. trattò
successivamente del primo e del settimo libro degli Elementi di Euclide, della
Sphaera del Sacrobosco. della teoria dell'astrolabio, della geografia di
Tolomeo, dell'astronomia del sistema tolemaico, e, probabilmente delle
"meccaniche" di Aristotele, come viene affermato da Bernardino Baldi,
che fu suo allievo, e da lui stesso in una sua opera (Universa loca, cit., p.
81). Fonti e Bibl.: N. C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini,
Venetiis 1726, I, p. 325; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante..., Venezia
1735, p. 114; P. Riccardi, Biblioteca matematica ital. dalla origine della
stampa ai primi anni del sec. XIX, Modena 1870-1880, I, col. 13; II, coll.
113-114; IV,col. 200; V, col. 45;VII,col. 22; A. Favaro, I lettori di
matematiche nell'univers. di Padova…, in Istituto per la storia dell'Università
di Padova, Memorie e docum. per la storia della Università di Padova, Padova
1880, I, pp. 63 s.; G. C. Giacobbe, La riflessione metamatematica di P. C., in
Physis, XV (1973), 2, pp. 178-196; Id., La riflessione epistemologica
rinascimentale: le opere di P. C. sui rapporti tra matematica e logica, con
riproduzione dei testi originali, Pisa 1978; Ch. G. Jocher, Allgemeines
Gelehrten-Lexicon, ad Indicem; Nouvelle Biogr. Universelle, ad Indicem;Biogr.
Universelle, VII, p. 202; British Museum, General Catalogue of Printed Books
XXXV, col. 350; J. C. Poggendorff, Biogr.-Lit. Handw. z. Gesch. d. ex.
Wissensch., I, p. 397. PETRVS CATHENA ARTIVM
ET THEOLOGIAE DOCTOR, PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO
PATAVINO, SVPER LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis & Elenchis Ariſtotelis
nunc & non antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO, LOLOTILLON 0 V EN E
TIIS Apud Cominum de Tridinum Montisferrati. PETRVS CATHENA DOMINICO MONTE.
SORO DOCTORI MEDL song CO EXCBLLBN TISSIMO OPICORVM libri din Elenchorum
Ariſtotelis quædamloca obſcuriuſću la contincbant qnæ apud Gręcos philofophos
erant in primis clara, & per ea co tera loca maiori difficulta ti
inherentia declaraban tur, ob id autem illis con tingit, quod veritatis amatores
& philoſophiæ principes videri apud exteras nationes cupiebant, quod &
re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto å Caldeis, egiptijs, & alijs
abſtuliſſent, id autem, alįe na ſua feciſſe, vitio non omni ex parte abeſt, La
tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto(latinos hoc loco voco cos qui
litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis ſuos conceptus explicant)
philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt ſemper lutuoli,verlantesin
excrementa naturæ appareant, quod quidem laude dignum effet,fi vt præclară
prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros inuiſerent, quo igiturme
uerterem in inuio, non erat conſilium,ničí Reuerendus domi nus Laurentius
Venetus ex nobis familia foſca. rena Canonicus Veronenſis, virum Dominicum
Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet, cui hæc noſtra
loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Ariſtotelis fco pum attigerint,
vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua philoſophiæ Ariſtotelis
loca declarandanon piger animus noſter erit, quod fi minus,cenſoriam amicorum
virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum habeas. Vale. IN PRIMO
CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic modus differre à dictis
ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci natur pſeudographus,neque
ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit; neque enim quæ omni. bus
videntur accipit, neque quæ plurimu i,neque qnæ fapientibus, & his neque
omnibus neque plu. rimum, neque probatiſſimis; ſed ex proprijs quidem
alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit,nam vel.eo quod femi
circulos deſcribit non vt oportet, vel eo quòd lineas aliquas dicit non vt
ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant Greci, & Latini vſque
ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geo. metrico,ad quem locum
pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris vinctum loris, &
funibus reliquerunt Ariſtotelem, vt ab Alexandri tempore(vo reor) vſque modo,
omnes qui illas preclaras interpretationes legea rint, illius loci notitia
priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo citarem nomine, vt
amatores Ariſtotelis eos cauerent vt infames ſcopulos acróceraunię, fed eos
prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria logiculos, legantfine liuore
& vafricia expo fitores illius lociomnes, & has noftras declarationes
non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi intellexerint, quanti ingenö
fuit, ficut in cæteris ipſe Ariſtoles, hæc citra in Alatas buccasdixiſſe ve lim,
quiſquevt intelligat, fed vt litterarum aliquando illuſores re primantur pariterque
eorum indocta audatia, fufcipiatur igitur recta linea, a bquę feccetur
quomoçunque contingat in puncto c, & ſuper vtranearī a ccb,
ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro vnius & e alterius
deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb, quiſeſe Tangantin puncto h
ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d, illius autem ch b ſit
centrum e, a punctis igitur d; & e,ſemicirculorum centris ducantur duæ
lineæ ad h contactum, & intelligatur Triangulus d he, quoniam autem 3 5
dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ per dif finitionem
circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ lineæ ec & ehſunt
æquales, duæ igiturdc & ce duabus d h & eheruntæquales, duæ autem ille
dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum latus d e trianguli d heeft
æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh & e h,quod eſt impoſsibile
contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim latera omnis trian guli
quomodocunque ſumpta, ſunt maiora reliquo & non æqua lia, vtpſeudographo
ſyllogiſmo machinabátur proteruus,hocau. cem vitium non ex coprouenerat qex
falfis fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris, & immediatis, &
exeodem ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi elementorum ſyllogiſthus
affectus eſt,ſed error atque peccatum proceſsit ex co ofemicirculos defcribit
non vt oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra Ariſtoteles, fic 1 a 6
etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius eſſe duo bus reliquis
trigoni lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben tes, fic.n.linca a b
& puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac, &db, rectam
ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e alter a ec cuius
centrum f,reliquus bed cuius centrum g, &a centro fprotrahatur recta fe
fimiliter a punctog protraliatur gerecta, tunc triangulusfe g habebit latus f g
maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic perſuadetur,lineafc eft æqualis
lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad circunferentiam, fimiliter linca g deft
æqualis geeadem ratione, fi igitur c d linea addatur lineis fc, & dg,
equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus trigoni fe gma jusduobus lateribus
fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi clemcntorum,vel eo q lincas
aliquas ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum facit, ſi ducatur linea a
centro fad centrum g, illa non tranfibit per contactum e,vtin hac fecunda
figura apparet, ve linea abf,in g,non tranſit per punctum e vt oporteret, per
xi tertij clementora Euclidis, fi duo circuli fe contingunt & acentro ynius
ad centrum akerius recta ducatur linea illa de neceſsitate applicabi tur
contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit Ariſtoteles exem plum de
ſyllogiſmo falſigrapho, qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo. Situs eft. Similiter
vero e ſi cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod ſuppofitum eft cubitalem
magnitudinem ere, eo quid eft dicit, & quantum fignificat. RES duorum
generum propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen generis remoti
&analogi, quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine
continetur,obid, duodicit, qui magnicu dinem cubitalem,effe magnitudinem duorum
cubitorum, &quid, quando dicit magnitudinem, et quantum, quando
dicit,cubitorum duorum, hinc manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri
quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet demagnitudine,aliud eft no tandum, quomodo
vnum accidens,vt duorum,quod ad Arithme ticam pertinet,accidere
magnicudini,quod ad Geometriam attineta. QVAEDAM enim statim &nominibus
alia ſunt,vtacu to in voce contrarium eſt graue, in magnitudine autem, acuto,
obtufum contrarium est. Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat
Ariſtoteles, quia et angulum norar, & vocem, # US Angulus accutus
rectominor & contrarius eft obruſo, &voxac cuta graui vociopponitur, et
graui contrariatur accutum in voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed
dubitatur,cum quantitati nihil fit contrarium, quo pacto acuto angulo obtufus
contrarius fit? Dico quod angulus noneft quantitasfed ex quantitate quan.
titati adiuncta proueniens accidit quãtitati vt fit accata vel obtuſa
pariterque pondus &lauitas funt quidem magnitudiniadiuncta, fed no eſ
pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint leue et graue. cantus IPSIvero
queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom menfurabile, nihil.
DEincommenfurabilitate coſtæ cum diametro abunde faris in pofterioribus
declaraui,quantum vero adhunc locumattinet, Art ſtoteles inquit, non effe
quippiam oppofitum ipfi incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas, inter coftam
atque diametrum quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in præcedenti textu,
ſit de terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt pondus & leui
tas contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę & diainetro,
vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati? Reſpondeo, prius
dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe riebantur,hæcautem
incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea, nonfuit dictum omnia
quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria,Pręterea & li opponanturcommenſurabi
liincommenſurabile,non tamen contraria ſunt, vel etiam fi contra ria fint,non
tamen ratione ſubſtractorum,quçſuntquantitates,co fta & diameter, contraria
effe dicuntur, potus enim fitinon eft nifi quodammodo contrarius, delectatio autem,
quæ ex potu prouenit opponitur contrarie triſtitiæ, quæ prouenit ex fiti,
Præterea graue & leweſuntabſoluta quædam in diuerfis ſubiectis poſita
ſeorfim, incommenſurabilitas autem relatio eft; quæ indiſcriminatim funda tur
in coſta,ad diametrum & in diainetro ad coftam. CON SIMILITER autem et
acutum,nam non eodem mo do in omnibus idem dicitur,nam vox acuta quidem velox,quemad
modum quidem dicunt ſecundum numeros armonici. NOTA dignnm eft hocloco
conſiderandum, a vox hoc lo co non accipienda eft pro humana voce tantum, ſed
pro ſono, qui quidem fita cordulis inſtrumentorum, nam gratilior corda fitan
gatur plures aeris percuſsiones facit quain crafsior cordula, fiea dem vi
moueatur, modo inter percuſsiones multas aeris cordulæ gratilioris ad
percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine repere ris duplam,diapaffon, fi
fefqualteram, diapente, fi vero epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici
continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de generatione animalium libro
quinto capite feptimo pucat concinentiam fieri ex alia caufa quam ex
proportione illo, rum ſonorum numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha.
gorici volunt, ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia
Ariſtotelis alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri
videbantur. ET quòd pun&tusin linea do vnitas in numero, nam vtrun. que eft
principium. PRÍNCIPIV M lineæ punctus, principium autem nu merivnitas eſt, ſed
punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin pofterioribus
demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin conftituunt atque
componunt, principium tamé lineç atque finis,punctus eſt ex cuius fluxu linea
fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu geminico determinaui,
non tamen linea ex punctis conſtat, VEL duplicis & dimidij. AN ſit ne
eadein diſciplina duplicis atque dimidă conſiderare oportet, quod profecto
allerere videtur ex capire de relatiuis, cum nemo ſciat duplum,niſi cuius ſit
duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC
autem non ſemper faciendum, fed quando non facile pojumus communem in omnibus
vnam rationem dicere, quemad modum Geometra quòd triangulus duobus rectis æquos
isabet tres angulos. NVLLI id in controuerſiam venit, an omnis triangulus ha
beat tres angulos duobus rectis æquales, ſed illud dubium eft,an id quod
rectilineumeft,habens angulos duobus rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid
horuin in plus fe habeat, & non fit vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed
vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis æquales, atque comunius,an
potius triangulum effe, ad quam dübitacionein, dico quod duobusrectis pates
habere angulos, eſt quid communius, quam efſetrigonum, id autem inanifeſtum eſt
de pentagono, cuius quodlibet latus, duo ex reliquis lateribus fec cat latera,
id autem per primam partem 32, primiElementorum bis fumptam & per fecundam
partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura ſubſcripta deduci facile eft,
& fi habere tres çqua les duobus rectis conuertatur cum trigono,non tamen
habere om nes angulos equales duobus rectis,conuertitur cum effe trigonuir.
Dico igitur, quod habere omnes angulos equales duobus rectis,co mune eſt ipſi
trigono, & pentagono, cuiusvnum latus ſeccat duo ex reliquis latera, habet
tamen penthagonus quinque equales tri bus, qui tres duobus rectis pares funt,
& fic figuramihabentem B omnes angulos duobusrectis pares communius eft,
quam fit trian gulus, non igitur eſt affectio trianguli neque angulorum triangu.
li, fed quid communius trigono, vel tribus angulis trigoni, non eft igitur eius
proprium,quod videturfoluere dubium fuper textu mo tum,fed affectio trianguli
eft habere tantum tres equales duobus rectis,velęqualitas duobus rectis,
conuenit tribus angulis figuræ triangulari, & non omnes angulos, elle
çquales duobus rectis. VEL pt buius a fecundum lechu ius ſecundum acci dens, vt
fecundum Se quidem quòd tri angulus duobus re b Etis æquales habeat tres
angulos, ſecun. dum accidens autē, quòd æquilaterus, quoniam enim acci dit
triangulo,& qui. laterum effe trian gulum, perhocco gnoſcimusquòdduo bus
reétis habeat internos. QVIDAM interprætes fic perperam exponunt Ariſtotele,
quod habere tres duobus rectis pares,ipfi triangulo per ſe infit,ipfi vero
Iſoſcheli cõuenit quidem habere tres duobus rectis parcs, ſed non per ſe,ſed
per accidens, fic vt hæc predicatio, Iloſcheles habet tres duobusrectispares,
ſit accidentalis,hec quidem ſua interprę. tatio & nulla eſt, &nullo
modo ad Ariſtotelis textum facit, quod nulla fit, & falfa, manifeſtum eſt
ex capite de per fe in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori per fe ineft
&inferiori pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe & primo,
inferioriautem, per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus venit is textus,
primo igitur aduertendum quod circa idem ſubiectum fit prædicatio per fé &
per accidens, vtpura circa triangulum, per fe quidem fic, tri angulus habet
tres duobus rectis pares, per accidens vero ſic, trian gulus eſt Iloſcheles;
vbi aduertendum,vtin præcedentibus libris declarauit Ariſtoteles,omne inferius
ſuo ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris omnino fecludatur
inferius, & vt alienum a fui natura ſibi conueniat. SIQVIS infecabiles
ponens lineas, indiviſibile genus earum dicat eſſe, nam linearum habentium
diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint indifferentes ſecundum
ſpecicm, indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum fpeciem rectæ lineæ omnes.
TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e greco latinitati donatus quem
Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi Georgii pachimerñ nonnulli effe
dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non facit ad expofitionem litteræ
affequendam, me rito prætermitto auctorem fore inueſtigandum,vt Ariſtotelis
decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam reuocandī eft id, quod Porphyrius
habet, ſuperius genus de inferioribus ſpeciebusneceſe, fario predicari, quod fi
de illis non prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus manifeſtum erit,
quapropter fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas genus id, quod eft
indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem reducitur,ob id, quia,diuiſibile,genus
eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas omnes eandem deffinitionem ſuſcipien.
tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem nequit, vt aliqua eiuſdem ſint ſpeciei,
& genere fint diuerfa, quod quidem contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas
aliquas, genus effe diceretur,tunc enim indiuiſibile di ceretur de lineis
infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur (fal ſo tamen ) ad illas eſſe
genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi Elementorum ſecabiles ſunt cum
etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle, nullo modopoteft, propter
contradictionem, ET ſi differentiam ingenere poſuit tam quimſpeciem,vt im par
quidem numerum, Differentia quidem numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque
videtur participare differentia genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties,
vel indiuiduum eſt, differentia autem, neque fpeties, neque indiuiduum,
manifeftum igitur quoniam non participat genus differentia, quare neque
imparopetieserit, fed differentia quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV
S quieſt ex vnitatibus profuſa multitudo,paro; titur in numeruin imparem,
&in numerum parem, vel perhas differentias diuiditur, quę ſunt, paritas,
& imparitas, quarum neu includit numerum, qui genus eſt ad omnes numeri
ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale et animal, quando ly rationale
accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non pro rationalitate in abſtracto,
qux eſt hominis conſtitutiua differentia,eodem modo, & numerus prædi catur
de pari in concreto & non de abſtracta paritare, hęcenin & fimiles
illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus, vel imparitas eſt numerus,quodquia
oinnia manifeſta, & nora Ariſtoteles cíle vo. luit, exemplo arithmetico
declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie pofirit, vt contiguitatem id ipſum
quod eſt continuitatem, non enim neceſſariuin contingui. tatem
continuitaternelle, led e conuerſo, continuitatem contigui tatem non enim omne
contiguum continuatur, led quod cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe
dico cuius partes copulantur ad terminuin vnum communem, qui quidem terminus
elt tantuin potentia inter illas partes ipſius continui, nõ etiam actu,
&opere, vt linea lineæ continuatur per punctum, qui non actu exiſtit, ſed
tantum potentia inter illas duas lineas, velinter duas partes linex, quod &
de partibus ſuperficiei, quæ per lineam in potentia copu lantur, &corporis
partes, per ſuperficiem in potentia, Contiguum autein illud effe dico, quod
alteri applicatur & iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per
mediuin quod actu & opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus,
concaua eniin ſuperó ficies ſuperioris orbis augem defferentis, &
fuperficies connexa or bis differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu
exiſtēres inedia, per quas continguantur adinuicem illi orbes, non tamen
continu: antur adinuicem: Cælum primū continuum quoddam eſt, & con.
tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem concauam ipfius pri mi mobilis actu
exiſtentem,non tamen fequitur, primum mobile eſt contiguum cum nona ſphera,
igitur continuum eſt cum nona iphera,quemadmodī non fequitur, quinque digiti
adinuicem funt contigui, igitur quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur,
quinque digiti ſunt continui, igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt
quando clauditur manus, vel manus aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui,vel
aquç contigui, li in anforæ aquam inanum ponas, vel etiain cirotececontiguantur,
& ratio eft, quia vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur, ne
vacuum daretur in natura. CONSIDERAN DV M autem eſt, fi quod translatiue.
dictum eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam, confonantiam, nam omnegenus
proprie deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia,non proprie,fed
translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium
vocum acuti gra. uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris
percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue
dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat, non quidem a ſo no, quæ eft aeris
percuſsio, fed illa quidem eſt, quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc autem
non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia, quæ nil
aliud eſt, quam coeleſtium motuumdiuerſorum,in vnam munditotius conſeruationem
apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei, quos gratis in
libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam effe de
quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin. no Scipionis nomen indidit,
docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed illam quam
libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit Ariſtoteles. AVRSV
M ji non ad idem dicitur fpecies 2 ſecundum ſe, da fecundumgenus, vt fi duplum
dimidiy dicitur duplum o multi plum dimide oporter dici, li autem non, non erit
multiplam genus cupli, abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om. nia
fuperiora genera ad dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes
omnes fimul additæ in vnum exuperant totum illud cuius partes erant, vt duo,
cenarius eſt abundans, quia 6,4, 3, 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent
maiorem numerum duodenario, de quo quidem abun. danti, qui eſt fimilis
centimanugiganti, non loquitur Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft,
quod ſuperius eſt ad multiplum, ad ſuperparticularem, & ſuperparrienrem,
abundans præterea,vthic accipit Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de
multiplici, at& lu perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus
ſub illis contentis, dicitur,duplum igitur triplum,quadruplumque cummultiplun
lit & pariter vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non
eritmultiplum,neque etiam duplum, itaque abundans vniuer lale magis quam
multiplum eft. 1 era QVONIAM autem muſicum, qua muſicum eftfciens,elle muſica
ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit, nõ quathenus cantorem,
qualitas eſt de prima qualitatis fpecie,quathenus autem ſcientia eft,
&fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in prædicamentis
determinatum. NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam diuifibi le non omne,
numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam numero conuenit, non
tamen omni numero, ſed numero tantum pari,impari autem ob vnitatis interuëtum
nequaquam, Veletiam melius erit dictu, diuifibilitas in duo æqualia, numero
tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter omni numero conuenire,
id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in duo æqua. lia,vel in
duo inæqualia numerus ipfe diuidatur, fic vtdiuiſibilitas in partes integrales
cuilibetnumero conueniat, non diuiſibilitas in partes aliquotas omni numero,
ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte etiam quod ipfinumero
primo conuenit diuili. bilitas in tot partes, quot vnitates habet;in plus
igitur ideft,quod diuiſibile eft, quam id,quod numerum eſſe, quia diuiſibile,
eſt com mune ad diſcretum, quod in partes aliquotas &in partes integran tes
diuiditur etiam ad continuum,ſequitur igitur recte,numerus eft, igitur
diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id, quod in ali quotas &
integrantes diuidatur partes, &non econuerſo, vt diui fibile eft, igitur
numerus, LOGICVM problema. PROBLEMA apud Euclidem eſt propoſitio,in qua vnum
datur, & aliud (vt in pluribus) quæritur, vt ſuper datamrectam li neam
triangulum collocare, linea quidem datum eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum
conftituendum ſuper lineam datam, ſem per enim problema verſatur circa praxim,quapropter,
problema Geometricum,eftpropofitio practica, Theoremavero Geometri. cum,eſt
ſpeculatiua propoſitio,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis
fignificationis problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad
vtráque partem, dixit problema logicum, &non Geometricum debuifTe
intelligi, inquit enim, logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt,
&crebræ quidē, & bong ERIT enim ſecundum hoc bene poſitum
humidiproprium, vt qui,qui dixit humidiproprium, corpus quod in omnem figuranı
ducitur, vnum aßignauit proprium, o non plura,erit fecundum boc bene pofitum
humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum,humi. dum
enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit, ſuſcipit quan cunque figuram a
re locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere introducta fit,
in illo vaſe locantehumidum, accipere igitur hocmodo figuram a re locante,
proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON omne ſenſibile
extra ſenſum faftum,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc ineft, eo quòd
fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc,in his, quæ non ex neceſitate
ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium, aštrum quod fertur
fuper terram lucidiſſimum, tale vſus eſtin proprio (ſuper terram in, quamferri)
quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum proprium
immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol, si adhuc ferratur fuper terram, eo
quòd nos tunc deſeruimus fenfium. CECVS enim huius quod eft, folem fuper terram
ferri,nul. lam habet ſenſationem,ſed videns, illius ſenſationem habet quan do
folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum autem fol
occiderit, & fub orizonte conditus fuerit, definit ſenſus percipere folem
fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis, illo deficiente, (quod
contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram ) proprio, & Sol,
effe defficeret, quod quia abſurdum, non igitur proprium eft folis eum videri
ferri fuper terram, licet femper Sol ſuper terram fereatur, id etiam, haud
folis proprium eft, cum fyderibus omnibus, Igni, Aeri ſem per conueniat, id
autem quod proprium eſt, conuenit omni foli & femper,inodo fecunda
particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed etiam alijs a ſole, & a
fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea folem femper ferri ſuper Terram,
& fi proprium ſolis ef fet,illud tamen non eſt ſenſibile, led immaginatum,perceptibile,vel
intelligibile, particula tamen illa aftrum lucidiſsimum, ipfi tantum foli
conuenit, CONSTRVENTI vero, fi tale aßignauerit proprium, quod non ſenſu est
manifeſtum, aut cum ſit ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc
benepoſitum proprium, vt quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum
coloratum eſt, ſenſibili qui dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale
quidem quod ma nifeſtum est ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum
fit perficiei propriim. IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt, ſub.
ftantia enim colorata eſt, quia corpus coloratum,etideo corpus co loratum eft,
quia ſuum extremum eft coloratū, extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo corpuscontinetur
ſuperficies eft, in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud autem proprium,non
ex natura ſu perficiei profluit, fed extrinſece aduenit color ipſi ſuperficiei,
quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas, fed cum ſenſibili per fenfum
percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat exiſtimatio, et quia
ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte pro prium afsignabit
ſuperficiei, fiquis dixerit eain effe coloratam & erit proprium
ſuperficiei, proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura
ſuperficiei. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque
eorum cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc
quidem verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud
cuius proprium aſsignauit; non enim erit proprium,quod pofitum eſt elle
proprium, vt quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione
(nam decipi tur Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro
prium, non decipi ab oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles
determinauit de Geometra primo poſteriorum,vbi ait Geometram non mentiri
concipientem 9 concipienten lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed
fiquis recte inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit, fed vtera quelocorum
mutuo ſeſe alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī
interne concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé
prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id
ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed
linguæ ſæpe etiam contingit, quis enim id in feipfo non eft expertus. vt quan
doque ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius
conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam
ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet (vt interiusprius mente
concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit declaratuin,non tamen id
proprium eft Geometræ,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat, ſed raſo
etiam vni accidat. SIMPLICITER igiturnotius, quod prius eſt poſteriore, vt
punctum linca, o linea ſuperficie, & ſuperficiesſolido, quem admodum vnitas
numero prius enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic textus contra
determinationem philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo cognito, vbi
determinat de circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura plana vna
linea contenta: pro cuius loci huius &illius intelligentia, fcire debes
deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero definitio
per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife ftum facit, quod
Euclides,vbilineam rectam deffinit primo Elemē. torum prius punctum
explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere, tur, vt furt declaratum capite de
per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per punctum, & fuperficies per
lineam, & tandem libro 11, corpus per ſuperficiem deffiniuit, quo autem
modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab eo modo, quo vnitas in numero,id in
na lyticis capite de per ſe fuit manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur, quo nam
modo corpore ſuperficies, & fuperficie linea, &linae punétus noctiora
fint:'cīí hæc omnia apud Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur.
Dico quod cum abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas
repperitur,vt in puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo
phiſicorum de circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim
de vniuerfali con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto
loquitut C 1 pro no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri
non poffe, vtduplum, line dimidio. ID notandum euenit hoc loco, quod
Ariſtotiles capite de ad ali quid poft multa examinara ibidemn
determinauit,quodad aliquid non eft, cuius effe fit elle alterius, fed cuius
eile eft ad aliud quodam modo refferri, vt dupli efTe, fic eft, vt abfque
relatione ad illud cu ius eft duplum minimne poflit percipi, licet non
cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed tantum quathenus
duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa duplatione duplum eft.
OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem, vt quod, dies, eſt
ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem (qui incipit ab
emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in definitione lationem
ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui die vtitur & ſole
vei neceffe eft, acquiſolem deffinir, ſtellam in die apparentem dicit, in qua deffenitione
alterius,alterum ponit eo modo quo ea, quæ ad aliquid deffiniuntur, RVRSVS fieo
quod e diuerſo diuiditur, id quod e diuerſo di uiditur diffiniuit, vt impar eſt
qui vnitate maror eſt pare, fimul enim natura, quæ ex eodem genere e diuiſo
diuiduntur, impar au. tem & parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia.
PRETER eas quas Euclidesin elementis & Boetius primo Arithmeticæ
deffitiones de impari atque,pari numero dederunt,hęc Vna eít,qua in
comparatione & non abfolute imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic
vt neuter abfque altero intelligi que at, & alter indeffinitione alterius
ponatur,vtocto par, vnitatem imparem feptem ſuperet, & hic fenarium parem
eadem vnitate maior euadat. Duo enim funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum
par, & impar, & in deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem
rellatiue conſiderantur & non abfolure, SIMILITER autem & fi per
inferiora ſuperiora deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur, name
bipartite ſuma ptumest à duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus
redditur in littera,ſenſus tamen fa. cilis eſt, ſuperius enim fi per ſuum
inferius deffinitur, vt notius fia at, fuperius hic eft quod, bipartire
ſecatur,inferius autem numerus eſt par,optime enim fequitur, hic numerus par
eft igitur, bipartite fecatur,fed fi arguas bipartite ſeccatur igitur numerus
eft,incõftans eft ifta argumentatio, neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur
1 numerus in confequente pro numéro numerato, vt funt etiam ma. gnitudines, quæ
nuineri ſunt, vt in pofterioribusdeciaratum eft per me, ita vtin conſequente
accipiatur numerus pro quodam comu. ni ad numerum numeratū &ad numerum qui
eſt ex vnitaubus profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī par numeruseft,
& ficin deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur oumero pari,qui
inferior eſt ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero capias qui
binarius inferioreſtad numerum parem,cum quaternarius, & ali quam plurrimi
fint pares numeri,modoqui in deffinitione nu. meri paris vtitur bipartiri, ille
quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore, AVT rurſum qui deffinit
noĉtum umbram terra. TERRA eniin cum ſit opacum corpus radë Colaresnon pof. funt
illud ingredi & vltra progredi (quod in traſparenti aericone tingit,) ſed
impediuntur a parte terræ, quæ pars ad folem reſpicit, ex alta autem terræ
parte,luminis priuatio contingit, quæ priuatio luminis folaris fuper terram nox
appellarur & cft liquis igitur no Etem definiat, fic inquiens nox eft
priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem proueniens, fimiliter terram quis
deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius opacitace nox fit, vide quo pacto
&ter am in deffenitione noctis, & noctem in deffitione terræ &
vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur, fequuntur quædam Ariſtore lis
verba in textu de multiplici & ſubmultiplici, atque de duplo & dimidio,
quæ quia alias declarata ſunt pretereunda duxi, fed id no. tandum eft quod in
deffinitione priuatiui, vtputa noctis, ponitur poftiuum, vtputa terra, quod
etiam in multis eft aduertendum, quia non ſolum ponitur pofitiuum,fed etiam
priuatiuum, vtly pri uatio lurninis. Si autem aliquurum complexorum aßignetur
terminus, con fiderandum eft aufſerendo alterius eorum, quæ comple & tuntur
ora tionem, fi eft & reliqua reliqui, Nam fi non,manifeftum quonia, neque
tota totius, vtſi quiſpam deffinit lineamfinalem rectam fic nem plani habentis
finis, cuius medium ſuperaditur extremis, ſi finalis linca ratio est,finis
plani habētis fines recte oportet effe re liqui, cuius medium fuperadditur
extremis,fed infinita,neque me dium neque extrema habet, re &ta autem est,
quare non est relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad expofitionem textus
deueniam primo liç terai Ariſtotelis in tralatione Argyropili et in textu
Auerois cor rigendam puto de mense Ariſtotelis ex Euclide iuxta cheonem, le
gitur enim in vtroque textu cuius medium ſuperadditur extre mis, vbi legi debet,
cuius mediuin ' non reſulta ab extremis 86 Aueroes in expofitione fic
interpretatur,cuius inedium non occu. lit duo extrema, & videtur afſentiri
ipfi Platoni deffinienti rectă, recta inquit linea eſt, cuius medium non
obumbrat extremna, cæ, terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum
deftiniatur often dere, vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua
deffini tio, fíue terminus,aninal rationale mortale recte legens atque ſcri
bens, tota quippehec ratio, huic toti coplexo, nempe, homo gram
maticus,conuenit,modo liably homo, ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal
rationale mortalely recte legens atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt
aniinal rationale mortale, &gramaticus eft recte,legensatque ſcribens,
peroptime data erit deffinitio primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod
Ariſtoteles in Geometria exemplificat,iminaginans (de mente aliorum,) planum
efle infini tum ſecundum longitudinem tantum, finitum ſecundum latitudi. nem,
quod quidein terminatur linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet,
modo ſiquis definiret lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis (ſecundum
latitudinem ) fines,cuius (quidein finis) medium non relultat ab extreinis,hæc
particula, fi nes plani habentis fines, in definitione pofica recte conuenit
lineæ finalis, fed hæc particala, cuius medium non reſultat ab extremis,
nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta, velly linea,
quia non conuenit niſi recrę lineç finicę, & non infi nitę, quęinfinita, vt
fupponebatur, non habet medium, neque ex. trema,ideo deffinitio ipſius
totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in
deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti, non fic reliqna particula
deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem
differentia terminum alignauit confiderandum, fi eg alicuius numerun comunis
est aſſignatus terminus, vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit,
deter minandum est, quo pacto medium habentem, nam numerus qui dem, comunis in
vtrique rationibus eſt, imparis autem coaſſum pta eſt oratio, habent autem
&linea & corpusmedium, cum non fintimparia, quare non vtique erit
deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in
teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa
vnitasıncdium eft, linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca quidem
punctum medium, quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur, &
fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media,vt nec punctum lineam,neque
linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea, quoruin media ſunt,
determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo pacto linea
atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius inedium
interduas partes æquales,vnitas eſt, & non de pari, ficut etiam Ariftoteles
ait in textu, ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent ad inuicem, vt nibil ex
fiant; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt 45 primielementorum Eucli
dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum fuperficies pro ducitur,
pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro ducetur, vt ex ſeptimo
elementorum manifeftum eſt, non tamen idem prouenit per additionem, quia linea
lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc milliesmillienamillia addieris
adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies, neque fi puncta ad fe inuicem
addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li vnitatibus, velvnitati,nu.
merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex vnitatibus protufus, vt etiam in
prædicamento quantitatis fuit declaratum. Avr fi eodem ab vtroque ſublato, quod
relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi, co multiplum dimidij idem
dixerit elje, fublato enim ab vtroque dimidio, reliquu oporteret indicare, non
indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà quæ de
duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum illud
conſiderandum eſt, quod a nega. tionc dupli ad interremptionem multiplex fiquis
argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum multiplum
ipfo duplo, vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, & duplum ad
dimidium, &multiplum ad ſubmultiplum. VIDET V R autem &in diſciplinis
quædam ob definitionis deffe &tum, non facile deſcribi, vt quoniam quæ ad
latusſeccat planum linea,fimiliter diuidit &lineam &locum, definitione
au tem di&ta ftatim manifeftum eft quod dicitur,nam eandem ablatio nem
babent.loca d linea, eft autem definitio eius orationis hac. DEFFINITIO ſecunda
tertń elementorum intellectum prebet huius deffinitionis pofitæ ab Ariſtorele,
definitū eft ly linea fec cās planum, definitio eft ly linea fimi a Jiter
diuidēs lineam &lo ct, fic enim Jittera ordi netur, linea quæ ad latus
ſeccat pla num, eft li. nea diuidens lineam et locuni terminatum ab ipla linea
recta, fieri enim non po teft, vt linea ſecet planum terminatum linea, quin
il.. la linea terminans planum ſeccetur ab eadem feccante linea, id autē manifeſtum
g eft ex fecunda, tertia, & quarta definitione tertń elementorum Euclidis,
& alisexipfo tertio elemen forum, & xi fecundi, ly li. mea
quæadlatusfeccat pla num,vocatAriftoreies orationem in hocloco, vbi ait, oautem:
deffinitio eius orationis, hæc, id etiam dignī notatu cum deffinitio per genus,
& differentiam detur,loco generis in hac definitione, eſt ly linea diuidens
lineam, inodo cum linea prior fit plano, manife, ftum eft,quodde genere
dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER autem prima elementorum, pofitis
qui dem definitionibus (vt quid linea vel quid circulus) facillimum oftendere,
verum non multis ad vnumquodque eorum eft argumen tari, eo quòd nonſunt multa
media, ſi autem non ponanturprinci piorum definitiones,fortaſſe autem omnino impoßibile.
PRIM A elementorum hoc loco,non ſunt intelligenda princie pia, quæ
definitiones,petita,& animi conceptiones ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt
propoſitiones,quæ in probleniata & theoremata diui duntur, quæ prima
elementorum, ideo dicunturcum per ipfa, quæ proponuntur in alís ſcientñs
probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo illatabilis, & quid linea
recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet figna,tunc ſuper datam lineam rectam
triangulum colo care proponit prima, primi elementorum, & pofita
definitione cir culi per ipſam probatur triangulum ſuper datam lineam colloca.
tum effe æquilaterum, & folum perilla media videlicet definition nem
circuli 17 & primam animi conceptionem primi elemento rum, quæ definitio,
& animi conceptio fi prius non ponantur diffi cile erit oftendere, fortaſſe
omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus fuper datam lineam ſit
æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ funtcirca orationes Je habe
nt; non igitur latere oportet, quando difficilis argumenta bilis eft poſitio,quòd
eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem, atque circulus ſunt quædam
incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione tertia & 17 primi ele
mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum, fiue linea ſeccans planum ad
latus, id totum complexum eft,atque compoſitum, & licut fieri non poterat,
vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque definitione
incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de quopiam
demonftretur, quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum complexum,
quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio,ly linea leccans ad latus planum,
nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio, quę eſt,ly
linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum, ita vtpar. ticula
illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, & rhetores intelligunt
orationes, fed oratio, pro quodam intelligatur comple xo indiſtantitamen, hoc
eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa, pofitio, cum inquit
Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio, non intelligitur pro petitione, feu
petito, quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per argumentum
probabile,neque difficile, ne facile, cum ſit primum principium &non
probetur, fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione, quæ probanda
venit, ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel etiam theore,
ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft, quando inter
probandam ipſam,contingit aliquod deffiniendī, quod com plexum fit, quod nifi
delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio, & fortaffe omnino
inpoſsibile, quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet quod complexum
deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile in præcedenti
textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula accipienda eſt. VELV T
Zenonis quòd non contingitmoneri, neque ſtadium pertranfire. PROTERVI Zenonis
eft fententia dicentis ftadium, quod octaua pars milliaris eft,pertranfiri non
polle, inter genera menſu. rarum quæ magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod
iuxta Ptho. Jamei ſententiã primo Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua.
OPORT ET autem eum quibene transfert diale &tice,& non contentioſe
transferre, vt GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit; quod
concludendum eft. DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et
conuenientiam habet ad illam remi fecundumquam trallatio facta eft, & non
debet effe dubia,contentiofa, & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ,
qui nõ errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam, vt primo poſteriorum
declaraui, vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et
quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum
vel æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia
latera, quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua
ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle
diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum &
demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis, quantum
autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur
immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū
extremis,&aliquomodo diuerſum, vt in 10 clemë torum de diametro, &cofta
eftmanifeftū,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc ignotum, quod
fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus demonſtratur, IN PRIMO
ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res in difputationem alla
tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti nutibus,rerum die ce primur,
ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ in vocibus putamus,quod vfu
venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet. CALCULATORES noſtri temporis
characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in numerorī cognitionem trahuntur,
ficut per voces in rerum cognitionem ducimur, IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE
vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria, fieri vt paria fint imparia, &
maius fit æquale. SI diuiſim ſummas3.& 2. nunquam, quinque faciunt, ſecue
autem fi coniunctim, &ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium, &
binarium, quia due ſpecies numeri, non componunt terº tiam fpeciem numerorum,ſed
quinque vnitatcs pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt
quantum. IN primo pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit
oftenfum,proportionem proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi
ſiquis pPomba proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur
quanto vitioſe. IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum, & non
duplum, duplum quidem in longuni, non duplum antem inlatum. CVM dederic eiufdem
ad diuerfa: vt duo ad uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem
fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft,no
autem dú pla in latū immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in
potentia, quod manifeſtuin eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft, id
autem manifeftum eft ex 46 primi Elementorum, Eucli dis, vel dicas ab duplam ad
a cin longitudine, non autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1: 6 . NEQYE
ſi triangulusduobus rečtis tres æquoshabet, & ei. velfigură,del primum,vel
principium eſſe dicit;quod velfigura, del primum, vel principium eſt triangulus
eft, nam non quathe nusfigura del primum pel principium, ſed quatbenus
triangulus demonftratio erat. TRIANGVLVS enim rectilineus figurarum rectilinea.
sum prima eſt,ita vt fic & figura, & prima, & principium,vt qui
buſdam placet omnium figurarum rectilinearum,non tamen id ve tum eft fecundum
Euclidis fcicum; vtAs primi clementorum dos cet, &vt Amonius determinat
capite deſpecie ſupra porphirit, ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles,
& determinat quod no con uenit criangulo habere tres duobus rectis æquales,
ratione corum quæ de eo dicta funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem
quathenus,fi gura,vel primī, & principium neque etiam fi ifta fuſius
accipian tur,figura,primüm principium inferunt triangulum efle, arguere. tur
enim ex conſequente ad antecedens, & exmagis vniuerfale ad minus
vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius, figura enim nedum triangulo conuenit,
ſed pentagono &alijs multis,primum nedum figuræ, fed etiamnumero principium
quoque in naturalibus, & his quæ arte fiunt repperitur, nedum in figuris
cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo ſape ſumpto, Hoc autem ab accidente
differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in uno ſolo ſummere eft, vt idem,elle
flauum of melse album ege cygnum,quod autem propter confequens in pluribusſemper
opora tet,nam quæ vni & eidem funteadem er fibi ipſa poſtulantur elle eadem
propter quodfit ea quæ propter conſequens eft redargutio, eſt autem non omnino
verum, viſifit album ſecundum accidens, nam &nix cygnusalbedo idem,autrurſum
Melyſji oratio, ide elle poftulat,fa &tum eſſe, &principium babere',
autæqualisfieri Geandem magnitudinem accipere,quoniam enim principium ba bet
quodfa &tum eft.co quod factum eſt, babet principium,fa &tum elle
postulatstam quam ambo eadem fint eo quod principiū fa &tu elle finitumquc
habent, ſimiliter auto e in his que æqualiafa &ta Junt, ſi eandem
magnitudinem & vnam ſumendo æqualia fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem
dim onam magnitudinem ſum munt, quare conſequens ſummit. TRES modos errandiin
falatia conſeguentis adducit philofa phus, primade accidente, ve de
albo,aiebant quidam cõſequencia hác valere, cignus eft,igitur album eſt, &
econuerſo,album eft,ige tur cygnus eft,determinat Ariſtoteles, quod album
elle,vniuerſali us fit,quã effe cygnum, a magis comune ad minus comuneargud do
cõinictitur fallacia cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno, fed etiã in
niue, & alñs reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly
factum efle, & ly principium habere, vt recte fer quebatur fecundum
Melyſſum factum eft, igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum eſt,
principium enim habere, vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim
principium habet, ma teriain ſuam ſcilicet &formam, attamen, non eft factum,
quia fer cunduin falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim.comune
eft & ad id quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle, in
tempore modo a magis comune ad minus comune arguendo committitur error
confequentis, Tertio loco, aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo,
&æqualis magnitudonon couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem
effe,fiquis igitur inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo
'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis
quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus
triangulis eft, fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum
vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam (quæ duabos lineis ali
comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi
idem, vipatet, in 1.. tertia primi, Elementorum,cuin de longiori æqualis
breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio,
ne 11.propoſuit probandum,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem ſunt,quod
fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter ſe ſunt
equalia, non propoſuillet illud in quinto eile probandum,quod Ariſtoteles
confiderauit. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes redargu. tiones funt
&veræ quidem,nam quæcunque demonftrare licet, ca Gredarguere eū,qui
contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem diametra
pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod incomenſurabilis;quare omnium
oportet efle, nam alia quidem ea quæ in Geometriaſunt principia eorumque
concluſiones &cæt. SIQ VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat redar,
guitur ab Euclide lib, 10 elementoruin propoſitione 115, vel leo cundum
campanuin, per illam demonſtrationem, quæ ibi adduci. tur,quæ demonftratio,redargutio
eft ipfius proteruiafferentis con. trarium, fic vt pro declaratione huius
textus fatis fit, quod ipía de monſtratio veri,redargutio eft falli allerti,vel
afferendi a proteruo, NAM ſecundum vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt
fecunlum Geometriam Geometricus, " VIDETVR ex hoc textú quod geometra
paralogizet quod oppoſitum eft ei, quod determinatum eſt in poſterioribus,
Geometram videlicet non paralogizare, Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico
fyllogiſmo in quo,neque circa materiam nec circa formam error contingit, fed de
fyllogiſmo in quo terminus, ſeu vox aliqua repperitur Geometrica, contraria lux
fignifica tioni a Geometra pofita, vt quod triangulus pro circulo accipia
tur,vel error paratur in conſequentia,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis
clauditur, & vtroque modorum erit pfeudogeometri cus fyllogifmus, vt fi
quis pſeudogeometra per numerum inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum
commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin
potius fal fum ingerit, de quo fyllogiſmo pſeudogeometrico, hic Ariſtoteles
Intelligatur, & non de Geometrico, vt in pofterioribus determi, nauit
philoſophus, & per me fuit declararā, quo modo Geometra non paralogizat lad
ſyllogizat, & id, hoc loco in memoriam reuo candum eft, quod in prioribusde
prima figura dictum fuit, quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE.
ET la cuis viletur plura ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram
de qua concludebat quòd duo re&tis, verum ad in telle &tum illius
difputauit,hic an non? TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li. neis
contenta de qua Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod habet
tres angulos duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod triãgulus
aliquid aliud fit, a tali figura (qui triangulus eſt ) propter id quod omnes
anguli ipfius figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs, vtoninesanguli
pentagoni,cu. ius vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua latera, talis pro
fecto non diſputabit de triãgulo, quiaad intellectuin triangulinon reſpicit,fed
ad aliud, vt ad talem pentagonum, no enim neceffe eft, vequicquid habet angulos
duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod habent tres duobus rectis pares,
fed quæ figura habet tan tum tres angulos duobus rectis pares,ille triangulus
eſt. VNITATEs binarijs in quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic
infunt illiautemſecus, SIQ VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt
æqualia, inferre tentauerit quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes
vnitates ſunt ęquales vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt
æqualesvnitatibus binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales
Vnitatibus binarij,igitur quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem
prime coufequentiæ dicendum, quod fi vnitates ſingulę & diuiſion
accipiantur concedendæ ſunt vtræque & confequentia prima, fed fecunda
confequentia interris matur, fi vero vnitates in maiori & minori acceruarim
ſuſcipian, tur vtraque præmiſſarum eft falla & fequitur conclufio falfa,
& les cundę conſequentiæ anteccedens eft falluin, & conſequentia fequi
tur, & conſequens etiam falſum eſt. NEOVE liquod pſeudographum circa verum
eft vt Hyppo cratis quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua,
drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus
est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt
contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit
lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram
rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram,
ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo inſcripti,poffe
reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato, progreſſus eſt
ad cir. culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à quadrato ad
exagonum, & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati in fcripti
circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in circulo, &
fic preudographus factus eſt, Briſo fimiliter errauit circunſcribens circulo
& infcribens circulo quadratum,vterque fo phiſtice proceſsit,et
fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero
in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in conſequentia, &
quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus quadretur fophiftice,
tamen non fecun dum rem, vt non per principia propria, neque per
deſcriptionetti diagramatum,hoceft per cõſtructionem debitam figurarum,nec ex
neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis
principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo
fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera,vt quæ Brilonis,
non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra. cis,vti Ariſtoteles inferius in hoc
capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti cam
habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam, namex eiſdem, diferendi
modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt
contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte
pſeudographa facit,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia
quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem, quæper lunulas non
contentio Sa, Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit vel
potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex principiis
veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in quadratura
circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis &
theorematibus Geometriæ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria, fed
etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt æqualia
inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ
ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft,
pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat
principium Geometriæ, quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis,
& negat etiam li. neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe
curuum, & cur uum rectum, & dari duo puncta inmediata in linea
circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui
conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea. VT
impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft igitur numerus,
numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis incremento vel im
minutione, vt quinarius a quaternario, & ſenario, in his igitur vo cibus,
ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale committitur in
his quæ ad aliquid dicuntur, vt fimitas naſi quidem curuicas eft,modo fic
ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium. Sed numerus eft
impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis numerus reppetitur
in concluſionc, inaniter factum. ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis
confia gurationibus, vt illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non
queamus. OVADRATVM, penthagonum, & cæteras figuras re. etilineas reſoluimus
in triangulos,non tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta
in fe ducta deſcribitur&, 45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ,
vt ex quartolibro elemen torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum
effe fatis textui Ariſtotelis,nifi dixeris, quod non ea facilitate idem
componimus, qua facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo
metria abſolute non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura
rectilinea in triangulos refoluatur, fecus auteminri athmetica de mente
pythagoræ, tefte Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum
ſpecies, componitur ex præcedenu fpecie et triangulo,vt eo loco demonftratur,
vel meliusex tot vni tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus
triangulorum, vt illis declaratur locis. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв
LIS IN MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas
f 4 VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI,COLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum
limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum
eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud
aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem
Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in
fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus
denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena
Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino
Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique
publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN L MARCOLINI
GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel
ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim
indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti
funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly
aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in
Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ
Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus
imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum;
ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ
Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano:
LASERLICH HOFBIB WIEN LCOLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius
ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe
fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud
aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum,
& nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis
denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus
denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena
Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino
Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique
publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK
PETRVS CATHENA VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO
LAVRETANO EPISCOPO NONENSI AC PATRONO S V O COLENDISSIMO. S. P. மரா NTER
munera,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura nobiscontulit,
uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes, ad poftremum haud quaquam
adducitur ipſa ratio, nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur ſubstan tiæ
ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit ipſum naturæ
aduerſari, atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt,
quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum
rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat, hac de caufaconſiderans hominum
mentes eodem effe quo arua fato, quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala
perfe runt germina,uidiſſem multos, qui philofophi nominari uolunt prepoſteris
imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra, quibusuellicandisne unus
quidem Herculesſatiseffet, uin Etum in inestricabiles laberinthos quin potius
in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui inutilibus que
stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis artibusnegletis, fimiles
factifunt oculo, qui quòd in tenebris fit lucem flocifecerit Aij
decreuiquoingenijuires,etiam fi exignas(nam apprime noui quàm fitmihi
curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro, id autem tam
comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua expreſsiora redderem,
quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim hoc tempore qua publi
cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio incumbebam, ad huius etiam
clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor tatio iuuamen ReuerendissD..
Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis &mecenatis optimi cuius expenſis
opus imprimeba tur, hortabaturque me ille, ne opus hocpermiterem ex ire in ho
minummanus fine duce aliquo cumpreſertim milta, &fere difi cilima hac
tempestate contineret, que aut ab interpretibus uniuer fis omiffa, autoppoſita
his effent que interpretati ſunt. Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui
& Ariſtoteleam Philo ſophiam uniuerſam cales, &qui has liberalesartes
Latinis duri bus inuulgauit. Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia
il lustraui, & quæ lucem claritatemque deſiderare uide bantur,
curſimebreuis annotamenti lumine perui afeci, qua in reſi effe cerim quod
uoluizesło iudex &cenfor. Has autem primores inge - ný nostri fæturastuo
nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem dicatas uolui,quo plane intelligeres
noftri animigratitudinem pro innumeris quibus me in dies cumulare deſideras
beneficijs, eoque quod aliter non datur temeum reuerear benefactorem; neque ob
aliud ſanete reuerear quàm quòd omni laude digniſsimum: Vale præfulum decus. ed
RE agat, ueletium num in ſemen uiri, uelmulieris, uel inmatricem, { OTS
PORPHYRII DE GENERE PETRI CΑΤΗΕΝΑ PRESBITERI VENETINOVA INTERPRETATIO. IcetVR
& alio modo genus uniuſcuiuſque principium or tus, tam ab co, qui genuit,
quám a loco in quo eft quiſ piam ortus. Dicitur quòd locus, os pater cauſe
funteffè &trices genis ti, diuerfimodetamen,quippe pater aétiua fit caufa,
locus uero conſer uatiua tantum,que ad cauſam effe's Etricem non immerito
reducitur,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod,
& locusnedum conſeruatiuum prin cipium est, fic ut genitum folummodo
conſeruet poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum,ſed etiam adiuuin
principium eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est
ipſius Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo
obliquo fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones, folis igitur, e
planetarum aliorum lumine, ac motu, affectus locus, aštiue agit hoc pacto
adgenera = tionem, atque parentes, fi fecus quis audiuerit, tunc sol, &
pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae
étis alterando aerem agatin ipſum, ca in contentum, quo autem pacto age
quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia, o interræ
fuperficie plantas. PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies, debita
parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors
phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur., ut Facies priami dignaeſt
imperio, ad cuius fi militudinem, ill. est, quefub aßignato generepoa nitur,
curus pulcritudo, est differentia fpecifica, qua pulcritudine informe genus
contrahitur, atque pulcrumfit. Et Trianguluun, figuræ fpetiem ſimili modo
ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum, non figura in uniuerſum
quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam, que una
clauditur linea, & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui Triangulus
Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua est, claudi
tantum tribus reftis, qua etiam differentia pula crum redditur figure genus.
Indiuidua funt'infinita. Non intela ligas hoc uelim, niſi potentia,qua
infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur; ſed modo quodam diverſo,
numerus enim, quicunque fit, aexiſtat, finitus eſt, terminatus,ſic pariter
indiuidua on nia, quæ exiſtunt finita funt, sed que preceſſerunt omnia,o que
futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret Ariſtoteles, numerus uero cum
statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus eſt,« actu, o deſcenden do,uerum
indiuidua duobus modis dictis funt infinita, unico autem modo ut quæ
præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA ARISTOTELIS. DE QVANTITATE.
ENARAI numeri partes, ut quinque, & quinque. Animaduerſione dignum exemplar
hoc in loco pofuit Ariſtoteles, cum dixit quinque,& quin que partes eſe
denarij numeri, non enim dixit quis narium, oquinarium denarium numerum compone
re, quia nulla numerorun fpeties componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam
ex unis indiuiduis eiufdem fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel
quaternis, ant quinnis numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex
unitatibus tamen quinis o quinis que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari
fpeties conflutur, eas ſententia Euclidis, Nichomaci, atque Boetij. Similiter
& in cor pore fuimere aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun
potes, quo partes corporis copulantur. Punctum esse lincæ terminum, or lineam
ſuperficiei, e ſuperficiem corporis nemo neſcit, niſi qui Euclidis doctrina
dignus est, ſed illud unum maiori egeret indagine, quo nam pa&o
lineaſitforſan etiam ima mediatus corporis terminus,ne id Ariſtoteles aſſerens,
quippiam affe rat contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi
Elementorum inquit ille, corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia
nem ocraßitudinem habet, folidi uero terminus fuperficies est, uide ergo quod
ſolidi terminusnonſit linea ipfa, ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea
terminusfit corporis manifeſtum est, fi idquod Euclides ait deffinitione nona
undecimi elementorum non ignores, solidus (inquit) angulus est, qui ſub
pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem plano, ad
unum ſignum conſtitutis, plurium linearum igitur contactus (nulla ſuperficierum
habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub illis igitur
lineis angulusfox Tidus contentus, terminusest illius folidi, ville lineæ
termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium, quin etiam
inmediati terinini funtillius corporis, cum linea continentes illos angulos in
puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de angulo, quod
fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci mi
Elementorum, & in fequentibus quatuor problematibus idem uit,in quibus
docet conſtruere corpora regularia, queſuis angulis tangant ſu perficiem
concauam circumſcribentis pheri, qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad
minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus
continentur, &punctus ille, nedum est linearum terris minus, fed etiam
regularis corporis finis,cum ſit terminus omnium linearum, quo termino tangit
fphærum,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum ueritatem
habere, ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum Euclidis
ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie, quòd non tantum lineis, ſedetiam
ipſis pun tis terminata fit, fide ea, quæ rectis lineis claudatur fermofiat,
øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis fuperficiebusclauditur,
hocquod dictum est in telligatur. Adid uero, quod Euclides primo Elementorum
ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione uigefima, refponde, quod
uerum dicit, figura rectilinea, inquit, contineturfub lineis reftis, enon die
cit contineturfub punctis, agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab
terminari punctis. Ariſtoteles hoc uidens, dixit corpus lineis termia narinon
tamenfub illis contineri,quod deſuperficie ſimiliter eft dia cendum. Vel etiam
reétè dices, fi ita fenferis, quòd figura in uniuer. ſali, linea claudatur,
neque una,neque pluribus, & corpus in uniuer far liambitu ſuperficie
claudatur, neque itidem una aut pluribus, o neua tra deffinitio fic in
uniuerfum accepta habet exclufiuam particulam,cum autem ad circulum uel ſpherum
defcenderis,unum linea una clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias
elſe claufum,reliquæ uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula
exclufiua abEuclide,vel di cas, quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met
interpretatio, ubi enim dixe rit, in corporefumere aßignarequelineam comunem terminum,
statim correxit ſe, dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis et Euclides
non dixit quòd punctus, ſed quod angulus tangat fphærum. Rurſus in pago quidem,
multos homines, Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt illis plures,
& in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem & ipfi multo
funt illis plures.Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o paucos & multos
dixiſſe, comparationem faciens hominum ad loca in quibusfunt, non habens
rationens hominum ad homines, ut fimile exemplun daretur ſiquis dicat
pauciaurcifunt in arca, @mule ti in crumena, fi in crumena eſſent tantum fex,
decem in arca, DE HIS QVÆ AD ALIQVID. VADRATIONIS enim circuli, & fcibilis
eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis ipſa. Quadam
libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit, quia ſi non
ignoraſcet eam,habuiſſet illiusſcientiam, o non dixiſſet (niſi forſan mendatio)
ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus adtempus
uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit, nequecitra ad hanc ufq;
horam,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu,et ipfa non
minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio,fedquidper iftud exemplum
utilitatis Ariſtot. attulerit, illud effe puto, ut ammoto fcibili, oſcien tia
ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt, ut putacaufa nunquam cauſante
nuſquam effectus erit, quadratio igitur circuli cum non ſit, nequefcientia de
ip. fa quadratura circuließepoteft. Quid nam antiqui de quadratura ſe na ferint
in fractionibus Mathematicis declarabitur. DE QVALITATE. VARTVM qualitatis
gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque eft forma, & in fuper
rectitudo, & curvitas, & quicquid eſt hiſce fimile. De figura fcias
Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte conſiderata, Jed de
figura in re figurata exiſtente,ueluti in fubie & o, idem de forma,
rectitudine, atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen ordinem quendam feruaffe
hoc loco Ariſtotelem in his que proponit, à ſimpliciori ad magis compoſitum.
Primo enim defi gura,quæ linea, uel lineis clauditur, fecundo de his, quæ
ſimplici bus lineis, aut ſuperficiebus uniformibus, nempe uel tantum re tis,
aut tantum curuis, uelſolummodo conuexis,aut etiain tantum concauis continentur,
modus iſte ſecundus à primo non nihil differt, in hoc differentia est inter
utrumque, quia primomodo de co quod planum eft, ueluti ipſa papyrus, ſecundo
modo, de eo quod corpus, utmons, ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut papyrus)
planum uocat, quod autem eft ualde craſſum, corpus appellat, ut montem, a
facilioriperſuadens tya runculis ea,quæ etiam à uulgo principium cognitionis
ſumunt. Triana gulus autem & quadratum cæteræque figuræ, non uidens tur
talem rationem ſubire. Ariſtoteles parum ante dixit, que: nam ſint et, quæ
magis, minufue ſuſcipiunt, ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt intenfionis,modo
uides quod neque trianguliis,nequequadras tum,qualia ſunt, fed quanta, que
intenſione remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem
circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter, aut circuli ſunt oinnia. Senſus
huius eft, quòd triangulus. quilibet, uel omnia que triangula ſunt, niſi id
quod tribus clauditur lineis,aliud non eſt, a circuli omnes, nil aliud funtquam
und çlaudi linea, in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à quo oma.
nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt cquales.com hoc
nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque cira B 10 IN
PREDICAMENT A culus triangulus eft, neque utrunque aliquid unum eſt, licet
utrunque figura ſit,ſed hoc æquiuoce, & non uniuoce eſt. Neque te turbet
hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo, « quadrato propoſuit,c finit ſena
tentiam de triangulo, e circulo, & non de triangulo, quadrato, quia de
triangulo o quadrato dicens, ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo etiam circulă
intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero, quæ rationein
hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non enim quadratum
ma gis quàm altera parte longius circulus elt, quippe cum neu trum circuli
fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in quofit
comparatio rationem, alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur.
Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt,cum
igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat, neque quadratum circulus
eft,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus est, idem
age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito
Ariſtot.ſententiam hanc eſe, o ſi quadratum, &altera parte longius circulus
eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum, atque circulus, non
eft qualis tas, fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte longiori, lymas
gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id, quòd Aris ſtoteles
determinauit in capite de quali oqualitate, quo loco ait quara tum qualitatis
genus eft figura,ad quodfoluendum, dicas figuram capi uno, atquealtero
modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to quocunque,
cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in quarto qualitatis
genere, alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui largitur tale
eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non refutat. Neque
musica, cuiuſpiam musica, niſi generis ratione ad aliquid, & ipsa dicatur.
De uniuersali Aristoteles,& non para ticularimuſica loquens, ſiue humant
uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa intelligatur, biffariam
eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu genere ipſo caufetur,et
quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt, primo modo ad fubie &tum quod
genus uocat, tan quàm ad effectricem caufam reffertur, ut ad ſonum numeratum,
non due tem ad Platonem in quo recepta est, relatiue dicitur. Vel etiam dicas,
quòd refertur rationefuigeneris, ut quatenus scientia adfcibile. ARISTOTELIS.
IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONTSRATIVIS scientisprius eſt nimirum atque
pofterius ordine, Elemen ta nanque deſignationibus ordine priora ſunt. Scito
elementa, ut deffinitiones, petita, animi conceptiones precedere ipfis
propoſitiones in ſcientijs, id quod in Euclidis methodo patet,proa poſitio nem
ſubſequitur expoſitio, quam expoſitionem statim deſigndz tio diagrammatisconſequitur,
hancdeſignationem (que beneficio petia torum tantun fit) determinatio,
determinationem demonſtratio, ſexto loco epilogus, ſiue propoſitionis
repetitio. Vel dicas elementa,ipſatana tum eſſe petita reſpectu deſignationis
tantummodo. Elementa etiam non tantum principia,utdeffinitiones,petita, &
conceptiones animi, reſpectu propoſitionum, que per ea probantur dicuntur, fed
ipſa propoſia tiones probatæ, quatenus ad alias fequentes propoſitiones
probandas fumuntur, dicuntur elementa, hac de caufa, quidam uolunt libros
quindecim Euclidis uocari elementa, alij nero non ob id, quindecim libri
dicuntur elementa,ſed quia fingulis libris fua affiguntur principia, ut apud
Campanum, ſed neuter modus dicendi placet, quin potius elea menta dicuntur
oinnia, quæ in illis quindecim libris continentur, nedum propter deffinitiones,
petita, Oʻanimi conceptiones,ut iſti, neque prou pter hoc, quòd alique prime
propoſitiones, que demonſtratæ funt, fint pro alijs propoſitionibus fequentibus
probandis principia, &elea menta,ut illi dicunt, quia tunc ultima
propoſitio noneſſet elementuin ad. quippiam, cum ipſa ultima eſſet, ſed
elementa, atque principia omnia illa dicuntur, reſpectu omnium propoſitionum
per ipfa probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim libros. IN
PREDICAMENTA DESPETIEB.V.S. MOTVS. i bЬ & CRET 10 ', alteratio non eft. Hoc
perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co (quod etiam multis modis in
Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem,ut in fecundo clementorum deffinitione
ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum,compoſi ta ex uno quadrato conſiſtente
circa diametrum, « ſuplementis duobus, quefigura ab Euclide primo elemen torum
propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6, quam fi huic addideris
quadrato a, quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio quantitatis,
ſic ut in hac figu ra ab, quod una diuerfa peties alteri fpetiei addita non
uariet fpes tiem,exempla plus centum in tabule Pythagora, apud Nicomachum,
Boetium,in numeris inuenies, ut pu ta ex duobus longilateris altrinfecus ad
quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato, quod fit, quadra = tumest,licetfacta
ſit acretio, ut ex duobus, fex, vbis quatuor, ut ofto, ſexdecim exoritur,qui
etiam quadratus eft, pari modo,ex duo bus quadratis, er bis fumptomedio
longilatero, nempe ex quatuor, e nouem,bisfumptoſenario longilate ro, uiginti
quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i. 13 est, que intelligas uolo ex in
ateria primi quadrati, atque longilateri, ut ex ipſis unitatibus, ego non de
numeris tūlis formaliter fumptis, cum prius corrumpaturſpeties preceden tis
quadrati minoris, atque longilas • teri, in aliam petiem maioris quas drati,
qui ex illis oritur, acretio. igitur ubique facta eſt, nulla intera ueniente
alteratione in fpetie ipſius quadrati, licet e gnomonis atque longilateri
apertiſsime facta fit alte ratio. Aduertas tamen, ad id quòd Ariſtot. ait in
hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum, ſic, utfpetiesquadrati nõ
alteratur.licet • fiat acretio, in Geometria uniuerſali ter ueritatem habet,
fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi intelles Xeris de fpetie
ſubalternāte,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen qua dratiſþeties
ſubalternata, oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero quadratoſexdecim,addus
gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta ſexdecim, fit impariter
par, uidelicet triginta fex, quorums uterque, o fifit quadratus, diucrfarum
tamen fpetierum funt, ut ex libris Euclidis de Arithmetica mani feftum eft,quod
exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis, quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem
intelligas de quadrati, quatenus quadratum eft ', Apetie, hoceſt de fpetie
quadrati in uniuerfum, non de quadratiſpe= tie ppetialifsima. vel etiam dicas
quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari in Geometria uniuerfaliter non
autem uniuerfaliter fimpliciter, hoc oft non in omnibus difciplinis. 11 14: IN
PRIMVM LIB. IN PRIMO PRIOR V M AN T E SECVNDVM SEC.TV M. n A M fine uniuerſali
nô erit fyllogiſmus aut non ad pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur
enim mulicam uoluptatem & c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de
ſcriptionibus, ut quòdæquicruriæquales, quiad baſin, ſintadcentruin ductæ a,b,
fi igitur æqualem accipiata, c, d, angulum, ipſib, d, c,non omnino exiſtimans
æquales, qui ſemicirculorum, & rur. fus c, ipfi d,non omnem aſunens eum qui
ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus, totis Angulis, & ablatorum, æqua les
eflc reliquos e,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab æqualibus
æqualibus demptis,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni oportet
uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes anguli
ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem circuliſunt
æquales per primam deffinitionem tertij elementorum,peripheria eiuſ de circuli
uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me dietas
circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia cumque omnes
recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe quitur igitur,
quod duo anguli a, c, d,cb, d, c, ſemicirculorum eiufdem circuli a, b, c, d,
ſint ad inuicem æquales, hæc perfuafio fiat ei, qui non omnino exiſtimat
æquales, qui ſemicirculorum, rurfus inquit c, ipſi d, angulus uidelicet uterý;
minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto angulo, ideſt,toto angulo
ſemicirculib, d,c, e a cd, quod ſic perſuadetur, árcus c, d, eiuſdem est
peripherie, que unir formis eſt, c, d, eſt unice, om eadem re&ta,ſi igitur
utrunque angus lorum minoris portionis ab utriſque ſemicirculorum angulis
detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e, of, erunt æquales æquicrurus
igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad bafim poſitos æquales angulos,
quod demonſtratum fuit,ſumpta iſta uniuerſali, ſi ab equalibus æqualia
aufferantur, reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR VM ANTE TERTIVM SECTV M.
ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere, ut de bono,aut fcientia,priuate
auten fecundum unamquainque, funt plurima quare principia quidem quæ ſecundum
unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au tem,ut Aſtrologicam
experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ, acceptis enim apparentibus fufficienter,
ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c. Compertum eſt aſtrolabio
ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad uſas finem Virginis, quam
à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o hiſtoria traditum eft,
propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem tres habere orbes, quorum
medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus, facile
eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque diſciplina,
prima principia hiſtoria data, &dereli Eta ſine probation funtpofteris,
quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis (hiſtoriæ enim proprium eft
ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs aliquafiat
demonſtratio,illam « impro priain, a poſteriori, feu à ſigno eſſe, nemoeſt
quineſciat. ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM. On oportet autein
exiſtimare penes id, quod exponimus, aliquid accidere abfurdum nis hil cnim
utimur eo, quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra, pedalem, &
rectam hanc, fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur primo
pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea poſsit
ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam, fub fenfu
fuerunt? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe,
intelligit intellectus, quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit.
Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem
habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem
abſtraftam, quætamen kon eſt, niſi indeterminatis, ſingularibus hominibus, fic
etiam li ncam ſuperficie?n intelligit, que tamen non ſunt, niſi in linea atrd.
mento picta, o ſuperficie, in corpore naturali, IN SECVNDO PRIORVM CAPITE DE
PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens ſeat quod
propofitum eſt, contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata per illud
mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi,a, monftretur per
b,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit cnim ita
ratiocinantes ipſum a,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui coalternas
putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt
poſsibile monſtra: re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita ratiocinans
tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque, ſed ita omne erit per
feipfum cognoſcibile, quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare, quod e
ſit a, &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus (e est b,
beſt a, igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt hæc, e eſt b,
fit per hoc medium f, ut in hoc Syllogiſino (e eftc, c, eſt b, igitur e eſt b)
Cuius minor, uis delicet hæc, & eft c,fiprobetur. Tunc reſumitur prima
concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda erat, ut in hoc
Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a,quia e eſt a, Ofic
error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per plura media per c,
oper a, propoſitio uero que probanda proponebatur, hæcuidelicet,e eft a, per
tria media per b., perc, & per a, probatur, ſimiliter errant illi, qui
nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres æquales
duobusreftis, quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a, b, c. cuius
latusbc, ſi protendatur,caufabitur augulus d, c, d, exterior equalis duobus
angulis a, b, intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N
catis, ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi elementorun Euclidis,
à punéto c, parallela dua catur ipſi b, a, quæ fitc, e, patea bit per ſecundam
partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum, - quòd triangulus a, b, c,
habebit tres duobus re&tis æquales. Si aus tem fumatur probandum quod b, a,
uc, e, fint parallelæ, per hoc medium, quia triangulus b, a, c, habeat tres
duobus re&tis æqua. les, ideo ipſe parallelæ ſunt, ſic, exterior æqualis
eft duobus intrinſe cis ex aduerſo poſitis, qui exterior angulus a, c, d, in
duos pars titur angulos in a, c, e,we, c, d,, c, e æqualis eſt b, a,, ere, c, d,
eft æqualis a,b, c; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut
per uigeſimamnonam primi elementorum,feques retur igitur, quod a,b,oc, e,
parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut b, a,oc, f, parallelæ funt,quia
triangulus a, b, c, habet tres duoc bus rectis equales, fed a, b, c, triangulus
habet tres Angulos duos bus reftis equales, quia a, b, & c,e, parallelæ
ſunt,igitur a, b,a col, parallele ſunt,,quia parallelefunt, quod uanum eft,
oprobare quipe piam prius per aliquod pofterius, quod pofterius æget illo
priori adſui probationem. Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec,
d, queſit parallela ipſi a, b, per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat
angulus e, c, d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea,quod d, 0,4, ſit
æqualis angulo b, a, 6, quod eſſe non poteſt, niſi b, d,egu c, d,"
parallele fupponantur, fic b connectatur inductio, quia Trian gulus a, b, c,
habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a,b, c,d, &quia paralellæ funt,
ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis, igitur paralella funt, quia
parallele fit. a: í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC. VONIAM
idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe inconue
niens, ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus intrinſeco,
& fi triangu lus haberet plures rectos duobus. Quod autem parallela a, b,
c, d, coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus e, 8, 6, maior eft
angulo intrinſeco g, b, d, (quod quidem ſummitur falfum, pe nes quodſequitur
impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales
duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores duobus reftis per illam
igi tur communem fententiam, ſi una f recta ſuper duas rectas ceciderit at que
ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci fuerint minoris duobus reétis,
illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum concurrere neceſſe erit, fi
protrahantur. Et fi triangulushaberet plures rectos duobus. Duo Anguli g, h, k,68,
k, h, ſuntmaiores duo. bus re&tis, multo magis igitur b, h, k, d, k, h,
ſuntmaiores duos, bus rectis,igitur duo a, h, k, k, h, ſunt minores duobus res
a. h b & is, quia omnes quatuor 6, h, k. a, b, k. d, k, h. @c, k, h. og
ſunt æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam,igitur
b, a, d, c, f adpartem a, c, protracte concurs rent, per illam animi
conceptionem,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos angulos'ex una
parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem protracte
neceſſario concurrent. ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ FIT
SECVNDVM SVSPITIONEM. ELVTI fia, ineft omnib, buero omni c, a omni c inerit, fi
itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni, cuib, nouit & quòd cui c, fed nihil
prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b, triangulus,in
quo uero c, ſenſibilis triangulus, fufpicari nanque poflet aliquis non eſſe c,fciens
quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare fimulnoſcet,& ignorabit
idem. Textum ſimilem habes in pofterioribus in principio primi,preu ter ea, quæ
ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius Textus, prie mo littera exponatur,
omne b eft a, omne c eſt b, igitur omne ceſta, uel omnis triangulus habet tres
duobus rectisæquales, qui conſtitutus eſt in tabula est triangulus, igitur qui
conſtitutus eft in tabula habet tres: duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o
charateres terminos,omne, b trigonum eſt habens tres angulos duobus rectis
æquales, omnec fen. fibiletriangulum eſt triangulum, igitur omne c ſenſibile
triangulum habet tres angulos æquales duobus re &tis. Cum teneret quis hanc
uni uerfalem, omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis nondum
fciebat, quòd ſenſibile triangulum effet huiuſmodi, quòd han beret tres,
uidelicet duobus re &tis æquales, niſi potentia, non autem actu; quàm
primum autemfyllogizauit ſubſumptaminore, statim intua. lit, «cognouit, quod
ſenſibilis triangulus, tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait
ſuſpicarinanque poſſet aliquis, non eſſec, non eft intelligendum, ſic ut Græci,
o omnes exponunt, quaſi quod ignos retur an fit c, fed hoc non uult Ariſtoteles
dicere,ſed cum inquit fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c, hoc intelligas
modo, quod stante prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat tres duobus re
&tis equales, licet non ignorauerit c effe, fed ignorabit c eſſe huiuf
modi, utputa, quod habeat tres duobus rectis æquales; ſcietigitur po tentia in
uniuerſali propofitione, Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat
fyllogiſmus. Syllogiſmo autem fačto,feu fa & ainduftione Geos trica de qua
inprimo posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus
duobus re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi. Cij 20 IN SECVN.
RIO. ARIST. mulſcire, ignorareidem ſecundum diuerſa, ut ſcire potentia iniſud
uniuerſali, & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter, ut pus ta in
particulari. DE ABDVCTIONE. UT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb, c, nanque
& fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo autem e,re
etilineum, in quo uero z circulus, fi ipfius é z ſolum eſſet medium,hoc, quod
eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce ſīpoflet prope ipfum
cognofcere. In predicamento ad ili quid circa quadrare circulum fuit
determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem, e de quadratura
fuſius in fragmena tis noftris, fuper Logicis, multa declarabo, quo ad
preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum, cuius minor, cumſit dubia e
oba ſcura, dicit unum eſſe medium ad probandam illam, arguit e, rectilis neun,
d quadratur, ſed z, circulus fit reetilineum, igitur circulum quadrari,poſſet
quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho, Hypocrates chiusprobare
per id medium, quod lunulas ad rectilis neas figuras nixi ſunt reducere,
diuerſis tamen medijs, alio enim mos do tentauit Antipho, o aliter Hypocrates
chius, qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad quadratum, eo artificio,
quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum, oſyllogiſmus connectatur ſic, ut
fimul dicam characteres, me terminos Ariſtotelis, e, rectilinea figura, d
quadratur, fed z circulus e figura rectilinea facta est, igitur zcirculus, d,
quadratur. IN PRIMVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA
INTERPRETATIO. TEXTVS SECVNDVS. VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere,
alia nanque, quia ſunt prius opinarineceffe eft,aliaueroquid eft, quod dicitur
intelligere oportet, quædam autein utraque, ut quoniam omne quidem, quod eſt,
aut affirmare, aut negare uerumeſt quia eſt, Triangulum autem quoniam hoc
fignificat; ſed unitatem utraque, & quid ſignificat, eſt quia eft, non
eniin fimiliter horum unumquodque manifeftum eſt nos bis. Græci omnes, pariter
& Latiniuniuerſi confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem, nedum
qui ſcripſerunt, fed etiam recens tiores, quihac tempeſtate eum interpretantur,
& priuatis colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum
pofteris omnis bus prebuit. Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus, ſuper
hoc Textu in cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis
ſententiamfcripſit, qua decaufa, ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ
logicorum utilitati conſulens, lucidum, facilein, atque clarum Aris stotelem in
hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in
futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan
rißimiPhilofophilabefactetur, ſcito in primis, tres eſſe modos pres
cognofcendi, quos Aristoteles ponit, in hoc Textu, unicuique hos rum modorum
aptißimum,atquefacilimum exemplum poſuit, feruans exemplorum ordinem cum ordine
modorum precognofcendi, ſic, ut primo precognofcendi modo primum exemplum aptet,ſecundo
modoſe cundum, atque tertium tertio. Nequete perturbet, quod Ariſtoteles IN
PRIMVM LIB. ait, dupliciter fit neceſſarium præcognoſcere'. Tripliciter autem
dixes rim ego, primo autemmodo, opus eft præcognoſcere, quia eſt tantum, alio
autem modo, quid eft id, quod nomen dat intelligere folummodo quos duos modos
ab inuicem ſeiunctos, in tertio modo in unum aggregat uerum methodum
compoſitiuam ſeruans. Duo igiturfunt modi precos gnoſcendi, alter quidem in
parte oſeparatim, reliquus uero in totum, oin parte quidem biffariam. Vnus
tantum quia eft,reliquus uero tans tum quid ſignificet, in toto uero ille eft
modus, qui horum utrunque in ſe comple &titur. Exempla Ariſtotelis multos
Geometric ignaros turs batosego stupidos reliquerunt, qui ab Apoline reprehenfi,
&fpreti à Platone, uagantes fomniauerunt, hoc in loco, tria attůlliſje
Ariſtotes lem exempla, in ſcientijs diuerſis. Nempe Methaphisica,Geometria, O
Arithmetica, quod chimericum eſt, ex ipſa uunitate magis uanum, fi enim
ueftigijs fapientum Methaphiſices,Geometrie, & Arithmetica, prima limina
attigiſſent, non incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim, quod
artificio, id Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum
uniuerſale est, tria exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus
fpeculatiuis, &uniuerſalißimis attuliffe, ſic, uttandem concludant in ſua
expoſitione Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere,
&uarias plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere, ut tandem tria formoſa,
&pulcru exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione, datum
eſſet unitas, queſitum triangulus, e principium Methaphiſicum, ualeat pereatque
cim ins terpretibus hæc interpretatio. Non est Ariſtotelis confuetudo, exeine
pla afferre (aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi,ut
do&trina, que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura, atque diffi cilis,
fole clarior, atque perfacilis omnibus reddatur, quid rogo cons fufius, quàm in
una re logica explicanda, tria exempla mutila, o tim diuerfa afferre? ut in
unotantum quia,in alio exemplo,folum quid,c. in tertio exemplo, ey quia,
&quid, ut tandem in piſcem definat fora mofa demonſtratio. Dico, omnia tria
exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque determinata Arte; uel diſciplina
Geometrica, quicquid Niphlus fentiat & fequaces, ex nulla eſt alia ueritas
in hoc Ariſtotelis Textu, neque uerus fenfus, qui ad Ariftotelem faciat preter
hunc, quem fubfcribo, uelint nolint omnes atque uniuerſi, qui philoponifena
tentie initi uidentur, quem nullo modo ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito
primum, quod de lineis re&tis a centro ad circunferentiam du &tis
POSTERIORVM ARISTOT. Veruin eſt dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non
equales, ut etian de quolibet quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum
est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia,uel
in terſe nonſunt æqualia, uerum est dicere quia eſt,ſed alteram partem hu ius
diſiun £ ti fummit Geometra deffinitione xv. primi Elementorum, cum Similiter
alterum alterius diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi
elementorum, &hoc est uerum, quia est linearum à centro ad circunferentiam
protractarum, ut adinuicem ſintequales, « prima ani mi conceptionis,utſiab
æqualibus equalia auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum
poſitum est,quid hæc uox, Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra
deffinitione xxi. primi Elemen torum, ex ſignificatfiguram tribus re &tis
lineis contentam,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit, Quatenus tamen quæritur,nondü
habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem,quæ quidem unitas,
a quid ſignificet, quia eft,utrunque habet. Hanc ego unitatem contra oma nes
loquentes, « ad Ariſtotelis ſententiam aio, eſſe non eam, qua unaquaque res una
dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab illa unitate, quæ
eſt principium numeri dicitur, nempe una linea recta data ſuper quam triangulum
collocare oportet, ſiue ille fit æquilaterus, ut Euclides proponit, uel
iſoſcelesaut gradatus, ut Arisſtoteles querit in uniuerſum, quod quidem Proclum
diadocum,& Cam panumfuper primum primi Elementorum, non latuit, quæ unitas
linea feu quæ linea una concluditur in decimaquarta primi Elementorum, tàm quàm
queſitum, in qua quidem decimaquarta primi Elementorum ni hil de unitate, quæ
fit principium numeri, ſed, una linea concludi tur, quæ linea una eſt datum
inprimo problemate primi elementorum Euclidis, de qua lineæ unitate
precognoſcitur, quid, utſit a puncto in punctum breuiſsima extenſio per
diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum, precognoſcitur etiam, quia est,cum
ipfa detur in prima pros poſitione primi elementorum. Ab Euclidis igitur
methodo non recedens Ariſtoteles facilitat, declarat exemplis ubique
locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana Ariſtotelis interpretatio
eft, alia, ut dixi nulla, fomnia igitur quæcunque diluantur, putas ne Arie
ftotelem afferre illud Methaphiſice principium, nullo modo ad artem ali quam
peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica inſtituendo? ubi Methodus? que
maior ordinis peruerſio? quis nam in Logicum eua dere poterit niſi prius
Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11 nam, IN PRIMVM'LIB. 2 tate
plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas. De unitate aus temdicit
Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere, ſicut docet Euclides pros
poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum, fi unitas numeret quemli bet numerum,
quoties quilibet tertius aliquein quartum, erit quoque, pernutatim,ut quoties
unitas numerabit tertium, toties ſecundus quar tum numerauerit, datum inquit
Ioannes, eſt unitas, quæ eft principium numeri, de qua habetur &quid, &
quia eft, o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes ueritatem quidem dicere, licet non
ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod Ariſtoteles neq; exponitur, &
quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit,ut quod unitas,quæ eſt principium numeri,
fit datum,non enim eſt unitas datum in ſextadecima ſeptimi Elementorum, fed
unitas cum refpeétu ad numerum aliquem, quem numerat, eſt datum, que = ſitum
autem eſt, ut ipfa tertium numerum numeret, ut ſecundus nus merus numerat
quartum, quemadmodum amplius declarabitur in de tris plici errore circa
uniuerſale.Preterea dignitas ſiue premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt
duodecinaſeptimi Elementorum, que probatur per precedentes, onon eſt immediatum
principium,exponitigitur Ariſtoc telem per unam demonſtrationem, quæ non
procedit per immediata prin cipia, quod non eſt imaginandumin hoc propoſito,
preualet igitur ex poſitio de unitate lineæ, quia ibifit deductio per immediata
principia ut per xv.deffinitionem,& prima animi conceptionem primi
Elementorum Ecce quàm aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis.
Die co igitur datum, eſſe unam rectam lineam, quæſitum, ut ſuper ipfarn
trigonum conſtituatur, &quod, id conſtitutum, ſit trigonum, probas tur per
decimamquintam deffinitionem, vprimam animi conceptionem primi elementorum.
TERTIVS TEXT V S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem. Aliorum
vero, & fimul notitiam capientem, ut quæcunque, con= tingunt eſſe ſub
uniuerſalibus quorum haa bent cognitionem; quòd quidem omnis triangulus habet
tres Angulos æquales duobus rectis præfciuit, quòd uero hic, qui in ſemicirculo
cft, triangulus fit, fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM
ARIST. ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles, primus, qui eft per reminiſcens
tiam,de quo nondubitarunt antiqui. Alter uero, es ſecundus est, quo de nouo
aliquid ſcimus, qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo,
ſit noſtra expoſitio. Ioannes Grammaticushanc para ticulam, fimul inducens
cognouit, interpretatur fic,ut per inducen tem intelligat eum, qui habens
triangulum in ſemicirculo pićtum, ofub penula abſconſum, oftendat eum
triangulum eſſe, quaſi abijciens penus lam, ey aperiens manum obijciat ipfum
triangulumoculis uidere uolens tium, &Latini omnes fimiliter,& Aueroes
fequuntur ipſum in hac interpretatione. Non poſſum non mirari hominisiftius
alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium,que quidem interpretatio,
fi ads mitatur,statim uidetur, quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus, id do
ceat, quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti
textu,Nemoaccipit talem propofitionem,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle
triangulum,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd
neſciebant eameffe parem, quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas. Ioannes
&omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa
littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus
fit, fimul inducens cognouit;cognouit quidem quodfit triangulus, per
induétionem, id eſt per oſtenſionem ad oculum, aperta manuin qua abfcondebatur,
ſic ut illa induétio certificet de eſſe triangul, quod ridiculum est, o uſque
ad hæc tempora, falfum pro uero habitum,henuga deſtruunt Ariſtotelis ſententiam;
non enim Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum
ſit, neque igitur estopus, ut dubium remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd
trigonum ſit, quia ut dixi, hoc non reuocatur in dubium, ſed has bita, hac
uniuerſali,omnis triangulus habet tres æquales duobus res Etis, dubitatur an
qui in ſemicirculo eft triangulus, &qui quidein a &tu uideturſit
huiufmodi, utputa, quòd habeattres angulos equales duo bus rečtis, quod quidem
manifeftatur non per ſenſitiuum indu &tio s nem, quia per illam oftenditur
tantum quòd fit triangulus, ut illi mda li interpretes exponunt. Neque id
oftenditur per inductioncm Topia cam, que à particularibus ad uniuerfalem
procedit, ocontrariatur huic poſterioriſtico proceſſui, quifit ab uniuerſali ad
particularia, rea ftat igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur
Ariſtoteles, quam dicunt aliqui elle ſenſitiuam, aliter tamen ſenſitiuam quàm
loans nes Grammaticus intelligat, dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1
D IN PRIM VM LIB. couptatur in Syllogiſmoſic, omnis triangulus habet tres
angulos equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo, eſt triangulus,
igitur hic qui in ſemicirculo, habet tres duobus rectis aquales,ecce
inquiunt,quos modo minor eſt ſenſitiua, quia ponitur illud pronomen oftenfiuum,
isti funt in errore maiori forſan quàm precedentes, putant eniin quod illud
pronomen, &fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum, quid igitur dicendum
erit de hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius,
huic Apolini coronam Papus, iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum;
ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat, non ne omnia
ifta pronomina oſtenfiua, funt ad intela lectum, & ſi quandoque per
accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua? ideo pronomen in iủa minori, ſiper accidens
oftendatad ſenſum, oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum, aliter cecus
non poffet illum Syla logiſmum efficere, quòd manifefte falfum eft, ueritas non
eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes,quod ila inductio
nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris, fed hic qui inſemicirculo est
triangulus, fub illa uniuerſali nota, omnis triangulus habet tres angulos
æquales duobus reétis, illam quidem diſpoſitionem premijarum in figus ra
&modo, uocant inductionem, hoc autem non facit fatis ad Ariſtotea lis
litteram; quia ante quam inferatur concluſio, neſcitur de triangulo conſtituto
inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales niſi po= tentia, poſt quam
autem illatafuerit concluſio,fcitur a &tu, o noi ama plius potentia, quòd
uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma pletus ſyllogiſmus,
fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula,habet tres æqua, les duobus rectis.
Agamus igitur & nos,o. Ariſtotelis litteram prius diſponamus, ſubinde
ſententiam exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo conſtituto fimul
inducens cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum particularem
trianguluna, quòd habet tres æquales duobus rectis, &hoc,inducens, uerbum
hoc inducens du asinductiones ſignificat. Alteram Geometricam,reliquam
ſyllogiſticam, quæ etiam ordine ponuntur in littera Ariſtotelis dicentis,antequàm
in duétum ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus, quæ duo uerba, non ſunt fynow nima,
ita ut und &eadem res per, utrunque uerbum, inductum ſit, uel fa& usfuerit
fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non utitur termin nis ſynonymis,neque
Ariſtoteles multiplicat uoces, terminos ean dem rem ſignificantes. Dicendum
igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio, &aliam ifta uox,fyllogiſmus,ſignificat,
non gūteſt indu &tio aliqua POSTERIORVM ARISTT. prediétismodisfupra
citatis, ut probatum fuit, relinquitur igitur, ut inductio per quam
ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus reitis is,qui infemicirculo defcriptus
est,nulla alia fit,neque excogitari poſsit quàm Geometrica induétio. Ila autem
huiufmodi est, fuppofita deſcription per trigeſimamprimum primi Elementorum,
Angulus c b d eft æquas lis ang ulo & c b, per primam par tem uigeſimenos
lice primi Ele - mentorum Euclia dis, &Angulus dibe equalis eft ang ulo cab
per fecundam partem uigeſimenone primi elementorum, totus igitu * cbe, eſt
æqualis duobus angulis cøa, fed cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum
equiualet duobusrectis, igitur angulia, cum eodem c b a, funt equales duobus
reétis,quod inducendum erat, de triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui
triangulus non erat abſcon fus immo ante oculos offerebatur, tamen illa
oblatio,non erat inductio de qua Ariſtoteles intelligit, quam inductionem quis
unquam utcun queetiam intin &tus litteris dicet, unum eſſe fyllogifmum?
quofyllogif mounico (it inferius declarabo) poteratidemfyllogizari, neque
enthis meina unum eft, cum ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und
tantum conſequentia eft, quòd neque Topica, inductio, patet; quia ibi à
ſingularibus ad uniuerfalem progredimur,in hac autem induétioneper
decimamtertiam Guigeſimănonam primi Elementorum,quæ uniuerſales magis funt
quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi Elementorum per quam patet intentum de
triangulo in tabula conſtituto. Neque mi reris quod in hacinduétione non
fumitur illa maior, omnis triangulus habet tresangulos æqualesduobus re&tis,
quia illa fumiturin inductione fyllogiftica, in inductione uero Geometrica,
fumitur decimatertia,cui gefimanona primi Elementorum, in utraque induktione
cumGeometri ca,tum etiam fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad
particulare,uel ad minus uniuerſale, Syllogiſtica uero induétio,ex duabus
premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit, quafyllogiſtica indu &tione
fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum partitionem loan.Grammatici,uel
Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna, pero expoſitione Tex.clxiij.prima
Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum, & alibi, habita o ſcita hac uniuerſali,
omnis triangulus habet tres equales duobus reétis,fatur modo aliquo idem de
conſti tuto in ſemicirculo triangulo, ſimpliciter autem non fcitur,ofacta ine
duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur, quod qui in femicirculo eft triane
gulus, ſit huiuſmodi, ſicut ſcita decimitertiaeuigeſimanona primi elee
mentoruin ſcitur potentia, quod qui in ſemicirculo eſttriangulus, duo bus
rectis tres habeat pares,licet nefciat, an qui in ſemicirculo,fit triana
gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem, o ſimpliciter fcitur per
Geometricam induétionem, quæ ſemper ex ueris, primis, caufis ila latiuis
conclufionis, ex magis notis procedit, non autem ex immediaa tis ſemper, nequc
ex cauſis quedant eße, fed ex his tantum, quæ dant propter quid iŪationis, tale
inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam uoco,non est una conſequentia, fed
plures, ut plurimum, neque per immediatafemper procedit,fedalternatim per
immediata, oper ea que probatafunt procedit,inmediata autem, uoco propoſitiones
per fe notas, etiam illas propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant
fequentes, de hoc quidem toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit,
nifi per particulas illas, utſupra commemoratas, ut ex ues ris Oc. Tractauit
tamen de fuis partibus, ut de enthymemate, quòd pluries fumitur in tali
induétione Geometrica,o de fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non
tamenadunun tantum,ſed ad pluresfyllogif mos, neque uelim dicas propter hoc,
quod Logica, Geometriam debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que
natura nobis ſuccurrit. Quorundam enim hoc modo diſciplina eft, & non per
inedium ultimum cognofcitur, ut quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de
fubiecto quoppiam. Hunc locum Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum
quidemdicunt, ſed in fua ues ritate duo errores continentur, primus eft, quod
interpretatio non est ad propofitum, fecunduserror, quia id quodaiunt
contradicit huicloa ÇO Ariſtotelis, inquiunt enim, quod per medium, ſcitur
ultimum, hoc est, quod ultimum. Nempe maior extremitas concluditur per medium
de ipſa extremitate minori. V.ideas quanta fit horum hominum uanitas,
Ariſtoteles negatiue loquitur. Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi
autem uani exponunt, per medium ultimum cognofcia tur, aduertendum quod medium
in propoſito intelligit Ariſtoteles,quod non tantum fitu,medium intelligas,
quod bis in premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam,
quodquid eft ipſius rei, ut POSTERIORVM A R IST. fparfim in primo poſteriorum,
e in ſecundo manifeftuin eſt, in pri moenim, Textu 201. Juxta partitionein philoponi,
uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem; ait Ariſtoteles, quod
uniuerſale mon ſtratur per medium, &non particulare; uerbi gratia,hic non
per mea dium,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates eſt riſi
bilis, ly enim hono, non eft quodquid est, ſed eſt ſubiectum, hic uero per
medium, omne animal rationale eſt riſibile, omnis homoeſt aniinat rationale,
ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium, fi inftes
fic,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal rationale,igitur
Socrates est riſibilis. Dico quòd hoc non eft per fe,eta primo de Socrate, quòd
fit animal rationale, nec etiam riſibile per ſe, & immediate,argués igitur
fic,omnis triangulus habet tres æquales duo bus rectis,fed qui in ſemicirculo,
eſt triangulus, igitur qui in ſemicir= culo habet tresæqualesduobus rectis. Ibi
enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed potius ſubie &tum, feu genus,
ibi igitur non eſt demonſtras tio, licet fit fyllogifmus, &fi adhuc
inftetur,quod per decimumtertiam &uigefimamnonam prini,demonftretur quòd
qui in femicirculo, ha beat tres equales duobus rectis, igitur ei qui in
ſemicirculo eſt, non con uenit; quia triangulus;fed per decimamtertiam
euigeſimamnonam pris mi Elementorum. Dico quod in inductione Geometrica, qua de
triana gulo in ſemicirculo cöftituto oftendebatur,quod habet tres æquales duos
bus rectis per decinătertiam (uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit
triangulo quatenusſit in femicirculo deſcriptus, fed ut trian. gulus eſt, ut
oſtenditur ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elemen torum,fecundoautem,
&per fe non immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur
ſingularium (quorum quodque non predicatur de ali quo ſubiecto,
quiafingularenon predicatur deſubiecto aliquo, ut in pre dicamentis
determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est, non per medium, ultimum
cognofcitur, cognofcitur quidem ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe
minori,fedhoc non permedium, id est non per quod quid est. Si vero non eft ita,quæ
in Menone contin. get dubitatio, aut enim nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ
prius nouit addiſcet non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur foluere dicendum
eft particula illa. Si uero non eſt ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab
uniuerſali ad particulare progre diendo; tunc, quæ in Menone eſt, contingit
dubitatio, particuld illa: Non enim iam. Yerbum illud iamfuturi temporis eſt,
fic utfit ſens I N P R IM VM LIB.ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos
fcire de nouo,quod id addiſcimus, quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas
poſt hac, eo modo, quo illi nitebantur foluere, fed eo palto ut predocui, it de
omni dualitate fciens quod par ſit, de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea
fcis potentia, quodſcit par. Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt.
Exponunt Latini &Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil
fcia rede nouo,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos, qui dices bant
quod de nouo fcimus, &nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem,hoc
argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe
parem, nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire, ita eſſe, ſübinde
atulerunt Platonici dualitatem dicentes, igitur fciebatis etiam hanc dualitatem,
quam manu tegebamus eſſe pas rem, quod tamen effe non poteſt, quia nefciebatis
ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio, prius fatebantur ſeſcire
omnemdualitatein eſſe par rem, &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe,
quod manifeſtum contradictorium eft, reſpondebant autem illi, qui dicebant
nosfcire de nouo, quod interrogati de omni dualitate, an par effet,
reſponderunt non de omni dualitate abſolute, fed de dualitate quam utique
dualitatem effe ſciebant, modo de illa, quæ abfconfam tenebant, oque non erat
fibi nota, ut eſſe dualitas, non fatebantur illam eſſe parem, quia neſciebant
illam effe dualitatem, ita ut hec expoſitio, eotendat, ut Ariſtoteles res
prehendat illos, qui dicebant nos ſcire de nouo, quia male foluebant Argumentum
Platonicorum, xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni. Cos. Expositio autem mea,
e directo opponitur, huic omnium expofie tioni, ſic ut Ariſtoteles arguat
Platonicos male foluentes argumentum dicentium nosfcire de nouo, & contra
hos dicentes, quòd fcimus deno uo, nihil in hoc Textu dicit Ariſtoteles. Pro
cuiusfententia declaranda, Queritate, est in primis aduertendum, quod in hoc
textu, quoſdam in telligit Ariſtoteles dicentes, quòd de nouo nos fcire
contingit aliquid, quod tamen etiam preſciebamus in uniuerfali, oiſti inquiſitiuo
argu mento probant intentum contra tenentes, quòd ron ſcimus quippiam de nouo,
quorum negantium de nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa teles,
einterargüendum, peccant og errant in perſuadendo id, quod probare nituntur,
quem errorem, &peccatum dicentium nos de nouo ſcire, non redarguit
Ariſtoteles propter duas cauſas, altera est, quia eft adeo manifeftus, ut fine
reprehenſione à quolibet cognofcatur pre POSTERIORVM ARIST. meil, habita
intelligentia primi textus huius primi, reliqua caufa quare: non eos redarguit
est, quia primo textu feclufit fuam perſuaſionem, dicens omnis doétrina, o
diſciplina intellectiua a diſcurſiua, ex præexiftens ti fit cognitione, ex
preexiſtenti non quidem ſenſitiua, quia illa à Singue laribus ad uniuerſalem,
hæc uero poſterioriſtica e contrario, ab uniuer ſali ad fingulare procedit,
ideo eos non reprehendit Ariſtoteles, quia, quifq; per fe intelle &to primo
Tex.cognoſcit; quo modo errabat ilii inter arguendum. Inquiunt enim arguentes,
noftis neomnem dualitatem effe parem necne? afferentibus Platonicis attullerunt
eis quandam dualitas tem, quam non exiſtimabant eſſe, quare neque parem, en
dicebant iſti arguentes, ſciebatis in uniuerſali, quod omnis dualitas est par,
otas hoc, ideſt paritatem de hac dualitate, qua manu abſcondebatur neſciebatis,
quiaignorabatis quid eſſetin manu, num dualitas,uel quips piam aliud, autnihil,
« nunc uos fcitis iam per apertionem manus prius eam tegentis, in particulari
hanc determinatam, & particularem dualitatem eſſe parem, ecce quomodo ab
uniuerſalicognitione deuentum fuerit in cognitionem particularis, quod prius
dubium apud uos erat. isti ſic arguentes peccant contra primum textum, utſupra
dixi, ocon tra Tex. 112. Neque per ſenſum eft fcire, putabant autem isti ars
guentes illam intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu diſciplinam. Quia tamen
cum Ariſtotele in intentione, quod de nouo fcimus, & quia etiam error in
perſuadendo manifeſtus eft, ut predocui, de intelle &tiua quidem &
diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in uniuer ſali etiam in
Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos,tam quàm non concludentes
propoſitum, quodfatebantur, & diuertit ſe ad Platonicosmale foluentes
argumentum,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus non poſſumus de nouo
addiſcere, uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt argumentum ſic, non
enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem, neque dixerunt ſeſcire
omnem dualitatem eſſe pa rem,ſed dixeruut dualitatem, quam utique nouerunt
dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id, quod manu tegebatur effet
dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel etiam imparem,quiaſic
aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted,an parfit,uel etiam
impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe parë
uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc ſcire, quam quidem dualitatem
eſſe nouerant, uerum eſſe, ſed de dualitate in manu abſconſa, nihil fciebant,
nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo nefciebant IN PRIMVM LIB. 3 idem
uno modo, ut in uniuerſali de illa dualitate,quòd effet par, u idem ut quod
effet par ignorarent in particulari, atqui ſciunt cuius des monſtrationem
habent, & cuills acceperunt. Acceperunt autem non de omni, de quo utique
nouerint; quòd triangulum aut quod numerus ſit, ſed fimpliciter acceperunt;
illi arguebant deomni numero duali, atque triangulo,&c. Similiter
reſponderunt illi, quod ſciebant omnem dualitatem efle parem. Verba hæcfunt
Ariſtotelis contra tales reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat, aut
nulla propoſitio accipitur talis, quòd quem tu. noſti eſſe numerum dualem,
nofti ne eſſe parem? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum, quòd
habeat tres æquales duobis reétis? ſed accipit de omni numero duali, ede omni
figura rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito colloquio
fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd par fit,autnon?ines
ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit Ariftot. reprehendens
quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo fci re dicentes perperam
arguentes; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter id, quod potentia
ſciebamus epylogando dicit, Sed nihil (ut opinor) prohibet, quod addiſcit
aliquis ſic in particula ri, ante ſciuiſſe in uniuerſali, & in particulari
priusignos raſſe, abfurdum enim non eft,fi nouit quodam modo, quod addiſcit,
ſed ita eſſet abfurdum, ut inquantum ads diſcit, co pacto ſciat. Idem diſcurſus
&expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum, in capitulo de Deceptione
ſecundum fufpitionem, qué etiam Textum perperam interpretātur pſeudo
philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur, noſti ne omnem
dualitatem eſſe parent nec ne? annuat quod ſic, o ſi offeratur abfconfa in
manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe, licet
neſciat a & u, quod dualitas ſit,e eft fententia Ariſtotelis Textu 101.0 in
hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft fecundam
eſſe pres ftantiorem prima?niſi quis dicat primam eſſe preſtantiſsimorum philo
fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium prefertim iuniorum mentem
Ariſtotelis interpretantium, fecunda uero interpre tatio noua est, o hominis
uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra tam
preclariſsimosphilofophos, quihæc uerba, &fimilia proa ferunt ex Macrologia
loquuntur,non ualentes intelligere nifi ea, que auctoritate proponuntur, fpreta
ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM ARIST. neruditus est,
quipPomba Platonicos, qui ætatem confumpferunt in fua opinione de reminiſcentia,
argumentari contra Peripateticos, niſi a Peripateticis prouocati ſint?
&quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur? quo pa &to excitabuntur,
nifi co argumenti modo, quem in ſecunda interpretatione narrauimus? deinde
quare magis redarguit Ari ſtoteles ſemiperipateticos illos, qui
conueniebantfecum in concluſione, quàm illos, quie diametro cpinabantur contra
ipfum? depoſitaigitur emulatone iudicet id quiſque, quodmagisueritatem ſapit,
uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum, & erit,fifecunde interpretationi
be rebit, primafpreta, &neglecta omni ex parte. TEXTVS NON VS. ERA quidem
oportet eſſe,quoniam non eſt fcire quod non eft,ut quòd diameter fit fie meter.
De diametro, coſta pluribus locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus,
& in Methaphy: ficis, quapropter, hoc loco declarabo eius fententiam, ut
poſteafit omnibus in locis clara, primoſcire debes, quod uera eſſe oportet ea,
quæ fciuntur, ita ut ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in
concluſione, &non pro ueritate, quæ in prins cipijs est, a hoc probat
indire & te, quia fi falfum ſciremus, utputa quod diameter eſſet
commenfurabilis coſte, tunc imparia æqualia paribus fierent, o e conuerſo, ut
ſi paria equalia imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis,
quod estfalfumſi igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris, fed
pofuit, quòd fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris,
quod eſſe non poteft per immea diatam contradi tionem.Diametrum
igiturincommenfurabilem cofte ef ſe noſcimus, quia impar pari æqualisnon eſt,in
qua re,talis eſt demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum,
qua ducitur ad hocincommodum, pofita iſta, quòd diameterſit commenfurabilis co
ftæ,fequitur, quod numerus impar eſſet par, quod eftcontra primum principium ab
Euclide poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam
nono Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum. In quare demonftranda fit
diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi
Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum, quia illa
communis, mene Б IN: P R I MVM LIB. b Cee '. fo... h............. g k.... ei6
fo L. m 64 kıż8 h 81. a. fura,fehabebit ad illas duas lineds, diametrumfilicet,
&coſtam a bigo á c, ficut unitas ad unum atque ad alium numerum,unitas enim
ut duos numeros illos metitur, ſic illa communis menſura diametrum, o coſtam
dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte, quòd quoties continebitur in uno ats que
altero numerorum unitas, toties illa communis menfura, quæ linea eft,
continebitur in diametro, atque coſta, fint ergo numeri e @ f, qui ſint minimi
in fua proportione, eritque ob hoc, alter eorum impar, quod fic probatur, fi
enim uterque eorum effet par, non eſſent iammis nimi in fua proportione, ſi
enim par uterqueſit,uterque biffariam die uidi poſſet, outraque mediet asunius
ad utramque alterius medietatem eandem haberet rationemficut totum ad totum,quorumfunt
medietates, ut patet de octonario atq; ſenario, cuius medietates ſunt quatuor,
& qut tuor, atque tria etria,eadem enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua
tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi inſua proportione quod est contra
aſſumptum, quia fuæ medietates effent minores, quadratiigitür illorum minimorum
e « f, ſint ge h, ſi ergo e eſſet impar, a f par, erit quoque per trigeſimam
noni Elementorum g impar, fit itaque k duplus ad h, eritque k par,ex
deffinitione prima noni Eleinentorum, quia igitur a b ad a c, ut e -ad f, erit
per decimamodtauam fexti, ego decimāprimam octaui Elementorum, quadratum ab ad
quadratum ac, ut g ad h, eſt itaque g duplus ad h, ſic enim est quadratun a b
ad quadratum a c per penultimam primi Elementorum, quia ita k, etiam dupluseft
ad h per affumptum,ſequitur per nonam quinti Elemen torum, ut g numerus impar,ſit
equalis K numero pari. Quod fi e fit par, f impar, erit proportio f ad dimidium
e, quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIST. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad, o ideo
erit quadrati a c ad quadratum a d, ficut proportio numeri h, quieſt impar per
trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L, quifit m, cui K poa natur
effe duplus, eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par, at quia
quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi Elementorum,
erit h duplus ad m. Cumque Kſit etiam duplus ad m, erit per nonam quinti, impar
b, aequalis K nus mero pari, quod impoßibile à principio proponebatur
demonftrandum C f............ go!" k...... A Et ſi diceretur, quòd uterque
eorum, quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar, ut quinque ad tria, ut
ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint go b, eritigitur utraque
eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni Elementorum, ſit itaque K duplus
ad h, eritque k par ex deffinitioneprimanoni Elementorum,quia igis. tur a bad a
c, ut e ad f, erit per decimamoctauam fextielementorum vundecimam
octaui,quadratum ab ad quadratum a c, ut g ad h, eſt. itaque g duplus ad h, fic
enim est quadratum a b ad quadratum ac, per penultimam primi elementorum, &
quia etiam k duplus est ad h.. per affumptionem fequitur, per nonam quinti
elementorum, ut g numea rus impar ſit, æqualis k numero pari, quod est
impoſsibile. Illatum, ſeu concluſio habita per hanc induftionem Geometricam eft,quod
impar par ſit, Ariſtoteles autem dicit, quòd diametrum effe comenſurabilem
coft.e non ſcimus, quia ita non est, ſic ut illud fit conclufum, wnor af
fumptum, ut in predi&ta indutione fa& um est. Vt autem fiatconcluſio
Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id, quod aſſumptum fuit, aduertendum, quod ut
Ariftoteles in prima Poſteriorum determinat, Geometra non parallogizat, fed
tota illa Geo metrica inductio est conſequentia formalis,quæ in omnibustenet,
cs.com cludit,nequeinquit, parallogizat Geometra, ut textus 62 probat Arift.
ſubinde aliud etiam eſt aduertendum, ut in Topicis determinatAri ſtoteles,
oſparſim in Logica fua, quod illa formalis eſt conſequentit, quando ex oppoſito
confequentis infertur antecedentis oppoſitum, mos do cum ex contradiétione
poſita, ut diametrum cofte eſſe commenfuram bilem,ſequutum fit quòd impar
numerus fit par, exoppoſito igitur con ſequentis, ut per numerus eft æqualis
impari, igitur diameter coms menſurabilis ex coſte, id autem fequitur ex falfo
poſito, ut quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur, non eſſèt ex
ueris, ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe, igitur manifeſta eſt
contradi&tio,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta
commenſurabilis, eft igiturfalfum, igitur nonſcitur, quia uera effe
oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem, quæ quidemeſt utram
libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe,
fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio
eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem,
lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein
eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte
reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft,
ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa
deffinitio,poft quam intellecta ſit,etiam poſitio,cõmuni uoce diéta,et legatur
textus fic paulatim,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum quis
interroget, an unitas fit, uel non fit? annuat quòd ipſaunitas
fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio,
os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad
unitatem, ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam
reperitur, ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque
parteſuper ſe numeri,esſuper illos, alij circumponantur, id toties
fieripoterit,quousq; ad unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum
fuerit,at ubi ad ill.im deuentum erit,non fit ultraproceffus,ut cir ca
tres,quatuor,& duo,etfuper hos,quinq; c unum,medium horū aggre gatorī erit
ternaris, hoc exemplari 1 2 345 signum eftigitur unitate eſſe principium
impartibile omnium numerorīt, ut Boetius in Arithmetica, docet,modo,
exſententia Ariſtotelis, non eſt idem,unitatem fupponere, oipſam deffinire, quæ
deffinitio eſt, unitas eft qua unumquodque unum effe dicitur, uel eft
principium numeri, uel eſt indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili,
diuiſibilis numerus componitur, ad differētiam indiuifibilium fecundum
magnitudinem, quæ indiufibilianon componunt diuiſibile ali quod. Age igitur,ut
Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis ad demonſtratio nem procedere ex
fuppofitionibus, etiam immediatis, fed opus eſt etiam ex immediatis
dignitatibus, que etiam dignitates improprie poſitiones funt, ideo in precedenti
declaratione concludebatur,numerū imparé eſſe parë,quia ex poſitione, quod
diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros cedebatur, &non ex dignitate
&deffinitione intelle &ta,atque poſita. TEXT. DECIMUS ALIAS QVINTVS, CH
fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem oportet credere & ſcire ré, in
huiuſinodihabendo fyllogifmum, quē 110 cainus demonſtrationein. Eft autem fic,
eò quod ea ſunt,ex quibus eft fyllogiſmus,necef ſe eſt, non folumpræcognoſcere
prima, aut omnia, aut quædain ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus
habeat tres equales duobus rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII. ey
xxIx. primiElementorum actu, non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa
x xXJI cognos feenda, omniaautem prima cognofceremus,ſiuſque ad deffinitiones
ago Elementa, ad que illius XIII. XXIX. primireſolutio fieret, que
&fifitfactibilis, tedio tamennosafficeret, fi femperfieret ufqueadele
mentaiſta reſolutio, fedfatis,quod hoc fieri poßit,ideo dicit Ariſtoteles
neceffe eft præcognoſcere prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis
aduertendum, ut declarabo fuſius Tex. 108. huius primi,quòdquanto notitia eft
deſimpliciori, illa, certior eft, quam que compoſitioriseft.Cum autem principium
fit minus compoſităipfa concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit
magiscerta, quam conclue fionis notitia,ideo XIII, XXIX. per quas probatur
fecunda pars IN PRIM VM LIB. trigeſimeſecunde primi Elementorum, ſunt magis
nota, oſcite,quàng illa fecunda pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS
V. MA 1 AGIs enim neceſſe eſt credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam
quam cons cluſioni. Aduertendum quòd magis credere,fine pluri, nempe faciliorem
effe credentiam aliud eft, à credere per demonſtrationem, & propter quid,
fe ptima, atque octaua propoſitiones quinti Elementos rum, primo intuitu quando
inſpiciuntur, facilius eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur
deffinitioni fextæ,atque o &taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis
principijs credimus primointuitu, quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis,
ideo Ariſtoteles ait, aut: quibuſdam, non ſemper omnibus primo intuitu.
Debentem autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet
principia magis cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod
deinonſtratur. Sed & cete. Ada uertas quod & finotitia principiorü
uideatur diſtantior intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt
uniri intellectui concluſionis notis tia,niſi per notitiam principiorum,quæ uidebatur
ab intelle &u remotior, ut in illis concluſionibus, &principijs que
precedenti comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin omnilinea punctum
finiliter eſt. Proprie hoc in propoſito de linea recta intelligas, que atu
punéta habet terminantia, ficut homoactu eſt animal, o fi etiam de circulari
intelligi poßit quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde circulas ri
expoſitio uideturfuperftitiofa, aliena à nas tura exempli, quia exempla per
magisfaciliadantur, ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod fit linea
recta, de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM ARIS T.
TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe autem funt,
quæcunqueſunt in co, quod quid cft, utTriangulo ineſt linea, &: punctum
lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft, & quæcunqueinſunt in ratione di
cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit ſuper hoc textu, uel étiam id
quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot. declarandum, uidetur enim quod tex.
his contradicat que: determinat Ariſtoteles contra Platonem, uidelicet
quodlinea non compo natur ex punctis, præcipue ſexto phiſicorum, primo de
generatione, tertiometaphiſice,ubiex fententia concludit lineam non poſſe ex
punétis componi, quid autem ſuper hoc textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras
dictis dici poßit notaui in prædicamétis, capite de quantitate, uerba aus tem
illa, quia ſubſtantia corum ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea
terminat ſuperficiem triangularem ', pun &tum lineam termis nat, o nullo
modo intelligendñ eſt compoſitiue, ſic ut puncta lineam com ponant, nec etiam
linea triangulum, tametfi aliter ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter
textus hic concipiatur, ftatim fequitur, utſi linea ex punctis componeretur,
quod diameter o coſta eiuſdem quadrati eſſent comenſurabiles, quod textu nono,
eſſe falſum « impoßibile oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram
dimetiretur, nempe per pū &tum, quod eft contra Ariftot. sententiam, &
contra Euclidis ſcitum. Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro,
&ſic pars effet æqualis toti, ut coſta ipſi diametro, pro cuius indu
&tione, ſit quadratum a b cd, cuius diameter a d, Cofta uero a c, in qua
fuſcipiantur duo puncta e, f, immediata ſi poßibile ſit, ut aduerfarius
ueritatis diceret, cum com ponatur ex punétis,à quibus, e, of, pun &tis duæ
lineæ rectæ aufpicens tur innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum
e regione pri me coſte collocatam,certü eft, quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam
diame trum in duobus pun &tis, quæ etiam puneta in diametro immediata
erunt, propter hoc quia lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate, igitur ſi
recte lineæ tot protendantur à coſta in coſtam oppoſitam,quot pū &ta fue
rint in ipſa coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë
linee, nec erit in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua
fic protracta ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia
tunin eſt. Uligas, o achi poßit rcula à ma eguna dicera IN PRIM VM LIB. diata
alterius coſte, ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic
etiam &, ipſih, ſi l, fit immedias tum ipſi m, patet propoſitum,fi au tem
interl,om, intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi
elemétorum excitetur paralles lus K, o, ipſif, 8, uel ipſie, he tunc ipſa cadet
inter gb, ut in pun Eto, o, igitur g h, non erant imme diata,quod eſt
contraaſſumptum,uel extra utrumqueg,oh, uerſus b, ueld, & tunc k o, neutri
linearū f8, web, erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem, patet igitur
quòd tot eſſent in diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea,
quod non componatur ex pun ftis, fic demonſtratur per tertium petitum primi
elementorum, fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor, ocirculus bc, maior,ficira
cunferentia maioris componatur ex punétis,duo immediata puneta fi gnentur b @c,
&per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad c,
hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur
circunferentiam in uno,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in
minori circulo, ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex
partibus æqualibus numero, ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium
punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in
maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars
æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee
a, b, 4, C, ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto, fit ille d, ſu =
per illam a c, erigatur linea recta perpendicularis per xi.primi Elea mentorum
ſecansſilicet eam in pun. &to d, quæ fit d e, que erit contina gens minorem
circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum, iftad, c.cum linea 4 b, ex
xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 2 d IN Elementorum conftituit duos
angulos rectos, aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c facit duos angulos
rectos ex conftru &tione, duo igitur anguli a de, obde, funt æquales duobus
angulis a de, cde per tertiam petitionem prini Elementorum Euclidis, dempto
igis tur communiangulo a d'e, reſidua eruntæqualia, igitur angulus b.de erit
æqualis angulo c d é, &pars toti, quod eftimpoßibile. Adiſtud diceret
aduerfarius, quod db, odc, non includunt ali = b. quem angulum; quia poſſet
tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c, quod est oppoſitum po
ſiti, quia b c, poſita ſunt ima mediata, quando igitur diceretur, quod angulus
c de, estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio, quia per angulum b d c,
nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil mediat, e in concurſu bdoc
din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe ipſa uideatur ua na,
negandoangulum, ubi duæ rectæ line: bd, cd, concurrunt quæ expanduntur in eadem
ſuperficie, oapplicantur non directe, o fit contra deffinitionem anguli,
deffinitione ſexta primi Elementorum, negando etiam à b inc poffe duci lineam,
neget primum petitum primi Elementorum, tamen quia aduerſarius non putaret iſta
inconuenientia, quia ſequuntur ad id, quod ipſe dicit, ideo contra reſponſionem
aliter ar. guo, angulus c d e includit totüm angulum b de, oaddit ſaltem pun
Aum ſuper b de, o ſiproteruias quòd non addat angulum, & puns Etus per te,
eſt pars, igitur c d e addit ſuper 6 d e partem aliquam, igitur c d e eſt totum
adb d e. Aſſumptum patet, uidelicet quòd c de addat ſuper bd e, quia ſi angulus
dicatur fpatium interceptum inter lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles
concipit in queſtionibus meca nicis, queſtione octaua, tunc pun &tus primus
lineæ b d extra circunfes rentiam minorem nihil erit anguli bde, o eſt aliquid
anguli c de, igitur c d e maior est b de, a probatum fuit, quòd æqualis, igi
tur aperta contradi&tio, fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie
neas,includat lineam includentem,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra
circunferentiam minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0
th I N PRIMVM LIB. guli c d e, addit, igitur utroque modo angulus c d e punctum
fuper angulum b de, patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis
bus ad inſtantias, quod linea non componatur ex punétis, neque recta; neque
circulari, ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue, o non
compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe,
oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe, vel etiam dicas, quod punétus,in
deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata. TEX. X X. ALIAS
I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum. Verbum il lud rotundum legit Aueroes
circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o circulare, ſic
ut pro uerbo rotundum,legatur circulare,ratio quia circula re lineæ est proprium,quod
uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum queſtionum inquiens:In primis
enim lineæ illi, que circuli orbem amplectitur,nullamhabenti latitudinem
contraris quodam modo ineſſe apparent, concauum ſilicet,&conuexum. Rotondum
uero proprie corpori conuenit, non lineæ, ut etiam placet Ariſtoteli libro
fecundo Cali capite primo, quæ lectio non uidetur difplicere etiam Ioan ni
Grammatico, &quodſit iſta mens Ariſtotelis, utfic legatur manife ftum eſt,
per ea, quæ textu decimo ait, non enim, contingunt non ineſſc aut fimpliciter,
aut oppofita,ut lineæ rectum aut obliquum,capiens ob liquum pro circulare. TEXT
VSvs X. T par & iinpar numero. Par quidem ille eft, qui ab impari unitate
differt cremento uel diminue tione, ut quinque à quattuor, uel à fex unitate,
Vel par eſt, qui biffariam ſecatur, impar uero, qui ne in duo æqualia
diuidatur, impedimento eft unia tatis interuentus. POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ.
XXV. ALI AS XI. NIVERSALE autem dico, quòd cum fit de omni, & per ſe eſt,
& ſecundum quod ipfum eſt. Ioannes Grammaticus & fequaces determinant,
ut hæc tria inter ſeſint diſtincta, fic quod id, quodper ſe eſt inſit abſque eo,
quod fecundum, quod ipſum eſt, 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales
duobus reétis,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum, quia
fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina (qua
etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus
reftis non tamen ſecundum quod ipſum. Alio autem modo per fe,id dicitur alicui
conuenire, quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum, ita quod, id quod non
conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe, niſi quodam modo, fic
quod perſe non immedia = te, oſecundum quod ipſum, diſtinguntur tanquam magis
&minus uni uerfale per fe autem immediate, &ſecundum quod ipſum, hec
quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem, Peccauit
igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod particulariter
uerum est, uniuerfaliter autem falfum, Triangulo igitur immediate, cu per ſe, o
ſecundum quod ipſum conuenit habere tresduobusre&tis æqua les, quodam autem
modo non per ſe ipſi iſoſceli conuenit habere tres duobus rečtis equalis. Vt
Ariſtoteles ſententia, hæc ſit, quòd per ſe immediate, ſecundum quod ipſum,
idem fint, neque ab inuicem in aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum,
“ſecundum quod ip fum, hec duo uere diſtinguuntur, ut Ioannes ſuisexemplis,
immo Ari ſtoteles in Texu,exemplomanifeſtat. HET luben 10a TE X. X X VI. ALIAS
XI I. ## ling PORTET autem non latere, quoniam fæpe numero contingit errare,
& non eſſe quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur
uniuerſale demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil
ſit accipere ſuperius,peti fingulare, aut Fij 44? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia.
Aduertendum Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes, ſiue
Greci, Latini, uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis
Textum, &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele, quòd
litteram pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt. Circa
Ariſtotelis litteram, an tequim ad eius interpretationem acMilani, falſit as
loannis, oſequa tium est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum,
loans nes adfert exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus
declaratione, ait enim Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil
fit, neque uox quidem, utputa nomen aliquod fictitium,& acceptum,cui tamen
in re nihil refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re
conuenit,fic tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod, ita ut nulla
ſit res, neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens. ipſe autem loannes
explicat Ariſtot. litteram cirs ca illud, cui eſt accipere fuperius, &circa
illud, cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra,' Sol, øMundus, &triangulus, horum
omnium ex tant nomina, ut manifeftum eft; o ſingulum ſuperius est ad ſua
indiuis dua, nempe ad hancterram, ad hunc Solem, ad hunc mundum, ad -Scalenonen,
perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum ipfe adferat exemplum de
eo, cui ſit accipere fuperius, cui nomer impofitum eſt, Textus autem
Ariſtotelis dicat, cum non fit accipere fuperius. T E X. XXVII. i VT fi quid
eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus. Ioannes Toto errat
Cees loo.fequentes ipfum, circa litteram e doctrinam Ari stetelis,textusfic
habet. Si quid eft,illud tamen innominatum fit in differentibus fpetie res bus.
Ioannes inquit, non exiſtente commune aliquo de quo non exiſtente, prebet
exempla deexiſtentibus, contra feipſum V etiam de nominatis in differentibus
petie rebus, contra Ariſtotelis textum, ait enim Ariſtoteles. Sed innominatum
ſit in differens tibus fpetie rebus, exempla adfert Ioannes de Triangulo, qui
nominatur, eft in pluribus fpetiebus differentibus, ut in Iſopleuro Iſoſcele,
Scaler.one, o fimiliter de quanto prebet cxemplum loane nes, quod nedum nomen
habet, fed in differentibus fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. par A @
etiam in pluribus generibusdifferentibus eft, neque mireris uelimſi Joannes
ocæteri expoſitores aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint
&iuerit uſque Gorcie inficias, obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis. Ut
contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę funt in te,
ineft quidem demonſtratio, & erit de omni, ſed tainen non huius erit primi
uni uerfalis demonftratio, dico autem huius primi, ſecundum quod huius
demonſtra tionem, cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces prefertim
Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus philoſophus, og
fequaces multi fimiles ſine nomine, pleni nominis bus, quos in interglutiendam
uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit, cū ad exempla
deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus modis errandi
circa univerſale dixit, loan nes (eg peius cæteri) circa finem comenti huius
textus fic ait,in reliquia trium modorum exempla per bec exponit, uerū non
utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi, propofitum enim exemplum
ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio ordiri otexere modos errandi
cum exemplis, ſicut modo cuique errandi correſpondeat pros prium &peculiare
exemplum, ut quemadmodum tres numerauerit ers randi modos circa uniuerfale,
tria exempla, ipſis correſpondentia fubiecit, ſic ut primum exemplum primo
errandi modo, fecundum exem plum; ut in littera Ariſtotelis ponitur fecundo
modo errandi correſpon deat, otertium exemplum ipſi tertio modo errandi apte
conueniat, quo ordine confuſionem omni ex parte inter cxempla os modos errandi
fuæ giens, in primis ſuo artificio, modum errandi &exemplum fibi corre
fpondens notificauit circa id quod debet effe medium demonſtrationis, ſe cundus
errandi modus &exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum
demonſtrationis, tertius modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi
coherente, concernit totam demonftrationem, feu arguendi mo dum qui dicitur
permutata proportio, errauit igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut
hucufque dixi extorquent Ariſtotelis textum, non intelligentes. I N P R I M VM
LIB. Pro declaratione igitur uigeſimi fexti textus, fit hæc noftra prima ina
ter expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat, dicas eam eſſe ſecundam,uel
etiam millefimam. Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis
reétis, tanquam de ſubiecto, concluditur hec paßio, nempe quod non intercidant;
uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc, tanquam per medium,
quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus quatuor
angulis rectis, ideo ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me dium, quod
cum linea recta ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6 gulos
quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c. d les, uel
alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis ftantes,
iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens fuper duas alias rectas lineas
fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex eadem parte, ille duæ lineæ
paraller le ſunt, &adhuc per iftud medium, ut fi linea recta cadens ſuper
duas rectas lineas, fecerit duos intrinſecos angulos æquales duobus reftis,ut
probant X X VII. XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ due recte linee
parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret demonſtras, tionem factam per ſingulum
mediorum di&torü,eſſe uniuerſalem,erraret primo errore circa uniuerfale,quia
nullibi medium eſt uniuerſale et unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft
cómunisad omnes quatuor angulos rectos, ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad
intrinſecum et extrinfecum ex eadë parteſumptos, et ad duos intrinſecos ex eademparte
acceptos, niſi quis uudeat dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad omnes pres
nominutos angulos, utputa æqualitas angulori, quæ quidem angulorum
equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium,ul tra
quodfit falfitate plenum, eft etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non
ne etiam in concurrentibus lineis repperitur æqualitas angu lorum? ut puta in
his angulis qui ſunt ad uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas
rectus lineas,illa enim cadens cum utralibet earumf1. per quas cadit, caufat
uerticales angulos æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb,
ſtatim hoc reiciet dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. ternis angulis
intelligenda eſt illa equalitas, ut natura illa communis tantum ſit equalitas
coalternorum, hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca, uel
dicas analo gam, ad equalitatem retorum, acu torum, obtuforum angulorum, @etiam
dico, quod totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta
naturd,una abſoluta (utputa) eſt unus atq; alter angulorum, reliqua natura eſt
reſpectiua et ad aliquid, ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur
pro medio, tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per
æqualitatem non con cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě
talium angulorī, Et dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt,
ſed etiam per æqualitatë extrinſeciad intrinfecum, et per duos
intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus obtufus,qui equalesfunt duobus re
& tis, quæ omnia non habent unum ſuperiusuniuocum, igitur non eft aliquid
accipere ſus perius ad hæc omnia, igitur petimus tunc ſingularia media in
propoſito concludendo, &ſicerramus, ſi nobis uideatur uniuerſale
demonſtrare primū. Error igitur iſte circa uniuerſale,eſt circa medium
demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum non fit, fingularia media
peti mus, ſimile habes huic per XXVII (XXVIII primi Elementorū, Euclidis per
quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum. Itidem fimile per quintam, fextam, a
ſeptimum fextiElementorum,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia,
o non per unum uniuerſale medium, triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in
Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx,
quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ,in dire&tum
cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non
eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio,
immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem, quam Ioannes grammaticus, neque nouus
aliquis, ſiue antiquus etiam interpres, non percepit, hoctextu affert
Ariſtoteles les cundum errandi modum, à primo modo errandi longe dißimilem,
atque diuerfum, in primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur IN
PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in
hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen. ei
impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe=; cies, ideo
illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie rebus,
innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum, quiail Leſpecies non ſunt,
ut folis, terre, mundi natura, eſt innominatain plu ribus ſpeciebus terre, quia
plures ſpecies terre nonſunt, fi igitur quiſ piam demonſtrationemde cælo
tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet, &putaret quod eſſet
ſuademonſtratio uniuerſalis, quia no eft aliud primum cælum,erraret quia non de
hoc cælo, primofitdemöſtra tio, fed de natura coeli, ut eft quid uniuerfalius
ad hoc primum cælum, ſeu de cælo, fine contratione ad hoc ſingulare cælum, quam
doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis exemplis, &quidem aptißimis, fole
cans didiorum reddit; inquit enim in exemplo fecundo, quod quidem fecundo
errandi modo correſpondet, oſi triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles,
ſecundum quod Iſoſceles eſt. Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres
æquales duobus rectis, cum nullus effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet
ſpecies trianguli quam fofceles, &tunc error ſecundo mos: do contingeret.
Explico Ariſtotelis ſententiam. In primis eft aduerten dum, quòd triangulus re
ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies triangulorum, fo pleurum, iſoſcelem oScalenonen,
quod ſi tamen per imaginationem ponamns, quod non haberet ſub ſe ljopleurum,
neque Scalenonen, per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum, tantum haberet
ſpeciem unā, ut iſoſcelem, eſſet tunctriangulu: innominatus in Scalenone atque
Iſos: pleuro, quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur, ut
fic,Scalenon eft triangulus, Iſopleurus eft triangulus, iam illæ ſpecies duæ
triangu. lorum effent, quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum
oſtendat. propoſitum. His ſuppoſitis, ſiquis de foſcele concluderet; quòd tres
haberet æquales duobus reétis,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des
monftratio, quia nullus eft alius triangulus, quam foſceles, crraretſes. cundo
errandi modo, quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe, nempe triangulum,
de quo primo concluditur talis affectio, & talis era, ror multa diuerſa à
prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit
circa.medium, & iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum
demonſtrationis. Aliud, ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum,
In hoc ſecundo eſte ſuperius og nominas, tum, ut triangulus, Tertio illud
innominatumſit in pluribusmedijs, hoc. autein? POSTERIORVMARIST DS autemfecundo
modo innominatumfit in duabusfpeciebus tantum, uideli cet in Iſopleuro w
Scalenone, Ibi ut in omnibus fit innominatum, Hic aue tem nominatum ſit tantum
in una ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum octauum textum cã
acceſſerit philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex inextricabılı labirintho
egredi, ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione, perperam ej tortuoſe
ſit interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando, non
temporaliter,inquit,audiendü eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte
fit audiendum, fimili modo ergo ijtud uerbum, Nunc,haud,inquit,temporaliter
audiendum eſt, quin po tius, exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam,
Pedagogorā mo dum inſequutus, qui quattuorgrecis litteris intineti temerario
aufu, ſi ne quacunquefcientia aut liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens
toſi cum accefferint ipſi implicati non ut loannes plicis binis uel ternis
terminos exponit, ſed denis centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos
imptent promittunt etiam multis nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe
illos nobiles nominatim ut teftes tādem ſint ſue infanie, et ut uidean tur
etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma
philoſophie elementa fufceperint, Pereant ipſi cum ſua ignorantia, uelfuis
fericis ueftibus addifcere poft multa těpora incipiant,oſiferico indueti,atque
equoinfedentes, o rabini facti addiſcere uerecundantur. fufcipiant eam quam
decet philofophum, ueftem, o Euclidis honeſtate accedant ad Socratem; ne
fintpoſt hac, fomenta praua difpofitionis preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis
terrarum gymnaſijs. Qui dam alij interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe
nihil eft, neq; fuit unquam abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non,
&ly aliquando,fo litarie fine fenfu relinquunt, quibus expofitionibus uel
potius torturis iam iam incipiat Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum
mufcis afta bulòunaatque alteru interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio,
et legatur textus ut lacet in greco, quitextus græcus habet has particulas,
aliquando, et nunc, que uerba temporaliter onullo alio modo intelligan tur,
neque intelligi aliter poſſunt, onon legatur, loco de ly nunc, non, ut quidam
facit hoc tempore, quenſcies, ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro
declaratione igitur uera, queunaſola eft, quă inferius fübi ciam, et nulla alia
ab ifta uers effe poteft, ad Arijtotelem redeundo, textum expono.
Proportionale, quod commutabiliter eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale,
exemplum, eft tertij modi, pro cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN
PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem proprium quantitatis determinaffe in fine
predicar menti quantitatis dicentem; Proprium autě quantitati cft maxi. me
çqualitas & inequalitas,reliqua uero queno ſunt quan ta no proprie æqualia
ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo ſitio,uel etiam habitus æqualis,
inequalisue non omnino propriedicitur, fed familispotius,atá; dißimilis, &
album itidem æqualeinæqualeue non onnino dicitur, fed fimile dici atque
dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab Euclide deffinitur in
quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem generis quantitatum
alterius ad alte ram habitudo quædam, ex Ariſtotele igitur habetur, quod
proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex Euclide uero quòd
propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero, quod tantum in quana
titate proprie reperitur proportio, quæ quidem eſtæqualitatis, in equalitatis;
inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum Boetium in primo
Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem,equalitatis proportio eſt
quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad duo, inequalitatis uero
proportio eft quando fundamenti eſt maius, terminus autē minor, et hæceft maior
inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum eftminus terminus uero maior,ut
sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor, Præter hæc ſcito, quidam modiarguenda
quibusmathematici utuntur(de quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur
quantitatibus eiufdem, fiue etiam alterius generis, dummos do bina
ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in equaproportionalitate patet, hic autem
modus-arguendi qui dicitur commutata proportio non niſi quantitatibus, quæ
eiufdem generisſunt attribuitur. Quibus pras intelectis o declaratis, uides
Platonem improprie applicuiffe uirtutia bus in Gorgia cõmutată
proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio nonconuenit, ex
deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt propria rerum
natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia,aliena docirina perturbanda.
Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut cótingit efle, ficut
in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft,partem uero inferius
ad ipfum uni uerfale, Mododico,quòd antiqui philofophi qui precefferütEuclidem
Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi modo, putantes de toto, feu
uniuerfalemfacere demonftrationem, que tamen erat in par te demonstratio,hoc
eſt particularis &non univerſalis, ideoait philoſos plus quemadmodum
demonftratum, eft aliquando, uidelicetabantiquis POSTERIORVM ARIST.
philoſophis, qui tempore Ariſtotelem,atque Euclidem preceſſerūt,quia ipfi non
aduerterunt quod quantum, eſt id (id eſt natura aliqua) quod fum perius
accipitur, nominatum eft in pluribus differentibus fpecie res büs, differt
igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere aliquid ſuperius, o etiam
differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon erat nominatuin in pluribus
differentibus ſpecie rebus, hoc autem, quod hic conſideratur, eft in
pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale onnibus quantis, fiue
illa diſcreta, ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki, feuetiam permanensſit,
ut numeri ſunt,lines, folida, tempora, &alia huiufmodiſpecie differentia,
feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui deſingulis
demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale
demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et
perſe attribuitur, ut ipſi quan titati, quatenus tale. Nunc dico, nedum in eo
Ariſtoteleo quidem tempo të, & à philofophis reéte fapientibus, ſed etiam
oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur demonſtratio
uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum docet,
propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando, arguendo
permutatim in numeris ſeorſun, in lineis feorfum, cæteris feorfum, nunc au =
tem non contingit iſte error his, qui ſequuntur Euclidis ſcitum, quia nunc,
ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur, hoc eſtmo:.
dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit, quægenuseft ergo üniverſale
adomnia quanta, hæc autem eſt mea interpretatio, uera og germanaipſi
Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime
declarat propoſitum. Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian
ĝulum demonſtrationeaut una, aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque
Iſopleurus feorfum & Scalenon,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum,
quòd duos rectos habet, niſi ſophiſtico inodo,rieque uniuerfaliter triangu huum,ne
quidem fi nullus eſt, pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod
trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum,ſed quatenus ſecundum numerum,
ſecun dum autem fpeciem no omnem, & fi nullus eſt, quem non nouit. Non eſt
ſurdaaure pretereundum artificium fummum, quod in hoc exemplo Ariſtoteles
docet, fcias hoc exemplo de triangulo, comple &ti duos errandi modos, vel
facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM: LIB. do, atque tertio,
cum primum defingulo modo, fecundo &tertio, fe. paratim exempla aptißima e
peculiaria pofuit, ftatim attulit aliud exemplum utrique, ſecundo
uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in
exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur; inquit enim,
demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non
poteft, ut deIſopleuro folcele, C Scalenone, concludatur quod tres equales
duobus reftis habeat, uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus
triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur, quod tres habeat æquales duobusree Atis,
ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera; ac fi dices ret
pluribus numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod
tres duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio, nullo modo intelligi
potest, quòd fyllogiſtica ſit, quia tuncmaior pre. miſſa acciperet de
uniuerfalitriangulo, quod haberettres equales duo bus reftis,ſic fyllogizando,
omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis, ſed Iſoſceles, uel
Iſopleurus, uel Scalenon, eſt triangulus, igitur foſceles, uel Iſopleurus,uel
Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic igitur fyllogizando uel
particulatim abſque illo diſiunto, fed uno tantum affumpto triangulo, non ne,
ſcio de triangulo uniuerſaliter, in maiori aſſumpta quòd triangulus habet tres
æquales duobus reftis? quod e diametro opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de
Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat tres æquales duo bus,nondūſcio de triangulo,niſiper
accidens,per accidés dico quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus igiturilledicendi,
quein uidentur omnes latini atque greciſequi, non poteſtſtarecum Ariſtotelis
ſentena tia, quia iam priusſciretuniuerſale in maiore fumpta et per uniuerſale
in cognitionem particulariñ deueniretur,qui error non eſt, ſiquis autem di
ceret, ut fic intelligi debeat demonſtratione,aut una fyllogiſtica, aut alte ra
Geometrica, dico quod nullo modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia
ſequeretur idein incommodum eo modo arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex
litteram Aristotelis, ut fupra dixi, quia tunc per cognitio nem uniuerſalis
deueniremus in cognitionem particularium quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe
textu Il docet, quo modo de nouoſci mus,non hoctamen in hoc textu pertractat,
ſed agit,hoc textu,& in hoc, exemplo, de errore, qui opponitur uero modo
ſciendi,onon de mo: do, quo de nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica
demonſtratio neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1
/ 0 POSTERIO RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed
triangulus iſoſceles est, igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares,
&de alijs fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i
particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no
diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per
particularia, uel etiã altera,nempe Geoinetrica. Pro cuius ellucidatione, eft
fciendun; ultra ea, quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu tertio,
quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun demonſtrat quod
triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos æquales duobus-rectis,
fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris (non dico Ariftelis deuoratos,
res uel potius carnium «acephalorum ſeptem, unis bycis uoraces, quiafi
uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis do& rinam tenent,quam
falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione oſtendens de 1fofcele, quòd
habeat tres e qualesduobus reftis per decimamtertiam O vigeſimumnonam primi
Elementorum, aut altera numero, eadem ta menſpetie de Iſopleuro &
Scaleno.ne idein oftendat, ita quòd de ſingus lis trianguloruin þetiebus
inducat, quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum tres equales duobus,
nonduin cognouit inquit, triangus lum quòd duobus reftis æquales habet, niſi
ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe huiufmodi, ne quidein fi
nullus eft, preter, hec, triangulusalius, non enim quod triangulus eft
huiufmodi cogno uit, nequeſi omnem triangulum, hoc habere contingut, utputs
duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum, ideft fecundum nume
rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien, in uno uidelicet
uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem, id eſt ſe
cundumnumerum trium triangulorum petieruin, ſeparatim,quem non nouit. Erraret
igitur duplici errore ille, qui putaret eße unia uerſale fubie&tum, &
totum, id quod effet particulare fubieétum, parsfubieétiut, quia tunc acciperet
in parte totum, id eft partem, to tum effe exiftimaret. Si autem triangulus
immaginetur faluari in unica tantum fpetie, ut in iſoſcele, tunc exemplum
intelligatur, aptari feo cundo modo errandi tantum, non etiam tertio. Vides
igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa
uniuerfale,quorum cuique proprium, &peculiare exemplum aptauit. Neque legas
poſt hac lyaliquando, prominus exacte, nequely nunc,pro exacte ita,ut neutrum,tempusſignificet,
fed utrunque temporaliterlegatur, neque 1 i IN P R I M V M L I B. legendum eſt
ly nunc pronon, ut quidam, qui nullus homo est facit. Ad id autem quod Ioannes
de Gorgia tetigit, aie quod quantitas, natura ipſa, qualitatem precedit, fic ut
quantitas, fit prior ipſa qualitate non dico tempore necetiam natura ſed ordine,
oid quod propriumquan titati eſt prius est proprio qualitatis, fimiliter et
modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij, ut eſt proportio, & modus arguendi,
qui dicitur permu. tata proportio, funt hæc quantitati propria oſibi primo
conueniunt, deinde etiam qualitatibus ſecundario « improprie attribuuntur. Quem
admodum etiamSyllogiſmus, qui omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per
attributionem, de eo tamen primo oproprijsſime Logicafa cultas agit, quòd ſi
ſubſtantijs quantitate prioribus, quis tribuat come mutabiliter proportionari,
tunc uniuerfaliter reſponde, quod omnibus entibus poteft attribui
commutabiliter proportionari improprie tamen, oper quandam attributionem
fecrındariam, quatenus omnia entia,has bent quantitatem molis, aut uirtutis in
ſe,o ſic Plato attribuit in Gori gia commutabiliter proportionari illis
qualitatibus improprie, opro ut ille qualitates includunt quantitatem uirtutis,
quæ funtgradus pera feftionis. TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit
uniuerſaliter, & quando nouit fimpliciter, manifeftum eft utique. Quoniain,
li idem erit triangulo eſſe & Iſopleuro, aut unicuique,aut omnibus fi uero
non idem fed alteruin & cætera. Littera ſic exponatur, fi eadem deffinitio
quæ trianguli est, cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris, aut
unicuique 1fos pleuro iſoſceli o Scalenoniſeparatim, aut etiam omnibus fimul in
com muni à quanon ſit alia deffinitio ipſis conueniens, ſi uero non idem, id
est finon est eadem unica deffinitio, quæ bis omnibus æque primo conue ! niat,
fed alterum, id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus
lineis rectis claufa, fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus
claufa, iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus, una
inequali claufa, gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa, ecce
modo, quàm diuerſa ſint deffinitiones, fi ineſt igitur tres habere his omnibus,
hoc quidem eft unicuique, fecundum quod eſt triangulus, uelfecundum quod eft
figura tribus rectis claufa, o non POSTERIORVM ARIST. has pro eta quia illis
lireis equalibus, uel inequalibus claudatur. Vtrum autem fecundum quod eft
triangulus, aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo ſecundum hoc, eſt
primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio, manifeſtūeſt, quando remotis
infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto,triangulo infunt duobus rectis pares, fed
æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to infunt tres duobus rectis pares,
fed non inſunt tres duo bus rectis pares figura & termino remotis, quia
etiam ipfis inſunt duobus rectis tres æquales, fed eis non primo, ut fi gura
que clauditur termnino uel terminis, quo igiturprimo reinoto, cui priino
conuenit; remouetur, & habere tres, fi itaque triangulus remoueatur,
remouebitur & habere tres duobus rectis pares, & ſecundum hoc igitur,
id eft few cundum triangulum ineſt, & aliis per ipſum & huiuſmodi
trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio. Littera fic ordináta, artificiun
Ariſtotelis est conſiderandum, in hac regula, quam prebet ad cognofcendum,
quando erit uniuerfaliter demonſtratio, ego exem plum eft contraſecundum modum
errandicirca uniuerſale,ſic,utſeruans hanc regulam,non errabitſecundo modo
errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis accidentibus indiuiduorī,utremoto
ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut habere tres duobus reétis pares, as
enimfeu aneum effe,non conuenit fpeciebus triangulorum, niſi quia indiuiduis
triangulis conuenit remota,fubinde fpecie trianguli, ut Ifofcele remoto, non
pro pterea remouetur affectio uniuerſalis, quæ eft habere tres duobus reétis
pares, quia in alijs fpetiebusſaluatur natura,cui primo conuenit habere tres,ut
in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur naturatrianguli,cui prinoco uenit habere
tres,tertio remouet genus ad cuiusremotionem remouetur villa affeétio,ut
remotafigura, &tres habere duobus re &tis pares remo uetur, Quarto
cultimo remota deffinitione generis, ut remoto termino figura enim eſt, que
termino uel terminis clauditur, remouetur og illa affectio ſed non primo, primo
enim conuenit ipſi triangulo, triangulo igitur remoto, statim remouetur &
illa affectio, habere tres duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua
concluditur quòd triangulus habet tres angulos equalesduobus reātis, eft
uniuerſaliter. & eft Te i IN PRIMVM LIB. TEX. XXXVII. ALIAS XX. Pro quo
VORVM autein genus alterum eft, ficut Arithmeticæ, & Geometriæ,non eft enim
Arithmeticam demonftrationem accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi
magnitudines numeri fint. Gnarus Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non
dubitanz do loquutuseft inquiens,niſi magnitudines numeri fint, fed fuæ regulæ
uniuerfalis exceptionem faciens, niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas
magnitudines nunquam fieri numeri nifi numeri nuo merati, o adhuc numeri illi
numerati non fit diſcreta quantitas, ſic ut illinumerati numeri, non copulentur
ad aliquem communem terminum, ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum
copulantur communem,fed ad comunem terminum copulantar ille magnitudines que
numeri funt per folum tamen intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur
ille quidem magnitudines quæ numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter
quã ſint, eas percipiat oppoſito modo, fed eas tantum conhder atparticunt Latim,
no intelligendo eas niſi priuatiuenon effe coniunctas,non tamen in telligendo
eas negatiue, non effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id,quod Euclides
proponit propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles
magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius
deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod earum
pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan titas
c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ inenfuret a
fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad unit atem eo
quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi b, ut unit as
ad e, quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt ſubmultiplex e, igitur
per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft propoſitum, Ecce quod f
linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima partē linet a, à fecunda
parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis, punctus copulansprimam
partem lineæ & cum fes cunda parte, manet idem, immo eſt communis punétus
&ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen intelligit primam,
atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad comunem punétum f
copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio Arithmetico,ut puta nume
ro in constructione, «æqua proportionalitate ad probandam affeétio
nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi utitur uns decima
octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe ftio ne de
magnitudinibus, hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum
Magnitudines, numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter
dimetiantur, diameter igitur quadrati, Oſuacostanunquam funt, neque dicentur
quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides
in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo
pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala -
tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuerfaliter,
quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda
Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis
fenfum, inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo,
non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror,
ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis,eum admiror quòd cum aliàsdiſciplinas
mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem, &quia etiam
philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin,neque pueritia,necſuafeneétu
te eas fuo ingenio intellexiſſe, niſi dixeris, quòd ipſe elleuatus in eſtaſi
intelligebat omnia per intellectum in actu, quo multa peruerſo modo,e ordine
intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico uerbo cupientes Aueroiſtas dici,
ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis explicanda propofuit, de quo
intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere ſunt ante quam
intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam,quòd non de ſeparato illo
chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus intelligere,ut
quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur, pertranfeo tamëhæc
inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et utfic docentes falfo,reſipiſcăt,
et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et intelligeret &alios post
millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum contingit in quibuſdam, po fterius
dicetur. littera fic intelligi debet, magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN
PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam,nempein temporibus, ideft quádo ipfa tempord,
ut numeri concipiuntur, Poſterius dicetur,ut in libris de philoſophia et de
anima.Hoc loco habemus artificium ab Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum
abufius mille,o latinorü millies millena millia errorum cognoſci mus,De
interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non dico,fed intelli gas uelim, ut
quot uerba proferunt, tot mendacia contra Ariſtotelis or dinem ýmethodum
committunt. Quis enim legit Grecos, Latinos, o noftri temporis
expoſitoresAriſtotelis, non uideret conſiderauerit, illos ſepe, & fepe
fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá, in libris de anima,
methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices, quis modus iſte obfcuritatis
eſt, per ignotißima declarda re ea, quæ aliquo modo ignota funt? eper ea quibus
accommodantur principia, ipſaprincipia uelle declarare, oper poſterior aignota
decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti declaratores,hominem eſſe philoa
fophum, animaſticum, & methaphiſicum antequàmfiat logicus,utille no Ater
bonus homo docebat, quòd Ariftoteles attulit tria exempla in fecun do textu,in
tribus ſcientijs,ut ibi notaui ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis
doctrinam,qui poftquàm exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc
autem, quomodo contingit, posterius dicetur, fic ut id,quod inphilofophia
dicit, nonreuocetin logicis declarandis, fedt diuerſo,exceptione qua in hoc
locofacit,Pombaur tanquam nota in philofo phia, ut ex notis ad ignota o utex
uniuerfali ad particularia tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx.
libro Elementorū ut des claratum eft, & non ex philofophiæ locis, vt proMilanius
utpúta ex his, quæ in Geometria notafunt, ad ea declaranda, quæ inlogicis traa
& antur, ut uera methodo, à notis diſcuramus adignota, fed fi idem in
theologos ſacrosobijcias, qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas
queſtiones loca uniuerſalis philofophiæ adducunt, igitur ipficra rant,refpondeo,
In thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur
tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium
theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda. Ita ut
ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem, ſunt quidam
alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt modus
deuotionis fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias
indoctis tribuit intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in
epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum, non
intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS T. 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi facras
litteras prouenit ex ingenij uiuacitate tantum, qui modusmultas hærefes
attulitfidelibus. Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis
philoſophic, &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione
fanétifpiritusmoliaturfua duricies, hoc quidem tertio modo non intelligit
aliquis facras litteras, niſi inſtructus illis difciplinis, que precedunt ipfam
reginam theologiam, valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium,
nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non
peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini,
&præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi
ordinem. Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt.
pofterius dicetur, ut in libris philofophiæ, dixi tamen ego ex decimo
Elementorum. Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum
căcipiatur, fed Eye clides quo modo per principium Arithmeticum de
magnitudineaffeflio demonſtretur atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft,
extrema & mcdia eſſe, fi namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc
Geo metrię non eft demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina, ſed
neque quòd duo cubi ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media
oextrema debeant effe eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione
medium, ſeu medium ad probadum, quod eft, aut principium, uel etiam
propoſitiopredemonftrata,que fus mitur ad probandam aliam, propofitionem;
extremorum autem nos mine (ubiait extrema) intelligende funt ipſa concluſiones,
utfitfenfus facilis, premiſſão concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed ne
que quòdduo cubi unus cubus fit, Quomodounus tantum cus buserit,cum duo fint?duo
prius feparatim erant,quiſi in unum redigan tur, unum tantum efficiunt,ut due
lincæ etiam una linea tantum efficis citur, utdocet XIIII primi Elementorum xxx
ſexti Elementos rum,vltra aduertendum quod cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed
hoc non probat Geometra ſimilitcr duo cubiunus cubus eft,quod etiam Geo metra
non probat, his habitis odeclaratis., ſtatim perit declaratio. cus iufdam
philoſophi noui qui maiorigrauitate quàm pondere utitur; dicit enim illa ſua
innani interpretatione, duo cubi in Arithmetica non faciunt ynum cubum, quod
eft di&tu, quod duo cubi numeri nonfaciunt unum cu bum numerum,ifta
interpretatio opponitur littere Ariſtotelis; li ttera anim affirmatiuc
loquitur, quòd duo cubi unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV
M LIB. ) uus philofophus exemplificat negatiue, quo mododuo eubi non faciunt
unum cubum; reiciatur igitur ſuainterpretatio, & Philoponi expoſitio
ſuſcipiatur, quæ hoc in loco fatis conſiderata eft, atque docta;Ratio enim
quare non demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non
uerſatur Geometra circa genus folidorum, ut circa ſuuinſubiectum, fed uerſatur
tantun circa planorum genus, ut circa proprium ſubiectum, Stereometra autem
habet demonſtrare, quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut
ftatim explicabo inferius, cum de duplatione are delorum, & in fragmentis
logicis de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione,
eptuplatione, es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert
Apolonij peri gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata, opermepri
ſtino candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis,utdecet
appoſitis, ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis
notitia, aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata, eſto ſiuis ut trium eſſet
pedum, quando Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are
duplationem, qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius
orbis Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata,atý;
corrupta forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex
pedű extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa
eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita,fþreti igi tur propter hoc
delij ab-Apoline, & graue peſte adhuc laborantes, ad Platoně
confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios
reliquit dicens eis, ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum
eandem proportionem continuam. Et tunc ſcirent duplare Aram, formam habětem
cubicam, In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius perigeus,
duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram delij,fubinde
ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus, quarum altera ſit
longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum, fecunda uero lineaſit ed, que
deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto pedum fex,ina
ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua proportionam
litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur duæ data,
primafit b c, quæ erat longitudo prime Are, e a b.longitudo tras bis,
&ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM
ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb
a b c o compleaturparallelogrammum bd; per tertiam atque tri geſimamprimam
primi Elementorum;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum
ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur
circulus a d.c, os produ catur linee b a,b c, per fecundum poſtulatum primi
Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f
&, per lineam f g tranſeun b tem per punétum d, ita ut fe, æqualis fit
lineæ e g, hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum. (De quo, forſan
poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod ex fe
æqualis eft ipfi dg per hipoteſim, @primam animi conceptionem. f a f 6 f 6 6 G
gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a TE lik
mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo dufte
linee rette f b, feſecant circulum ad punéta a v d, quod igi tur fit ex bf in
fa, per trigeſimamquintam tertij Elementorum,æqua le eſt ei, quod fit ex ef, in
fd, ac eadem ratione, &quodfit ex b & in c g æquale est, ei, quod fit
ex dg ing e, aquale autem eft id quod fitex dg in g e, ei quodfit ex e f in f d,
utraque enim utrij que equales funt, e f ſilicet ipſi d 8, og f d, ipſi eg,
igitur, ego quòd fit, ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex bg ing c, eſt
igitur, 62 IN PRIM VM.; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam partem
decimequinteſexti Elementorum, ita g c ad f a,fed ut fb adb 8, fic es fa ad ad
per iij.fextiEleé mentorum, igitur per xi. quinti Elementorum g c ad f a,ut f a
ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum, ut dc adc 8, fic cg ad fa,
quia utraqueeft,ficutea, que est fb ad b 8, altera per fecundam partem xv.
reliquaper quartam fexti;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem triangulorum, est
autem dcdqualisipfi ab,04 d, ipſi b c per xxxiij. primiElementorum, igituraut
ab ad cg ita f a ad ad, erat autem, out f bad bg, ideft ut a bad c g,fic cg ad
fa, igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia, o ipſa fid, ad b c, quatuor igitur
rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom portionales funt,o propter hoc erit; uta
bad b c, ita quifit ex 4 b cubus, ad cubum, qui ex g cega qui ex g c, ad illum
qui fit ex f a, e qui ex fa, ad illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi
Elementorum, igitur ut a b ad b ©, ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c, fed
a b dupla fumpta fuità principio, ipſius b.c, eft igia tur cubus, qui exfa,
duplus ad cu bum, qui ex b c, quod demon - g strandum errat. Berlin. g c.8 F G
f 6 f 6 6 a. 6 6 G 8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d. o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM
ARIS T. Eleg TEX. XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes
funt & fcientiæ, ut lunæ deffectus, Quee dam noua queſtio à quodam nouo
interprete moues tur, circa particulas in textu poſitas, unde eft, quòdfæpefiat
demonſtratio of ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper,
nequeſe pe eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici
ignorantia queex duplici menſtruoſitate contingit, uidelicet Solis Lune, quia
ille, qui eam mouerit, neque in die, neque nocte uidet, quid uelit Ariftoteles,
ſi tamen alta uoce Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc
apponeretforſan miringam, ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui
quidam homo erat,fed nunc nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ
menſtruo folutionem,uel potius ligas mina tribuit auditoribus centum. Videas,
ſepeenim inquit nofter nos uus interpres, fit Lune eclipſis, quia
quandofit,tunc orientalibus quar ta hora, occidentalibus autem hora tertia,
magis autem occidentalibus hora ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis
tendentibus prima non & is hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille
interpres do&tus,quid ſepefit, ut puta intot horis noftis,
utfecunda&tertia atque alijs plu rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia, in
dialogis &fabelis, quas apud ignem raulieres habentreponenda magis, quàm
àuiro quoquo moa do etiam docto redarguenda eft, uel etiam à quouis audienda.
Litteraſic ordinetur, eorum demonſtrationes & fcientia ſunt, eorum dico,
que fæpefiunt. Dico igitur lunc deffe tusſæpe, atque ſemper fieri in plenie
lunio, quum terra diametraliter ponatur inter Solem Lunam, quod quidemnon in
omni plenilunio contingit, fed cum sol in capite, & Lue na in cauda
draconisfuerit, quod Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium
obumbrat extrema, quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus
quàm doctor, &ille est, quem ſuperius dixi hae, bere grauitatem maioren,
quàm pondus, redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano
Gymnaſio in primis meis le &tionibus publicis dederam, explicans
deffinitionem lineæ rectæ, que eft, à pun Ao in punctum breuißimaextenſio, aut
cuius medium ex æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft, cuius medium non reſultat
ab extremis, ſic explis IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem
lineam, ut facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur, linea
recta eft, cuius medium non obumbrat extrema, neque eſt hæc mea explicatio
rectæ lineæ, Contrda ria illi à Platone datæ, cum hæc in Geometria, illa uero
Platonis in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia
igna rus Grecarum litterarum eſſem, ut ille efuriens greculus non lingua ne que
natione, fed apparentia tantum, Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam
le&tionem Latinam vidiffe, qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius
medium non obumbrat, cum Græcus textus, affira matiue legatur fic cuius medium
obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam, oad propoſitum à quo uidebar digredi
redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper & ſaepe fit
Luna defectus, de qua Luna menſtruata habetur ſcientia, per medium illud, quæ
eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter, que cauſa pro
pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe pe fiat
demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune, hoc non tangit
Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper, non determinant ly demon ſtrationes,
olyſcientia,fed determinantlydeffe &tusLune; illis igia tur cauſis contingit
Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille phantaſticus,
ſecunda uel tertia hora noétis. TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM autem
manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno. quoque
principiorum, fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud, non eſt
ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, &
inmediatis, eſt enim ficmon, ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum,per commune
enim demonſtrant rationes huiuſmodi, quod & alí ineſt, unde & alíjs
conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura circuli
fenferint, dicam quid fenferim ego, habita prius notia littere, &cognito
textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus, immediatis, fiat
demonſtratio, non autem fiat ex præmißis proprijs, opeculiaribus illi generi,de
quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per talia principia
primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 6 tla,immoneq; illa erit
demonftratio, quia per principia fieret talis pros ceſſus, que non tantum arti
Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari poffunt, quo errore Brifo.crrauit
tentans reducere aream circuli ad figuram rectilineam quadratam, quæ t alia
erant principia datur max ius, datur minus, igitur datur æquale, quidamſciolus
laborat, ut hæc principia uniuerfalia,propria fiant ipſiGeometric,dicens,daturquadra
tum maius circulo, datur quadratā minus circulo, igitur datur quadras kun
sequale ipſi circulo, et gloriaturinnani, & hoc fuum chimericâ con tulerit
cum yno do&tißimo huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam,
fed et demonftrationem eam effe affirmauit; fcito enim, quòd os folidis, e
linels, o numeris coaptatur iſta dedu &tio, ut datur numerus maior denario
eminor denario, igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis,
dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad
oſtendendum intenti, quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia
principia,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia,ut ex his
quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper
trigeſima ciufdem,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co, quod egit
contra regulam de proprijs principijs,quicquid de confequentia fitprætermittens
tanquam non res Marguendum, ut oppoſitum ſuedat& regul«. De quadratura,
errore Brifonis, Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque iuniorum trattabo in
fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin. TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED
demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm ut dictum eſt, Geometricæ
in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ in harınonicas. XXXVII
textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non pertinet de BRAVAS PRINT
monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum, ratio, ut ibi declarani
aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca diuerſagenera, alter
circa planum, & reliquus circafolidum, hoc au fem textu dicit, quod
geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum, ait enim geometrice
in mechanicas, pro qua apparenti contradictione, eft aduertendum quòd
Stereometrica per principia Gear I IN PRIMVM.LIB. metric probantur quia in
terminis corporis, qui ſunt ſuperficies, ille geometricæ demonſtrationes
attribuuntur, ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in mechanicas,conuenit, o
ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS
XXIIII. VID quidem igitur fignificent, & prima, & quæ ex his funt,
accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia quidem, eft accipere, Alia uero
demonftrare, ut unitas, & quid rectum, & quid triangulus,effe autem
unitate accipe re & magnitudinem,altera uero demonftra re. Dedatoibi quid
fignificent de dignitatibus ibi & priina. De que fito ibi, &
quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato; primum eft in
decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad aliquemſecüdum
numerum, ficut quilibet tertius adaliquem quar tum,concluditur q, ipſa unitas,
itafe habebit ad tertiã numerum, ſicutfc cãdus numerus ad quartum,fecundã
exemplum eftde data linea in prima propofitione primiElementorum,de qua
demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus lineis re&tis
continentibus,Iſopleurum, uel ifo feelem, uel Scalenonem,uel etiam exemplum hoc
apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de linea recta, quòd ſit
biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in xxx 11 primi Elementorum,
ubi de dato Trigono concluditur. habeat tres angulos duabus re&tis paresnon
tantum, quid ſignificentoportet preaccipere, fed etiam iſta effe, vt tan dem de
dato nonfolum quidfignificet, quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo
quidſignificet effe, vtrumque fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit
unitas,et unitatem effe,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles, uerbum
hoc, magnitudinem, intelligendum eſt, rectam lineam,ut decima primi elementorī,et
triãgulum,ut trigeſima ſe cīda primi elemétorum,quem triangulum,et reetū,
explicite protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas,
quid rectiem, Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere &
magnitus dinem, hoc loco aduertendum est Ariſtotelem, ſeiunctam poſuiſſe unita
tem à refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in
unico uerbo hoc, magnitudinem, propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T.
effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis, de. qua
quidem unitate alia affe&tio concluditur, quàm de unitate linee, de qua
loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet
exlittera, quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum, ut
hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court Alle
Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in
demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ, alia uero
cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo
(quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem, ut lincã elſe huiufinodi.
&rectum, De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus
prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt
ifta, utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate,hacde caufa
dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum, vt
puta recta linea est, que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft à
punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum,
Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur:
non de incomplexis utde linea tantă, ca de recto tantum ſed, dehoc cöplexo
linea est longitudo illa tabilis; ¢ linea recta eſt,quæ ex æquali ſua
interiacet ſigna,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea recta
exempla explicăs, Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi auferas,quòd
æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter pretes
Arifto, non intelligentes hunc locum; naturam Geometrie ſcien tie perdunt,
dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft contra
ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam. Pro
cuiusdifficultatis nodo extricando, aduertendum quod princi pium iftud,de
quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in demonftratione
ponitur, nec eo utimur niſicontrate, oquae dam determinationeadgenus aliquod
terminatum, er pro altera diſiuna Eti parteaccepto,nulli enim fcientia eft, aut
diſciplina, que utatur illo principio pro utrag; diſiunéti,fed pro altera tantū
parte, Sinile de hoc (& alijs huiufmodi) principio, fi ab.equalibus æqualia
auferas, que re MON jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B. Manent,æqualia funt,
audiendum eft, nulla quippe diſciplinaest, que es utatur niſi contracte, fic
quòd Geometra nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ circa planum uerfantur,
utfi ab equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut angulis,equates lineæ, uel fuperficies
aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ,uel fuperficies,aut anguli funtæquales,quão
primum autem principium hoc contrahitur, non eft amplius commune Guniuerfale,
fed fit proprium illius generis fcientiæ ad quod contrahis tur, quod uerohæc
noftra declaratio fit ad Ariſtotelis mentemmanifes. ſtum eſt ex predicamento
quantitatis ubi de diſcreto econtinuo agens, determinat quod utrique proprium
eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale dici, ſi inſtetur ex
menteAriſtotelis dicentis, principiunt. - iſtud effe commune, inquit enim,cõnunia
autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune, ſi non contrahatur,
quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius, ftatim enin fequeretur
contradi&tio, quod eſſet commune ono commune, doétrina hæcmeacoheret his,quæ
Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc textu, o his que
Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens;fufficiens eft autemunumquoda que iftorum
quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū get nus contrahitur, de
principijs loquens,ubi de datis dixerit, & tertio lo co de queſitis, ibi
quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon &Campanus non
contracteinquatuor primis libris Elemento rum, a quod Euclides affixit illud
principium primo libro, dico quod Căpanus &TheonbreuiloquioStudentes
accipiuntipſum principiū fne Contractione, femper tamen op ubique uolunt ipſum
intelligi contra &te cum determinatone ad illud genus ad quod-co utimur,
aliter. errarent, Euclides autem primo libro affixit, quid utitur ipfo con
tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi fortiuscontra hanc expo fitionem
precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet, statim haberea tur circuli
quadratura per hæcprincipia contra&ta, datur quadras tum maius circulo,
datur quadratum minus circulo igitur dabitur quadratum æquale circulo,
refpondeo, quò du os errores commiſit Briſo, o talis argutus doctorolus inter
arguendum, primo quia Brie so per principia comunia, iſte audem do&tor per
contra &ta illa princi pra, feduterque in æquiuocisarguebat, circulus enim
et quadratum equi uoce funt figuræ altera enim curuilinea reliqua uero
re&tilinea eft, hunc errorem fecundum non inuenies in mea hac
expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est, de crrore autem
Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3 Logicis. Idem enim faciet
& fi non de omnibus accipiat fed in magnitudinibus folum, Arithmeticæ
autein in numeris. Diuinus Philoſophus quàmprimum explicuerit, quæ namfunt
propria per duplex exemplum uniusfeientia Geometria, linee uidelicet, &lia
neæ recte, •fubiunxerit, que nam ſint communia principia exent plum prebens
tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod æqua lia ſint remanentia,
ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone trahantur ad proprium genus
ſcientiæ &propriafiant dicens, ſuffia ciens eſt,unum quodque iſtorum,
quantum in genere est, fufficiens quie dem acſi peculiaribus atqi proprijs
principijsuteretur Geometra uteng iſto principio, æqualia ab æqualibus ſi
auferas æqualia remanent, non quidemſi de omnibus accipiat, non quidem dico
demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus & uniuerfaliter ſine contractione
utatur, fed demon, ſtrabit quidem, inquit Philofophus,ſi in magnitudinibus
folum, id eſt contracte o determinatim,eo ufus fuerit.Vtfic, fi ab æqualibus
lineis ſuperficiebus, angulis, Arithmeticus, fi ab æqualibus numeris æqua les
lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas quod æquales linea fuperficies
anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles quód iftud principiumſic
contractumreddatur propriumipſi Geometra, og Arithmetico &unicuique
artifici in fua arte, ac fi peculiari epros prißimo uteretur, non procedit
igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id, quia per cominunia
procedit Geometria, ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria, ut quidam
ingeniofus noftri teme poris immaginatur. Sunt autem propria quidem & quæ
acci piuntureſſe, circa quæ, fcientia fpeculatur, quæ ſunt per le, ut
Arithmetica unitates, Geometria autem figna & lineas. Euclides in
Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam
incluſiue accipit unitates, ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda
wtrigeſima prima primi Elementorum, lie neas uero in primt, ſecunda,&
tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum. Hæc enim accipiunt eſſe,
& hoc eſſe, idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato
precognoſcatur utrunque &quid &quia est, accipiunt eſſe,id est
deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe,nempeactueſſe,
uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt, quod eſſe potentia,uel
effe aptitudinedicunt. Horum autem pafsiones funtper fe quid quidem figni IN
PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt, ut Arithmetica quidem quid par, Sicut
uigefimaquinta noni Elementorum, aut impar, ut trige fimanoni Elementorum, Aut
quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum, &quilibet numerus à duobus
duplus,ut xxxv. eiufdem, a eut declaraui ſuper textu xx. de altera parte
longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic intelligantur termini
exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid irrationale,ut XI. X. Elementorum,
aut inflecti per contactum in unico puncto ex xij.ex xv.tertij Elemen. aut
concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima Elementorum Geo metrie Vitellionis.
Animaduerſione dignum est hoc, quod Geometra nunquàm hanc affectionem, ut
irregularitatem deunica lineafola con = fiderat, neque etiam de una tantum
linea id concludit, quicquid Cama panus ſentiat, fed id de linea una ad aliam
comparata atque relata, cum qua non habet uliquam communem menſuram, ut est
diameter wcofta quadrati. Inflexio uero in una atque eadem linea circulari eft,
quætan gat aliam rectam lineam uel alium circulum interne, uel etiam exterins,
in unopuncto tantum, quia inflexa non fecat nequere & amlineam, nes que
etiam circulum, quorum utrumlibetfaceret linea recta, eifdem ! recte linee 6
circulo non contingenter neque in directum applicata. Quod autem fint paſsiones
per fe demonſtrant per coin munia & ex his quæ demonftrata furt &
Aftronomia funi liter. De datis dequibusaccipiebamus quid fignificarent
&effe, de monſtrant artifices Arithmeticus OGeometra per communia, idef per
uniuerſalia principia (que tamen unius generis ſint) v ex his etiam
propoſitionibus, quæ prius demonſtrata funt, affectiones illas predis Etas,
ſicut etiam aſtronomus facit, utper ea quæ in Geometria probas ta ſunt, etiam
per propoſitiones probatas in Aſtronomia concludat etfiEtionesfequentrum
Theorematun. TEX. XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM tamen fcientias nihil prohibet
quædain hortin defpicere, ut genus non ſupponere effe, & fit manifeftum
quoniam eft,non eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo niam numerus fit, &
quoniam calidur, & frigidum fit. Natura enim &per fenfum notum POSTERIO
RVM ARIST. $ 200 ill 0 si est, quonian calidum eft, ideo non eft opus precipere
mente o ſuppoi fitione aliqua intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum
quiade calido, quando calidum eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu,
quandoeft notum quia est dati, deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de
dato, an fit? Quod noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum,
de eo enim eft necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri,
Videlicet quod numerusaétu est mente con: ceptus, ac fiexifteret aétu, uel
aptitudinem ad exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc, quod numerus neque
nataraneque fenfu aetud liter percipiturquòd fit, fed tantun intelleétu
dignofcitur, @ hæc duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de
queſito feu paßione facit exceptionem dicent, & paſsiones non eft accipere
quid fi gnificent ſi fint manifeltæ, ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men
-notifsimam rem ſignificet. Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid
fignificet illud nomen, quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein
excipit ab uniuerſaliregula,qua dixit fecundo textu, alia nana que quia funt
prius opinari neceſſe eſt,utomne quidem quod est,aut affir mareaut negare uerum
eſt, quia eſt, o textu xlvi.aliud prebet exem plum, utæqualiaab æqualibus
fiauferas, quòd æqualia reliqua ſunt, de his communibus principijs non eft preſuponerequia
eft. Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint, quaſi natura dico, utputa quia
notis ter minis ipſarum dignitatum, statim notum est, quia est ipſarum
dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non
est,fa tis,quid fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt pré
cognofcere copulationem terminorū effe neceffariam, ueram,ut quòd circulus fit
figura plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo ad
circunferentiam omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit, igitur
ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum eſſe,manifesti est,non ſecludit
ipfum quid est, ut exponit loan.Gram. Alexander, A queſito ſecludit aliquádo
quid eft,era comunibus dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid
queſitumfignificet, &quando ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod
autem hæcde datofeuſubiecto expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet
excludat àſubiecto ipſum quia,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in
littera,ubi ait,Genus non fupponere efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit
Arift.genus no ſupponere quid ſitexemplü de queſito,quandonon
accipiturquidſignificet est propoſitione xiiij.primi: Elemen.quod est,indiređã
linea una,quod quidē quid ſignificet non tung OI MI deo per da Jet OB um 10
& IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit notum ex deffinitione quarta primi
Elementorum, quodnon queratur, quia eft, quando est notum,id apertißime dicit
philofophus textu fecundo ſecundi Poſteriorum,inquit enim,inuenien tes autem,
quia deficit pauſamus, & fi in principio ſcirc mus, quia deficit,nó
queremus utruin, cum autem fcimus ipſum quia,ipſum propter quid querimus &
c. TEXTVS LII ALIAS XXV. EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant
dicentes, quòd non oportet falſo uti, Geometram autem mentiri, dis centem
lineam eſſe unius pedis,quę unius pedis non eft, autrectam lincam, non ree
&tam cxiſtentem, ut in prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam
rectam lineam triangulum collocare, etiam in decima primi Elementorum datam
lineam rectam, eum biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea, que
atramento pingitur, uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id
tamen dicendum eft, Geometram errare, quia non ad id intentionem dirigit
Geometra quod oculis fubijcitur, fed ad id potius, quod intus animo concipit,
dirigit intentionem, ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam
errare et mentiri, Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam,
quam ftilo pinxerat, fed fecundum intus conceptam lie neam, demonſtrationem
percurrit,idem habet Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum
reſolutionem non errat etiam Geometra cir ca formam fyllogiſticam, ut textu 59
62, ait Ariſtoteles, igitur cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non
quiafenfatæ fint, ut falfo quis dam dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX
ALIAS XXVIII. VONIAM autem ſunt Geoinetricæ inters rogationes non ne funt &
non geometri. cæ? & in unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt
Geoinetricæ? & utrum quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex
oppoſitis fyllogifo mus, POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus;
an paralogiſinus? In unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes,
ficut in Geometria, In geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri,
uno quidem modo,ut nihil fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an
icoceruus habeat tres æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit
Icoceruus, & quid ſithabere tres duo bus reétis æquales, hic interrogans
habet ignorantiam fecundum nega. tionem, quia omnis habitus negatur in eo de
illa re, quam querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de
illo, quod querit, par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat
nanque que nani lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur,
ſcit etiam, quisnam ſit duarum linearum concurſus, &quatenus iſta nouit et
interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus
autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non
eft Geometrica quæſtio, et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum
habitum, quo fcit lineas rectas, ceas in infinitum pro trahi polle, et
concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu, ſtat hec
ignorantia, ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non
căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus,
quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum, qui præter uoces re ipfa
nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo
plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui
fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti,
interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde
arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni
ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate,ut medietas toni ad
toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni, hoc eſt ſemitonium uerum
adinueniſſe, ignorans pauper, quod proportio totius nerui ad totum neruum eadem
eft, que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam
@decimamnonam ſeptimi Elemětorum, erat igitur non Armonica quæa ftio, qua
quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet? Verus autem Geo. metra ille eft,
qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem, neque fecundum priuationem,
«ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque interrogationes
partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed interrogationesfacit
omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in tabula, habeat tres
æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat, circa uffumptam materiā,ut
tex. 52. determinauit phi lik line et K IN PRIM VM LIB.. lofophus,non errat
circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat in forma, in ſua
induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus igitur error in
Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc eandemfententia habet
Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo loco innumeras
Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT autem quofdam non
fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque conſequentia, ut
& Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit. Scito Ariſtotelem
Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica errabat
parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit,ſed aduertendum eſt in
materia parallogiſmi, quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia, quia
ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima ponit non
minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit aliter
exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi
auctoritate, qui Proclus, ſi ita fenferit, ut ioana nes refert, perperam hunc
locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente
Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit, non autem ait,
quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit, id cito creſcit ſicut ipſe
loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic, 1,2,4, 8, 16, 32, 64,
128, 256, $ 12, 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis ♡Cenei dico ex doctrina Eucli dis
deffinitione undecima quinti Elementorum, &ex deffinitione primi Geometrie
uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur
non termini, ut loannes Proclus facies bant,arguebat ſic Ceneus,quæcung cito
creſcit augentur in multiplicata Analogia, ſed ignis augetur in multiplicata
Analogia, igitur ignis cito creſcit,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt
affirmatiua. Talis au tem error parallogizando à Geometra non committitur,
igitur certiſie ma, ca in primo certitudinis gradu Geometria reponitur,
POSTERIOR VM ARIST. 248 2 3 3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536
4 0 24 2 048 ei ad CI, C. qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia
ima 1 eta infor TEXTVS LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies
ONVERTVNTVR autem magis, quæ funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt
accidens. Secunda pars trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt, quodomnis
triangulus duos bus rectis paret habeat, id autem probat prima pars
trigefimaſecunde,& ſecunda, o prima pars uigefi menone, &tertia decima
primiElementorum, quæ omnes propoſitio nes concurrunt ad probandam illam
conclufionem, quæ conclufio ſi in fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin
illareſolui poteſt, que ſupra commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam
methodum, ab illis principijs ad illam illatam conclufionem, reſolutiuam methodum
ab illa conclus fione ad illa principia regrediendo, quihabitus reſolutiuus
altißimus eft, e profecto ſignum eft re &te fapientis. Cumautem
conclufiones in mathematicis fequantur ex determinatis principijs, tunc ibi
facie lior eft reſolutio à concluſione in principia quàm in Topicis, ubi ex
uagis, ofolum apparentibus, quandoque etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij
7.6 IN PRIMVM LIB. @non ex unis principijs concluditur quippiam de hac re,
abundantius infragmentis nostris mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus
fum. TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX. & fit par eſt ers VGENT VR autein, non per
media, ſed in aſſamendo, ut a de b, hoc autem de c, rurfus hoc de d, & hoc
in infinitum. Et in Iatus, ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus, uel
infinitus,hoc autem fit in quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus
imparin quo c,eft ergoade c, & fit quantus numerus, in quo d par numerus in
quo e, go a de e. Exépla duo attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu
mendo, primo exemplī prebet in numerisin poſtfumendo,ut a numerus, de b numero
impari, et b,de numero c primodicitur igitur a numerus de c numero
primodicitur, In latus ſumendo numero pariter exemplificat, pro cuius notia,
imaginare arborem porphirianam,cui fimilē in numeris finge, &numerum quantū,qui
etiam potentia infinitus eſt, loco ſubſtans tiæ apta; infinitus ait propterhoc,
quia omnes imparis atque paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum
crefcunt,potentia continet,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties
continet, his autem numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus, quia
quicunque daretur, aut par effet, aut impar, qui non poteft effe communis pari
&impari, fed talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem
uti iſto uer bo, uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat
magis ad dialecticuin, ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet,
ins finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum
inſuis fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem, atque pa rem,
&imparis numeri diuiſio est, in primum numerum,ocompofi tum, prinus autem
numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium quemcunque
numerum,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3, 5, 85" 7, 13. Compoſitus
numerus eft, qui alio numeroaf e,oo ab unitate diuerſo, dimetitur, ut 9, aut 25,
à ternario, & à quinario dimetiuntur, is compoſitus diuiditur in parem,
atque imparem, et par quidem numerus ille eſt,qui biffariam ſecari poteft, ohic
partitur in pariter parem, qui in duo æqualia fecantur, partes eius, quoufquc
POSTERIORVM ARIST. 1 ad unitatem uentum ſit, ut trigeſima. In pariter imparem
qui quidem in duo equalia partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt
ſectios niem,ut quatuordecim. In impariter partem, qui quidem in duo æqualia
diuiditur partes ſimiliter in duo æqualia, fed hæc partitio, uſque ad unitatem
non peruenit, ut trigintaſex, de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo,
nono Elementoruin, Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem
ad Ariſtotelis textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum, numerus infinitus
fiue quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b,
numerus alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d,
qui trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra, eft ergo a ded,
&etiam de e k lo In latus autem dixit,quiane dum per rectam lineam arboris,
fed ex utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5,
Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111: 11CTUS -is 14 impar primus 13 50
ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis. 16 14 pariterper impariterpar
pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt contractius,
quàm prius propofuerit per litteras,ideo ne labores in numeris tot
numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin
numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo. 6 8
IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia & propter
quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno quidein
modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus, non enim accipitur prima cau fa,
quæ uero fcicntia proprer quid, per pri mam caufam eft. Hoc quidem primo modo
non prebet exemplum aliquod philofophus, quicquid Aueroes, Philopou nus,
fequaces fentiant, fed exemplum profecundo modo appofuit unicum folummodo pro
quia, de ſintillatione planetarum, de rotons ditate autem Lune dedit etiam exemplum,pro
fecundomodo quia,quo ta men exemplo declarat etiam quo pacto fieret propter
quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non fuit, quia primo modo
textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia,duo exempla prebetin diuers ſis
ſcientijs, utrunque exemplum est in ſcientijs medijs, alterum est in optica,
reliquum est in Aſtronomia, &quia textus est ſatisclarus in duobus exemplis
quantum ad inductionis modum. Primo declaro prie, mum modum, quo, quia à
propter quid differt de quo primo modo,quo, quia a propter quid differt nullum
dat exemplum,ubi ait uno quidem modo,fi non per immediata fiat fyllogif. ita
habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě habet, uno quidē modo fi
ratio tinatio non per ea, quę uacant medio fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur
ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud uniuerſalius fit uer bū, fenfus
tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per immediata,erit demon ſtratio quia;
ut fide homine concludatur reſpiratio, eo quod ſitanimal, ſi uero de homine
concludatur quòd reſpirat, eo quòd pulmonem habet, eritdemonſtratio propter
quid, oin utroque modo,concluditur res spiratio follogifmo ut omne animal
reſpirat,cæt.velomne habens pul: monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat
ſecundum Argiropilum,Olegatur ratiotinatio, Tunc exemplum dari poteft pro primo
modo, quando non per immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij. primi
Elementorum probatur per uigefimamnonam primi elementorum, & non per immes
diata principia, fic ut fenfus fit, quod illa que probantur per alias pro
poſitiones probatas prius, talia quidem probatione quia probataſint illa uero
queprobanturper immediata principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST.
zmo citer fiat maus prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes:
FUS IN • prie quo, dem philo atio ogil uer tur, ut eſt queſitum primi, ſecundi,
atque tertij problematum primi Elea mentorum,que quæfita per immediata
principia demonſtrantur, facta prius deſcriptione, ut conuenit, neque dicendum
est, ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid,quando
perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum
propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars
uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco, non imme
diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam, quæ per
prima probare poſſunt, cum demonftratio fiant ex primis, & im mediatis,
oppungat,ut immediatafint, o non fint primaabſolute. Et in Geometria etiam alio
modo quia eſt, differt à propter quit, ut quando ab effeétu ad caufam
progreffus fit, neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur
equalitas laterum,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid
autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur, utputa quando ab equalitate
laterum trianguli infertur æqualitas angulorum illa latera reſpicientium, ut
prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit. Atio autemmodo per immediata
quidem non auteng percauſam, ſed per notius eorum que conuertuntur, ut lucidum
non ſcintillare,o prope eſſe, fimiliter, creſcere per rotunda incrementa luz.
cida, ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius tamen eft, non
ſcintillare, quàm prope effe, ¬ius eſt creſcere per increa menta lucida
rotunda, quàm eſſe rotundum, & primum eft per fenfum per induétionem in
fingulisplanetis notummagis, non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed
econtrario.Secundum etiam, ut quod incremento creſcere,non eſt caufa
rotunditatis, licetfit notumfolummo do per ſenſum, non autem per inductionem à
pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico incremento
creſcente certi fumus, *cum per ipfa, fiunt inductiones, quòd planeta
propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt quid, quod
fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit demonſtratio, ifti
igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per priora quidem, non tas
men immediata procedit. Alius autem per immediata non tamen per priora, fed ea
quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex prio ribus fit, atque ex
immediatis. Amplius quare planetæ, haud fcina tillare uideantur fuſius ſuper
problemateultimo quintadecimæfectio nis problematum Ariſtotelis fiet per me
declaratio, quæ etiam faciet fatis huic textui, eft tamen hoc loco aduertendum
Ioannem dicere fira MON mal, het, pw atur non ros illa IN PRIMVM LIB.
tillationem prouenire, quod protendentes uifus ufque ad aſtra fixa de biliores
fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per extramißionem radiorum, ut Thimeo
&Empedocli placituin erat, quos Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De
Senſu &ſenſili. In hac igitur parte reiciendus est Philopo nus, niſi
exemplo loquatur famoſo. Alterum De rotunditate Lune fus per problemate oftauo
eiufdem feftionis aperietur, ubi querit Ariftote les unde eſt, quòd Luna
uideatur plana, cum fit rotunda. TEXTVS LXV. ALIAS X XX. MPLIVS in quibus
inedium extraponitur etenim in his nó propter quidſed ipfius, quia demonſtratio
eft, non enim dicitur caufa, ut propter quid non reſpirat paries, quia eſt ani
mał. Tertium modum quo quia in eadem ſcientia à propter quid differt, nunc
affert Ariſtoteles inquiens amplius eft, que quando neque cauſa probat 1,ut
primus modus effe&tum infert, neque est,quando ex effectu caufa infertur,
fed quando ex nega: tione pene cauſe infertur ipſius effe &tus negatio, feu
etiam econuerfo, ut quia non funt parallele, ideo alterni anguli non funt
æquales, opdo ri modo, quia extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex
eadem parte, igitur parallele non funt; oeſt hic modus tertius, quo quia à
propterquid differt in eadem ſcientia, dixi quando ex negationepene caufe, oc.
Quia parallelas effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les,nifi fuper
ill. linea recta ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli
fintæquales,ficut animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt
pulmo, totalis autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă
affeétionem in perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria
& Mechanica ad Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum, fi id
quod ait Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur,onera
qua mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra
mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit, etiam
ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao
taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez
cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote, quia ana gulus
fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus
POSTERIORVM ARIST. 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor eft
quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala
quam rota,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa
nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas,quibus utuntur lapi cide in
trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in duo
equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat, ut Boetius re&te
fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid Pfelus Greculus ſentiat,
fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius autem propter quid ratio, ab
Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis propor tio non poteſt diuidi in
duo equalia, ut Boetius in Arithmeticis docet. Tonus autem cum in ſeſquioctaua
ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia ſemitonia diuidi haud quaquam
poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam. Apparentia, ipfa eft phenomena de qua
Euclides, e Aratus poeta agunt, atque VergiliusAgricolas docens tempus quo mila
lium feminaredebent, ait in Georgicis loquens de occafu hellaco, Candi dus
auratis aperit cum cornubus annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit
aſtro,rationemſiqnis agricola deſideret, cur eo tempore cda nis, qui et Alabor
dicitur, occidat beliace,id totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter quid
redet; Sol enim in orbe eccentrico à propria intelligentisex occidente in
orientem motus, quicquid fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, & fequaces,accedit
annud orbita ad illud fydus, quod eft in geminis &fuo maximofplendore, non
finit illud uideri, id autë fit cum Sol diſcurrës perſignum Tauri, attingit
extremam partem Tauri, tunc enim canis perdit lumen ſuum, non uidetur amplius,
propter So lis ad ipſumſydus uiciniam, quouſque iterum per motum eccentrici ab
co fydere ellongetur Sol, quod iterum oriri heliace incipit; hi ſunt igitur
modi quatuor, quibuspropter quid, à quia differt, tres quidem funt in eadem
ſcientia fubalternante,oquartus, quando id quoddemon ſtrandum eft inſcientia
media,per ea quæ in ſubalternante ſcientia nota funt, probatur, in quo quarto
modo, funt plures demonſtratiomisgraa dus fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non
tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM LIB. -7. Sunt autem hæc quæcunque
alterum quiddam exiſten tia ſecundum fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati
cæ enim ſecundum fpeciein funt, non enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de
fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed no quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In
præcedenti particu la huius textus dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium
eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero
propter quid,quòd uniuerfalium ejt, per caufas habetur,ait,propter quid autem
mathemde ticorum, hi enim habent caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter neſci
unt ipſum quia, ficut illi uniuerſale conſiderantes, fepe quædam ſingula rium
neſciunt propter id, quod non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat
philofophus, dicens eos noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico
more, ea non intendere quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia
igitur ipſius,quiu à propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e
quidemfcientiæ, quia quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã
quiddam fecundum fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum
ſubſtantium,fed etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto
materiali exiſtens, Mathem matice enim, nempe quæ propter quid fient, circa
fpccies ſunt, dubita. tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o
ſciétia propter quid circa ſpeciesſit, quo nam puto, in quia, & quo modo in
propter quid fpecies intelligatur. Dico, quod quia ſenſibilium eſt, ut ait
Ariſtoteles, utitur, quia ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata
perci piunt, fed propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali, ut
ſuperficie, linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de
ipſis inipſis cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra
quatenus in ſubiecto funt,ſed preciſius abſtractione, ea conſides rat, fi talia
nufquam, ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam, ficut hæc ad Geome
triam, & alia ad iftam, ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar giropoli in
hac, precedenti particula facilior,atque candidior eft, quàmfit textus
Philoponi, ne uidear tamen in precedenti particula, e hac preſenti, litteram
ſequi, quam pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt, fæpe encruat;
loannis textum in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute
continentur quam, contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc
Procli interpretatio, ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti
Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. terno quodã ordine pofitæ
funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia
&huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua,
quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria, per ea quæ in
perſpectiua funt notamanifeſtantur, qu: autê in pera fpectiua, per ea quæin
Geometrianoșa, fuerunt, ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus
Iridibus appareant; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo, per fcientias
ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum,
ſcienriarun fe has bent fic, ut medicina ad Geometriam, q eniin uulnera, cir
cularia tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ.
Parum ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus,qu& namfcientiæ
effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut
aſtrologia ' et mathematicaet na ualis, o harinonica quae mathematica, oque
fecundum auditum, in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo modouniuoce
funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he enim due non
ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt, id quod circa planum
uerfatur, medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le,id, eft, quod proponit;
ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia fciētia nota
funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce, neque fubalternatæ,ut in chierurgia,que
pars eft medicina proponitür uulnusrotundum, difficultate fanari, ut canumexcoriatoresteftantur.
Geometria autem nobilis fcientia reddi propter quid, primo Elemento * rum
deffinitione decimaquinta, quia exomni parte æqualiter diftat cas o, ficut ibi
acentro ipfa circunferentia. ly tie 20 SMS TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot
cs, tro autem modo, differt ipſum propter quid ab ipfo quia, quodelt, peralia
fciené Stianu nrruinqué, ſpeciilari, Huiuſmodi au Matem funt, quæcunque fic
fehabent, utals terum fub altero fit, ut perſpectina ad Geo metriani. vbi ait,
per aliam ſcientiam fic intellis gatur per altam magis uniuerfalem et
fubalternantem in aliam minus univerfalem. Vtrunquefpeculari, utrunque dixit
refferens &propter. quid, quia, alia enim fcientia fpeculatur propter quid,
c alia fpecus Ljj 84 IN PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum quia, ut Geometria proprer
quid, perfpeétiuauero, quia, inquitenim Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia,
fenfibiliumest fcire, prom pter quid autem mathematicorum. Verbi gratia,oculus
exiſtens in a uidens cd, uidet ipfam quantitatens minorem, quamſi idein oculus
fiat in b, quia inquit perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo
exiſtente in b, quam ab eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit
maior da c, Geometra id demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur
circa hoc, quod di cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo
perſpectiuo, quodne que percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no
intelligétes bonas artes, quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem
referunt,dia centes non eſſe uim ponëdum in illis. Ego autem econtrario dico,
totum neruiim rei, eſſe in exempli intelles ione, ubi ait, quod perſpectiuus
oftendit maius uideri id, quod de prope eft, demonftratione quia, o Geometra,
idein propter quid, demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele mentorum, qua
uigefimaprimaprimi Elemen.non propter quid demon ſtratur, fed demonſtratione
quia, ut demonftratio quia diſtinguitur, a propter quid primo modo, ficut textu
64. declaratumfuit, quòd illa des monftratio, quæ per mediata a probatas
propoſitiones procedit, eft demonftratio quia, diftinguiturab illa ineadem
ſcientia, quæ proces dit per immediata principia,quæ demonftratio propter quid
dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu,determinatur quòd demonftratio uig eſi
miprima primi Elementorum eſt, quia, hoc autem exemplo perſpectis uo dicit,
quod eft propter quid, contradictio igitur manifeſta uidetur. Dico de mente
Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici ins tentio fuper textu
fexagefimoquarto,dicentis. Quodammodo autem in precedéribus dicebamusquod ipſum
quia eſt primomado,permediata mo firare, cum fecundo modo ipſumquia per
immediata,ſimiliter w propter quid, unde aduertendum, quod demonftratio, quæfit
fuper uigeſimam primam primi Elementorum,que per uigefimam decimāfextam primi
elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime propoſitionis Elc.
POSTERIORVM ARIST. es mentorum, quæ per immediataprincipia procedit comparetur
demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur adperſpectiuam demone
ftrationein, tunc propter quid dicetur, quia perſpectiuus pier eam pros bat
intentum, u ſictricic apparentis argumenti explicite funt,fc cundum
philofophiſcitum. TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IGVR A R v M autem faciens ſcire
maxime pri ma eſt, etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc demonſtrationes ferunt,
ut Arith metica, & Geometria, & perſpectiua, & fes re (ut eſt
dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt conſiderationem,aut enim
omnino,aut licut frequentius, & in plurimisper hanc fi guram (quieſt
propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur edirecto contra
expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione illa Geometrica,
que tanquam fictitium quoddam, uanißimum, &nullo Greco &
Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles, etenim
Mathematicæ ſcientiarum, per banc primam figuram demonſtrationes ferunt, non
igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam
inductionē, utibifuit des terminatum. Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui ea
profert& fcri bit; quæ nonfunt notæ earum, quæin anima paßionumſunt, cum
non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant, fed potius tanquam
ficcamcucurbitain, in qua nonniſi uentus reperitur, quia tamen nonfo lummodo
fapientuin habenda eft ratio, stultis etians atque infipientibus pariter
reſpondendum effearbitror, ne in fua ignorantia glorientur ua ne. In hoc textu
Ariſtoteles nil aliud determinat, niſi quod preſtantior est prima, quàm fecunda
& tertis figuræ,&quód Mathematica hac fepe utuntur, &hoc quidem
quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex. dicens, oin plurimis per hancfiguram,
que eſt propter quidfyllogif mus fit, modo quid refert, ſi Geometra, utatur
fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum, quo modofyllogiſmo
utitur Geomes tra, &quomodo inductione Geometrica?fimodo quis ex hoc textu
uca lit inferre, quod illa indu&tio Geometrica non detur, ipfe faciet
mendas cem Ariftotelem, dicentem in tertio textu, quòd nedum fyllogifmo fed 70
IN PRIMVM LIB., oinduétione, ſcitur quòd triangulus in femicir culo
conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis. TEX. LXXXVII. ALIAS
XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his, quæcun queipſa quidem inſunt, fecundum
ſeipſa rebus, ſecundum feipſa uero, dupliciter, quæcunque enim in illis infunt
in co quòd quid eft, & in quibus, ipſa in eo quodqınd eft inſunt ipſis, ut
in numero, impar, quod ncit quidem numero, eft autem ipfe numerus in ratione
ipfius, & iteruụn multitudo,aut diuiſibile in ratione nua meri, horum autem
neutrum contingit infinita eſſe,nec ut impar numeri, Secundum fe ipſum
bipartitur, ut quando prie mum deffinitio de deffinito predicatur. uel etiam
quädo deffinitum de def finitione, ut numerus est multitudo ex unitatibus
aggreguta, ut Euclia des ait fecundadeffinitione ſeptimi Elementori,et etiam
multitudo ex unii tatibus agregata numerus est: impar nuſquà inuenitur in
deffinitione nu meriupud Arithmeticū, neq; etiä numerusin deffinitione paris,
quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à Græcis etLatinis explicatum
est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus, quædum fecüdum quod ipfa
inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit, ut fi quippiam, nume rus eſt, id
quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur,oſi quid ims par uel parfit illud
tale numerumeffe patet, ſic ut exempluinprimum Ariſtotelis, ſit circa
diuiſionem, fecundum exemplum de deffinitios ne, quia tamen addit, aut
diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem reperitur quod diuſibile
in numeri ratione ponatur, quatenus nu merus eſt, fed in deffinitione numeri
paris; recteponitur, ut diuidatur in æqualia, ut primadeffinitione noni
Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft, qui in duo æqualia poteſt diuidi,
& quicquid in duo equa lia diuiditur, id numerus effe patet, fiueboc de
numero, quo numerisa mus, feude numero numerato, hoc intellexeris,
ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam, in his exemplis ſeruauit Ariſtot. primo enim
in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco infpecie contenta, fub
deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt in imparem atqueparem;
ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica, definitio estſecunda septimi
Elementorum, deffinitio autem paris; patet ex prima definitione noni
Elementorum. Horum autem omnium nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in
imparem atque parem, impar in primum, compoſia tum, compoſitum in quadratun, o
non quadratum, igitur quadratus compoſitus impar numerus eft, onumerus, eſt
impar compoſitus qua dratus, feu numerus eft impar prinus, er prinus, impar
numerus eft, ſicuti status eſt innumero,ut tandem ſit ultima particulaque à par
te fubieéti ponatur, ſiiniliter ſtatus erit in alijs particulis, que ponun tur
à parte predicati, quando ipfe numerus àparte ſubiecti pofitus erit neque
igitur inſurlum,ncque igitur in deorſum infinita pre dicantia contingit eſſe in
demonſtratinis fcientís, de quiz bus intentio eft, in furfum ait deffinitionem
refpicientes, neque in deorfum diuiſionein feu partitionem animaduertit. d ac
38 mi TEX. LXXXVIII ALIAS XXXVII. for ONSTRATJslautem his, &e. Non te prea
terit, quòd habere tres duobus reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni,
neutri tamen per alte, rumconuenit,fed utriqueperhoc, quodfigurarea Eilinea
trilatera eft, idfæpe fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte
trigeſimeſecunda primi Elementorum.. other VA 16. TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M
ST autem inuin cuin iinmediatun fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata
& queinadınodum in alís eſt principium fimplex, hocautem non idem
ubiqueeſt, fed in graui quidem untia, in melodia,alle tem diefis, aliud autein
in alio, fic eft in fyllogitno unum, propofitio immediata, Secundum antiquos
rumfcitum, ut Campanus refert ſuper oriaus xiiij. Elementorum
unumquodqueintegrum in xij.partes æquales per rationen og intelle Etum
diuiferunt, ipſum totuin fic diuifum in partes illas, aſſem uoc4 = werunt,
undecim earum dixerunt deuncem, decem dextantem, nchem IN PRIM V M. LIB:
dodrantem, o &to beſſem, feptem ſeptuncem, fex uero partes femiffen,
quinque quincuncem, quatuor trientem, tres quadrantem, duas ſexa tantem, unam
autem appellauerunt unciam, quam unciam in minorafra gmenta nonfecat
philoſophus, quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium fumit ipfum
integrum, tanquàm ab immediato prins cipio,ex quo,fumiturfimile, quod in
fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit refolutio in
terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in
minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam
quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum
filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit, id autem eſt, quod qui Logicam
ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin
primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei, ut in adagio dicitur, operam fimul
ooleum perdet, quid per dieſim intelligat, notum erit fitonum ſimpli cem,
interuallum integrum, nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus partes
eſe impoßibile quis prius perceperit, ut etiam in tex. Lix. prædemonftratum eft,
duas tamen in partes inæquales diuidi, quarum altera maior eft, quæ apothomen,
ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ minusfemitonium nuncupatur,
oip fum minus femitonium in duas partes æquales diuiditur, quartum utras que
dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis, ut Boetio atque Nicomas co primo
libro Muſicæ,capite xxi. placet,idprincipium toni eft, quid minimum. Practici
uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum linearumfuper alias duas ſic *quam
incifionem fignant ipfi practici Cantores, ſuper eam notam, ſub quain deſenſus
toni, faciunt defen fum ſemitonij, ſed id cantoribus relinquatur, prima dieſis
acception Ariſtotelis ſententiam explicat, quia dieſis in illa acceptione, eft
minia mum conſideratum à mufico, fiue id, quodminimum eſt in concinentia
conſideratum, ſicut uncia in ponderibus oimmediata propofitio in de
monſtrutione fyllogiſtica, o boc intelligas de minutijs integri, non de
minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud Boetium libro tera tio capite
octauo agit,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non faciunt pretermito. MAGIS tur
POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX. AGIs autein ſeiinus
unumquodque, ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam fecundum
aliud,utmuficun Coriſcum,quá do Coriſcus muſicus eſt, quàm quod homo muſicus
fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod particularis
demonſtratio ſit uniuerfali potior. Quis nam fit muſicus aperit Nicomacus atque
Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon ex eo quod
manu cytheram pulfat, fed ille qui rationis imperio cantillenas rum distonice,
cromatice,atque enarmonice ratum, atque firmum ſta tum agnoſcit diiudicat,
atque imperat, qua re intellectu,quærit Ariſto teles,num illa demonftratio, qua
Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur, quod eft, an
particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi reſpondendum; ut
Ariſtoteles innuit per interemptios nem, negando quodCoriſcusſit muficus per fe,
fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS
XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt de eſſe quain de non eſſe, &
propter quam non errabi tur quàin proptcr quam crrabitur eſt au tem uniuerſalis
huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale, quemadmo dum de eo quod eſt
proportionale,ut quo = niam quod utique fit talc,erit proportionale, quod ncque
linea; neque numerus, ncque ſolidum, neque planum eft, fed præter hæc aliquid.
illud idem totum quod text. xx v di& um fuit, hoc loco repetatur, ubi
Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc uniuerſalemonſtratur,hoc textu,
magis aperit dicens, proces dentes enim demonſtrant uniuerfale, quod neque
lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid, quod quidem eſtipſum quantum,
quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis, neque illudeſſe tale
immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut immaginabatur,lo4nnes gram M
IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia illud,analogum eſſet, quod à
propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto textu reſpondens ad fecundam
difficulta tem. TEXTVS XCIIII. S IGIT VR triangulus in plus eft, & ratio
eadem, & non fecundum æquiuocationem, conuenit triangulo & Iſoſceli,
& ineſt oinni triangulo duobus rectis æquales,non utique triangulus ſecundum
quod eſt Iſoſceles, led Iſoſceles ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi
angulos. Concludit Ariſtoteles hoc textu uniuers falem demonſtrationem
particulari demonſtratione potiorem eſſe, o eft quando per rationem uniuocam
concluditur affectio de ipſo uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem
concluditur eademet affeétio de par. ticulari aliquo, ut habere tres
æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte x x x 11primi Elementorum de
triangulo primo, deinde de iſopleuro, ſoſcele, oScalenone non primo, fed
quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis concluditur perfyllogifmum, uel
etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde primiElementorum Eft in hoc
textu non minima conſideratione dignum, quod etiam non eft prætereundura
immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt, quia o nomine for rede
uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur, utpuu tafigura,quæ
tribus reétis lineis clauditur, non tamen per ipfam ratios nem, cõcluditur de
Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les, ſed per primam partem
trigeſimæ ſecunda, eper uigeſimā nonam Otertiä decimă primiElementorum,
quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ Ariſtotelis,de
ratione uniuoca,Di cendum, quod naturaexemplieſt, ut non conueniat. Cum re in omni
mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res ipſa.Dico fecundo quod
memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque perpéfum,quod nulla
demonftratio mathematica eſt potißima, & ob idmathematicæ nul leſunt
ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in nulla conclu ditur aliqua
affectio deſubie &to per deffinitionem fubie &ti,quod tamen uo lunt
uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem paßionis ut alij
determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane dem deffinitionem,fiue
uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. ineſſeſubie
o uniuerſali, &eadem ineſſeparticulari per eandem deffini tionem, quòd de
uniuerſali, immediate & per fe,de particulari autem non immediate, neque
per ſe, ſed per uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis ipſa particulari
demonſtratione potior, atque præftantior est, ut fi per rationale mortale,
concludatur de homine riſibilitas, &deinde per id, de Socrate, quod fit
riſibilis, illa in qua de homine, quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft
potior, ſicuti de triangulo uerbigratia,in fecunda parte trigeſime ſecunde
primi Elementorum, &etiam de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus
reftis, illa tamen inductio,que probat de triangu o potioreſt illa industione,
quæ de iſoſcele idem cons cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde
de particulari trian. gulo concluditur, hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum
intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus
propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid
fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd fit, & cetera uſque ibi, Cum
igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis,
quoniam æquitibiarum,adhuc decft propter quid, quia triangulus, & hoc, quia
eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc, non amplius propter quid aliud, tum
maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu
Ariſtoteles determinatquòd, tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas
procedit nofter reſolutiuus diſcurſus, ait enim cum igitur cognoſcamus quidem
quod, hi, quiſunt extra æquales ſunt quatuor rea &tis, o redit rationem,
quoniam equitibiarum, ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere,
pentágone, adiecit proximiorem cau Jam dicens, quia triangulus, quia tamen
trianguli diuerfa funt latera,ut curua, conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta,conuexa
a recta,ut omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis
udhuc proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens
taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus,
uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id, quod exem = plo, Ariſtoteles ait,
paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB.
mnes extrinfecos angulos, quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim
omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi
elementorum duo anguliad c, pofiti æquales duobusrex & is, eadem ratione
duoilli ad a, o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque
omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis, fed per
fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum, tres intrinfecifunt
æquales duobus re&tis, igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis
equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter
fumptus, hahet tres an gulos duobus reétis equales, ſed ali quis habet duos
angulos rectos, tertium acută, et quidam triangulus eft qui habet tres angulos
rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis theoremate
pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id cötrariatùr pro
poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli cuiusli bet
trianguli fint minores duobus rectis, nec etiam eſt contra fecundam partem xxxl
primi Elemen. Euclidis, quòd uidelicet omnis triangulos, habet tres duobus
reftis æquales, ratio, quòdnulla inter hos fapientißia mosſit contradictio,
eſt, quia de rectilineis Euclides, de fphelaribus ues ro Ptholameus &
curuilineis triangulis agit, quod aduertens Ariftotea les adiecit, quia est
figura rectilinea; ut fit abſolutus fenfus, quod equis tibia figura trilatera
rectilinea, habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis equales. TEXTV S CI. I
MPLIV's autein & fic, uniuerſale enim ina. gis demonſtrare eft, co quòd
eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio, pro xime autem
immediatum eſt, hoc autem eft principium;fi igitur quæ ex principio eſt, ea quæ
non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM ARIST. cipio, ea quæ minus
eft, certior eft demonſtratio. Hoc textu Ariſtoteles apponit extremammanum
determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari demonfiratione dignior, in quo
quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis., difta tamen ohic ab Ariſtotele
tertio tex tu, ibi, quorundam enim hoc modo diſciplina eſt, onon permedium ube
timum cognoſcitur, ut quæcunque iam fingularia eſſe contingit, nec de fubiecto
quopiam, ubi aduertit quod quidammodus est, quo fciuntur af fertiones
deſingularibus, onon per medium,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur
de particularibus per medium, fed non primo de eis, ut declaraui in textů
tertio 'nonageſimoquarto huius, affectiones uero que de uniuerſali
cognofcuntur, he quidem per medium cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis
demonſtratio, eſt ipſa particulari potior, quia particularis non per medium,
uniuerfalis uero per medium demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis
demonſtrare est,eo quod eft per medium de monstrare,id autem Geometrico
exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis cognouit, quia omnis triangulus
habettresduobus rectis æqualesfciuit, quodammodo, & quod ifcoſceles duobus
reftis tres pares habet,utputa potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu,
potentia etiam fcit. ea, quæfub. ipfo continentur, &ſi non cognouerit
1fofcelem quòd actu,oper aper tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces
interpretabane tur) triangulus ſit, hanc habens propoſitionem,hæcparticula
legenda eft, cum particula aduerfatiua fic,hanc autem habens propoſitionem,
nempefciens tantum potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés,
uniuerſale nullo modo cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus
rectis, neque potentia, neque actu, non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt
uniuerfale ad triangulum,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet.
Accedit ad hoc etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu, non ſcitur potentia
fuum particulare, fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī,quifieripoteft,ut
propter id,ſuū uniuerſale potentia fciatur? non etiam actu fcitur
uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile
potētia, non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat
Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari
habetur de particularibus difciplinam eſſe, particularem eſſe demonſtratioa nem
quæcunquefit illa,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter
uniuerfalem o particularem demonſtrationem. Preterea etiam nos tatu dignum
habetur, contra omnes interpretes, id autem eft, quod ali IN PRIMVM LIB.
quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians
ſcimus, introducit eos, qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant
Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis, quod de nouo ſci mus inquiunt
enim, noftis ne quod omnis dualitas par ſit,nec ne? Vel etiam, quòd omnis
triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem
Platonicis attulerunt dualitatem, uel triangulum manu aba fconfum dicentes,
ecce quomodo uos de nouoſcitis, hanc dualitatem eſſe parem, quia
priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt
locum, ſic ut nedum ipſi intelligant, fed eshi qui cos audiunt ita faſcinentur,
ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim ſine propoſito,
quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa, ueltriangulo
conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales haberet, quia
neſciebant illam eſſe dualitatem, vel illum effe triangulum, putant iſti
exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes, anon aduertunt, quòd id
dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit, quod illi qui dicebant de nouo fcire,
male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum, egr reſpondentes perperam,
dicebant fe nonſcia re eſſe purem, niſi quam dualitatem eſſe
ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit, quòd qui ſcit omnem dualitatem eſſe
parem, uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet, fcit quòd
dualitas ſitpar, quod Ifofceles, tres duobus reftis æquales habet potentia,
licet neſciat a &tu perſenfum, quòd iſoſceles triangulus ſit, quem locum à
me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum propter fal
fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem. TEXTVS CVII. ALIAS
XLII. T ca certior quæ non eſt de ſubiecto, ca quæ eſt de ſubiecto, ut
Arithmetica armo nica. Numerus, ſubiectum eſt in ipfa Arithmetica qui quidem
abſtractißimus est, nullum materiale ſubie &tum concernens, Armonica, uero
de nume ro ſonoro, uel magis, de ſono numerato, quod magis concernitmateriain,
ut fonum ipſum., qui fonus numeratus, ſub iectum in armonia eft, ut Boetio
placet libro primo muſices, modo Arithmetica cum circa ſubiectum minus immerfum
matericfit, certior POSTERIORVM ARST. estquamſit ipſa Armonia, quæfubie£tum
conſiderat magis immerſum ipſimateria, eftigitur alia certioraltera
propterſubiecti maioremabe ſtractionem? TEXTVS CVIII. T quæ eft ex minoribus
certior eſt, & prior ea, quæ eft ex appofitione, utArithmetica Geometria.
Dico autem ex appoſitione,ut unitas fubftantia eft fine poſitione, pun. tum
autein fubftantia pofita,hoc autem eft ex appoſitione. Hoc in primis
conſiderandum eft, quod hoc textu non loquitur Ariſtoteles de ſubie&to
fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus abſtracteconſideratur, quia id in
precedenti tex. determinauit; una enimſcientia determinat de abſtracto numero,
reli qua uero defono numerato, unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est
ſubiectum in Arithmetica, niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione, utin
15 ſeptimi ElementorumEuclidis,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium
librorum Arithmeticæ Euclidis. Dico autem,ut unitas, ſubſtantia eſt, fine
appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta, hoc est ex appoſitione,Nicomacus,Boetius,
Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus, in primis lordanus, o Euclides recte
interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent, quem locum obſcurant rabini
cum * ueſtra excellétia ex appoſitione nominati,heu me, in manusquorü inter
pretum incidifti Ariſtoteles? quæ hominum dementia te torquet: erant ne ſimile
hominum genus tuo tempore, ita inſipidi atque macrologia op preßi, qui Platonem,
quique te audirent, expoliati Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc
tempore nedum iuuenes non recte imbuti lite teris, fed magis ſeneſcentes in fua,
non tua philoſophia homines, exurs gant Romani uiri, liberalibus diſciplinis
præditi, quorum bonarum are tium hereditas, negligentia pofteritatis, uerfa eft
ad extruneas nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur, eo locum
hunc inter pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto
affe & a, uellined, uelalio quoppiam alieno, fed punctus, uel linea',
ſeufuæ perficies, uel etiam corpus,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus
unus, uel una ſuperficies, aut corpusunum, uel plurafint: Plura autem pun &
a, eſſe non poffunt, niſi prius punctum unum,uel unafuperficies,aut corpus
unumfit, minus igitur eft unitas, quim punétum unum, Pombaiam IN PRIMVM LIB.
ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat: non ut fuum fubie
&tum, fed ut id, quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur tanquàm
pars ad ſuum totum. Vnum pun &tum, feu lineam unam, uel etiam unum corpus
Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam,pun & um
&corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens, ex pluribusfacit fuam
conſiderationem,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat abſtractiſsime,
nulli reiappoſitam. Ex hac declaratione patet id quod Ariſtoteles ait primo de
anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima, eſt, duabus de cauſis
prima ex nobi litate ſubie &ti, ſecunda ex certitudine, ex certitudine dico,
non ut quis dam inueterati in philofophia craſſa exponunt, uidelicet ex
demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico, quia exſubiecto ſimpliciori eft,
que anima eſt, atque minus compoſito, quàmſint ſubiecta librorum,librum de
anima precedentium, ex precedentis textus, atque huius expoſis tione id totum
colligas uelim, ex precedenti, ſi de anima, ex præfens ti autem ſi de anime
particula, loca libri de anima intelligantur. Claret etiam, ex hac noftra
interpretatione,quod Mathematicæ diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia,
quia non funt circafubftantias, ut ans tiquusætate indostus quidam in hac parte,
philoſophus non erubes fcitaſſerere', ofequaces,quia illas inquit merito
dicendasſcientias los quitur, quæ tantum circa fubftantiasfunt; non autem que
circa accia dentia, ut funt Mathematicæ, quod apud Ariſtotelem nunquam legitur
Dico quòd Mathematice uere e in primis ſcientie, ſecundum nos & re ipfa
funt, ex fententia doétifsimi Boetij in principiofue Arithmeticæ,ubi ait,
ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt, quæſunt circa res, quæ nunquàm mutantur,
fed fua natura femper funt,utſunt fubftantia,a quantitates; quo nammaiore
auctore hec noſtra ſentens tia corroboratur, quàm ſitipſemet Ariſtot. in hoc
præexpoſito textu ! qui in fua doctrina conftans, punctum ſubſtantiam appellit,
itidem unitatem ſubſtantiam dicit, ſi igitur fole ille ſint ſcientiæ, quæ circa
fubftantiasfunt, in primis Arithmetica atque Geometria merito (quics quid
balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum nomine, fed natura digna funt. Quia
tamen de mente Ariſtotelis teneo Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias,
non ob id, quia de accidentibus ſint,neque ex eoquod percominunia principia
procedunt, ſed quia affectiones que in ipſis con cluduntur, non
perdemonſtrationem, quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles uocat, concluduntur
ut declaratum fuit textu nonageſia men, mo POSTERIORVM ARIST. moquarto,merito
ſcientia non funt, ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not men indagari, quis uelit.
TEX. CXII. ALIAS XLIII. 3 EYE per fenfum eft ſcire id, Exemplis duobus. Altero
Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico, declarat Ariſtoteles, ſi enim ſenſus
uifus uideret id, quod intellefius percipit fecunda par te
trigeſimæſecundeprimi Elementorum,quód trian gulus. uidelicet, habet tres
duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens, fed ut
fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret,o huius rationem reddit dicens,
necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter, ſcientia autem eſt in cognoſcen=
douniuerfale, unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe defferente
augem Lune, uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo Mercurij,
uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter hoc
diceremur fcientes, quia illud, quod uiá deretur,effet ſingulare, &cum
ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem ipſius
uniuerfalis, ſequitur, quod per ſenſum non eft fcire. Aliter etiam exponaturſic,
ut ſi eſſemusſuper planetum, qua Luna est, &in illa parte planete que
terram, & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra uerſus idem
centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum uifus, quòd
deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non plures percipit
ecclipſes ſimul neque actu,neque potentia,fed unam tantum,necobid tumen
ſcientes dice remur, non enim uniuerfalis est ſenfus, fed particularis ut ait,
ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes demonſtrationem ha
bemus, non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de purticularibus, ut Tex.
iij. fuit determinatum, fed ita intelligas, quod ſenſus eft tantum
particularium, intellectus autem utriuſque, Sunt tamen quædam reducta ad fenfus
defeétum in propofitis & c. · In hac particula huius textus, idem perſuadet
diuerſo exemplo, quòd. videlicet neque per ſenſum eſt ſcire, in prima huius
textus particulas Exemplum attulit in phænomena eGeometria, in hac autem
particula exemplum est in perſpectiua, eft etiam quoddam aliud diuerfum, quia
precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM
VM LIB. ticula exemplum præbet de multis illuminationibus faétis per uitra pera
forata, ſiue foraminailla ſint pori uitrorum, feu etiam foramina ſint ma
gna,artificio quodam facta, que fenfusuifus in multis uitris confpiciens,
compertum haberet, &manifeſtum eſſet, & propter quid illuminat, id
eft,propter,quid illuminationes multæ fierent,quoniam, ut inquit,uis deremus
quid ſeparatum in unoquoque uitro, id est foramina multa, per qua
radijtranſeuntes illuminationes multe fierent in pariete e re gione collocato,
uel in pauimento domus,quapropterſi plures eclypſes ſimul perciperet fenfus
uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam hoc euenire ex obiectu terræ
inter Solem of Lunam, illud de Luna ex emplum nullo modo diuerfum eſſet ab iſto
de uitris perforatis, niſi quod alterum in Phænomena, reliquum eſſet in
perſpectiua; Ne.credas tam men propter multas irradiationes a uiſu
ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul, uel poris in uitris
per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur fciens,ſed ex his
fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus
intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens,
illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum
eclypſi uiſa, fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco
habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter
quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad
minus uniuer ſalia, ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter
multa foramina fiebant, nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA
Textus particulam illam, Aut æquale maius, autminus, Scire eſt, quod primi Elea
mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem, ut fi una quantitas comparetur ad
aliam eiufdem genes ris, aut erit ei æqualis, aut eadem maior, uel e46 dem
minor, ut quatuor, ad quatuor, uel ad tria, aut ad quinque,ſi comparentur,
fieri nequit, quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam di &tarum
comparata, fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur
contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur, verumquidein poteft
effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum, fedfi ad
plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius Textu,
Neque omnium. uerorum principia funt eadem, neque con ueniunt,ut unitates
punétis non conueniūt, læ quidem enim non habent poſitionein,illa autem habent,
Deappoſitione in punétis, eo pacto intelligas, ut tex.108 declaraui. Exemplo
enim loqui tur de principijs,non quidem ex quibus inferatur conclufio, fed ex
qui dus compoſitumfit, quia ex unitatibus pluribus ſimul coaceruatis com
ponitur numerus, ex pluribusautem punctis non componitur quippiam ut terminaui
tex. xix.huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates, que funt numerorum
principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas enim,uel etiam
unitates non ſupponunt punétum,uel punéta,punétus 'tamen uel puncta eſſe non
poſſunt, quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint,non igiturconueniunt
inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite, wepropter non
appoſitionem, puncti ipſi unitati, unitas enim non ideo unitus est, propter
unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem, ®ultra ait,
quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta, hecuero in continua
conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII. VONIA'M autem idein
multipliciter dicitur eft autem, ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum
uere opinari inconueniens eſt, ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones)
idem, fic eiufdem eſt, ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem non
eſt idem, Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media tamen
diuerſa, falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum commenſurabilem coſte
eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis demonftrationibus
inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit in qua re tex: 1x.
huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe diameter
incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin, par numerus, impar effet, Circa
idem igitur contingit diuerſitas, feu idem multipliciter dicitur, ut quòd
diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta. Nij IN SECVNDVM
LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA: V ENETV S. ** 3 TEX T
VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit, aut hoc, quærimus in nume
rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non, ipſuin quia quærimus. Luna enim
defficit in ſe a lumine, a patitur menſtruum, propter interpoſitam terram diame
traliter inter Solem u Lunam, Sol autem non defficit lumine unquam in ſe, fed
tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis res peritur fimul
cum Luna hoc quidem prouenit, ex eo quod inter afpes Eum noſtrum o corpus
folare interponitur Lund, quæ cum ſit core pus denfum, coppacum magis quàm alia
pars fui orbis impedit fo lares radios, enon finit eos ad afpe&tum nostrum
protellari. Dubita tur circa id quod fuit di&tum paruin ante,o quód
fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in ſequentibus,ufque ad textum nonum an
Luna defficiat penitus lumine, quando patitur menftruum, quod eſt querere,an
Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis
bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes, propterea quod, quandotota eclypfatur
uidetur non nihilhabere luminis, apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius
rotunditas extra plenilunium, ad quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum
habet lumen,niſi à Sole ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia
liquorem aquæum, cauſaaus të apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ
rotunditatis antequam POSTERIOR V MARIS T. fit in oppoſitione Solis eft, quă
ſtatim declarabo quibuſdam paucis pres intellectis, cum ipſa ſint corpus denfum
&politum quemadmodum cæte ra fydera, radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad
ipfam pertingunt non talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram
reuerberantur, Tempore autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu
nõ attın gunt lunam, ſed tunc radij aliorum fyderum, qui debiliores
ſuntſolaribus radijs, pertingunt corpus lunare, &fua tenui uirtute Lunam
illuftrat, ob id Luna uidetur habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et
pro pter hanc eandem caufam dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple
nilunium. TEXT VS I x. + 1 1 + VID conſonantia, ratio numerorü,in acu to &
graui, & propter quid conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem
has bent numerorum graue & acutum, utrum eſt conſonare acutum & graue,
utrum ſit in numeris ratio corum,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt
ratio querimus. inter ea quæ elucidan da funt in hoc textu, idin primis
occurrit, notatu dignum; graue enim Cum motum fuerit, citius ad quietem redit
quam leue æquali pulſumo tüm, Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic
notandum quòd neruus cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum
efficere ſedmul tos, quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur, ut
diſtins Eti, propter celeritatein unius poſt alium, Exemplum præberem de Tur
bone,uiride, aut rubra linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur
uiridis, aut rubcus, ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi
foni illi, qui leuiori neruo procreatifunt,comparentur has beanto ad illos
ratione, ut quatuor ad tria,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi
ueroeam quæ eſt nouem adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient, quæ
quatuor ad duo, que concinentie, cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ
funt generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon,o
biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur, o ſibi do toresqui Calepino
student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant, Alia exempla à
tertio textu uſque ad undecimum,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea
1 IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ
quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed
quæ di&ta funtfuper hoc textu non plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi
enim nonfuerintplures pulfus ad pa uciores com parati, ut in humand uoce,
căcinentia quidem reperitur inter re, ala licet nõ niſi ſingula,&fingula
uox emittatur,non igitur interfonos paus ciores tantum, eu plures concinentia,
ſed primo inter graue ego acutum reperitur, quæ autein uocum diftantia inter ſe
reperiatur, ut debita; fiat concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis
accepto, cumetiä per ea que Boetius tractat manifeſtum est, ſed'in dubium
occurrit illud, quod muſicifaciunt, quando fuper breuem ſillabam, plus temporis
cona ſummunt, quim par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la
festinant, ita ut ea,quæ naturaſunt breues, fiant longe, &quæ longe
ſuntſillabæ,breuesfiant, ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica, fed
Barbara o contra ufum loquendi appareat, Ad quod dico, ſequen tia dubia quæ
funt,an concinentia proueniat ex mouente, ut Aristoteles in libris
degeneratione animalium, uel ex motis rebus, ut in rethoricis, an exnumeratis
pulſibus, ut hoc textů tangit, quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia
clarafient, fed pro declaratione littera, huius tex tus,uideturexpoſitio
feciſſe fatis. TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de
aliquo demonſtrat, ut quia eſt, aut non eft, in deffinitione autem nihil
alterum de altero prædicatur, ut neque animal de bis pede,neque hoc de
animali,neque de plano figura, non eniin planum figura eſt, neque figura planum
eft. Euclides póst quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin
deffinitione quinta, ſtatim de angulis planis, e de fiquris planis adiecit
deffinitiones, que figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu
quia in ſuperficie plana ſunt deſcripte, fi gura plana, hefunt due particulæ
deffinitionis, quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum,
& id que in plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit,
quia eft hoc de hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat,
et q latus trigoni, quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri
fubtenſo minori angulo. POSTERIORVM ARIST. TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM
eft autem & fic, propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo
exiftente rectus eft,fit igitur rectus in quo a, inediun duorum rectorü in
quob, qui eft in feinicirculo in quo c, eius igitur, quod eſt a rectum inelle
c, qui eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem
ipſi b, duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum
rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe. Euclides
xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte,
ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic, ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum c,
quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd, ſecans arcum a
b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri dia,db,
ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ
ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum,ficut duæ unitates bi
narium numerum, quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter proponat
id, quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi çularis à
puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de deter minato,
ubi perpendicularis ſecat ar cum, re & tus ſit, licet illa due medietates
formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti, quæ pro materia
recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij, Ideo aliter
declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura præfcripta,ſit
angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum, c uero in
ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b, quæ uero uni veidēfunt æqualia inter
ſe funt æquae lia, cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt medietas duorum
res. & orum, or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit eidem b æqualis, c
ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c, in ſemicircula
conſtitutus rectus eſt, quod propoſuit Ariſtoteles, quis ſit angulus rer IN
SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi Elementorum, quod
autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit medietas duorum rectos
rum, patet per trigeſimam tertij Elementorum, quodetiam omnis alius angulus in
quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis 6, utputa 0, patet per uigeſimam
tertij Elementorum, qubi in priori expoſitione di cebatur,quòd duæ medietates
erant materia totius relti anguli, hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli
b, ſunt materia torius anguli recti, fic ut demonftretur, quod angulus, qui in
ſemicirculo conſtitutus, eſt re ctus, per materialem caufam, quæ materialis
caufa, ſunt iple partes recti anguli ipſum integrantes. TEXTVS LIII. ONTINGIT
autem idein & gratia alicuius eſſe, & ex neceſsitate, ut propter quid
pe netrat laternam lumen, etenim ex neceſsitas te pertranſit, quod in parua eft
partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo,
Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis,quæ
propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter
oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius, exemplum eſt in optica,inaterialis
caufa eft uitrum, fi nalis,neolfendamus; fornalis eft illa compago uitrorum,lignorumq;,
effi ciens autem,eſt ipſe luterne artifex,quantum ad matheſimſpectat non eft
niſi materialis cauſa in conſideratione, o radios fractos ipfius ignis in
corpus disphinum, per quos illuminationes fiunt. TEXTVS LVI. ALIAS XII. CLIPSIS
Lunæ futura, preſens, atque prete rita,medio interpofitionis terre,
diametraliter in ter Solem & Lunam,nunc, olum, & in futurum con
cluditur, cumfuerit Luna in capite uel cauda dras conis uelprope, o ſub'nadir
Solis. SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII. ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt
puncta, adinuicem co pulata, ticque, quæ facta ſunt, utraque enim indiuifibilia
funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur, statim haberetur, lineam ex pun
&tis componi quod impoßibile effe demonftratum eft in primo, textu Wdecimo
octauo. TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co autein in plus ineſſe quæcúque, infunt
quidem unicuique uniuerfaliter,Atuero & alij,ut eft aliquid quod oinni
Trinitati, in eft fed & non Trinitati, ficut ens ineft Trini tati, ſed
& non numero, numerum quemlibet ex materia oforma conſtare nemo eft qui
neſciat, aliter cnim numerorumſpecies noneſſent numerofinitæ, potentia
ueroinfis nite per unitatis additionem, fpecies autemexgenere odifferentia con
ftat, genus uero materia differentia autemforma eft in numero, materia
numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario numero, tres unitates materia eft
numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas, ens inquit ineſt Trinita ti népe
ternario numero,o hoc prædicatū, ens, extra genus arithmetică eft, quod quidem
ens, alijs multo diuerſis genere à numeroconuenit. Impar uero & ineft omni
Trinitati& in plus eſt. Etenin ipſi quinario ineft, fed non extragenus, ens
quidem alijs ab arithmetico genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his,
quæ infra arithmeticum genus continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario
&alijs multis. Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot
accipiantur primum, quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in
plus. inquit quouſque tot dccipiantur primum, uerbum hoc, primum intelligatur
ex æquo, feu ad equate, ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non
fint ſuper abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod
ille,qui tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet
phi bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta,ut unumquodquefit LO 6 IN
SECVNDVM LIB. cum non in plus, nempeunaqueque particula deffinitionis
uniuerſalior ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale,capaxbeatitudine, que
omnes particu ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior
eft ip sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur,
an illa, quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt,
utunapromultis fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana,claufa,tribuslineis
re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū una,et
altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo? Dicendum
confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam, tribus lineis reftis,
illam non eſſe deffinitionem, fit uniuerſalior ipſo triangulo rectilineo,
quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones,nifidixeris,
quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus, quæ recto cafu,
& non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur deffinitiones,
que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis littert, neque
tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei eſſe, ut
trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut non
menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ,numerus,impar,nõ
patiuntur, difficultaté,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint, ſed particula
iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior
ternario numero,propter altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut
unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario,atque
ternario, et alijs multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit, ut
ternario, qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter binario,qui conſtat non ex
pluribus numeris,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid contras
Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15, XIII,
quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur, Compoſitus
autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco uidetur
quòdaliud fit dimetiri numero; &aliud numeris dia uerſis componi, ut
ſeptenarius, nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex
diuerfis numeris,ut ex binario o quinario,c. ex ternario &quaternario,
primo enim modo aliquis poterit effe pris inus, qui compoſitus erit fecundo
modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen
eorum dimetia tur eorum alterum, var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter
POSTERIORVM ARIST.to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius
maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti, &tertia deffinitione
feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt,hoc igitur loco dico, quod
Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum,fed famoſe, ut philofophoa
rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae tiua, que c
irrationales, e integrantes dicuntur, quàm partes ali quote,qua rationales,
odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis fcitum, non
niſi partes proprie fumpte, que aliquotæfunt, numerum componunt; quod etiam
Nicomachus & Boce. tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi dixeris quod
etiam fecüdum Euclia dem,non omnem numerum,qui alium componit compoſitum
dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV.
ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini pretereunt, Aueroes
tamen magna comentatione tangit nefcioquid, fed fcopum rei non tetigit iudicio
eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis, Textus Ioannis grāmatici
etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu pulchram Ariſtot.doctrinam,
quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum, ſeu Bu, rinam inſpexeris, ipfius
Aucrois interpretes, qua Ariſtotelis doctrina ex Aueroico textu bahita, illam
poſtea ex loanne grammatico, Argi ropilo uidebis neceſſario effluere, loannis
textus ita habetur, fi uero ficut in genere, finiliter fe habebit,ut propter
quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim eit cauſa in lineis, & in
numeris, & eadem, inquantum quidem lineæ, alia eft,in quantuin nero habens
augınentun tale, eadem eſt, fic in omnibus, Argilopilus ſichabet fi fint ut in
genere, medium ha bebunt finiliter,ueluti propter quid etiam mutato ordia oc,
funilitudinein ſubeunt rationum, eft enim alia caufa in lincis, & in
numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea rum rationem fubit,eadem autem,
ut tale habet incremen tum, & codem in omnibus modo; Aueroes fic habet
commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum modum generis,eft eis. affection
IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine, uerbi gratia, cur quando permutantur:
fint proportionalia, huius cnim caufæ in lineis & numeris ſunt diuerfæ, qua
autem addit, hac ſpecie additionis, hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc
textu nõ minus laboris fum pſi propter uarietatem textuum, quam etiam ob id,
quod interpretes: non ita interpretari uidentur, ut textui Ariſtotelis
cohæreant fue interpretationes aut nug & potius, præter Aueroin, qui magna
come mentatione, confuſo tamen ordine dicit aliquid, faciens ad Aristotex: lis
ſententiam, non tamen aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro vera igitur
Ariſtotelis ſententia, in primisſcire debes, quod mas gnitudines ſeu continue
quantitates, &multitudines feu quantitates die ſcrete omnes, uerfantur
circa unum genus quanti, omnes enim quane titates funt, quæ antequàm
permutentur, proportionalia eſſe debent, ut affeétio hæc,permutata
proportionalitas,ſeu permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus
proportionalibus, ratio autem qua concluditur hoc; de lineis,
fuperficiebus,temporibus, vt corporibus, eadem de numeris concluditur, primum
demonftratur propoſitione dea cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia
principia, opropos ſitiones diuerſas ab his propoſitionibus &principijs,
quibus de nume ris eadem permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum,
propoſitione decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li
neiseft,quia diuerſa e uniuerſalior, atque per diuerſa media, à ratio: ne qua
idem de numeris concluditur, huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ,
cauſas has, eas uoco, quæ folum dant propter quid & de his cauſis, que
etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim, quia tamen dicebam,quòd non
concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de proportionalibus
quantitatibus. Si modofieret queſtio, o cauſainueftigaretur,quare quantitates
dicantur proportionales, uel que nam ſint quantitates proportionales, aut
quando proportionales funt, Ariſtoteles dicit unam eſſe cauſam in omnibus, cum
difcretis tum etiam continuis, quæ eft ex additione fimili utrobique pro cuius
notitia mania feſta deffinitio ſexta quinti Elementorum, minime negligenda eſt,
oeft Quantitates quedicuntur eſſe fecundum proportionem unam, prima ad fecundam
vtertia ad quartam ſunt, quarum prime otertiæ æques multiplices, ſecunde
«quarte equemultiplicibus comparat &, fimiles fuerint uel additione,
ueldiminutione,uel æqualitate,eodem ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple.
V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu difcrete ſint, feu etiam
continuefuerint,héc uidelicet fimilis additio,ueldiminutio,feu æquatio inter
equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait in textu Ariſtoteles, in quantum uero
habens augmentum tale, eadem eft fic in omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis
est una pér fe caufa in omnibus. Similem autem eſſe colorem colori, &
figuram figuræ, aliam efſe alñ æquiuocum enim eft fimile in his. Hic quis dem
eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere latera, & æquales angulos. Figuræ
rectilinee funtfimiles ex prima deffinitione fexti Elemen.quæ habent angulos
omnesæquales, es latera illosæquales angulos continentia
proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet commus nefiguris ocoloribus, niſi
nomenclaturam, non autem rem naturam unam, in coloribus enim non concernes,
neque latera, neque angulos. Habent autem fe fic propter conſequentiam ad
inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt cauſa, unumquodque tamen
accipienti, cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor rectis æquales, qui funt
extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus, in omnibusautem æqualiter.
Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra,textus hicdeffétis uus eft,
& mutilus apud Ioannem Grammaticum & Argiropilum, ma. gne
commentationis textus est clarior, ſed non ad plenumfacit fatis,ut mens
Ariſtotelis, fatim appareat. Caufe illationis, ſeu conſequentie, que mutuæ funt,
feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea, quæ pri mo libro tex. xcvij. di
&ta fuere inſpiciendum eſt, oultra aduertas quod uniuerſaliuseft habere
omnes angulos extrinfecos æquales quatuor res Ais,quàm eſſe triangulum,uel quadrangulum,aut
pentagonum,uel exago num, aut quippiamtale feorfum, fi autem accipiatur fic
reétilineum est, igitur omnes anguli quiſunt extra, funt equales quatuor
re& is, oecon uerfo, fic infertur, omnes anguli quiſunt extra funt æquales
quatuor rectis,igiturid cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ eft,quo
uet bo, re &tilineum, comprehenduntur nedum triangulus, quadrangulus,co
penthagonus, fed omnes figuræ re& ilinec, hoc igitur uult Ariſtoteles
quandoinquit, quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales, uniuer Jalius
eſt trigono, otetragono, ſi uero hec omuia accipiantur, ut in hoc uerbo,
rectilineum, omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto
habentſe propter confequentiam,ut ad inuicem caufa «cu us caufa, &cui eft
caufa. ilo: CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA
MENS CONCIPERE POTEST. FINISI RE G I S T R V M.. A B Omnes ſuntduerni.
CORRECTIO OPERIS. 37 Pac. 4. lined s publicis, à publicis. fac.4.li.6
incumbebam,abſtinere decreui..li.io laberinthos,labyrinthos.li.21 literis
litteris ubique. Pd.4 li.3 comode, commode.li. 11 prefertim, præfertim ubique.
li.12cales, calles. li. 16 Ariſtoteles, Ariſtotelis. Facis li.24 age, aie. Fac.
6.li. 2 pulcra, pulchra ubique. li, z fpetie, fpecie percubique. li. 32.
quinnis, quinis. lin. 3 3 unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit, fcit.Fa.8
li.25 comunem,communem ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis ubique F
&c.14 li.9 affumens, afſummens ubique. li.16 ſempliciter, fimpliciter. li.
12 equales æqualesubique. Fac.15.li.20 probation, probatione. Fa. 26 li. 26
reſumitur, reſummitur ubique. Fd. 19.3 1 Geotrica, Geomes trica. fac.20 li. o
quadrati, quadrari. li. 10 e e Spoffet, effe poffet. li. 20 eeſſ;eſe. Fac.22
li. 10 A poline, A polline. Pac. 23 li. innitide tus,initatus. Fac.30 li. 12
fcit,ſit.fac.31.li.12 atulerunt attulerunt. fa. 3 2.li.27 manus, manu. fac.
34.li.7 ſilicet, ſcilicet ubique. fuc.36.li.4 Textus, Textu. li.25. aget, &
get. fac.41. li:3 2 queſtione, queſtione ubique. fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa.
48 li.34 prinus, primus. Fac.49 li.16.fue, ſua. fac.49.li.20 induéti, induti.
fac. stili. 12recte,recti. fac.53 li. 11 A'riſtelis, Ariſtotelis.fac.53 li. 12
bucis, buccis ubique. li. 6 nltera, altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24
puerost, pueros, li. 25 illeuatus, eleuatus. fac.59 li. 7 olas, ollas. li. 3i
ſimilitcr, ſimili ter. li. 3 4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi.
li.25. apolini, apollini per,, ubique.lin. 28 pret,
preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet, ſcilicet ubique.fac.62 li. 23
rrrat, erat. fac.64. lin. 31 nos tid, notitia.fa.67 li.14
prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68 li. 20 queſitis,
quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares. fac. 76 li.16.notia.notitia.
fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27 preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique
fac. 83. li. 8.ſcienriarum, ſcientiarum. lin. 21.chierurgia, chirurgia. fac. 86
li. 10. neft, ineft.li. 17.angregata, aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum,
prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28. redit,reddet.fac.95li,31.
eget,eget.fac.96.li.20 fequacea, fequaces. li. 32, balbitiant,balbutiant.fac.
104.11.18.uirum,uitrum. Et fi qua alia (que non funt pauca ) pretermiffa funt,
diligens le& tor surum colligat &mufcas abigat.Grice: “The motivation
behind my Immanuel Kant Lectures, Aspects of reason and reasoning, was to shed
light on what Catena calls ‘demostrazione potetissima’.” Grice: “The Latin
language – and the Italian language to some degree – allows for some fine
inflections: there’s potius, which when cmbined with esse, gives posse, or
potere – the ‘t’ is sometimes inarticulated as a ‘d’, as in ‘poderoso’, which
goes for potius. Now, the interesting thing about potius, as Ross, and Mansel,
and Aldrich and some Italian semioticians have found out – dealing with Roman
law – is that a demonstrazione cn be ‘able’ (potis), in the positive degree.
When it becomes comparative, the demonstrazione becomes ‘dimonstratio potior’,
i.e. not able, but abler not capable, but capabler. Finally, if it’s the ablest
or capablest, it’s demostrazione potissima, or demonstratio potissima. The
‘scuola padovana’ goes on to qualify ‘dimonstrazione potisima’ into two types,
‘dimonstrazione potissima affirmative,’ and ‘dimostrazione potisima negativa’. These
are higher types of demonstration than the ‘demonstratio potior affirmativa’
and ‘demonstratio potior negativa’.” Petrus Cathena. Petrus Catena. Pietro
Catena. Keywords: logica matematica, logica aritmetica, logica arimmetica. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773531898/in/dateposted-public/
Grice e Cattaneo – implicatura longobarda
-- Vico e la Sapienza italiana – il dialetto Milanese e il sostratto latino --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I
like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like me! I taught at
Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians (and indeed the
‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but Hebrew – He famously
claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a librarian! – From a
semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon the philosopher must
consider when dealing with communication – he explored semantics, but also
‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously, pragmatics – He was
interested in comparing systems of communication in Homo sapiens sapiens and
other species – and being an Italian, he was especially interested in how Roman
became Latin – he opposed the Tuscany rule!” -- Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is
can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre,
un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse
gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e
lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu
proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio,
un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici
della filosofia romana. Il suo amore per le lettere humanistiche classiche
lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi,
che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di
diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua
formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo
classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu
plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini,
i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità,
oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi
di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la
sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il
contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche
un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per
il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua
dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto
Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione
Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel
ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli
filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi
stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a
frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e
allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti. Risale il suo saggio
dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione
all'assunto primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della
Svizzera italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del
regno lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica
non violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei
confronti della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta
del filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne
pensasse di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero,
non vedo perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore
austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky. Purtroppo
l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza,
fecero capire a Cattaneo che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di
Vienna e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe
anche Radetzky che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a
cercare il favore del volgo. Cattaneo e i suoi amici parteciparono quindi e
contribuirono alle cinque giornate di Milano, senza agire con azioni di
violenza gratuita. Ma dopo di esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera
il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico.
Presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme al Governo
provvisorio fino alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una
serie di moti popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica romana,
guidata da un triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini. In
seguito alla conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a
Castagnola, nei pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere
maggiormente la sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di
partecipare alla vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di
Lugano, che volle fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal
giogo del papa, al fine di formare una generazione liberale e laica che era
alla base dello sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara,
anda a Napoli per incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso
dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur
essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia
unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare
fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate
su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al
nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su
una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto
amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi
l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa
proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è
un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte
la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di
rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge
massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua
lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria,
per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e
negata. Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della
communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di
pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo,
comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione
alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione
dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto
collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o
autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli
uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di “contratto”
comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La comunita,
la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario, permanente,
universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze umane -- è
sorto perché è un elemento necessario di due menti individuali. Pur
riconoscendo il valore della singola intelligenza monadica, afferma però, che
più scambio, conversazione, dialettica, e confronto ci sono, più la singola
intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro nella diada. In questo modo
anche la società e la comunita diadica e più tollerante. Le due sistemi
cognitivi dei individui della diada devono essere sempre aperti, bisogna essere
sempre pronti ad analizzare nuove verità. Così come le due menti si
devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di
fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli, le comunita, possono gestire
meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica. La communita, il popolo deve
tenere le mani sulla propria libertà. La comunita, il popolo non deve delegare
la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze. La
libertà economica è fondamentale per Cattaneo -- è la prosecuzione della
libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte radici. Nessuna di
queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà economica necessita
di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma solo dopo che tutti
avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella conversazione aperta. E
un deciso repubblicano e una volta eletto addirittura rinuncia ad entrare in
parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi all'autorità e la forza del
re. Viene richiamato quale iniziatore della corrente di pensiero
federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico, rivista che divenne
un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come intento principale
l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura nazionale. Guardando
all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla democrazia diretta),
define il federalismo come "teorica della libertà" in grado di
coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota al riguardo che abiamo
pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa, alla svizzera. Cattaneo e
Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di vera attuazione
dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di orientamento
radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno dall'impegno
politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale della
società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento alternativo a
quello dei Savoia. In accordo con il Tuveri redattore del Corriere di
Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave autonomistica
locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del governo centrale
nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di ettari (più di un
quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i soppressi demani
feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il diritto di ademprivio,
per usi civici. A lui è dedicato l'omonimo istituto di
ricerca. Altre opere: “Scritti filosofici”; “Interdizioni israelitiche”; “Psicologia
delle menti associate” – questo saggio – associazione -- non è stata completata
e rimane allo stato di frammenti. Il tema de saggio sarebbe dovuto consistere
nel cercare un'interpretazione sociale – diadica -- nello sviluppo
dell'individuo o monada. La città – cittadino – cittadinanza -- considerata
come principio ideale delle istorie italiane; Dell'India antica e moderna; Notizie
naturali e civili su la Lombardia Vita di Dante di Cesare Balbo Il Politecnico,
Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale e
comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e della successiva guerra. Rapporto sulla
bonificazione del piano di Magaldino a nome della società promotrice, In Lugano,
Tipografia Chiusi. Le cinque giornate di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato
da Giannini. Cattaneo e le cinque giornate di Milano Secondo una tesi, non comprovata e non
accolta dai dizionari biografici, Cattaneo sarebbe nato a Villastanza, frazione
del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente più antica è la
Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in proprietà del
signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi. Un'insistente
tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali nientemeno che Carlo
Cattaneo. Ma il Cattaneo deve aver passato qui soltanto alcuni anni della sua
infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai propri genitori. Si
veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e sviluppi dalle origini ad
oggi, Unione Tipografica di Milano. (G. Tortora), da Filosofico (Diego
Fusaro) Arch. Rebecca Fant Milano Bertone, Camagni, Panara, La buone società:
Milano industria. Almanacco istorico d'Italia,
1, Battezzatti. Carlo Cattaneo genealogy project, su geni_family_tree.
16 marzo. Il Famedio, su del Comune di Milano. Carlo G. Lacaita,
Raffaella Gobbo, Alfredo Turiel La biblioteca di Carlo Cattaneo, Le riforme
illuministiche in Lombardia, articolo dal saggio introduttivo a Notizie
naturali e civili della Lombardia, come riportato da Mario Pazzaglia in
Antologia della letteratura italiana, Il
monumento milanese che lo raffigura reca l'iscrizione «A Carlo Cattaneo -- La
massoneria italiana» Mola, Aldo
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(filosofo) Liceo di Lugano Stati Uniti d'Europa Sostrato (linguistica)
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della nascita (1801-2001 Filosofia Letteratura
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italiani Professore1801 1869 15 giugno 6 febbraio Milano LuganoScrittori
italiani del XIX secolo Personalità del Risorgimento Positivisti Insegnanti
italiani del XIX secoloFilosofi della politicaRepubblicanesimoLinguisti
italianiSepolti nel Cimitero Monumentale di MilanoPolitologi
italianiFederalistiDeputati della VII legislatura del Regno di SardegnaDeputati
dell'VIII legislatura del Regno d'Italia Deputati della IX legislatura del
Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di Carlo Cattaneo
Pubblicato il 1 novembre 2020 da Comitato di Redazione
matania_edoardo_-_ritratto_giovanile_di_carlo_cattaneo_-_xilografia_-_1887-2_imagefullwide
Edoardo Matania, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia, 1887
di Alessandro Prato La centralità della figura di Carlo Cattaneo
(1801-1869) nell’ambito della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento
è giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi
giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso
l’etnografia e la psicologia sociale [1]. La sua personalità di studioso
poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e
dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di
grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo
scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico (1839-44) e, non
da ultimo, il linguista. Nel quadro di questa ricerca intellettuale così
ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici
di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto
di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia
alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta
partecipazione popolare allo sviluppo della società civile. Proprio sugli
interessi linguistici di Cattaneo [2] concentreremo la nostra attenzione
mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione
dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della
lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il
vincolo unitario in senso geografico e sociale» (Vitale 1984: 457), perché è da
essa che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso
della cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della
lingua faceva sì che Cattaneo potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua
– rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi
provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente
visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo
manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità
di cultura e di vita civile nazionale. Questa impostazione spiega poi la
sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini
nuovi, non antitetici, i rapporti fra i dialetti e la lingua,
riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio
storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e
sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però
considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico
fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei
parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi
riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.
Il primo scritto di linguistica di Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e
della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato nel 1837 [3], come parte di un
lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla
lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio
sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale,
condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale
differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in
storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di
questioni linguistiche, Cattaneo già in questo primo scritto – il cui carattere
storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il
problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità
e testimonianza delle vicende della storia dei popoli. La funzione
sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la
finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che
compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri
di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono
essere comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di
quello del loro svolgersi immediato (Lewis 1987:17). Il nucleo che tiene
insieme le memorie individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e
l’esercizio della lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona
parte l’identità di un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso
Cattaneo non si riferiva alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e
di etichette fonologiche, ma anche come modalità socialmente e regionalmente
differenziata, dunque non la lingua come sistema, bensì come norma e
istituzione: «è nelle parole della lingua che si condensano i path, i
“sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità» (De Mauro 2008:
67). poliCattaneo mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per
l’opera di Vico, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di
Romagnosi e Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica
dell’illuminismo. Proprio dal libro di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a Parigi
nel 1839, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul
Politecnico nello stesso anno [4]. L’interesse per le età primitive e per la
vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione [5] denotano la
presenza di motivi vichiani, con i quali Cattaneo corresse certi eccessi del
razionalismo settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e
allo stesso tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della
filosofia di Vico. La sua formazione illuminista lo portò a non condividere
nessun mito del Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come
maestro Locke contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le
posizioni di Rosmini, Gioberti e anche Mazzini. L’illuminismo nella sua
opera «si rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio
1957: XIX). Rispetto al Romanticismo la posizione di Cattaneo è contrassegnata
da una sostanziale estraneità: giustamente Timpanaro (1969: 233-34) osserva che
parlare – come spesso si è fatto – di un romanticismo di Cattaneo può essere
giusto se ci riferiamo al romanticismo come una categoria spirituale generale,
definendo romantico ogni forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni
popolari e per il nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare
che per il Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito
Cattaneo – come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento
critico e distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella
concezione religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature
diverse – condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo
spirito popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma
di ingenuità, che come aspirazione democratica. Sui rapporti tra romani e
barbari e sulle origini della lingua italiana Cattaneo tornò diverse volte in
altri scritti successivi quel primo saggio del 1837 [6], sostenendo la derivazione
dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso delle lingue
dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo lui il numero
dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a quanto pensavano
molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione dell’italiano dal
latino volgare per Cattaneo era necessario tener conto anche dell’influsso
esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati dai romani
(etrusco, umbro, celtico ecc..). Questa è l’importante teoria del
sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei dialetti
italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il lessico: non
si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della stessa nuova
lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche precedenti
che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti [7].
Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare
la posizione che Cattaneo ha assunto nel dibattito sulla questione della
lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del
tempo. Cattaneo, infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di
linguista militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario
riteneva lo studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento,
della linguistica normativa [8]. Di fronte al problema di come la lingua
italiana avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una
rigorosa battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era
diretto – riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi
lombardi del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia
della Crusca, che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea
a ogni innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il
secondo fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del
Manzoni, ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un
concetto di popolarità che egli non condivideva: «la dottrina della
popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che
si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì
che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più
domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende
un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità
dell’uso e dei frutti» (Cattaneo 1948: I, 8). 2560350164442_0_0_0_696_75In
alternativa, Cattaneo opponeva una forma di lingua che costituisse un punto
d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter
svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo
stesso tempo illustre [9], «insieme austera e moderna» (Timpanaro 1969: 237),
adeguata non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e
filosofica. Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già
fatto riferimento, Cattaneo ha dimostrato inoltre di avere due maggiori
capacità rispetto ad altri autori italiani suoi contemporanei. La prima era
quella di saper andare al di là dei ristretti confini nazionali, interessandosi
ad esempio delle lingue germaniche e del romeno. La seconda consisteva nell’avere
ben presente il principio che la comunanza di origine tra due lingue è
dimostrata dalla somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei vocaboli
– principio che ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e dei
fratelli Schlegel [10] che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui
importanti interlocutori anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle
sue idee linguistiche. Nel 1839 Bernardino Biondelli [11] cominciò a pubblicare
sul Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo
anche importanti opere dei comparatisti [12], informando così il pubblico
italiano sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno
indotto Cattaneo a prendere una posizione critica di fronte a questa corrente
di studi e a scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee
[13]. In questo saggio Cattaneo criticava l’idea che dall’affinità delle
lingue fosse possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era
invece convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità
linguistica e affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero
attentamente distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità
dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al
sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva
forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo
(Marazzini 1988: 406). Per Friedrich Schlegel [14] il sostrato svolgeva soprattutto
una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito; per
Cattaneo, al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee
primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava
appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione
unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro 1969: 266). La
parentela linguistica non è quindi nel sistema di Cattaneo identità di origine,
bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni,
dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali.
Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo: «Le lingue
vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune,
che tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una
lingua commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende
all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle
isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il
carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella
Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i
nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le
lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le
differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione
promovono sempre più l’unificazione dei popoli. Non è che una lingua madre
si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse,
assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che
l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e
infine mettono foce commune in lei» (Cattaneo 1957: 450). Sulla base di queste
considerazioni, Cattaneo, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o
poligenesi del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava
evidentemente il primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel
particolare tipo di poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel
separare nettamente pochi tipi linguistici originali dai quali sarebbero
derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per lui invece esistevano tante
lingue primitive originarie che si erano ridotte di numero, via via che le
tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi. Non esistevano quindi
– come per Schlegel – delle lingue perfette fin dall’inizio (le lingue
flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come scriveva lui stesso,
“ferine”. I modelli di questo modo di intendere il poligenismo linguistico sono
Epicuro, Vico e Cesarotti [15]. Sempre contro Schlegel, rivendicava la
giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le forme flessionali
più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che
all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel primo articolo del 1837
osservava infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano
derivare da semplici nomi con un articolo affisso (Cattaneo 1948: I,
228).
psicologiadellementiassociatecarlocattaneoeditoririuniti_1024x1024-1La polemica
con Schlegel riguardava anche la questione dell’origine del linguaggio: mentre
per il primo la flessione indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un
intervento divino, per Cattaneo, l’origine del linguaggio non poteva che essere
umana, e su questo avrebbe mantenuto una posizione coerente anche negli scritti
successivi come le Lezioni di ideologia del 1862, dove, ad esempio, confutava
il sofisma di Bonald che negava all’uomo la facoltà di costruirsi un
linguaggio. Su questo tema come per tanti altri Cattaneo è vicino alla grande
tradizione della linguistica illuminista che con Locke e Herder aveva respinto
recisamente la concezione delle idee innate e l’origine divina del linguaggio
(Prato 2012: 17-22) ed è del tutto immune dalla concezione misticheggiante
della linguistica tanto cara ai romantici. Proprio nel Saggio sul
principio istorico delle lingue europee, Cattaneo si proponeva di verificare il
rapporto tra fenomeni linguistici e tradizioni culturali, considerando la
ricerca linguistica in stretta correlazione con una riflessione propriamente
filosofica. L’analisi dei fenomeni linguistici non si riduceva per lui solo a
una raccolta estemporanea di dati ma si traduceva in una vera e propria scienza
sociale. Alla filosofia analitica degli Idèologues – che era rappresentata per
gli scrittori italiani soprattutto da Condillac e Tracy – egli riconosceva
senz’altro il merito di aver esaminato con acume e precisione i problemi del
linguaggio, inserendoli in una prospettiva il più possibile concreta e
razionale. Allo stesso tempo era tuttavia consapevole anche dei suoi limiti,
che consistono nell’aver indicato come proprio oggetto di riflessione una
figura di uomo dai caratteri astratti e indipendente dal rapporto con i suoi
simili. Proprio «la famosa ipotesi della ‘statua’ condillachiana gli appariva
emblematica di un concetto destorificato della natura umana» (Gensini 1993:
238). Non a caso alle conferenze tenute a partire dal 1859 presso l’Istituto
Lombardo di Scienze e Lettere, Cattaneo volle dare il titolo di Psicologia
delle menti associate [16], dove il termine di “psicologia sociale” è inteso
appunto in senso antropologico sia come riflessione sull’uomo a partire dai
rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come ricostruzione delle
mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di mediazioni sociali. In
queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa fermentare le idee non
si svolge in una mente sola perché «la corrente del pensiero vuole una pila
elettrica di più cuori e di più intelletti» (Cattaneo 1957: 277-78). La
genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire dal linguaggio, in
questa nuova prospettiva aperta da Cattaneo, non può che radicarsi nella
pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da felici
condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto delli
elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità» (Cattaneo
1960: II, 16). Il linguaggio stesso è la società (Cattaneo 1957: 316), ed è
proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle idee –
iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte del
corso di Filosofia che Cattaneo aveva tenuto presso il liceo di Lugano.
Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la sua chiara
derivazione illuminista, l’ideologia [17] rappresentava la sola reale forma di
opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché l’ideologia era
«un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad opporsi alla marea
montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo eclettico in Francia,
all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari 1990: 153). I principi che
contrassegnano l’intera ricerca di Cattaneo e che spaziano dal riconoscimento
del valore del pensiero scientifico, alla negazione della metafisica e alla
difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente ai problemi e alle
esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori forme di sviluppo e
approfondimento. Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Note [1] Per un ritratto complessivo di Cattaneo e dei rapporti con i suoi
contemporanei rimandiamo a Alessio (1957) e Mazzali (1990). [2] Studiati in
particolare da Timpanaro (1969: 229-83). Si veda anche Gensini (1993: 237-40),
Benincà (1994: 576-80), Geymonat (2018). [3] Negli Annali universali di
statistica, si leggono ora in Cattaneo (1948: I, 209-37). [4] Si trova in Cattaneo
(1957: 39-75). [5] Anche per Giordani la lingua è il vincolo di una
comunità che si identifica con la nazione (Cecioni 1977: 59), [6] Per esempio
nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre sul Politecnico
del 1839 (ora in Cattaneo 1957: 380-395) di cui viene criticato il contenuto
religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. [7] Questa teoria del
sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri scritti
linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense pagine di
Timpanaro (1969: 284 sgg) e Timpanaro (2005: 237-51). [8] Qui lo scrittore
lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che risaliva
al De vulgari eloquentia di Dante. [9] Su questo si può cogliere l’eco della
Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca
(1817-1822) del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo
con passione e interesse. [10] Sulla linguistica dei comparatisti si veda
Morpurgo Davies (1994). [11] Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo
sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro (1980: 49-52). [12]
Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. [13] Pubblicato sul
Politecnico nel 1841 è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più
ampio e originale. [14] Qui Cattaneo fa riferimento al libro: Uber die Sprache
und Weisheit der Indier del 1808. Sulle idee filosofico-linguistiche di
Schlegel vedi Timpanaro (2005: 17-56). [15] In particolare su Cesarotti e sul
suo Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) che è stato per Cattaneo una
lettura importante vedi Gensini (2020). [16] Pubblicate postume da Bertani
nella raccolta di Opere edite e inedite in 7 volumi usciti tra il 1881 e il
1892, si leggono ora in Cattaneo (1957: 270-326). [17] Ideologia è del resto il
titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il
liceo di Lugano: si trova ora in Cattaneo (1960: III, 3-204). Riferimenti
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Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti o Biblioteca italiana”, III, pp.
177-187. Delle Lezioni tenute al Liceo di Lugano tra anni Cinquanta e
Sessanta, si analizzano le versioni preparatorie di un paragrafo dedicato
all’originarsi della poesia da canti e balli popolari (con particolare
attenzione alla cosiddetta ballata). Ciò consente di riconoscere in Cattaneo,
che in quel periodo ha ripreso l’attività di studio e divulgazione, il
perdurare d’interessi terminologici e il legame con dibattiti che avevano
coinvolto suoi maestri, colleghi e amici nella prima metà dell’Ottocento.
Curiosità e passioni di gioventù s’intrecciano con letture nuove, alcune delle
quali avranno eco nella seconda serie de "Il Politecnico", altre
rimarranno limitate alla pratica didattica e si possono in parte scoprire
grazie agli appunti preparatori. Indice del saggio su Cattaneo linguista –
recensione Resurggimento. Anche il
latino fu lingua
di tutta Italia,
ma gl'Italici non
erano tulli romani
e i dialetti
ne ftmno testimonianza. La
serbata integrità nativa
delle molteplici favelle
del Caucaso di fronte
alle indo-perse riflette
l'imagine di quelle
che popolavano l'Italia
innanzi che la
coprisse lo strato
Ialino. Ne invasioni
armale, né importazioni
di civiltà, ne
so- vrapposizioni di lingue
alterarono i confini
etnografici dei Tusci,
dei Liguri, dei
Cisalpini, dei Veneti
e d'ogni altra . Non
cono- sciamo ancora le
svariate forme naturali
del nostro paese,
e nemmeno i
nostri dialetti e
le riposte loro
derivazioni; non conosciamo
i secreti nessi
che collegano questa
lin- gua nostra alla
civiltà precoce della
Persia e dell'
India, e alla
lunga barbarie dell'
antico settentrione. La filologia
è una scienza
nuova che classifica
le duemila lingue e
dialetti morti e
vivi in famiglie,
come si co-
stuma nelle faune e
nelle flore. La
scienza delle lingue
è luce aggiunta
alla scienza dei
luoghi, dei tempi
e dei monumen-
ti, a rischiarare il
buio dell'istoria. Per
lei si scoprono
le cause onde i
popoli
comunicarono tra loro
con certi modi
peculiari i propri
pensieri; per lei
si rileva, da
lieve indizio di
scrittura salvata, una
gente ignota alla
storia; si sorpren-
dono sorelle nazioni che l'
idioma apparentemente diverso
inimicò, e in
un dialetto si
palesano segni di
origine disfor- me e
di antichi odii
in nazione stimata
omogenea: per lei
si assiste al
ritorno su straniere
labbra d'un vocabolo
esulato i. I
■il dalla patria
in età remola;
per lei si
rintracciano in una
valle le reliquia
di lingua fuggita
dalla pianura negli
attriti del commercio
o della conquista:
per lei contemplasi
il tran- sito d'una
favella celebrala da
una letteratura, e
l'ascen- sione d'oscuro dialetto
a dignità di
idioma illustre in
com- pagnia della fortuna
di un popolo;
per lei rilucono
le alfinità e
le diversità delle
lingue tutte. La nostra
lingua ha una
nota affinità primamente
col latino e
colle altre lingue
dal latino derivate:
fran- cese, spagnuola, portoghese
e rumena o
moldo-valacca. Queste sei
lingue viventi e
li innumerevoli loro
dialetti si classificano
dai linguisti sotto
il nome commune
di lingue romane
o romanze o
latine; come una
famiglia. si deduce che
i dialetti e
pronuncie provinciali sono
fili conduttori alle
origini prime: si
deduce che la
va- rietà dei dialetti,
delle pronuncie e
dell'aspetto delle genti
moderne trova esplicazione
e commento nella
varietà delle stirpi
e delle lingue
primitive: si deduce
che l' azione
cemen- tatrice delle
lingue s* è
compiuta soltanto sovra
popoli bar- bari, e
tali erano gU europei alla
comparizione delle caste
asiatiche; che avendo
raggiunto un certo
grado di coltura,
ì Baschi resistettero
alla lingua latina Quando
noi troviamo nel
tedesco e nel
gotico la radice
della parola latina
^iraesagus, dobbia- mo indurre
che qualche antichissima
relazione vi fu
tra li avi dei Romani
e li avi
de' Goti. Nello stesso
modo in cui
possiamo riferire l'italiano,
il francese e
lo spagnolo alla
commune loro madre,
la lingua latina,
possiamo ri- ferire il
latino,, il greco,
il sanscrito, il
zendo ad una
commune origine celata
nella notte dei
tempi. Se si paragona
il latino alle
lingue sue figlie,
si trova che
queste, cioè le
lingue moderne, hanno
maggior copia di
voci astratte. Il
latino ha la
voce fortis e
non ha la
voce forza; da
vir abbiamo il
latino virtus, l'italiano
e il francese
virtù, vertu; ma
l'italiano il francese
hanno inoltre le
parole derivate virtuoso,
virtuosamente, vertueux, vertueusement; e
il francese ha
inoltre il verbo
évei^tuer. Le voci
italiane ente, entità,
essenza, essenziale, essenzialmente, se
vengono ricondotte alla
forma latina, ens,
entitas, essentia, essentialis,
essentialiter non si
trovano mai nelli
scrittori antichi , ma
solo in quelli
dei bassi tempi. l'inglese, che
per una metà
de' suoi vocaboli deriva
dall'antica lingua anglo-
sassone e per l'altra
metà dal latino. Nelle
lingue indo-europee la
radice è quasi
sempre unisillaba. Le
poche radici bisillabe
come aìiima, columna,
vidua, susurrus, titubare,
vacillare, oscillare^ tentennare,
dondolare si possono
considerare o come
raddoppiamenti o come
derivazioni di voci
semplici più antiche. In
latino un verbo
semplice p. e.
mitto, fero, traho
colle sue inflessioni
di persona, di
numero, di tempo,
di modo, e
coi diversi casi
de' suoi participj. produce
nella sola forma
attiva , circa un
centinaio dì inflessioni
{mitto, mittis, mittens,
missuriis etc. etc.)
coir aggìuiìta della
forma passiva (mittor,
mitteris, missus, mittendus)
e dei nomi
ed aggettivi verbali
{missio, missilis y
missivus) ne forma
forse duecento. Questo numero
può ripetersi tante
volte quanti sono
i verbi derivati
e composti, p.
e. mittito, admitto,
amitto , eie. epperò
dalla sola radice
unisillaba di mitt-o
possono diramarsi tremila
suoni piìi o
meno diversi, ciascuno
dei quali esprime
un'idea in qualche
grado modificata e
distinta p. e.
nelle tre voci
mitto, misi, mitfam,
vi è per
lo meno la
dilFerenza del tempo,
nelle voci missuris
e mittendis sono
espresse tutte quelle
idee che in
italiano significhiamo con
dire: a quelli
che manderanno , ovvero
a quelli che
devono essere man*
dati. Cosicché qui
tre sillabe latine
equivalgono da sette
a tredici sillabe
italiane. 6. Codesti
tremila vocaboli nelT
idioma primitivo furono
rappresentati da una
sola sillaba: mit.
È come la
quercia rappresentata da una ghianda.
Qualunque sia dunque
la dovizia delle
forme nelle lingue
derivate, abbiamo questa terza
legge di linguistica
che le lingue
veramente primitive hanno
potuto consistere in
poche centinaia di
radici monosillabe. È un
fatto lingui- stico che
le lingue madri,
nel propagarsi di
paese in paese e nel
venir adottate da
numerose nazioni, hnnno
perduto gran numero
delle loro inflessioni.
L'italiano paragonato al
latino, non ha
più i verbi
passivi, né i
participi futuri, né
i partecipali, né
il genere neutro,
e le declinazioni
dei nomi sono
ridutte a due
sole de- sinenze, singolare e
plurale. Per rilevare
le affinità non
basta paragonare isolatamente
una lingua con
un'altra, ma è
necessario ravvicinarla a
tutta la serie
delle lingue della
stessa fa- miglia. A
prima vista non
appare similitudine tra
il vo- cabolo dormire e
il tedesco traumen,
che vuol dire
so- gnare; ma appare
di più nelP
inglese dream, che
ha le stesse
consonanti del latino
e lo stesso
senso del tedesco;
inoltre nelle due
voci latine somniis
e somnium, e
nelle italiane sonno
e sogno si
trova il doppio
senso di dor-
mire e sognare. La pronuncia
dei |)opoli proviene
dalle loro ori-
gini, ossia dal genio
imitativo più o meno delicato,
dalli organi vocali
più o meno
flessibili, e dalle
abitudini pas- sate
in tradizione. E
più facile mutare
il vocabolario d'un
popolo, dargli una
nuova lingua, che
non mutare la sua pronuncia.
Questa sopravvive nei
dialetti, anche dopo
che le lingue
^ono mutate. Ancora
oggidì la pro-
nuncia e il dialetto
segnano in Italia
precisamente i confini
antichi della Gallia
Cisalpina e della
Carnia con la Venezia
, la
Toscana e la
Liguiia. In Italia due
soli dialetti hanno
aspirazione: il toscano
e il bergamasco.
I due dialetti
più dolci sono
il veneto e
il siciliano, alle
opposte estre- mità dell'Italia. Vico rinvenne
nelle radici latine
le vesti-jia d'una
antica sapienza. \fa
essendo a quei
tempi ignota ancora
la scienza linguistica
e non osservata
la consonanza del
latino col zendo
e col sanscrito,
egli attribuì quella
sa- pienza alli aborigeni
dell'Italia, e perciò
scrisse il li-
bro De antiqiiissima Italorum
sapientia et latinae
Un- gnae originibus
emenda, Carlo Cattaneo.
Keywords: cinque giornate, community, communita, diada, monada, associazione,
contratto sociale, conversazione, psicologia filosofica, psicologia, sociologia
filosofica, ego e alter ego, logica e linguaggio, il latino, l’italiano di
lombardia, il natale di Cattaneo – regione Lombardia – provincia -- – Milano.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773904359/in/dateposted-public/
Grice e Cattaneo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I love Cattaneo, but then you would,
wouldn’t you – He reminds me of H. L. A. Hart, and then *I* am reminded that
Cattaneo translated Hart to Italian as a pastime! What I like about Cattaneo is
that instead of focusing on “Roman law” and Cicero – he focuses on Pinocchio!”.
Si laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio di Treves e Bobbio ha
soggiornato al St. Antony's, criticando Hart, professore di Giurisprudenza, di
cui su suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il concetto di legge”.
Insegna a Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza l'evoluzione storica
delle teorie della pena e le opere dei grandi giuristi italiani. Membro della Società
Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre opere: Il concetto di
rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il positivismo giuridico”
(Milano); “Il partito politico nel pensiero dell'Illuminismo e della
Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche” (Milano); Illuminismo e
legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione” (Milano); “Diritto
liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia del diritto,
Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena” (Milano); Il
problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato totalitario,
Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica
del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano);
“Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la
filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena,
diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della
rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto
Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo
giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo
ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo
penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la
critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo
giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza.
Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta
ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio
filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica”
(Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto,
Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la
separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e
Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del
problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e
diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano,
Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune
osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della
giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del
V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes
e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione
francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo
giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito
politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano,
Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica
Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’
della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di
Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di
Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu,
Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso
di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico
di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni
sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi
Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto
Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di
Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita
della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della Politica,
Bari, 11-13 maggio 1970, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e l'opera, testo
della commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna dell'U niversita
di Sassari, in »Studi sassaresi«, Serie Ill, 11 (1968-1969), Milano); Le
elezioni e il liberalismo. Autonomia dell'Universita e neo-corporativismo, in
»La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il
diritto co-attivo dei cittadini contro il sovrano (Milano, Giuffre);
Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini --; Considerazioni suI diritto
di resistenza e liberalismo, in »Studi Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di
resistenza, Milano); La dottrina penale nella filosofia giuridica del
criticismo, in Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, ICorso di
filosofia del diritto, Ferrara, Editrice Universitaria); La filosofia della
pena nei secoli XVII e XVII: corso di filosofia del diritto, Ferrara, De
Salvia). Discutendo giurisprudenza con Treves, pone il problema che sarebbe
stato al centro di tutta la sua vita di uomo impegnato nello studio,
nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi suI rapporto fra “rivoluzione”
e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto” (de facto) e “diritto” (de iure),
giunge alIa conclusione che da un punto di vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo
non e possibile distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza,
autoritatismo, perche il diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma
soltanto se e concretamente rivolto ad attuare il valore del giusto e rispetto
della persona umana. Il rapporto fra forza autoritaria e la forza della legge,
che da il titolo a uno suo saggio, e la relazione fra diritto o gius come
valore, costituisce infatti la questione su cui non cessa mai di interrogarsi,
nella prospettiva del fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del
concetto di ‘giure’ non e riducibile alla volizione o ragione pratica del
legislatore propriamente adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo,
Cattaneo indica la ricerca del giusto come compito specifico della filosofia
del diritto e pre-annuncia il suo intero percorso filosofico
caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia, come assere Socrate, ha il
suo carattere precipuo nel porre un problema piuttosto che nel risolverlo o
dissolverlo, e, come nel mito platonico della caverna, l’analisi concettuale si
muove suI piano della trascendenza escatologica, diverso e superiore a quello
della realta empirica o naturale. Anche la filosofia giuridica, in quanto
filosofia, e aperta alla escatologia metafisica e, avendo come base la
conoscenza del codice u ordine del diritto romano-italiano *positivo*, pone il
problema della sua valutazione escatologica alIa luce del valore della dignita kantiana
umana e del concetto di un “stato di diritto”. Compito del filosofo non e dunque
*descrivere* il diritto positive fattico empirico esistente, ma conoscerlo per
condurne una meta-analisi critica al fine del suo adeguamento al modello ideale
platonico socratico di giustizia contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema
giuridico della rivoluzione. Il concetto
di rivoluzione nella scienza e nel diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia
del diritto di Treves, in Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un
delicato rapporto, Paova. La filosofia del diritto: il problema della sua
identita, in Filosofia del diritto. Identita scientifica e didattica oggi,
Cattania. IL SAGGIO DI MARIO A CATTANEO “CARLO GOLDONI E ALESSANDRO
MANZONI ILLUMINISMO E DIRITTO PENALE IL tema del rapporto tra
Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo che
ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di Dante
Alighieri” del 1978, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato
nel 1985 nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari.,
“Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. illuminismo e diritto penale” nel 1987 e
“Suggestioni penalistiche in testi letterari “ del 1992. Nella Introduzione del
volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e
la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in
generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti
soprattutto il diritto nel teatro Sono stati compiuti degli studi sul
significato giuridico di alcune opere di Shakespeare da R. von Jhering
(1818-1892) e J. Kohler (1849-1919) ed è stato esaminato il
pensiero di alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono
occupati Francesco Carrara (1805-1888), Vaturi , Giorgio Del Vecchio
(1878-1970), Mossini e lo stesso Cattaneo. Vi sono importanti
opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi giuridici rilevanti
come il “Michael Kolhaas” pubblicato nel 1810 da H. von Kleist
(1777-1811) e “Delitto e Castigo” di Dostoevskijj,l’ Autore rileva peraltro che
la presenza di temi giuridici nella letteratura è particolarmente rilevante
nell’illuminismo data la sensibilità civile di questo movimento. Il volume è
dedicato all’esame degli aspetti giuridici – soprattutto di diritto penale – di
due grandi autori italiani: Carlo Goldoni ed Alessandro Manzoni. Cattaneo
rileva l’accostamento tra i due grandi letterati deriva da alcuni elementi di
contatto: Goldoni passò l’ultima parte della vita in Francia e vide il declino
dell’ancien regime francese e Manzoni trascorse parte della giovinezza in
Francia nel periodo napoleonico. Goldoni visse gli ultimi anni della sua vita a
Parigi nei primi anni della Rivoluzione francese ma non sappiamo come abbia
seguito le fasi della stessa mentre Manzoni li seguì e scrisse l’ode “Del
trionfo della libertà” che manifesta le opinioni del suo Autore e verso la
conclusione della vita scrisse “La rivoluzione francese del 1789 e la
rivoluzione italiana del 1859” un saggio che fu pubblicato postumo e che,
secondo Cattaneo, è ispirato a sentimenti di libertà i due
scrittori hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed
ottimista, esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di
satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e
drammatici della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni
risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere
affronta il problema religioso. Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra
i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione
espressa da Ferdinando Galanti nel 1973 che evidenzia che Goldoni diede
all’ Italia la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è
importante per la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri
originali, vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe,
parlanti, che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro
di famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato, nel cammino della
verità, l’opera di Goldoni. Questo giudizio è ripreso da Federico
Pellegrini in uno scritto del 1907 che indica come elemento comune <il
rispetto della natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni
in materia di lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei
Promessi Sposi l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme
e vi è una processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è
una idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i
drammi. Pellegrini raffronta ed accosta i personaggi delle opere dei due
letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano. Il Mazzoleni ha
istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”
commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese
Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di
Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza. Il Petronio nel
suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro
volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica”: “Una prima volta con
l’illuminismo, col Parini e il Goldoni; una seconda con il romanticismo
lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del
Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale
ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo
dopoguerra” Lina Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e
Collodi nel suo studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più
grandi umoristi del mondo” scrivendo che “Mentre il Manzoni narra di lotte
intime di uomini travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e
degli sforzi di quel Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli
elementi dell’essere umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla
ripida china che conduce a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col
quale Goldoni guarda i suoi attori dice che il suo problema è la socialità:
scontri ed incontri, beffe e incomprensioni, cadute e risollevamento nelle
opinioni altrui” Cattaneo evidenzia anche che un breve cenno comparativo
tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche da A. C.
Jemolo il quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato
giurisprudenza, cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una
figurazione di avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di
soldato: Manzoni nel mondo del diritto non ci ha lasciato che la immagine
imperitura di Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride dei
Governatori e quello del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro
atroce dei giudici della Colonna infame. Padoan ha rilevato in un suo
scritto che << anche oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare
in Goldoni una polemica contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un
atteggiamento di interesse verso il mondo degli umili, che non fu senza
influenza sul Manzoni…>>> Cattaneo conclude l’introduzione
al volume affermando che le citazioni prima esposte sono sufficienti a
giustificare la trattazione dei due autori in un unico volume , la sua
analisi prende in considerazione la visione del problema giuridico dei due
scrittori ed analizza il pensiero giuridico nelle sue premesse di fondo.nelle
sue fondazioni filosofiche, nella misura in cui fare questo è possibile; a tal
fine ritiene che l’elemento unificatore dei due autori in relazione al diritto,
indicato anche nel titolo è l’illuminismo L’autore evidenzia che
nel Goldoni avvocato, difensore della professione forense, che mette in rilievo
diversi problemi giuridici in molte sue commedie, si risente, in modo non marcato,
l’influenza dell’Illuminismo, che è la radice della sua satira sociale, della
sua garbata critica della nobiltà e delle disuguaglianze sociali, come in
Manzoni critico della giustizia umana e della incertezza giuridica, che
satireggia i pubblici funzionari e gli avvocati, raccogliendo l’eredità
del grande nonno Cesare Beccaria (1738-1794) In conclusione Cattaneo
ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia rintracciabile, nel
pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato dai principi
fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono individuare
essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della persona
umana>> Nel primo capitolo del volume l’autore riferisce
degli <Studi su Goldoni avvocato> rilevando che la critica ha tenuto
presente in modo primario del significato letterario delle sue opere un
breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto da un grande
recensore contemporaneo al commediografo Friedrich Schiller (1759-1805)
nelle due recensioni alla traduzione tedesca dei “MÉMOIRES.” nella
letteratura italiana Zanardelli, importante esponente dell’Italia
risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume “L’Avvocatura”
soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato veneziano” delineato come
il tipo ideale dell’avvocato. Gli scritti italiani più importanti
dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente ricordati nelle bibliografie
goldoniane, sono opere di due studiosi parenti di Cattaneo. Il primo è
l’articolo “Carlo Goldoni avvocato” di Alessandro Pascolato (1841-1905)
il secondo è di Mario Cevolotto, avvocato di Treviso Il Pascolato
rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un dilettante della giurisprudenza ed
afferma la reale e profonda cultura giuridica attestata dall’esercizio
dell’attività forense a Pisa dove vinse persino tre cause in un mese e che
evidenziano il carattere schietto e buono anche in mezzo ai volumi dei dottori;
il Cervolotto esamina gli studi giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad
Udine nel 1726, la sua attività di coadiutore del cancelliere criminale a
Chioggia nel 1728 e la sua laurea in legge a Padova del 1731. Un capitolo è
dedicato alla attività professionale a Pisa (1744-1748) dove esercitò più nel
criminale che nel civile. Il penultimo capitolo è dedicato all’esame degli
aspetti giuridici delle commedie goldoniane specie la commedia “L’Avvocato
veneziano” che costituisce una esaltazione del foro veneto e altre note
commedie. Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza dubbio giurista, oltre che avvocato
di valore non certo mediocre o comune evidenziando i buoni studi benché
saltuari da lui compiuti e la sua conoscenza di molte questioni giuridiche
presenti nelle sue opere. Cattaneo cita anche gli studi Gaetano Cozzi e
di Gianni Zennaro Il secondo capitolo è intitolato “Goldoni, la procedura
criminale e Il problema penale” e Cattaneo riporta un passo dei
“Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della procedura criminale ed è
commentato dal Pascolato che rileva che <<quella procedura criminale,
colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio dei caratteri, lo
aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo studio dell’uomo. Di
verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione per i giorni, ancora
lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare cancelliere>>
Goldoni sottolinea la presenza nel diritto vigente di limiti posti
all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma non appaiono nelle sue
opere chiari intenti riformatori della procedura criminale. IL terzo capitolo è
intitolato “L’Avvocato veneziano: Goldoni fra diritto civile e diritto
naturale” Cattaneo rileva che Goldoni stesso mette in rilevo i due fondamentali
temi della commedia: la difesa della onorabilità della professione forense
mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed onorato e la
contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di diritto
comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza; la commedia
come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione letteraria e
teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura dell’avvocato,
dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura completamente negativa del
dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi” Il quarto capitolo si
intitola “Il giusnaturalismo illuministico di Goldoni: <<La
Pamela>> e altre opere” Cattaneo rileva che le radici
illuministiche e giusnaturalistiche del Goldoni si manifestano in
rapporto alla procedura penale, al diritto penale, al problema delle fonti del
diritto, ai rapporti fra la funzione del giudice e le opinioni dei giuristi. Il
giusnaturalismo e l’Illuminismo di Goldoni si manifestano soprattutto nelle
opere teatrali aventi come oggetto, o come sottofondo, il tema fondamentale
della uguaglianza fra gli uomini, al di là delle differenze fra le classi
sociali. Tra le opere significative per questa prospettiva giuridica teatrali
emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la Dama”, “Il Feudatario” “Le femmine
puntigliose” il dramma giocoso per musica “I portentosi effetti della Madre
Natura” e la tragicommedia (così definita dall’autore stesso) in versi “La
bella selvaggia” che trattano il contrasto tra natura e società, infine la
commedia in versi “La peruviana” che vengono esaminate negli aspetti più
essenzialmente rilevanti sotto il profilo filosofico-giuridico
dall’autore che conclude il capitolo affermando che: “Quando si
trattava dei valori supremi, come la pace, anche Goldoni sapeva essere
religioso e invocare la grazia del cielo” La seconda parte del volume è
dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni. Il primo capitolo si intitola
“Studi su Manzoni e il diritto” e Cattaneo passa in rassegna gli studi
esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente o all’idea di giustizia nel
pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della sua opera. L ‘autore
commenta il lungo articolo di Michele Zino del 1916 “Il diritto privato nei “
Promessi Sposi”, esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il pensiero
storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere” del 1919. Il più
importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume
di Roberto Lucifredi del 1933 “Alessandro Manzoni e il diritto”. Tale volume si
conclude con alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di
Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del
diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un
ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della
funzione.. Nel 1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro
Manzoni. Il Dolore e la Giustizia” di cui la terza parte è dedicata al
problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Enrico Opocher “ Il
problema della giustizia nei Promessi Sposi” in cui ribadisce che tutto
il capolavoro manzoniano è essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude
affermando: ”I Promessi Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso
cui la Provvidenza sana le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire
soprattutto, la storia attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze,
facendone lo strumento della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda
ha pubblicato uno scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni”
in cui ribadisce che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una
grande aureola giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico
di Rosmini; per lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai
contrastare con la morale. Concludo ricordando la strenna natalizia dell’editore
Giuffrè pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il titolo
“<Se a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei Promessi
Sposi” con saggi di noti docenti quali E. Opocher e S. Cotta. (1920-2007) Il
secondo capitolo si intitola “Valori morali, giustizia, diritto naturale”
Cattaneo ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della giustizia,
anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di pensieri
inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due postille
redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso Cattaneo deduce che il
grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità morali,
tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali e
verità matematiche. Secondo Cattaneo questo brano manzoniano è
affine alla dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo
“Parmenide” , vi è inoltre una affinità con Kant che afferma che non è
cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù dall’esperienza,
perché ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole
secondo le circostanza. In realtà è sulla base della idea di virtù che si
giudicano gli esempi empirici di virtù e di comportamento morale.
L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini, il più grande filosofo
italiano dell’Ottocento, la cui filosofia si fonda sull’idea dell’essere e cita
un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle idee” .Va anche evidenziato
che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena identità fra morale e religione,
come si rileva dal capitolo III delle “Osservazioni sulla morale cattolica “
dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale e teologica.
Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono mai la
giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia, senza
ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare volontariamente
(in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni, ma solo
ringraziamenti e benedizioni. Il capitolo terzo si intitola “Le gride e
l’illuminismo giuridico ne < I Promessi sposi>”. Cattaneo rileva
che se il problema morale e religioso della giustizia pervade tutta l’opera di
Manzoni, ed in particolare il suo celebre romanzo, Stefano Stampa, figliastro
dello scrittore lombardo, narra che Manzoni dichiarò che la prima idea del suo
romanzo gli venne dalla lettura della grida fatta vedere dal dottor
Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate pene contro coloro i quali
<con tirannide> e con minacce costringono un prete a non celebrare un
matrimonio. Dall’esame dei brani di ”Fermo e Lucia” e dei “I
Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante critica al sistema, in
quei tempi diffuso, di consorterie e di caste, inoltre, descrivendo
criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto la
dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non
dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere
Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del
colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da
parte dell’autorità Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo
giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza
giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle
fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti,
a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della
legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è
sottoposta ogni mossa dei cittadini Lo scrittore lombardo critica anche la
comminazione di pene sproporzionate, misura considerata ingiusta ed inefficace
per la prevenzione dei crimini, l’impunità dei colpevoli è indicata dagli
illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva
severità o crudeltà delle pene. Il quarto capitolo si
intitola “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale”.
Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si
traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito
e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi”;
l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la
conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo,
relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la
carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e
ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza
processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti.. Questo
brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base della
teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare esorbitante
rispetto alla effettiva colpevolezza del reo, mirata esclusivamente a <dare
un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed utilitaristico; in tal modo
viene peraltro giustificata la punizione dell’innocente. In altri passi
del celebre romanzo manzoniano si rileva un atteggiamento mirato ad indicare
non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia e l’inutilità della prevenzione
generale, unitamene ad una condanna della moltiplicazione dei supplizi, che
finisce per favorire l’impunità, come messo n evidenza dagli scritti di molti
giuristi illuministi. Significativo è a riguardo la conversione dell’Innominato
e le ragioni per cui il potere pubblico non intende procedere contro lo stesso
per i suoi passati delitti, in al modo viene dimostrata l’inefficacia della
punizione nel caso di una persona che ha cambiato vita perché questa potrebbe
avere solo l’effetto opposto a quello voluto Nel penultimo capitolo il
commento di Manzoni sulla situazione del bando di Renzo dal Ducato di Milano
dopo le vicende della giornata di San Martino denota la tesi dell’impunità come
risultato dell’eccessiva proliferazione di minacce legislative e del carattere
esorbitante, situazione che porta ad una frattura tra il comando legislativo e
l’esecuzione della pena. Cattaneo conclude il capitolo istituendo un
parallelo sostanziale ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato)
tra Manzoni e Kant, dato che: “la visione della morale, nonché del
diritto, ed in particolare del diritto penale è svolta in una prospettiva
anti-empiristica e ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un
<liberalismo cristiano >, vòlto a difendere la persona umana da ogni
prevenzione collettivistica e <sociale>” Il quinto capitolo
si intitola“ La storia della Colonna Infame” L’autore ribadisce che il
motivo fondamentale della critica conto la ragione di stato, contro l’utilitarismo
sociale, contro il prevalere dell’interesse generale e sociale sui
diritti individuali sta alla base dello scritto “Storia della Colonna Infame”
del 1842 due anni dopo l’edizione definitiva de “I Promessi Sposi”.. Di recente
tale opera ha sollevato critiche severe sotto il profilo storiografico e si è
accusato il Manzoni di non essere uno storico, ma di guardare alla storia da
moralista, sul modello del cosiddetto <astrattismo> illuministico
settecentesco, e quindi di non studiare le vicende storiche con partecipazione
e simpatia ma di giudicare i comportamenti umani secondo un codice morale
superiore Tale critica è stata formalizzata da Benedetto Croce . Dopo una
lunga ed attenta analisi dello scritto e di alcuni dei suoi maggiori studiosi
Cattaneo conclude che i punti di vista in relazione ai quali il volume
manzoniano ha dato un importante contributo sono tre: 1) Manzoni ha dato un
contributo alla comprensione della storia, affermandone la non inevitabilità e
questo punto ha suscitato le maggiori discussioni interpretative e le reazioni
negative dei seguaci dello storicismo. 2) Tale scritto manzoniano, come ha
sottolineato Giuseppe Rovani, <non è per nulla inferiore alle altre opere
del Manzoni, anzi rivela il suo ingegno e la sua dottrina e la profonda sua
acutezza anche nelle materie giuridiche> Tale scritto è un’opera
giuridica, è senza dubbio la più giuridica del Manzoni. 3) Il significato più
importante del libro è quello morale, come rilevato da Tenca, Rovani e Passerin
d’Entreves (1902-1985) e consiste nella difesa del libero arbitrio, della
libertà del volere e nella rivendicazione della responsabilità morale
dell’uomo. Libertà interiore dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana;
questo è il trinomio in cui Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo
dire, la sua lezione etico-giuridica Il sesto capitolo si intitola
“Manzoni e la criminologia” L’autore evidenzia che l’analisi della
“Storia della Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero
arbitrio dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei
problemi giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi
del 1630. Vi sono studiosi come Graf e Sergi che hanno creduto di vedere
in tale opera di Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi”
dei precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della
Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del
libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada
del determinismo. L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri
Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il
pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica e lo
scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri
Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati
dalla scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi
delle opere dei due autori prima citati e di altri studiosi Cattaneo
conclude che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del
positivismo penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione
di giustizia e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa
sociale Il settimo si intitola “Manzoni teorico generale del
diritto?” Secondo l’autore la forma mentis giuridica di Manzoni appare
evidente anche negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa
si manifesta in modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia
longobardica in Italia” oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione
francese. Cattaneo mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro
presente nel libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e
Longobardi e le leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di
natura di <<teoria generale del diritto>. Le osservazioni
riguardano in particolare la concessione data agli Italiani di vivere
secondo la legge romana che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di
clemenza, e una prova, fra le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori
longobardi> Manzoni dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa
secondo Cattaneo di rendersi conto di come fosse strutturato l’ordinamento
giuridico sotto i Longobardi e evidenzia la <struttura a gradi>
dell’ordinamento giuridico, per dirla come Kelsen e definisce alcune
norme <leggi costituzionali>, le leggi così designate sono le <norme
di competenza> di Ross e le <norme secondarie> di Hart, cioè le
norme che conferiscono il potere di emanare, modificare, abrogare le altre
norme, concernenti direttamente il comportamento dei cittadini. Manzoni si
preoccupa di esaminare quali fossero le norme di statuto, di competenza o
secondarie, espressione del potere longobardo, le quali regolavano la
permanenza delle leggi romane, che regolavano il comportamento dei cittadini di
origine romana. L’ottavo capitola si intitola “Manzoni e la Rivoluzione
francese” Il rapporto tra Manzoni e la Rivoluzione francese durò in varie
forme per tutta la vita del letterato lombardo. Questi visse molti anni in
Francia nel periodo napoleonico, nel 1800 a 15 anni scrisse il “Trionfo della
Libertà“ un poemetto di sentimenti giacobini ed anti-monarchici con la
condanna delle spietate repressioni penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un
giudizio equanime su Napoleone dapprima glorioso e poi rapidamente caduto
e rileva la caducità degli idoli umani Nel dialogo “Dell’Invenzione”
Manzoni esamina la figura di Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di
<mostro> del politico francese pur non abbandonando la tesi di una
responsabilità avuta da Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne
storiografie Lo studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di
Manzoni con la Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di
Ruggero Bonghi “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del
1859” I motivi su cui si basa La critica di Manzoni alla
Rivoluzione francese sono A) La mancanza di un giusto motivo per la
distruzione del governo di Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati
del Terzo Stato che ne furono gli autori B) Questa distruzione avvenne
indirettamente ma effettivamente in conseguenza dei loro atti C) Il nesso
di queste cause con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal
popolo francese, avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali;
Manzoni peraltro non si rende conto che la sua critica non tiene conto della
situazione dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal diritto
divino mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i presupposi
giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese Il letterato
lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo dal Terrore, al Direttorio,
al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della Rivoluzione
francese. Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo”
Manzoni discute il suo rapporto con la precedente Dichiarazione americana
sottolineando le differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il merito di
evidenziare il contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche della
Rivoluzione francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica, come in
altre opere, il potere politico umano che riveste in forme giuridiche la
sostanza dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore
assoluto dell’idea del diritto, che è <una verità> Tale
considerazione induce Cattaneo a proporre un altro parallelo fra la posizione
di Manzoni e quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un
popolo alla rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine
inespiabile ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della
Rivoluzione francese; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato non
equamente dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e, nel momento
della sua caduta,pur proscritto e ricercato all’Hotel de la Ville, benché
fosse esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione popolare
esitò e si chiese <Au nom de qui?> come è attestato dalla
sorella Charlotte Nella lunga ed articolata conclusione Cattaneo
ribadisce che il pensiero giuridico di due letterati ha numerosi elementi in
comune e svolge alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore evidenzia
che il suo saggio ha <un taglio diverso> dagli studi citati sull’attività
forense di Goldoni, sul significato riformatore delle sue commedie e sulle
implicazioni politiche del pensiero di Manzoni. Il punto di vista seguito
nel volume dal docente è quello della considerazione a un lato del diritto come
<categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche caratteristiche e
dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente, posto in relazione
con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli aspetti giuridici e
dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di Goldoni e Manzoni non è
stato disgiunto all’esame dei temi della riforma sociale e della riflessione
politica nella loro attività letteraria. Il punto di vista seguito sempre
dall’autore , come da lui steso dichiarato, è stato quindi¨<quello
dell’ autonomia del diritto , ma non inteso secondo una prospettiva
meramente logico-formale, bensì basato su una fondazione filosofica, e dotato
di rilevanza politica. >. L’angolo visuale usato come punto di riferimento
per i due letterati è l’illuminismo giuridico. L’illuminismo è coevo di
Goldoni, che anticipa Rousseau nella proclamazione del principio
dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema della riforma sociale,come è
riconosciuto da numerosi interpreti delle sue opere. I rapporti tra Goldoni e
l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel passo dei “Mémoires “ sulla
procedura criminale e nelle commedie L’uomo prudente e L’Avvocato
veneziano . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma l’autore ha cercato di
indicare la presenza di una eredità Illuministica, con riferimento ai problemi
giuridici, ne “I Promessi sposi” e nella “Storia della Colonna
infame” dove peraltro sono presenti degli elementi di superamento delle
concezioni illuministiche. Il docente ritiene di rifiutare la tesi
diffusa di coloro che interpretano Manzoni esclusivamente dall’angolo visuale
della linea agostiniana-pascaliana con venature giansenistiche negando il
profondo legame con l’illuminismo, in realtà Manzoni si dimostra erede
dell’illuminismo per l’habitus mentale razionalistico del suo pensiero, per la
sua considerazione della ragione e per la sua ricerca delle radici razionali
della fede; in tal modo il grande scrittore lombardo fa propria l’eredità
migliore dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si contrappone al
filone ateo e materialistico di alcune correnti.
Ragonese e Caretti hanno bene sottolineato i rapporti
tra Manzoni e l’illuminismo. Cattaneo conclude il suo volume ribadendo
che il motivo comune fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano
ed illuministico (e kantiano) della dignità umana. In Goldoni questo
principio è meno evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura
umana, al di là delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed
opere drammatiche, in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un
livello di maggior profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come
traspare chiaramente dal testo recitato dal coro de “Il Conte di
Carmagnola” Nella Appendice viene riproposto lo studio di
Alessandro Pascolato “Carlo Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova Antologia”
il 15 dicembre 1883 CAPITOLO V IL VOLUME DI MARIO A CATTANEO
“SUGGESTIONI PENALISTICHE IN TESTI LETTERARI” Nel 1992 Cattaneo ha
pubblicato il volume “Suggestioni penalistiche in testi letterari”. Il
libro, che è dedicato alla memoria del Prof. Renato Treves, per molti
anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Milano,
tratta le opere di numerosi letterati. Il libro, che si articola in 12 capitoli
ed una appendice, tratta di scrittori che nelle loro opere hanno
affrontato il tema della pena o problemi di natura giuridica. Il lavoro,
rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria Il primo saggio scritto
riguardava Giuseppe Parini (1729-1799), un “poeta civile” rappresentante di un
Illuminismo cristiano ed equilibrato, è seguito il saggio su Collodi
(1826-1890), l’uomo del Risorgimento che ha combattuto a Curtatone e che mostra
nel suo aperto scetticismo nei confronti della legge e dell’autorità costituita
una opinione diffusa di molti uomini dell’Italia post-unitaria tra cui il
grande giurista liberale Francesco Carrara (1805-1888) .Il terzo saggio è
stato dedicato a Foscolo (1778 -1827) che nello scritto < L’orazione sulla
giustizia> ed altri due scritti <La difesa del sergente Armani> ed
<una lettera al “Monitore Italiano”> tratta problemi relativi alla
pena Il primo saggio del volume si intitola “Studi Dante e il diritto
penale” Lo studio riguarda il rapporto tra il grande poeta Dante
(1265-1321) ed il diritto penale.. Cattaneo rileva che gli studi di storici e
filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di Dante hanno
trascurato l’aspetto penalistico. Dante non si è occupato di diritto penale ma
l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di rapporti tra colpa
e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli descritte
nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive della
legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra la prospettiva
morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle legislazioni penali
attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati puniti fuori e dentro
la città di Dite che può corrispondere ad una distinzione tra peccati e
delitti, il più rilevante contributo indiretto dato da Dante al diritto penale
è il criterio di graduazione delle gravità delle colpe e le corrispondenti pene
come è stato evidenziato da Giorgio Del Vecchio. Il maggior
contributo diretto di Dante alla cultura giuridica moderna sono l’affermazione
del principio di uguaglianza e di personalità delle pene e l’affermazione della
volontà del volere dell’uomo quale presupposto della conseguente valutazione
del merito o del demerito delle sue azioni. Cattaneo conclude che:”
Certamente, fare apparire Dante come un grande giurista, un grande penalista,
può risultare sforzato e retorico,…..Ma nello stesso tempo, non è assolutamente
possibile e lecito ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha
dato anche al diritto penale; la Divina Commedia è un costante punto di
riferimento per qualunque problema, religioso, filosofico, umano; ricordo
che mio Padre diceva che nella Commedia <<c’è tutto>>” Nella
introduzione ho accennato a due recenti approfonditi studi su Dante ed il
diritto, un tema caro a molti studiosi Il secondo saggio si intitola
“Giuseppe Parini e L’Illuminismo giuridico”. Cattaneo rileva che
Parini, sacerdote non per vocazione ma uomo profondamente credente, fu
sensibile a numerosi ideali illuministici di riforma civile ed attraverso una
delle sue Odi riprende le idee illuministiche sul diritto penale, che
propugnavano il principio umanitario della doverosità della mitigazione delle
pene considerando l’inefficacia di pene eccessive in determinati contesti
sociali. Vi è dunque una continuità di principi da Parini, cattolico ed
illuminista, a Manzoni e Rosmini (1797-1855), cattolici liberali, una
continuità di principi ed ideali umanitari relativi al problema della pena e
nell’ode Il bisogno è presente una concezione penale cristiana ed illuminista.
Cattaneo conclude il suo saggio affermando che Parini poeta civile e morale
interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e si fa portavoce dei suoi più
significativi valori. Il terzo saggio si intitola “Ugo Foscolo e la
giustizia come forza”. L’Autore rileva che notoriamente Foscolo fu
un poeta impegnato nelle vicende politiche del suo tempo segnato dalla
rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Negli scritti di natura
penalistica il poeta accoglie i principi della dottrina giuridica illuministica,
come la difesa della certezza del diritto ed il rispetto delle garanzie
processuali. Foscolo inoltre critica la teoria della retribuzione morale e
quella della prevenzione generale. Il quarto capitolo è intitolato. “Le
<veglie notturne> di Bonaventura e la critica dei giuristi” un
libro tedesco poco conosciuto in Italia, opera uscita anonima nel 1805 a Penig
(Sassonia) presso il poco noto editore F Dienemann, che l’aveva pubblicata nel
suo <Journal von neuen deutschen Original Romanen>. Cattaneo evidenzia
che nelle pagine dedicate a temi giuridici viene messo in rilievo l’invito a
rendere il diritto più umano ed a metterlo al servizio degli uomini. La
descrizione del giudice freddo paragonato ad una macchina o ad una marionetta,
il rimprovero ai giuristi che si assumono il compito di tormentare i corpi,
come i teologhi tormentano le anime, l’uccisione della giustizia da parte dei
tribunali, il richiamo al diritto naturale, che dovrebbe essere il vero diritto
positivo, la critica di una giurisprudenza svincolata dalla morale sono
chiari segnali di una aspirazione ad umanizzare il diritto, specie quello
penale. Il V capitolo è intitolato “Heinrich Heine e la satira delle
teorie della pena” L’Autore analizza il breve scritto che Heine
(1797-1856) aveva aggiunto quale appendice al suo volume “ Lutezia”, opera
scritta tra il 1840 ed il 1843. Lo scritto è dedicato al problema della
riforma delle prigioni ed alla legislazione penale e porta il titolo
<Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung>. Il saggio, pur nella
brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali della pena. Cattaneo
suggerisce che l’analisi critica del poeta si traduce in una satira delle
dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e dell’emenda e coglie i punti
centrali di tali concezioni. Heine sottolinea l’ingiustizia della teoria
dell’intimidazione generale ed evidenzia il carattere patriarcale e
paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il principio di una
prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena, Heine ritiene
che bisogna agire con durezza, reclusione ed addirittura con la pena di morte
concepite come prospettiva di difesa sociale. Cattaneo rileva che è sempre più
chiara e più facile la parte negativa della filosofia penale, cioè la critica
delle dottrine sulle pena che la parte costruttiva cioè l’indicazione di
un fine positivo nella funzione penale. Heine critica inoltre il sistema
carcerario filadelfiano e quello auburniano Il capitolo VI è intitolato
“Victor Hugo e la pena come fonte di delitti” L’Autore rileva che il
problema giuridico penale è presente nell’opera letteraria di Hugo (1802-1885)
con una severa critica del sistema penale dell’epoca e la sua difesa della
dignità dell’uomo. Il problema emerge chiaramente nel celebre romanzo “Les
Miserables” e nel suo protagonista l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo
affronta il problema di una pena sproporzionata ed inumana, che è causa di
nuovi delitti e di una spirale indefinita di reati e pene successive. Il tema è
sviluppato nella figura centrale di Valjean. Tutte le tragiche vicende
del protagonista nascono da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla
fame; a causa del furto di un pezzo di pane,che poi viene gettato via,Valjean è
condannato a 5 anni di detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di
breve durata, la sua detenzione dura ben 19 anni. Vi è una enorme
sproporzione tra il danno causato dal reato e la pena che trasforma ed
indurisce Valjean, la cui psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La
pena continua a gravare su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi
riesce a lavorare solo per una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo
critica sia l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia
la macchia di infamia stabilita dalla legge. Cattaneo rileva che è ammirabile
la battaglia combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua denuncia
della sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica
dell’assurdo criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie sono
importanti contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della
dignità umana. Il settimo capitolo è intitolato “Dostoevskij la
coscienza e la pena”. L’Autore evidenzia la centralità del tema del
delitto, della colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato
nel profondo scritto di Italo Mancini, che ha evidenziato sia la validità di
una ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia che per lo scrittore
russo < la questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il
contenuto>. Pietro Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo
ha rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una
verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé stessi>> Nel volume “I
ricordi della casa dei morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza
personale della prigionia in Siberia e sottolinea chiaramente
l’incapacità del carcere di procurare l’emenda del reo dato che
Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella gente
il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso; lo
scrittore russo indica anche nella solitudine e nella mancanza di
privatezza un elemento di particolare tormento della prigione. Il lavoro
nella prigione, rileva lo scrittore russo, non era faticoso ma era penoso
perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche
l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe
sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la
sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento
ottuso e crudele delle guardie carcerarie, severo è il giudizio sulla prassi
della fustigazione definita una piaga della società> Nel
<L’idiota> lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo
sulla pena di morte in bocca al principe Miskin nelle prime pagine del
romanzo. Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno
afflittivo della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e
la sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore
della sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo” Dostoevskij
evidenzia la tesi della necessità della pena giuridica quale espiazione della
colpa e come risultato del rimorso avvertito dal colpevole. La trama del
romanzo mette in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di
espiazione del colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre
romanzo è la ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del
rimorso e che tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del
Platone del Gorgia e di Boezio nel <Consolatio philosophiae>. La
conclusione giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica
moderna che pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause
sociali, psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del
colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e
l’interesse di Dostoevskij, spirito umanitario e riformatore, per la
riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva
il desiderio di espiazione che conduce all’emenda.
Dostoevskij manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente
corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di
voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” Cattaneo ribadisce
che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e
la auto-condanna da parte del delinquente. La pena giuridica non ha rilevanza,
ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che
avviene nella coscienza del colpevole Il capitolo VIII è intitolato
“Tolstoj e la abolizione della pena”. L’Autore ribadisce che lo scrittore russo
postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di amore
cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da Tolstoj un
due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”. Il
romanzo Resurrezione è fondato su una vicenda processuale, la condanna ad
alcuni anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina Maslova,
diventata prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il processo
e la successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli istituti di
pena gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni inutili, catene,
teste rasate, divise infamanti per cui si inculcava l’idea che qualsiasi
violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi si trovava in
prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra la condanna e
la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In Tolstoj il tema
fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero sistema
repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti come
Victor Hugo. Lo scrittore suggerisce anche la necessità di abolire
la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da
realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, Cattaneo
si chiede se si tratta “del sogno di un visionario, una utopia generosa o di un
ideale verso cui la società deve tendere.” Il nono capitolo è
intitolato “Pinocchio e il diritto” L’Autore rileva che l’opera di
Collodi è stata oggetto di numerose indagini . Le ricerche sulla natura
pedagogica ed educativa sono state sviluppate da Bertacchini, Il testo di
Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico e teologico nei due
volumi scritti da Vittorio Frosini e Giacomo Biffi . Frosini evidenzia
che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito tipicamente
risorgimentale, al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un
risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su
principi di umanitarismo positivistico. Giacomo Biffi sottolinea che Pinocchio
fu scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione
consapevole di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi
aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto
della sua militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la
fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo. . La lettura
di Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e
filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più
rilevanti dal punto di vista penalistico. Cattaneo sottolinea che Carlo
Lorenzini (1826-1890) (ovvero Carlo Collodi) era un fine umorista che
sapeva cogliere il lato ridicolo ed insieme doloroso della vita umana
(opinione espressa anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su
Goldoni filosofo), e cita ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei
medici al capezzale di Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e
quello della condanna del burattino derubato degli zecchini dal
giudice-scimmione. Nel terzo capitolo Pinocchio scappa di casa ed è acciuffato
da un carabiniere per il naso (Cattaneo rileva in tal modo la naturale
predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle interferenza da parte del
potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e le sue proteste il
carabiniere, a seguito dei commenti della gente, rimette in libertà il
burattino e conduce in prigione Geppetto che piange disperatamente. L’episodio
mostra un membro dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto sulla base
delle opinioni della <voce pubblica> compiendo un atto arbitrario senza
motivazioni precise e mostra un innocente debole ed inerme che non riesce a
difendersi di fronte all’atto arbitrario del potere. Un altro episodio
interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove si descrive la battaglia con i
libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso volume scagliato
verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che cade come morto. Tutti i
ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il compagno. Arrivano due
carabinieri che,dopo un breve colloquio, arrestano Pinocchio malgrado le sue
dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge inseguito dal cane Alidoro al
quale salva la vita mentre stava per annegare. Cattaneo evidenzia a riguardo
che la vittima del potere è l’innocente, l’unico trovato vicino ad Eugenio, che
viene arrestato perché le circostanze sono contro di lui La frase dei
carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che evidenzia che l’invito a
ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è incline a tagliar corto.
In molte vicende giudiziarie si nota che una concatenazione di indizi
sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da condanne di persone
innocenti. Un altro episodio clamoroso di palese ingiustizia è la vicenda
che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed il
Gatto. Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a
seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino alla città di
Acchiappacitrulli. Tale città descritta minuziosamente da Collodi è,secondo
Cattaneo, e il simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo basato sul
puro potere politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo del
prevalere della politica sulla giustizia nella amministrazione della
giustizia, come dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio.
Pinocchio accortosi di essere stato derubato delle monete d’oro torna in città
e denunzia al giudice i due malandrini che lo avevano derubato, ma,invece di
ottenere giustizia, è vittima di una tragica beffa. Il giudice scimmione,
al quale Pinocchio si era rivolto, ordina che il burattino venga
messo in prigione. L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca
al burattino, il quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di
una vittoria dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli. Per
ottenere la libertà Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero
dei malandrini e così viene salutato rispettosamente e può scappare. Cattaneo
rileva che la figura dello scimmione sottolinea la miseria della giustizia
umana ed il carattere insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive
Platone, si discute sulle “ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva
dapprima l’aspetto positivo della figura del giudice che è descritto come un
personaggio rispettabile, benevolo, attento al racconto del burattino,
successivamente Biffi sottolinea che la figura dello scimmione della razza dei
gorilla rappresenta la caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella
vera, per cui il giudice finisce con applicare la legge umana che con i
suoi meccanismi colpisce il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la
situazione proposta da Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I
Promessi Sposi dove i violenti erano organizzati e protetti ed i deboli, non
sorretti da consorterie, erano vittime dei soprusi del potere. La
lettura di Pinocchio di Collodi ed in particolare di alcuni brani può dar luogo
a considerazioni di natura filosofico-giuridica e giuridico- penale, come
suggerisce acutamente Cattaneo nel suo volume. Merito indubbio di Collodi
è descrivere alcune situazioni caratterizzate da abuso di potere, oppressione
dei deboli e sfasamento dei corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti
giuridici, come del resto è stato rilevato da numerosi importanti interpreti.
E’ opportuno sottolineare che il capolavoro di Collodi, come molte altre opere
letterarie, affronta importanti problemi giuridici tra i quali va segnalata
l’importante e costante aspirazione perenne che la legge in essere non sia solo
la volontà del gruppo sociale dominante, una forma di controllo sociale, e che
inoltre l’ordinamento giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini
come attesta la storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Oscar
Wilde e le sofferenze del prigione” Wilde (1854-1900) in alcune sue opere
ha descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il clima del carcere., lo
scrittore inglese fu condannato a due anni di carcere che scontò
interamente. Cattaneo evidenzia che <Wilde fu il tipico capro
espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso letterato nel
<De Profundis>, redatto in carcere, attesta di essere passato dalla
gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla esaltazione al
disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel suo celebre
<De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading Gaol> hanno
fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del sistema
carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli ultimi
anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred Douglas
<Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi atteggiamenti
durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte controversie,
fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan Holland.
All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas e
soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e
rovinata <a disgraced and ruined man> lo angoscia dopo la
sentenza e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi
vive in carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il
fondamento del proprio continuare ad esistere Wilde evidenzia che la
terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e
si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca
l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo
scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita
peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la
prigione li rende dei <paria>, per cui i condannati di ceto abbiente non
hanno più diritto all’aria ed al sole,la loro presenza infetta i piaceri degli
altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la
reputazione della persona condannata è leso. Wilde evidenzia anche
che molte persone,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere
stati in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,,
è orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il
diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e
lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la
riabilitazione, sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra
le parti (colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro
l’idea della retribuzione morale e cioè che subendo la pena il colpevole
abbia pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio,
dopo la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né
fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia
sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e
l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società
riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole
incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le
privazioni e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce
i cuori dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns,
oggetto di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei
condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma
come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che
tutti i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono
sentenze di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle
sofferenze che conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi
anni dopo il carcere nel 1900 in Francia . Wilde scrisse anche <The
Ballad of Reading Goal> nel 1897, l’anno del suo rilascio. in questa lunga
ballata il poeta inglese descrive le sofferenze e le crudeltà cui aveva
assistito durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte
dei carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati
a morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il
vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con
l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose
ufficiali e dei cappellani delle carceri . Cattaneo rileva che la tragica
esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle
prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul
of man under socialism” . Dalle riflessioni dello scrittore inglese
redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del
trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con
critiche alla utilità sociale della stessa Il capitolo XI è
intitolato “André Gide e il non giudicare” Il problema giuridico-penale è
stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo André Gide
(1869-1951), che lo ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la
Cour d’Assise” che racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi
penali del 1912, “L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi
sono stati pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas”
Cattaneo rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i
commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in
veste letteraria. L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro è
molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto penale e
letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi
giuridico-penali, desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce
l’attenzione, la precisione, la serietà e la preparazione dimostrate dallo
scrittore francese nel trattare i temi giuridici, soprattutto per la precisione
del linguaggio giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare problemi
giuridico-penali e probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali lo induce
all’analisi di talune zone inesplorate della psiche umana”
L’atteggiamento dominante di Gide è il “favor rei” che si esprime
in due modi o a due livelli: da un lato sul piano processuale lo scrittore
volge l’attenzione al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una equilibrata
ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i testimoni,
specie quelli della difesa. Lo scrittore francese solleva anche nei suoi
scritti l’esigenza di una riforma del modo di porre le domande ai giurati e di
chiarire il loro contenuto. Gide si mostra sempre umano e compassionevole verso
i colpevoli, mostra l’esigenza che la pena sia in generale ridotta e che si
tenga conto degli elementi che valgono a titolo di difesa, quali motivi di
giustificazioni e scuse. Lo scrittore francese si preoccupa che la pena possa
causare mali peggiori e cerca di evitare risultati negativi della stessa.
Cattaneo evidenzia che in sostanza nel libro di Gide “è primaria l’attenzione
per l’uomo, la sua complessità e la sua imperscrutabilità psicologica, che
porta al dubbio e alla perplessità circa il fatto che alcuni uomini possano
giudicare altri uomini, queste pagine sono dunque dominate dal monito
evangelico, per cui particolarmente adatto risulta il titolo complessivo della
raccolta: Ne jugez pas.” Il capitolo XI è intitolato “Franz Kafka,
la legge e il totalitarismo” Cattaneo ha discusso in molte opere il
problema del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo volume
“Terrorismo ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo”
Analizzando le opere di Kafka (1883-1924) Cattaneo premette che è
particolarmente rilevante il pericolo di un forte divario fra la letteratura
critica ed interpretativa ed il testo originario dello scrittore per cui
ritiene che siano legittime molte diverse interpretazioni dell’opera di Kafka,
e molte <chiavi di lettura> ., certamente l’interpretazione più
interessante dello scrittore ceco è quella data dall’amico Max Brod, che
evidenzia la religiosità ebraica presente nelle opere di Kafka ed in questa
chiave interpreta i brani relativi al problema della legge, del processo e
della colpa. Una interpretazione giuridica delle opere di Kafka è stata
compiuta da Pernthaler.Cattaneo intende esaminare alcune opere di Kafka dalle
quali il problema della legge emerge anche dal punto di vista
filosofico-giuridico In tali opere di Kafka ricorre il tema del difficile
rapporto dell’uomo con la legge, che è interpretato in chiave religiosa o in
chiave psicologica o psicoanalitica ma che può essere analizzato anche dal
punto di vista filosofico-giuridico. Cattaneo esamina alcuni temi che emergono
da “Il Processo” dall’apologo “Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage
der Gesetze” e dalla novella “In der Strafkolonie” e dall’analisi complessiva
di tali opere interpreta Kafka come profeta e critico del totalitarismo che fu
instaurato in alcune nazioni dopo la sua morte, lo scrittore ceco delinea
situazioni di angoscia, di incertezza, di impossibilità di comunicazione, di
errore e di ferocia tipiche del totalitarismo. Kafka collega la burocrazia e l’oppressione
del potere sugli uomini caratteristica del nascente totalitarismo . Pietro
Citati rileva che <Nel Processo, l’immenso Dio sconosciuto, di cui non
ascoltiamo mai pronunciare il nome, ha invece una vita così intensa e un potere
così illimitato, come forse non ha ma avuto nei tempi> L’interpretazione di
Citati è più psicanalitica che religiosa ma è priva di prospettiva
giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è l’interpretazione data da
Sgorlon del <Processo> di Kafka ma la prospettiva giuridico
politica, trascurata da questi studiosi, è presente e Cattaneo evidenzia che
proprio nel primo capitolo, in cui è narrato l’improvviso arresto mattutino di
Joseph K esprime in modo preciso proprio la sensazione del passaggio graduale
ed insensibile dallo Stato di diritto allo Stato totalitario .Di seguito
le indicazioni che Joseph K riesce a ricevere da parte di vari personaggi
connessi al Tribunale concernenti il meccanismo, il funzionamento, l’andamento
del processo mettono in luce la totale assenza di garanzie giuridiche e
processuali, di tutela dell’imputato, elementi che costituiscono l’esatta
antitesi dello Stato di diritto Il tema della inconoscibilità e irragiugibilità
delle leggi è ripreso da Kafka nello scritto <Zur Frage der Gesetze> In
tale scritto Kafka delle <nostre leggi> che non sono conosciute da tutti,
ma sono un segreto del piccolo gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka
dichiara di non avere in mente tanto gli svantaggi derivanti dalle diverse
possibilità di interpretazione, quando questa è riservata ad alcuni e non
all’intero popolo, questi svantaggi non sono poi molto grandi. Le leggi sono
antiche, secoli hanno lavorato alla loro interpretazione, l’interpretazione è
diventata essa stessa legge, e sussistono sempre, benché limitate, alcune
libertà di scelta dell’interpretazione Il motivo dominane l’intero
scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato che la legge è
misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla per cui è
comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza delle leggi e
riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà La fredda descrizione
di uno strumento di supplizio, nell’ambito di un sistema processuale
completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del racconto
<In der Strafkolonie> (Nella colonia penale) e la conclusione della
novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il
viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema
punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di
tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si
denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina
del supplizio inizia a funzionare e l’ufficiale muore senza aver capito
il senso del supplizio come ogni sistema totalitario si
autodistrugge e divora i propri figli Cattaneo cita la fucilazione dei coniugi
Ceausescu nel 1989 operata nell’ambito del totalitarismo comunista.
L’Appendice del volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come
<<alibi>> nel sistema post-totalitario” Havel (1936-2011),noto
scrittore contemporaneo, che è stato Presidente della repubblica cecoslovacca,
è autore di numerose opere letterarie e teatrali. Cattaneo ritiene che se Kafka
rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel rappresenta il
post-totalitarismo,al quale ha dedicato uno scritto bblicato nel 1978 che
l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca. Havel
delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario, come
tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un
sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere
etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica
dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e
post-totalitario. Tale sistema politico è caratterizzato, secondo lo
scrittore ceco, come una dittatura della burocrazia politica su una
società livellata. Lo scrittore ceco elenca le caratteristiche del
sistema <post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura
tradizionale ed evidenzia che A) tale sistema non è delimitato
territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze ed è retto da una
superpotenza B) mentre le dittature classiche non hanno una solida radice
storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e socialisti del XIX
secolo. C) Tale sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica
che ha i caratteri di una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni
domanda dell’uomo in una epoca di crisi delle certezze esistenziali D)
Alle dittature tradizionali spettano elementi di improvvisazione per quanto
attiene alla tecnica del potere mentre lo sviluppo di 60 anni nell’Unione
sovietica e di 30 anni nei paesi dell’Est europeo ha dimostrato la creazione di
un meccanismo perfetto, che permette la manipolazione diretta ed indiretta
della società. La forza di tale sistema è incrementata dalla proprietà
statuale e dalla amministrazione centralizzata dei <mezzi di
produzione> E) Nella dittatura classica vi è una atmosfera di
entusiasmo rivoluzionario, di eroismo, di spirito di sacrificio che sono
scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che è un elemento solido
del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia di valori presenti
nei paesi occidentali sviluppati e sono una forma di società consumistica
ed industriale. Il sistema sopra descritto è designato da Havel come
<post-totalitario> perché è un sistema totalitario con caratteristiche
diverse dalle dittature classiche e, rispetto al totalitarismo classico, è
caratterizzato da una misura più attenuata di terrore ed arbitrio Havel
considera il sistema post-totalitario come caratterizzato dalla menzogna, ciò è
un effetto del dominio della ideologia; gli uomini non devono credere alle
mistificazioni totalitarie ma tollerarle in silenzio ed accetta, ciò è un vivere
nella menzogna e lo scrittore insiste sul valore e sul significato
morale ed esistenziale della dissidenza. Per quanto riguarda l’ordinamento
giuridico nel sistema post-totalitario lo scrittore rileva che tale
sistema sente la necessità di regolare tutto con una rete di prescrizioni,
norme, istituzioni e regolamenti per cui gli uomini sono delle piccole viti di
un meccanismo gigantesco. Le professioni, le abitazioni ed i movimenti
dei cittadini e le sue manifestazioni sociali e culturali sono controllate,
ogni deviazione viene considerata un passo falso ed una manifestazione di
egoismo ed anarchia. Havel rileva che non bisogna prendere alla lettera
l’ordinamento giuridico e ciò che conta è< come è la vita> e se le leggi
servono alla vita o la opprimono ¸la battaglia per la <legalità> deve
vedere questa <legalità> sullo sfondo della vita come è realmente.
Analizzando il rapporto tra la società post-totalitaria e la moderna civiltà
tecnologica, con riferimento anche agli scritti di Heidegger, Havel rileva che
il sistema post-totalitario è solo un aspetto della generale incapacità
dell’uomo contemporaneo di divenire <padrone della propria situazione> e
la prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione esistenziale>
generalmente comprensiva L’aspetto più interessane di Havel è la
delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come fenomeno sorto
dall’incontro della dittatura con la società industriale e consumistica.
Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva che Havel sottolinea
il significato autentico del diritto, che deve avere coscienza dei propri
limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore, deve difendere alcune
esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla violenza e dalle
invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di adempiere a compiti per
cui non è adatto - In tal modo, sottolinea Cattaneo, il letterato ceco
riprende la migliore lezione del liberalismo classico per cui il diritto non è
al servizio del potere, ma può essere un valore solo in quanto esso sia un
mezzo di difesa e la garanzia della libertà e della dignità dell’uomo
Il grande insegnamento del letterato Havel è la tutela del valore più
calpestato dal totalitarismo, la dignità umana che è lo scopo fondamentale ed
essenziale del diritto, dato che diritto e libertà sono collegati ed il
diritto ha valore se garantisce e protegge la libertà. DISSERTAZIONÉ
• SULL * ORIGINE DELL* ANTICA •
IDOLATRIA E SULJ.A FORMA DE' PRIMI IDOLATRICI
SIMULACRI COMPOSTA DALL'ABATE ; Giuseppe luigi
traversari H Patrizio Ravennate , Canonico
Arciprete della Infigne Collegiata di Meldola , e tra gli Arcadi •
' LANIO' ATENIENSH. PRESSO GIOSEFFANTONIO
ARCHI. 5 DISSERTAZIONE SULL'
ORIGINE DELL’ ANTICA IDOLATRIA • 1 . • E
SULLA FORMA DE' PRIMI IDOLATRICI SIMULACRI. AL
NOBILISSIMO CAVALIERE , E DOTTISSIMO LETTERATO IL SIGNOR
CONTE AURELIO GUARNIERI PATRIZIO OS1MANO V
AUTORE. Veneratissimo Signor Conte fi 'S T fi Aria,
intralciata, difficile , e per nju- /. X no, ch’io fappia, di proposto
rifchia- tt » rata fi è la Queftione , che mi vien pro-
OS A porta a trattare, veneratiffimo Sig. Con- te ; cioè fe i
Simulacri primieri delle Pagane Di- vinità fodero lemplici e rozze Pietre
, o quadra- te , o rotonde, lenza veruna umana, o animalel- ca
ferabianza . Io ricevo con Ibmmo giubbilo per una parte l’onore de’
voftri cenni, e vi fi) al mag- gior fegao buon grado per avermeli
gentilmente partecipati . E’ una degnazion Angolare la voftra il
credermi pur capace di l'oddisfarvi in materia di eru- dizione . Ma per
l’ altra ben coaofcendo la pochez- A 3 za del \
v Digitized by Google / 6 ' Dksert.
sull* Origine za del mio talento, e la fcartezza di mie
cognizio- ni , provo un eftremo roflòre di non potervi ubbi- dire
in quel modo, che ad un voftro pari, ed alla qualità dell’ argomento fi
converrebbe. Inclinato per genio all’ amena Letteratura , ma Tempre da
im- pieghi fagri , e da gravi Itudj recinto , e fommer- lo in
occupazioni tutte diverte , lenza tempo , lèn- za relpiro come potrò
teftenere la qualità di Lette- rato innanzi a Voi , che in ogni maniera
di colte Lettere liete Maeflro ? E ben fapete quanto male in-
contrante a colui , che fu ardito parlar di guerra in- T 4 nanzi ad
Annibaie. Ciò non pertanto , fcnibrando- mi più teoncia la taccia di
malcreato , e di (cono- fcente , che non quella d’ignorante , e di mal
efper- to , a telo fine di tellimoniarvi per alcun modo la mia
oltervanza , mi farò lecito di comunicarvi i miei penlamenti. Sarà quindi
gentile impiego del voltro bel cuore infieme, e della vofira dottrina il
com- patirli te rozzi , o il rigettarli fe erranti. Per- mettetemi
però , gentilifitmo Sig. Conte , che io nel diitenderli mi allontani
alquanto dal metodo fecco e digiuno, che per alcuni fi tiene , e che
foltanto confine nel produrre Autori a rifate , e inzeppar fe- lli
, e affafteflar citazioni. Comecché molto io lodi la fatica e l’
induftria di chi procede fifFattamente , la materia, che abbiamo tra
mano, fe io non vò lungi dal vero , brama di fpaziare in più aperto
cam- mino , « di venir rintracciata da’ Tuoi vetulti principi. In
due parti perciò credo ben fatto il dividere la prefente Dillèrtazione ,
che a Voi trafmetto, e cou- facro . Ragionerò nella prima alcun poco
della ori- gine, delle maniere , e degli oggetti di quella fatale
Idolatria , che a poco a poco lopprimendo i lumi della natura , della
ragione , della Religione , della lloria , coprì di tenebre , e manommite
tutta la faccia dell’ Univerfo . Difcenderò pofeia naturalmente
nel- la feconda a rendere , per quanto io polla , proba- bile la
opinione, che t primi Idolatrici Simulacri tollero di quadrata, o rotonda
forma, e non aven- ti figura alcuna o di Animale , o di Uomo . In
questa dell'antica Idolatria 7 quella guila
crederò di potere all* autorità voìtra , ed alla mia ubbidienza per
alcuna via foddisfare. ^ . Si laici a Maimonide ( i J , ed alla
Scuola Ra- binica il fidare lenza prove agli Antidiluviani tem- pi
l’epoca della nafcente fuperftizione. Entrando nell’argomento, quel che
puolli da noi con cer- tezza affermare fi è, che poco tempo dopo il
Di* luvio s’ intrulè il Politeifmo a pervertir le menti de- gli
Uomini . Il libro di Giosuè f a ) ne avverte , che Tare Padre di Abramo ,
e di Nachor aveva fer- vito a* Dei menzogneri . Óra la nalcita di Tare
? fecondo i calcoli dell’ Uflerio, accadde non più di 22 1. anni
dopo la generale inondazione del nofiro Globo . Il libro poi di Giuditta
( 3 ) ci fa lapere , che non pur Tare , ma eli Antenati di Abramo
fe- guivano gli empj riti della Caldea adoratrice di più falle
Divinità. Labano chiama Tuoi Dei gl’ Idoli * che Rachele tua Figliuola
gli avea involati (”4), e Giacobbe prima di offrire un facrificio all’
Altiifi- mo fa recarli da tutti quelli di fua comitiva gl’ Ido- li
, che ferbavano , e li nafconde (otterrà . Molto, dagli Eruditi fi
difputa qual folle dell* Idolatria nafcente il primiero oggetto. Pretende
il Clerico ( 5 J elfère fiati gli Angeli adorati lenza limitazione , e
lenza relazione all* Onnipotente. Volilo ( 6 ) d* altra parte lòltiene ,
che il Dogma de’ due Principi buono , e cattivo folle dell’ Idola-
tria più antica generatore. Noi non fiamo per di- partirci dalla fentenza
più comune, e più compro- vata, cioè che gli Altri, e quindi gli <
Elementi follerò i primi a rifcuoter l’ adorazione de’ tralignan-
ti mortali. Fra un nembo di monumenti, e di au- torità , che in conferma
di tale fentenza recar po- . A 4 * ' trei * \ r »
( 1 ) De Idolat. curri Interpr. Dionyfi VoJJìi . ( 2 ) Cape
24. v. 2. ( 3 ) Cap. p. v. 8. C4) Genef.cap. 31. v. 19. £?. 30.,
Cap . 3$. v. 2. 4 * (5 J Index Philolog. ad HiJÌ. Thil. Orienta
in voce Angelus , V Ajlra . ( 6 ) De idolat . lib. 1. 8
Dissert. sull* Origine trei 3 e che in Macrobio C i ) , in Gerardo
VofTio già citato C 2 )> ne l Le Plucne ( 3 ), nel Bergero ( 4 )
lt polfòno agevolmente vedere , io trafcelgo il folo Eufebio Cefarienlè ,
tanto più che in Lui rinven- go accennata non pur 1 ’ origine , ma V
ingànnevol motivo di quella umana depravazione.' Egli adun- que ( 5
) colia (corta del gravilTìmo Diodoro Sici- liano, parlando prima degli
Egiziani, poi de’ Fe- nici , popoli , fra’ quali ebbe forfè 1 ’ Idolatria
la fua culla , e finalmente de’ Greci , dice , che (6 ) ,, i „
primi Abitatori di Egitto , avendo volti gli oc- chi a contemplare il
Mondo, e con alto ilupo- „ re coixfiderando la natura di tutte le cole ,
ili- 3> marono, che il Sole, e la Luna follerò Dei lem- 3,
piterni , e primarj , de’ quali per certo rapporto „ chiamarono 1’
uno Ofiride , e 1’ altra Ilide ,, infegnando eller quelli due Dei
dell’ Univerfo 3, tutto moderatori. Rapporto poi ai Fenicj egli
afferma che • ,, i primi fra loro datifi ( 7 ) a filo- ,, fofare ,
tennero unicamente in luogo di Dei il ,, Sole , e la Luna , e gli altri
Pianeti , e gli Ele- ,, men- 33 . > (1 )
Saturnale lib. 1. C 2 ) De Idololat. Orig. lib ». 3. per totum . (3 )
Storia del Cielo Tom. I. C 4 ) Trattat . Storie, della Relig. Tom.
1 . 4 5 ) Yraparat. Evang. lib. I. c. 9. ( 6 ) Tot* owj
xotr A lyuirrov Avd’p'jìTHS ro 7 rcchctiQt ywofJLtviss ccvccfihr^ccvrcce
tov xo$[jlov , xou rlw rctfr oKw xa.rcLT'Kccyv/rcts re xoui rocrras
UTTohccfìett/ uvea Osar otihas re xou irpu- ru$ vihiW) xou rlw <relwnv
y w rov \xiv Osipiv ; rlw ’Be Kit ovoyxKOA rara? Sé .Tttf Ozag
u<pirrocvr<u rov $i[/,tccvtcc xospLw ì>ioixe*v . ( 7
) HA/ok , xcu (reXlw/iv 5 xou r»? Tkoittxs T rKetfY\rots ctrrepccs , xou
rot sto%£cc } xta tvtoìs nwoufiiy pLQvov lyivwsxov .
dell'antica Idolatria. 9 „ menti in oltre con quanto a !or fi
congiunge ,, Finalmente paHando a far parola dei Greci , reca il
bel palio di Platone nel Cratilo, che in queite note fi elprime ( i ): ,,
A me certamente ralfem- ,,bra, che i primi ad abitare la Grecia quelli
fol- „ tanto per Dei riputalfero , che dalla maggior , pane de’
Barbari prefentemente fi adorano , il ’, Sole cioè , la Luna , la Terra ,
gli Altri , il Cie- lo , quali vedendo e.fi con perpetuo corlb
aggi- ,, rarfi , dalla parola ra G«y correre , Aosi Dei li ,,
chiamarono. ,, t Il lèntimento di Eulebio, o di Diodoro, che
dee chiamarli il lèntimento di tutti gli Storici più fenfati , potrebbe!!
agevolmente con facra au- torità comprovare. Mosè ( *J, Giobbe (i ) ,
I* .Autore del libro della Sapienza ( 4 ) col profcri- vere il
culto fuperltiziofo degli Altri, e degli Ele- menti , il fuppongono
tacitamente come il più an- tico , perchè il dipingono come il più
lulinghie- j>o , e capace a pervertire l'umano cuore. Così
fu veramente. Il cuore umano aggirato da un fafeino teuebrofo di
licenziole palliont , am- mollito dal lbverchio amor del piacere , fcollò
dal natio genio d' indipendenza , languido , e indiffe- rente negli
efercizj della Religione , la quale già inftillata nel primo Padre erafi
poi tutta pura da INoè trafmellà ne' difeeudenti , cominciò palio
pal- io a ( 1 ) tyojyovTout tj.ot 01 t porrà ruv P 1 tìpuiruv
rwv Trìpi TW EAÀa^a J T 8 TKf ^JjOVtSi Stai «y«>' 6 cU ,
• WiTTlp vuù T0XK01 TVV (locpQctpW , t{KlOV , XOU xcu ylw, xou
carpa , xou tspcaov . art OVLU tWTOC OpWTK TTOO/TCO OMrl 10 VTCL ,
XOU Piovra, j curo tojuths tìk <piKi'j>s rns tu Orir Qks
curasi (tovoijlkìou . (2) Deuter. c. 4. v. ip. (3) Job. C. 31. V.
16. 1 ( 4 ) Sap. c. 1 3. Digitized by Google io
Dissert. sull'Origine fo a perdere la giufta idea del vero Nfume ,
elio gli brillava all’ intorno con tanta luce* Un guitto* e terribil
giudizio di Dio medeilmo , il quale, come avverte S. Agostino , fparge
penali tenebre (opra . le illecite cupidigie , permife nell’ Domo un sì
fa- tale dementamento. Chi fdegnava di rendere al Facitore 1’ onor
dovuto come a Sovrano , meritò di perder colpevolmente lino le tracce per
ravvi- farlo . Abbandonato così alla stoltezza de' Tuoi pen- fieri,
fcambiò ( i ) la gloria sfolgoreggiarne, ed immenia dell' incorruttibile
Iddio co'’ limitati river- beri , che ne vedea nelle Creature. Gli Astri
pri- . ma di tutto a lui parvero contrallegnati co' mag- giori
caratteri della Divinità . Quel movimento •. loro non interrotto , que’
periodi tempre uniformi , quello fplendore Tempre brillante, quegl' in
Aulii : sempre benefìci fermarono il corfo alla di lui am- mirazione
, e riconofcenza , quando pur dovevano lervirgli di guida per falire ad
amar la bontà, a ri- conofcere la potenza del Creatore . Egli
lciocca- mente impadulò ne’ rulcelli , e dimenticò la lòrgen- te ,
e invece di riguardarli come Ministri delle divine beneficenze, li adorò
come Dei. L’ amor proprio , la fuperbia , la mollezza , il
libertinaggio trovarono il loro conto in fimil delirio. Gli Astri
comparivano Dei benigni, comodi, utili, che nul* la eligevano, nulla
vietavano, per nulla al più cor* rotto genio opponevanlì , nè mettean
freno alle più torte inclinazioni . Il culto degli Elementi , della
Terra, del Fuoco, dell’Aria, de’ Venti lì congiun- te ben presto con
quello degli Astri, perchè appog- giato fopra gli stelli principj , e
come un palio mal mifurato lud’un pendio fdrucciolevole cagiona
pre- cipizi Tempre maggiori , fi venne ad attribuire la divinità
alle inlenfibili cole, ed infieme agli utili, e dannofi animali, agli uni
per riconolceili de’ be- nefizi , che fanno agli Uomini \ agli altri per
pla- carli , e distornarli dall’ infierire . L’ antichiflima
opmio- ( i ) Afojì. ad Rom, c. x. dell' antica
Idolatria . n opinione de’ due Principj buono , e cattivo ebbe for-
fè gran parte in questi folleggiamenti, eia vera- ce , ma poi alterata dottrina
degli Angeli , de’ De- moni , delle Anime de’ trapalfati trovolfi molto
op- portuna per dilatarli. Si volle credere tutta la na- tura
animata . Animati lì tennero gli Astri dagl’ Indiani , dai Caldei, dagli
Egizj , dai Maghi, da Pitagora , da Platone , da Cicerone , da Varrone
. Il mare , i fiumi , le fontane , la pioggia , il tuo- no , le
rupi , le caverne , le pietre , i monti , gli alberi , le piante , gli
erbaggi , e tutti poi gli Ani- mali li coniìderarono come alberghi d’ una
infinità di attive prelìdi Intelligenze producitrici di quelli
effetti or nocevoli , .or vantaggiolt , che feulco- no il fenlo umano .
Le Anime de’ Trapalfati o dalla riconolcenza , o dall’ amor degli Uomini
con- fecrate ricevettero ben prello 1’ Apoteolì , ed ac- crebbero
il numero delle Intelligenze motrici del- la natura . Come Macrobio C i )
, e 1’ Abate Le Pluche ( 2 _),il primo in aria da Filofofo , il
fecon- do in aria da Storico, diffiifamente ci mollrano, Oliride,
Ifidè , Amone,Oro, Serapide degli Egizj ; Zeus , o Dios Giove , Marte ,
Saturno , Venere , Mercurio , Giunone , Cibele de’ Greci , e de’
Roma- ni ; Dionilìo, Urotalt ,e Alilat degli Arabi; Marnas de’
Fililtei; Moloch degli Ammoniti; Adad de’ Sirj ; Adonai , Achad , Architi
, Baelet , Belfamin , Mel- chet de’ Paleltini , non erano da principio
che il Sole, la Luna, o la Terra, e quindi in progredii Anime di
Principi o Principelle, d’ Eroi o Eroi- ne ite a regnar nel Sole, nella
Luna, negli Altri, o a preledere alla Terra. Quindi la turba degl’
Id- dj Confenti o maggiori , degl’ Iddj fecondar) o minori ; e 1’
altra infinita plebaglia di unte varie Divinità regolatrici di tutti gli
effetti , e di tutti gli elleri naturali , quale non meno
accuratamen- te, che leggiadramente ci viene dal grande Ago-
stino ( t ) Saturnal. lib. I. f a J Star, del Ciel. lib. I*
i2 Dissert. sull* Origine ftino C 1 J accennata . In
Quella guifa le due opi- nioni del Volito, e del Clerico amichevolmente
fi legano colla opinione comune, e tutte unite ci additano la prima
origine del più grande acceca- mento degli Uomini. ,, Deplorabile
acciecamen- ,, to ! (" concluda quello paragrafo il facro Autore
del Libro della Sapienza ) vana illufione di quelli , „ che non
conolcono Dio ! Attorniati da’ Tuoi be- ,, nefizj non hanno veduta la
mano, che li dif- „ fonde ; dalla magnificenza delle opere della
na- ,, tura non ne hanuo faputo riconofcere 1’ Artefi- ce . Si fono
perfuafi , che il fuoco , 1’ aria , i ,, venti , le llelle. Tacque, il
Sole, la Luna fof- fero i Dei , che reggono il' Mondo Più
„ miferabili ancora , perchè ripongono la lor fìdu- ,, eia in
fimulacri morti , ed inanimati ; elfi dan- „ no il nome di Dei all’ opera
della mano degli „ Uomini , alT oro , all’ argento indullriofamente
,, lavorati a figure d’ animali , a pietre modellate ,, fecondo il
gulto di un Artefice L’Uomo ,, fi forma un Dio d’ un tronco
inutile, a cui dà •la propria forma dia', oppur quella d’ un Ani- „
male. ,, Qui però vuole avvertirli , che T ufo de’ Si-
mulacri in figura d’ Uomini , e d’ Animali appar- tiene bensì a’ tempi
della già groil'olana , ed avanzata Idolatria , ma non a quelli della
nalcen- te . ,, Un Uom fa J , che dritto ragioni f pro-
fieeue fi) De Civit. Dei lib. V. VI. ( 2 ) AM'
ort y.ev oi rpurrot } koa tMcuot«- TOl TUV (XV&pWTUJV , «Té
VOCUy O/XoBojWfOWf TpO- tìx.o * , «Té hot# ccipttpufjLcuriv j «tu t ore
ypot~ tylXJfc , «Sé xA.afT.XW J yi yAlTTtXW , » « vlpict -
rrOTQITLKH f rCKVYK tpiUpyifAWYIS , 8^£ fJ.IV QLKQÒOUt- *W, B^é
op^iTtKTOVtKVis o-vujKTurrg y ra.ru ry o ifjca mfaoyityj.(vy ìiyiXov
etra* . dell'antica Idolatria;. fiegue il noftro
Eufebio, rapportandoli alle telli- monianze di tutti gli Autori gentili )
può facil- „ mente rimanere perfuafo , che i primi ed an- „
tichiffimi Uomini niuna fatica , o Audio ripofe- „ ro nel fabbricare
Templi , ed innalzar Simula- cri , non etlèndo Aate per anco inventate
le „ Arti della Pittura , della Statuaria , della Scol- „ tura,
anzi neppure 1’ Architettonica . „ Quindi dopo avere ripetuto il già
detto circa la primige- nia adorazione degli Astri conclude , che „
da „ principio niuna menzione vi fu di greca , o di yy babilonica
Teogonia , niun ufo di Simulacri y „ niuna ridevole vanità nella denominazione
de- ,, gli Dei parte mafchj , e parte femmine • fi) È veramente
lembra cofa aliai naturale , che la fòrgente Idolatria ne' vetustiffimi
tempi , comecché avelie cangiato 1* oggetto della Religion prima e
verace , non giungeiìè però sì tosto a cangiarne i riti e le cerimonie .
Porfirio fcortato da Teo- frasto , e citato da Eufebio ( 2 J pretende
delinear- ci il religiofo culto innocente degli antichi Poli-
teisti . Ma in verità quell'impostore Filofofo ne- mico giurato del
Cristianefimo nell’ adombrarci ì* estrinseca religione de’ primi
adoratori de’ falfi Dei , non fa che prendere in prestito que’ colori ,
con cui la Scrittura Santa ci adombra la Religione de’ Patriarchi
adoratori del vero Dio. Nulla infatti di più fèmplice e di più fchietto .
Que' fanti IH mi v Uomini negli efercizj di Religione poco
curavanfi dell’esteriore, e del fasto. Ellì la facev.an confi-
stere in picciol numero di estrinfeche azioni , per- fuafi , che il vero
culto è quello del cuore. L’ in- nalzamento de’ Templi non oltrepalla per
avventu- ra l’età di Mosè. Un femplice Altare in un luo- go
( I ) Oux tstpct ng Iw Qtoyoviccs EXXfuwX'f? , # fiapGctpiKK rote
TaXouTaTOtf f «^6/x »; tcw 7\oy<K y • bhe &X.0VW ìlpustS y ìtìt Ó
c. « (a} Prjepar. Evang. lib, J, V
Digitized by Google 14 Djssert. sull’Origine go
mondo , e fpartato , lènza statue e lènza figu* re , lènza adornamenti e
lènza ricchezze , in un bofco , o fovra d’ una eminenza era il luogo
dove Abele , Noè , Abramo , Ifiacco , Giacobbe colle lo- ro
famiglie fi raunavano per tributare all* Altiflìmo i loro voti ed omaggi
. Ivi a Lui predavano le primizie dell’ erbe e de’ frutti , ovvero il
latte , i «radumi , e le lane degli Animali , che dopo il Di- luvio
cominciarono ad immolarli . Ora fu quelle medefime tracce di religiofa
femplicità io tengo per certo , che nella fua infanzia procedette la
Idola- tria . Intela a venerar come Dei il Sole, la Luna, la
milizia celefte, gli elementi , le prelidi Intelli- genze non Teppe sì
tofto ufare altra forma di culto , fe non fe quella , con cui aveva
intefo , e veduto adorarli da’ Patriarchi fedeli il fommo Conditore
dell’ Univerfo . Niun ulo adunque per anco de’ Si- mulacri rapprelentanti
fiotto animalefica , o umana lembianza le pretelè Divinità . Niun ufo di
quelle datue , che rozzamente in feguito , e grottefcamen- te
modellate dagli Egizj , ottennero poi e castiga- to difiegno , e
fipiccata *. motta , ed energico atteg- giamento lotto lo ficalpello
indulìre di Dedalo. An- zi qui dee acconciamente fioggiungerfi , che
anche dopo la coftruzione de’ Templi fi tardò molto prefi* fo le
antiche Nazioni ad ergere in elfi le llatue fi- gurate ; come degli
Egiziani parlando afièrma Lu- ciano , il quale aggiunge ( i ) d’ aver
nella Siria veduti Templi dell’ antichità più remota lènza im-
magine , o rapprefientanza veruna . Che più? Ro- ma detta , che in
paragon degli Egizj , e de’ Greci nacque sì tardi, per oltre anni 170. (
come ci atte- da Varrone citato ( 2 ) da S. Agofiino ) Simulacri
non ebbe ( 3 ) ne’ proprj Templi,, finché Tarquinia Fri fico
( 1 } De Dea Syria . ( 2 ) De Civit. Dei lib . 4. c. 3 1. (
3_) Dicit eiiam Varrò , antiquos Rcmanos ylufi quam annos 170. Deos
fine Simulacro coluijje . Qiiod fi adhuc , inquit , manfijjet y
caflius Dii ob - fervarcntur . S. Auguft. citat. dell’antica
Idolatria. t? Prifco Uomo di Greco , e di Tofcano genio tutta
di Simulacri inondolla . Anzi più didimamente aflerifce Zonara ellervi date
leggi , forfè di Numa , £ roibitive a’ Romani di rapprelentare la
immagine livina fotto la forma di Uomo, ovvero di Anima- le .( i )
Ma l’ Idolatria finalmente è l’opera del- le tenebre, e per poco
crefciuta, non potea a me- no di non addenfarle nel cuor dell’Uomo.
L’Uo- mo divenuto più empio circa gli oggetti dell’inter- no fuo
culto , non tardò guari a fard ridicolo circa le maniere di elercitarlo.
Egli avea degradata ab- ballala la fua ragione , adorando come Dei le
fem- plici Creature . Quello medelìmo fpirito di verti- gine il
tratte ben pretto ad avvilirli viemmaggior- menfe coll’ adorare 1’ opera
fletta delle fue mani . Ei volle oggetti fenfibili e materiali anche
all’ •efterno fuo culto. Ei pretefe di circolcrivere li fuoi Dei
per converfarvi più da vicino , ed innal- zò , e venerò .Simulacri . Or
di qual forma erede- rem noi , che follerò in quello genere le prime
in- venzioni dell’ umana ttoltezza > Quali gli fcogli , in cui
da quella banda urtarono primamente gli Uomini deliranti ? Eccomi alla
feconda parte della Dittertazione pervenuto, ed eccomi al punto di
nia- nifeltare la mia opinione . Io reputo adunque
probabiliflìmo , che follerò in primo luogo i Pilieri , o le grotte
pietre qua- drate , le quau chiamate furon Betilie , e che ori-
f linariamente non erano, che Are ferventi alle rc- igiole
adunanze. Sanconiatone , Scrittore antichit- fimo delle tradizioni
Fenicie , portato da Portino fino alle ftelle , e da Lui creduto
informatilfimo della Storia Giudaica , come non molto dittante
dalla età di Mosè , nel celebre fuo frammento , là dove narra le imprefe
del Dio Urano , o Cielo , affer- ( i ) At'typvrou$v ,
xan tyofiop$ov nxwa. tu Sa eariSTca Pvy.yjois aTe-r/wcoo'. / uuar . Tom.
a . y. io- Digitized by Google I T
6 DlSSEftf. sull* Ortgtné afferma, che ,, Egli trovò le Betilie (
i ) coftrtien- „ do con inlolita mirabil arte Pietre animate. ,, Io
non ho letto di tale Frammento fé non la ver- done greca fatta già da
Filone Biblico , e riporta- ta diftefamente da Eufebio . ( 2 J So, che il
Si- gnor di Gebelin colla fpiegazione di quello antico irjonumento
ha fatto vedere, che il Traduttor gre- cò ne avea malamente recato il
lenfo, e che ridu- cendo i termini al vero loro fignificato , 1 ’
Autor Fenicio trovali uniforme al Legislator degli Ebrei. (3)
Checché ne fia , dilHetto non vengami di le- guir le tracce già legnate
dal grande Uezio , e dall* erudito Calmet , affermando , che Sanconiatone
in quell’ accennato ritrovamento delle Betilie , e co- struzion di
Pietre animate ci adombra , benché in modo affai alterato , la vera
Storia del celebre mo- numento, o Altare di Giacobbe. Quest’ottimo
Pa- triarca (~ 4 J nel fuo viaggio da Berfabee in Melo- potamia
postoli in certo luogo a dormire fu di un grande , e ruvido Saffo
acconciatoli a forma di guan- ciale , ebbe la sì nota vifion della Scala
corfeggia- ta dagli Angeli , fu la di cui lòmmità appoggiato flava
1 ’ AltilTìmo , da cui lènti rinnovarli le grandi promelfe fatte ad
Abramo . Deftatofi egli , efcla- mò Quanto è mai terribile quello luogo /
Vera- mente non è egli altro , che la Cafa di Dio , e la porta del
Cielo . Diede a quel luogo il nome di Beth - el , che lignifica nell’
ebreo linguaggio Cafa. di Dio Conlècrò il Saffo, che la notte
lèrvUo gli aveva di guanciale , verfandovi dell’ Olio , e in
monumento 1 * erefle. Quindi concependo un Vo- to , il conclufe col dire
cs II Signore farà il mi® Dio se e quella Pietra chiameraffì Cafa di Dio
c 5 ( I ) Et/ miwe 0»? Oupcao? ( 2 ) Pr*p. Evang. lib
. I. c. 9. C 3 ) AUeg. Orien- tai. p. 22. e 9 5. Memor. de V Accad. des
Infcrip* T . 6 1. in 12. p, 24 3. (4) Cenef. 28. 18.
Dalla V* dell'antica Idolatria; 17
Dalla Mefopotamia tornando nella Terra di Ca* naan , giunto allo
Stello luogo , e Soddisfar volen- do al già fatto voto d’ offerire a Dio
la decima de’ Tuoi beni , innalzò fimil mente un Altare di pietra ,
e replicò il nome di Beth - el , Cafìz di Dio. Finalmente di bel nuovo in
que’ contorni felicitato dall’ apparizien del Signore , nove! mo-
numento di pietra cortrulle , d’ olio , e di liba- zioni Spalmandolo, ed
a lui pure comunicando la denominazione di Beth - el . Io ammetterò ,
che quello termine Beth - el dato agli Altari , ed ai mo- numenti
facri , quanto all’ edema efprelfione , fofr fe uri ritrovamento di
Giacobbe; ma follerrò con egual verità, che quanto all’ idea , ed
all’interno . concetto degli Uomini ei difcendelfè dalla tradi'
zion più rimota. Beth - el , Caja di Dio , potea fi- milmente confiderai
, e chiamarli 1’ Altare nell* ulcir dall’ Arca edificato dal buon Noè ,
perchè ivi 1’ AltiSTimo a lui diede fegni fenfibili di fua prelenza
, e mifericordia . Beth-el per Somiglian- te ragione potea appellarli 1’
Altare edificato da Abramo fui monte Moria per fagrificare il
Figliuo- lo; éd egli infatti chiamò quel monte Dominus vi - debit.
Beth-el giuftamente nomar fi poteano tutti gli Altari innalzati da’
Patriarchi fedeli per ufo an- tichilfimo, forle dagli antidiluviani
fecoli proceden- te , perchè tutti onorati da qualche' Speciale
com- mercio della Divinità , percnè diftinti da qualche fuperna
verfata beneficenza , perchè in certo modo protetti , ed invertiti dal
Nume , e destinati a tri- butargli culto , Sacrifizio , e riconofcenza
dalle cir- costanti Generazioni . Ora da quefti Altari , e
monumenti di pietra , chiamati da Giacobbe per la prima volta Beth - el
, cioè Caja di Dio , e già tenuti per tali fino da* remotiSfimi
tempi , chi non conofce ( entra qui acconciamente il Le Pluche) (i J etìerne
derivate le sì note Betilie , quelle grolle pietre quadrate ,
B che to Stor. del Cielo , Digitized by
Google 1 8 D r SSERT. SULL* ORIGINE che con
ol) preziofi , ed aromatiche eircnze irriga- vano , e che poi furono in
tanti luoghi oggetto di veturtiffima adorazione, come da più Autori , e
no- minatamente da Fozio nella fua Biblioteca dinto- ftrafi ? Chi
non conofce dal Bethel di Giacobbe C foggiunge opportunamente il Voflìo )
( i ) deri- vato il famofò Betilos , quel (allo prelentato a Sa-
turno invece di Giove, come per relazione favo- lofa Efichio ( 2 ) ci
narra , e che ottenne poi tan- to culto dalla forfennata Gentilità ? Ed
io al Vof- iìo , ed al Le Pluche fottofcrivendomi , concludo : Chi
non conofce in quelti monumenti, ed Altari il primo inciampo degl’
Idolatri , ed il primo og- getto fènfìbile , e materiale delle adorazioni
fuper- ìtiziofe ? Mettiamci di grazia in varj punti di villa
naturalismi . Confideriamo il genere umano dopo la confufion delle lingue
, e la differitone delle .Nazioni già prefo da uno fpirito di vertigine ,
e già declinante al Politeifmo . Malgrado le volon- tarie tenebre ,
che incominciano ad acciecarlo et l'erba tuttora nel cuore il fème della
religion pri- migenia ; e nella memoria i fagri riti, e le reli-
giofe cerimonie dal Patriarca Noè tramandate . Egli perciò innalza, e
confagra in ogni luogo pie- tre modellate a fòggia d’ Altare per onorarvi
la Divinità : ei vi ft proftra all’ intorno: ci vi ce- lebra le
religiofè adunanze : ei vi prefenta i Tuoi Sagrifizj , comecché forfè non
più al folo , e vero Nume, nta agli altri ' ancora , agli elementi,
agli fpiriti . Ei fa però , ed una tradizione non rimo- ta glielo
rammenta , che il primo Riparatore de- gli Uomini dopo il Diluvio ergendo
un limile Al- tare , il vide torto adombrato dalla fènfibil pre-
lenza , e maeftà dell’ Altiflìmo difeefo in atto di ricevere , e di
gradire placabilmente i fuoi Olo- caufti . CO De PhU.
ChriJIUn. C? Theol. Gent. Vib. 6. t. :p. ( 2 ) BatTuho? «toj
fjtocXe-fTO o AtGo; to> K poeti) cari &ios ,
Dell* antica Idolatria; taufti . Comecché la Scrittura noi dica ,
io noa credo temerità 1* aderire , che limili degnazioni
compartifle talvolta il Signore anche ai Figliuoli, o ai Nipoti di Noè ,
che fi mantenner fedeli pri- ma d' Aoramo. Ben il vecchio Sacerdote, e
Re di Salem Melchifedecco ne avea tutto il merito. Checché ne fia ,
certamente il genere umano non può non confiderar quelle pietre , od
Altari , che qual cola rilpettabile , e (anta. Fi le vede fèrbate
ad un culto Speciale della Divinità , e ad un peculiar commercio col
Cielo : ei le vede in- nalzate o per rinnovar la memoria d' alcun
luper- no ricevuto favore , o per invitar gli animi ad una fedele
riconofceitza : ei le vede anche ufate per edere teftimonio , e
monumento durevole delle al- leanze , de' patti , delle folenni prometle
, e de' giu- ramenti , ne’ quali s’ interpone il tremendo nome » e
la Maeftà Divina. Gli efempli , che fu di ciò abbiamo nella Scrittura ,
non fanno , che dinotarci una vetuftidìma poftumanza. A tutto quello s'
ag- giunga 1' opinione già di fopra accennata , e che fi- no dai
primi tempi fi propagò fra i mortali , cioè che tutto ripieno folle d’
Intelligenze regolatrici degli elleri , e degli effetti della natura .
Con- nettali pure l’altra opinione d’ antichità non mi- nore da S.
Agoffino rammentataci ( i J colle pa- role del celebre Mercurio
Trifmegifto , cioè che per certe conlecrazioni rimanellèro li Simulacri
non pure inveititi , ma realmente animati dalli Dei venuti ad abitarvi ,
affin di nuocere, o d? giovare più da vicino ai loro adoratori . Ciò ,
che forfè adombrar volle Sanconiatone con quella ef-
preffione di 7 ^ 0 ^$ Pietre animate. Con- siderando noi il
genere umano in tali profpetti , qual cola più probabile, e naturale a
concluderli, eh' egli , parte abufando delle antiche tradizioni
veraci , parte ingannato dalle nuove folli perlua- B 2 fioni,
C t J De Civit. Dei lib. 7. e. 23. e 24* f 2 o
Dissert. sull* Origine fioni j e già rilbluto di voler oggetti
fenfibili al proprio culto , cominciale ben pretto a venerare
quegli Altari , que’ monumenti di pietra , quelle Eetilie ,
.riguardandole o come Alberghi della Di- vinità , o come fimboli della
prefenza divina , e finalmente , tempre più creteendo 1* accecamen-
to , come tanti veraci Iddii ? Se il genere umano è pure intefiato di
adorare l’opera delle tee ma- ni , qual cofa più reverenda , e più degna
di culto ai di lui occhi pretentali , che i mentovati Altari , o
monumenti , o Betilie ? Qui vorrà alcuno per avventura obbjettarmi
, che quando trattali d’antichità olcurilfima , più che^ col
raziocinio , voglionfi colla fioria , e co’ fatti fiabilir le opinioni j
ed io non fono per conten- derlo. Forte però, che l’opinione da me
propo- sta non li deduce naturalmente in gran parte dai Libri
Storici di Mosè , i quali ( lanciando anche ftare quella ifpirazione
divina , che li confacra, e mirandoli tei con occhio di Filotefo non
tumido per alterezza , nè da paliioni alterato ) ben va- gliono
aliai più, che tutti li Vedam de’Bramini, gli Zend di Zoroaftro , i
Kinghi di Confucio , e di Se-ma-fiien, ed i racconti favololi di
Erodo- lo ? Pur i*on fi creda , che io voglia in quella ma- teria
lafciare affatto il mio Leggitore digiuno di monumenti , e di autorità
. Il Volilo C i ) rapportaci , che il Beth - el , o Pietra di
Giacobbe , di cui tanto abbiamo parlato , fu a fomiglianza del Serpente
di bronzo , per lun- ga età foggetto di fuperfiiziofa adorazione a
molti Giudei , finché da’ veri Ifraeliti prete giuftameu- te in
abbominio , gli fu cambiato il nome di JBef/i- el % Cafa di Dio, in quel
di Beth - ave , cioè Cafa della Menzogna . Quali poi furono i
primi Simulacri degli Ara- bi , tra i quali i Moabiti , e gli Ammoniti fi
com- prendevano? Gli Autori antichi, a’ quali rappor- tali
i ) lai’, d. r. 2p. / Digitized by
Google dell’ antica Idolatria. 21' tali il Calmet ( 1
) , e che ci parlano delle prime Divinità di que’ Popoli , le defcrivono
come fem- pjici Pietre informi, o fcalpellate, ma non con umana
forma. ,, Voi ridete, dice Arnobio, (2) „ che ne’ vetufti tempi gli Arabi
adoraflero una ,, Pietra informe . „ Malììmo Tirio ( 3 ) o di que*
ito , o d’ altro Arabico Simulacro parlando il chia- nia Tfrrpxyjìm
Pietra, quadrangolare. Ed Eu- timio Zigabeno nella fua Panoplia
ragionando co’ Saraceni : ,, Ed in tjual modo , efclama , voi ab-
,, bracciate la Pietra di Brachthan , e la baciate ? ,, Alcuni rilpondono
: Perchè Abramo fopra di efc „ fa eboe il fuo primo commercio con
Agar. Al- ,, tri poi : Perchè ad ella legò il fuo CameTo quan- ,,
do fu per lagrifìcare Ilàcco . f 4 ) „ Non pen- io di meritar la taccia
di capricciofo , fe giudico quelle Pietre adorate in feguito nell’ Arabia
nuli* altro elfere fiate da principio, che vetulte Beti- lie , o
rozzi Altari fors’ anche al vero Dio confe- crati . Certamente Mosè ,
("5 J in ciò ieguendo S er avventura la tradizione , e il più
vetullo co- ume , prefcrive , che di rozze Pietre dal ferro non
tocche , e informi fallì , ed impoliti follerò gli Altari , che dopo il
patlàggio del Giordano fi volelfero al Dio d’ Ifraello innalzare; e nuli’
al- tro , che grandi Pietre fpalmate alquanto di calce folfero i
monumenti defiinati. a fcrivervi lòpra le parole della legge. Temette
forfè il grande Le- B 3 gisla- ( 1 ) 7 efor. cP Antich.
tratto dai Coment, del Cal- met T. 2. ( 2 J Lib. 6 . C 3 J Sermon. 3
8. ( 4 ) Ili* VfJUHi TposrpiQtsrt toj ?u 9 u» t ts Bpxyficxv
j xou tpiKsirt raro» ; kou tiiik j aa> ewrw tpctti y %tQTi tir coki)
aura s trasloca rn Ay cefi 0 Afipaont. AÀA01 ?>£ ori rpotilìiKur
carro» thv xxiju iXov , fJ.iKho»r (jusai rov I sotux. . C s )
Deuter. 27. 5. 22 Dissert. sull’Origine
gislatore , che fé tali monumenti , ed Altari fi f 0 f. fero con
più eleganza collutti , divenilfero più fa- cilmente al rozzo fuo Popolo,
e vacillante pietra d’inciampo, e fomento d’idolatrica fuperllizione
. E qui , giacché dell’ Arabica fuperllizione ho fatto parola
, voglio avvertire , che della per lungo tem- po mantenne!! nella lua
primigenia feniplicità. Giobbe Arabo, o Idumeo , forfè
contemporaneo , le- non anteriore a Mosè, accenna lenza meno l’ Ido-
latria del fuo Pael'e. Or ei non parla nè di lla- tue , nè di figure .
Indica fidamente 1 ’ adorazio- ne , ed il faluto del Sole , e della Luna
, ( i ) che poi Uroralt , ed Alilat furono nominati . Se- gno
manifelto, che fra que’ popoli non fi era in- trodotto per anco quel lopraccarico
di moftruole follie, con cui dalle Scolture Egiziane rimale ag-
gravata l’ Idolatria. Che fe non pertanto gli Ara- bi ab antico
proltravanfi a Pietre informi , o qua- drate , quali io reputo Betilie ,
ed Altari , ben con- cluder potrai!! , che quelli follerò il primo.
fco- glio, e il primo fcandalo al/ materialifmo de’ più antichi
Politeilli . Teltiinonio ne facciano i primi Abitatori del-
la Germania . Colloro finché rimaforo nella vern- ila loro rozzezza,
finché la fuperllizione fra eli! col commercio delle arti Greche , e
Romane non giunfe a farli più vaga infieme , e più llolta , al- tri
Simulacri non ebbero, come Tacito ( a J av- verte , che folli informi di
legno , e di rozze pie- tre . Erano quelle le forme degl’ Iddii , che
por- tavanocon elfo loro alla guerra , penlando , che folle un
offendere la Divinità il rapprelèntarla fotto umana fembianza . Ciò , che
pure da molti altri ( i ) C. 31. v. 16. ( 2 J De Morìb.
Germart. Sta- tua ex stipitibus rudibus , i? impolito lapide
effi- gi e s , CP Jìgna quxdam detracia luci s in prxlium ferunt .
Nec cohibere parietibus Deos , ncque in ullam humani oris Jpeciem
affimilare ex magni- tudine cotlejìium arbitrantur. 1
1 1 Digitized by Google
dell'antica Idolatria; . 2$ altri Popoli di non peranche
ingentilito collume , per quanto narrano gravi Autori ,
collantemente penfolfi . Ma e dove lalcio la celebre Madre degl*
Iddìi , o fia Cibele di Frigia portata in Roma da Pelìinunte col
miniftero di Scipione Nafica , e da* Romani ottenuta per mediazione del
Re di Perga- mo al tempo della feconda guerra Cartagine!? ? Tito
Livio ( 1 ) le dà il nome di fagra Pietra „ Pietra informe la chiama
Minuzio Felice . Arno- bio ( 2 ) la defcrive come una Selce non
grande di forco , ed atro colore , e per angoli prominenti ineguale
. Eravi fra quei Popoli tradizione , che quella Pietra caduta folle dal
Cielo, e che ap- punto da jrK&y cadere la Città Pelfinunte folle
Hata chiamata . La Grecia ftefTa non fu priva di quelle
fog- gie di Simulacri. Paufania ci attefta, che in una loia parte
d’ Acaja furono da trenta Pietre taglia- te in quadro , aventi ciafcuna
il nome di una qual- che Divinità , e con fomma venerazione
riguarda- te , fendo llato collume antico de* Greci il prellar
culto a limili Pietre , non meno di quello , che pofcia faceflèro alle
figure, e alle llatue. Mi fa- rà egli difdetto il probabilmente
congetturare per le ragioni di fopra addotte , che quelle , ed
altre* limili Pietre di Grecia nuli’ altro da principio fof- fero ,
che Betilie ? Servirono un tempo a niun al- tro ufo, che agli efercizj
delle facre adunanze. L* Idolatria col farli più tenebrola giunte a
diviniz- zarle . Betilie ùmilmente , o imitazione fenza me- no
delle Betilie pollòno crederli gli Ermi , di cui la Grecia , e Roma
furono ripiene , e che pofcia ad abellire fervirono fpecialmente le
Biblioteche. Bili non erano da principio , che tronchi informi di
legno , o di marmo , o di pietre tagliate in quadro fenza mani , e fenza
piedi : T runcoque fiinillimus Her- inu?, dille Giovenale. ("3) Ne*
quattro di loro lati pretendeva!! dinotare o le quattro ltagioni, o le
quat- B 4 tro ( 1 J Lib. 2$4 ( 2 J Lib . 6 • ("3 )
SiiU 8. 1 '24 Dissert. sull* Origine .
tro parti del Mondo. Si confiderarono poi come ilatue degli Dei , e
di Mercurio principalmente „ Il di lui capo , che vi fi aggiunfe , fu
fenza meno un poderiore ornamento. Anche il Dio Termine non fu
nell* età più vetude rapprefentato , che fot- to la figura di grolfi
Saffi quadrati , cubici , privi di mano , e di piede : Ttrpctywoi ,
xuQoziìitls y K'Xttp&y xou airone? ; quantunque al Dio
Termine pur s* aggiungere la teda umana ne’ fecoli confeguen-
ti . E che non può in quella parte una matta per- fuafione a poco a poco
crelciuta fra i barlumi di tradizioni parte vere* e parte mendaci? A
tutti è noto , che da molti Popoli fi giunte per fino a ve- nerare
le Montagne , quali grandilfimi Simulacri della Divinità. Il monte Atlante
era il Dio de- gli AfFricani. Occidentali : un monte il Dio de*
Oappadoci per allerzione di Malfimo Tirio : Moni a pud Cappadoces prò Deo
ejl , prò jur amento , atquc Simulacrum . Un monte , o fia rupe
SxotéA© r y xoputplw il chiama Stefano , ( i ) rifcoire pure
adorazione dagli Arabi. Giove fi venerava nella cima de’ più alti monti ,
come dell’ Olimpo , del Callo , dell’ Ida ; e il nome quindi ne rifcuotea
di Giove Oljmpico , di Giove Cafio , di Giove Ideo . Gl’ Italiani
ilelfi predarono al monte Appennino venerazione , come apparifce da una
Ifcrizione ri- ferita dal Matfèi nel tuo Mufeo Veronefe, la qua- le
comincia IOVI APENINO. Ora e per qual ra- gione crederemo noi , che
adorati veniflero tal» monti , te non per la della , che confecrate
avea le Betilie ? Ce la prelenta naturalmente il Berge- ro . ( 2 )
Fu fcelta la cima de’ monti per offrirvi de’ facrihzj , perchè
credevano gli Uomini d’ e fie- re più vicini al Cielo, e conseguentemente
agli Dei, qualora fi adoravano gli Altri. Per tal mo- tivo
(" i ) In Avsccpq . ( 2 ) Trattai, della vera Relig. T.
I. §. 15* 1 \ DELL’ANTICA rDOLATRTX;
ìf tfvo <i feielfero le pili alte. Tali cime per eli .«lercizj
della Religione confècrare ben predo dir vennero rilpettabili Immaginoifi
, che gli Dei vi fodero difcefi^ p®* ricevervi T’ incenfo , e gli
omag- gi degli Uomini. Pài non vi volle. Riguardata prima come
abitazione de* Numi , fi confidcrarono ben predo quai Simulacri immenfi
animati dalla Divinità, ed ottennero una fpecie d’Apoteofi. .
Gon quanto fi è da me finora ragionato, e che, le il tempo lo permettelle
, con altre notizie , e cagioni facilmente potrebbe!* dilatare, io
giudico refa ormai probabile la opinione di chi accinger vogliali a
fo denere , che. i primi Simulacri delìq Gentilefche Divinità fodero
femplicl Pietre riqua- drate , od informi, fenza alcuna umana, q
anima- • Jefca fembianza . ' . ' " Reda ora , che alcuna
cola ragionili de* Simu» * a , cr * ° rot °ndi , o tendenti a rotondità,
a cui pre- ito fuo culto primiero la cieca' fuperdizione , pfi* ma
che folle ai figuri te Statue provveduta. Io non fono per ripetere
quanto di fapra ba* ftevolmente ti £ detto intorno a| culto degli
Adri* e degli Elementi , degli Spiriti, e degli Eroi. Ag- giungerò
(blamente , che non sdendo per anche giunto lo fcalpello Adirio , o.
Egiziano a rappre- fentar le figure degli Uomini, e degli Animali,
e per elprelfioni di Arnobio , ( i J avanti 1’ ufo , e U
difciplina della fcoltura , già penfato avea 1* Idolatria a procacciarli
, oltre le Betilie , oggetti temibili alle lue adorazioni. Gonfiitevano
quelli iti certi fimboli q dinotanti, la potenza, e dabi- hta de’
Numi , o adombranti in qualche modo al- cuna or qualità, J Battoni , le
Verghe, le Afte, che al dir di Trago Pompeo (a) furono la prima
“^gna .dei Re, lignificavano il fommo imperio . de Numi, Le colonne, i
cilindri , le pur non era- no una imitazione più ‘ ingrandita dei Badoni
da comando, ne accennavano l’ eternità. Gli Obe- B 5 Ufchi,
' fi) Lib, & ( a ) Lib % ultima » »
Digitized by Google t6 Dissert. sull* Origine lifchi ,
le Piramidi , i Coni efprimevano i »gg* «}el • Sole , e delle Stelle , o
la natura del fuoco , che -in alto vibrava!! acuminato. Menianrto
pur buone a Porfirio ( i ) le interpretazioni sì fatte .
Concediamogli ancora, fe piace , che tali monu- menti alzati dalla pili
vetulla gentilità non fi ri- guarda fiero da principio , che come fimboli
, o meri Pegni d’ onore . Il Volfio , e forfè con trop- po impegno,
è dello fleflo parere ; ma poi di Por- firio più ragionevole , perchè non
tanto foffifta , nè così empio , s’ arrende a concludere , che ben
pretto divennero occafione di lcandalo alla mate- riale Idolatria , e
oggetto furono di profane ado- razioni . Elfi in una parola ne’ primi
tempi flet- terò in luogo di quelle ftatue figurate, che poi ot-
tenner l’ incenfo dalle corrotte umane generazio- ni . E qui bramo s’
avverta ? che dove di fopra io dilli , aver preffo molte nazioni tardato non
poco le ftatue ad innalzarfi ne’ Templi anche dopo la erezione
de’medefimi, io intefi favellar foltanto delle Statue rapprefentanti le
Teodie fotto la for- ma di Uomo , oppur d’ Animale ; ma non volli
giammai includere i Simulacri , per così dire , fim- Eolici , e non
aventi figura . Quelli fono anterio- ri , non pure alla ftabil mole de’
grandi Templi , ma eziandio a quei Padiglioni, o Tabernacoli, o
Tempietti portatili , con cui gli antichi Idola- tri ebbero in ul'o di
condurre a patteggio i loro Numi . Ora di quelli non figurati
Simulacri parlando , m’aprirò il varco con l'autorità di Filone
Bibli- co ( aj , il quale nel fuo proemio alla interpreta- zione di
Sanconiatone, diftinguendo gli Dei immor- tali , come il Sole , e la Luna
, dagli Dei mortali , cioè da que’ Principi , ed Eroi , che per le
loro getta avevano confeguita l’ Apoteofi , ci avverte «fiere flato
vetullo immcmorabil collume , fpecial- mente (ij Apud
Eufeb. Trap. Evang. lib, 3. c. 7. (a) JW. lib. 1. e. 9.
MLL* ANTICA IDOLATRIA. 27 mente degli Egiziani , e Fenici ,
da’ quali preferì norma le altre fazioni, d’ innalzare a quelle
Chili d’Iddii Colonnette, o Baftoni , o fia Scettri di le- •
J_ - -t fn..: ninmimpntl il nome di (cerando. ( i ) , „
Sanconiatone poi nel fuo frammento racconta- ci fa J, che molti
fecoli prima della coftruzione de’ Templi, e formazione delle Statue Ufoo
primo navigatore avea dedicate due Colonne %uo sTtfKxS al
fuoco , e al vento , e prellato ad entrambe cul- to , e facrificio col
fangue degli Animali. Proiie : f He indi a narrare , che dopo la
morte de primi roi già divinizzati la grata pofterita onorata avea
la lor memoria , lotto i loro nomi confecrando ver- ghe , e colonne, e
con feftivi giorni , e fagre ce- rimonie adorandole . Finalmente ci
addita , che dopo lunghiffima età fu innalzata al Dio Agro vera
effigiata Statua nella Fenicia . .. Giu Teppe Ebreo f 3 ) non
diubmigliantl noti- zie prefentaci , aderendo , che i Tir) da
principio a’ loro Dii fornirono Afte , e Baftoni , poi Colon* ne ,
e finalmente le Statue . . '* Certo nella primitiva Egiziana
Scrittura fimbo- lica ( 4 ) non in altra foggia , che d’ un Bafton
da comando con un occhio efiprimevafi Ofmde , il S uale
originariamente fu il Sole , fignificar volen- o la fua regale potenza,
ed il mirar ch’egli fa dall’alto tutte le cole. Ed io ben credo
efftre agli Eruditi notiffime le Piramidi , gli Obelifchi , ed i
Coni dall’ Egitto al Sole innalzati , come per imitar-
* i '( I ) Tru'Xas rt , xcu pa<i; aipitpoiw
coope- ro? ccuTiM , xoa rocurot ju.yaAw? , kou ioprrccs
m/J.or carrots Taf pryisrccs . fi) Apud Eufeb. ibi c. io. ( 3 )
Cont. Apìon. lib. I. (4J Macrok. SatumaL lib. I.c. ai.
Digitized by Google aS DisserY. ' suit* Ormine
imitarne I fuqi raggi . Da ciò forfè provennero quelle corna , d* cui in
fedito 1 Egizia bizzaria li compiacque ornar gentilmente il capo del
tuo Giove Amone, del fpo Apollo d*Eliopoli,e della fua Ifide. Ove à
no\ piaccia di ftare * certe le- zioni per altro antiche del tetto di
Quinto Cur- zio, CO ammetter dovremo, che 1' Amone ado- rato da’
Trogloditi , e proceifionalmente a fpalle di Uomini condotto in una
dorata barchetta per aver- ne eli Oracoli , altra forma non avea , che d
un Goiìò , ó d’ un Ombelico tutto di fmeratdi , e P rc ~ ziofe
gemme fmaltato . Almeno rigettar non po- tralTi 1* autorità di Brodiano,f
2 J il quale ci delcri- ve il Simulacro del Sole (otto nome
di Elegalu , venerato iq Edeilfo della Siria Apamena • Di
tale Simulacro (e ne può vedere adombrata «. forma in una medaglia pretto
il Vaillant battuta ali* ùltimo e più pazzo degl’ Imperadori Antonini
. Or ecco la defcrizione di Erodiano, giufta la ver- fione latina
fatta dal ^oliziarfo . „ In Edefla non v’ ha Simulacro atta Greca ,
o alla Romana em- ” «iato fecondo P immagine di quel Dio -, ma un
latto grande rotondo da imo > e , a P oco a P oco crefcente in punta
quali a figura di Cono . Nero V, è il color della pietra , cui facciano
eflere ca- V, data dal Cielo. ed affermano quella 1 ”
fer 1* immagine del Sole no n da umano artificio 3y lavnrata Su tali
parole fa una riflettìone op- /.ante voi* citato G^>
del soie : uiciiuc , 7 ** - , -, *• Tentare gl* Iddìi
fotto umana fembianza fu de po- fteriorf Greci, e Romani. Ma gli Afiatici
più ve., tutti, ecl anche gli Egizj moltq divamente fi *i- P
° rt Chi °fà pertanto, che, fe ci rimane^ro le me- rie delle più antiche
orientali Divinità , ^noi^noi* mone ( i ) Lib. s. (2)
Lih 5- CO Uh. 9 . c. io > dell'antica IdoiatrYa. 19
le trovaffimo quali tutte in figura di Colonne , d? Obelifchi , di
Piramidi , o di Coni rappreleutate ? Certo non fenza ragione i Settanta
hanno in co(ìu« me di traslatar per Colonne la voce ebrea Matgaba ,
che ordinariamente traduce!! per ljìatue ; e come il Calmet ( t J ci
avverte , il nome di Colonne lem- bra meglio corrifpondere al lignificato
del termine originale. Forfè que’ dottilììmi Interpreti vollero
dinotare la forma antica , con cui 1 ’ Oriente , e la Terra di Canaan
rapprefentar foleva i fuoi Numi ; E forfè Mosè coll’ imporre , che fi
demolillèr tutte le ftatue delle profane incontrate Divinità ,
nuli’ altro impofe nella maggior parte , che la demolizio- ne di
Piramidi , e di Colonne . Dilli nella maggior parte, e non in univerfale,
poiché quel Sacrifica- verunt fiulptilibus Canaan , che abbiamo nel
Salmo 105. , mi lece ellèr più continente nelle parole . E de’
famofi Serafini di Rachele , primo monumento d’ Idolatria materiale , che
s’ incontri nella Scrittu- ra, e degli altri Idoletti elìdenti prellb la
làmiglia di Giacobbe dalla Melopotamia recati, che diremo noi ? S’
io pretendelfi figurarmeli come piccioli Coni , o colonnette , con quai
monumenti , ed autorità po- trei ellère contradetto? Per verità io miro
Giacob- be , che intefo a ripurgare la fua Famiglia , pren- de , e
(otterrà , non folo gl’ Idoli chiamati Dei ftra- nieri : Deos alienos ,
ma angora i pendenti , che fi trovavano all’ orecchie de’ fuoi feguaci
Io non crederò già, che le Pedone della comitiva di Giacobbe
, e malTìme le piilfime Donne Lia , e Rachele ardlllèro di portare
sfacciatamente agli orec- chi appefe le (lamette, od immagini d’ alcuna
pro- fana Divinità . Primieramente potrebbe!! con tut- ta ragione
foftenere , che di que’ tempi non eranò peranco ( 1) T.
2. DiJJìrt. de' Templi degli Antichi . (2 ) Genef C. 25. Dederunt
ergo ei omnes Dcos alienos , quos habebant , IP inaures , qua : erant
in auribus eorum. At ille infodit eas subter Terebin - thum .
30 Dissert. sull* Origine perineo in ufo le dame figurate.
Le Rabbiniche tradizioni dell’ arte datuaria efercitata
fuperdiziofa- mente da Tare Padre di Àbramo fono già (eredi- tate
prellò degli Eruditi. La pretefa antichità del- la Statua di Nino alzata
a Belo fuo Padre rella dai calceli dell’UHèrio fmentita. Nino regnò in
Affi- na parecchj fecoli dopo Giacobbe . All’etàdique^ fio
Patriarca il Sole , gli Aflri , e malfime il fuoco adorati nella Caldea ,
Affiria , e Mofopotamia pro- babiliffimamente non aveano che Simulacri
fimbo- lici. Quando pure fenza fondamento ammetter fi voleflèro le
Statue figurate ai giorni dello ftefiò Giacobbe, io non potrò perfuadermi
giammai, che 1’ Uom fanto permeili avelie in alcun tempo ne’ fuoi
l’ irreligiol'a ollentazione di tenerle appele agli orecchi , comecché
per folo ornamento . Il moti- vo ideilo, oltre a varj altri, che addurre
potrei, mi trattiene dal fottolcrivermi all’ opinione del Grazio ,
e del Wandale , i quali pretendono , che tali orecchini follerò
fuperdiziofi Amuleti . Quale relazione adunque degli orecchini cogl’
Idoli per dovere anch’ «Ili meritare il fotterramento ? Se avefi fi
luogo ad edernare un mio non inverifimil pen- dere , direi , che la
relazione confidelle in una cer- ta edrinfeca fomiglianza colla fimbolica
figura degl’ Idoli . Forle l’ ornato di quegli orecchini potea
edere qualche gemma , o preziofo metallo cadente , e travagliato a
maniera di goccia , di cono , o ver- gherà , che molto raflòmiglialTe la
forma appunto degl’ Idolatrici Simulacri . Quindi Giacobbe volen-
do abolita per fempre di quedi ultimi la memoria predo de’luoi, nalcolè
unitamente fotterra tutti quegli ornamenti, che per la loro forma, e
lavoro potuto avrebbero in alcun tempo rifvegliarne la ri- membranza.
Ma fi torni in carriera , e col Voffio ( i ) ornai fi rammenti ,
che non in figura umana , ma bensì in figura di colonne o piramidi
acuminate furono i Si- ( i ) Lib. g. c. 5.
Digitized by C dell' antica Idolatria ; 31 i Simulacri
, a cui nei primi , e più rimoti fuoi tem- pi l’ idolatrante Grecia
prodrofli ; che le per con- ientimentò di tutti gli Autori ebbe la Grecia
dagli Orientali , e dall' Egitto principalmente i fuoi Nu- mi , e
le cerimonie di Religione , farà quella una riprova novella, che di
cilindrica, piramidale, o conica forma federo i Simulacri almen più
vetulli dall’Oriente, e dall' Egitto inventati. Ora nuli’
altro appunto , che una Colonna fu la Giunone Argiva. Ce lo atteda
Clemente Alef- fandrino ( i ) recando alcuni verlì di un vecchio
Poeta Greco in lode di Callitoe prima Sacerdo- tellà di quella Diva predò
gli Argivi . Io mi farò lecito di darne una mia Traduzione; (a)
Della Donna del Ciel preliede al Tempio Clavigera Callitoe , che
intorno Di ferti , e bende un dì già ornò primiera Dell’ Argiva
Giunon 1 ’ alta Colonna . Non altro , che femplici acuminate
Colonne , o Piramidi furono i Simulacri podi ad Apollo , e a Diana,
come lo Scaligero (3 ) dalle antiche me- morie deduce. Non altro, erte una
rozza Colon- na di legno la Statua di Pallade Attica. ,, Quan- „ to
( dicea perciò Tertulliano) ( aJ diltinguelt ,, dallo dipite d' una croce
la Pallade Attica , o „ la Cerere Farrea , che lènza effigie coda d’
un „ rozzo palo , e d’ un legno informe . Un legno „ non dolato (
proliegue Arnobio ) ( $ ) adorodì ,, da que’ di Caria in luogo di Diana :
in luogo „ di Giunone un Pluteo da que’ di Samo ; un’ Atta „ dai
Romani in luogo di Marte , come le Mule » ài ( I )
'Zrpuu.eerwv I ( 2 ) K «XfaQoti cXifjLTtcìbos BajiAtw
H/W fi pryutK W> {Tìia/axsi , XM buiOCVOKl ripa irti
tx.orjj.tKur rtpt tttwx jJMxpw curctsitK . ( 3 ) Ad an. Eufib. 377,
f 4 ) AJverf. Cent. C 5 J Lib. 6. 3 2 Dissert. suix’
Origine „ di Vairone ci additano. ,, E giacché Arnobio un
Romano Autore ha citato , qui giovi connet- terne un altro , cioè Trogo
Pompeo , o fia il Tuo Compilatore Giurino ( i ) , il quale d’ Amulio
,~e di Numitore parlando ultimi fra i Re d’ Alba , in quella foggia
h efprime. ,, In que’ tempi tuttora ,, dai Re invece di Diadema
portavanfi 1 ’ alle » ,, che lcettri dai Greci furon chiamate.
Conciof- ,, liachè dalla prima origine delle cofe furono ado- ,,
rate 1 ’ Alle in luogo de’ Simulacri degl' Iddii im- ,, mortali . Ed in
memoria di tal religione ai Si- „ mulacri degl’ Iddii tuttora 1' Alte s’
aggiungono . „ Finalmente non altro , che un rozzo malconcio legno
, e deforme» liccome Ateneo ( 2 ) ne fa fede » era il Simulacro di Latoua
prello a quelli di Deio y c per fitìfatta guilà ridevole, che al ibi
vederlo n’ ebbe a icoppiar dalle rifa quel Parmenilco di Metaponto
, che dopo 1 * ufeita dall’ antro di Tri- ionio non avea rifo giammai.
Quindi non ci ltu- piremo altrimenti al fapere» che un breve defeo
attaccato ad una lunghi ifima pertica folle il Simu* lacro del Sole
venerato da que’ di Peonia ; e che informi tronchi , maltagliati , e
fenz' arte fodero 1 Numi degli antichi Germani » e de’ prilchi Gal-
li , come ne allicura Lucano . ( 3 ) Molto mena furem meraviglia in
vedere queiti primi idolatrici monumenti di legno più tolto , che d’
altra mate- ria lavorati . Per poco che fiali nell’ erudizione
verfato » non può ignorarli » che i Simulacri pri- mieri dell’ ancor
giovane Idolatria materiale , giu- lta il collume degli Orientali pattato
nella Grecia » e nel Lazio, furono quali comunemente d’ argil- la,
o di legno , a cui fuccedè ben prello il mar- mo » quindi i metalli v e
finalmente 1’ avorio . Non lafcianci dubitarne i be' palli, che abbiamo
in C O Lib. 43. (z) Mb. 5. ( 3 ) Simulacraque
moejla Deorum Arte careni , caefisque extant informia truficis
. DELL* ANTICA IDOLATRIA. 31 in Ifiaia ( i ) , in Geremia (
2 ) in Ofiea (3), e nel Libro della Sapienza ( 4 ) . Gli eleganti
verfi poi di Tibullo CìJ 1 non Ibi rapporto a quello capo, ma tutta
in generale confermano la mia pre- fente opinione . Non di
legno però - ma di pietra in figura di gran piramide , al dir di Pautania
, fi* il Simula- cro fiotto il nome di Apollo da’ Megarefi guarda-
to , e Umilmente una pietra fu la sì celebre Ve- nere Pafia , il di cui
Santuario tanta venerazione rifico Uè non pur dall’ Ifiola di Cipro , ma
dalla Grecia tutta, e dall’ Alia minore. Venere Pafia, che ha data
occafione , e primo impullò al mio fieri vere , quella fi a appunto , che
ornai gli dia compimento. Il di lei Simulacro viene da
Maflimo Tirio ( 6 ) ad una piramide bianca paragonato . Noi però
più efatta ne prenderemo la detenzione da Tacito ( 7 ) , le di cui parole
nel fiuo nativo lin- guaggio mi fo lecito di produrre : Haud crtt
lon- gum initi a religionis , temyli fitum , formanti Dea 9 ncque
alibi fic habetur , vaucis dijjerere ... ... Simu - lacrum Dea non
effigie fiumana continuus orbis , la - tiore initio tenuem m ambitum ,
met a modo exur - gens , C? ratio in obfcuro - Or di quefia Venere
Pafia noi coi noftri proprj occhi ne potremo fa- cilmente rilevar Ja
figura tutta appunto conforme * alla C o f. 29. ( 2) I.
f 3 ) 4. 12, co «$• Eleg. 1. lib. I. O) Nam veneror,
jèu Jìiyes habet defertus in agris , $eu vetits in trivio florida Certa
lapis f Eleg. io. lib. I. . Sed yatrii fervute lares ,
coluiflis CP idem Curfarem veflros cum tener ante lares ; Kec
yudeat yrifios vos ejfe e fliyite faclos , Sic veteris JeJes
incoluiflis evi . T unc melius tenuere fidem , cum ytniyere teSÌ
9 l Stabat in exigua ligneus ade Q$us • (d) Orat. 38. (7) Lib
, 2. 54 Dissert. sull'Origine alla defcrizione di
Tacito. Balla oflervar tre Me** daglie riportateci dal Patino ( i). La
prima bat- tuta dalla Città di Paflo a Drulo Celare ( 2 ) . La
feconda coniata da’ Cipriotti a Vefpalìano La terza da’ Cipriotti
Umilmente dedicata a Tra- mano C4J • Anzi non l’ Itola lòia di Cipro,
co- me di lòpra toccai , e come attella , e compro- va P eruditiffimo
incomparabile Spanemio (5), adorò la Venere Pafia . Il di lei culto
propagolfi ancora in altre Nazioni , e Città , le «juali perciò lì
fecero vanto di ornare col di lei Simulacro , e Tempio i rovefci di lor
medaglie . Fede ne fac- cia la Medaglia di Adriano battuta da que’di
Sardi nell’ Afia minore, e riferita dal Sirmondo (< 5 ) , e
Umilmente un’ altra coniata da Pergameni fpet- tante ad Euripilo prellò
il citato Spanemio ( 7 ) ; ed anche un’ antica Corniola prodotta dall’
Ago- ltini , fenza accennare però, le Greca, o Roma- na ( 8 _) . Ed
io lòn di parere , che dal tempo , e dagli Eruditi altri limili monumenti
o fcoperti lì fieno , o (coprire lì pollano dinotanti la venera-
zione dilatata, in che lì ebbe quella folle Palla divinità, e infieme
comprovanti la veridica deferii zione , che del di Lei Simulacro Tacito
ci rap- prefenta . Debbo però confettare , che quanto ne* monumenti
addotti io riconol'co per vera ed el'at- ta la delcrizione mentovata , mi
lòrprende altret- tanto il modo , con cui Tacito la conclude : Me-
t.r modo exurgens , ei dice , i? ratio in olj'curo . Pof- fibile , che ad
un Uom si erudito , quale fu Taci- to, sì gran meraviglia facelle il
mirar Venere Pafia in figura di un cono , o di una piramide ? Non
dovea egli piuttollo da una tale figura defumere 1* antichità di tal
Simulacro , o almeno la derivazio- ne di C 1 J Imy. Roin.
Numis . (*2 ) Ibi pag. 80. C 3 ) Ibi pag. 143. (4) Ibi pag. J 3 o.
( $ ) De Praeft. , t? Ufìi Numism. Dijf. 5. ) Colleg. del- le
Med. del Col. Chiaram. di Parigi . ( 7 ) Ibi . C»J DiaL 5. pag.
176. \ / Digitized by Googl
DELI * ANTICA IDOLATRIA. ne di una veturtilfima coltomanza ? Non
dovea Ta- pe re , che ne’ più rimoti tempi, e come Trogo di- cea ,
ab origine rerum , altri Simulacri non ebbero i Numi , che o pietre
quadrate , o piramidi , od obe- lifchi , o coni , o colonne di legno , e
di fallo ? Come ignorar potea il conico Simulacro d’ Apollo in
Megara , e del Sole in Ed e Ila , e gli obelifchi, è le piramidi al Sole
ideilo alzate in Egitto ? Come gli ufeiron di mente i furti, o colonnette
rozze di legno , e le impolite pietre , che per di lui alfer- zione
rifeuoteano le adorazioni della Germania ? Come sfuggirono alla di lui
maflima erudizione le due colonne porte a Giove nel Tempio d’
Ercole in Tiro ; come le altre molte collocate nel Tempio di Gadi ;
come le due confecrate al Sole dal Re Ferone nel di lui Tempio in Egitto?
Tante co- lonne infine fi J , con cui adombrar (i folevano e Giove
, e Giunone , e Bacco chiamato perciò TUputiovios Colutnnarius , e
Apollo detto Ayiftfs Compitali , ed Ercole , e Marte , e Bellona ,
non do- vevano farlo falire all’ origine delle cole , ai colto- mi
dell’antica, e primiera rozzezza, e deporre la meraviglia circa la forma
del Simulacro di Venere Pafia ? Ma qual cofa Tacito fi penfaflè in quella
Tua fofpenfione, egli fel vegga, e noi non ce ne brighe- remo
altrimenti. Raccoglieremo bensì le vele ad una Dillerta-
zione , che in vallo pelago trafeorfe ornai troppo lungi. Voi, o dottiamo
Sig. Conte, farete telfi- monio o del Tuo felice tragitto, o del Ilio
infaufto naufragio ; e onorar dovrete o di compatimento i fuoi
rilicofi viaggi , o i luoi errori di correzione . Se 1 amor proprio non
mi fa velo al giudizio , ere. c " e ^ della tratto avelie a
qualche porto di 1 ufficiente probabilità 1 opinione da Voi
propolla- ™ l . \ c }°£ che i Simulacri più vernili delle pagane
Divinità follerò di quadrata, o di rotonda figura , o al-
C O Ue^io Aìnetan. Qjiejì . lib. 3<5 Dissert.
SuliTdolatria; ( o almeno tendente a rotonditi . Un più ralente
Piloto e di forze , e di tempo , e di finimenti più agiato faprà condurla
felicemente ad un porto di fìcurezza . Quanto a me , fe altro non averti
po- tato ottenere , Tarò almeno contentiamo d avervi f er
alcun modo tellimoniata la mia. ubbidienza , • alto pregio , in che tengo
1’ autorità voftra , e ij voltro merito Angolare . F I N
S. Die 8. Augusti 1787. l'idi t prò lUtàe , ac Revino
D. V. Domini co Al archi one Mancinforte Epifcopo F aventino
Albertus Raccagni Farocbus Sanfli Antonini. Die 1 9. Augujli
1787. imprimatur. Fr. Angelus Maria Merenda Ordinis
Predicato- rum Sacra Scripturx LeElor , ac f^icartus Gg~ neralis
SaaEli Offici* F aventi a . In tale direzione, si riscontra la
necessità di condurre la ricerca a un livello sem iotico-sem iosico, ricorrendo
alla sem iotica di Peirce, e in particolare alla sua definizione di
“interpretante iconico”, segno creativo capace di comprendere meglio ciò che è
altro dall’identico, ciò che differisce dal segno “idolo”. Attraverso una
semiotica dell’interpretazione, si cercherà quindi di spiegare teoricamente il
funzionamento degli elementi che compongono un testo, per una comprensione del
concetto di scrittura e le prospettive che questa propone per la costruzione di
un approccio critico alla problematica della lettura del testo BACON, LE
QUATTRO SPECIE DI IDOLI Bacon espone in queste pagine la sua teoria sugli idola
(i pregiudizi) che occupano la mente umana e le rendono difficile “l’accesso
alla verità”. F. Bacon, Novum Organon, I,
XXXVIII-XXXIX, XLI-XLIV XXXVIII Gli idoli e le false nozioni
che penetrarono nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso,
non solo assediano le menti umane in modo da rendere difficile l’accesso alla
verità, ma addirittura (una volta che quest’accesso sia dato e concesso) di
nuovo risorgeranno e saranno causa di molestia nella stessa instaurazione delle
scienze: almeno che gli uomini, preavvertiti, non si agguerriscano, per quanto
è possibile contro di essi. eADV XXXIX Quattro sono le specie degli idoli
che assediano le menti umane. Per farci intendere abbiamo imposto loro dei
nomi: chiameremo la prima specie idoli della tribú; la seconda idoli della
spelonca; la terza idoli del mercato; la quarta idoli del teatro. XLI Gli
idoli della tribú sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribú o
razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso umano è la misura
delle cose ché al contrario tutte le percezioni, sia del senso sia della mente,
derivano dall’analogia con l’uomo, non dall’analogia con l’universo. Rispetto
ai raggi delle cose l’intelletto umano è simile a uno specchio disuguale che
mescola la sua propria natura a quella delle cose e la deforma e la
travisa. XLII Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto
individuo. Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura in
generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la
luce della natura: o a causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a
causa dell’educazione e della conservazione con gli altri, o della lettura di
libri e dell’autorità di coloro che si onorano e si ammirano, o a causa della diversità
delle impressioni a seconda che siano accolte da un animo preoccupato e
prevenuto o calmo ed equilibrato. Cosicché lo spirito umano (come si presenta
nei singoli individui) è cosa varia e grandemente mutevole e quasi soggetta al
caso. Perciò giustamente affermò Eraclito che gli uomini cercano le scienze nei
loro mondi particolari e non nel piú grande mondo a tutti comune. XLIII
Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche
relazioni del genere umano: li chiamiamo idoli del mercato a causa del
commercio e del consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si associano per
mezzo dei discorsi, ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo
e tale errata e inopportuna imposizione ingombra in molti modi l’intelletto.
D’altra parte le definizioni o le spiegazioni, delle quali gli uomini dotti si
provvidero e con le quali si protessero in certi casi, non sono in alcun modo
servite di rimedio. Anzi le parole fanno violenza all’intelletto e confondono
ogni cosa e trascinano gli uomini a controversie e a finzioni innumerevoli e
vane. XLIV Vi sono infine gli idoli che penetrano negli animi degli
uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li
chiamiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono
state ricevute o create come tante favole presentate sulla scena e recitate che
hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico. Non parliamo solo dei sistemi
filosofici che già abbiamo o delle antiche filosofie e delle antiche sètte
perché è sempre possibile comporre e combinare moltissime altre favole dello
stesso tipo: le cause di errori diversissimi possono essere infatti quasi
comuni. Né abbiamo queste opinioni solo intorno alle filosofie universali, ma
anche intorno a molti princípi e assiomi delle scienze che sono invalsi per
tradizione, credulità e trascuratezza. (Il pensiero di F.
Bacon, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino, 1974, pagg. 114-117) The idol
fixes one's gaze on itself ; the icon , for its part , demands that one go
throughGrice: “Cattaneo’s philosophical background is much stronger than
Hart’s! Hart always doubted his philosophical abilities – as he kept comparing
himself to me! When Cattaneo was at St. Antony’s, Hart found that he had to
play brilliant, since a ‘continental’ was watching! Cattaneo is especially good
in the study of Roman-Italian giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara,
and Manzoni, onwards! They don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario
A. Cattaneo. Mario Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, idolo,
idol of the market place – bentham -- autorita, autoritarismo, positivismo di
H. L. A. Hart, il concetto della legge, filosofia del linguaggio ordinario,
scuola oxoniense di filosofia del linguaggio ordinario, il gruppo di giocco di
Austin, il primo o vecchio gruppo di giocco di Austin al All Souls, giovedi
notte; il nuovo gruppo di giocco di Austin sabato alla mattina. Hart,
Hampshire, Grice. Grice, neo-Trasimaco, giustizia, fairness, valore legale,
valore morale, le legge e la morale, priorita della moralita sulla legalita,
concetti di priorita, priorita evaluativa, neo-trasimaco, neo-socrate,
platonismo giuridico, positivismo pre-Kelsen: hobbes, bentham, autin. I
giuristi italiani. Storia della giurisprudenza italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni,
Collodi, Lorenzini, Pinocchio, Foscolo, Perini, Beccaria, Colonna infame,
letteratura italiana, fizione italiana, prosa italiana, giurisprudenza
italiana, avvocatura ed implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772445997/in/dateposted-public/
Grice e Catucci – ego et alter, E ed A – I
giocchi cooperativi – Meinong et al. teoria del valore -- l’altro – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice. Filosofo. “I love Catucci – Ogden and
Richards, whom I’ve read profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man
in Husserlian phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian
philosopher, viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault,
too!” -- Grice: “Catucci’s approach to
Lukacks is via ‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer
the semantics the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was
honest!”. Altre opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini &
Associati); Beethoven Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica
barocca, Roma, La Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La
storia della musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di,
con Umberto Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati
Boringhieri); Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e
Tertulian. Insegna a Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica
di Husserl (ed. Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un
periodo di ricerca presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il
lavoro sui manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi
saggi di carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su
un’autocritica trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi
di testi husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault.
Quindi è stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad
ampio spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati
Boringhieri). Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica
curato per Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su
Foucault (La linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica,
in particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed.
Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto
ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra
l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival
Wired di Milano, e al Congresso
Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di
Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora
regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica
Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino,
Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo
filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it
di Firenze, L'arte è un progetto? Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Estetica Elementare - L'esperienza del coro fra etica e tecnica Catucci,
Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica
in gruppo - La storia dell'estetica come critica e come filosofia Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro
internazionale studi di estetica) - Di cosa parliamo quando parliamo di teoria
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Cinque temi del moderno contemporaneo.
Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - Bellezza Catucci, Stefano
- 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole del XXI secolo - - Il
Kitsch: ieri, oggi, domani Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Riga - Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society Catucci, Stefano -
01a Articolo in rivista paper: International Yearbook of Aesthetics (JP
Službeni glasnik, ) Introduzione a Foucault. Nuova edizione riveduta e ampliata
Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico Imparare dalla Luna.
Nuova edizione riveduta e ampliata Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato
Scientifico Il corpo e le forme.
Note sul discorso spirituale nella filosofia e nell'arte Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual
matter of art - - Perché gli artisti nei luoghi del disastro Catucci, Stefano -
02a Capitolo o Articolo book: Terre in movimento - The Prison Beyond its
Theory. Between Michel Foucault's Militancy and Thought Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Prison Architecture and Humans - Postfazione Catucci,
Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e
pensieri nella composizione - Prefazione. Vite di architetture infami Catucci,
Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Incompiute, o dei ruderi della
contemporaneità - Potere e visibilità. Studi su Michel Foucault Catucci,
Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico Prefazione a L. Romagni,
Strutture della composizione Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione
book: Strutture della composizione. Architettura e musica - - Presentazione.
Leo Popper: l'etica e le forme Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) L'angelo
della matematica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La vetrata
artistica della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana -
A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro, Francesca;
Mattoni, Benedetta; Gugliermetti, Franco; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo;
Tomei, Francesco; Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference:
16th International Conference on Environment and Electrical Engineering, EEEIC
2016 (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on
Environment and Electrical Engineering - Luce, Illuminazione, Illuminismo
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: I percorsi dell'immaginazione.
Studi in onore di Pietro Montani - L'opera d'arte e la sua ombra Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L'estetica e le arti. Studi in onore di
Giuseppe Di Giacomo - (La linea del crimine. Michel Foucault e la vita degli
uomini infami Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AGALMA (-Roma:
Meltemi -Roma: Castelvecchi, = Materia primordiale e Growing Design Catucci,
Stefano; Lucibello, Sabrina - 01a Articolo in rivista paper: ANANKE (Firenze:
Alinea, Preliminari a un'estetica della plastica Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Plastic Days. Materiali e Design / Materials &
Design - Antropomorfismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce
di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - (Sovrastruttura Catucci, Stefano
- 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Strutturalismo
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica Il
nome del presente. The name of the present Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) Imparare dalla
Luna Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla
Luna - Filosofia dell'eccedenza sensibile Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Vice Versa - La Gaia estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi
offerti in onore di Luigi Russo - - Conversazione con Stefano Catucci Gregory,
Paola; Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti.
Design and Waste. No-Waste - La contingenza impossibile: note su alcuni modelli
espositivi dell'opera d'arte. Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Il museo contemporaneo. Storie, esperienze, competenze - Metamorfosi:
un'architettura dopo il postmoderno Catucci, Stefano - 02c
Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto
- - Mission to Mars- Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: HORTUS
(Roma: Facoltà di Architettura "Valle Giulia", universita' la
"Sapienza" Direttore -Necessity and Beauty Catucci, Stefano - 02c
Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new perspective in planning
and organization - Eyes Wide Shut.
Architecture without Philosophy Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in
volume conference: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education
(Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso)
book: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education - Estetica della
speranza Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del
desiderio - "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione e
politica in Michel Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La
coscienza e il sogno. A partire da Paul Valéry -Visione e dispersione. La regia
architettonica di Luigi Moretti Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in
volume conference: Luigi Moretti architetto del Novecento (Facoltà di Architettura,
Università di Roma "Sapienza") book: Luigi Moretti architetto del
Novecento - Critica del contesto Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ): LISt- Laboratorio Internazionale
di Strategie editoriali, 2010 -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura
-Pescara: Sala Editore Pescara Pescara: Clua, 1984-) Essere giusti con Marx
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx: paralleli e
paradossi - La terza dimensione Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: VEDUTE (Roma-Macerata: Quodlibet, «Eine eigene fremde Welt»: le utopie
terrestri di Karlheinz Stockhausen Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin Venice Italy: "Des
moustiques domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing Catucci,
Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Beyond Media: Visions, catalogo
della 9. Edizione dell’International Festival for Architecture and Media -
Prolegomeni a un'architettura della relazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: L'esplosione urbana - I generi musicali: una problematizzazione
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia
Treccani Terzo Millennio), vol. II, Comunicare e rappresentare - Senso e
progetto. Il contributo dell’estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di discipline - Il
progetto di architettura come sintesi di discipline Catucci, Stefano; Strappa,
Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico Il lavoro della dispersione
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e
gli altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - Introduzione a
Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico Tutto quello
che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè.
Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni;
Catucci, Stefano; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone - 02a Capitolo o Articolo
book: Parlare di musica Costruire,
abitare, patire Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza,
Tecnica del Costruire - Elogio del parlare obliquo: la musica classica alla
radio Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Parlare di musica - La
proprietà intellettuale come problema estetico Catucci, Stefano - 01a Articolo
in rivista paper: FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi) L’architettura al tempo
di Nikolaj Rostov Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA
(Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, - Per una
critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza Editrice) Michel
Foucault filosofo dell’urbanismo Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Lo sguardo di Foucault - La cura di scrivere Catucci, Stefano - 04b Atto
di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno -La via
dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani Catucci, Stefano - 04a Atto di
comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo
nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana)
book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo
millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol - Spartacus: i dilemmi
della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana
rivista: «Gomorra» Dizionario di Estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Il colosso senza
immaginazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Osservatorio
Nomade: immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea
Il visibile e l’invisibile. Riflessioni sul potere in Michel Foucault Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza e potere. Le illusioni della
trasparenza - Un passato che non passa. Bachelard e la fine dell’abitare
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Simbolo, metafora, esistenza.
Saggi in onore di Mario Trevi - Corridoi Transeuropei Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi
Milano: Costa & Nolan, La “natura” della natura umana Catucci, Stefano -
02c Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante biologico e
potere politico. - Estetica e Architettura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali di studio del Dottorato di
Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo - (Criticare l’estetica per
criticare il presente Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA
(Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Le Corbusier
a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI
STUDI DI CAMERINO) Michel Foucault: dalla novità storica all’estetica
dell’esistenza Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA
(Roma: DeriveApprodi La pensée picturale Catucci, Stefano - 04b Atto di
convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Michel Foucault: La
littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la
littérature, les arts - Attraverso Velázquez: Foucault, Las Meninas, la
filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il classico violato.
Per un museo letterario del ‘900 - Tre versioni del misurare Catucci, Stefano -
01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM
DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Per una filosofia povera: la Grande
Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács Catucci, Stefano - 03a
Saggio, Trattato Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra,
l'esperienza, il senso; a partire da Lukács - L'angelo dei rifiuti Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma:
Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Estetica dell'abitare Catucci, Stefano
- 02a Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - Spazi e maschere
Catucci, Stefano - 06a Curatela Ambiguità Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica Poetica Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Architettura, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Censura Catucci, Stefano
- 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Distruzione delle opere d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Fenomenologica, estetica Catucci, Stefano - 02d
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fisiognomica
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Fotografia, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Kitsch Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Marxista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Musica, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Opera d'arte Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Originalità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Particolarità Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Realismo Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - -
Retorica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Rispecchiamento Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Ritmo Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - -
Scientifica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Sociologia dell'arte Catucci, Stefano - 02d Voce
di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Storicità Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Struttura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Strutturalista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce
di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Terapie artistiche
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Tipico Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - - Autenticità Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Oggetto estetico
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - - Estetica e politica Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fra tempo e spazio: rassegna sul vuoto in
musica Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma:
Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, 1998-) - Estetica
della censura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La cortina
invisibile - (888744501X) 11573/166387 - 1997 - Figures de l’art, figures
de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune Lukács Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Life - L'etica e le forme Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Scritti di estetica - - Saggi di Estetica Catucci,
Stefano - 06a Curatela - Gli animali di Céline Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg & Sellier:via
Andrea Doria 14, I 10123 Turin Italy:: tina.cesaro@rosenbergesellier.it,
Dall’estetica all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio»
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Senso e storia dell'estetica -
La filosofia critica di Husserl Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato
Scientifico book: La filosofia critica di Husserl - La fenomenologia negli
Stati Uniti: metodo e fondazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - La
fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F.
Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis,
2014- Bologna: CLUEB) La Teoria Cooperativa Come accennato in precedenza,
l’idea di gioco cooperativo `e stata introdotta da von Neumann e Morgenstern.
Il contributo del loro libro `e fonda- mentale per aver reso lo studio dei
giochi una disciplina sistematica, e per aver proposto un cambiamento radicale
nel modo di studiare i problemi dell’econo- mia, delle scienze politiche e di
quelle sociali. Il metodo proposto consiste nel tradurre i problemi in giochi
opportuni, nel trovare le soluzioni di questi con le tecniche sviluppate dalla
teoria, e nel ritradurre le soluzioni trovate in termini di comportamenti
economici ottimali. L’idea di gioco cooperativo nasce, come gi`a accennato in
precedenza, dall’esigenza di analizzare il comportamento razionale di agenti
che interagiscono in situazioni non strettamente competitive. In tal
15Strategia dominata invece `e quella tale che, ne esiste un’altra che procura
al giocatore maggiore utilit`a, qualunque cosa faccia l’altro. Una strategia
dominata non pu`o far parte di un equilibrio di Nash. 16 CAPITOLO
1. LA MATEMATICA DEI GIOCHI caso `e ragionevole pensare che i giocatori possano
fare alleanze, formare coali- zioni ecc. Ogni coalizione sar`a in grado poi di
garantire una certa distribuzione di utilit`a all’interno dei suoi membri. Che
cosa distingue il gioco cooperativo da quello non cooperativo? Il fatto che si
ipotizzi la nascita delle coalizioni non significa che si suppone che i
giocatori siano diversi, meno egoisti; le coalizioni sono uno strumento
possibile per ottenere migliori risultati individuali, come nel caso non
cooperativo. La differenza nei due approcci sta in un’altra cosa: secondo J.
Harsanyi, premio Nobel, con Nash, per l’Economia, un gioco `e defi- nito
cooperativo se gli accordi tra i giocatori sono vincolanti. In caso contrario,
il gioco `e non cooperativo. All’interno dei giochi cooperativi, la teoria
distingue fra quelli TU (utilit`a trasferibile ) e quelli NTU (utilit`a non
trasferibile). Qui ci limitiamo a qualche esempio di gioco TU, gi`a sufficiente
comunque a introdurre le idee principali di questo approccio. Per definire un
gioco cooperativo abbiamo bisogno dell’insieme N = {1, . . . , n} dei
giocatori, e dal dato, per ogni A ⊂ N, di un numero reale, denotato con v(A). A ⊂ N rappresenta una possibile coalizione, e
v(A) rappresenta l’utilit`a, o in altri casi un costo, che la stessa `e in
grado di garantirsi se i giocatori di A si alleano. v `e detta la funzione
caratteristica del gioco. Il modo migliore di capire l’idea sottostante questa
definizione `e di illustrarla con qualche esempio. Esempio 10. (Due compratori
e un venditore). Due persone sono interessate ad un bene che `e in possesso di
una terza persona. Il giocatore 1, che possiede il bene, lo valuta meno di chi
lo vuole comprare (altrimenti non c’`e situazione di interazione tra i tre).
Fissiamo per esempio a 100 il valore che il possessore assegna al bene. Gli
altri due, che chiamiamo rispettivamente 2 e 3, valutano il bene 200 e 300.
Possiamo allora definire il gioco come N = {1,2,3}, e le coalizioni sono otto:
{φ, {1}, {2}, {3}, {1, 2}, {1, 3}, {2, 3}, {1, 2, 3} = N}16. Possiamo inoltre
porre v({1}) = 100, v({2}) = v({3}) = v({2, 3}) = 0, v({1, 2}) = 200, v({1,3} =
v(N) = 30017. Esempio 11. (Due venditori e un compratore). Consideriamo invece
il caso di un compratore (giocatore 1) e due venditori dello stesso bene; la
situazione pu`o essere descritta efficacemente ponendo v(A) = 1 se A = {1, 2},
{1, 3}, {1, 2, 3}, zero altrimenti. In questo caso, quando la funzione
caratteristica v assume solo valori zero e uno, il gioco si chiama semplice, e
v assume piu` il significato di indice di forza della coalizione (A `e
coalizione vincente se e solo se v(A) = 1). Il gioco non cambia se al posto di
1 mettiamo un altro numero positivo. 16φ rappresenta l’insieme vuoto, cio`e la
coalizione che non contiene giocatori. Anche se pu`o sembrare inutile, `e
invece opportuno tenerla in considerazione; qualunque sia v, si assume che v(φ)
= 0. 17Perch ́e abbiamo definito in questo modo il gioco? Vediamo un paio di
casi. Ad esempio, v({2,3}) = 0 perch ́e la coalizione {2,3} non possiede il
bene, v({1,3}) = 300 perch ́e la coalizione {1, 3} possiede il bene, che valuta
300 (infatti non se ne priva per meno). 1.5. LA TEORIA COOPERATIVA
17 Esempio 12. (La pista dell’aeroporto, la bancarotta, la societ`a per
azioni). Gli Esempi 4, 5 e 6 sono anch’essi descrivibili come giochi
cooperativi. Nel caso della pista dell’aeroporto, v rappresenta un costo e non
un’utilit`a. E` naturale pensare che a una coalizione venga assegnato il costo
della pista piu` lunga necessaria per le compagnie che formano la coalizione.
Dunque si ha v({1}) = c1, v({2}) = c2, v({3}) = c3, v({1,2}) = c2, v({1,3}) =
v({2,3}) = v(N) = c3. Il caso della bancarotta, anche se si intuisce facilmente
che `e un problema analogo a quello dell’areoporto, `e un pochino piu`
complicato, perch ́e non `e chiaro a priori che cosa una coalizione possa
garantire per s ́e. Una stima molto prudente potrebbe essere quello che rimane
dopo che tutti gli altri creditori sono stati pagati. Nel caso della societ`a
per azioni, siamo in presenza di un gioco semplice, e daremo valore 1 a quelle
coalizioni in grado da avere la maggioranza dei voti necessaria nei vari tipi
di votazioni (semplice, qualificata ecc). Una generica soluzione di un gioco
cooperativo con N = {1, 2, . . . , n} come insieme di giocatori `e un vettore
ad n componenti, ciascuna delle quali `e un numero reale. Il significato
dovrebbe essere chiaro: se (x1, x2, . . . , xn) `e tale vettore, allora xi `e
l’utilit`a assegnata (o il costo, se v rappresenta dei costi) al giocatore i.
Tanto per fare un esempio, nel caso dei due compratori e un ven- ditore, se
proponessimo come soluzione (100,100,100) ci`o significherebbe che l’esito del
gioco prevede un’utilit`a di 100 a testa per i tre18. Un concetto di soluzione
invece rappresenta un modo per trovare vettori che soddisfino parti- colari
propriet`a. Ad un gioco una soluzione pu`o associare un insieme grande di
vettori, ad un altro nessun vettore, ad altri ancora un solo vettore. E` bene
osservare che la soluzione in genere non `e interessata a quanto viene
assegnato alle coalizioni, ma solo a quel che viene dato ai giocatori: ancora
una volta va ricordato che le coalizioni sono solo un mezzo che gli individui
utilizzano per ottenere il meglio per s ́e. L’idea di gioco cooperativo `e
cos`ı generale da rendere necessaria l’introduzione di molti concetti di
soluzione: qui accenniamo rapidamente ad alcuni fra i piu` importanti. Una
soluzione deve per prima cosa essere un’imputazione, cio`e un vettore (x1, . .
. , xn) tale che: 1. xi ≥ v({i}) per ogni i; 2. x1 +x2 +···+xn =v(N)19. Si
richiede cio`e ad ogni soluzione di godere delle propriet`a di razionalit`a
indivi- duale e di efficienza collettiva: ogni giocatore deve ricavare almeno
quel che `e in grado di garantirsi da solo (altrimenti esce dal gioco), e tutto
l’utile disponibile 18Per il momento, non ci poniamo il problema se la
suddivisione di utili proposta sia ragionevole. Vogliamo semplicemente capire
che cosa significa in questo modello soluzione. 19Ad esempio sono imputazioni i
vettori (100,100,100) nel gioco dei due compratori e un venditore (Esempio 10),
( 13 , 13 , 31 ) nel gioco dei due venditori e un compratore (Esempio 11),
mentre in quest’ultimo non lo sono (0, 0, 0) e (1, −1, 1). 18
CAPITOLO 1. LA MATEMATICA DEI GIOCHI va distribuito (e ovviamente non di
piu`)20. Questa richiesta `e quindi da rite- nere minimale. In realt`a, visto
che le coalizioni sono possibili, sembra naturale richiedere che esse stesse
gradiscano una distribuzione di utilit`a, altrimenti una parte dei giocatori
potrebbe ritirarsi. Si arriva cos`ı ad uno dei concetti fonda- mentali di
soluzione: il nucleo del gioco v `e l’insieme di quelle distribuzioni di
utilit`a che nessuna coalizione ha interesse a rifiutare. D’altra parte, la
coalizione A rifiuta quel che le viene proposto se la somma delle utilit`a
proposte ai suoi giocatori `e inferiore al valore v(A) che, come detto,
rappresenta quel che lei `e complessivamente in grado di procurarsi. Per capire
meglio l’idea vediamo di caratterizzare il nucleo in un esempio semplice:
quello dei due venditori e un compratore (Esempio 11): un elemento del nucleo
`e un vettore x fatto da tre elementi, scriviamo x = (x1, x2, x3). Ora
scriviamo i vincoli che questo vettore deve soddisfare: x1 ≥0,x2 ≥0,x3 ≥0
x 1 + x 2 ≥ 1 x1 + x3 ≥ 1 . x 2 + x 3 ≥ 0 x1 + x2 + x3 = 1 La
prima riga impone le disequazioni relative alle coalizioni fatte dai singoli
individui: essi non accettano meno di zero, evidentemente. La seconda riga
riguarda il vincolo imposto dalla coalizione {1, 2}; essa `e in gradi di
garantirsi 1, quindi la somma di quel che viene proposto ai giocatori 1 e 2,
cio`e x1 +x2, deve essere maggiore o uguale a 1. E cos`ı via, fino all’ultima
coalizione N = {1, 2, 3}. Ora, confrontando l’ultima equazione con la seconda
si vede che deve essere x3 ≤ 0, ma la prima dice x3 ≥ 0, quindi x3 = 0.
Analogamente x2 = 0. Poich ́e la somma delle utilit`a deve essere uno, allora
x1 = 1. Quindi il nucleo consiste del solo vettore (1, 0, 0). Vediamo ora che
cosa ci propone il nucleo in alcuni dei giochi introdotti in pre- cedenza. Nel
gioco dei due compratori e un venditore (Esempio 10), la soluzione proposta dal
nucleo `e che il primo vende l’oggetto al terzo (che lo valuta di piu` rispetto
al secondo), ad un prezzo che pu`o variare fra 200 e i 300 Euro (quindi il
nucleo propone in questo caso piu` spartizioni possibili). Nel gioco invece in
cui ci sono un compratore e due venditori dello stesso bene, come abbiamo visto
il nucleo consiste nell’unico vettore (1,0,0), il che significa che il
compratore ottiene il bene per nulla. E` interessante notare che, nel primo
esempio, il ruolo del secondo giocatore, che pure alla fine non fa nulla, `e
messo in evidenza dal fatto che il prezzo di vendita `e influenzato dalla sua
presenza. D’altra parte que- sto `e logico: se il terzo facesse un’offerta
minore di 200 Euro, allora il secondo potrebbe a sua volta fare un’offerta
superiore, fino a un massimo di 200 Euro. 20Anche se non si assume
esplicitamente, l’ipotesi che v(N) ≥ v(A) per ogni A ⊂ N `e verificata in quasi tutti i giochi
interessanti. Anzi, spesso i giochi verificano l’ipotesi detta di
superadditivit`a, che cio`e v(A ∪ B) ≥
v(A) + v(B) se A ∩ B = ∅, che
stabilisce che l’unione fa la forza. Questo fa s`ı che sia ragionevole assumere
che i giocatori si metteranno d’accordo per spartirsi tutta la quantit`a
v(N). 1.5. LA TEORIA COOPERATIVA 19 In questo caso il nucleo
propone tante soluzioni possibili. Nel secondo caso ci`o che indica il nucleo
`e un fatto ben noto in economia, anche se qui espresso in maniera brutale:
l’eccesso di offerta mette i venditori in balia del compratore. Infatti nel
nucleo sta solo il vettore che assegna tutto al compratore, nulla ai venditori.
Altre soluzioni, come vedremo, propongono una soluzione diversa, che tiene
conto del fatto che in qualche modo i due venditori non sono del tutto inutili.
Un esempio ancora piu` interessante di come il nucleo possa proporre soluzioni
bizzarre `e il famoso gioco dei guanti, di cui esistono infinite varian- ti:
una versione che ne mette bene in luce la stranezza `e quando si hanno 4
giocatori; il primo ed il secondo possiedono uno e due guanti sinistri,
rispettiva- mente, mentre il terzo e quarto un destro ciascuno. Naturalmente lo
scopo del gioco consiste nel formare paia di guanti. In questo caso il nucleo
`e costituito dal solo vettore (0, 0, 1, 1), il che significa che i possessori
di un guanto sinistro (guanti che sono in eccedenza) devono cedere il loro per
nulla. Risultato che appare ancora piu` bizzarro se si pensa che il giocatore
due potrebbe cambiare la situazione semplicemente eliminando un guanto in suo
possesso. A dispetto del fatto che a volte le soluzioni proposte dal nucleo
sembrino controintuitive, esso rappresenta un concetto di soluzione molto
importante, so- prattutto in applicazioni economiche. Per`o il nucleo presenta
ancora un altro problema: `e facile verificare che in molti casi pu`o essere
vuoto! L’esempio piu` semplice `e quando siamo in presenza di tre giocatori che
si devono spartire a maggioranza una somma fissata (possiamo porre l’utilit`a
della stessa uguale a 1). In tal caso le coalizioni di due giocatori risultano
vincenti (v(A) = 1) se il numero dei componenti la coalizione A `e almeno due,
0 altrimenti-ancora un gioco semplice- ed un calcolo immediato mostra che il
nucleo `e vuoto21. Il che rende indispensabile la definizione di altre
soluzioni, che possano suggerire pos- sibili spartizioni anche nel caso in cui
almeno una coalizione non sia soddisfatta della spartizione proposta. Una
soluzione, che qui illustro solo a parole, con- sidera, per ogni possibile
imputazione, il grado di insoddisfazione e(A, x) della xi. L’imputazione x sta
nel nucleo, ad esempio, se e solo se e(A, x) ≤ 0 per ogni A, cio`e se nessuna
coalizione si lamenta. Se per`o il nucleo `e vuoto, allora qualunque sia la
distribuzione proposta c’`e almeno una coalizione che si lamenta. Che fare in
questo caso? Un’idea intelligente `e di considerare, per ogni imputazione x, il
lamento della coalizione piu` sfavorita (cio`e di quella che si lamenta
maggiormen- te), e poi scegliere quella distribuzione di utilit`a efficiente
che minimizza questo lamento massimo. Se poi sono molte le distribuzioni che
hanno questa propriet`a, fra queste si pu`o scegliere quelle che minimizzano il
secondo massimo lamento, e cos`ı via. Si dimostra che in questo modo si arriva
ad un’unica distribuzione di utilit`a, che viene chiamata il nucleolo del
gioco. Nel gioco precedente dei compratori, il prezzo di vendita `e 250, e
cio`e il prezzo 21Supponiamo (x1, x2, x3) sia un vettore del nucleo. Le
condizioni x1 + x2 ≥ 1, x1 + x3 ≥ 1, x2 + x3 ≥ 1, imposte dalle coalizioni
formate da due giocatori implicano, prendendo la loro somma, 2(x1 + x2 + x3) ≥
3, che `e in contraddizione con la condizione di efficienza x1 + x2 + x3 = 1.
Quindi il nucleo `e vuoto. coalizione A per la distribuzione dell’imputazione
x: e(A, x) = v(A) − i∈A 20 CAPITOLO 1. LA MATEMATICA
DEI GIOCHI intermedio fra quello minimo e quello massimo proposti dal nucleo;
nel gioco di maggioranza a tre giocatori, propone l’imputazione ( 13 , 13 , 31
): in questo caso ogni coalizione di due giocatori si lamenta 13 , e non `e
difficile verificare che ogni distribuzione di utilit`a diversa farebbe
lamentare di piu` una coalizione. I risul- tati precedenti non sono
sorprendenti, dal momento che il nucleolo `e soluzione che gode di forti
propriet`a di simmetria; purtroppo per`o anche il nucleolo pu`o dare risultati
bizzarri: ad esempio, siccome appartiene al nucleo, purch ́e natu- ralmente
questo non sia vuoto, nel gioco dei due venditori ed un compratore il nucleolo
assegna tutto al compratore. Passiamo al terzo concetto di soluzione che qui
consideriamo: si chiama indice di Shapley. La sua formula `e un po’ complicata,
ad una prima lettura, ma non bisogna spaventarsi. Se poi non si capiscono i
dettagli, come ha scritto Nash nella sua celebre tesi, questo non impedisce a
chi vuole di capire lo stesso le idee. Dunque, intanto va osservato che questa
soluzione, come il nucleolo, ha l’interessante propriet`a di assegnare un’unica
distribuzione di utilit`a ad ogni giocatore. La indichiamo con S, in onore di
Shapley. Risulta cos`ı definita, per un qualunque gioco v22: Si(v) = (a − 1)!(n − a)![v(A) − v(A \
{i})]. i∈A⊂N n! L’indice di Shapley associa al
giocatore i i contributi marginali23 che esso porta ad ogni coalizione, pesati
secondo un certo coefficiente (per la coalizione A \ {i} esso `e (a−1)!(n−a)!
). Tale coefficiente ha un’interpretazione probabilistica inte- n!
ressante: supponendo che i giocatori decidano di trovarsi per giocare, in
un certo luogo e ad una data ora, il coefficiente (a−1)!(n−a)! rappresenta la
probabilit`a n! 24 che i al suo arrivo trovi gli altri giocatori della
coalizione A, e solo loro . Nel gioco di maggioranza semplice fra tre
giocatori, l’indice di Shapley pro- pone ( 31 , 13 , 13 ), come il nucleolo.
Nel gioco dei guanti, invece la soluzione `e ( 1 , 7 , 7 , 7 ). Vettore che
presenta caratteristiche interessanti: tiene conto del 4 12 12 12 fatto che
c’`e un eccesso di offerta di guanti sinistri, il che rende un po’ piu` debole
degli altri il giocatore uno; il secondo ne risente relativamente, perch ́e
sfrutta il fatto di poter soddisfare da solo la domanda dei giocatori col
guanto destro. Questo mostra che il valore tiene conto di altri aspetti,
ignorati dal nucleo. L’indice di Shapley ha applicazioni importanti anche nei
giochi semplici. Come esempio, si pu`o pensare all’analisi della composizione
di un Parlamento, potreb- be essere il Parlamento Europeo, o il Congresso negli
Stati Uniti. Il problema fondamentale in questi casi `e come ripartire i seggi
fra i vari stati. Tutti i metodi di ripartizione dei seggi hanno dei difetti:
esiste persino un celebre risultato che lo afferma: si tratta del teorema di
Arrow (un altro vincitore del Premio Nobel 22Data una coalizione A, indicheremo
con a la sua cardinalit`a, cio`e il numero dei giocatori che formano la
coalizione A. 23Il contributo marginale che il giocatore i porta alla
coalizione C `e la quantit`a v(C ∪ {i}) − v(C). Chiaramente pu`o essere interpretato come l’apporto
che il giocatore porta alla coalizione. 24Assumendo equiprobabile l’ordine
d’arrivo dei giocatori. 1.6. CONCLUSIONI 21 per l’Economia), forse
il piu` celebre di tutte le Scienze Sociali. Il valore Shapley `e quindi uno
dei modi possibili per valutare il potere dei giocatori in un gioco. Per
concludere, ecco la risposta che d`a l’indice di Shapley al problema di come
suddividere le spese per la costruzione della pista dell’aeroporto (Esempi 4 e
12): il primo paga 13c1, il secondo 12c2 − 16c1, il terzo c3 − 16c1 − 12c2.
Detto cos`ı non sembra molto significativo ma, per prima cosa `e utile
osservare che la somma dei tre pagamenti fa proprio c3, il che mostra su un
esempio quel che `e vero sempre, e cio`e che l’indice `e efficiente; poi, e
questo `e molto interessante, il risultato, ha la seguente interpretazione
molto naturale: il primo, che da solo spenderebbe c1, divide questa spesa
equamente con gli altri due, che usufrui- scono dello stesso servizio. Il
secondo chilometro porta un costo aggiuntivo di c2 − c1: questa spesa viene
equamente divisa tra gli altri due che utilizzano la pista. Il resto che manca
(c3 − c2) infine `e pagato dall’unico utente che ha bisogno del terzo
chilometro. Concludo questo paragrafo riprendendo un concetto gi`a espresso: il
fatto che esistano tante soluzioni per i giochi cooperativi non deve essere
considerato sin- tomo di confusione. La variet`a di situazioni che vengono
descritti come gioco cooperativo impone, in un certo senso, che si considerino
diverse soluzioni possi- bili. Sta a chi utilizza questi modelli scegliere la
soluzione piu` adatta. E nessuna soluzione `e adatta ad ogni gioco: per esempio
l’indice di Shapley per il gioco del venditore e dei due compratori `e ( 650 ,
50 , 200 ), cui sembra difficile dare un 333 significato sensato. Per questo le
varie soluzioni vengono caratterizzate da pro- priet`a che servono a
descriverle: abbiamo ad esempio ricordato che l’indice di Shapley ed il
nucleolo godono di propriet`a di simmetria, il che significa che non
privilegiano alcuni giocatori rispetto ad altri.Stefano Catucci. Catucci. Keywords: la
via conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica della
conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento, parlare
obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief,
Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna,
musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica
fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cavalcanti – il sìnolo
degl’amanti -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is
surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians
call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but
interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo,
così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello, gentile e peregrino
rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo
nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le
quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste,
sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano
all'Inferno. Ritratto di Cavalcanti, in Rime. Figlio di Cavalcante dei
Cavalcanti, nacque in una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua
villa vicina a Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre
fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla
disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio
riacquistarono la preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in
sposa la figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla
quale Guido ha i figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi
e ghibellini nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e
Compagni. A questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto
misterioso, se si considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia,
comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un sonetto.
Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché
maestro, con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si
reca allora a Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante
l'esilio. La condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di
salute. Muore a causa della malaria contratta durante l'esilio forzato
d’Alighieri.È ricordato oltre che per i suoi componimentiper essere stato
citato da Dante (del quale fu amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto
delle Rime Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un
altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e
difficile rapporto tra i due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”.
Alighieri, remmorso, lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e
Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel
Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron. La sua
personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno
lasciato gli filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti.
Il gentile figlio di Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere e cortese e
ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è
paragonabile a quella di Alighieri, con la importante differenza del carattere
laico. Noto per il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf.
X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua
speculazione filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio
non e. Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è
stata tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me
prega” -- certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico
-- di tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di
correnti radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato
dal Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due
fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da
Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto,
diventa un emblema della leggerezza. L'episodio figura anche nell'omonimo
testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti
della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica. La opera
di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici
ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza
ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto,
seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché
incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in
una costruzione armoniosa. Peculiare di Cavalcanti è, nei sonetti, la presenza
di rime retrogradate nelle terzine. Temi Quadro di Johann Heinrich Füssli.
Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato Guido Cavalcanti. I
temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua
canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato
sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale
che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e
l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo
le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano
raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce
che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta,
compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa – L’amante
non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che, destatasi per
questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della devastazione. È
così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da un alone mistico,
rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo dell'amante.
Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia ma senza
comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei temi
fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al
contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al
desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di
vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante. Cavalcanti e un fine
filosofo – scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma
non ci resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia
effettivamente scritte. Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e
leggero è di una grande sapienza retorica. I versi di Cavalcanti
possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti
fonici del lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni
sintattiche. Cavalcanti: la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante”
(Roma-Bari: Laterza). “Species intelligibilis”, Cavalcanti laico e le
origini della poesia italiana, Alessandria: Edizioni dell'Orso); Cavalcanti
auctoritas”; Cavalcanti laico; La felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti
(Torino, Einaudi); Cavalcanti (Torino, Einaudi); Cavalcanti: poesia e
filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); Cavalcanti: uno studio sul lessico
lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti,
Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro,. Guido
Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli
italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia.
Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia
al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo Cavalcanti lo deve
essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa,
sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta
parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural
dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e
le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore
Cavalcanti ce l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha
detto che l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza.
Questa definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta
mutua dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La
sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che
cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di
essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza,
mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido,
paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma
che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come,
ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso
esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità)
dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, Cavalcanti ci dice che l’amore si insedia
nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia
di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta.
Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per
forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la
struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà
al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur
essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre
parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima
riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la
riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda,
invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e
dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali,
ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per
Cavalcanti, appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o
estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo
permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette
anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è
creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che
l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una
operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto,
appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta,
tuttavia, ci dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche
nell’intelletto possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare
brevemente alla psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda
delle sue funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima
delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo.
Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che
l’immagine di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato
dall’intelletto. In che modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama
intelletto possibile, riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie
all’azione di un’altra componente della stessa anima, che egli chiama
intelletto agente. Per fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto
possibile ad un quaderno ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello
scrivere. Dunque, mentre i sensi producono nella memoria l’immagine della donna,
l’intelletto agente imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di
questa immagine. Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione
amorosa attraverso la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre
niente di tutto questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata
soltanto un concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale
(queste, infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma
è una virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. Cavalcanti ci dice che
non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo,
poiché essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta,
infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo
arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno
separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva
di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il
pensiero. In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico
ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive
concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che Cavalcanti
mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione
amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata,
ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto
prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire,
però, che l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti,
le facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre,
il poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata
dalle anime sensitive degli uomini. Quello che Cavalcanti intende, dunque, è
questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato
totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con
l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla
dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più
distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, Cavalcanti ci
dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a
naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa
sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi
sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione
apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare
Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è
felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà
felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non
potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva;
egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo
greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita
secondo ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è
deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di
vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima
sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa,
l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla
vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità. sìnolo
s. m. [dal gr. σύνολον, comp. di σύν«con» e ὅλος «tutto»]. – Nel linguaggio
filos., termine aristotelico che designa la concreta sostanza (v. sostanza, n.
1 a), concepita come sintesi di materia (ciò che è mera potenza) e forma (ciò
che porta all’atto la potenzialità della materia).THE PHILOSOPHY OF LOVE OF
GUIDO CAVALCANTI In 1283 the young Dante sent out among the
best known Italian poets a sonnet asking interpretation of a dream. The
god of love, so it seemed, had come carrying Beatrice asleep, and had fed
her with Dante's own heart, and had then departed weeping.
Several poets answered. One, Dante of Maiano, suggested as a
probable solution of this, and other such distressing visions, a dose of
salts ; the others fell in with Dante's mood and answered seri- ously. Of
their various interpretations that which best pleased Dante, though not
quite satisfied him, was Guido Cavalcanti's. " And this," wrote
Dante later in the New Life, " was, as it were, the beginning of the
friendship between him and me, when he knew that I was he who had sent it
(the sonnet) to him." Guido's interpretation was in an
important particular ambiguous. Love, he wrote, fed your heart to your
lady, seeing that "vostra donna la morte chedea" To understand
this clause as meaning " Death claimed your lady" is natural,
and would make the interpretation interestingly prophetic; but, whether
or not this reading might be justified symbolically, Dante himself
forbids it. For, in spite of his pleasure in his " first friend's
" explanation of the dream, he added : " The true meaning of
this dream was not then seen by any one, but now it is plain to the
simplest." It was easy for him after the event to read prophecy of
Beatrice's death into the dream ; but he expressly denies to Guido among
the rest the prescience. We are bound, therefore, to take as the
interpreter's meaning that there was malice prepense in the cannibal
appetite of the sleeping lady, that she claimed the death of her
servant's heart. No wonder the love god wept as he carried her off sated
! Irreverent though it be, one thinks of The Vampire of
Kipling. For Guido the gentle Beatrice was as "the woman who
couldn't 9 IO THE PHILOSOPHY OF LOVE
understand," sucking, asleep, in a sort of diabolical innocence,
the life blood, literally eating the heart, out of her helpless victim.
And Dante, the lover, the victim, approves the picture ! Of
course the gruesomeness of this symbolism may be explained away as merely
a conceitfully emphatic reassertion of the ancient fancy that a lover's
heart is no longer his own, but has passed into the custody of his
mistress. Only, the dream then and its interpre- tation would indeed be a
much ado about nothing. And why, at so customary a happening, should love
weep? In fact, Guido's thought cuts deeper, and is, I venture to urge,
not so remote, in a sense, from the thought underlying The Vampire. It is
The Vampire uplifted into the more tenuous, yet.no less intense,
atmosphere of mysticism. Before attempting to let in light directly
upon this dim utterance it is expedient to recall certain facts in
Guido's life and personality. " Cortese e ardito, ma sdegnoso
e solitario e intento alio studio " — so Guido is introduced into
the Florentine Chronicle of Dino Compagni, who knew him personally. Guido
could not have been much over twenty-five when, at the death of his
father, his elder brother being in orders, he became head and champion of
one of the two or three most powerful and aristocratic families in the
republic. For gen- erations the Cavalcanti had been leaders in the state,
haughtily contemptuous of the mere people, yet fierce partisans of civic
inde- pendence against those who were willing to sacrifice this for
the dream of a " Greater Italy " united under a revivified
Emperor of the West. To this great feud and to the lesser local feuds
which grew out of it Guido may be said to have been a predestined, yet
mostly a willing, sacrifice. He was born into the feud ; he lived his
life long in the heat of it ; it married him ; it perhaps lost him his
best friend ; it certainly killed him before his time. It
married him. In 1267, a vear a *ter the decisive battle of Bene- vento,
when the last hope of the Imperialists, the Ghibellines, fell with
Manfred, in Florence an attempt was made towards permanent peace by
marrying together certain sons and daughters of victors and vanquished.
Among the rest Guido Cavalcanti was wedded, or then more likely
betrothed, — for he could not have been more than fifteen, — to Bice,
daughter of the Ghibelline leader, the Florentine "
Coriolanus," Farinata degli Uberti. Seven years before Farinata
OF GUIDO CA VALCANTI I I had "painted the Arbia
red" with the blood of Florentine Guelphs at Monteaperti; and it had
been a kinsman of Guido who com- manded the Guelphs on that disastrous
day. We do not know how this real " Capulet-Montague " match
turned out, — only that Monna Bice bore children to her husband and
outlived him many years, and that the peace which their union, among
others, was intended to effect did not come to pass. On the
contrary the great Guelph families, after 1267 in secure possession of
the city, soon quarreled, even connived against each other with the
ever-ready Ghibelline exiles, or with popular dema- gogues, so great was
their common jealousy. Meanwhile, during the distraction of the nobles,
the middle classes had been prosper- ing ; and coming at last to feel
their strength and the weakness of those above them, in 1293 they
rebelled and crushed the aristocrats. In the first insolence of triumph
they excluded the nobles abso- lutely from public office, but two years
later conceded eligibility to such nobles as would join one of the Arti,
or trades unions. This virtual abdication of caste Guido Cavalcanti
refused to make. In vain good easy Dino pleaded with him. " I am
ever singing your praises," he wrote in a kindly sonnet, "
telling folks how wise you are, and brave and strong, skilled to wield
and ward the sword, and how compact with sifted learning your mind is,
and how you can run and leap and outlast the best. Nor is there lacking
you high birth nor wealth ... in fine, the one thing wanting to give
scope to all these gifts and powers is a mere name. "
Ahi! com saresti stato om mercadiere! " Now almost certainly
some generations back the Cavalcanti had been in trade, and had made
their fortune in trade, but latterly it had pleased them to entertain a
genealogy reaching royally back into Germany and descending into Italy with
Charlemagne's baronage. To traverse this pleasing legend with the gross
title "om merca- diere," tradesman, was out of the question :
Guido declared himself irreconcilable. Meanwhile Dante,
unfettered by a legend or a temperament, had accepted the situation even
cordially, and was taking active part in the councils of the new
bourgeois regime. That Guido must 12 THE PHILOSOPHY OF
LOVE have regarded his friend's secession with disgust seems
natural. It was worse than an offense against party; it was an offense
against caste. " Uomo vertudioso in molte cose, se non ch'egli era
troppo tenero e stizzozo," writes Giovanni Villani of Guido.
Fastidious, exclusive, thin-skinned, choleric, Guido was just the man to
feel this consorting of his friend with vulgar political upstarts
incompatible with their own intimacy. And the matter was made worse by
its open denial of their poetic profession of faith in the " cor
gentile." This vulgar folk was that " fango," that human
" mud " of which Guinizelli had written : Fere lo
sole il fango tutto'l giorno, Vile riman . . . how might the
" gentle heart " mix itself with this irredeemable
"mud" and be not defiled? So Guido addressed to his friend a
sonnet at once haughty and tender — like Guido himself: 1 lo vengo
il giorno a te infinite volte e trovoti pensar troppo vilmente :
allor mi dol de la gentil tua mente e d'assai tue virtu che ti son
tolte. Solevanti spiacer persone molte, tuttor fuggivi la
noiosa gente, di me parlavi si coralemente che tutte le tue rime
avei ricolte. Or non ardisco per la vil tua vita, far
mostramento che tu' dir mi piaccia, ne vengo 'n guisa a te che tu mi
veggi. Se '1 presente sonetto spesso leggi lo spirito noioso
che ti caccia si partira da Panima invilita. 2 1 1 believe
that E. Lam ma, in his Questioni Dante sche, Bologna, 1902, was the first
to propose this construction of the famous " reproach." It seems to
me the best of all. 2 1 come to thee infinite times a
day And find thee thinking too unworthily : Then for thy gentle
mind it grieveth me, And for thy talents all thus thrown away.
OF GUIDO CAVALCANTI x 3
Whether the two friends again came together in life is not known.
The next situation in which we hear of them is tragic. Dante is sit- ting
among his " first friend's " judges ; Guido is condemned to
exile, and goes — in effect — to his death. Under the new
bourgeois rule civic disorders rather increased than otherwise. Prime
mover of discord was the Florentine " Catiline," as Dino calls
him, Corso Donati. Somewhat ineffectually opposing his self-seeking
machinations were the parvenu Cerchi, powerful only through wealth and
the popularity of their cause. With these also stood Guido. Hatred, no
less than misfortune, makes strange bed- fellows ; and the hatred between
Guido and Corso was intense. Each had sought the other's life : Corso
meanly, by hired assassins ; Guido openly, in the public street, by his
own hand. Violence followed violence ; the number of factionaries
increased, until at last in 1300 the city Priors determined to expel the
leaders of both parties. Guido was conspicuous among these leaders ;
Dante, as has been said, among these Priors. The place of exile, Sarzana,
proved to be pestilent with fever ; and although Guido and the Cerchi,
less culpable than Corso, were recalled within the year, it was too late.
A few months after- ward, the 28th or 29th of August, 1300, Guido died.
" E fu gran dommaggio" wrote Dino. It was a strange
preparation for "gentle and gracious rhymes of love," — this
short, tumultuous, hate-driven career. Yet there is but one direct echo
of the feudist in all Guido's verse, — a sonnet to a kinsman, Nerone
Cavalcanti. Nerone had made Florence too To flee the vulgar
herd was once thy way, To bar the many from thine amity ; Of me
thou spakest then so cordially When thou hadst set thy verse in full
array. But now I dare not, so thy life is base, Make
manifest that I approve thine art, Nor come to thee so thou mayst see my
face. Yet if this sonnet thou wilt take to heart, The
perverse spirit leading thee this chase Out of thy soul polluted shall
depart. 14 THE PHILOSOPHY OF LOVE hot for the
rival Buondelmonti, and Guido hails him with ironical deprecation.
Novelle ti so dire, odi, Nerone, che' Bondelmonti treman di
paura, e tutt* i fiorentin' no li assicura, udendo dir
che tu a* cor di leone. E piu treman di te che d' un dragone
veggendo la tua faccia, ch* e si dura che no la riterria ponte ne
mura se non la tomba del re faraone. De ! com' tu fai
grandissimo peccato si alto sangue voler discacciare, che tutti
vanno via sanza ritegno. Ma ben e ver che ti largar lo pegno,
di che potrai V anima salvare se fossi paziente del mercato. 1
Guido's disdainful temper both piqued and puzzled his townsfolk.
Sacchetti's anecdote 2 of the Florentine small boy who, having slyly
nailed Guido's gown to his bench, then teased him until the irate
gentleman tried — naturally to his discomfiture — to chase him, has
1 News have I for thee, Nero, in thine ear. They of the
Buondelmonte quake with dread, Nor by all Florence may be
comforted, For that thou hast a lion's heart they hear. And
more than any dragon thee they fear, For looking on thy face they
are as dead : Bastion nor bridge against it stands in stead, Nor
less than Pharaoh's grave were barrier. Marry ! but thou hast done
a wicked thing, Having the heart to scatter such high blood,
For without let now one and all they flee. And 'sooth, a truce-bait
too they proffered thee, So that thy soul might still be with the
Good, Hadst but had stomach for the bargaining. For the first
quatrain of this sonnet I have slightly altered Rossetti's translation.
In the rest a mistaken understanding of the sonnet as if addressed to the
pope has misled him. 2 // aVm 53^ OF GUIDO CA VALCANTI
\ 5 its point in a very human satisfaction at the scorner scorned.
Boc- caccio's novella 1 is more significant, illustrating vividly, if
perhaps by a fictitious occurrence only, the subtle mingling of awe and
defi- ance which Guido inspired. Boccaccio's " character " of
Guido is a eulogy. " He was one of the best thinkers (Joici) in the
world and an accomplished lay philosopher (filosofo naturale), . . . and
withal a most engaging, elegant, and affable gentleman, easily first in
what- ever he undertook, and in all that befitted his rank." This
character, together with the mood of tragic doubt upon which the point of
Boc- caccio's narrative turns, inevitably, if tritely, brings to mind
Ophelia's character of Hamlet : The courtier's, soldier's,
scholar's eye, tongue, sword ; The expectancy and rose of the fair
state, The glass of fashion and the mould of form, The observed of
all observers. . . . But, if we may still trust Boccaccio, "
that noble and most sovereign reason " of Guido was also " out
of tune and harsh " with scrupulous doubt ; " so that lost in
speculation, he became abstracted from men. And since he held somewhat to
the opinion of the Epicureans, gossip among the vulgar had it that these
speculations of his only went to establish, if established it might be,
that there was no God." Boccaccio does not call Guido an
atheist ; that was mere vulgar gossip. He does not even declare him a
convinced Epicurean, one of those who with his own father . .
. P anima col corpo morta fanno. Boccaccio's charge is qualified :
" he held somewhat to the opinion of the Epicureans " {egli alquanto
tmea della opinione degli Epicurj). Dante's commentator, indeed,
Benvenuto da Imola, is more cate- gorical and extreme : " Errorem,
quern pater habebat ex ignorantia, ipse (Guido) conabatur defendere per
scientiam." Benvenuto is even remoter in time, however, than
Boccaccio ; and his phrasing suggests at least a mere perpetuation of
that vulgar gossip which Boccaccio con- temptuously records. But can we
trust Boccaccio's own testimony? At least there is no antecedent
improbability. Skepticism was common, especially in the highly educated
class to which Guido 1 Decam^ VI, 9. 1 6 THE
PHILOSOPHY OF LOVE belonged ; and it was not unnatural at any rate
for him to weigh carefully an opinion held by his own father. Again,
there is noth- ing in either his life or writings to indicate an active
faith. Much indeed has been made of his " pilgrimage " to the
shrine of St. James at Compostella; but the mood of this was so little
serious that a pretty face at Toulouse was enough to change his
intention. The ironical sonnet of Muscia of Siena is a hint that his
contemporaries could not take him very seriously as a pious pilgrim; and
Muscia stresses Guido's excuse for breaking his supposed vow that there
was no vow in the case — " non v' era botio" Guido may have
started in a moment of reaction from his doubt — does not doubt itself
imply a wavering will ? He may have left Florence as a matter of
prudence — Corso tried to have him assassinated on the way as it was.
As for his writings, these, considering the intimate theological associa-
tions of the school of Guinizelli, are noticeably barren of religious
feeling or phrase ; and he certainly scandalized the worthy, if narrow,
Orlandi by his jesting sonnet about the thaumaturgic shrine of "my
Lady." The hypothetical confirmation of Guido's skepticism, on the
other hand, in his "disdain for Virgil, ,, mentioned by Dante in his
answer to the elder Cavalcanti's question 1 why Dante's "first friend
" had not accompanied him, has beendiscredited after twenty years
of support by its own proposer, D'Ovidio. The passage is, to be
sure, still a moot question ; and D'Ovidio, even in the zeal of his
recanta- tion, still admits the allegorical taking of it to be plausible
as a sec- ondary intention on Dante's part. In any case, even waiving
the confirmation, the tradition of Guido's skepticism is not impugned ;
and in view of the persistent tradition, and of the antecedent
probability in its favor, the burden of disproof would seem to rest on
those who reject the tradition. Meanwhile, I propose to test the
credibility of the tradition by assuming it. If the assumption proves to
be a factor in a coherent and credible interpretation of Guido's poetry,
the credi- bility of the assumption proportionately increases. The
argument is of course a circle, but I think not a vicious circle.
There is also another tradition, which happens likewise to be sub-
sidiary to the same end. As the one tradition charges Guido with unfaith
in religion, so the other charges him with faithlessness in love. i
Inf., X, 60. OF GUIDO CA VALCANTI \ 7 Recently
Mr. Maurice Hewlett, in his Masque of Dead Florentines, has seized upon
this supposed fickleness of Guido as Guido's char- acteristic trait. Guido
is made to say : My way was best. From lip to lip I past,
from grove to grove : I am like Florence ; they call me Light o'
Love. I am dubious indeed about that literal criticism which
surmises a " family skeleton " in every locked sonnet. Heine
assuredly reckoned without his Scholar when he complained :
Diese Welt glaubt nicht an Flammen, Und sie nimmt's fur
Poesie. When Guido writes a sonnet describing how Love had wounded
him with three arrows, — Beauty, Desire, Hope of Grace, — it is hardly
fair for Rossetti to entitle his own translation He speaks of a third
love of his. Rossetti the scholar should have known better. Of
course Guido is simply copying a conceit from the Romance of the Rose :
the three arrows are three arrows from the eyes of one lady, not of three
ladies. Again, it is almost worse when poor Guido essays a pretty
pastourelle, which is by definition a gallant adventure between a pass-
ing knight and a shepherdess, to discuss the " peccadillo " in a
solemn footnote ! Yet Rossetti, himself a poet, does so. Nay, Guido's
latest learned editor, Signor Rivalta, speaks 1 of his singing
"anche i suoi desideri meno puri e piu umani come nella ballata
: In un boschetto trovai pasturella . . ." This
ballata is the pastourelle in question. Stifl, waiving such pseudo- revelations
of a stethoscopic criticism, there are, considering the meagerness of
Guido\s poetical remains, hints enough besides the mention of several
ladies — Mandetta, Pinella, and by, inference her whom Dante calls
Giovanna — to accept with discretion sober Guido Orlandi's perhaps
malicious insinuation, when he inquires of Guido Cavalcanti concerning
the nature, the effects, the virtues of Love : Io ne domando voi,
Guido, di lui : odo che molto usate in la sua corte ; 1 Le
Rime di Guido Cavalcanti^ Bologna, 1902, p. 23. 1 8 THE
PHILOSOPHY OF LOVE and even the cruder implication in Orlandi's
boast of his chaster mind : Io per lung' uso disusai lo primo
amor carnale : non tangio nel limo. Reckless feudist, unbeliever,
" light o' love," squire of dames, pro- found thinker, gracious
gentleman — a perplexing motley of a man; it is no wonder that his
poetry, reflecting himself, more easily with its many-faceted light
dazzles rather than illumines the understand- ing. In addition, one has
to contend in his more doctrinal pieces, especially in the famous canzone
of love, with a rigorous scholastic terminology dovetailed into a most
intricate metrical schema, and with a text at the best corrupt. In spots
Guido — as we have him — is as hopeless as Persius; yet we may waive
these and still venture upon a general interpretation. In
general, Guido's love poems hinge upon two parallel but opposite moods, —
a radiant mood of worshipful admiration of his lady, a tragic mood of
despair wrought in him by his love of her. His sight of her is a rapture,
as in the most magnificent of his sonnets, beginning " Chi e questa
che ven ": Chi e questa che ven ch' ogn' om la mira e fa
tremar di chiaritate V a're, e mena seco amor si che parlare null'
omo pote, ma ciascun sospira? O Deo, che sembra quando li occhi
gira dica '1 Amor, ch' i' no '1 savria contare :
cotanto d' umilta donna mi pare, ch' ogn' altra ver di lei i'
la chiam' ira. Non si poria contar la sua piagenza, ch'
a lei s' inchina ogni gentil virtute, e la beltate per sua dea la
mostra. * Non f u si alta gia la mente nostra e non si
pose in noi tanta salute, che propriamente n' aviam canoscenza.
1 1 Lo! who is this which cometh in men's eyes And maketh
tremulously bright the air, And with her bringeth love so that none
there Might speak aloud, albeit each one sighs ? OF
GUIDO CAVALCANTI 19 The sonnet is a superb tribute ; but it is also
more. It contains, as I conceive, the pivotal idea in Guido's philosophy
of love, — namely, in the lines describing his mistress as
Lady of Meekness such, that by compare All others as of Wrath I
recognize, (cotanto d* umilta donna mi pare, ch' ogn' altra ver di
lei i' la chiam' ira.) Ira . . . umilta : wrath . . . meekness —
the antithesis dominates Guido's thought. Wrath is in his vocabulary the
concomitant of imperfection, of desire ; meekness the concomitant of
perfection, of peace. He, the lover, is therefore in a state of wrath ;
she, the lovable, in a state of meekness, — Quiet she, he
passion-rent. The identification of passionate love with a state of
wrath is fun- damental in Guido's philosophy. It is the germinal idea of
the doctrinal canzone beginning " Donna mi prega." In answer to
the query as to the where and whence of the passion — La ove
si posa e chi lo fa creare — he declares that In quella parte
dove sta memora prende suo stato, si formato come diaffan da
lume, — d'una scuritate la qual da Marte vene e fa dimora. 1
" In that part where memory is love has its being ; and, even as
light enters into an object to make it diaphanous, so there enters into
the Dear God, what seemeth if she turn her eyes Let Love's
self say, for I in no wise dare : Lady of Meekness such, that by compare
All others as of Wrath I recognize. Words might not body forth her
excellence, For unto her inclineth all sweet merit, Beauty in her
hath its divinity. Nor was our understanding of degree, Nor
had abode in us so blest a spirit, As might thereof have meet
intelligence. 1 vv. 15-18. I use here as elsewhere the edition of Ercole
Rival ta, Bologna, 1902. 20 THE PHILOSOPHY OF LOVE
constitution of love a dark ray from Mars, which abides." Now
Dante conceives love as an emanation from the star of the third heaven,
Venus, along a bright ray : " I say then that this spirit (i.e. of
love) comes upon the * rays of the star ' (i.e. of the third heaven,
Venus), because you are to know that the rays of each heaven are the path
whereby their virtue descends upon things that are here below. And
inas- much as rays are no other than the shining which cometh from
the source of the light through the air even to the thing enlightened,
and the light is only in that part where the star is, because the rest of
the heaven is diaphanous (that is transparent), I say not that this '
spirit/ to wit this thought, cometh from their heaven in its totality but
from their star. Which star, by reason of nobility in them who move it,
is of so great virtue that it has extreme power upon our souls and
upon other affairs of ours," etc. 1 So Dante. Guido, on the other
hand, while accepting the notion of love as an emanation, holds the
emana- tion to be rather from the star of the fifth heaven, Mars, along a
dark ray. The power over the soul of this star is no less extreme
than that of Venus; only it is, in a sense, a power of darkness rather
than of light. It may strike at life itself — Di sua potenza
segue spesso morte. (v. 35) The passion which its influence excites
passes all normal bounds in any case, destroying all healthful
equilibrium : L'esser e quando lo voler e tan to ch' oltra
misura di natura torna: poi non s' adorna di riposo mai. Move
cangiando color riso e pianto e la figura con paura stoma. . . . 2 (vv.
43-47) Finally, — and here we reach the gist of the matter, — the
influ- ence of the choleric planet engenders sighs and fiery wrath in
the 1 Conv.y II, vii. (Wicksteed's translation.) 2 It
has its being when the passionate will Beyond all measure of
natural pleasure goes : Then with repose unblest forever, starts
Laughter and tears, aye changing color still, And on the face leaves
pallid trace of woes. OF GUIDO CA VALCANTI 2 I
lover, impotent to reach the ever-receding goal of his desire (non
fermato loco): La nova qualita move sospiri e vol
ch' om miri in non fermato loco destandos' ira, la qual manda foco.
1 This strangely pessimistic reading of love seems to have struck
at least one of Guido's contemporaries with indignant surprise, not
only at the apparent slight upon love, but also at the silence seeming
to give assent of other poets, especially of Dante. Cecco d'Ascoli, in
his Acerba, iii, 1, denies that so sweet a thing as love could emanate
from the planet Mars, seeing that from that planet rather " proceeds
violence with wrath " (procede Vimpeto con Fire) ; wherefore :
Errando scrisse Guido Cavalcanti. . . . qui ben mi sdegna lo tacer
di Danti. In fact, Dante, in the sonnet in the sixteenth chapter of
the New Life, apparently alludes sympathetically to Guido's dark rays of
love — Spesse fiate vegnommi a la mente l'oscure
qualita ch' Amor mi dona — and proceeds to describe, though not by
this name, just such a " state of wrath " in himself as Guido
believes inseparable from love. With Dante, of course, the mood is but
passing. For him love is in its essence a beneficent power.
For Guido also it might seem that this tragic wrath of desire is
not incurable. There is a power in meekness to overcome wrath and to
subdue wrath also to meekness. And the meek one is impelled to exercise
this power, to confer this boon, by pity for the one suffering in wrath.
It is the failure to follow this blessed impulse for which Guido
reproaches his lady in the octave of the sonnet beginning " Un
amoroso sguardo," when he says that she is one . . . for whom
availeth not Nor grace nor pity nor the suffering state. . . .
(. . . verso cui non vale Merzede ne pieta ne star soffrente. . .
.) 1 The novel state incites to sighs, and makes Man to
pursue an ever-shifting aim, Till in him wrath is kindled, spitting
flame. 2 2 THE PHILOSOPHY OF LOVE Meekness,
grace, pity, the suffering state of wrath — the terms have a scriptural
sound, and of right ; for they are actually scriptural anal- ogies
applied to love. Precisely this poetical analogy was the innova- tion of
Guido Guinizelli, whom Dante called " father of me and of my
betters," — of which last Guido Cavalcanti was in Dante's mind
first, if not alone. Before Guinizelli Italian poets had accepted the
other analogy of the troubadours of Provence, which applied to love the
canon of feudal homage. For these the lady of desire was as the
haughty baron to whom they owed servile fealty, and whose inaccessible
mood was not of gentle meekness but of cruel pride, claiming willfully
of her vassal perhaps life itself. But feudalism and its harsh
canon of service were alien to the Italian communes ; Italian poetry
built upon an analogy with it must needs be an affectation. These
burgher poets were only play knights; these frank Tuscan and Lombard
girls were only play barons. Affectation, the pen following not the
dicta- tion of the feelings but of hearsay feelings, — this is the
precise charge which Dante, from the standpoint of the " sweet new
style," brings against the older style. 1 But if as free burghers
Italians could not really feel the alien mood of feudal homage, yet as
Christian gentle- men they could, and should, sanctify their love of
women with the mood of religious awe. There need be no affectation in
that. Free burghers, they recognized no temporal overlord, no absolute
baron ; Catholics, they did believe in, and might with sincerity worship,
min- istering angels — "donne angelicate," the meek ones whom,
as the Psalmist had declared, the Lord has beautified with
salvation. Guido therefore can no more worthily praise his mistress
than by calling her his " Lady of Meekness." Indeed, by further
analogy he sets her above the angels themselves; for the Christ himself
had said : "Mitis sum et humilis corde — I am meek and lowly in
heart." For him- self, " passion-rent " in his love, the
poet speaks as St. Paul, — " we . . . had our conversation ... in
the lusts of our flesh, fulfilling the desires of the flesh and of the
mind ; and were by nature the children of wrath (filii irae)" And
the merzede, the "grace," for which he sues — solu- tion of
wrath by the spirit of meekness — is again in accord with Paul's promise
to these very "children of wrath," — "By grace are ye
saved through faith" — faith, that is, in loving and serving the one
divinity as the other. i Purg., XXIV, 49 seq. OF
GUIDO CAVALCANTI 23 This is pious doctrine indeed for the righting
cavalier, skeptic, Love- lace I have in a measure assumed Guido to be. Is
then his love creed also a pose, worse than the apes of Provence whom
Dante exposed, because he thus adds hypocrisy to affectation ? Well, if
so, the same Dante would hardly have hailed him as "first
friend" in life and master after Guinizelli in poetry, nor have
outraged the memory of Beatrice by associating her in the New Life with
Guido's lady Joan. The solution of the apparent antinomy lies in
the meaning for Guido of that rnerzede, that " grace," the
granting of which by ; the lady, the meek one, might appease the lover,
the one in "wrath." The term itself — Italian merzede or
English " grace " — has a fourfold significance according as it
is a function of the lady, of the lover, or of the reciprocal
relationship between them. "Grace" in her signifies her
beatitude, her "meekness"; in him, his "merit" which
through faith and loving service deserves the boon, or "grace,"
of her con- descension to redeem him from his "state of wrath,"
for which condescension it would be befitting him to render thanks,
"yield graces, — a phrase now obsolete in English but used by Dante,
— render mercede. Of this fourfold intention of the term the one
funda- mentally doubtful is ,the " grace " which is constituted
by the act of condescension of the lady : what then is the grace or boon
that the lover asks and hopes ? In other words, what is the end of desire
? The answer is no mystery. The end of desire is always possession,
in one sense or another, of the thing desired. In the practical sense
possession of the loved one means union, physical or social, or both,
sacramentally recognized, in marriage ; but the sacrament of marriage
allows a more mystical sense, presenting the ideal, hardly
realizable on earth, of a spiritual union which is also a unity of two in
one : The single pure and perfect animal, The
two-cell'd heart beating with one full stroke, Life. So
Tennyson modernly ; but more in accord with the metaphysical mood of Guido
is the old Elizabethan phrasing : So they loved, as love in
twain Had the essence but in one ; Two distincts, division
one: Number there in love was slain. 24 THE PHILOSOPHY
OF LOVE To the " gentle heart " there is no love but
highest love ; there is no union but perfect union, wherein two
shall Be one, and one another's all. Until the
"gentle heart " may attain to that perfect union its desire is
unappeased, its " wrath " unsubdued. Tennyson premises it for
the right marriage; but there is ever the doubter ready to remark that if
such marriages are really made in heaven, they certainly are kept there.
Human sympathy cannot quite bridge the span between two souls: self
remains self; and though hands meet and lips touch and wills accord,
there is always something deeper still, inexpressible, unreachable.
Yes ! in the sea of life enisled, With echoing straits between us
thrown, Dotting the shoreless watery wild, We mortal millions live
alone. In vain, says Aristophanes in Plato's Banquet, in vain,
"after the division (of the primeval man-woman in one), the two
parts of man, each desiring his other half, came together, and threw
their arms about one another eager to grow into one. . . ." True,
Aristophanes in effect goes on, Zeus in pity consoled the loneliness of
dissevered " man-woman " by physical union ; but that
consolation the " gentle heart " must forever regard as of
itself inadequate and unworthy. There is indeed a solution.
Guinizelli and Dante read further into the Banquet of Plato — or into the
Christian doctrine built upon that — to where the wise woman of Mantineia
reveals the mysteries of a love extending into a mystic otherworld — at
least so Christians read her teaching — where in the bosom of God all
become as one. There "wrath" is resolved into
"meekness" perfectly. The love of Guinizelli, and of
Dante, was the love of happier men of which Arnold speaks :
Of happier men — for they, at least, Have dream '</ two
human hearts might blend In one, and were through faith
released From isolation without end Prolong'd.
OF GUIDO CAVALCANTI 25 But if Guido, even as Arnold,
lacked this faith, doubted this mystic otherworld whither therefore he
might not accompany his first friend to find his Giovanna, as Dante his
Beatrice, perfect in meekness, purged of all wrath, and to learn from her
release hereafter from the dividing flesh, union at last with her spirit
at peace ? — if he was of those, even uncertainly wavered with those,
who . . . F anima col corpo morta f anno ? — then
indeed for him, in degree as his desire was ideally exalted, so its
grace, its merzede, became an irony, a tragic paradox. His must be a
passionate loneliness forever teased by an illusion, a phantom mate of its
own conjuring. And I at least so understand the concluding words of the
canzone : For di colore d'esser e diviso, assiso mezzo
scuro luce rade : for d'onne fraude dice, degno in fede,
che solo di costui nasce mercede. 1 That is, the only love of
which grace is born, entire possession granted, is love of the dim
immaterial idea, — " la figlia della sua tnente, Vamorosa idea"
as Leopardi calls it. Ixion embraces his Cloud. Guido's lady's desirable
perfection, her " meekness," exists not in her, but in his
glorified ideal of her, " bereft " as that is " of color
1 Bereft is (love) of color of existence, Seated half dark,
it bars the light (i.e. which might make it visible). Without deceit one
saith, worthy of faith, That born of such a love alone is grace.
Rivalta's reading without in would apparently make mezzo adverbial. The
com- moner reading, " assiso in mezzo oscuro luce rade' 1 more
naturally gives mezzo as a noun: " seated in a dark medium," etc.
The meaning is not substantially different. The reading in mezzo,
however, is more suggestive, as implying not only the immateriality of
the mental fact but also the darkening of the " medium," i.e.
the imagination, by the " Martian " ray of passion. The assertion of
the invisibility of love is in answer to Guido Orlandi's question
restated by Caval- canti in v. 1 4 — " s* omo per veder lo po y
mostrare." Question and answer are alike absurd, however, unless we
understand "love" to mean the object loved, which it may
naturally do ; one's §l love " means both one's passion and one's
lady. 26 THE PHILOSOPHY OF LOVE of
existence." Therefore Guido's mood is essentially one with Leo-
pardi's when the latter exclaims : Solo il mio cor piaceami, e col
mio core In un perenne ragionar sepolto, Alia guardia seder del mio
dolore. 1 Guido has himself described with quaint "
preraphaelite " symbol- ism the process of progressive detachment of
the ideal from the real in the ballata beginning " Veggio ne gli
occhi." Cosa m* avien quand* i' le son presente ch' i'
no la posso a lo 'ntelletto dire : veder mi par de la sua labbia
uscire una si belladonna, che la mente comprender no la pu6 ; che
'nmantenente ne nasce un* altra di bellezza nova, da la qual par
ch' una Stella si mova e dica: la salute tua e apparita. 2
The imagery here is manifestly in accord with contemporary
pictorial symbolism, in which souls as living manikins issue forth from
the lips of the dead; but the significance of the passage is, I take it,
at one with that of the so-called Platonic " ladder of love "
by which through successive abstractions the pure idea, the intelligible
virtue, is reached. The following stanza in the same ballata again
defines this "virtue" as "meekness," and again
declares it to be merely " intelligible," for di
colore d' esser . . . diviso, assiso mezzo scuro luce rade ;
1 Only my heart pleased me, and with my heart In a communing
without cease absorbed, Still to keep watch and ward o'er my own
smart. 2 Something befalleth me when she is by Which
unto reason can I not make clear: Meseems I see forth through her
lips appear Lady of fairness such that faculty Man hath
not to conceive ; and presently Of this one springs another of new
grace, Who to a star then seemeth to give place, Which
saith: Thy blessedness hath been with thee. OF GUIDO
CAVALCANTI 27 only instead of the metaphysical directness of the
canzone, the poet employs the theological tropes of the dolce stil.
La dove questa bella donna appare s'ode una voce che le ven
davanti, e par che d' umilta '1 su' nome canti si dolcemente, che
s' P '1 vo' contare sento che '1 su* valor mi fa tremare. E movonsi
ne 1' anima sospiri che dicon : guarda, se tu costei miri vedrai la
sua vertu nel ciel salita. 1 And now the tragic note in Guido's is
explained. It is neither the polite fiction, the " pathetic fallacy
" of the Sicilian school, nor yet the quickly passing shadow of this
life set between Dante and the sun of his desire. La tua magnificenza
in me custodi, SI che P anima mia che fatta hai sana,
Piacente a te dal corpo si disnodi. Cosi orai . . . 2
"So I prayed," writes Dante, triumphant in expectation ; but
for those Che 1 'anima col corpo morta fanno, there could be
health of soul neither now nor hereafter. Wherefore Guido's text in the
analysis of his own passion is in all literalness the words of the
Preacher, — " All his days ... he eateth in dark- ness, and he hath
much sorrow and wrath in his sickness." Until 1 There where
this gentle lady comes in sight Is heard a voice which moveth her
before And, singing, seemeth that Meekness to adore Which is her
name, so sweetly, that aright I may not tell for trembling at its
might. And then within my soul there gather sighs Which say: Lo !
unto this one turn thine eyes: Her virtue to heaven wingeth
visibly. 2 Farad., XXXI, 88-91. 28 THE
PHILOSOPHY OF LOVE Guido prays indeed for release in death, not
triumphantly as Dante, but piteously, in the spirit of Leopardi's words
in Amore e Morte: Nova, sola, infinita Felicita . . . il suo
(the lover's) pensier figura : Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quiete, Brama raccorsi in porto
Dinanzi al fier disio, Che gia, rugghiando, intorno intorno oscura.
1 Poi, quando tutto avvolge La formidabil possa, E
fulmina nel cor Tinvitta cura, Quante volte implorata Con desiderio
intenso, Morte, sei tu dair affanoso amante ! 2 Precisely in
this mood Guido invokes death : Morte gientil, rimedio de'
cattivi, merze merze a man giunte ti cheggio : vienmi a
vedere e prendimi, che peggio mi face amor : che mie' spiriti vivi
1 Not only are Guido and Leopardi saying the same thing in effect, but
even their figures of speech are in accord. There is evident similarity
of symbolism between the soul-darkening storm blast of the one and the
soul-darkening Martian ray of the other ; although doubtless the
mediaeval poet may have conceived his " dark ray " as a real
phenomenon. 2 New, infinite, unique Felicity ... he pictures
to his mind : And yet because of it the wrath of storm Foreboding
in his heart, he longs for calm, Longs for the quiet haven Far from
that fierce desire, Which even now, rumbling, darkens all around.
Then, when o'erwhelmeth him The fury of its might, And
in his heart thunders unconquerable care, How many times he calls
In agony of need, Death, upon thee in his extremity !
OF GUIDO CAVALCANTI 29 son consumati e spenti si, che
quivi, dov* i' stava gioioso, ora mi veggio in parte, lasso, la
dov' io posseggio pena e dolor con pianto : e vuol ch' arrivi
ancora in piu di mal s' esser piu puote ; perche tu, morte, ora
valer mi puoi di trarmi de le man di tal nemico. Aime ! lasso
quante volte dico : amor, perche fai mal pur sol a' tuoi come
quel de lo 'nferno che i percuote ? 1 At other times Guido
describes the combat to the death between his " spirits " of
life and love. He enlarges his canvas and, calling to aid a whole
dramatis personae of the various " souls " and " animal
spirits " of scholastic psychology, objectifies his mood into
miniature epic and drama. This mythology of the inner world arose
naturally enough to mind from the ambiguity of the term "
spirits," meaning at once bodily humors and bodiless but personal
creatures ; and in Guido's delicate handling the symbolism is singularly
effective. Only by exaggeration of imitation did it grow stale and
ludicrous, meriting the jibes of Onesto da Bologna at such " sporte
piene di 1 Gentle death, refuge of th' unfortunate,
Mercy, mercy with clasp'd hands I implore : Loo^ down upon me, take
me, since more sore Hath been love's dealing : in so evil state
Are brought the spirits of my life, that late Where I stood
joyous, now I stand no more, But find me where, alas ! I have much
store Of pain and grief with weeping : and my fate Yet wills
more woe if more of woe might be ; Wherefore canst thou, death, now
avail alone To loose the clutch of such an enemy. How many times
I say, Ah woe is me 1 Love, wherefore only wrongest thou thine
own, As he of hell from his wrings misery ? 3Q
THE PHILOSOPHY OF LOVE spiriti." The
following curiously rhymed sonnet may illustrate his manner in this
kind. L' anima mia vilment' e sbigotita de la battaglia
ch* ell' ave dal core, che, s T ella sente pur un poco amore piu
presso a lui che non sole, la more. Sta come quella che non a
valore, ch' e per temenza da lo cor partita : e chi vedesse
com' ell* e fuggita diria per certo : questi non a vita. Per
gli occhi venne la battaglia in pria, che ruppe ogni valore
immantenente si, che del colpo fu strutta la mente. Qualunqu*
e quei che piu allegrezza sente, se vedesse li spirti fuggir via,
di grande sua pietate piangeria. 1 It transpires then for Guido as
for Leopardi that the only grace, the only boon of peace, to which love
leads is death ; and so is verified 1 The spirit of my life is sore
bested By battle whereof at heart she heareth cry, So,
that if but a little closer by Love than his wont she feeleth, she
must die. She is as one dejected utterly ; The heart
she hath deserted in her dread : And who perceiveth how that she is
fled, Saith of a certainty : This man is dead. First through
the eyes swept down the battle-tide, Which broke incontinently all
defense, And by its wrath wrecked the intelligence. Whoever
he that most of joy hath sense, Yet if he saw the spirits scattered
wide, In his excess of pity must have sighed. OF GUIDO
CAVALCANTI %\ the warning of those who came to meet him when he
first entered the court of love : Quando mi vider, tutti con
pietanza dissermi : fatto se' di tal servente che mai non dei
sperare altro che morte. 1 In reality, he knows the futility of any
appeal to his lady for aid. She is indeed the innocent occasion of his
suffering, but of it she is a mere passive spectator, hardly
understanding it, and certainly help- less to relieve it ; and so Guido
himself describes her in the sonnet beginning " S' io prego questa
donna." In the midst of his agony, Allora par che ne la mente
piova una figura di donna pensosa, che vegna per veder morir lo
core. 2 Here then at last we find the explanation of his
interpretation of Dante's sonnet, when he said that love fed Dante's
heart to his lady, vegendo che vostra donna la morte
chedea. She claimed its death not willfully indeed, as the
capricious mistress of Ulrich von Lichtenstein " claimed " his
mutilation, but innocently, unwittingly, in that her beauty was as a
firebrand, her perfection, her " meekness," a goal of
unavailing consuming desire. She is helpless to relieve him, because —
and here is the core of the matter — it is not she, not the real woman,
that he loves, but that idealization of her which exists only in his own
mind — for di colore d' esser e diviso, assiso mezzo
scuro luce rade. Compared with this glorified phantom "nel
ciel (that is, into the intelligible world) salita," the real woman
also is but "ira," wrath and imperfection. So he pines for his
lady of dreams, who thus a 1 When they beheld me, unto me all
cried Pitiful : bondman art thou made of one Such that
for nought else mayst thou look but death. 2 " Into my mind
then seems it that there rays a figure of a pensive lady, com- ing to
behold my heart die." 32 THE PHILOSOPHY OF LOVE
ghostly " vampire " feeds upon his human heart ; but the real
woman, " the woman who does not understand," is no longer of
moment to him. She is, as it were, but the nameless model to his artist
mind. When that has drawn from her all that is of fitness for its
master- piece, it straightway leaves her for another otherwise completing
the ideal type. Giovanna passes ; Mandetta arrives. Una
giovane donna di Tolosa bell' e gentil, d' onesta leggiadria,
tant' e diritta e simigliante cosa, ne' suoi dolci occhi, de
la donna mia, ch' e fatta dentro al cor desiderosa P
anima in guisa, che da lui si svia e vanne a lei ; ma tant* e
paurosa, che no le dice di qual donna sia. Quella la mira nel
su* dolce sguardo, ne lo qual face rallegrare amore, perche v' e
dentro la sua donna dritta. Po' torna, piena di sospir, nel
core, ferita a morte d* un tagliente dardo, che questa donna
nel partir li gitta. 1 Plainly it is not of Giovanna, nor of any
actual woman, but of his ideal woman, of whom Giovanna herself was but a
reminiscence, that 1 A lady of Toulouse, young and most fair,
Gentle, and of unwanton joyousness, So is the very image and
impress, In her sweet eyes, of one I name in prayer, That my
soul's wish is more than it can bear : Wherefore it 'scapeth from
the heart's duress And cometh unto her ; yet for distress What lady
it obeys may not declare. She looketh on it with her gentle mien,
Whereunto by the will of love it yearns, Because that lady there it
may perceive. Then to the heart it, full of sighs, returns,
Unto death wounded by an arrow keen, The which this lady loosed when
taking leave. OF GUIDO CA VALCANTI 33 Mandetta
reminds him. In her turn Mandetta will pass also. Then will come Pinella,
or another — what does it matter? What cared Zeuxis for any one of his
five Crotonian maidens, once each in her turn had supplied that
particular trait of loveliness which only she, perhaps, had to offer, but
had to offer only ? Mentre ch* alia belta, ch* i* viddi in
prima Apresso V alma, che per gli ochi vede, L' inmagin dentro
crescie, e quella cede Quasi vilmente e senza alcuna stima. 1
The words are Michelangelo's, but the idea is in effect Guido's.
And it is an idea which, I think, renders perfectly compatible in him
con- stancy in ideal love with inconstancy in real loves. To keep
faith with perfection is to break faith with imperfection. The love
of Guido brooked no compromise. The perfect one might be unattain-
able in this life; perfect union with her, even if found, might be
impossible in this life; there might be no other life than this so marred
by the perpetual " state of wrath " to which his impossible
desire in its impotence doomed him ; yet nevertheless Guido was willing
to be damned for the greater glory of Love. In conclusion, I would
quote a passage from the elegy to Aspasia of Leopardi, which puts into
modern phrasing exactly what I con- ceive to be Guido's intention,
obscured as that is for us by its scholastic terminology and its mixture
of chivalric and obsolete psychological imagery. Especially I would call
attention to the precisely similar way in which Leopardi, like Guido,
combines in his mood the loftiest idealization of Woman with the most
contemptuous conception of women. So Hamlet insults, even while he
adores. Dante too had his cynical time, to judge from Beatrice's
immortal rebuke, — when he . . . volse i passi suoi per via
non vera, Imagini di ben seguendo false. 1 While to the
beauty, which first drew my gaze, My soul I open, which looketh
through the eyes, The inward image grows, the outward dies In scorn
away, unworthy all of praise. 34 THE PHILOSOPHY OF LOVE
But Dante was saved from ultimate cynicism, ultimate unfaith, by
the promise of perfect union with his ideal in paradise. That
promise Guido, like Leopardi, rejected. Here is Leopardi's
confession : Raggio divino al mio pensiero apparve, Donna, la
tua belta. Simile effetto Fan la bellezza e i musicali accordi, Ch'
alto mistero d* ignorati Elisi Paion sovente rivelar. Vagheggia II
piagato mortal quindi la figlia Delia sua mente, l'amorosa idea,
Che gran parte d* Olimpo in se racchiude, Tutta al volto, ai costumi,
alia favella Pari alia donna che il rapito amante Vagheggiare ed
amar confuso estima. Or questa egli non gia, ma quella, ancora Nei
corporali amplessi, inchina ed ama. Alfin Perrore e gli scambiati oggetti
Conoscendo, s' adira . . . (" Sadira /" — " is
wrathful " — Leopardi's very words form a gloss to Guido's. But as
little as Guido's is Leopardi's wrath directed against the real woman,
innocent occasion of his illusion and disillu- sion. Leopardi continues
:) . . . e spesso incolpa La donna a torto. A quella eccelsa
imago Sorge di rado il femminile ingegno; E ci6 che inspira ai
generosi amanti La sua stessa belta, donna non pensa, Ne comprender
potria. . . . (" The woman who does not understand "
!) . . . Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto. E
male Al vivo sfolgorar di quegli sguardi Spera V uomo ingannato, e
mal richiede Sensi profondi, sconosciuti, e molto Piu che virili,
in chi dell' uomo al tutto OF GUIDO CAVALCANTI 35
Da nature e minor. Che se piu molli E piu tenui le membra, essa la
mente Men capace e men forte anco riceve. 1 So the idealist
skeptic of the nineteenth century aligns himself with the idealist
skeptic of the thirteenth, even to that last truly mediaeval touch — confusio
hominis est femina. And, if I have not somewhere gone off on a tangent, I
have described my circle. Guido's philosophy of love at least fits with
the hypothesis of his skepticism, and a practical consequence of both
would be that actual fickleness of heart to which tradition again bears
witness. 1 A ray celestial to my thought appeared, Lady, thy
loveliness. Similar effects Have beauty and those harmonies of
music Which the high mystery of unfathomed heavens Seem ofttimes to
illumine. Even so Enamoured man upon the daughter broods Of his own
fancy, the amorous idea, Which great part of Olympus comprehends,
In feature all, in manner, and in speech Unto the woman like, whom,
rapturous man, In his false lights he seems to see and love. Yet
her he doth not, but that other, even In corporal embracings, crave and
love. Until, his error and the intent transferred Perceiving, he
grows wrathful ; and oft blames With wrong the woman. To that ideal
height Rarely indeed the wit of woman rises ; And that which is in
gentle hearts inspired By her own beauty, woman dreams not of, Nor
yet might understand. No room have those Too straitened foreheads for
such thoughts. And fondly Upon the spirited flashing of that glance
Builds the infatuate man, and fondly seeks Meanings profound,
undreamt-of, and much more Than masculine, in one than man in all
By kind inferior. For if more tender, More delicate of limb, so with a
mind Less broad, less vigorous is she endowed.Guido Cavalcanti. Keywords:
lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e
anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo
come entelechia, sinolo perfetto, I due sinola, sinolo, Greco sinolon, da sin,
co- e holos, tutto. – l’amore come
incontro disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cavalcanti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691357581/in/photolist-2mN8u25-2mKMHH8-2mPV6V9-2mKHtgX-2mKBEmt
Grice e Cavallo – Frankenstein, homo
electricus – la morte di Fedro – fulminated by one of Giove’s lighnings -- elettrico
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Grice: “I love Cavallo, and so
did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t strictly
onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a couple
of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to …
electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a
‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that
it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still
sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine
abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore
di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche
studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia.
Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la possibilità
di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo elettroscopio.
Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un
medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni suoi
studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti, inventore
e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali, anche su
commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per chiarezza,
sistematicità e completezza. Si lo ricorda in particolare per i suoi studi
di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come gas portante.
E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità ascensionali
dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da Cavendish.
Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo salivano in
verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano inadatti
perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo pesanti per
sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non riusce a
trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta riempito di
gas. Cavallo, Tiberio. - Fisico (Napoli 1749 - Londra 1809); recatosi per
commercio in Inghilterra nel 1771, ivi si dedicò a ricerche di fisica e di chimica.
Già nel 1777 aveva intuito la possibilità del volo per via aerostatica,
mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito una serie di
ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con idrogeno. Deve
considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio. Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi
interessi includeno l’elettricità, lo sviluppo di strumenti scientifici, la
natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy
of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della
Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico.
Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso
citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro
tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle
osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto
dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In
seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti
sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi
volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas
e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso).
Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame
giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto”
(citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni
contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che
descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di
idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una
delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo
secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i
suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo
lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace
comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in
generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard.
Storia e pratica dell'aerostazione, Tiberio Cavallo. La piastra I, che illustra
l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La
piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la
generazione di idrogeno Cavallo pubblicò anche sul temperamento musicale nel
suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono
fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella
chitarra, ecc. Il memoriale di Burdett Coutts, Old St. Pancras. Il nome di
Cavallo è verso il basso, ma mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito,
fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras in una volta vicino a quella di
Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle
molte persone importanti sepolte in essa. Altre opere: Pubblica numerosi
lavori su diversi rami della fisic, tra cui: “Trattato completo di elettricità
in teoria e pratica” (Firenze: Gaetano Cambiagi); “Teoria e pratica
dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria e di
altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato completo sull'elettricità in
teoria e pratica”; “Storia e pratica dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”;
“Proprietà mediche dell'aria fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e
sperimentale”. Per la Cyclopædia di Rees ha contribuito con articoli su
Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma gli argomenti non sono noti. Un
resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici del Sig. Tiberio Cavallo comunicato
dal Sig. Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO
COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI DEL SIGNORE
TIBERIO CAVALLO TRADOTTO IN ITALIANO DALL'ORIGINALE INGLESE Con addizioni e
cangiamenti fatti dall' Autore, 9 FIRENZE MDCCLXXIX. PER GAETANO CAMBIAGI
STAMP. GRANDUCALE CON LICENZA DE SU PÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU
CLAVERING PRINCIPE E CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA
GRAN BRETTAGNA ec. AVoi folo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta
verſione dall'origi nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica
colle preſenti ſtampe e di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio.
Ella è d'uno della Voſtra Nazione, è ſtata intrapreſa per Voſtro comando, fatta
ſotto i Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro
copioſo ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune
vantag gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali.
Proſeguite come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa; mentre ſotto i
Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter
paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa 26. Marzo 1779. Umiliſſimo
Servo > IL TRADUTTORE VII A VV 1 SO DEL TRADUTTORE. " Mi ſarei
facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi
creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima, della ſtampa che
meditavo fare della preſente verſione, anco per ſentire da ello ſe avea niente
da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig. Ma
gellan alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta
parte, e traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che
foſſerofatti, come èſtato eſeguito, accompagnati con una corteſe let tera del
tenore ſeguente. Signore. Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune
poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero
inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E. lettricità. La prego fare
intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto
obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa, e che ſon pronto a
ſervirgli in quel poco che poſſo. Nov. 30. 1778. Suo Tiberio Cavallo, Sig.
Magellan Nevils Court Ferter Lane. 1 NEL TRATTATO DI CAVALLO SULL' ELETTRICITA'.
Pag. 2.8. v. 6. In vece di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad
alcune altre dure pietre prezioſe. Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz
nalmente concluderemo e finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente
omertere. Pag. DEL TRADUTTORE } Pag. 99. Il paragrafo che comincia Le caufe e
gli effetti ſono così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer
tezza epreciſione fi dee omettere affatto. Pag. 137. Alla nota in cui ſi
deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi: Il Dott. Higgins
ha ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di
ſtagno, perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più
potentemente, ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di
fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer. curio
meſcolati inſieme. Pag. 279. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più
toſto recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente
verſo ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono
ometterſi, cioè dee dir così, non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À
VVISO 1 Pag. 335.v.8. Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere
in parità di circoſtanze. Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol.
XLVIII. e LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio
Lettore che la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono
ſtati ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il
Sig. PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità
promoſſo queſto lavoro. In tanto vivi felice, e godi di queſta fatica. 1. 1 i r
1 PRE 2 XI PREFAZIONE DELL'AUTORE. HL diſegno di queſto Trattato è di pre
ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri
cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può
tollerare. Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono
contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col
rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto, che poteſſe eſſere un mezzo
da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi
erano prima refa molto familiare queſta materia. La prima parte tratta
ſolamente delle leggi dell'elettricità; cioè di quelle leggi naturali relative
all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono tro ) 1 XII
PREFAZIONE il trovate coſtantemente vere, e che non dipendono da veruna
ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità, la
quale non foſſe chiaramente ſicura, o la quale foſſe di poca conſeguen za; ma
nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante, o che
ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote
tica, non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande
improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore
a renderla più breve che foſſe poſſibile. La parte terza contiene la pratica
dell' elettricità. Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di
tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato, i quali nel tempo medeſimo
ſervono a minorare la fpefa, e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In
riguardo agli eſperimenti mede 1 DELL' AUTORÉ. XIII medeſimi, egli ha
principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più
neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi dell'elettricità, omettendo un
gran numero d'altri che ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa
va rjati. Egli niente di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che
quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero però meritare che ſene
defle notizia. La quarta ed ultima parte contiene un breve ragguaglio dei
principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto
gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte di fi loſofia. Quì egli
ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto
verun conſiderabile effet to, maancora d'innumerabili congetture che ha formato
intorno a' medeſimi, e intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza
dell'attuale oſſervazione. L'au XIV PREPAZIONE · L'autore prende queſt'
opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per
diverſe eſperienze comunicategli, e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il
quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità
che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera. Non è ſembrato
neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni
recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo; per lo che l'autore
ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve,
o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia. Per rendere il
trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e
un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione. Neroduzione
pag. 1. PARTE PRIMA.. Leggi fondamentali dell'elettricità. II. CA P. I.
Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati
nelle lettricità CA P. II. Degli elettrici, e dei conduttori.... 15. CA P. III.
Delle due elettricità 24 CA P. IV. Dei differenti metodi di eccitare gli elet
trici. Dell elettricità comunicata 48. CA P. VI. Dell' elettricità comunicata
agli elettri ci. 63. CA P. VII. Degli elettrici caricati, ovvero della Boc cia
di Leida '. 71. CA P. VIII. Dell elettricità atmosferica go. CA P. IX. Vantaggi
derivati dall elettricità....96. CA P. X. Che contiene un proſpetto compendioſo
del le proprietà principali dell elettrici tà. 119. PAR 4 XVII 1 PARTE SECONDA.
Teoria dell'elettricità, CA P. I. Ipoteſi dell' elettricità poſitiva, e negati
Va 126. CA P. II. Della natura del fluido elettrico 136. CA P. III. Della
natura degli elettrici, e dei con duttori... 149 CA P. IV. Del luogo occupato
dal fluido elettrico. 153. PARTE TERZA. Elettricità pratica. CA P. J.
Dell'apparato elettrico in generale. 101. CA P. II. Deſcrizione d' alcune
particolari macchine elettriche 387. CAP. XVIIL ze... CA P. III.
Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato elettrico.
200. CA P. IV. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato elettrico, ed
il fare l'eſperien 216. CA P. V. Sperimenti relativi all'attrazione, e re
pulſione elettrica 226. CA P. VI... Sperimenti ſulla luce elettrica... 262 CA
P. VII. Sperimenti colla bottiglia di Leida. 289. CA P. VIII. Sperimenti con
altri elettrici caricati. 3 34. CA P. IX. Sperimenti ſull' influenza delle
punte, e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per difendere gli
edifizj dagli effetti del fulmine 345 CAP. 1 1 1 1 XIX са CA P. X. Elettricità
medica...... 364 CA P. XI. Sperimenti fatti con la batteria elettri 369. CA P.
XII. Sperimenti promiſcui 384. CA P. XIII. Ulteriori proprietà della boccia di
Leida ovvero degli elettrici caricati. 409. PARTE QUARTA. Nuovi ſperimenti
dell' elettricità.. 413. CA P. I.. Coſtruzione dell' aquilone elettrico, e di
altri ſtrumenti uſati con ello 421. CA P. II. Sperimenti fatti con l' aquilone
elettri 435. co CAP. XX CA P. III... Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe
rico, e coll' elettrometro per la prog gia. 405. CA P. IV. Sperimenti fatti
coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire l'elettricità
perpetua · 474 CA P. V. Sperimenti ſu i colori. 487 CA P. VI. Sperimenti
promiſcui 494. Indice 505....... IN 1 INTRODUZIONE L E arti e le ſcienze a
guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di
gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano l'umana attenzione, e
fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo divengono l'oga getto
favorito e la moda del ſecolo; ma queſti periodi terminan preſto, e pochi anni
di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione. Da
queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti, le
quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle
fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano, ſono ſempre flo ride; e ſebbene
una volta ſiano ſtate in А CO INTRODUZIONE cognite, pure quando la fama ne ha
fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli, giammai dopo
declina no, e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono. Di
queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra
tutte le parti della Filoſofia naturale, che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo.
Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua
forza, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura, è
ſtata ſempre in voga, è ſtata col maſſimo profitto coltivata, e ſenza
interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi, che ora è ridotta a uno ſtato in
cui in vece di divenire ſterile, ſembra ulteriormente impegnare la generale at
tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe.
Gli Ottici è vero, moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà, ma ſempre
relative alla ſola viſione: il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione, re
pultione, e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama
ca lamita; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi:
ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola
eſibiſce gli effetti di molte ſcienze, combina in ſieme le diverſe energie e
ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra, dà piacere ed è di
grand'uſo all'igno rante ugualmente che al Filoſofo, all' opulento ugualmente
che al povero. Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante
luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua
attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi, reſtiamo
ſorpreſi dall'urto, atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria; ma
quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2, CO 4 INTRODUZIONE come cauſa del
tuono, del fulmine, dell' aurora boreale, e di altri fenomeni na turali, i cui
terribili effetti poliamo in parte imitare, ſpiegare, ed anche allon tanare,
allora sì che reſtiamo attoniti per la maraviglia, la quale non ci per mette di
contemplare altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e
della ſorpreſa. Il più remoto rag guaglio a noi cognito, che abbiamo di qualche
effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto
che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto. Ei ci dice che l'ambra il cui
nome greco è nextpor, e da cui il nome d'E lettricità è derivato, come pure il
Lin curio (1 ) poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri. Queſto
ſolamente era tutto cio (1 ) E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin
curio di Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di
cui avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto trattato. 1 INTRODUZIONE
5 ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto, nel
qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona
che abbia fatto veruna ſcoperta, e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di
Filoſofia, eſſendo rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo
di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe, che viveva ful principio del decimo
fertimo ſecolo; ed il quale a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e
inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre della preſente Elettricità.
Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi leg gieri dopo la
confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o del Lincurio, ma che
molti altri corpi la poſſeggono egualmente. Rammenta un gran numero di queſti e
nel medeſimo tempo varie particolarità, che conſide rando lo ſtato della
ſcienza in quel ſe colo poſſono ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo
Gilbert la ſcienza avanzando benchè con piccoli progrefli, paſsò per così dire
dall'infanzia alla puerilità, a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad
eſaminare la natura in queſte ope razioni. Tale fu Franceſco Bacone, Ro berto
Boyle, Ottone Guericke, Iſacco Newton, e più di tutti il Sig. Hawkesbee
ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati per alcune importanti ſcoperte e per il
reale avanzamento dell'Elettricità. Il Sig. Hawkesbee fu il primo che oſſervò
la gran forza elettrica del vetro, ſoſtanza che fin da quel tempo fu
generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in preferenza di qualunque altro
elettrico. Egli fu il primo che notaſie le varie apparenze della luce elettrica
e il fragore accom pagnato con eſſa, inſieme con una varietà di fenomeni
relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica. Do INTRODUZIONE 7 Dopo il Sig.
Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata, rimaſe
quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete, eſſendo l'attenzione dei Filoſofi
in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle
nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora grandemen. te in
reputazione. Il Sig. Grey fu il pri-, mo dopo queſto periodo d' oblivione a
portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo. Egli mediante le gran ſcoperte
che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire
che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità. Il numero
degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig. Grey,
le ſcoperte fatte, e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente, fono
materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lun 1 1 8
INTRODUZIONE 1 lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere. Chiunque
vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza, legga
l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Prieſtley,
opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto
ſoggetto fino alla ſua pubblicazione. Io per me mi diſpenſerò dal farre un
lungo dettaglio iſtorico; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio
dello ſtato preſente dell'Elettricità, e non a for marne un'iſtoria. Soltanto
oſſerverò in generale, che quantunque la ſcienza ab bia, mediante l'indefella
attenzione di molti ingegnoſi foggetti, e mediante le ſcoperte che furono
giornalmente pro dotte, eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro
attenzione; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o
grande, cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione, ſe i loro
effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino
all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi. La ſua attra zione
può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita, la ſua luce dal fosforo, e in
una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto
della pubblica attenzione, e ad eccitare una generale curioſità, fin che non fu.
accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza, in ciò che
ſi chiama boccia di Leida in ventata dal Sig. Muſchenbroeck nel 1746. Allora lo
ſtudio dell' Elettricità divenne generale, ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore, e
invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello
che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico
ſpe rimento. Dal perta del 1 5 INTRODUZIONE 1 Dal tempo di queſta ſcoperta il
pro digioſo numero d'elettriciſti, di ſperi menti, e di fatti nuovi che ſono
ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del
mondo, è quafi incredibile. Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte, i
megliora menti ſopra altri meglioramenti, e la ſcienza da quel tempo fece un
così ra pido corſo, ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità, che ſembra che
il fog getto dovrebbe eſſere tutto eſaurito, e gli elettriciſti pervenuti al
fine delle loro ricerche: per altro non è così. Il non plus ultra è con tutta
probabilità ancora molto lontano, e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un
vaſto campo che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette
ulteriori ſcoperte forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che
ſono ſtate già fatte.Of Natural Philosophy;—~its Name;•—its Objeft —its Axioms;
—and the Rules of Philofophizing. T HE word Philofophy, though ufed by ancient
authors in fenfes fomewhat different, does, however, in its moft ufual
acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided into moral and
natural. Moral philofophy treats of the manners, the duties, and the condud of
man, confidered as a rational and focial beings but the bufinefs of natural
philofophy, is to colled the hiftory of the phenomena which take place amongft
natural things, viz. among# the bodies of the Univerfes to inveftigate their
caufes and effeds; and thence to deduce fuch natural laws, as may afterwards be
applied to a variety of ufeful purpofes*. Natural * The word philofophy is of
Greek origin. Pitagoras, a learned Greek, feems to have been the firfl who
called himfelf philofopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom.
2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies; and the aflemblage
or fyftem of them all is called the univerfe. The word phenomenon fignifies an
appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is perceived by our
fenfes*. Thus the fall of a ftone, the evaporation of water, the folution of
fait in water, a tlafh of lightning, and fo on; are all phenomena. As all
phenomena depend on properties peculiar to different bodies; for it is a
property of a ftone to fall towards the earth, of the water to be cvaporable,
of the fait to be foluble in water, &c. therefore v/e fay that the bufinefs
of natural philofophy is to examine the properties of the various bodies of the
univerfe, to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful deductions.
Agreeably dom, from the words piaoj, a lover or friend, and croplxi, of
knowledge or wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos, or its
plural mores, fignifying manners or behiyiour. It has been likewife called
ethics, from the Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy has
alfj been called p hylics, phyfology, and experimental phi Ifophy: The ftrft of
thofe names is derived from nature, or gv-T.hr., natural; the fecond is derived
from pvair, nature, and >. a dijeourfe; the laft deno nination, which was
introduced not many years ego, is obvioufly derived from the juft method of
experiment. ' inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee the r
P.vul of learnin-"- 'n Europe. * Phenomenon, whofe plural is phenomena,
owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules of
Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will find in the courfe of this
work, an account of the principal properties of natural bodies, arranged under
diftincft heads, with an explanation of their efFefts, and of the caufes on
which they depend, as far as has been afeertained by means of reafoning and
experience; he will be informed of the principal hypothefes that have been
offered for the explanation of faffs, whofe caufes have not yet been
demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of nature, or of
fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar facts; and,
laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical inflruments,
and in the mode of performing the experiments that may be thought neceffary
either for the llluftration of what has been already afeertained, or for the
farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not fay much
with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its application and
its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom, will be eafily
fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes place about us.
The properties of the air we breathe; the action and power of our limbs; the
light, the found, and other perceptions of our fenfes; the adcions of the
engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c.; the viciffitudes of
the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io forth; do all fall
under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in general; the
philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them. A very flight
acquaintance with the political ftate of the world, will be fufficient to fhew,
that the cultivation of the various branches of natural philofophy has actually
placed the Europeans and their colonies above the reft of mankind. Their.
difcoveries and improvements in aftronomy, optics, navigation, chemiftry,
magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which depend on thofe and other
branches of philofophy, have fupplied them with innumerable articles of ufe and
luxury, have multiplied their riches, and have extended their powers to a
degree even beyond the expectations of our predeceffors. The various properties
of matter may be divided into two claffes, viz. the general properties, which
belong to all bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to
certain bodies only, exclufively of others. In the firft part of this work we
fhall examine the general properties of matter. Thofe which belong to certain
bodies only, will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall
examine the properties of fuch fubftances as may be called hypothetical; their
exiftenee having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall
extend our views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number,
the movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules
of Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached
articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines,
&c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The
axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and
conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be
fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence,
JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot
be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily
admit, the propriety of this axiom; feeing that a great many things appear to
be utterly deftroyed by the action of fire; alfo that water may be caufed to
difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that
in thofe cafes the lubftances are not annihilated; but they are only difperfed,
or removed from one place to another, or they are divided into particles fo
minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the
fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain, the
weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of the
original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3
its 6 O/Philosophy in general; its component fubdances, which the atdion of the
fire drives different ways: the fluid part, for inftance, becomes fleam, the
light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed through the air,
&c. And if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded
together, (which may in great meafure be done), the fum of their weights would
equal the weight of the original piece of wood. IV. Every effect has, or is
produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved
with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been
conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled either
by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they are as
evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe
limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and
whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings. Having
dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to
mention the rules of philofophizing, which have been formed after mature
confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in
order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the
attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four;
viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes
of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in the
appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as
poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not
capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies
within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities
ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon
propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or
very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined,
till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected,
or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of
evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to
remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute
certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter
fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as
to convey perfect convi&ion to the mind; nor can any of them be denied
without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that
becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain
circumftances; therefore they will moft likely continue to bV produced as long
E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl; and
likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And
this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined
in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies,
and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain
confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch
confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned,
the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the
principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable,
according as the principles upon which they depend are true, or faife, or
probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty,
does always direct itfelf to certain parrs of the world; upon which property
the mariner’s compafs has been conftructed; and it has been likewife obferved,
that this directive property of a natural or artificial magnet, is not
obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or,
in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and
ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally
follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of
any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft
anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of
Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain
as a geometrical one; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly
probable; for though all the bodies that have been tried with this view, iron
excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet
or magnetic needle, yet we are not certain that a body, or fome combination of
bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property.
Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm;
my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which
ought to be annexed tophyfical knowledge; fo that the ftudent of this fcience
may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt
adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency
in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various
branches of mathematics, at leaft with the elements of geometry, arithmetic,
trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or
fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers,
whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible;
and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute
date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the
Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. 10 A General Idea
of Matter, conic fedions; for fincc almoft every phyfical effed depends upon
motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities,
powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical
knowledge; which fcience may in truth be called the language of nature. Mary
Shelley Who put the spark in Frankenstein’s monster? On the 200th anniversary
of Mary Shelley’s gothic horror, a new edition discusses its roots in
experiments with electricity on the dead Jamie Doward Sun 4 Mar 2018
09.00 EST Share on FacebookShare on TwitterShare via Email 4 years old It
is one of the most famous novels of all time, often cited as the first work of
science fiction, with a genesis almost as well known as its terrifying central
character. Mary Shelley’s Frankenstein: or the Modern Prometheus was
published 200 years ago in 1818, when she was just 21. It was the result of a
challenge laid down in 1816 by Lord Byron, when Shelley and her lover – later
her husband – Byron’s fellow poet Percy Bysshe Shelley were holidaying at Lake
Geneva in Switzerland. The party had hoped for good weather, but the
eruption of a volcano in the East Indies in 1815, the greatest event of its
kind in recorded history, had ushered in three years of bone-chilling cold that
killed crops and cast a shadow across Europe. As they huddled for warmth around
a fire one night, Byron suggested each of them should write a horror
story. For days Shelley suffered writer’s block until she came up with
the idea of a scientist who reanimated a creature stitched together from body
parts, only to be horrified by his success. Some believe Shelley was inspired
by a trip to Germany, where she is thought to have learned the legend of
Frankenstein Castle and one of its 17th-century inhabitants, an alchemist
called Johann Conrad Dippel, who was rumoured to have exhumed bodies for
experimentation. But it now appears Shelley’s true source of inspiration
for Victor Frankenstein’s monster was considerably closer to home. In a
foreword to a new edition of the classic, to be published by Oxford University
Press next month, Nick Groom, of Exeter University, sometimes referred to as
the “Prof of Goth”, suggests it was her husband’s fascination with galvanism –
chemically generated electricity – that sparked her imagination. Mary
Shelley.Mary Shelley. Photograph: Getty Images Percy Shelley, one of Britain’s
most cherished Romantic poets and author of the celebrated sonnet Ozymandias,
was fascinated by science, in particular the creation of electricity. “He was
very excited by galvanic apparatus,” Groom explained. “His sister, Helen, would
recall that he would, as she put it, ‘practise electricity upon us’. He used to
make all the family sit around the dining room table holding hands, and he’d
turn up with some brown paper, a bottle and a wire and they’d all get
electrocuted.” On one occasion Percy even threatened to electrocute the
son of his scout at Oxford University. Mary and Percy enjoyed a symbiotic
working relationship. She corrected his proofs and he helped edit Frankenstein.
But Groom is clear that the book was, contrary to what some have argued, Mary’s
creation. “The work is by her and should be attributed to her.” Sent down
in 1811 from Oxford for co-authoring a pamphlet on atheism, Percy attended
anatomy classes for a term at St Bartholomew’s hospital in London.. “One of the
things she would have got from talking to her husband about laboratories was
that they were really filthy places,” Groom said. “The cadavers would be in a
state of advanced putrefaction when they arrived. These were not antiseptic
places full of chaps in white coats. They were unpleasant. The word filthy
turns up a lot in Frankenstein. There was something really disreputable about
medical science, which Mary Shelley is fascinated in.” She would have
been aware of notorious public experiments involving galvanism. “There was a
particularly chilling one in London in 1803 when galvanism was used on the body
of an executed criminal,” Groom said. “The very first thing that happened was
that the corpse opened its eyes. A very Frankenstein moment.” At the time
Mary was writing, the rights of animals had become a concern for many of the
intelligentsia. “The being that Victor creates knows he’s not human but still
believes that he should have rights,” Groom said. “Part of the conundrum of the
novel is, do you afford comparable rights to non-human sentient
creatures?” Two centuries on, the novel continues to shape contemporary
thinking, Groom suggested, posing questions about matters such as artificial
intelligence and genetic modification. But Mary’s astonishing foresight
has yet to be fully recognised. “Her reputation has been overtaken by the
films, which have oversimplified these questions in ways that don’t really
reflect the sophistication of her novel,” Groom said. “Boris Karloff’s monster
has none of the subtlety that the being has in the novel. He’s not a zombie,
he’s intelligent and sentient. “People need to see this as a novel for
today. It’s very much entangled with the pressing questions of humanity, which
still concern us.”Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico,
filosofia naturale, filosofia trans-naturale, la rana ambigua. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774090555/in/dateposted-public/
Grice e Cazzaniga –
l’iniziazione – You only get first penetrated once – BACCHANALIUM -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he
shows that latitdunial unity is not a myth! He has researched on Cocconato –
and he has seriously spoken of the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is
crosses the longitudinal and latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s
no such thing as societies; only individuals! The ‘catene d’unione’ is
represented most easily by a handshake, but this is in a catena usually a
circle – need it be a close circle? It should be! Perhaps Austin and the Play
Group formed such a circle!” -- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia
a Milano. Si laurea a Pisa con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il
potere operaio. Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxista
dello sviluppo, Napoli, Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS);
Metamorfosi della sovranità: fra stati nazionali e ordinamenti giuridici
mondiali. Società geografica italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come
sistema simbolico "Belfagor" (LV); Le Muse in loggia. Massoneria e
letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia d'Italia. Annali 21: La
Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali 25: Esoterismo, Torino,
Einaudi). Gian Mario Cazzaniga, “Massoneria e letteratura: Dalla 'République
des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia, ed. Gian
Mario Cazzaniga et al. (Milan: Unicopli, 2002), Gian Mario Cazzaniga,
“Origine ed evoluzione dei rituali carbonari italiani,” in Cazzaniga, La
Massoneria, Chi anche in questa fine di millennio continua a nutrire
interesse per la storia delle vicende umane, per la storia delle idee e dei
tentativi messi in atto per concretarle - soprattutto se le idee in questione
sono quelle di libertà, fraternità, uguaglianza - trova in libreria un testo di
sicuro interesse: “La religione dei moderni”. Convinto con Eraclito che per
trovare oro è necessario scavare molta terra, Cazzaniga ha dissodato a fondo un
terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago multiforme e delirante della
massoneria e delle sue sette. Il risultato è però la dimostrazione di come la
nottola di Minerva possa tornare con un bottino non solo erudito, ma capace
anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione spiccando con metodo il
suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali in cui vivono
illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini Senza Dio) e come
diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i mille e mille fratelli
costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e un templi alla virtù.
Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi intellettuali italiani: e
anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet, Fichte, Heine. Chi
indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere massoneria e
piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più nobili e rilevanti
di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato praticamente ogni
ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... - risultati
costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e chi ha
spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido, raffinato e
dalla ben nota militanza nel movimento operaio come Cazzaniga, il saggui non
manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una filosofia curiosa
dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e attenta ai valori
della differenza, nutrita da quella passione per le radici culturali del nostro
mondo che già aveva indotto Cazzaniga a esplorare "Fin'amors e cortezia
nella poesia trabadorica" quali matrici dello "spirito laico".
Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx che, in compagnia di
Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi alla luce delle
esperienze realizzate della critica pratica del cervello sociale messo in moto
dalla Rivoluzione Francese. Cazzaniga stesso segnala il debito con i dioscuri
fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità
citando a conclusione del commento su Nicolas de Bonneville le parole che hanno
costituito l'input decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle
social indicato dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento
rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge
rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base
della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i
membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria
pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel
terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e
le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi
moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale
dalle guerre di religione del Cinquecento-Seicento. Per molti cittadini della
République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una
società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile
convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel
legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo
protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione
naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e
neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea
di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale
di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi
dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la
ricerca di Cazzaniga trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa
intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica,
identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del
mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla
convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio"
di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum
ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma
politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che
poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente
ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti
politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia
rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al
tempismo di Cazzaniga è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo
intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme
a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha
cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando
pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della
modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi
partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la
modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto
"lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità,
è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva
indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il
comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo
vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia
sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica,
ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del
ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la
società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e
tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio
per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione riveli la sua personale cifra ideologica e la
passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria,
cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa,
inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a
tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a cimentarsi.
THE MASCULINE CROSS t
PHALLIC WORSHIP
PHALLIC WORSHIP A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES
OF THE SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS WITH THE
HISTORY OF THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF
PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM, BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL
RITES, AND THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS LONDON
PRIVATELY PRINTED 1880
PREFACE The present somewhat slight sketch of a most
interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet embraces
the cream, so to speak, of various learned works of great cost, some of
which being issuedfor private circulation only, are almost
unobtainable. During the past few years several books have been
written upon Phallicism in conjunction with other kindred matters,
but not devoting themselves entirely to one ancient mystery, the writers
have only partially ventilated the subject. The present work seeks to
obviate this failing by confining its attention entirely to the Sex Worship
or Phallicism of the ancient world. Many of the topics have
received only slight treatment, being little more than indicated ; but
the work will enable the reader to understand and possess the truth
concerning the Phallic Worship of the Ancients. Those who
desire to know more, or to authenticate the statements and facts given in
this book, should consult the large and important works of Payne Knight,
Higgins, Dulaure, Kolle, Inman, and other writers. It was
intended to give with this volume a list of works and miscellaneous
pieces written on the subject, but the length of the list prevented its
being added. PHALLIC WORSHIP NATURE AND
SEX WORSHIP Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient
times, sometimes contemporaneous and often mixed with Star, Serpent, and
Tree Worship. The powers of nature were sexualised and endowed with the
same feelings, passions, and performing the same functions as human
beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or
the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the same—the veneration
of the generative principle. Thus we find a close relationship between
the various mythologies of the ancient nations, and by a comparison
of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring from the same
source, namely, the worship of the forces and operations of nature, the
original of which was doubt¬ less Sun worship. It is not necessary to
prove that in primitive times the Sun must have been worshipped
under various names, and venerated as the Creator, Light, Source of Life,
and the Giver of Food. In the earliest times the worship of the
generative power was of the most simple and pure character, rude in
manner, primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme
power, the Author of life. Afterwards the worship became more
depraved, a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a
priest- 8 Phallic Worship hood who were
not slow to take advantage of this state of affairs, and inculcated with
it profligate and mysterious ceremonies, union of gods with women,
religious prosti¬ tution and other degrading rites. Thus it was not
long before the emblems lost their pure and simple meaning and
became licentious statues and debased objects. Hence we have the
depraved ceremonies at the worship of Bacchus, who became, not only the
representative of the creative power, but the God of pleasure and
licentiousness. The corrupted religion always found eager
votaries, willing to be captives to a pleasant bondage by the
impulse of physical bliss, as was the case in India and Egypt, and among
the Phoenicians, Babylonians, Jews and other nations. Sex
worship once personified became the supreme and governing deity,
enthroned as the ruling God over all; dissent therefrom was impious and
punished. The priests of the worship compelled obedience; monarchs
complied to the prevailing faith and became willing devotees to the
shrines of Isis and Venus on the one hand, and of Bacchus and Priapus on
the other, by appealing to the most animating passion of nature.
PHALLICISM This is the worship of the reproductive powers,
the sexual appointments revered as the emblems of the Creator. The
one male, the active creative power; the other the female or passive power
; ideas which were represented by various emblems in different
countries. Phallic Worship 9 These
emblems -were of a pure and sacred character, and used at a time when the
prophets and priests spoke plain speech, understood by a rude and
primitive people ; although doubtless by the common people the
emblems were worshipped themselves, even as at the.present day in
Roman Catholic countries the more ignorant, in many cases, actually
worship the images and pictures themselves, while to the higher and more
intelligent minds they are only symbols of a hidden object of worship. In
the same manner, the concealed meaning or hidden truth was to the
ignorant and rude people of early times entirely unknown, while the priests
and the more learned kept studiously concealed the meaning of the
ceremonies and symbols. Thus, the primitive idea became mixed with
profligate, debased ceremonies, and lascivious rites, which in time
caused the more pure part of the worship to be forgotten. But Phallicism
is not to be judged from these sacred orgies, any more than
Christianity from the religious excitement and wild excesses of a
few Christian sects during the Middle Ages. In a work on the
“ Worship of the Generative Powers during the Middle Ages,” the writer
traces the superstition westward, and gives an account of its prevalence
through¬ out Southern and Western Europe during that period.
The worship was very prevalent in Italy, and was invariably carried
by the Romans into the countries they conquered, where they introduced
their own institutions and forms of worship. Accordingly, in Britain
have been found numerous relics and remains; and many of our
ancient customs are traced to a Phallic origin. “ When we cross over to
Britain,” says the writer, “ we find this worship established no less
firmly and extensively in that island; statuettes of Priapus, Phallic
bronzes. IO Phallic Worship pottery
covered with obscene pictures, are found wherever there are any extensive
remains of Roman occupation, as our antiquaries know well. The numerous
Phallic figures in bronze found in England are perfectly identical
in character with those that occur in France and Italy.” All
antiquaries of any experience know the great number of obscene subjects
which are met with among the fine red pottery which is termed Samian
ware, found so abundantly in all Roman sites in our island. “ They
represent erotic scenes, in every sense of the word, with figures of
Priapus and Phallic emblems.” PHALLUS The Phallus, or
Lingam, which stood for the image of the male organ, or emblem of
creation, has been worshipped from time immemorial. Payne Knight
describes it as of the greatest antiquity, and as having prevailed in
Egypt and all over Asia. The women of the former country carried in
their re¬ ligious processions, a movable Phallus of
disproportionate magnitude, which Deodorus Siculus informs us
signified the generative attribute. It has also been observed among
the idols of the native Americans and ancient Scandinavians, while the
Greeks represented the Phallus alone, and changed the personified
attribute into a distinct deity, called Priapus. Phallus, or
privy member (membrum virile), signifies, “ he breaks through, or passes
into.” This word survives in German pfahl, and pole in English. Phallus
is supposed Phallic Worship ii to
be of Phoenician origin, the Greek word pallo, or phallo , “ to brandish
preparatory to throwing a missile,” is so near in assonance and meaning
to Phallus, that one is quite likely to be parent of the other. In
Sanskrit it can be traced to phal, “ to burst,” “ to produce,” “ to
be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and is also the
name of Siva and Mahadeva, who are Hindu deities. Phallus, then, was the
ancient emblem of creation: a divinity who was companion to
Bacchus. The Indian designation of this idol was Lingam, and
those who dedicated themselves to its service were to observe inviolable
chastity. “ If it were discovered,” says Crawford, “ that they had in any
way departed from them, the punishment is death. They go naked, and
being considered as sanctified persons, the women approach without
scruple, nor is it thought that their modesty should be offended by
it.” SYMBOLS OR EMBLEMS The Phallus and its emblems
were representative of the gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris,
Baal, and Asher, who were all Phallic deities. The symbols were
used as signs of the great creative energy or operating power of God from
no sense of mere animal appetite, but in the highest reverence. Payne
Knight, describing the emblems, says :— “ Forms and
ceremonials of a religion are not always to be understood in their direct
and obvious sense, but 12 Phallic Worship
are to be considered as symbolical representations of some hidden
meaning extremely wise and just, though the symbols themselves, to those
who know not their true signification, may appear in the highest degree
absurd and extravagant. It has often happened that avarice and
superstition have continued these symbolical repre¬ sentations for ages
after their original meaning has been lost and forgotten; they must, of
course, appear nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.
Such is the case with the rite now under consideration, than which
nothing can be more monstrous and indecent, if considered in its plain
and obvious meaning, or as part of the Christian worship ; but which will
be found to be a very natural symbol of a very natural and
philosophical system of religion, if considered according to its
original use and intention.” The natural emblems were those
which from their character were most suitable representatives; such as
poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu, Egyptian, and Jewish
divinities. Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone,
to be found at Narmada and other places, which is sacred to the
Hindu deity Siva; these emblem stones were anointed, like the stone
consecrated by the Patriarch Jacob. Blavalsky further says
that these stones are “ identical in shape, meaning, and purpose with the
* pillars ” set up by the several patriarchs to mark their adoration of
the Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might even
now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta without its Hebrew
derivation being suspected.” Phallic Worship
13 THE POLE The Pole was an emblem of the Phallus, and
with the serpent upon it, was a representative of its divine wisdom
and symbol of life. The serpent upon the tree is the same in character,
both are representative of the tree of life. The story of Moses will well
illustrate this, when he erected in the wilderness this effigy, which
stood as a sign of hope and life, as the cross is used by the
Catholics of the present day ; the cross then, as now, being simply
an emblem of the Creator, used as a token of resurrection or
regeneration. iEsculapius, as the restorer of health, has a rod or
Phallus with a serpent entwined. The Rev. M. Morris has shown that
the raising of the May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom
of India or Egypt, and is typical of the fructifying powers of
spring. The May festival was carried on with great
licentious¬ ness by the Romans, and was celebrated by nearly all
peoples as the month consecrated to Love. The May-day in England was the
scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to the Roman
Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a relic
of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the
licentious character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan
writer in the reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England: “
Every parishe, towne, and village assemble themselves together,
bothe men, women, and children, olde and younge even indiffer¬
ently ; and either goyng all together, or devidyng themselves into
companies, they go some to the woods and groves, some to one place, some
to another, where thei spend all the night in pleasant pastymes; and in
the 14 Phallic Worship mornyng they
returne, bryngyng with them birch bowes and branches of trees, to deck
their assemblies withall. . . . But their cheerest jewell thei bryng from
thence is their Maie pole, whiche thei bryng home with great
veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke of oxen, every oxe
havyng a sweet nosegaie of flowers placed on the tippe of his homes, and
these oxen drawe home this Maie pole (this stinckyng idoll rather),
which is covered all over with flowers and hearbes, bound rounde
aboute with strynges from the top to the bottome, and sometyme painted
with variable colours, with two or three hundred men, women, and
children, foliowyng it with great devotion. And thus beyng reared up,
with handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei strawe
the grounde aboute, binde greene boughes aboute it, sett up sommer
haules, bowers, and arbours hard by it. And then fall thei to banquet and
feast, to leape and daunce aboute it, as the heathen people did at the
dedication of their idols, whereof this is a perfect patterne, or
rather the thyng itself.” The ceremony was almost identical
with the Roman festival, where the Phallus was introduced with garlands.
Both were attended with the same licentiousness, for Stubbes gives a
further account of the depravity attending the festivities.
PILLARS Another type of emblem was the stone pillar, remains
of which still exist in the British Isles. These pillars or so
called crosses generally consist of a shaft of granite with
Phallic Worship i5 a carved head. In the West
of England crosses are very common, standing in the market and receiving
the name of “ The Cross.” These stone pillars were first
erected in honour of the Phallic deity, and on the introduction of
Christianity were not destroyed, but consecrated to the new faith,
doubtless to honour the prejudices of the people. These monolisks abound
in the Highlands, they are stones set up on end, some twenty-four or
thirty feet high, others higher or lower and this sometimes where no such
stones are to be quarried. We learn that the Bacchus of the
Thebans was a pillar. The Assyrian Nebo was represented by a plain
pillar, consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an
account of this practice, as also does Theophrastus, who speaks of it as
a custom for a superstitious man, when he passed by these anointed stones
in the streets to take out a phial of oil and pour it upon them and
having fallen on his knees to make his adorations, and so depart.
In various parts of the Bible the Pillar is referred to as of a
sacred character, as in Isaiah xix. 19, 20, “In that day shall there be
an altar to Jehovah in the midst oi the land of Egypt, and a pillar at
the border thereof to Jehovah, and it should be for a sign and a witness
to the Lord.” The Orphic Temples were doubtless emblems of
the same principle of the mystic faiths of the ancients, the same as
the Round Towers of Ireland, a history of which was collected by O’Brien,
who describes the Towers as “ Temples constructed by the early Indian
colonists of the country in honour of the 'Fructifying principle of
nature, emanating as was supposed from the Sun, or the deity of desire
instrumental in that principle of universal generativeness diffused
throughout all nature.” i6 Phallic Worship
According to the same author these towers were very ancient, and
of Phoenician origin, as similar towers have been found in Phoenicia. “
The Irish themselves,” says O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that
is the tower of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and
the priest who attended them * Aoi Bail-toir ’ or superin¬ tendent
of Baal tower.” This Baal was worshipped wherever the Phoenicians went,
and was represented by a pillar or stone or similar objects. The stone
that Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship,
became afterwards an object of worship to the Phoenicians. The
earliest navigators of the world were the Phoenicians, they founded
colonies and extended their commerce first to the isles of the
Mediterranean, from thence to Spain, and then to the British Isles.
Historians have accorded to them the settlements of the most remote
localities. They formed settlements in Cyprus, and Atticum, according to
Josephus, was the principal settle¬ ment of the Tyrians upon this island.
Strabo’s testimony is, that the Phoenicians, even before Homer, had
possessed themselves of the best part of Spain. Where the
Phoenicians settled, there they introduced their religion, and it is in
these countries we find the remains of ancient stone and pillar
worship. LOGGIN STONES, ETC. Loggin stones are by
Payne Knight considered as Phallic emblems. “ Their remains,” he says, “
are still extant, and appear to have been composed of a crone set
into the ground, and another placed upon the point of
Phallic Worship 17 it and so nicely balanced
that the wind could move it, though so ponderous that no human force,
unaided by machinery, can displace it; whence they are called *
logging rocks * and * pendre stones,’ as they were anciently * living
stones ’ and * stones of God,’ titles which differ very little in meaning
from that on the Tyrian coins. Damascius saw several of them in the
neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria, particularly one which
was then moved by the wind; and they are equally found in the Western
extremities of Europe and the Eastern extremities of Asia, in
Britain, and in China.” Bryant mentions it as very usual
among the Egyptians to place with much labour one vast stone upon
another for a religious memorial. Such immense masses, being
moved by causes seeming so inadequate, must naturally have conveyed the
idea of spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded
them that they were animated by an emanation of the vital spirit, whence
they were consulted as oracles, the responses of which could always be
easily obtained by interpreting the different oscillatory movements
into nods of approbation or dissent. Phallic emblems abounded
at Heliopolis in Syria, and many other places, even in modern times. A
physician, writing to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last
winter (1865-66), and there certainly are numerous figures of gods
and kings, on the walls of the temple at Thebes, depicted with the male
genital erect. The great temple at Karnak is, in particular, full of such
figures, and the temple of Danclesa likewise, though that is of much
later date, and built merely in imitation of old Egyptian art. The
same inspiring bas-reliefs are pointed out by Ezek. B
i8 Phallic Worship xxiii. 14. I remember one scene of
a king (Rameses II) returning in triumph with captives, many of whom
were undergoing the process of castration.” Obelisks were
also representative of the same emblem. Payne Knight mentions several
terminating in a cross, which had exactly the appearance of one of those
crosses erected in churchyards and at cross roads for the adoration
of devout persons, when devotions were more prevalent than at present.
Stones, pillars, obelisks, stumps of trees, upright stones have all the
same signification, and are means by which the male element was symbolised.
TRIADS The Triune idea is to be found in the system of
almost every nation. All have their Trinity in Unity, three in one,
which can be distinctly recognised in the cross. The Triad is the male or
triple, the constitution of the three persons of most sacred Trinity
forming the Triune system. In the analysis of the subject by
Rawlinson, we find the Trinity consisted of Asshur or Asher,
associated with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of the
Assyrians, represents the Phallus or central organ or the Linga, the
membrum virile. The cognomen Anu was given to the right testis, while
that of Hea designated the left. It was only natural that
Asshur being deified, his appendages should be deified also. “ Beltus,”
says Inman, “ was the goddess associated with them, the four
together made up Arba or Arba-il, the four great gods,” the Trinity in
Unity. The idea thus broached receives Phallic Worship
*9 great confirmation when we examine the particular
stress laid in ancient times respecting the right and left side of
the body in connection with the Triad names given to offspring mentioned
in the scriptures with the titles given to Anu and Hea. The male or
active principle was typified by the idea of “solidity ” and “ firmness,”
and the females or passive by the principles of “ water,” “
soft¬ ness,” and other feminine principles. Thus the goddess
Hea was associated with water, and according to Forlong, the Serpent, the
ruler ot the Abyss, was sometimes repre¬ sented to be the great Hea,
without whom there was no creation or life, and whose godhead embraced
also the female element water. Rawlinson also gives a similar
conclusion, and states as far as he could determine the third divinity or
left side was named Hea, and he considered this deity to correspond
to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep, ruler of the
abyss, and king of the rivers. As Darwin and his coadjutors teach,
mankind, in common with all animal life, originally sprung from the sea ;
so physiology teaches that each individual had origin in a pond of
water. The fruit of man is both solid and fluid. It was natural to
imagine that the two male appendages had a distinct duty, that one formed
the infant, the other water in which it lived, that one generated the
male, the other the female offspring; and the inference was then drawn
that water must be feminine, the emblem of all possible powers of
creation. It will be seen that the names and signification of
the gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in Genesis
xxx. 13, we find Asher given as a personality, which signifies “ to be
straight,” “ upright,” “ fortunate,” “ happy.” Asher was the supreme god
of the Assyrians, 20 Phallic Worship the
Vedic Mahadeva, the emblem of the human male structure and creative
energy. The same idea of the creator is still to be seen in India, Egypt,
Phoenicia, the Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on
stone relics. To a rude and ignorant people, enslaved with
such a religion, it was an easy step from the crude to the more
refined sign, from the offensive to a more pictured and less obnoxious
symbol, from the plain and self-evident to the mixed, disguised, and
mystified, from the unclothed privy member to the cross. THE
CROSS The Triad, or Trinity, has been traced to Phoenicia,
Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur, Anu, and Hea forming
the “ tau.” This mark of the Christians, Greeks, and Hebrews became the
sign or type of the deities representing the Phallic trinity, and in
time became the figure of the cross. It is remarked by Payne
Knight that “ The male organs of generation are sometimes found
represented by signs of the same sort, which properly should be called
the symbol of symbols. One of the most remarkable of these is a cross, in
the form of the letter (T), which thus served as the emblem of creation
and generation before the Church adopted it as a sign of
salvation.” Another writer says, “ Reverse the position of the
triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure of the ancient c
tau ’ of the Christians, Greeks, and ancient Hebrews. It is one of the
oldest conventional forms of Phallic Worship
21 the cross. It is also met with in Gallic, Oscan,
Arcadian, Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and
Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the exact prototype
and image of the cross, or rather, to state the fact in order of merit
and time, the cross is made in the exact image of the Ethiopic * tau.’
The fig-leaf, having three lobes to it, became a symbol of the
triad. As the male genital organs were held in early times to
exemplify the actual male creative power, various natural objects were
seized upon to express the theistic idea, and at the same time point to
those parts of the human form. Hence, a similitude was recognised in a
pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a club between
two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two ribbons with the
two ends pendant, a thumb and two fingers, the caduceus. Again, the
conspicuous part of the sacred triad Asshur is symbolised by a single
stone placed upright—the stump of a tree, a block, a tower, spire,
minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while eggs, apples, or
citrons, plums, grapes, and the like represented the remaining two
portions, altogether called Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name
which seems designed to perpetuate the triad, since it signifies * my
Lord the Trinity,’ or * my God is three.’ ” We must not omit to
mention other Phallic emblems, such as the bull, the ram, the goat, the
serpent, the torch, fire, a knobbed stick, the crozier; and still further
per¬ sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules, Hermes,
Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal, Asher, and others.
If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur, Anu, and
Hea, was made of gold and silver, and was in his day not symbolically
used, but actually employed; 22 Phallic Worship
for he bluntly says “ whoredom was committed with the images of
men,” or, as the marginal note has it, images of “ a male ” (Ezek. xvi.
17). It was with this god-mark —a cross in the form of the letter T—that
Ezekiel was directed to stamp the foreheads of the men of Judata
who feared the Lord (Ezek. ix. 4). That the cross, or crucifix, has
a sexual origin we determine by a similar rule of research to that by
which comparative anatomists determine the place and habits of an
animal by a single tooth. The cross is a metaphoric tooth which belongs
to an antique religious body physical, and that essentially human. A study
of some of the earliest forms of faith will lift the veil and explain
the mystery. India, China, and Egypt have furnished the world
with a genus of religion. Time and culture have divided and
modified it into many species and countless varieties. However much the
imagination was allowed to play upon it, the animus of that religion was
sexuality—worship of the generative principle of man and nature, male
and female. The cross became the emblem of the male feature, under
the term of the triad —three in one. The female was the unit ; and,
joined to the male triad, con¬ stituted a sacred four. Rites and
adoration were sometimes paid to the male, sometimes to the female, or to
the two in one. So great was the veneration of the cross
among the ancients that it was carried as a Phallic symbol in the
religious processions of the Egyptians and Persians. Higgins also
describes the cross as used from the earliest times of Paganism by the
Egyptians as a banner, above which was carried the device of the Egyptian
cities. The cross was also used by the ancient Druids, who
held Phallic Worship 23 it as a sacred
emblem. In Egypt it stood for the significa¬ tion of eternal life.
Schedeus describes it as customary for the Druids “ to seek studiously
for an oak tree, large and handsome, growing up with two principal arms
in the form of a cross , besides the main stem upright. If the two
horizontal arms are not sufficiently adapted to the figure, they fasten a
cross-beam to it. This tree they consecrate in this manner: Upon the
right branch they cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus
’; upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius ’; upon
the left branch ‘ Belenus ’; over this, above the going off of the arms,
they cut the name of the god Thau ; under all, the same repeated,
Thau.” YONI There is in Hindostan an emblem of great
sanctity, which is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of a
simple pillar in the centre of a figure resembling the outline of a
conical ear-ring. It is expressive of the female genital organ both in
shape and idea. The Greek letter “ Delta ” is also expressive of it,
signifying the door of a house. Yoni is of Sanskrit origin.
Yanna, or Yoni, means (1) the vulva, (2) the womb, (3) the place of
birth, (4) origin, (5) water, (6) a mine, a hole, or pit. As Asshur
and Jupiter were the representatives of the male potency, so Juno and
Venus were representatives of the female attribute. Moore, in his “
Oriental Fragments,” says : “ Oriental writers have generally spelled the
word, * Yoni,’ which I prefer to write ‘ IOni.’ As Lingam
24 Phallic Worship was the vocalised cognomen
of the male organ, or deity, so IOni was that of hers.” Says R. P.
Knight: “ The female organs of generation were revered as symbols
of the generative powers of nature or of matter, as those of the male
were of the generative powers of God. They are usually represented
emblematically by the shell Concoa Veneris , which was therefore worn by
devout persons of antiquity, as it still continues to be by the
pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On the worship of
Priapus,” p. 28). If Asshur, the conspicuous feature of the male
Creator, is supplied with types and representative figures of
himself, so the female feature is furnished with substitutes and
typical imagery of herself. One of these is technically known as
the sistrum of Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the
fenestrum, or opening, are bent so that they cannot be taken out, and
indicate that the door is closed. It signifies that the mother is still
virgo intacta —a truly immaculate female—if the truth can be strained to
so denominate a mother. The pure virginity of the Celestial Mother
was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted Virgin Mary now
adored was born. We might infer that Solomon was acquainted with the
figure of the sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my
spouse, a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv.
12). The sistrum, we are told, was only used in the worship of
Isis, to drive away Typhon (evil). The Argha is a contrite form, or
boat-shaped dish or plate used as a sacrificial cup in the worship of
Astarte, Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.
The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian monuments, and yet
more frequently on bas-reliefs. Phallic Worship
*5 Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the Father,
the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach, Sol,
Helios (Greek for Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma,
Vishnu, Siva, Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden; the
cross, tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others
; while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno, Venus,
Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea, Frigga ;
the queen of Heaven, the oval, the trough, the delta, the door, the ark,
the ship, the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial
Virgin, and a number of other names. Lucian, who was an Assyrian,
and visited the temple of Dea Syria, near the Euphrates, says there are
two Phalli standing in the porch with this inscription on them, “ These
Phalli I, Bacchus, dedicate to my step-mother Juno.” The
Papal religion is essentially the feminine, and built on the ancient
Chaldean basis. It clings to the female element in the person of the
Virgin Mary. Naphtali (Gen. xxx. 8) was a descendant of such
worshippers, if there be any meaning in a concrete name. Bear in
mind, names and pictures perpetuate the faith of many peoples. Neptoah
is Hebrew for “ the vulva,” and, A 1 or El being God, one of the
unavoidable renderings of Naphtali is “ the Yoni is my God,” or “ I
worship the Celestial Virgin.” The Philistine towns generally had
names strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or esb,
means “ fire, heat,” and dod means “ love, to love,” “ boiled up,” “ be
agitated,” the whole signifying “ the heat of love,” or “ the fire which
impels to union.” Could not those people exclaim . Our “ God is love
” ? (i John iv. 8). The amatory drift of Solomon’s song is
undisguised. 26 Phallic Worship though
the language is dressed in the habiliments of seem¬ ing decency. The
burden of thought of most of it bears direct reference to the Linga-Yoni.
He makes a woman say, “ He shall lie all night betwixt my breasts ” (S.
of S. i. 13). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “I will go
up the palm-tree, I will take hold of the boughs thereof” (vii. 8).
Palm-tree and boughs are euphemisms of the male genitals.
HEBREW PHALLICISM The nations surrounding the Jews practising
the Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not to
be supposed that the Jews escaped their influence. It is indeed certain
that the worship of the Phallics was a great and important part of the
Hebrew worship. This will be the more plainly seen when we bear
in mind the importance given to circumcision as a covenant between
God and man. Another equally suggestive custom among the Patriarchs was
the act of taking the oath, or making a sacred promise, which is
commented upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopedia. He says :
“ Another primitive custom which obtained in the patriarchal age was,
that the one who took the oath put his hand under the thigh of the
adjurer (Gen. xxiv. 2, and xlvii. 29). This practice evidently arose from
the fact that the genital member, which is meant by the euphe¬
mistic expression thigh, was regarded as the most sacred part of the
body, being the symbol of union in the tenderest relation of matrimonial
life, and the seat whence all issue Phallic Worship
27 proceeds and the perpetuity so much coveted by the
ancients. Compare Gen. xlvi. 26; Exod. i. 5 ; Judges vii. 30. Hence the
creative organ became the symbol of the Creator, and the object of
worship among all nations of antiquity. It is for this reason that
God claimed it as a sign of the covenant between himself and his
chosen people in the rite of circumcision. Nothing therefore could render
the oath more solemn in those days than touching the symbol of creation,
the sign of the covenant, and the source of that issue who may at
any future period avenge the breaking a compact made with their
progenitor.” From this we learn that Abraham, himself a Chaldee, had
reverence for the Phallus as an emblem of the Creator. We also learn that
the rite of circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From
Herodotus we are informed that the Syrians learned circumcision from the
Egyptians, as did the Hebrews. Says Dr. Inman: “I do not know anything
which illustrates the difference between ancient and modern times
more than the frequency with which circumcision is spoken of in the
sacred books, and the carefulness with which the subject is avoided now.”
The mutilation of male captives, as practised by Saul and David,
was another custom among the worshippers of Baal, Asshur, and other
Phallic deities. The practice was to debase the victims and render them
unfit to take part in the worship and mysteries. Some idea can be
formed of the esteem in which people in former times cherished the male
or Phallic emblems of creative power when we note the sway that power
exercised over them. If these organs were lost or disabled, the
unfortunate one was unfitted to meet in the congregation of the
Lord, and disqualified to minister in the holy temples. Excessive
28 Phallic Worship punishment was inflicted
upon the person who had the temerity to injure the sacred structure. If a
woman were guilty of inflicting injury, her hand was cut off
without pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration in the
Ark of the Covenant was doubtless a Phallic emblem, a symbol of the
preservation of the germ of life. In the historical and prophetic
books of the Old Testament we have repeated evidence that the
Hebrew worship was a mixture of Paganism and Judaism, and that
Jehovah was worshipped in connection with other deities. Hezekiah is
recorded in 2 Kings xviii. 3, to have “ removed the high places, and
broken the images, and cut down the groves (Ashera), and broken in
pieces the brazen serpent that Moses had made, for unto those days
the children of Israel did burn incense to it.” The Ashera, or sacred
groves here alluded to are named from the goddess Ashtaroth, which Dr.
Smith describes as the proper name of the goddess ; while Ashera is
the name of the image of the goddess. Rawlinson, in his Five Great
Monarchies of the Ancient World , describes Ashera to imply something
that stood straight up, and probably its essential element was the stem
of a tree, an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the Tree
of Life of the Scriptures. This stem, which stood for the emblem of life,
was probably a pillar, or Phallus, like the Lingi of the Hindus, sometimes
erected in a grove or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi.
We read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven image in
the grove,” and, according to Dr. Oort, the older reading is in 2 Chron.
xxxiii. 7, 15, where it is an image or pillar. During the reigns of the
Jewish kings, the worship of Baal, the Priapus of the Greeks and
Romans, Phallic Worship 2 9 was
extensively practised by the Jews. Pillars and groves were reared in his
name. In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected
an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which even survived the temple itself,
for although Jehu destroyed the Temple of Baal, he allowed the Ashera to
remain (2 Kings x. 18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work
on the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,
undoubtedly proves that during the monarchial period of Israel, the
sanguinary wars and violent conflicts between the two kingdoms of Judah
and Israel were between the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by
the priesthood at the chief places of worship, concerning the true
patriarch, and each party manufacturing and inserting legends to give a
more ancient and important part to its own faith. It is not
at all improbable that the conflict was between the two portions of the
Phallic faith, the Lingam and Yoni parties. The cause of this conflict
was the erection of the consecrated stones or pillars which were put
up by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar erected
by Jacob at Bethel was a pillar, for according to Bernstein the word
altar can only be used for the erection of a pillar. Jacob likewise set
up a Matzebah, or pillar of stone, in Gilead, and finally he set one up
upon the tomb of Rachel. A great portion of the facts have
been suppressed by the translators, who have given to the world
histories which have glossed over the ancient rites and practices
of the Jews. An instance is given by Forlong on the important
word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the Jews addressed their
devotions. He says, “ It should 3° Phallic
Worship not be, but I fear it is, necessary to explain to mere
English readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur
was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians, that this would
be clear to Christians were the Jewish writings translated according to
the first ideas of the people and Rock used as it ought to be, instead of
‘ God,’ * Theos,’ £ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .
Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship of Baal in
Israel, where praises, addresses, and adorations are addressed to the
Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18. Stone pillars were also used by the
Hebrews as a memorial of a sacred covenant, for we find Jacob setting up
a pillar as a witness, that he would not pass over it. Connected
with this pillar worship is the ceremony of anointing by pouring oil upon
the pillar, as practised by Jacob at Bethel. According to Sir W. Forbes,
in his Oriental Memoirs, the “ pouring of oil upon a stone is
practised at this day upon many a shapeless stone throughout
Hindostan.” Toland gives a similar account of the Druids as
practising the same rite, and describes many of the stones found in
England as having a cavity at the top made to receive the offering. The
worship of Baal like the worship of Priapus was attended with
prostitution, and we find the Jews having a similar custom to the
Babylonians. Payne Knight gives the following account of it in
his work: “ The women of every rank and condition held it to be an
indispensable duty of religion to prostitute themselves once in their
lives in her temple to any stranger who came and offered money, which,
whether little or much, was accepted, and applied to a sacred
purpose. Women sat in the temple of Venus awaiting the selection of
the stranger, who had the liberty of choosing whom Phallic
Worship 3 1 he liked. A woman once seated must remain
until she has been selected by a piece of silver being cast into
her lap, and the rite performed outside the temple.” Similar
customs existed in Armenia, Phrygia, and even in Palestine, and were a
feature of the worship of Baal Peor. The Hebrew prophets described and
denounced these excesses which had the same characteristics as the
rites of the Babylonian priesthood. The identical custom is referred to
in i Sam. ii. 22, where “ the sons of Eli lay with the women that
assembled at the door of the tabernacle of the congregation.”
Words and history corroborate each other, or are apt to do so if
contemporaneous. Thus kadesh , or kaesh, designate in Hebrew “ a
consecrated one,” and history tells the unworthy tale in descriptive
plainness, as will be shown in the sequel. That the religion
was dominating and imperative is determined by Deut. xvii. 12, where
presumptuous refusal to listen to the priest was death to the
offender. To us it is inconceivable that the indulgence of passion
could be associated with religion, but so it was. Much as it is covered
over by altered words and substituted expressions in the Bible—an example
of which see men for male organ, Ezek. xvi. 17—it yet stands out
offensively bold. The words expressive of “ sanctuary,” “ conse¬
crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew essentially the same. They
indicate the passion of amatory devotion. It is among the Hindus of
to-day as it was in Greece and Italy of classic times ; and we find that
“ holy women ” is a title given to those who devote their bodies to be
used for hire, the price of which hire goes to the service of the
temple. As a general rule, we may assume that priests who
make 3 2 Phallic Worship or expound the
laws, which they declare to be from God, are men, and, consequently,
through all time, have thought, and do think, of the gratification of the
masculine half of humanity. The ancient and modern Orientals are
not exceptions. They lay it down as a momentous fact that virginity is
the most precious of all the possessions of a woman, and, being so, it
ought, in some way or other, to be devoted to God. Throughout
India, and also through the densely inhabited parts of Asia, and modern
Turkey there is a class of females who dedicate themselves to the
service of the deity whom they adore; and the rewards accruing from
their prostitution are devoted to the service of the temple and the
priests officiating therein. The temples of the Hindus in the
Dekkan possessed their establishments. They had bands of consecrated
dancing-girls called the Women of the Idol , selected in their infancy by
the priests for the beauty of their persons, and trained up with every
elegant accomplishment that could render them attractive. We
also find David and the daughters of Shiloh per¬ forming a wild and
enticing dance ; likewise we have the leaping of the prophets of
Baal. It is again significant that a great proportion of
Bible names relate to " divine,” sexual, generative, or
creative power; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel, “ the
strong Jas is El ” ; Amasai, “ Jah is firm ” ; Asher, “ the male ” or “
the upright organ ” ; Elijah, “ El is Jah ” ; Eliab, “ the strong father
” ; Elisha, “ El is upright ” ; Ara, “ the strong one,” “ the hero ” ;
Aram, “ high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha, “ my Lord
the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett, “ son of firmness ” ;
Camon, “ the erect One ” ; Cainan, Phallic Worship
33 “ he stands upright ” ; these are only a few of the many
names of a similar signification. It will be seen, from what has
been given, that the Jews, like the Phoenicians (if they were not the
same), had the same ceremonies, rites, and gods as the surrounding
nations, but enough has been said to show that Phallic worship was much
practised by the Jews. It was very doubtful whether the Jehovah-worship
was not of a monotheistic character, but those who desire to have a
further insight into the mysteries of the wars between the tribes should
consult Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The
following interesting chapter is taken from a valuable book issued a few
years ago anonymously : “ Mother Earth ” is a legitimate
expression, only of the most general type. Religious genius gave the
female quality to the earth with a special meaning. When once the
idea obtained that our world was feminine, it was easy to induce the
faithful to believe that natural chasms were typical of that part which
characterises woman. As at birth the new being emerges from the mother,
so it was supposed that emergence from a terrestrial cleft was equivalent
to a new birth. In direct proportion to the resemblance between the sign
and the thing signified was the sacredness of the chink, and the amount
of virtue which was imparted by passing through it. From natural
caverns being considered holy, the veneration for apertures in stones, as
being equally symbolical, was a natural c
34 Phallic Worship transition. Holes, such as
we refer to, are still to be seen in those structures which are called
Druidical, both in the British Isles and in India. It is impossible to
say when these first arose; it is certain that they survive in
India to this day. We recognise the existence of the emblem among the
Jews in Isaiah li. i, in the charge to look “ to the hole of the pit
whence ye are digged.” We have also an indication that chasms were
symbolical among the same people in Isaiah lvii. 5, where the
wicked among the Jews were described as “ inflaming themselves with
idols under every green tree, and slaying the children in the valleys
under the clefts of the rocks.” It is possible that the “ hole in the
wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar signification. In modern Rome, in
the vestibule of the church close to the Temple of Vesta, I have seen a
large perforated stone, in the hole of which the ancient Romans are
said to have placed their hands when they swore a solemn oath, in
imitation, or, rather, a counterpart, of Abraham swearing his servant
upon his thigh—that is the male organ. Higgins dwells upon these holes,
and says: “ These stones are so placed as to have a hole under
them, through which devotees passed for religious purposes. There is one
of the same kind in Ireland, called St. Declau’s stone. In the mass of
rocks at Bramham Crags there is a place made for the devotees to
pass through. We read in the accounts of Hindostan that there is a
very celebrated place in Upper India, to which immense numbers of
pilgrims go, to pass through a place in the mountains called “ The Cow’s
Belly.” In the Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock
upon the surface of which there is a natural crevice, which
communicates with a cavity opening below. This place is used by the
Gentoos as a purification of their sins, Phallic Worship
35 which they say is effected by their going in at the
opening below, and emerging at the cavity above—“ born again.” The
ceremony is in such high repute in the neighbouring countries that the
famous Conajee Angria ventured by stealth, one night, upon the Island, on
purpose to perform the ceremony, and got off undiscovered. The
early Christians gave them a bad name, as if from envy; they called
these holes “ Cunni Diaboli ” ( Anacalypsis , p. 346) BACCHANALIA AND
LIBERALIA FESTIVALS The Romans called the feasts of Bacchus,
Bacchanalia and Liberalia, because Bacchus and Liber were the names
for the same god, although the festivals were celebrated at different
times and in a somewhat different manner. The latter, according to Payne
Knight, was celebrated on the 17th of March, with the most licentious
gaiety, when an image of the Phallus was carried openly in triumph.
These festivities were more particularly cele¬ brated among the rural or
agricultural population, who, when the preparatory labour of the
agriculturist was over, celebrated with joyful activity Nature’s
reproductive powers, which in due time was to bring forth the
fruits. During the festival a car containing a huge Phallus was
drawn along accompanied by its worshippers, who in¬ dulged in obscene
songs and dances of wild and extrava¬ gant character. The gravest and
proudest matrons suddenly laid aside their decency and ran
screaming among the woods and hills half-naked, with dishevelled
hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.
3^ Phallic Worship The Bacchanalian feasts were
celebrated in the latter part of October when the harvest was completed.
Wine and figs were carried in the procession of the Bacchants, and
lastly came the Phalli, followed by honourable virgins, called canephora
, who carried baskets of fruit. These were followed by a company of men
who carried poles, at the end of which were figures representing the
organ of generation. The men sung the Phallica and were crowned
with violets and ivy, and had their faces covered with other kinds of
herbs. These were followed by some dressed in women’s apparel, striped
with white, reaching to their ancles, with garlands on their heads, and
wreaths of flowers in their hands, imitating by their gestures the
state of inebriety. The priestesses ran in every direction shouting and
screaming, each with a thyrsus in their hands. Men and women all
intermingled, dancing and frolicking with suggestive gesticulations.
Deodorus says the festivals were carried into the night, and it was
then frenzy reached its height. He says, “ In performing the
solemnity virgins carry the thyrsus, and run about frantic, halloing ‘
Evoe ’ in honour of the god; then the women in a body offer the sacrifices,
and roar out the praises of Bacchus in song as if he were present, in
imitation of the ancient Mamades, who accompanied him.” These
festivities were carried into the night, and as the celebrators became
heated with wine, they degenerated into extreme licentiousness.
Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the Luper- calian
Feasts instituted in honour of the god Pan (under the shape of a Goat)
whose priests, according to Owen in his Worship of Serpents , on the
morning of the Feast ran naked through the streets, striking the married
women they met on the hands and belly, which was held as an
Phallic Worship 37 omen promising fruitfulness. The
nymphs performing the same ostentatious display as the Bacchants at
the festival of Bacchanalia. The festival of Venus was
celebrated towards the begin¬ ning of April, and the Phallus was again
drawn in a car, followed by a procession of Roman women to the
temple of Venus. Says a writer, “ The loose women of the town and
its neighbourhood, called together by the sounding of horns, mixed with
the multitude in perfect nakedness, and excited their passions with
obscene motions and language until the festival ended in a scene of mad
revelry, in which all restraint was laid aside.” It is said
that these festivals took their rise from Egypt, from whence they were
brought into Greece by Metampus, where the triumph of Osiris was
celebrated with secret rites, and from thence the Bacchanals drew their
original; and from the feasts instituted by Isis came the orgies of
Bacchus. DRUID AND HEBREW FAITHS It seems not at all
improbable that the deities wor¬ shipped by the ancient Britons and the
Irish, were no other then the Phallic deities of the ancient Syrians
and Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius Periegites,
who lived in the time of Augustus Caesar, states that the rites of
Bacchus were celebrated in the British Isles ; while Strabo, who lived in
the time of Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier
writer described the worship of the Cabiri to have come originally
38 Phallic Worship from Phoenicia.
Higgins, in his History of the Druids, says, the supreme god above the
rest was called Seodhoc and Baal. The name of Baal is found both in
Wales, Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew Baal.
The same god, according to O’Brien, was the chief deity of the
Irish, in whose honour the round towers were erected, which structures
the ancient Irish themselves designated Bail-toir, or the towers of Baal.
In Numbers, xxii, will be found a mention of a similar pillar
consecrated to Baa]. Many of the same customs and superstitions
that existed among the Druids and ancient Irish, will likewise be found
among the Israelites. On the first day of May, the Irish made great fires
in honour of Baal, likewise offering him sacrifices. A similar account
is given of a custom of the Druids by Toland, in an account of the
festival of the fires ; he says :—“ on May-day eve the Druids made prodigious
fires on these earns, which being everyone in sight of some other, could
not but afford a glorious show over a whole nation.” These fires
are said to be lit even to the present day by the Aboriginal Irish, on
the first of May, called by them Bealtine, or the day of Belan’s fire,
the same name as given them in the Highlands of Scotland. A
similar practice to this will be noticed as mentioned in the II Book of
Kings, where the Canaanites in their worship of Baal, are said to have
passed their children through the fire of Baal, which seems to have been
a common practice, as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done
the same thing. Higgins in his Anacalypsis, says this super¬
stitious custom still continues, and that on “ particular days great
fires are lighted, and the fathers taking the children in their arms,
jump or run through them, and thus pass their children through them; they
also light Phallic Worship 39 two fires
at a little distance from each other, and drive their cattle between
them.” It will be found on reference to Deuteronomy, that this very
practice is specially for¬ bidden. In the rites of Numa, we have also the
sacred fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra, and
of India, accompanied with an establishment of nuns or vestal virgins. A
sacred fire is said to have been kept burning by the nuns of Kildare,
which was established by St. Bridget. This fire was never blown with
the mouth, that it might not be polluted, but only with bellows;
this fire was similar to that of the Jews, kept burning only with peeled
wood, and never blown with the mouth. Hyde describes a similar fire which
was kept burning in the same way by the ancient Persians, who kept
their sacred fire fed with a certain tree called Hawm Mogorum; and
Colonel Vallancey says the sacred fire of the Irish was fed with the wood
of the tree called Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at
Kildare, the glorious Bridget was rendered illustrious by many
miracles, amongst which was the sacred fire, which had been kept burning
by nuns ever since the time of the Virgin. The earliest
sacred places of the Jews were evidently sacred stones, or stone circles,
succeeded in time by temples. These early rude stones, emblems of
the Creator, were erected by the Israelites, which in no way
differed from the erections of the Gentiles. It will be found that the
Jews to commemorate a great victory, or to bear witness of the Lord, were
all signfied by stones : thus, Joshua erected a stone to bear witness ;
Jacob put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the same
for a place of worship; Samuel erected a stone as a boundary, which was
to be the token of an agreement 40 Phallic
Worship made in the name of God. Even Maundrel in his
travels names several that he saw in Palestine. It is curious that
where a pillar was erected there, sometime after, a temple was put up in
the same manner that the Round Towers of Ireland were,—always near a
church, but never formed part of it. We find many instances in the
Scriptures of the erection of a number of stones among the early
Israelites, which would lead us to conclude that it was not at all
unlikely that the early places of worship among them, were similar to the
temples found in various parts of Great Britain and Ireland. It is
written in Exodus xxiv. 4, that Moses rose up early in the morning, and
builded an altar under the hill, and twelve pillars, according to
the twelve tribes of Israel, were erected. It is also given out that when
the children of Israel should pass over the Jordan, unto the land which
the Lord giveth them, they should set up great stones, and plaster
them with plaster, and also the words of the law were to be written
thereon. In many other places stones were ordered to be set up in the
name of the Lord, and repeated instances are given that the stones should
be twelve in number and unhewn. Stone temples seem to have
been erected in all countries of the world, and even in America, where,
among the early American races are to be found customs,
superstitions, and religious objects of veneration, similar to the
Phoenicians. An American writer says:—“ There is sufficient evidence that
the religious customs of the Mexicans, Peruvians and other American
races, are nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . .
. We moreover discover that many of their religious terms have,
etymologically, the same origin.” Payne Knight, in his Worship of Priapus,
devotes much of his work to Phallic Worship 4i
show that the temples erected at Stonehenge and other places, were
of a Phoenician origin, which was simply a temple of the god
Bacchus. STONEHENGE A TEMPLE OF BACCHUS Of all the
nations of antiquity the Persians were the most simple and direct in the
worship of the Creator. They were the puritans of the heathen world, and
not only rejected all images of God and his agents, but also
temples and altars, according to Herodotus, whose authority we prefer to
any other, because he had an opportunity of conversing with them before
they had adopted any foreign superstitions. As they worshipped the
ethereal fire without any medium of personification or allegory, they
thought it unworthy of the dignity of the god to be represented by any
definite form, or cir¬ cumscribed to any particular place. The universe
was his temple, and the all-pervading element of fire his only
symbol. The Greeks appear originally to have held similar opinions, for
they were long without statues and Pausanias speaks of a temple at
Siciyon, built by Adrastus—who lived in an age before the Trojan
war— which consisted of columns only, without wall or roof, like
the Celtic temples of our northern ancestors, or the Phyroetheia of the Persians,
which were circles of stones in the centre of which was kindled the
sacred fire, the symbol of the god. Homer frequently speaks of
places of worship consisting of an area and altar only, which were
probably enclosures like those of the Persians, with an
42 Phallic Worship altar in the centre. The
temples dedicated to the creator Bacchus, which the Greek architects
called kypcethral, seem to have been anciently of this kind, whence probably
came the title (“ surround with columns ”) attributed to that god in the
Orphic litanies. The remains of one of these are still extant at
Puzznoli, near Naples, which the inhabitants call the temple of Serapis ;
but the ornaments of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove
it to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same deity
worshipped under another form, being usually a personification of the
sun. The architecture is of the Roman times ; but the ground plan is
probably that of a very ancient one, which this was made to replace—for
it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland, published in
Stukeley’s Itinerary. The ranges of square buildings which enclose it are
not properly parts of the temple, but apartments of the priests, places
for victims and sacred utensils, and chapels dedicated to the sub¬
ordinate deities, introduced by a more complicated and corrupt worship
and probably unknown to the founder of the original edifice. The portico,
which runs parallel with these buildings, encloses the temenss , or area
of sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was
circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple in Zeeland,
and the Indian pagoda before described. In the centre was the holy of
holies, the seat of the god, consisting of a circle of columns raised
upon a basement, without roof or walls, in the middle of which was
probably the sacred fire or some other symbol of the deity. The
square area in which it stood was sunk below the natural level of the
ground, and, like that of the Indian pagoda, appears to have been
occasionally floated with water; the drains and conduits being still to
be seen, as also several Phallic Worship 43
fragments of sculpture representing waves, serpents, and various
aquatic animals, which once adorned the basement. The Bacchus here
worshipped, was, as we learn from the Orphic hymn above cited, the sun in
his character of extinguisher of the fires which once pervaded the
earth. He is supposed to have done this by exhaling the waters of
the ocean and scattering them over the land, which was thus supposed to
have acquired its proper temperature and fertility. For this reason the
sacred fire, the essential image of the god, was surrounded by the
element which was principally employed in giving effect to the
beneficial exertions of the great attribute. From a passage
of Hecatasus, preserved by Diodorus Siculus, it seems evident that
Stonehenge and all the monu¬ ments of the same kind found in the north,
belong to the same religion which appears at some remote period to
have prevailed over the whole northern hemisphere. According to that
ancient historian, the Hyperboreans inhabited an island beyond Gaul , as
large as Sicily , in which Apollo was worshipped in a circular temple
considerable for its si^e and riches. Apollo, we know, in the language
of the Greeks of that age, can mean no other than the sun, which
according to Caesar was worshipped by the Germans, when they knew of no
other deities except fire and the moon. The island can evidently be no
other than Britain, which at that time was only known to the Greeks by
the vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain and
obscure that Herodotus, the most inquisitive and credulous of historians,
doubts of its existence. The circular temple of the sun being noticed in
such slight and imperfect accounts, proves that it must have been
some¬ thing singular and important; for if it had been an
inconsiderable structure, it would not have been mentioned
44 Phallic Worship at all; and if there had been many
such in the country, the historian would not have employed the
singular number. Stonehenge has certainly been a circular
temple, nearly the same as that already described of the Bacchus
at. Puzznoli, except that in the latter the nice execution and
beautiful symmetry of the parts are in every respect the reverse of the
rude but majestic simplicity of the former. In the original design they
differ but in the form of the area. It may therefore be reasonably
supposed that we have still the ruins of the identical temple described
by Hecatasus, who, being an Asiatic Greek, might have received his
information from Phoenician merchants, who had visited the interior parts
of Britain when trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of
the same kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated
to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of
stone found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and
near Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name .—Pajne Knight’s Worship of
Priapus. BUNS AND RELIGIOUS CAKES Says Hyslop :—“ The
hot cross-buns of Good Friday, and the dyed eggs of Pasch or Easter
Sunday, figured in the Chaldean rites just as they do now. The buns
known, too, by that identical name, were used in the worship of the
Phallic Worship 45 Queen of Heaven, the
goddess Easter (Ishtar or Astarte), as early as the days of Cecrops, the
founder of Athens, 1,500 years before the Christian era.” “ One species
of bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the gods, was
of great antiquity, and called Boun’ Diogenes mentioned * they were made
of flour and honey.’ ” It appears that Jeremiah the Prophet was familiar
with this lecherous worship. He says :—“ The children gather wood,
the fathers kindle the fire, and the women knead the dough to make cakes
to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does not add that the “
buns ” offered to the Queen of Heaven, and in sacrifices to other
deities, were framed in the shape of the sexual organs, but that
they were so in ancient limes we have abundance of evidence.
Martial distinctly speaks of such things in two epigrams, first,
wherein the male organ is spoken of, second, wherein the female part is
commemorated ; the cakes being made of the finest flour, and kept
especially for the palate of the fair one. Captain Wilford (“
Asiatic Researches,” viii., p. 365) says :—“ When the people of Syracuse
were sacrificing to goddesses, they offered cakes called mulloi, shaped
like the female organ, and in some temples where the priestesses
were probably ventriloquists, they so far imposed on the credulous
multitude who came to adore the Vulva as to make them believe that it
spoke and gave oracles.” We can understand how such things were
allowed in licentious Rome, but we can scarcely comprehend how they
were tolerated in Christian Europe, as, to all innocent surprise we find
they were, from the second part of the “ Remains of the Worship of
Priapus ” : that in Saintonge, in the neighbourhood of La Rochelle, small
cakes baked in 46 Phallic Worship the
form of the Phallus are made as offerings at Easter, carried and
presented from house to house. Dulare states that in his time the
festival of Palm Sunday, in the town of Saintes, was called le fete des
pinnes —feast of the privy members—and that during its continuance
the women and children carried in the procession a Phallus made of
bread, which they called a pinne , at the end of their palm branches ;
these pinnes were subsequently blessed by priests, and carefully preserved
by the women during the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be
remembered, is a euphemism of the male organ, and it is curious to
see it united with the Phallus in Christendom. Dulare also says
that, in some of the earlier inedited French books on cookery, receipts
are given for making cakes of the salacious form in question, which are
broadly named. He further tells us those cakes symbolized the male, in
Lower Limousin, and especially at Brives ; while the female emblem
was adopted at Clermont, in Auvergne, and other places. THE
ARK AND GOOD FRIDAY The ark of the covenant was a most sacred
symbol in the worship of the Jews, and like the sacred boat, or ark
of Osiris, contained the symbol of the principle of life, or creative
power. The symbol was preserved with great veneration in a miniature
tabernacle, which was considered the special and sanctified abode of the
god. In size and manner of construction the ark of the Jews and the
sacred chest of Osiris of the Egyptians were Phallic
Worship 47 exactly alike, and were carried in
processions in a similar manner The ark or chest of Osiris
was attended by the priests, and was borne on the shoulders of men by
means of staves. The ark when taken from the temple was placed upon
a table, or stand, made expressly for the purpose, and was attended by a
procession similar to that which followed the Jewish ark. According to
Faber, the ark was a symbol of the earth or female principle,
containing the germ of all animated nature, and regarded as the
great mother whence all tilings sprung. Thus the ark, earth, and goddess,
were represented by common symbols, and spoken of in the old Testament as
the “ ashera.” The sacred emblems carried in the ark of the
Egyptians were the Phallus, the Egg, and the Serpent; the first
representing the sun, fire, and male or generative principle —the
Creator; the second, the passive or female, the germ of all animated
things—the Preserver; and the last the Destroyer: the Three of the sacred
Trinity. The Hindu women, according to Payne Knight, still carry
the lingam, or consecrated symbol of the generative attribute of the
deity, in solemn procession between two serpents; and in a sacred casket,
which held the Egg and the Phallus in the mystic processions of the
Greeks, was also a Serpent. “ The ark,” says Faber, “ was
reverenced in all the ancient religions.” It was often represented in the
form of a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of
the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show that an ark,
chest, cell, boat, or cavern, held an important place in their mysteries.
In the story of Osiris, like that of the Siva, will be found the reason
for the emblem being carried in the sacred chest, and the explanation of
one of 48 Phallic Worship the mysteries
of the Egyptian priests. It is said that Osiris was torn to pieces by the
wicked Typhon, who after cutting up the body, distributed the parts over
the earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought them
back to Egypt; but, being unable to find the part which distinguished his
sex, she had an image made of wood, which was enshrined in an ark, and
ordered to be solemnly carried about in the festivals she had instituted
in his honour, and celebrated with certain secret rites. The Egg,
which accompanied the Phallus in the ark was a very common symbol of the
ancient faiths, which was considered as containing the generation of
life. The image of that which generated all things in itself. Jacob
Bryant says :—“ The Egg, as it contained the principles of life was
thought no improper emblem of the ark, in which were preserved the future
world. Hence in the Dionysian and in other mysteries, one part of the
nocturnal ceremony consisted in the consecration of an egg.” This
egg was called the Mundane Egg. The ark was likewise the symbol of
salvation, the place of safety, the secret receptacle of the divine
wisdom. Hence we find the ark of the Jews containing the tables of
the law; we find too that the Jews were ordered to place in the ark
Aaron’s rod, which budded, conveying the idea of symbolised fertility :
showing that the ark was considered as the receptacle of the life
principle—as an emblem of the Creator. With the Egyptians
Osiris was supposed to be buried in the ark, which represented the
disappearance of the deity. His loss, or death, constituted the first
part of the mysteries, which consisted of lamentations for his decease.
After the third day from his death, a procession went down to the
seaside in the night, carrying the ark with them. During Phallic
Worship 49 the passage they poured drink offerings
from the river, and when the ceremony had been duly performed, they
raised a shout that Osiris had again risen—that the dead had been
restored to life. After this followed the second or joyful part of the
mysteries. The s imila rity of this custom with the Good Friday
celebrations of the death of Jesus, and the rejoicings on account of his
resurrection on Easter Sunday, will be at once observed. It is further
said that the missing part of Osiris was eaten by a fish, which made the
fish a sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good Friday
brought together, also the Egg, for the origin of the Easter eggs is very
ancient. A bull is represented as breaking an egg with his horn, which
signified the liberating of imprisoned life at the opening or spring
of the year, which had been destroyed by Typhon. The opening of the
year at that time commenced in the spring, not according to our present
reckoning; thus, the Egg was a symbol of the resurrection of life at the
spring, or our Easter time. The author of the “ Worship of the
Generative Powers,” describes the origin of the hot cross¬ bun at Easter,
which is a further parallelism of the Christian and Pagan festivals. The
author also draws a further conclusion—that the cakes or buns have in
reality a Phallic origin, for in France and other parts, the Easter
cakes were called after the membrun virile. The writer says :—“ In the
primitive Teutonic mythology, there was a female deity named in old
German, Ostara, and in Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of
her is the simple statement of our father of history, Bede, that
her festival was celebrated by the ancient Saxons in the month of April,
from which circumstance that month was named by the Anglo-Saxons,
Easter-mona or Eoster- mona, and that the name of the goddess had been
frequently 5 ° Phallic Worship given to
the Paschal time, with which it was identical. The name of this goddess
was given to the same month by the old Germans and by the Franks, so that
she must have been one of the most highly honoured of the Teutonic
deities, and her festival must have been a very important one and deeply
implanted in the popular feelings, or the Church would not have sought to
identify it with one of the greatest Christian festivals of the year. It
is under¬ stood that the Romans considered this month as dedicated
to Venus, no doubt because it was that in which the productive powers of
nature began to be visibly developed. When the Pagan festival was adopted
by the Church, it became a moveable feast, instead of being fixed to
the month of April. Among other objects offered to the goddess at
this time were cakes, made no doubt of fine flour, but of their form we
are ignorant. The Christians when they seized upon the Easter festival,
gave them the form of a bun, which indeed was at that time the
ordinary form of bread ; and to protect themselves and those who
ate them from any enchantment—or other evil influences which might arise
from their former heathen character— they marked them with the Christian
symbol—the cross. Hence we derived the cakes we still eat at Easter
under the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings
attached to them; for multitudes of people still believe that if they
failed to eat a hot cross-bun on Good Friday, they would be unlucky all
the rest of the year.” Phallic Worship Ji
ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE LOTUS The
earliest capital seems to have been the bell or seed vessel, simply
copied without alteration, except a little expansion at the bottom to
give it stability. The leaves of some other plant were then added to it,
and varied in different capitals according to the different
meanings intended to be signified by the accessory symbols. The Greeks
decorated it in the same manner, with the foliage of various plants, sometimes
of the acanthus and sometimes of the aquatic kind, which are,
however, generally so transformed by excessive attention to
elegance, that it is difficult to distinguish them. The most usual
seems to be the Egyptian acacia, which was probably adopted as a mystic
symbol for the same reasons as the olive, it being equally remarkable for
its powers of reproduction. Theophrastus mentions a large wood of
it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so that we
reasonably suppose it to have been employed by the Egyptians in the same
symbolical sense. From them the Greeks seem to have borrowed it about
the time of the Macedonian conquest, it not occurring in any of
their buildings of a much earlier date ; and as for the story of the Corinthian
architect, who is said to have invented this kind of capital from
observing a thorn growing round a basket, it deserved no credit, being
fully contradicted by the buildings still remaining in Upper
Egypt. The Doric column, which appears to have been the only
one known to the very ancient Greeks, was equally derived from the
Nelumbo; its capital being the same seed-vessel pressed flat, as it
appears when withered and 5* Phallic Worship
dry—the only state probably in which it had been seen in Europe.
The flutes in the shaft were made to hold spears and staves, whence a
spear-holder is spoken of in the “ Odyssey ” as part of a column. The
triglyphs and blocks of the cornice were also derived from utility,
they having been intended to represent the projecting ends of the beams
and rafters which formed the roof. The Ionic capital has no bell,
but volutes formed in imitation of sea-shells, which have the same
symbolical meaning. To them is frequently added the ornament which
architects call a honeysuckle, but which seems to be meant for the young
petals of the same flower viewed horixontally, before they are opened or
expanded. Another ornament is also introduced in this capital, which
they call eggs and anchors, but which is, in fact, composed of eggs
and spear-heads, the symbols of female generation and male destructive
power, or in the language of mythology, of Venus and Mars .—Payne
Knight. BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP Stripped, however,
of all this splendour and magnifi¬ cence it was probably nothing more
than a symbolical instrument, signifying originally the motion of
the elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele, the
bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have overcome the
Titans with his aegis, as Isis drove away Typhon with her sistrum, and
the ringing of the bells and clatter of metals were almost universally
employed as a means of consecration, and a charm against the
Phallic Worship 53 destroying and inert powers.
Even the Jews welcomed the new moon with such noises, which the
simplicity of the early ages employed almost everywhere to relieve
her during eclipses, supposed then to be morbid affections brought on by
the influence of an adverse power. The title Priapus , by which the generative
attribute is dis¬ tinguished, seems to be merely a corruption of
Brt'apuos (clamorous); the beta and pi being commutable letters,
and epithets of similar meaning, being continually applied both to
Jupiter and Bacchus by the poets. Many Priapic figures, too, still
extant, have bells attached to them, as the symbolical statues and
temples of the Hindus are; and to wear them was a part of the worship
of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find them of
extremely small size, evidently meant to be worn as amulets with the
phalli, lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians and also the
high priests of the Jews, hung them as sacred emblems to their sacerdotal
garments ; and the Brahmins still continue to ring a small bell at the
interval of their prayers, ablutions, and other acts of devotion; which
custom is still preserved in the Roman Catholic Church at the elevation
of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on
the death of their kings, and we still retain the custom of tolling
a bell on such occasions, though the reason of it is not generally known,
any more than that of other remnants of ancient ceremonies still
existing. 1 It will be observed that the bells used by the Christians
very probably came direct from the Buddhists. And from the same
source are derived the beads and rosaries of the Roman Catholics, which
have been used by the Buddhist 1 The above description is from
Payne Knight’s “ Symbolical Language of ancient Art and Mythology.”
Phallic Worship 54 monks for over 2,000 years.
Tinkling bells were suspended before the shrine of Jupiter Ammon,
and during the service the gods were invited to descend upon the
altars by the ringing of bells ; they were likewise sacred to Siva. Bells
were used at the worship of Bacchus, and were worn on the garments of the
Bacchantes, much in the same manner as they are used at our carnivals
and masquerades. HINDU PHALLICISM The following
curious fable is given by Sir William Jones, as one of the stories of the
Hindus for the origin of Phallic devotion:—“ Certain devotees in a remote
time had acquired great renown and respect, but the purity of the
art was wanting, nor did their motives and secret thoughts correspond
with their professions and exterior conduct. They affected poverty, but
were attached to the things of this world, and the princes and nobles
were constantly sending their offerings. They seemed to sequester
them¬ selves from this world ; they lived retired from the towns ;
but their dwellings were commodious, and their women numerous and
handsome. But nothing can be hid from their gods, and Sheevah resolved to
put them to shame. He desired Prakeety (nature) to accompany him;
and assumed the appearance of a Pandaram of a graceful form.
Prakeety was herself a damsel of matchless worth. She went before the
devotees who were assembled with their disciples, awaiting the rising of
the sun, to perform their ablutions and religious ceremonies. As she
advanced Phallic Worship 55 the
refreshing breeze moved her flowing robe, showed the exquisite shape
which it seemed intended to conceal. With eyes cast down, though
sometimes opening with a timid but tender look, she approached them, and
with a low enchanting voice desired to be admitted to the
sacrifice. The devotees gazed on her with astonishment. The sun
appeared, but the purifications were forgotten; the things of the Poojah
(worship) lay neglected; nor was any worship thought of but that of her.
Quitting the gravity of their manners, they gathered round her as
flies round the lamp at night—attracted by its splendour, but consumed by
its flame. They asked from whence she came; whither she was going. ‘ Be
not offended with us for approaching thee, forgive us our
importunities. But thou art incapable of anger, thou who art made
to convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,
indignation and resentment are unknown. But whoever thou mayest be,
whatever motive or accident might have brought thee amongst us, admit us
into the number of thy slaves; let us at least have the comfort to
behold thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul
seemed ready to take its flight; the vow was forgotten, and the policy of
years destroyed. “ Whilst the devotees were lost in their passions,
and absent from their homes, Sheevah entered their village with a
musical instrument in his hand, playing and singing like some of those
who solicit charity. At the sound of his voice, the women immediately
quitted their occupation; they ran to see from whom it came. He was as
beautiful as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their
jewels without turning to look for them ; others let fall their garments
without perceiving that they discovered those abodes of pleasure which
jealousy as well as decency 56 Phallic Worship
had ordered to be concealed. All pressed forward with their
offerings, all wished to speak, all wished to be taken notice of, and
bringing flowers and scattering them before him, said—‘ Askest thou alms
! thou who are made to govern hearts. Thou whose countenance is as fresh
as the morning, whose voice is the voice of pleasure, and they
breath like that of Vassant (Spring) in the opening of the rose! Stay
with us and we will serve thee; not will we trouble thy repose, but only
be zealous how to please thee.’ The Pandaram continued to play, and
sung the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the Gopia, and
smiling the gentle smiles of fond desire. . . . “ But the desire of
repose succeeds the waste of pleasure. Sleep closed the eyes and lulled
the senses. In the morning the Pandaram was gone. When they awoke
they looked round with astonishment, and again cast their eyes on the
ground. Some directed to those who had formerly been remarked for their
scrupulous manners, but their faces were covered with their veils.
After sitting awhile in silence they arose and went back to their
houses, with slow and troubled steps. The devotees returned about the
same time from their wanderings after Prakeety. The days that followed
were days of embarrass¬ ment and shame. If the women had failed in
their modesty, the devotees had broken their vows. They were vexed
at their weakness, they were sorry for what they had done; yet the tender
sigh sometimes broke forth, and the eyes often turned to where the men
first saw the maid—the women, the Pandaram. “ But the women
began to perceive that what the devotees foretold came not to pass. Their
disciples, in consequence, neglected to attend them, and the
offerings from the princes and nobles became less frequent than
Phallic Worship 57 before. They then performed
various penances; they sought for secret places among the woods
unfrequented by man; and having at last shut their eyes from the
things of this world, retired within themselves in deep meditation, that
Sheevah was the author of their misfortunes. Their understanding being
imperfect, instead of bowing the head with humility, they were
inflamed with anger; instead of contrition for their hypocrisy, they
sought for vengeance. They performed new sacrifices and incantations,
which were only allowed to have effect in the end, to show the extreme
folly of man in not submitting to the will of heaven. “ Their
incantations produced a tiger, whose mouth was like a cavern and his
voice like thunder among the mountains. They sent him against Sheevah,
who with Prakeety was amusing himself in the vale. He smiled at
their weakness, and killing the tiger at one blow with his club, he
covered himself with his skin. Seeing them¬ selves frustrated in this
attempt, the devotees had recourse to another, and sent serpents against
him of the most deadly kind; but on approaching him they became
harmless, and he twisted them round his neck. They then sent their curses
and imprecations against him, but they all recoiled upon themselves. Not
yet disheartened by all these disappointments, they collected all
their prayers, their penances, their charities, and other good
works, the most acceptable sacrifices ; and demanding in return only
vengeance against Sheevah, they sent a fire to destroy his genital parts.
Sheevah, incensed at this attempt, turned the fire witti indignation
against the human race; and mankind would soon have been destroyed,
had not Vishnu, alarmed at the danger, implored him to suspend his wrath.
At his entreaties 58 Phallic Worship
Sheevah relented ; but it was ordained that in his temples those parts
should be worshipped, which the false doctrines had impiously attempted
to destroy.” THE CROSS AND ROSARY The key which is
still worn with the Priapic hand, as an amulet, by the women of Italy
appears to have been an emblem of the equivocal use of the name, as the
language of that country implies. Of the same kind, too, appears to
have been the cross in the form of the letter tau, attached to a circle,
which many of the figures of Egyptian deities, both male and female,
carry in their left hand ; and by the Syrians, Phoenicians and other
inhabitants of Asia, representing the planet Venus, worshipped by them as
the emblem or image of that goddess. The cross in this form is
sometimes observable on coins, and several of them were found in a temple
of Serapis, demolished at the general destruction of those edifices by
the Emperor Theodosius, and were said by the Christian antiquaries
of that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the
Lapland idols were marked with it from the blood of the victims ; and it
occurs on many Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of
an age long anterior to the approach of Christianity to those
countries, and probably to its appearance in the world. On some of the
early coins of the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads
placed in a circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. Phallic Worship 59
BEADS Beads were anciently used to reckon time, and a
circle, being a line without termination, was the natural emblem of
its perpetual continuity ; whence we often find circles of beads upon the
heads of deities, and enclosing the sacred symbols upon coins and other
monuments. Perforated beads are also frequently found in tombs,
both in the northern and southern parts of Europe and Asia, whence
are fragments of the chaplets of consecration buried with the deceased.
The simple diadem, or fillet, worn round the head as a mark of
sovereignty, had a similar meaning, and was originally confined to the
statues of deities and deified personages, as we find it upon the
most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in the “ Iliad,”
brings the diadem, or sacred fillet, of the god upon his sceptre, as the
most imposing and invocable emblem of sanctity ; but no mention is made
of its being worn by kings in either of the Homeric poems, nor of
any other ensign of temporal power and command, except the royal
staff or sceptre. THE LOTUS The double sex typified by
the Argha and its contents is by the Hindus represented by the “ Mymphoea
” or Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where the
whole plant signifies both the earth and the two principles of its
fecundation. The germ is both Meru and the Linga; the petals and
filaments are the mountains 6o Phallic
Worship which encircle Meru, and are also a type of the
Yoni; the leaves of the calyx are the four vast regions to the cardinal
points of Meru ; and the leaves of the plant are the Dwipas or isles
round the land of Jambu. As this plant or lily was probably the most
celebrated of all the vegetable creation among the mystics of the ancient
world, and is to be found in thousands of the most beautiful and
sacred paintings of the Christians of this day—I detain my reader with a
few observations respecting it. This is the more necessary as it appears
that the priests have now lost the meaning of it; at least this is the case
with everyone of whom I have made enquiry ; but it is like many
other very odd things, probably understood in the Vatican, or the
crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the different plants which
ornament our globe, there is not one which has received so much honour
from man as the Lotus or Lily, in whose consecrated bosom Brahma
was born, and Osiris delighted to float. This is the sublime, the
hallowed symbol that eternally occurs in oriental mythology, and in truth
not without reason, for it is itself a lovely prodigy. Throughout all the
northern hemispheres it was everywhere held in profound veneration,
and from Savary we learn that the veneration is yet continued among the
modern Egyptians. And we find that it still continues to receive the
respect if not the adoration of a great part of the Christian
world, unconscious, perhaps, of the original reason of this
conduct. Higgins's Anacalypsis. The following is an account given
of it by Payne Knight, in his curious dissertation on Phallic Worship
:— “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant grows in the
water, among its broad leaves puts forth a flower, in the centre of which
is formed the seed vessel. Phallic Worship 6i
shaped like a bell or inverted cone, and perforated on the top
with little cavities or cells, in which the seeds grow. The orifices of
these cells being too small to let the seeds drop out when ripe, they
shoot forth into new plants in the places where tney are formed : the
bulb of the vessel serving as a matrix to nourish them, until they
acquire such a degree of magnitude as to burst it open and release
themselves, after which, likfe other aquatic weeds, they take root
wherever the current deposits them. This plant, therefore, being thus
productive of itself, and vegetating from its own matrix, without being
fostered in the earth, was naturally adopted as the symbol of the
productive power of the waters, upon which the active spirit of the
Creator operated in giving life and vegetation, to matter. We accordingly
find it employed in every part of the northern hemisphere, where the
symbolical religion, improperly called idolatry , does or ever did
prevail. The sacred images of rhe Tartars, Japanese, and Indians
are almost placed upon it, of which numerous instances occur in the
publications of Kcempfer, Sonnerat, etc. The Brahma of India is
represented as sitting upon his Lotus throne, and the figure upon the
Isaaic table holds the stem of this plant surmounted by the seed vessel
in one hand, and the Cross representing the male organs of
generation in the other; thus signifying the universal power, both active
and passive, attributed to that goddess.” Nimrod says :—“ The Lotus
is a well-known allegory, of which the expansive calyx represents the
ship of the gods floating on the surface of the water ; and the
erect flower arising out of it, the mast thereof. The one was the
galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ; but as the ship was
Isis or Magna Mater, the female principle, and the mast in it the male
deity, these parts of 62 Phallic Worship
the flower came to have certain other significations, which seem to have
been as well known at Samosata as at Benares. This plant was also used in
the sacred offices of the Jewish religion. In the ornaments of the temple
of Solomon, the Lotus or lily is often seen.” The figure of
Isis is frequently represented holding the stem of the plant in one hand,
and the cross and circle in the other. Columns and capitals resembling
the plant are still existing among the ruins of Thebes, in Egypt,
and the island of Pbilce. The Chinese goddess, Pussa, is represented
sitting upon the Lotus, called in that country Lin, with many arms, having
symbols signifying the various operations of nature, while similar
attributes are expressed in the Scandinavian goddess Isa or Disa.
The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and Egyptian
cosmogony. This plant appears to have the same tendency with the Sphinx, of
marking the connection between that which produces and that which is
produced. The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue
Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of celestial love so
frequently seen mounted on the back of Leo in the ancient remains. The
following is a translation of the Purana relating to the cosmogony of the
Hindus, and will be found interesting as showing the importance
attached to the Lotus in the worship of the ancients :— “ We find Brahma
emerging from the Lotus. The whole universe was dark and covered with
water. On this primeval water did Bhagavat (God), in a masculine
form, repose for the space of one Calpho (a thousand years); after which
period the intention of creating other beings for his own wise purposes
became pre¬ dominant in the mind of the Great Creator . In the
first Phallic Worship 63 place, by his
sovereign will was produced the flower of the Lotus, afterwards, by the
same will, was brought to light the form of Brahma from the said flower ;
Brahma, emerging from the cup of the Lotus, looked round on all the
four sides, and beheld from the eyes of his four heads an immeasurable
expanse of water. Observing the whole world thus involved in darkness and
submerged in water, he was stricken with prodigious amazement, and
began to consider with himself, £ Who is it that produced me ? ’ *
whence came I ? ’ ‘ and where am I ? * “ Brahma, thus kept two
hundred years in contem¬ plation, prayers, and devotions, and having pondered
in his mind that without connection of male and female an abundant
generation could not be effected—again entered into profound meditation
on the power of the Supreme, when, on a sudden by the omnipotence of God,
was produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man of
perfect beauty; and from the Brahma’s left side a woman named Satarupa.
The prayer of Brahma runs thus :—‘ O Bhagavat! since thou broughtest me
from nonentity into existence for a particular purpose, accomplish
by thy benevolence that purpose.’ In a short time a small white boar
appeared, which soon grew to the size of an elephant. He now felt God in
all, and that all is from Him, and all in Him. At length the power
of the Omnipotent had assumed the body of Vara. He began to use the
instinct of that animal. Having divided the water, he saw the earth a
mighty barren stratum. He then took up the mighty ponderous globe
(freed from the water) and spread the earth like a carpet on the face of
the water; Brahma, contemplating the whole earth, performed due
reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling 64 Phallic Worship the
renovated world.” Pjag, now Allahabad, was the first land said to have
appeared, but with the Brahmins it is a disputed point, for many affirm
that Cast or Benares was the sacred ground. MERU
The learned Higgins, an English judge, who for some years spent ten
hours a day in antiquarian studies, says that Moriah, of Isaiah and
Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus of the Greeks.
Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which
because mounts of Venus, mans veneris —Meru and Mount Calvary—each a
slightly skull-shaped mount, that might be represented by a bare head. The
Bible translators perpetuate the same idea in the word “ calvaria.”
Prof. Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name from its
being the place of the crucifixion of Jesus. Looking elsewhere and in
earlier times for the bare calvaria, we find among Oriental women, the
Mount of Venus, mons veneris , through motives of neatness or
religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see
Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a priest. The
priests of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave the head. To
make a place holy, among the Hindus, Tartars, and people of Thibet,
it was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni, or
Arba. Phallic Worship 65 LINGAM
IN THE TEMPLE OF ELORA This marvellous work of excavation by the
slow process of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who
afterwards published a volume describing the temple and its vast
statues. The beauty of its architectural ornaments, the innumerable statues
or emblems, all hewn out of solid rock, dispute with the Pyramids for the
first place among the works undertaken to display power and embody
feeling. The stupendous temple is detached from the neighbouring mountain
by a spacious area all round, and is nearly 2 5 o feet deep and 15 o feet
broad, reaching to the height of 100 feet and in length about 145 feet.
It has well-formed doorways, windows, staircases, upper floors,
containing fine large rooms of a smooth and polished surface, regularly
divided by rows of pillars ; the whole bulk of this immense block of
isolated excavation being upwards of 500 feet in circumference, and
having beyond its areas three handsome figure galleries or verandas
supported by regular pillars. Outside the temple are two large obelisks
or phalli standing, “ of quadrangular form, eleven feet square, prettily
and variously carved, and are estimated at forty-one feet high; the shaft
above the pedestal is seven feet two inches, being larger at the
base than Cleopatra’s Needle.” In one oi the smaller temples
was an image of Lingam, “ covered with oil and red ochre, and flowers
were daily strewed on its circular top. This Lingam is larger than
usual, occupying with the altar, a great part of the room. In most Ling
rooms a sufficient space is left for the votaries to walk round whilst
making the usual invocations to the deity (Maha Deo). This deity is much
frequented by female votaries, who take especial care to keep it
clean E 66 Phallic Worship
washed, and often perfume it with oderiferous oils and flowers, whilst
the attendant Brahmins sweep the apartment and attend the five oil lights
and bell ringing.” This oil vessel resembled the Yoni (circular frame),
into which the light itself was placed. No symbol was more venerated
or more frequently met with than the altar and Ling, Siva, or Maha Deo. “
Barren women constantly resort to it to supplicate for children,” says
Seeley. The mysteries attended upon them is not described, but doubtless
they were of a very similar character to those described by the
author of the “ Worship of the Generative Powers of the Western Nations,”
showing again the similarity of the custom with those practised by the
Catholics in France. The writer says :—“ Women sought a remedy for barren¬
ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they appear to have
placed a part of their body, naked, against the image of the saint, or to
have sat upon it. This latter trait was perhaps too bold an adoption of
the indecencies of Pagan worship to last long, or to be practised openly
; but it appears to have been innocently represented by lying upon
the body of the saint, or sitting upon a stone, understood to represent
him without the presence of the energetic member. In a corner in the
church of the village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is
a stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity
upon women who sit upon it; but it is necessary nothing should intervene
between their bare skin and the stone. In the church of Orcival in
Auvergne, there was a pillar which barren women kissed for the same
purpose and which had perhaps replaced some less equivocal object.”
The principal object of worship at Elora is the stone, so frequently
spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he apologises for using the
word so often, but asks to be Phallic Worship
67 excused, “ is an emblem not generally known, but as
frequently met with as the Cross in Catholic worship.” It is the god
Siva, a symbol of his generative character, the base of which is usually
inserted in the Yoni. The stone is of a conical shape, often black stone,
covered with flowers (the Bella and Asuca shrubs). The flowers hang
pendant from the crown of the Ling stone to the spout of the Argha or
Yoni (mystical matrix) ; the same as the Phallus of the Greeks. Five
lamps are commonly used in the worship at the symbol, or one lamp with
five wicks. The Lotus is often seen on the top of the Ling.
VENUS-URANIA.—THE MOTHER GODDESS The characteristic attribute of
the passive generative power was expressed in symbolical writing, by
different enigmatical representations of the most distinguished
characteristic of the female sex: such as the shell or Concha Veneris ,
the fig-leaf, barley corn, and the letter Delta, all of which occur very
frequently upon coins and other ancient monuments in this sense. The
same attribute personified as the goddess of Love, or desire, is
usually represented under the voluptuous form of a beautiful woman,
frequently distinguished by one of these symbols, and called Venus,
Kypris, or Aphrodite, names of rather uncertain mythology. She is said to
be the daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and
female personifications of the all-pervading Spirit of the Universe ;
Dione being the female Dis or Zeus, and there¬ fore associated with him
in the most ancient oraculai 68 Phallic
Worship temple of Greece at Dodona. No other genealogy appears
to have been known in the Homeric times ; though a different one is
employed to account for the name of Aphrodite in the “ Theogony ”
attributed to Hesiod. The Genelullides or Genoidai were the
original and appropriate ministers or companions of Venus, who was
however, afterwards attended by the Graces, the proper and original
attendants of Juno; but as both these goddesses were occasionally united
and represented in one image, the personifications of their respective
sub¬ ordinate attributes were on other occasions added: whence the
symbolical statue of Venus at Paphos had a beard, and other appearances
of virility, which seems to have been the most ancient mode of
representing the celestial as distinguished from the popular goddess of
that name—the one being a personification of a general procreative
power, and the other only of animal desire or concupiscence. The
refinement of Grecian art, however, when advanced to maturity, contrived
more elegant modes of distinguishing them ; and, in a celebrated work
of Phidias, we find the former represented with her foot upon a tortoise
; and in a no less celebrated one of Scopas, the latter sitting upon a
goat. The tortoise, being an androgynous animal, was aptly chosen as a
symbol of the double power ; and the goat was equally appropriate
to what was meant to be expressed in the other. The same attribute
was on other occasions signified by a dove or pigeon, by the sparrow, and
perhaps by the polypus, which often appears upon coins with the
head of the goddess, and which was accounted an aphrodisiac, though
it is likewise of the androgynous class. The fig was a still more common
symbol, the statue of Priapus being made of the tree, and the fruit being
carried with the Phallic Worship 69
Phallus in the ancient processions in honour of Bacchus, and still
continuing among the common people of Italy to be an emblem of what it
anciently meant: whence we often see portraits of persons of that country
painted with it in one hand, to signify their orthodox elevation to
the fair sex. Hence, also arose the Italian expression far la fica ,
which was done by putting the thumb between the middle and fore-fingers,
as it appears in many Priapic orna¬ ments extant; or by putting the
finger or thumb into the corner of the mouth and drawing it down, of
which there is a representation in a small Priapic figure of
exquisite sculpture, engraved among the Antiquities of Herculaneum.
LIBERALITY AND SAMENESS OF THE WORLD-RELIGIONS The
same liberal and humane spirit still prevails among those nations whose
religion is founded on the same principles. “ The Siamese,” says a
traveller of the seventeenth century, “ shun disputes and believe
that almost all religions are good ” (“ Journal du Voyage de Siam
”). When the ambassador of Louis XIV asked their king, in his master’s
name, to embrace Christianity, he replied, “ that it was strange that the
king of France should interest himself so much in an affair which
concerns only God, whilst He, whom it did concern, seemed to leave
it wholly to our discretion. Had it been agreeable to the Creator that
all nations should have had the same form of worship, would it not have
been as easy to His omnipotence to have created all men with the same
senti- 7° Phallic Worship ments
and dispositions, and to have inspired them with the same notions of the
True Religion, as to endow them with such different tempers and
inclinations ? Ought they not rather to believe that the true God has as
much pleasure in being honoured by a variety of forms and
ceremonies, as in being praised and glorified by a number of
different creatures ? Or why should that beauty and variety, so
admirable in the natural order of things, be less admirable or less
worthy of the wisdom of God in the supernatural ? ” The
Hindus profess exactly the same opinion. “ They would readily admit the
truth of the Gospel,” says a very learned writer long resident among
them, “ but they contend that it is perfectly consistent with their
Shastras. The Deity, they say, has appeared innumerable times in
many parts of this world and in all worlds, for the salvation of his
creatures ; and we adore, they say, the same God, to whom our several
worships, though different in form, are equally acceptable if they be
sincere in substance.” The Chinese sacrifice to the spirits of the
air the mountains and the rivers ; while the Emperor himself
sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all these spirits are
subordinate, and from whom they are derived. The sectaries of Fohi have,
indeed, surcharged this primitive elementary worship with some of
the allegorical fables of their neighbours ; but still as their
creed—like that of the Greeks and Romans—remains undefined, it admits of
no dogmatical theology, and of course no persecution for opinion. Obscure
and sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed on many
occasions ; but still as actions and not as opinions. Atheism is said to
have been punished with death at Athens ; but nevertheless it may be
reasonably doubted Phallic Worship 7 1
whether the atheism, against which the citizens of that republic
expressed such fury, consisted in a denial of the existence of the gods ;
for Diagoras, who was obliged to fly for this crime, was accused of
revealing and calum¬ niating the doctrines taught in the Mysteries ; and
from the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe
that his offence was of the same kind, though he had not been
initiated. These were the only two martyrs to religion among
the ancient Greeks, such as were punished for actively violating or
insulting the Mysteries, the only part of their worship which seems to
have possessed any vitality; for as to the popular deities, they were
publicly ridiculed and censured with impunity by those who dared not
utter a word against the populace that worshipped them; and as to
the forms and ceremonies of devotion, they were held to be no otherwise
important, then as they were constituted a part of civil government of
the state; the Phythian priestess having pronounced from the
tripod, that whoever performed the rites of his religion according to
the laws of his country, performed them in a manner pleasing to the
Deity. Hence the Romans made no alterations in the religious institutions
of any of the conquered countries ; but allowed the inhabitants to be as
absurd and extravagant as they pleased, and to enforce their absurdities
and extravagances wherever they had any pre-existing laws in their
favour. An Egyptian magistrate would put one of his fellow-subjects to
death for killing a cat ora monkey; and though the religious fanaticism
of the Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely
free from restraint, a chief of the synagogue could order anyone of his
congregation to be whipped for neglecting or violating any part of the
Mosaic Ritual. 7 2 Phallic Worship The
principle underlying the system of emanations was, that all things were
of one substance, from which they were fashioned and into which they were
again dissolved, by the operation of one plastic spirit universally
diffused and expanded. The polytheist of ancient Greece and Rome
candidly thought, like the modern Hindu, that all rites of worship and
forms of devotion were directed to the same end, though in different
modes and through different channels. “ Even they who worship other gods,
says Krishna, the incarnate Deity, in an ancient Indian poem (
Bhagavat-Gita ), “worship me although they know it not ''— Payne
Knight. Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga. Keywords: rito di
passage, solo una volta, l’iniziazione, massoneria, esoterismo, democrazia come
sistema simbolico, sovranita, stato nazionale, conflitto, liberta, fraternita,
iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cazzaniga” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774044075/in/dateposted-public/
Grice e Ceccato –plusquamperfectum -- implicatura imperfetta -- il perfetto filosofo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Montecchio Maggiore). Filosofo. Grice: “I like Ceccato – like
other Italian philosophers, he has an obsession with geometrical
conjunctions and my favoruite of his
tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also philosophised on other
issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to give a ‘mechanical
explanation’ of language – he has also talked about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an
expression Italian philosophers hardly use as they see it as an Anglicism,
preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised on ‘eudaimonia,’
without taking into account J. L. Ackrill’s etymological findings – but then
the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and also of the
‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all ‘how not to’
ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in ‘how NOT to
philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever
unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy – ‘il
perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una definizione
del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa
disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di
un'opzione alternativa, denominata inizialmente "metodologia
operativa" e in seguito "cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi
saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo
notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo
nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi
alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti
contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in
collaborazione con il Gruppo V di Rimini. Studioso della psicologia
filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per
costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in
termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente
elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze
operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della
espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale.
Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è
tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione
musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della successione
di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua adamica) da lui
chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a Immanuele Kant.
Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche a
Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di Sistemi di
controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro ispiratore decise di
partecipare come attore nel film "32 dicembre" di Crescenzo,
interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si crede
Socrate. Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso nelle
Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come
filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con
la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions
Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano);
“Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti,
Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il
gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un
cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e
responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed. Priuli&Verlucca,
Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista
inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille
tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia”
(Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la
Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di
Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La cibernetica
italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e attualità della
logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova, Universitas Studiorum.
2.00 PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE, di Silvio
Ceccato. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione
delle Attivita... L ' Anatomica methodus, di Andrés Laguna (1499 - 1560 ).
Pisa, Giardini, 1968. Ceccato, Silvio, comp: Corso di linguistica operativa. A
cura di Silvio Ceccato. Centoventotto illustrazioni nel testo. Milano, Longanesi,
1969. 321 p. lllus. Language and Behavior (1946 ) was published in Italian
translation in 1949, thanks to Silvio Ceccato (cf. Petrilli 1992a ). Silvio
Ceccato, padre della cibernetica italiana, che in quegli anni stava mettendo a
punto insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ”, di
cui si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi
in memoria di Silvio Ceccato - Page 5books.google.com › books· Translate this
page 1999 · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato
Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, i giornali
hanno dedicato pochi, imbarazzati e, a volte, imbarazzanti articoli alla figura
di Silvio Ceccato. Se qualcuno, tramite questi articoli... Silvio Ceccato's
little volume Corso di linguistica operativa (Ceccato 1969 ) sits on a quiet
shelf in Lauinger library, the work of a semantic pioneer. Silvio Ceccato.
Silvio Ceccato. (Civilta delle Macchine, Nos. 1-2, 1956 ) This monograph
presents a discussion of the problems encountered by members of the Italian
Operational School in their attempts to develop techniques to be used in...
Foundations of Language - Volumes 1-2 - Page 171books.google.com › books
1965 · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 171... with his hand, when he moves
the pieces, he performs a manual, a physical activity. Foundations of Language
1 (1965 ) 171-188. All rights reserved. The two types of activity can be
distinguished in a 171 SILVIO CECCATO CECCATO. I use an operational approach to
mental activity based on Silvio Ceccato ' s " TECNICA OPERATIVA " (Ceccato
- 1953, 1961 ), one of the earliest approaches implemented on a computer (University
of Milan, 1961 ). 2 - I look at the. Debbo la spinta a studiare processi di
questo tipo alla ' tecnica operativa ' di Silvio Ceccato, di cui un primo
abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff. Paris: Herman & Cie. 1951.
Die Ceccato si verdano anche articoli in Methodos... Silvio Ceccato, the
Italian pioneer in the analysis of mental operations and construction, told me
that once, after a public discussion of his theory, he overheard a philosopher
say: " If Ceccato were right, the rest of us would be fools ! Silvio
Ceccato's group exploited semantic pattern matching using semantic categories
and semantic case frames, and Ceccato's approach (1967 ) also involved the use
of world knowled. THE IMPERFECT INDICATIVE IN EARLY LATIN.
i . Introductory. It is the purpose of this paper to define
and differentiate the various uses of the imperfect indicative, to
discover if possible their origin and trace their interrelations, to
outline in fact the history of the tense in early Latin. The term ' early
Latin ' is used somewhat elastically as including not only all the
remains of the language down to about the time of Sulla, but also the
first volume of inscriptions (to 44 B. c.) and the works of Varro, for
Varro belongs distinctly to the older school of writers in spite of the
fact that the Rerum rusticarum libri were written as late as 37 B. c. But
exact chronological periods are of little meaning in matters of this
sort, and the present outline, being but a frag- ment of a more complete
history of the tense, may stop at this point as well as another.
Before proceeding to the investigation of the cases of the
imperfect occurring in early Latin it is necessary to describe briefly
the system by which these cases have been classified. In the first place
all cases of the same verb have been placed together so that the
individual verb forms the basis of classification. 1 Then verbs of
similar meanings have been combined to form larger groups. There result
three main groups (and some subdivisions) which for the better
understanding of this paper may be tabulated thus: I. Verbs
of physical action or state. 1. Motion of the whole of a body, e.
g. eo, curro. 2. Action of a part of a body, e. g. do, iacio.
3. Verbal communication, e. g. dico,promilto. 4. Rest or
state, e. g. sum, sto, sedeo. II. Verbs of psychic action or
state. 1. Thought, e. g.puto, scio, spcro. 2. Feeling,
e. g. metuo, atno. 3. Will, e. g. volo, nolo. 1 Cf.
Trans. Am. Philolog. Ass., XXX, 1899, pp. 14-15. 164
AMERICAN- JOURNAL OF PHILOLOGY. III. Auxiliary verbs, i. e. verbs
which represent such English words as could, should, might, &c,
&c, e. g. possum, oportet, decet. Such a system has, of course,
many inconsistencies. The verb ago, for instance, may be a verb of action
(I. 2) or of verbal com- munication (I. 3), but since instances of this
sort were compara- tively rare and affected no important groups of verbs
it has seemed best not to separate cases of the same verb.
Again I. 3 is logically a part of I. 2, or the verbs grouped under
III might perhaps have been distributed among the different subdivisions
of I and II. But the object of the classification, to discover the
function of each case, has seemed best attained by grouping the verbs as
described. By this system verbs of similar meaning, whose tenses are
therefore similarly affected, are brought together and this is the
essential point. In a very large collection of cases a stricter
subdivision would doubtless prove of advantage. 2. The Facts
1 of Usage. There are about 1400 cases of the imperfect indicative
in the period covered by this investigation. Of these, however, it
has been necessary to exclude 2 from 175 to 180 leaving 1226 from a
consideration of which the results have been obtained. The tense appears,
therefore, not to have been a favorite, and its comparative infrequency
which I have noted already for Plautus and Terence 3 may here be asserted
for the whole period of early Latin. About three-quarters of the total
number of cases are supplied by Plautus, Terence, and Varro (see Table
I). A study of these 1226 cases reveals three general uses of
the imperfect indicative : I. The progressive or true
imperfect. II. The aoristic imperfect. III. The'
shifted' imperfect. Let us consider these in order. 1 In the
following pages I have made an effort to state and illustrate the facts,
reserving theory and discussion for the third section of this paper.
a These are cases doubtful for one reason or another, chiefly because
of textual corruption or insufficient context. For the latter reason
perhaps too many cases have been excluded, but I have chosen to err in
this direction since so much of the material consists of fragments where
one cannot feel absolutely certain of the force of the tense.
3 Trans. Am. Philolog. Ass., XXX, p. 22. THE IMPERFECT
INDICA TIVE IN EARL Y LA TIN. 1 65 The true imperfect shows several
subdivisions : I A. The simple progressive imperfect. I
B. The imperfect of customary past action. I C. The frequentative
imperfect. Of these I A and I B include several more or less
distinct variations, but all three uses together with their
subdivisions betray their relationship by the fact that all possess or
are immediately derived from the progressive ' function. This pro-
gressive idea, the indication of an act as progressing, going on, taking
place, in past time or the indication of a state as vivid, is the true
ear-mark of the tense. The time may be in the distant past or at any
point between that and the immediate past or it may even in many contexts
extend into the present. In duration the time may be so short as to be
inappreciable or it may extend over years. The time is, however, not a
distinguishing mark of the imperfect. The perfect may be described in the
same terms. The kind of action * remains, therefore, the real
criterion in the distinction * of the imperfect from other past
tenses. I A. The Simple Progressive Imperfect. Under
this heading are included all cases in which the tense indicates simple
progressive action, i. e. something in the 'doing', ' being ', 4 &c.
The idea of progression is present in all the cases, but there are in other
respects considerable differences according to which some distinct
varieties may be noted. All told there are 680 cases of this usage
constituting more than half the total (1226). I I have chosen
progressive as more expressive than durative which seems to emphasize too
much the time. 2 'Kind of action' will translate the convenient
German Aktionsart while ' time ' or ' period of time ' may stand for
Zeitstufe. % Herbig in his very interesting discussion, Aktionsart
und Zeitstufe (I. F. '896), §107, comes to the conclusion that
'Aktionsart ' is older than ' Zeitstufe ' and that though many tenses are
used timelessly none are used in living speech without
'Aktionsart.' * The progressive effect is also found in the present
participle (and in parti- cipial adjectives), and indeed the imperfect,
especially in subordinate clauses, is often interchangeable with a
participial expression, falling naturally into participial form in
English also. How close the effect of the imperfect was to that of the
present participle is well illustrated by Terence, Heaut. 293-4 nebat . .
. texebat and 285 texentem . . . offendimus. Cf. Varro R. R. Ill, 2. 2
cited on p. 167. 166 AMERICAN JOURNAL OF PHILOLOGY.
Of these 449 are syntactically independent, 231 dependent. 1 In its
ordinary form this usage is so well understood that we may content
ourselves with a few illustrations extending over the different groups of
verbs. I.i. Verbs of motion. Plautus, 2 Aul. 178, Praesagibat mi
animus frustra me ire, quom exibam domo. 1 With the
principles of formal description as last and best expressed by Morris (On
Principles and Methods of Syntax, 1901, pp. 197-8) all syntacticians
will, I believe, agree. Nearly all of them will be found well illustrated in
the present paper. For purposes of tense study, however, I have been
unable to see any essential modification in function resulting from
variation of person and number, although some uses have become almost
idiomatic in certain persons, e. g. the immediate past usage with first
person sing, of verbs of motion (p. 15). Just how far tense function is
affected by the kind of sentence in which the tense stands I am not
prepared to say. In cases accompanied by a negative or standing in an
interrogative sentence the tense function is more difficult to define
than in simple affirmative sentences. It is easier also to define the
tense function in some forms of dependent clauses, e. g. temporal,
causal, than in others. This is an interesting phenomenon, needing for its
solution a larger and more varied collection of cases than mine. At
present I do not feel that the influence upon the tense of any of these
elements is definite enough to call for greater complexity in the system
of classification. While, therefore, I have borne these points constantly
in mind, the tables show the results rather than the complete method of
my work in this respect. ' In the citation of cases the following
editions are used: Fragments of the dramatists, O. Ribbeck,
Scaenicae Romanorum poesis fragmenta (I & II), Lipsiae 1897-8 (third
edition). Plautus, Goetz and Schoell, T. Macci Plauti comoediae
(editio minor), Lipsiae 1892-6. Terence, Dziatzko, P. Terenti
Afri comoediae, Lipsiae 1884. Orators, H. Meyer, Oratorum romanorum
fragmenta, Turici 1842. Historians, C. Peter, Historicorum
Romanorum fragmenta, Lipsiae 1883. Cato, H. Keil, M. Porci Catonis
de agricultura liber, Lipsiae 1895, and H. Jordan, M. Catonis praeter
lib. de re rustica quae extant, Lipsiae i860. Lucilius, L. Mueller,
Leipsic 1872. Auctor ad Herennium, C. L. Kayser, Cornifici
rhetoricorum ad C. Heren- nium libri tres, Lipsiae 1854.
Inscriptions, Th. Mommsen, C. I. L. I. Ennius (the Annals),
L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli 1884.
Naevius (Bell, poen.), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae,
Petropoli 1884. Varro, H. Keil, M. Terenti Varronis
rerum rusticarum libri tres, Lipsiae 1883. Varro, A. Spengel, M.
Terenti Varronis de lingua latina, Berolini 1885. Varro, BUcheler,
M. Terenti Varronis saturarum Menippearum reliquiae, Lipsiae 1865.
THE IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LATIN. 1 67 Id.
Amph. 199, Nam quom pugnabant maxume, ego turn fugiebam
maxume. Lucilius, Sat., XVI. 12, l ibat forte aries' inquit; I. 2.
Verbs of action. Ex incertis incertorum fabulis (comoed. pall.) p. 137,
XXIV. R., sed sibi cum tetulit coronam ob coligandas nuptias, T\b\
ferebat; cum simulabat se sibi alacriter dare, Turn ad te ludibunda docte
et delicate detulit. Plautus, True. 198 . . . atque opperimino : iam
exibit, nam lavabat. Cf. id. Men. 564 (ferebam), Mil. 1336
(temptabam), Epid. 138 (mittebam); Terence, Andr. 545 (dabam); Auctor
ad Herenn. 4, 20, 27 (oppetebat). I. 3. Verbal communication.
Plautus, Men. 1053, Quin modo Erupui, homines qui ferebant te
. . . Apud hasce aedis. tu clamabas deum fidem, Ex incert. incert.
&c. 282. XXXII. R., Vidi te, Ulixes saxo sternentem Hectora,
Vidi tegentem clipeo classem Doricam : Ego tunc pudendam trepidus
hortabar fugam. I. 4. State. Plautus, Aul. 376, Atque
eo fuerunt cariora, aes non erat. Id. Mil. 181, Sed Philocomasium hicine
etiam nunc est? Pe. Quom exibam, hie erat. Varro, R. R. III.
2. 2., ibi Appium Claudium augurem sedentem invenimus . . . sedebat
ad sinistram ei Cornelius Merula . . . Cf. also Plautus, Rud.
846, (sedebanf), Amph. 603 (stabam) &c. &c. II.
1. Verbs of thought. Hist. frag. p. 70, 1. 7, Et turn quo irent
nesciebani, ilico manserunt. Plautus, Pseud. 500-1, Non a me
scibas pistrinum in mundo tibi, Quom ea muss[c]itabas ? Ps.
Scibam. Cf. also Plautus, Rud. 1 186 ,(credebam); Varro R. R. I. 2.
25. (ignorabat), &c. II. 2. Feeling. Plautus, Epid.
138, Desipiebam mentis, quom ilia scripta mittebam tibi.
1 68 AMERICAN JOURNAL OF PHILOLOGY. Id. Bacch. 683,
Bacchidem atque hunc suspicabar propter crimen, Chrysale, II.
3. Will. Lucilius, Sat. incert. 48, fingere praeterea adferri quod
quis- que volebat: In these cases the act or state indicated
by the tense is always viewed as at some considerable distance in the
past even though in reality it may be distant by only a few seconds. The
speaker or writer stands aloof, so to speak, and views the event as at
some distance and as confined within certain fairly definite limits in
the past. If, now, the action be conceived as extending to the im-
mediate past or the present of the speaker, a different effect is
produced, although merely the limits within which the action progresses
have been extended. This phase of the progressive imperfect we might term
the imperfect of the immediate past 1 or the interrupted 2 imperfect,
since the action of the verb is often interrupted either by
accomplishment or by some other event. A few citations will make these
points clearer : Plautus, Stich. 328, ego quid me velles
visebam. Nam mequidem harum miserebat. — '\ was coming to see
what you wanted of me (when I met you) ; for I've been pitying (and still
pity) these women.' In the first verb the action is interrupted by the meeting
; in the second it continues into the present, the closest translation
being our English compound pro- gressive perfect, a tense which Latin
lacked. The imperfect ibam is very common in this usage, cf. Plautus,
True. 921, At ego ad te ibam = l was on my way to see you (when you
called me), cf. Varro, R. R. II. 11. 12; Terence, Phorm. 900, Andr.
580. But the usage is by no means confined to verbs of motion
(I. 1) alone. It extends over all the categories: I. 2.
Motion. Plautus, Aulul. 827 (apparabas), cf. Andr. 656. 1 In
Greek the aorist is used of events just past, but of course with no pro-
gressive coloring, cf. Brugmann in I. Miiller's Handbuch, &c, II 2 , p.
185. * E. Rodenbusch, De temporum usu Plautino quaest. selectae,
Argentorati 1888, pp. n-12, recognizes and correctly explains this usage,
adding some examples of similar thoughts expressed by the present, e. g.
Plautus, Men. 280 (quaeris), ibid. 675 (quaerit), Amph. 542 (numquid vis,
a common leave-taking formula). In such cases the speaker uses imperfect
or present according as past or present predominates in his mind, the
balance between the two being pretty even. THE
IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LA TIN. 1 69 I. 3. Verbal
communication. Terence, Eun. 378 (iocabar), Heaut. 781 (dicebam) ; Plautus,
Trin. 212 (aibanf). I. 4. Rest. Plautus, Cas. 532
(eratn), cf. Men. n 35. Terence, Eun. 87 (stabam), Phorm. 573
{cotnmorabar). II. 1. Thought. Terence, Phorm. 582
(scibam), cf. Heaut. 309. Plautus, Men. 1072 (censebam), cf. Bacch. 342, As.
385 &c. II. 2. Feeling. Plautus, Stich. 329 (miserebaf) ;
Turpilius, 107 V R. (sperabam). II. 3. Will.
Plautus, As. 392 and 395 (volebatn), Most. 9, Poen. 1231. 1
III. Auxiliary verbs. Plautus, Epid. 98 (so/ebam), cf. Amph.
711. Terence, Phor- mio 52 (conabar). In this usage the present or
immediate past is in the speaker's mind only less strongly than the point
in the past at which the verb's action begins. The pervading influence of
the present is evident not only because present events are usually at
hand in the context, but also from the occasional use with the
imperfect of a temporal particle or expression of the present, cf.
Plaut. Merc. 884, Quo nunc ibas = ' whither were you (are you) going ?
' Terence, Andr. 657, immo etiam, quom tu minus scis aerumnas
meas, Haec nuptiae non adparabanfur mihi, ' Rodenbusch
(p. 26) labors hard to show that this case is like the preceding and not
parallel with the cases of volui which he cites on p. 24 with all of
which an infinitive of the verb in the main clause is either expressed or
to be supplied. Following Bothe, he alters deicere to dice (which he
assigns to Adelphasium) and refers quod to the amabo and amflexabor of
I230 = 'meine Absicht'. But there is no need of this. Infinitives occur
with some of the cases cited by Rodenbusch himself on p. II, e. g. Bacch.
188 (189) Istuc volebatn . . . fercontarier, Trin. 195 Istuc voUbam
scire, to which may be added Cas. 674 Dicere vilicum volebatn and ibid.
702 illud . . . dicere volebatn. It is true that the perfect is more
common in such passages, but the imperfect is by no means excluded. The
difference is simply one of the speaker's point of view: quod volui = '
what I wished * (complete) ; quod valebant = ' what I was and am wishing
' (incomplete). As. 212, which also troubles Rodenbusch, is customary
past. 12 170 AMERICAN JOURNAL OF
PHILOLOGY. Nee postulabat nunc quisquam uxorem dare.
Merc. 197, Equidem me tarn censebam esse in terra atque in
tuto loco : Verum video . . . In the last two cases
note the accompanying presents, set's and video. The
immediate past also is indicated by a particle, e. g. Plautus, Cas. 594
ad te hercle ibam commodum. There are in all 207 l cases of this
imperfect of the immediate past. They are distributed pretty evenly over
the various groups of verbs as will be seen from the following
table: No. of Cases.
I. I Verbs of motion, 26
I. 2 it " action,
17 I. 3 (i "
verbal communication, 31 I. 4
" " state, 35 II.
1 it " thought, 36
II. 2 " "
feeling, 35 II. 3
" " will, 13 III.
Auxil iary verbs, 14 207
The verbs proportionately most common in this use are ibam and
volebam which have become idiomatic. The usage is especially common in
colloquial Latin, but 16 cases 5 occurring outside the dramatic
literature represented chiefly, of course, by Plautus and Terence.
By virtue of its progressive force the imperfect is a vivid tense
and as is well known, became a favorite means in the Ciceronian period of
enlivening descriptive passages. It was especially used to fill in the
details and particulars of a picture (imperfect of situa- tion). 8 This
use of the tense appears in early Latin also, but with much less
frequency. The choice of the tense for this purpose is a matter of art,
whether conscious or unconscious. At times, indeed, there is no apparent
reason for the selection of an imper- fect rather than a perfect except
that the former is more graphic, 1 Somewhat less than one-third of
the total (680) progressive cases. 5 These cases are Ennius, Ann.
204, C. I. L. I. 201. 1 1 (3 cases), Varro, L. L. 5. 9 (1 case), and
Auctor ad Herenn. 1. 1. 1 (2 cases), 1. 10. 16, 2. 1. 2, 2. 2. 2 (2
cases), 3. 1. 1 (2 cases), 4. 34. 46, 4. 36. 48, 4. 37. 49. All of these are
in passages of colloquial coloring, either in speeches or, especially
those in auctor ad Herenn., in epistolary passages. 3 I use
this term for all phases of the tense used for graphic purposes.
THE IMPERFECT INDICATIVE IN EARL Y LA TIN. 171 and if it were
possible to separate in every instance these cases from those in which
the imperfect may be said to have been required, we should have a
criterion by which we might dis- tinguish this use of the imperfect from
others. But since the progressive function of the tense is not altered,
such a distinction is not necessary. Statistics as to the
frequency of the imperfect of situation in early Latin are worth little
because the chief remains of the language of that period are the
dramatists in whom naturally the present is more important than the past.
The historians, to whom we should look for the best illustrations of this
usage, are for the most part preserved to us in brief fragments.
Nevertheless an examination of the comparatively few descriptive passages
in early Latin reveals several points of interest. In Plautus
and Terence the imperfect was not a favorite tense in descriptions.
Bacch. 258-307, a long descriptive passage of nearly 50 lines,
interrupted by unimportant questions, shows only 4 imperfects (1
aoristic) amid over 40 perfects, historical presents, &c. Capt.
497-5151 Amph. 203-261, Bacch. 947-970, show but one case each. Stich.
539-554 shows 5 cases of erat. In Epid. 207-253 there are 10 cases.
In the descriptive passages of Terence the imperfect is still far
from being a favorite tense, though relatively more common than in
Plautus, cf. Andr. 48 ff., 74-102, Phorm. 65-135 (containing 11
imperfects). But Eunuch. 564-608 has only 4 and Heaut. 96-150 only
3. Another very instructive passage is the well-known
description by Q. Claudius Quadrigarius of the combat between Manlius
and a Gaul (Peter, Hist. rom. fragg., p. 137, 10b). In this passage
of 28 lines there are but 2 imperfects. The very similar passage
describing the combat between Valerius and a Gaul and cited by Gellius
(IX, n) probably from the same Quadrigarius contains 8 imperfects in 24
lines. Since Gellius is obviously retelling the second story, the
presumption is that the passage in its original form was similar in the
matter of tenses to the passage about Manlius. In other words Gellius has
'edited' the story of Valerius, and one of his improvements consists in
enlivening the tenses a bit. He describes the Manlius passage thus : Q.
Claudius primo annalium purissime atque illustrissime simplicique
et incompta orationis antiquae suavitate descripsit. This simplex
et incompta suavitas is due in large measure to the fact that
172 AMERICAN JOURNAL OF PHILOLOGY. Quadrigarius has used the
simple perfect (19 times), varying it with but few (4) presents and
imperfects (2). A closer com- parison of the passage with the story of
Valerius reveals the difference still more clearly. Quadrigarius uses
(not counting subordinate clauses) 19 perfects, 4 presents, 2 imperfects
; Gellius, 4 perfects, 9 presents, 8 imperfects. In several instances
the same act is expressed by each with a different tense :
Quadrigarius. Gellius. processit (bis), f procedebat,
\ progrediiur, constitit, c congrediuntur, \
consistent, constituerunt, conserebantur manus, 8 perfects of
acts in 5 imperfects of acts combat. of the corvus. Gellius
has secured greater vividness at the expense of simplicity and
directness. This choice of tenses was, as has been said, a matter
of art, whether conscious or unconscious. The earlier writers seem
to have preferred on the whole the barer, simpler perfect even in
passages which might seem to be especially adapted to the imperfect,
historical present, &c. The perfect, of course, always remained far
the commoner tense in narrative, and instances are not lacking in later
times of passages 1 in which there is a striking preponderance of
perfects. Nevertheless the imperfect, as the language developed, with the
growth of the rhetorical tendency and a consequent desire for variety in
artistic prose and poetry, seems to have come more and more into vogue.
2 The fact that the function of a tense is often revealed,
denned, and strengthened by the presence in the context of particles
of various kinds, subordinate clauses, ablative absolutes, &c,
&c, 1 E. g. Caesar, B. G. I. 55 and 124-5. s The relative
infrequency of the tense in early Latin was pointed out on p. 164. Its
growth as a help in artistic prose is further proved by the fact that the
fragments of the later and more rhetorical annalists, e. g. Quadrigarius,
Sisenna, Tubero, show relatively many more cases than the earliest
annalists. This is probably not accident. When compared with the history
of the same phenomenon in Greek, where the imperfect, so common in Homer,
gave way to the aorist, this increase in use in Latin may be viewed as a
revival of a usage popular in Indo-European times. Cf. p. 185, n.
2. THE IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LA TIN. I73
was pointed out in Trans. Am. Philol. Ass. XXX, pp. 17 ff. What was
there 1 said of Plautus and Terence may here be extended to the whole
period of early Latin. The words and phrases used in this way are chiefly
temporal. Some of those occurring most frequemly are: modo, commodum ;
turn, tunc; simul; dudum, iam dudum; iam, primo, primulum ; nunc; ilico;
olim, quondam; semper, saepe; fere, plerumque ; Ha, 2 &c, &c. A
rough count shows in this class about 120 cases,' accompanied by one or
more particles or expressions of this sort. Some merely date the tense,
e. g., turn, modo, dudum, &c. Others, as saepe, fere, primulum, have
a more intimate connection with the function. Naturally the effect of the
latter group is clearest in the imperfects of customary past action, the
frequentative, &c, and will be illustrated under those headings. Here
I will notice only a few cases with iam, primulum, &c, which
illustrate very well how close the relation between particle and tense
may be. The most striking cases are : Plautus, Merc. 43,
amare valide coepi[t] hie meretricem. ilico Res exulatum ad illam
<c>lam abibat patris. Cf. Men. 1 1 16, nam tunc dentes mihi
cadebant primulum. id. Merc. 197, Equidem me iam censebam esse in
terra atque in tuto loco : Verum video . . . id.
Cist. 566, Iam perducebam illam ad me suadela mea, Anus ei
<quom> amplexast genua . . . id. Merc. 212, credet hercle: nam
credebat iam mihi. The unquestionably inceptive force of these
cases arises from the combination of tense and particle. No inceptive*
function can be proved for the tense alone, for I find no cases with
inceptive force unaccompanied by such a particle. ■Cf. also
Morris, Syntax, p. 83. 5 How far the nature of the clause in which
it stands may influence the choice of a tense is a question needing
investigation. That causal, explanatory, characterizing, and other
similar clauses very often seem to require an im- perfect is beyond
question, but the proportion of imperfects to other tenses in such
clauses is unknown. Cf. p. 166, n. 1. s No introductory
conjunctions are included in this total, nor are other particles included,
unless they are in immediate connection with the tense. 4 In Trans.
Am. Philolog. Ass. XXX, p. 21, I was inclined to take at least Merc. 43
as inceptive. This I now believe to have been an error. The inceptive
idea was most commonly expressed by coepi -\- m&n. which is very
common in Plautus and Varro. We have here the opposite of the phenomenon
discussed on p. 177. 174 AMERICAN JOURNAL OF
PHILOLOGY. There are a few cases in which the imperfect produces
the same effect as the imperfect of the so-called first periphrastic
conjuga- tion : Terence, Hec. 172, Interea in Imbro moritur
cognatus senex. Horunc: ea ad hos redibal lege
hereditas.=reditura erat, English ' was coming ', ' was about to revert
', cf. Greek pi\\a> with infinitive. Cf. Phorm. 929, Nam
non est aequum me propter vos decipi, Quom ego vostri honoris causa
repudium alterae Remiserim, quae dotis tantundem <fti£«/.=datura erat
&c. In these cases the really future event is conceived very
vividly as already being realized. Plautus, Amph. 597 seems
to have the effect of the English 'could': Neque . . . mihi
credebam primo mihimet Sosiae Donee Sosia . . . ille . . . But the
* could ' is probably inference from what is a very vivid statement. A
Roman would probably not have felt such a shading. 1 I B. The
Imperfect of Customary Past Action. The imperfect may indicate some
act or state at some appreci- able distance in the past as customary,
usual, habitual &c. The act or state must be at some appreciable distance
in the past (and is usually at a great distance) because this function of
the tense depends upon the contrast between past and present, a
contrast so important that in a large proportion of the cases it is
enforced by the use of particles. 2 The act (or state) is conceived
as repeated at longer or shorter intervals, for an act does not
become customary until it has been repeated. This customary act
usually takes place also as a result or necessary concomitant of
certain conditions expressed or implied in the context, e. g. maiores
nosiri olim &c, prepares us for a statement of what they used to
do. The act may indeed be conceived as occurring only as a result
of a certain expressed condition, e. g. Plautus, Men. 484 mulier
quidquid dixerat, 1 Some of the grammars recognize ' could' as a
translation, e. g., A. & G. § 277 g- 8 E. g. turn,
tunc, olim &c. with the imperfect, and nunc &c. with the con-
trasted present. THE IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LA TIN.
1?$ Idem ego dicebam = my words would be uttered only as a
result of hers. 1 There are 462 cases of the customary past usage
of which 218 occur in independent sentences, 244 in dependent. This
large total, more than one-third of all the cases, is due to the
character of Varro's De lingua latina from which 289 cases come. This
is veritably a ' customary past ' treatise, for it is for the most part
a discussion of the customs of the old Romans in matters pertaining
to speech. Accordingly nearly all the imperfects fall under this head.
Plautus and Terence furnish 112. The remaining 61 are pretty well
scattered. As illustrations of this usage I will cite (arranging
the cases according to the classes of verbs) : I. 1. Plautus,
Pseud. 1180, Noctu in vigiliam quando ibat miles, quom tu Has
simul, Conveniebatne in vaginam tuam machaera militis ? Terence,
Hec. 157, Ph. Quid ? interea ibatne ad Bacchidem ? Pa.
Cottidie. Varro, L. L. 5. 180, qui iudicio vicerat, suum sacramentum
e sacro auferebat, victi ad aerarium redibat. I. 2. Plautus,
Bacch. 429, Saliendo sese exercebant magis quam scorto aut saviis.
(cf. the whole passage). Hist, fragg., p. 83. 27, Cn., inquit, Flavius,
patre libertino natus, scriptum faciebat (occupation) isque in eo tempore
aedili curuli apparebat, . . . I. 3. Terence, Eun. 398, Vel rex
semper maxumas Mihi agebal quidquid feceram : Varro, L. L.,
5. 121, Mensa vinaria rotunda nominabalur Cili- bantum ut etiam nunc in
castris. Cf. L. L. 7. 36, appellabant, 5. 118, 5. 167 &c.
1 This usage seemed to me formerly sufficiently distinct to deserve a
special class and the name 'occasional', since it is occasioned by
another act. It is at best, however, only a sub-class of the customary
past usage and in the present paper I have not distinguished it in the
tables. It is noteworthy that the act is here at its minimum as regards
repetition and that it may occur in the immediate past, cf. Rud. 1226,
whereas the customary past usage in its pure form is never used of the
immediate past. The usages may be approxi- mately distinguished in
English by 'used to', 'were in the habit of &c. (pure customary
past), and 'would' (occasional), although 'would' is often a good
rendering of the pure customary past. Good cases of the occasional usage
are : Plautus, Merc. 216, 217 ; Poen. 478 S ; Terence, Hec. 804 ; Hist,
fragg. p. 202. 9 (5 cases), ibid. p. 66. 128 (4 cases).
176 AMERICAN JOURNAL OF PHILOLOGY. I. 4. Plautus, Bacch. 421,
Eadem ne erat haec disciplina tibi, quom tu adulescens eras ?
C. I. L. I. 1011.17 Ille meo officio adsiduo florebat ad omnis. II.
1. Auctor ad Herenn. 4. 16. 23, Maiores nostri si quam unius peccati
mulierem damnabant, simplici iudicio multorum rnaleficiorum convictam
putabant. quo pacto ? quam inpudicam iudicarant, ea venefici quoque
damnata existutnabatur. Cato, De ag., 1, amplissime laudari
existimabatur qui ita lau- dabatur. II. 2. Plautus, Epid.
135, Illam amabam olim: nunc tarn alia cura impendet pectori. Varro,
R. R. III. 17.8, etenim hac incuria laborare aiebat M. Lucullum ac
piscinas eius despiciebat quod aestivaria idonea non haberent.
III. 3. Plautus, As. 212, quod nolebant ac votueram, de
industria Fugiebatis neque conari id facere audebatis prius. Cf.
the whole passage. Varro, L. L. 5. 162, ubi quid conditum esse
volebant, a celando Cellam appellarunt. III. Terence, Phorm.
1 90, Tonstrina erat quaedam : hie sole- bamusfere Plerumque
earn opperiri, . . . Varro, L. L. 6. 8, Solstitium quod sol eo die
sistere videbatur . . . The influence of particles 2 and phrases in these
cases is very marked. I count about 1 10 cases, more than I of the total,
with which one or more particles appear. Those expressions which
emphasize the contrast are most common, e. g. turn, olim, me puero with
the imperfect, and nunc, iam &c. with the contrasted present.
This class also affords excellent illustrations of the reciprocal
influence of verb-meaning' and tense-function. In Varro there are 50
cases, out of 289, of verbs of naming, calling, &c, which are by
nature evidently adapted to the expression of the customary past. Such
are appellabam, nominabam, vocabam, vocitabam, &c. But the most
striking illustration is found in verbs of customary action, e. g. soleo,
adsuesco, consuesco, which by their 1 Cf. Trans. Am. Philolog. Ass.
XXX, p. 19. s Note as illustrations the italicized particles in the
citations, pp. 175-6. 3 Cf. Morris, Syntax, p. 47, and p. 72, with
note. THE IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LA TIN. 1 77
meaning possess already the function supplied to other verbs by the
tense and context. When a verb of this class occurs in the imperfect of
customary past the function is enhanced. Naturally, however, these verbs
occur but rarely in the imperfect, for in any tense they express the
customary past function. It is interesting to note the struggle for
existence between various expressions of the same thought. A Roman
could express the customary past idea in several ways, of which the
most noticeable are the imperfect tense, soleo or the like with an
infinitive, or various periphrases such as mos erat. Of these
possibilities all are rare save the first, the imperfect tense. There are
but 12 cases of soleo, consuesco, &c, occurring in the imperfect
indicative in early Latin. These are all cases of solebam, and 9 of them
are imperfects of customary past action. 1 One would expect to find in
common use the perfect of these verbs with an infinitive, but, although I
have no exact statistics on this point, a pretty careful lookout has
convinced me that such expressions are by no means common. 2 Periphrases
with mos, consuetudo, &c, are also rare. Comparing these facts with
the large number of cases in which the customary past function is expressed
by the imperfect, we must conclude that this was the favorite mode
of expression already firmly established in the earliest literature.
8 I C. The Frequentative Imperfect. In the proper
context 4 the imperfect may denote repeated or insistent action in the
past. Although resembling the imperfect of customary past action, in
which the act is also conceived as 1 Terence, Phorm. go; Varro,
R.R. 1.2. 1, and II. 7. I, L. L. 5. 126; Auctor ad Herenn. 4. 54. 67 ;
Lucilius, IV. 2, &c. s A collection of perfects covering 18
plays of Plautus shows but 15 cases of solitus est, consuevit, &c. My
suspicion, based on Plautus and Terence, that these periphrases would
prove common has thus been proven groundless. 8 The variation
between imperfect and perfect is well illustrated by Varro, L. L. 5. 162,
ubi cenabant, cenaculum vocitabant, and id. R. R. I. 17. 2, iique quos
obaeratos nostri vocitarunt, where the frequentative verb expresses even
in the perfect the customary past function. For the variation
between the customary past imperfect and the perfect of statement cf.
Varro's L. L. almost anywhere, e. g. 5. 121, mensa . . . rotunda
nominabatur Clibantum. 5. 36, ab usu salvo saltus nominarunt. So compare
5. 124 (appellarunt) with R. R. I. 2. 9 (appellabant). Cf. also L. L. 5. 35
qua ibant . . . iter appellarunt ; qua id auguste, semita.ut semiter
dictum. 4 Cf. Herbig, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. 1896, §
59). 178 AMERICAN JOURNAL OF PHILOLOGY.
repeated, the frequentative usage differs in that there is no idea
of habit or custom, and the act is depicted as repeated at intervals
close together and without any conditioning circumstances or contrast
with the present. I find only 13 cases of this usage, 7 of which are
syntactically independent, 6 dependent. All occur in the first three
classes of verbs. The cases are : Plautus, Pers. 20, miquidem tu
iam eras mortuos, quia non visitabam. Ibid. 432, id tibi
suscensui, Quia te negabas credere argentum mihi. Rud. 540, Tibi
auscultavi : tu promittebas mihi Mi esse quaestum maxumum
meretricibus : Capt. 917, Aulas . . . omnis confregit nisi quae
modiales erant : Cocum percontabatur, possentne seriae
fervescere : As. 938, Dicebam, pater, tibi ne matri consuleres male.
Cf. Mil. Gl. 1410 (dicebaf). True. 506, Quin ubi natust
machaeram et clupeum poscebat sibi ? Epid. 59, Quia cottidie
ipse ad me ab legione epistulas Mittebat: cf. ibid. 132
(missiculabas). Merc. 631, Promittebas te os sublinere meo patri : ego
me[t] credidi Homini docto rem mandar<e>, . . .
Ennius, Ann. 43, haec ecfatu' pater, germana, repente recessit. Nee sese
dedit in conspectum corde cupitus, quamquam multa manus ad caeli caerula
templa iendebam lacrumans et blanda voce vocabam. Hist, fragg., p.
138. 11 (Q. Claudius Quadrigarius), Ita per sexennium vagati Apuliam
atque agrum quod his per militem licebat expoliabaniur. This class
is so small and many of the cases are so close to the simple progressive
and the imperfect of situation that it is tempting to force the cases
into those classes. 1 A careful con- 1 How close the frequentative
notion may be to the imperfect of the immediate past is well illustrated
by As. 938 (cited above). In this case we have virtually an imperfect of
the immediate past in which, however, the frequentative coloring
predominates : dicebam means not ' I've been telling ', but 'I've kept
telling', &c. Cf. also Pseud. 422 (dissimulabam) for another case of
the imperfect of the immediate past which is close to the frequentative.
In its pure form, however, the frequentative imperfect does not hold in
view the present. THE IMPERFECT INDJCA TIVE IN EARL V
LA TIN. 1 79 sideration of each case has, however, convinced me
that the frequentative function is here clearly predominant. In
Plautus, Pers. 20, E pid. 131, Capt. 917, it is impossible to say
how much of the frequentative force is due to the tense and how much
to the form of the verbs themselves ; both are factors in the
effect. Verbs like mitto,promitio, voco, and even dico, are also
obviously adapted to the expression of the frequentative function.
It is noteworthy that in this usage a certain emphasis is laid on
the tense. In eight of the cases the verb occupies a very em- phatic
position, in verse often the first position in the line, cf. the
definition on p. 177. I D. The Conative Imperfect. The
imperfect may indicate action as attempted in the past. There must be
something in the context, usually the immediate context, to show that the
action of the verb is fruitless. There are no certain cases of this usage
in early Latin. I cite the only instances, four in number, which may be
interpreted as possibly conative : Plautus, As. 931, Arg. Ego
dissuadebam, mater. Art. Bellum filium. Id. Epid. 215,
Turn meretricum numerus tantus quantum in urbe omni fuit
Obviam ornatae occurrebant suis quaeque | amatoribus : Eos
captabant. Auctor ad Herenn., 4. 55. 68, . . . cum pluribus aliis
ire celerius coepit. illi praeco faciebat audientiam; hie
subsellium, quod erat in foro, cake premens dextera pedem defringit
et . . . Hist, fragg., p. 143. 46, Fabius de nocte coepit hostibus
castra simulare oppugnare, eum hostem delectare, dum collega
id caperet quod capiabat. But in the second and fourth
cases the verb capto itself means to 'strive to take', 'to catch at'
&c, and none of the conative force can with certainty be ascribed to
the tense. In the first case, again, the verb dissuadebam means 'to
advise against', not 'to succeed in advising against' (dissuade).
Argyrippus says : ' I've been advising against his course, mother ', not
' I've been trying, or I tried, to dissuade him'. The imperfect is,
therefore, of the common immediate past variety. 1 1 Cf. a
few lines below (938) dicebam. 180 AMERICAN JOURNAL OF
PHILOLOGY. In Auct. ad Herenn., 4. 55. 68, the imperfect is part of
the very vivid description of the scene attending the death of
Tiberius Gracchus. Indeed the whole passage is an illustration of
demon- stratio or vivid description which the author has just
defined. The acts of Gracchus and his followers are balanced
against those of the fanatical optimates under Scipio Nasica:
'While the herald was silencing 1 the murmurs in the contio, Scipio
was arming himself &c. Though it may be true that the act indi-
cated by faciebat audientiam was not accomplished, this seems a remote
inference and one that cannot be proved from the context. If
my interpretation of these cases is correct, there are no certain 1
instances of the conative imperfect in early Latin. There is but
one case of conabar (Terence, Phorm. 52) and one of temptabam (Plautus,
Mil. gl. 1336). Both of these belong to the immediate past class, the
conative idea being wholly in the verb. II. The Aoristic
Imperfect. The imperfect of certain verbs may indicate an act or
state as merely past without any idea of progression. In this usage
the kind of action reaches a vanishing point and only the temporal
element of the tense remains. The imperfect becomes a mere preterite, cf.
the Greek aorist and the Latin aoristic perfect. The verbs to which this
use of the imperfect is restricted are, in early Latin, two verbs of
saying, aio and dico, and the verb sum with its compounds. There
are 56 cases of the aoristic imperfect in early Latin (see Table II), 48
of which occur in syntactically independent sen- tences. Some citations
follow: Plautus, Bacch. 268, Quotque innocenti ei dixit
contumelias. Adulterare eum aibat rebus ceteris. Id. Most.
1027, Te velle uxorem aiebat tuo gnato dare : Ideo aedificare hoc velle
aiebat in tuis. Th. Hie aedificare volui? Si. Sic dixit mihi. Id.
Poen. 900, Et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere: Ingenuas
Carthagine aibat esse. 1 Faciebat audientiam seems a technical
expression, cf. lexicon. 2 The case cited by Gildersleeve- Lodge, §
233, from Auct. ad Herenn., 2. I. 2, ostendebatur seems to me a simple
imperfect and there is nothing in the context to prove a conative force,
cf. 3. 15. 26 demonstrabatur. THE IMPERFECT INDICA TIVE IN
EARL Y LA TIN. l8 1 In these cases note the parallel cases of
dixit, cf. id. Trin. 1140, Men. 1 141 &c, &c. I note
but three cases of dicebam : Terence, Eun. 701, Ph. Unde [igitur]
fratrem meum esse scibas ? Do. Parmeno Dicebat eum esse. Cf.
Plautus, Epid. 598 for a perfect used like this. Varro, R. R. II.
4. 11, In Hispania ulteriore in Lusitania [ulteriore] sus cum esset
occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax et multarum rerum peritus in
doctrina, dicebat L. Volumnio senatori missam esse offulam cum
duabus costis . . . Ibid. III. 17. 4, pisces . . . quos
sacrificanti tibi, Varro, ad tibicinem [graecum] gregatim venisse dicebas
ad extremum litus atque aram, quod eos capere auderet nemo, . . .
In these cases the verb dico becomes as vague as is aio in the preceding
citations. Plautus, Poen. 1069, Nam mihi sobrina Ampsigura tua
mater fuit, Pater tuos is erat frater patruelis meus,
Et is me heredem fecit, . . . Id. Mil. gl. 1430, Nam illic qui | ob
oculum habebat lanam nauta non erat. Py. Quis erat igitur?
Sc. Philocomasio amator. Id. Amph. 1009, Naucratem quem convenire volui
in navi non erat, Neque domi neque in urbe invenio quemquam
qui ilium viderit. 1 Id. Merc. 45, Leno inportunus, dominus
eius mulieris, Vi sum<m>a[t] quicque utpoterat rapiebat
domum. In such cases as the last the imperfect has become
formulaic, cf. quam maxime poter at, &c. 1 Rodenbusch,
pp. 8-10, after asserting that the imperfect of verbs of saying and the
like is used in narratio like the perfect (aorist), cites a number of
illustrations in which (he adds) the imperfect force may still be felt ! But
a case in which the imperfect force may still be felt does not illustrate
the imperfect in simple past statements, if that is what is meant by
narratio. Only four of R.'s citations are preterital (aoristic), and
these are all cases of aibam (Plautus, Amph. 807, As. 208, 442, Most.
1002). The same may be said of the citations on p. g, of which only Eun.
701 is aoristic. J. Schneider (De temporum apud priscos latinos usu
quaestiones selectae, program, Glatr, 1888) recognizes the aoristic use
of aibat, but his statement that the comic poets used perfect and
imperfect indiscriminately as aorists cannot be accepted. 1
82 AMERICAN JOURNAL OF PHILOLOGY. III. The Shifted Imperfect.
In a few cases the imperfect appears shifted from its function as a
tense of the past, and is equivalent to (i) a mere present; or (2) an
imperfect or pluperfect subjunctive. The cases equivalent to a
present 1 are all in Varro, L. L., and are restricted to verbs of
obligation {oportebat, debebaf) : L. L. 8. 74, neque oportebat
consuetudinem notare alios dicere Bourn greges, alios Boverum, et signa
alios Iovum, alios Ioverum. Ibid. 8. 47, Nempe esse oportebat vocis
formas ternas ut in hoc Humanus, Humana, Humanum, sed habent quaedam
binas . . . ibid. 9. 85, si esset denarii in recto casu atque infinitam
multi- tudinem significaret, tunc in patrico denariorum dici oportebat.
Ibid. 8. 65, Sic Graeci nostra senis casibus [quinis non] dicere
debebant, quod cum non faciunt, non est analogia.* The cases
equivalent to the subjunctive are confined to sat &c. + erat (6
cases), poteram (3 cases), decebat (1 case), and sequebatur (1 case). As
illustrations may be cited : Plautus, Mil. gl. 755, Insanivisti
hercle : nam idem hoc homini- bus sat [a] era\ti\t decern.
Auct. ad Herenn. 2. 22. 34, nam hie satis erat dicere, si id modo quod
esset satis, curarent poetae. = ' would have been,' cf. ibid. 4. 16. 23
(iniquom erat), Plautus, Mil. gl. 911, Bonus vates poieras esse : = '
might be ' or ' might have been '. Id. Merc. 983 b, Vacuum
esse istac ted aetate his decebat noxiis. Eu. Itidem ut tempus anni,
aetate<m> aliam aliud factum condecet. Varro, L. L. 9. 23, si
enim usquequaque non esset analogia, turn sequebatur ut in verbis quoque
non esset, non, cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis . . .
This is a very odd case and I can find no parallel for it.* 1
Varro uses the perfect also of these verbs as equivalent to the present
of general statements. Cf. L. L. 8, §§ 72-74, where debuit occurs 4 times
as equivalent to debet, § 48 (debuerunt twice), § 50 (pportuit =
oportet). The perfect infinitive is equivalent to the present, e. g. in
8, §61 and §66 (debuisse . . . dici). The tenses are of very little
importance in such verbs. 8 Note the presents expressed in the
second and fourth citations. 3 The remaining cases are: Plautus,
True. 511 (poterai), id. Rud. 269 (aequitts erat), Lucilius, Sat. 5. 47
M. (sat erat), Auctor ad Herenn. 4. 16. 23 (iniquom erat), ibid. 4. 41.
53 (quae separatim dictae . . . infimae erant). THE
IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LA TIN. 183 TABLE I.
Authors and Functions. Total. I.
True Imperfect. II. A oris tic.
A. B. c. III. Shifted.
Progressive. Cust. Past.
Frequent. 427 287
84 10 41 5 Terence
226 187 28 10
1 24 2 22
Dramatists 3 . . 69 60
7 2 Historians ....
52 34 16 I I
12 9 3
13 11 1
1 Auctor ad Her. 79 63
11 2 3 Inscriptions . .
4 3 1
320 24 289 2 5
1226 680 462 13
56 15 1 The fragments of Cato's
historical work are included in the historians. 'Including the epic
fragments of Ennius and Naevius. TABLE II. Verbs and
Functions. Total Cases. I. True Imperfect.
Classes of Verbs. A.
Progressive. B. Cust. Past. C.
Frequent. II.Aoristic. III. Shifted.
Ind. Dep. Ind. Dep.
Ind. I 6 7 Dep.
I 3 2 6 7 13
Ind. 38 IO 48 Dep.
5 3 8 48 56
Ind. I 4 7 12 Dep.
I. Physical. 85 302 233 346
91 QO 19 60 40
96 46 138 46 53
9 21 449 17 45
26 69 85 30 7 12
231 449 680 9 75 64
48 13 6 3 218 17
82 46 75 7 1 3
13 244 218 462 3.
Verbal commun. 4. Rest, state, &c. (tram 220)
II. Psychical. 3. Will 2 III.
Auxiliaries. I 1226 3
12 15 184 american journal of philology.
3. Historical and Theoretical. The original function of the
imperfect seems to have been to indicate action as progressing in the
past, the simple progressive imperfect. This is made probable, in the
first place, by the fact that this usage is more common than all others
combined, including, as it does, 680 out of a total of 1226 cases.
This proportion is reduced, as we should remember, by the peculiar
character of the literature under examination, which contains relatively
so little narrative, and especially by the nature of Varro's De lingua
latina in which the cases are chiefly of the customary past variety. 1
Moreover, the customary past usage itself, and also the frequentative and
the conative, are to be regarded as offshoots of the progressive usage of
which they still retain abundant traces, so that if we include in our
figures all the classes in which a trace of the progressive
function remains we shall find that 11 55 of 1226 cases are true
imperfects (see table II). Another support for the view that
the progressive function is original may be drawn from the probable
derivation of the tense. Stolz 2 (after Thurneysen) derives the imperfect
from the infinitive in -e and an old aoristof the root *bhu. The idea of
progression was thus originally inherent in the ending -bam.
Let us now establish as far as possible the relations subsisting
between the various uses of the true imperfect (IA, B, C, D), turning our
attention first to the simple progressive (IA) and its variations.
The relation between the progressive imperfect in its pure form and
the usage which has been named the imperfect of the immediate past is not
far to seek. The progressive function remains essentially unchanged. The
only difference lies in the extension of the time up to the immediate
past (or present) in the case of the immediate past usage. The transition
between: ibat exulatutn'' = ' he was going into exile ' (when
l See p. 175. 2 In I. Muller's Handb. d. kl. Alt. II., 2 §
113, p. 376. Lindsay, Latin Lang., pp. 489-490, emphasizes the nominal
character of the first element in the compound, and suggests a possible
I. E. *-bhwam, -as, &c, as antecedent of Latin -bam, -ids, -bat. He
also compares very interestingly the formation of the imperfect in
Slavonic, which is exactly analogous to this inferred Latin formation,
except that the ending comes from a different root. 3 Cf. Plautus,
Merc. 981. THE IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LA TIN. 1
85 I saw him at a more or less definite point in the
past) and ibat exulatum = ' he was going (has been going)
into exile' (but we have just met him) is plain enough. The
difference is one of context. In this imperfect of the immediate past the
Romans possessed a sub- stitute for our English compound perfect tense,
'have been doing ', &C 1 In the imperfect of situation
also the function of the tense is not altered. The tense is merely
applied in a different way, its progressive function adapted to vivid
description, and we have found it already in the earliest 2 literature
put to this use. In its extreme form it occurs in passages which would
seem to require nothing more graphic than a perfect. Indeed, we must
guard against the view that the imperfect is a stronger tense than
the perfect; it is as strong, but in a different way, and while the
earlier writers preferred in general the perfect, 8 the imperfect grew
gradually in favor until in the period marked by the highest development
of style the highest art consisted in a happy combination * of the two.
The imperfect of customary past action is, as we have seen, already
well established in the earliest literature. A glance at Table I would
seem to show that it grew to sudden prominence in Varro, but the peculiar
nature of Varro's work has already been pointed out, so that the apparent
discrepancy between the proportion of cases in Varro and in Plautus and
Terence, for instance, means little. It should be remembered also that
this discrepancy is still further increased by the nature of the
drama, whose action lies chiefly in the present. While, therefore,
in Plautus and Terence the proportion of customary pasts is i,
1 Latin also exhibits some similar compounds, cf. Plautus, Capt. 925,
te carens dum hie fui, Poen. 1038, ut tu sis sciens, and Terence, Andr.
508, ut sis sciens. Cf. Schmalz in I. Mttller's Handb. II 2 , p.
399. s In the Greek literature, which begins not only absolutely
but relatively much earlier than the Latin, the imperfect was used to
narrate and describe, and Brugmann, indeed, considers this a use which
goes back to Indo- European times. Later the imperfect was crowded out to
a great extent by the aorist, as in Latin by the (aoristic) perfect. Cf.
Brugmann in I. Mailer's Handb. II, 2 p. 183. 3 Cf. p.
171. i The power of the perfect lies in its simplicity, but when
too much used this degenerates into monotony and baldness.
13 1 86 AMERICAN JOURNAL OF PHILOLOGY. and
in Varro f , the historians with J probably present a juster average.
The relation of this usage to the simple progressive imperfect has
already been pointed out, 1 but must be repeated here for the sake of
completeness. If we inject into a sentence containing a simple
progressive imperfect a strong temporal contrast, e. g., if facit, sed non
faciebat becomes nunc facit, olim autem non faciebat, it is at once
evident how the customary past usage has developed. It has been grafted
on the tense by the use of such particles and phrases, expressions which
were in early Latin still so necessary that they were expressed in more
than one-quarter of the cases ; or, in other words, it is the outgrowth
of certain oft-recurring contexts, and is still largely dependent on
the context for its full effect. Transitional cases in which the
temporal contrast is to be found, but no customary past coloring, may be
cited from Plautus, Rud. 1123, Dudum dimidiam petebas partum. Tr. Immo
etiam nunc peto. Here the action expressed by petebas is too recent to
acquire the customary past notion. 2 The progressive function caused the
imperfect to lend itself more naturally than other tenses 3 to the
expression of this idea. 4 Although the customary past usage
was well established in the language at the period of the earliest
literature, and we cannot actually trace its inception and development, I
am con- vinced that it was a relatively late use of the tense by the
mere fact that the language possesses such verbs as soleo,
consuesco, &c, and that even as late as the period of early Latin the
function seemed to need definition, cf. the frequent use of particles,
&c. The small number of cases (13) which may be termed
frequenta- tive indicates that this function is at once rare and in its
infancy in the period of early Latin. The frequentative function is
so closely related 5 to the progressive that it is but a slight step
from 1 Trans. Am. Philolog. Ass., Vol. XXX, pp. 18-20.
5 Cf. Men. 729. s How strong the effect of particles on other
tenses may be is to be seen in such cases as Turpilius, p. 113. I
(Ribbeck), Quem olim oderat, sectabat ultro ac detinet. 4 The
process was therefore analogous to that which can be actually traced in
cases of the frequentative and conative uses. 5 Terence, Adel.
332-3, affords a good transitional case : iurabat . . . dicebat — (almost)
' kept swearing ' ... 'kept saying' &c, cf. p. 47 n. 1. It should
THE IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LA TIN. 1 87 the
latter to the former. Latin 1 seems, however, to have been unwilling to
take that step. The vast number of frequentative, 2 desiderative and
other secondary endings also prove that the tense was not the favorite
means for the expression of the frequentative idea. Nevertheless since
the progressive and fre- quentative notions are so closely related and
since frequentative verbs must again and again have been used in the
imperfect subject to the influence of the progressive function of
particles such as saepe, etiam atgue etiam, and since finally a simple
verb must often have appeared in similar situations, e. g. poscebat
for poscitabat, the tense inevitably acquired at times the
frequentative function. We have here, therefore, an excellent
illustration of the process by which a secondary function may be grafted
on a tense and the frequentative function is dependent to a greater
degree than the customary past upon the influence and aid of the
context. That it is of later origin is proved by its far greater rarity
(see Table II). If the frequentative imperfect in early Latin
is still in its infancy, the conative usage is merely foreshadowed. The
fact that there are no certain instances proves that relatively too much
im- portance, at least for early Latin, has been assigned to the
conative imperfect by the grammars. Statistics would probably prove
it rare at all periods, periphrases with conor &c, having sufficed
for the expression of the conative function. The most
powerful influence in moulding tense functions is context. 3 In the case
of the conative function this becomes all powerful for we must be able to
infer from the context that the act indicated by the tense has not been
accomplished. The also be pointed out that the frequentative
imperfect is very closely related to the imperfect of situation. To
conceive an act as frequentative necessarily implies a vivid picture of
it. (Cf. next note). It is possible, therefore, to interpret as vivid
imperfects of situation such cases as Ennius, Ann. 43-4 ; Plautus, True.
506, Capt. 917, but a careful study of these has convinced me that the
frequentative idea predominates. 1 In Greek, however, the imperfect
was commonly used with an idea of repetition in the proper context. This
use is correctly attributed by Brugmann (I. Milller's Handb. &c. II,
2 p. 184) to the similarity between the progressive and frequentative
ideas as well as to the fondness for description of a re- peated
act. 5 Ace. to Herbig, § 62 (after Garland?) there were probably no
iterative formations in Indo-European. 8 Cf. Morris, Syntax,
pp. 46, 82, &c. 1 88 AMERICAN JOURNAL OF
PHILOLOGY. function thus rests upon inference from the context- The
presence in the language of the verbs conor, tempto, &c, proves that
the conative function, like the frequentative, was a secondary
growth grafted on the tense in similar fashion, but at a later period,
for we have no certain instances in early Latin. This function of
the imperfect certainly originates within the period of the written
language. The fact that the preponderance of the aoristic cases occurs
in Plautus and Terence (see Table I) indicates that this usage was rather
colloquial. This is further supported by the fact that the majority of
the cases are instances of aibam, a colloquial verb, and of eram which in
popular language would naturally be con- fused with/i«. In this usage,
therefore, we have an instance of the colloquial weakening of a function
through excessive use in certain situations, a phenomenon which is common
in secondary formations, e. g. diminutives. The aoristic function
is not original, but originated in the progressive usage and in that
application of the progressive usage which is called the imperfect of
situation. Chosen originally for graphic effect the tense was used in
similar contexts so often that it lost all of this force. All the cases
of aibam, for instance, are accompanied by an indirect discourse either
expressed (38 cases) or understood (2 cases). The statement contained in
the indirect discourse is the important thing and aibam became a
colorless introductory (or inserted) formula losing all tense force. 1 If
this was the case with the verb which, in colloquial Latin at least, was
preeminently the mark of the indirect discourse it is natural that by
analogy dicebam, when similarly employed, should have followed suit. 2
With eram the development was similar. The loss of true imperfect
force, always weak in such a verb, was undoubtedly due 1 Cf. Greek
iXeys, tjv <5' iyi> &c. and English (vulgar) ' sez I ' &c„
(graphic present). Brugmann (I. Muller's Handb. &c. II, 2 p. 183)
denies that the Greek imperfect ever in itself denotes completion, but he
cites no cases of verbs of saying. Although one might say that the tense
does not denote completion, yet if there was so little difference between
imperfect and aorist that in Homer metrical considerations (always a
doubtful explanation) decided between them (cf. Brugmann, ibid.),
Brugmann seems to go too far in dis- covering any imperfect force in his
examples. The two tenses were, in such cases, practical equivalents and
both were colorless pasts. 8 Rodenbusch, p. 8, assigns as a cause
for the frequency of aibat in this use the impossibility of telling
whether ait was present or perfect. This seems improbable.
THE IMPERFECT INDICATIVE IN EARLY LATIN. 189 to the vague
meaning of the verb itself. Indeed it seems probable that eram is thus
but repeating a process through which the lost imperfect of the root *fu}
must have passed. This lost imperfect was doubtless crowded out " by
the (originally) more vivid eram which in turn has in some instances lost
its force. If the aoristic usage is not original, but the product
of a collo- quial weakening, we should be able to point out some
transitional cases and I believe that I can cite several of this
character : Plautus, Merc. 190, Eho . . . quin cavisti ne earn
videret . . .? Quin,sceleste,<eam>afo/7'«dfe&w,ne earn
conspiceret pater? Id. Epid. 597, Quid, ob earn rem | hanc emisti,
quia tuam gnatam es ratus ? Quibus de signis agnoscebas? Pe.
Nullis. Phi. Quarefiliam Credidisti nostram ?* In these
cases the tense is apparently used for vivid effect (im- perfect of
situation), but it is evident that the progressive function is strained
and that if these same verbs were used constantly in such connections,
all real imperfect force would in time be lost. This is exactly what has
occurred with aibam, dicebam, and eram. The progressive function if
employed in this violent fashion simply to give color to a statement,
when the verbs themselves {aibam, dicebam) do not contain the statement
or are vague (eram), must eventually become worn out just as the
diminutive meaning has been worn out of many diminutive endings.
In the shifted cases also the tense is wrenched from its proper
sphere. But whereas the aoristic usage displays the tense stripped of its
main characteristic, the progressive function, though still in possession
of its temporal element as a tense of the past, in the shifted cases both
progressive function and past time (in some instances) are taken from the
tense. In those cases where the temporal element is not absolutely taken
away it becomes very unimportant. This phenomenon is apparently due
in the first place to the contrary-to-fact idea which is present in the
context of each case, and secondly to the meaning of some of the verbs
involved. In many of the cases these two reasons 1 There was no
present of this root ace. to Morris, Syntax, p. 56, but cf. Lindsay, Lat.
Lang., p. 490. 'Also if *bhwam <.-bam was derived from *bhu
</«- in fui &c., then the fact that it was assuming a new function
in composition would help to drive it out of use as an independent form,
eram (originally *isom) taking its place. 3 Cf. Terence, Phorm. 298
; Adel. 809, Eun. 700. Ennius, Fab. 339. I90 AMERICAN
JOURNAL OF PHILOLOGY. are merged into one, for the verbs themselves
imply a contrary- to-fact notion, e. g. debebat, oportebat, poterat (the
last when representing the English might, could, &c). In Varro, L. L.
8. 65 the phrase sic Graeci . . . dicere debebant implies that the
Greeks do not really so speak; so Plautus, Mil. gl., 911 Bonus vaies
poteras esse implies that the person addressed is not a bonus vales. In
these peculiar verbs, which in recognition of their chief function I have
classified as auxiliary verbs, 1 verb- meaning coincides very closely
with mode, just as in soleo, conor, &c, verb-meaning coincides
closely with tense. The modal idea is all important, all other elements
sink into insignificance, and the force of the tense naturally becomes
elusive. 2 Let us summarize the probable history of the imperfect
in early Latin. The simple, progressive imperfect represents the
earliest, probably the original, usage. Of the variations of this simple
usage the imperfect of the immediate past and the im- perfect of
situation are most closely related to the parent use. Both of these are
early variants, the latter probably Indo- European, 3 and both may be
termed rather applications of the progressive function than distinct
uses, since the essence of the tense remains unchanged, the immediate
past usage arising from a widening of the temporal element, the imperfect
of situation from a wider application of the progressive quality. Later
than these two variants, but perhaps still pre-literary, arose the
custom- ary past usage, the first of the wider variations from the
simple progressive. This was due to the application of the tense to
customary past actions, aided by the contrast between past and present.
Later still and practically within the period of the earliest literature
was developed the frequentative usage, due chiefly to the close
resemblance between the progressive and frequentative ideas and the
consequent transfer of the frequentative function to the tense. Finally
appears the conative use, only foreshadowed in early Latin, its real
growth falling, so far as the remains of the language permit us to infer,
well within the 1 Cf. Whitney, German Grammar, § 342. 1. 8
The same power of verb-meaning has shifted, e. g., the English ought from
a past to a present. Cf. idei, &c. If I understand Tobler, Uebergang
zwischen Tempus und Modus (Z. f. V51kerpsych., &c, II. 47), he also
con- siders the imperfect in such verbs as due to the peculiar meaning of
the verbs themselves. Cf. Blase, Gesch. des Plusquamperfekts, § 3.
»Cf. note. THE IMPERFECT INDICA TIVE IN EARL Y LATIN.
I9I Ciceronian period. In all these uses the progressive function
is more or less clearly felt, and all alike require the influence
of context to bring out clearly the additional notion connected
with the tense. The first real alteration in the essence of
the tense appears in the aoristic usage in which the tense lost its
progressive function and became a simple preterite. This usage, due to
colloquial weakening, is confined in early Latin to three verbs,
aidant, dicebam, and eram (with compounds). It is very early, pre-
literary in fact, but later than the imperfect of situation, from which it
seems to have arisen. A still greater loss of the essential features of
the tense is to be seen in the shifted cases in which the temporal
element, as well as the progressive, has become insignificant. This
complete wrenching of the tense from its proper sphere is confined to a
limited number of verbs and some phrases with eram, and is due to the
influence of the pervading contrary-to-fact coloring often in combination
with the meaning of the verb involved. THE SYNTAX OF THE
IMPERFECT INDICATIVE IN EARLY LATIN By Arthur Leslie
Wheeler In his Studien und Kritiken zur lateinischen Syntax, I.
Teil, Mainz, 1904, Dr. Heinrich Blase has devoted considerable space
to my article, "The Imperfect Indicative in Early Latin"
(American Journal of Philology XXIV [1903], pp. 163 ff.). Since
Blase professes to present the substance of my article, except to
the 'relatively few' German scholars who have access to the
American periodical, and since he makes a number of errors in mere
citation and statement, it becomes necessary for me in self-defense to
make some corrections. 1 But apart from these errors of detail,
which will be pointed out at the proper places, Blase disagrees with
some of the more important conclusions of my paper and it is with
the purpose of elucidating these views in the light of his criticism
and contributing something more, if possible, to a better
understanding of the problem that I offer the present discussion.
The functions of the imperfect indicative in early Latin may be
summarized as follows: I. The Progressive 2 or True Imperfect,
comprising several types or varieties: A. Simple
Progressive. 1. dicebat = il he was saying." 1
That such corrections are justifiable is proved by the fact that K. Wimmerer,
who knows my article only through Blase's presentation, reproduces
several of Blase's in- correct statements. I regret the unavoidable delay
in the publication of this paper the less because it has enabled me to
use Wimmerer's article, "Zum Indikativ im Hauptsatze
irrealenBedingungsperioden," Wiener StudienXXWll (1905, publ. Feb.
10, 1906), pp. 260 ff. The first four pages of his article are devoted to
a general discussion of Blase's critique of my views. 2 In
this paper technical terms will be used as follows : progressive = German
vor sich gehendes (less exactly fortechreitendes) ; continuative or
durative = wiaftrendes; nature or kind of action=^Lfc<ionsarf; shifted
= verschobenes ; descA\)tive= schilderndes; reminiscent = erz&hlendes
(see p. 365) ; relation (relative, etc.)= Beziehung, etc. Other terms
are, it is hoped, intelligible or will be defined as they occur.
[Classical Philology I October, 1906] 357 358 Arthur
Leslie Wheeler The nature of the action may be either progressive 1
or con- tinuative (durative). The time is past, but the period covered
by the action of the tense may vary with the circumstances
described from an instantaneous point to any required length. The
time is contemporaneous with, usually more extensive than, the time
of some other act or state expressed or implied. When the tense- action
is continuative and extends into the immediate past or, by inference, the
present of the speaker, I would distinguish a sub-class : a)
The Imperfect of the Immediate Past: dicebat—"he was saying" or
"he's been saying." The action may or may not be interrupted by
something in the context. If interrupted, it ends sharply and we may term
the tense the "interrupted" type of this immediate past.
2. The Descriptive Imperfect (better, the imperfect used in
description) . dicebat="he was saying" (in English often
rendered by "said"). This is in its purest form a
simple progressive imperfect employed in the vivid presentation of past
actions or states. 3. The Reminiscent Imperfect (better, the
imperfect used in reminiscence). dicebat=^ u he was
saying" (as I remember, or as you will remember). In
this usage the imperfect is a simple progressive implying an appeal to
the recollection of the speaker or hearer. B. Customary Past
Type. dicebat="he used to say, would say, was in the habit
of saying, etc." The nature of the action is the same as
in A except that with the aid of the context there is an implication that
the act or state recurred on more than one (usually many) occasions.
These recurrences are usually at some considerable distance in the
past and contrasted with the present, but cases of the immediate
past usage (Ala)) with customary coloring occur. i Hoffmann
Zeitpartikeln 2 , p. 185, characterizes excellently this feature of the
im- perfect : " die actio infecta, pendens, die Handlung in der
Phase ihres Vollzuges, ein Geschehenes im Verlaufe seines Geschehens, ein
Vergangenes Sein noch wahrend seines Bestehens."
Impebfect Indicative in Eably Latin 359 C. The Frequentative
or Iterative Type. dicebat = "he kept saying" (at
intervals very close together). This type is like B, except that it has
no customary element and the repetitions refer to one situation within
comparatively narrow limits of time. The link connecting all
these varieties with one another is the progressive function. 1
II. The Aoristic Imperfect. aibat = "he said"
(equivalent to dixit, aoristic perfect). The time is still past, but the
progressive force is lost. III. The Shifted Imperfect.
debebat = "he ought" (now). The time is shifted to the
present and the progressive force is very much weakened, in some cases
wholly lost, because of the auxiliary character of the verbs
involved. For a more detailed treatment of the foregoing classes
(except the imperfect in reminiscence) I must refer to Am. Jour.
Phil. XXIV, pp. 163 ff. In what follows I shall select certain
points for discussion by way of elucidation and supplement to what
was said there. the impebfect of the immediate past
The simplest progressive usage is well enough understood, but the
usage termed by me the imperfect of the immediate past or interrupted
imperfect 2 calls for some remarks. As a type of this imperfect in its
interrupted form cf. Plautus Cas. 178: nam ego ibam ad te. — et hercle
ego istuc ad te. Here the action is con- ceived as continuing until
interrupted by the meeting of the speak- ers. The fact of the
interruption does not, of course, inhere in the tense but is inferred
from the context. Indeed, the interruption may not occur at all, as will
be seen by comparing the second type, e. g., Stick. 328 f. : ego quid me
velles visebam. nam mequidem harum miserebat. Here visebam is interrupted
like ibam above, 1 The nature of the action seems to me the most
distinctive feature of the tenses. In this I differ radically from Cauer,
who considers contemporaneousness the essential feature of the imperfect,
cf. Grammatical militans, 1903, pp. 93, 94, against Methner, whose Untersuchungen
zur lat. Tempus- und Moduslehre, Berlin, 1901, 1 have not seen. 2
B. Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 262, Anm. 2, calls attention to the fact
that this imperfect of the immediate past in its interrupted form is
still common in Italian. 360 Arthur Leslie Wheeler
but the action of miserebat is conceived as continuing not only up
to the immediate past, but into and in the present of the speaker. But
again this continuance in the present is not inherent in the tense; it is
inferred from the context. The nature of the action is in both these
types still progressive, or more exactly, continua- tive, but temporally
stress is laid on that period of time immediately preceding or even
extending into the present. 1 In this usage the Romans possessed a
somewhat inexact sub- stitute for the English progressive perfect
definite, e. g., mequidem . . . . harumnusere6a/ = (practically)
"I've been pitying,"a form which, like the Latin, may be used
in the proper context to indi- cate that the pity still continues in the
present. 2 On the other hand, the English "I was pitying,"
superficially a more exact rendering, does not so clearly indicate this
continuance in the present, though "I was going to your house,
etc." is an exact rendering of Cas. 178. Blase himself
has collected some exactly similar cases, 3 of which he says:
Das Imperf. wird gelegentlich auch von Zustanden gebraucht die zwar
in der Gegenwart des Redenden noch fortdauern aber nur mit Bezie- hung
auf die Vergangenheit genannt worden: Plaut. As. 392 quid quae- ritas?
Demaenetum volebam .... Das Wollen dauert fort, aber hier is t es nur in
Beziehung auf die in Gedanken vorschwebende vorausgehende Zeit bis zur
Ankunft vor dem Hause gebraucht. 'Blase {Kritik, p. 6)
misrepresents my statement concerning this usage. He cites from my paper
Stich. 328, apparently as given by me in illustration of both the pro-
gressive use in its simplest form and of this immediate past usage, although it
was used as an illustration of the immediate past usage only. Again he
quotes me as believing that in the immediate past usage the action takes
place within exactly defined limits ("genau bestimmten
Granzen"). Here is atwofold error. My statement (Am. Jour. Phil.
XXIV, p. 168) is "fairly definite limits" and refers to the simple
progressive usage, not to the immediate past usage. Blase's critique
confuses the two usages. 2 There are traces of a tendency on the
part of the Romans to express these shades of thought with greater exactness,
e. g., by the combination of a present participle with the copula,
Plautus Capt. 925 : quae adhuc te carens dum hie fui sustentabam. Here
carens .... fui is exactly equivalent to the English "I've been
lacking," whereas sustentabam is inexactly equivalent to "I've
been supporting." But Latin did not develop such expressions as
carens .... fui into real tenses, and remained content with the less
exact imperfect, cf . also iam diu, etc., with the present. See Am. Jour.
Phil. XXIV, p. 185, and Blase Hist. Syntax, p. 256. A complete collection
of such cases would be interesting. I would add here Amph. 132 : cupiens
est, Rud. 943 : sum indigens, and cf. the verse-close ut tu sis sciens
(Poen. 1038), etc. "Hist. Syntax III, 1903, Tempora und Modi,
p. 148, Aran. This book had not reached me when my article in Am. Jour.
Phil. XXIV was written. Imperfect Indicative in Eably Latin
361 With the first part of this statement I fully agree, but is it
true that in As. 395 the imperfect is used "nur mit Beziehung auf
die Vergangenheit, etc." ? If, as Blase says, "das Wollen
dauert fort," then we are forced to say that the imperfect is used
not merely with reference to the past, but with reference to the present.
1 The speaker really has in mind both past and present, and uses
the imperfect to express this double temporal sense, the action
con- tinuing from the past into the present, because at the moment
of speaking the past is somewhat more prominent. The tense is,
therefore, as explained above, only an approximate expression of the
thought. Had the present been more prominent, other ele- ments being
equal, some expression like iam diu volo would have been employed.
Blase asserts (Kritik, p. 6) that my statement that the speaker has
in mind both beginning and end of the action is not capable of proof. It
is true, I think, that the speaker has usually no definite point in mind
at which the action began. He simply indicates the action as beginning
somewhere in the past and con- tinuing in the present. But in the very
numerous "interrupted" cases he has in mind a sharply defined
end of the action. 2 Blase's criticism seems justified, then, only with
reference to those cases of which Stich. 328, .... harum miserebat is a
type. But Blase classifies cases of this usage under no less than
three different heads in his Tempora und Modi. In addition to the
case cited above, As. 392 volebam, which he interprets, as I have tried
to show, almost correctly, he cites (p. 146) Trim. 400: sed 'Of.
also the use of nunc, etc., with some of the cases: Plautus Merc. 884;
quo nunc ibas? ibid. 197, Ter. Andr. 657 f. : iam censebam. 2
B. Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 262, says: "Sohalteich .... die
Konsta- tierung eines," imperfect of the immediate past or the
interrupted imperfect, "fiir einen glucklichen Gedanken,"
though he would not make a special type of this use. It seems to me so
common (about 200 cases) as to deserve the degree of special notice which
I have given it (Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 168 f.). He adds in a note:
"Hier tut Blase m. E. Wheeler einigermassen unrecht, wenn er dessen
Behauptung, dass der Sprecher in diesen Fallen Anfang und Ende der
Handlung tiberschaue, unerweislich nennt. Wheeler kann dies mit Becht
behaupten, wenn es sich um einen Gedanken handelt, der einen beherrschte
bis zu dem Augenblick, wo man ihn konstatiert," pointing out also
that Blase would be justified only in criticizing the form of my ex-
pression so far as I wished to apply it to the cursive " Aktionsart"
(i. e., those cases where there is no interruption?).
362 Arthur Leslie Wheeler aperiuntur aedes, quo ibam 1 as
"erzahlendes" (p. 148), Merc. 885: quo nunc ibas as
"sogenannt. Oonatus." The function of the tense is essentially
the same in all these cases, the only variant being the presence or
absence of interruption which is inferred in all cases from the
context. Since Blase classifies so many of these cases under the
head of the conative imperfect, a consideration of that usage seems
here in place. A "conative" imperfect ought to mean
an imperfect which expresses attempted action, but since there is no
trace, at least in early Latin (cf. Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 179, 180),
of such a function, the term is a bad one. 2 Why then retain it, as Blase
does, for those imperfects which express "den wahrenden, aber nicht
zu Ende, geftihrten Handlung?" These imperfects are chiefly of the
type which I have termed "interrupted," where the context
implies it, or imperfects of the "immediate past," where there
is no interruption. 3 In neither case is there anything more than a
simple variation of the progressive (here more exactly continuative)
imperfect. But most of Blase's cases are not even of this idiomatic
inter- rupted or immediate past variety. They are simple
progressives in contexts which imply that the action was interrupted 4 or
not liftam occurs often in this use : True. 921, Cas. 178, 594,
Merc. 885, Tri. 400, etc. ; cf . Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 168-70. 2
Blase Syntax, p. 148, recognizes the inexactness of the term by his
expression, "sogenannten Oonatus." In Greek its unfitness is
well expressed by Mutzbauer (cited by Blase Kritik, p. 10, and Delbriick,
Vergl. Syntax II, p. 306): "Ungenau werden solche Imperf ekta
conatus bezeichnet, von einem Versuch liegt in der Form nichts"
(Grundlagender griech. Tempuslehre, p. 45) ; cf. now Wimmerer Wien.
Stud., 1905, p. 264 : " In der Form liegt allerdings von einem
Versuche nichts." ^Wimmerer Wien. Stud., 1905, pp. 263, 264,
remarks that he does not see why Blase appears to think that there is a
difference between his conception of the imperfect de conatu and mine.
Blase says (Kritik, p. 11), after defining these imperfects as above :
" Die hier vertretene Anschauung scheint mehr auf die Imperf ekta zu
passen, die Wheeler," the interrupted imperfect " nennt."
This is the case, so far as Blase confines his citations to instances of
the interrupted type. There is, then, no essential difference in our interpretation
of the function of the tense in these cases. Blase clings, apparently
against his will, to the old terminology to which everybody seems to
object, whereas I would group these cases under a new term which seems to
me more exact. But Blase does not, as it seems to me, group together all
the cases that belong together. 4 1 use interrupted here not
of what has been termed the "interrupted" usage, whose
distinctive feature lies in the fact that the time is in the immediate past,
but as Impeepect Indicative in Early Latin 363
completed: Men. 564 pallam ad phrygionem deferebat (Peniculus
simply depicts Menaechmus as he had last seen him; cf. 469: pallam ad
phrygionem fert) ; Cic. Sulla 49 consulatus vobis pariebatur (just like
all the other imperfects in the passage — progressive of the descriptive
variety); id.Milo 9: interfectus ab eo est, cui vim afferebat (simple
progressive, the interruption being expressed by interfectus est) ; id.
Ligar. 24: veniebatis in Africam (progressive, the interruption being
implied in prohibiti 1 five lines below) ; Caesar B. G. v. 9. 6 : ipsi ex
silvis rari propug- nabant nostrosque intra munitiones ingredi
prohibebant (but prohibebant is exactly like propugnabant — both were
interrupted by the act expressed by ceperunt in the next sentence, and
note the verb-meaning); Sallust Jug. 27. 1: atrocitatem facti
lenie- bant. at ni, etc. ( progressive = they were in the act of
mitigating, but, etc.); ibid. 29. 3 redimebat (progressive); Livy xxi.
17. 7: mittebatur (progressive); Florus 1. 10. 1: nam Porsenna ....
aderat et Tarquinios manu reducebat. hunc reppulit (progressive in
description — that the act did not succeed is shown by reppulit) ;
Curtius vi. 7. 11: alias .... effeminatum et muliebrieter timi- dum
appellans, nunc ingentia promittens .... versabat animo tanto facinore
procul abhorrentem (again graphic description: there is here nothing in
the immediate context to show that an effect was or was not produced. In
fact versare animum does not mean necessarily to succeed in turning one's
mind, but merely to work on one's mind; cf. Livy i. 58. 3 : Tarquinius
.... ver- sare muliebrem animum in omnes partes, where versare sums
up the preceding infinitives, but no effect is produced. So in Cur-
tius, loc. cit. , versabat has the same kind of action as is indicated by
the participles appellans .... promittens, which are summed up in
versabat); Ammianus xvi. 12. 29: his et similibus notos pariter et
ignotos ad faciendum f ortiter accendebat ( again graphic description,
cf. ibid. xvi. 32: his exhortationibus adiuvabat). referring to
interruptions in the more distant past. Where the interruption belongs to
the immediate past I have so indicated in the following criticism.
1 Surely the hearer in such a case as this would not have connected even
the idea of " nicht zu Ende gefiihrten Handlung " with
veniebatis until he heard prohibiti, i. e., the interruption belongs
purely to the context and not the immediate context at that. This is true
of many other so-called conative imperfects. 364 Arthur
Leslie Wheeler Vergil Aen. i. 31: arcebat longe Latio, cf. errabant
(graphic description = what Juno "was doing" at the time, and
only the outcome of the story proves that she did not succeed).
Ibid. 239: hoc equidem occasum Troiae tristisque ruinas solabar,
fatis contraria fata rependens; nunc eadem fortuna viros .... inse-
quitur (immediate past with customary coloring, cf. contrast in nwnc = I
have been in the habit of comforting .... but now, etc. This is one of
the transitional cases between the pure custo- mary part and the pure
immediate past; cf. Am. Jour. Phil. XXIV, p. 186, where Plautus, Mud.
1123: dudum dimidiam petebas partem, immo nunc peto; Men. 729: at mihi
negabas dudum surripuisse te, nunc ea<V>dem ante oculos, attines,
are cited. In both of these passages, though there is no customary
coloring, there is the same contrast between continuance in the past and
the present as in Vergil loc. cit. Blase would probably term both of the
Plautus passages "erzahlende"). Tacitus Ann. i. 6. 3
trudebantur in paludem ni Caesar, etc. (a very common form of graphic
description in Tacitus = the soldiers were being crowded into .... but
(ni) . . . . i. e., the effect was partly produced, but was prevented,
cf. Sallust Jug. 27. 1 above). In all these cases, then, I can see
no essential alteration in the function of the tense. The idea "der
nicht zu Ende geftihrten Handlung" is derived in each case wholly
from the context and there is no reason for making a special category of
imperfects which happen to occur in contexts of this kind. Moreover,
the meaning of the verb has often been overlooked, e. g.,
prohibebant (Caesar B. G. loc. cit.) may easily, with but slight aid from
the context, express "die nicht zu Ende gefuhrte Handlung;"
cf. redimebat, mittebatur, versabat, etc. Whether the idea of
real attempted action ever became con- nected functionally with the
imperfect remains to be investigated. Certainly this did not occur in
early Latin, and I doubt whether it ever occurred. Among the cases cited
by Blase are two which more closely approximate this idea than any
others. These are Sallust Jug. 29. 3 : sed Jugurtha primo tantummodo
belli moram redimebat, existumans sese aliquid interim Romae pretio aut
gratia effecturum; postea vero quam, etc.; cf. Florus i. 10. 1:
reducebat. Impebfect Indicative in Early Latin 365
It is hard for us to feel the progressive force as the more promi-
nent in such cases. We regard as more important the attempt which is
implied in the context, but the Romans preferred to rep- resent the act
graphically as in progress, leaving the idea that it was not successful
to be inferred. When a Roman wished clearly to express attempt (real conatus),
he chose a clear conative expression, 1 e. g., conari with
infinitive. THE IMPEBPECT IN DESCRIPTION AND BEMINISCENCE 2
In strict accuracy we ought not to speak of a
"descriptive" imperfect, but of the progressive imperfect in
description. The term "descriptive" imperfect would be
justified only in case we could distinguish from the simple progressives
those cases in which the tense is used purely for graphic presentation of
actions which might more naturally have been indicated by the perfect. Such
a distinction may often be drawn, especially after the development of a
consciously artistic style, but the separation would be worth little
since the progressive function is equally characteristic of both. The
tense was chosen for graphic purposes because its pro- gressive function
made it the most vivid of the past tenses. The chief difference
between Blase's treatment here and my own will become evident from a
consideration of his definition (Hist. Syntax, p. 147) : Aber
seiner Hauptverwendung nach ist das Imperf. im latein. ein Tempus der
Schilderung geworden welches einmal im Nebensatz seine Stelle hat zur
Bezeichnung von Zustanden und Handlungen, die wahrend anderer genannter
Zustanden und Handlungen dauerten, und dann im Hauptsatz bei
Schilderungen von Zustanden, Sitten, Gebrauchen, welche in Beziehung
stehen zu irgead einer vorher oder nachher genannten praeteritalen
Handlung. ! This whole question needs investigation. All the forms
of expression of real conatus should be collected and compared with the
tenses as has been done for "cus- tom" by Miss E. M. Perkins
The Expression of Customary Past Action or State in Early Latin, Bryn
Mawr dissertation, 1904. 2 " Reminiscence, reminiscent"
are here proposed as equivalents for the German "Erz&hlung,
erz&hlendes, etc.," since the English "narrative," whether
noun or adjective, does not, as may the German "Erz&hlung,"
etc., imply an appeal to the memory or recollection. Blase points out
(Kritik, p. 12) that I misunderstood the Latin equivalents narratio,
etc., as employed by Rodenbusch (De temporum usu Plautino, Strassburg,
1888) who thus translates this peculiar German "Erzahlung" into
Latin. My error may seem pardonable under the circumstances.
366 Abthub Leslie Wheeler This elevates the descriptive power
of the imperfect to a higher position than seems to me justified, unless
one defines all cases having the progressive function as descriptive
which Blase evi- dently does not do, for he makes separate categories of
the "erzahlendes" (reminiscent) function and, as has been seen,
of the conative, 1 in all of which he recognizes the nature of the
action as progressive. Again it is to be noted that he speaks
of the 'description of customs,' etc., i. e., he does not regard the use of
the imperfect to indicate customary action as important enough even for a
sub- class, although he makes at least varieties of the reminiscent
and conative uses. I shall take up this point more fully below, 2
merely remarking here that the cases usually termed customary are
fully as peculiar as those termed by Blase conative and far more
numerous, at least in early Latin. 1 would, then, understand as an
imperfect used in description one which is used in a descriptive passage
to present any act or state vividly to the hearer or reader. What Blase's
conception is, I can not discover. He appears to make a distinction
(Kritik, p. 7) between "Erzahlung" 3 (= here
"narrative"?) and"Schilde- rung" ( — description),
e.g., in Plautus Bacch. 258-307, Capt. 497-515, Terence Andr. 48ff.,
74-102 — passages which I had cited as descriptive, 4 he sees "reine
Erzahlung, keine Schilde- rung." On the other hand, in Terence
Phorm. 60-135, which I had also cited, he sees "eine Erzahlung mit
einzelnen Situations- malereien." Without quibbling over our
characterization of the i "Conative" is used in this
passage merely as representing Blase's classification. 2 With
regard to Blase's peculiar distinction between imperfects in dependent
and independent clauses I would remark that in the study of probably two
or three thousand cases of the tense I have never been able to see any
essential difference in function due to the presence of a case in a
dependent clause, cf . Am. Jour. Phil. XXIV, p. 166, n. 1. And certainly
customs, etc. ("Sitten, Gebrauchen") maybe described in a
subordinate clause as well as in an independent clause. sif
" Erzahlung " is here used by Blase in its technical sense as
explained on p. 365, note, my objections are strengthened, for there is
certainly no special "appeal to recollection" in the imperfects
of these passages. One might as well say that the descriptive presents
and infinitives (so-called historical) in the Bacchides passage, etc.,
are different from the same usages in, say, Livy, because here the speaker
is supposed to be telling of personal experiences, which is
chronologically impossible in Livy's case. 4 Some of the
imperfects are primarily customary. Imperfect Indicative in
Early Latin 367 passages in question let us consider the main
point, so far as it can be discerned in Blase's discussion: that there is
to him some difference between the imperfects in the first group of
passages and those in the Phorm. 60-135. With his characterization
of the latter passage I agree, and I had classified the imperfects
in it as imperfects used in description
("Situationsmalereien"). 1 But what is the difference in the
effect of imperfects in this pas- sage and those in the Bacchides or those,
to take a typical passage from Blase's Tempora und Modi, in Caesar Bell.
civ. i. 62. 3 ? I give the essential parts of the three passages:
Phorm. 80 if. : hie Phaedria continuo quandam nactus est puellulam
.... hanc amare coepit . . . . ea serviebat lenoni .... neque quod
daretur quicquam .... restabat aliud nil nisi oculos pascere, .... nos
otiosi operant dabamus 2 .... in quo discebat ludo exadvorsum ilico
tonstrina erat quaedam, etc. Bacch. 279 flf . : dum circumspecto,
atque ego lembun conspicor .... is erat communis cum hospite et
praedonibus .... is ... . nostrae navi insidias dabat. occepi ego
opservare .... interea nostra navis solvitur .... homines remigio sequi,
navem extemplo statuimus .... Caesar Bell. civ. i. 62. 3 (in which
Blase expressly characterizes nun- tiabatur, etc., reperiebat as "
schildernde," cf . Syntax III, p. 147): Caesar .... hue iam
reduxerat rem, ut equites, etsi difficultate, .... fiebat, possent tamen
.... flumen transire, pedites vero ad transeundum impediuntur. sed tamen
eodem fere tempore pons in Hibero prope effectus nuntiabatur, etc.
To me there is no difference between the imperfects in the passages
of the Phormio and Bellum civile, on the one hand, and those of the
Bacchides, Captivi, and Andria on the other. All seem to me to be
progressive imperfects in description, some are also customary (see the
collection) and have been classified under that head as the more
important element. Is it not better to separate such cases as Phorm. 87
operant dabamus, 90 sole- bamus from the progressive-descriptive types
than to group all together, 3 as is done by Blase?* 1 This
term refers to the imperfects, I suppose, though Blase does not specify
exactly what he means. 2 Primarily customary. 3 Blase
apparently takes a similar view of the frequentative imperfect; cf.
Kritik, p. 7 and see below. 4 In his Kritik, p. 7 Blase
attempts to refute my assertion that the words of Quad- rigarius are not
exactly given by Gellius ix. 11 by pointing to the words of Gellius : ea res
368 Arthur Leslie Wheelek The usage termed by Blase
"erzahlendes," for which I have proposed in English the term
"reminiscent," seems to me to be closely related to the
so-called descriptive imperfect. Blase not only considers this an
important variety {Syn. Ill, pp. 145-47), but is inclined to regard it as
perhaps an original function. 1 According to his definition {Syn., loc.
cit. after Delbriick) the imperfect is thus used "wenn der
Sprechende etwas aus seiner personlichen Erinnerung mitteilt oder an die
personliche Erinne- rung des Angeredeten appelliert." Both the
descriptive and reminiscent uses, therefore, result from the use of the
progressive function to represent a past act vividly. The reminiscent
effect is due to the fact that in this usage the past acts are restricted
to those which concern the personal experience of the speaker or
hearer; it is a more intimate usage. As clear cases I cite from Blase's
list: Cicero Rep. iii. 43; ergo ubi tyrannus est, ibi non vitiosam, ut heri
dicebam, sed ut nunc ratio cogit, dicendum est plane nullam esse rem
publicam. Here Cicero clearly indicates that he is repeating the
substance of his own words of the day before = " as I was saying
yesterday, let me remind you." 2 So Catullus 30. 7: eheu quid
faciant, die, homines, cuive habeant fidem ? certo tute iubebas animam
tradere, inique, me .... idem nunc retrains te, etc., where the poet
reminds his friend (?) of the latter's advice. In both cases the
progressive force is clear, and, as Blase says, the tenses stand in no
clear temporal relation to any preterite in their context. Now since the
peculiar .... sicpro/ecfoest in libris annalibus memorata. But
profecto refers to the content, not to the exact, words of the passage in
the libri annates. And when Gellius gives a word-for-word citation, he
introduces it by more definite language, cf . ix. 13. 6 verba Q. Olaudii
.... adseripsi. In ix. 11 he is almost certainly paraphrasing, cf. haut
quisquam est. nobilium scriptorum, and in libris annalibus. This is the opinion
of Hertz, who prints this passage in ordinary type. The name of
Quadrigarius is not given, but Gellius was probably taking the substance
of the account from him. I have excluded this passage from the certain
remains of early Latin. iKritik, p. 15: "War die
vorliterarische Periode des Lateinischen ahnlich der des Alt-Indischen
(vgl. Delbruck, p. 272) und des Alt-Griechischen (Brugmann Gr. Or. s , §
539. 2), so haben wir in den Resten des erzahlenden Gebrauchs ebenfalls eine
uralte Verwendung zu sehen;" cf. pp. 49 f. 2 The English
imperfect is employed in the same way, e. g., " The facts are as
fol- lows, as I was saying yesterday," or in vulgar expressions like
" Warn't I tellin' ye?" Usually the time is denned by some
adverb as by heri in Cicero. Notice, too, the contrast between past and
present as expressed in both passages by nunc. Impebfect
Indicative in Early Latin 369 appeal to recollection is the
distinguishing feature of this remi- niscent imperfect, it would seem
proper to confine the usage to those cases in which such an appeal is
clear. Without discussing doubtful cases I content myself with indicating
those found in Blase's lists which seem to me clearly not reminiscent. Plautus
Tri. 400: sed aperiuntur aedes quo ibam 1 (an immediate past of the
interrupted type). In the same category I would place Cicero Att. i. 10.
2: quod ego etsi mea sponte ante faciebam, eo nunc tamen et agam
studiosius et contendam — -except that here the action of faciebam is not
interrupted, but is continued in the present, cf. agam et contendam.
Other immediate pasts are Ovid Fasti i. 50: qui iam fastus erit, mane
nefastus erat; ibid. 718: si qua parum Komam terra timebat, amet; ibid.
ii. 79: quern modo caelatum stellis Delphina videbas, is fugiet visus
nocte sequente tuos (notice modo) ; ibid. 147: en etiam si quis
Borean horrere solebat, gaudeat; a zephyris mollior aura venit.
Varro R. r. iii. 2. 14: libertus eius, qui apparuit Varroni et me
absente patrono accipiebat, in annos singulos plus quinquagena milia
e villa capere dicebat. Here accipiebat seems simply progressive
and (also against Blase) contemporaneous with vidi just above. dicebat is
difficult and may, as Blase says, be reminiscent ; cf . the exact details
given by the speaker ; or did the phrase in annos singulos influence the
choice of the tense ? So in Cic. Off. i. 108 : erat in L. Crasso, ....
multus lepos . . . . ; 109 : sunt his alii multi multum dispares .... qui
nihil ex occulto, nihil de insidiis agendum putant . . . . ut Sullam et
M. Crassum vide- bamus, the imperfect seems to be progressive used in
description. In Ovid Fast. viii. 331: et pecus antiquus dicebat
'Agonio' sermo, the imperfect seems to be customary; cf. antiquus
and Paulus s. v. Agonium: Agonium dies appellabatur quo rex hostiam
immolabat; hostiam enim antiqui agoniam vocabant. But however much
the interpretation of single cases may vary, this is clear: the
progressive force is discernible in all these cases. It would be better,
therefore, to content ourselves with this and not to discover an
additional appeal to recollection, unless such force is perfectly clear,
since the real imperfect function is not altered whether the reminiscent
force be present or absent. lOf. p. 359. 370
Arthur Leslie Wheelee One more remark needs to be made concerning
the remini- scent imperfect. This category has served as a convenient
catch- all for many cases of the imperfect which are difficult to
classify and especially for those in which it is difficult or impossible
to discern any progressive force, many of which I have classified
as aoristic. To classify these last cases as reminiscent is doubly
wrong ; first, because it usually involves a petitio principii, i. e. ,
an effort to discover imperfect function because the form is imperfect;
secondly, because the reminiscent coloring is con- nected only with
instances in which the imperfect (progressive) function is clear. The
shadowy appeal to memory does not exist as a separate function. 1
THE IMPERFECT OF CUSTOMARY PAST ACTION It has already been
pointed out that Blase would not elevate this variety of the progressive
imperfect to the dignity of a sub- class. The tense, however, occurs so
often in the expression of custom, habit, method, etc., that it seems to
me worthy of sepa- ration from other varieties of the progressive. In
early Latin I have counted about 450 instances in which the
customary coloring seems tome the most prominent element (see the
table). Blase (Kritik, p. 9) has objected to my statement ( Am.
Jour. Phil. XXIV, p. 176) that verbs whose meaning implies repe-
tition (vocito) or even custom (soleo) are especially well adapted to the
expression of the customary past function. He gives no reason with regard
to the first group, vocito, etc., where the mean- ing is connected with
the form. With regard to soleo, etc., he says only that the reciprocal
influence of verb-meaning and tense- function appears "nicht
nachweisbar, da doch der Verfasser selbst ihr seltenes Vorkommen im
Imperfekt natiirlich findet, weil sie in jedem Tempus der Vergangenheit
'the customary past function' ausdrucken." There appears here to be
some mis- understanding on Blase 's part and perhaps my statement was
too brief. I did not mean by reciprocal influence of verb-meaning
and tense-function that the tense borrows anything, as Blase seems to
understand me, from the meaning of the verb, but that when a verb whose
meaning implies repetition or custom occurs i See p. 378 for
further remarks. Imperfect Indicative in Eaely Latin
371 in the imperfect tense, the expression of custom becomes
especially clear. The meaning of the verb and the function of the
tense are mutually helpful to the expression of the thought. 1
Verbs like appello, voco, vocito, dico (="name") imply not
merely a single act of naming, but usually many acts at intervals. 2
There are numerous instances of such verbs in the imperfect (see the
collection) and nothing seems to me to be clearer than that these verbs
are especially well adapted to the expression of custom — • past,
present, or future. If we compare Varro, M. r. i. 17. 2: iique quos
obaeratos nostri vocitarunt with id. L. L. v. 162: ubi cenabant,
cenaculum voeitabant, etc., we see that in the first case the tense
merely states, while the verb-meaning, together with the context, gives
the idea of custom or habit; in the second (voeitabant) the verb- meaning
is reinforced by the imperfect tense — both aid in the expression of
custom. This does not mean that a Roman more often used the imperfect
tense of such verbs when he wished to express custom, but that when the
imperfect was used, a clearer expression of customary past action resulted.
3 As to soleo, consuesco, etc., the same principle holds, for cus-
tom and repetition are inseparably connected; but since these verbs imply
by their meaning the very function (custom) in question, it is clear that
the imperfect tense would occur more rarely. When, however, the imperfect
was used, there was, just as in vocito, etc., a more emphatic expression
of the customary idea; cf. Phorm. 90: Tonstrina erat quaedam: hie
solebamus fere plerumque earn opperiri .... Here tense, verb, and particles
all lend their aid to the expression of the idea of custom or habit. The
same idea would have been expressed less clearly by hie fere plerumque
opperiebamur, or by hie fere plerumque soliti sumus opperiri, or by hie
opperiebamur. In the last form only does the i Cf . Trans. Am.
Philolog. Ass. XXX (1899), p. 19, where I first expressed this view. That
verbs like soleo "dominate the tense" (ibid.) I no longer believe;
they aid the tense, but it is impossible to say whether the tense or the
verb-meaning is more influential in the total effect. Cf. also Morris,
Principles and Methods in Syntax, 1901, p. 72. 2 If the
intervals are very close together without the implication of custom, I
would classify as frequentative ; see below. 3 Am. Jour. Phil.
XXIV, p. 177, n. 3, and the dissertation of Miss Perkins cited above, p.
365. 372 Arthur Leslie Wheeler tense-form become
entirely dissevered from the influence of verb- meaning and accompanying
particles, and even here context is operative. 1 THE
IMPERFECT OF FREQUENTATIVE OR ITERATIVE ACTION The progressive
function inherent in all true imperfects renders the tense well fitted to
express repetition in the past. The repeated acts may naturally occur at
wider or narrower intervals, as the case may require. All expressions of
custom, for example, involve an idea of repetition, but it is only to
cases of the imperfect which indi- cate an act as repeated insistently,
usually at intervals very close together, that I would give the title "frequentative"
or "iterative," i. e., imperfects in which this element of
repetition becomes more prominent than any other. It seems to me that the
existence of a few such cases in early Latin is not fanciful. In
Plautus' Captivi, line 917 : aulas .... omnis confregit nisi quae
modiales erant: cocum percontabatur, possentne seriae fervescere, 2 a
single situation is described wherein the parasite repeatedly and
insist- ently asked, kept asking, whether, etc. There is something
more than mere progressive force, on the one hand, and there is no
idea of habit or custom, on the other. The primary element of the tense
is here repetition. When, therefore, Blase sees in As. 207 ff.
repetition, he is right, for repetition in a general way is present in
all cases of the customary imperfect; but he is wrong in viewing
repetition as the more important element. The more important element
seems to me custom and in accordance with this we ought to classify these
cases as customary. 3 iln a review of Miss Perkins' dissertation
Woch.f. kl. Phil., 1904, cols. 1277-80, Blase has since admitted the
truth of my assertion with regard to the influence of verb-meaning:
"Die Verbalbedeutung ist massgebend z. B.bei alien Verben, die
'nennen,' 'benennen,' bezeichnen, wie appellare dicere vocare, denn der
Name entsteht durch ein gewohnheitsmassiges Nennen. Damit ist der Grand
gegeben (by Miss Perkins) fur eine Behauptung, die ich .... bei Wheeler
bezweifelt habe." 2 Blase (Kritik, p. 10) misses among my cases
Rud. 540, which was nevertheless cited, but escaped him because by a
misprint the imperfect was not italicized. On the same page he cites ten
passages and says that I "hier uberall gewohnheitsmftssige
Handlungen erkenne." This is very inaccurate, unless "hier"
refers to the last two passages, As. 207 ff., Bacch. 424 — the only two
of the list which I have classified as customary. My classification of
the other eight passages may be seen by referring to the collection at
the end of this paper. 3 Blase (Kritik, pp. 9, 10) seems to imply
that I have said that the frequentative imperfect is commoner in later
Latin. I have nowhere said this and my statement, Imperfect
Indicative in Early Latin 373 the aoristic imperfect
Excessive deference to the principle that a difference of form implies a
difference of meaning and the well-known tendency of investigators to
abhor an exception are chiefly responsible for the unwillingness of some
scholars to admit that the imperfect occurs in Latin with no progressive
force, i. e., as an aorist. While I can not pretend to criticize this
method as applied to Sanskrit and Greek by Delbruck, 1 it seems to me
that there are reasons against its application, in the same degree at
least, to Latin. The situa- tion in early Latin differs essentially from
that in Sanskrit and in Greek. In the first place there is no 'great
mass' 2 of cases of the imperfect in which real progressive force is not
discernible, and the cases (about sixty) are restricted almost entirely
to two verbs, aibam and eram. This seems to indicate that the
phenomenon arose on Latin ground alone and has its explanation in
some peculiarity of the few verbs concerned. Again the greater
wealth of tenses in Sanskrit and Greek would lead us a priori to
expect Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 186, 187, "Latin seems ....
to have been unwilling to take that step," implies the opposite
belief. When I added (ibid., p. 187), " If the fre- quentative
imperfect in early Latin is still in its infancy, etc.," it was naturally
not implied that it ever passed out of its infancy ! The facts in later
Latin are not known because they are not collected. Wimmerer naturally
repeats from Blase's Kritik both these errors ( Wien. Stud., 1905, p.
263). He, too, is of the opinion that it is of no ad- vantage to separate
so-called iterative imperfects from those of customary nature: "
wenn doch in jedem Falle erst auf Grund des gewahlten Tempus aus dem
Zusam- menhange erkannt wird, dass es sich um eine Gewohnheit handelt."
To this it must be answered, first, that it is by no means always, and
often not at all, on the basis of the tense that we recognize the
presence of customary action. Such action may be expressed in many ways,
the tense being but one element ; and, secondly, if the cases interpreted
by me as frequentative are really essentially different from any other
variety of the progressive, then they should be classified separately, at least
until it can be proved that they belong elsewhere. 1 It will
suffice to quote two of Delbruck's statements. He says of the Greek tenses
: "Man muss sich eben mit der Erwagung begnugen, dass es einem
Schriftsteller bald gut schien, zu konstatieren, bald zu erzahlen, ohne
dass wir uns seine Motive immer klar machen konnten" (Vergl. Syn.
II, p. 304, cf. pp. 302, 303). A saner. method is evinced ibid., p. 304 :
" Den Unterschied zwischen Perfekt und Imperfekt (of Sanskrit) in
den einzelnen Stellen nachzuweisen, sind wir nicht mehr im Stande." This
is at least safe agnosticism, biding its time until the lost distinctions
shall be found. Blase is in entire agreement even as regards Latin with
the first statement of Delbrflck, cf . Kritik, p. 12. 2
Delbruck (ibid., p. 304, of Greek) : "Aber .... bleibt doch auch eine
grosse Menge von Stellen ubrig, bei denen wir einen Grund fur die Wahl
des Tempus nicht ausfindig machen konnen." 374
Arthur Leslie Wheeler in those languages a larger number of
instances in which it is hard to differentiate similar tenses, whereas
the much narrower tense-system of Latin exhibits a tendency to merge the
functions of similar tenses, cf. the perfect in -v- with the reduplicated
per- fect and the formally aoristic perfect in -s-. In accordance
with this preliterary development we should expect indications of
the same tendency in the literary period. The aoristic imperfect
is, I believe, an illustration of this tendency, resulting from the
merging of the functions of imperfect and preterite (aorist) in certain
verbs. The restricted range of the phenomenon and its probable
explanation (see below) would make it unlikely that we are here dealing
with a survival of an Indo-European confusion. As illustrations of
the aoristic usage I will cite : Plautus Poen. 1069 : nam mihi sobrina
Ampsigura tua mater fuit (cf. fecit 1071), pater tuos is erat frater
patruelis meus. Here there seems to be no difference between erat and
fuit. Ibid. 900: et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere:
ingenuos Carthagine aibat esse, where aibat and dixit seem to be
equivalent. For other cases see the collection. It is quite
possible that others may be able to detect true im- perfect force in some
of the cases which I have classified as aoristic. Blase, though not quite
certain of his own classification, has con- vinced me that I may have
been wrong with regard to Varro H. r. ii. 4. 11: in Hispania ulteriore in
Lusitania .... sus cum esset occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax
.... dicebat .... L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duobus
costis, etc. There are so many exact details here that we suspect
Scrofa of reminiscing. So possibly Varro ibid. iii. 17. 4 dice- bat. 1
But though perhaps a dozen 2 cases might be taken from the total of those
which seem to me aoristic, enough remain to establish this category on a
firm basis. The exact process by which the progressive function
became lost can not, of course, be proved. I have suggested (Am.
Jour. Phil. XXIV, pp. 188, 189) that it is a weakening due to the constant
'Blase is quite right (Kritik, p. 11) in classifying As. 208 aibas as
customary. I neglected to exclude this from four cases cited from
Rodenbusch. It was classified on my own slips as customary. 2
1 have indicated in the collection those which seem to me questionable.
Imperfect Indicative in Early Latin 375 use of certain
verbs in ever-recurring similar contexts, until in the case of aibam the
originally graphic ' force was used out of the form and aibam became a
mere tag to indicate an indirect discourse. 2 With eram the vagueness of
the verb-meaning and the frequency of its occurrence side by side with
fui were the chief influences. In contexts where there are many other
imper- fects all of a definite time, these usually colorless verbs naturally
take the prevailing color 3 of the context; cf. As. 208 aibas. In
his "Tempora und Modi" (Syn. Ill, p. 145) Blase expresses his
belief that an aoristic imperfect as accepted by Luebbert and J.
Schneider has been proven not to exist by E. Hoffmann (Zeit- partikeln 2
, pp. 181 ff . ) . But neither Luebbert nor Schneider seems absolutely to
have believed in an aoristic usage. 4 Luebbert says (Quom, pp. 156 ff.)
that in Men. 1145 and 1136 ff. we find aoris- tic perfect and the
imperfect, etc. "promiscue gebraucht da der Unterschied zwischen
beiden gering war." "Grering" indicates that there was to
him some difference, even though it was slight. Schneider's statements
are not consistent. In his De temporum apud priscos scriptores latinos
usu quaestiones selectae, Glatz, 1888, pp. 14 ff., he says correctly that
in many cases no difference can be seen between aibat and dixit, and that
"aibat aoristi munere fungi," but he adds that the imperfect
represents an act as "infectam ideoque aliter intellegendam acsi perfectam."
Hoff- mann's supposed refutation is very weak. In the first place
he 1 If originally reminiscent, the explanation is the same ; for
the reminiscent usage is due to the speaker's effort to represent a past
act graphically. 2 Cf. Am. Jour. Phil. XXIV, p. 188, where it is
stated that the indirect discourse is always present or implied (rarely)
with aibam. Occasionally the object is represented by a pronoun. Bacch.
982: quid ait?, Capt. 676: ira vosmet aiebatis itaque, etc. 8 Cf.
Blase (Kritik, p. 11): "wo aibam mitten zwischen Imperfekta der
wieder- holten oder gewohnheitsmassigen Handlung steht und unmdglich
anders gef asst werden kann." 4 But cf. O. Seyffert in
Bursian's Jahresb. LXIII, p. 32: " Das Imperf. findet sich.
bekanntlich bei den Scenikern mehrfach in einem so geringen
Bedeutungsunterschiede vom Perf . und bisweilen unmittelbar neben
demselben, dass man ohne wesentliche Anderung des Sinnes und oft auch
unbeschadet des Metrums (Rud. 543, Capt. 717) das eine Tempus f iir das
andere einsetzen kann. Es zeigt sich dies besonders bei den verba
dicendi; das Imperf. von aio vertritt ja geradezu das fehlende Perfect;"
cf. ibid. LjXXX, p. 336, where Seyffert repeats the statement that aibat,
e. g., Ps. 1083, represents the lost perfect of aio. In Am. Jour. Phil.
XXIV I had overlooked this remarkable anticipation of my own
conclusions. 376 Arthur Leslie Wheeler confuses
different uses of the tense, asserting, for example, that in Plautus Tri.
400: aedes quo ibam, etc., the imperfect is wholly analogous to that in
Tacitus Ann. ii. 34: simul curiam relinquebat. commotus est Tiberius,
etc. ; cf. iv. 43 sequebatur Vibius Crispus, donee, etc., and that in the
last two cases the imperfect jars on us because such an action is not
usually presented "in der Phase ihres Vollzugs." Such an
application of the tense may seem strange to a German, but to one who
speaks English, it is entirely natural and could not for a moment be
mistaken for anything but a simple progressive imperfect. To refute such
a usage as a supposed aorist is to knock down a man of straw. The
supposed analogy of these cases to Tri. 400 does not bear on the point,
but it may be remarked that ibam is analogous only in the fact that its
action is progressive and interrupted, but it belongs to the immediate
past type. 1 Hoffmann then cites ten cases of aibat, six of which
may be taken aoristically, and asserts that the tense is in all
used "in voller Gesetzmassigkeit." This assertion rests on
entirely inadequate foundation. 2 the shifted imperfect
Blase seems right in restricting the 'shifted' imperfect to one class
(Kritik, pp. 13, 14) = an imperfect subjunctive with present meaning;
for, as he says, there is no real shifting if the preterital sense remains.
But when he adds 3 that "ein sicherer derartiger Fall ist weder bei
Plautus und Terenz, noch sonst im Altlatein vorhanden," I can not
agree. He accepts as cases of shifting Varro, L. L. viii. 65: sic Graeci
nostra senis casibus .... dicere debebant, quod cum non faciunt, non est
analogia, and ix. 85: si esset denarii in recto casu .... tunc in
patrico denariorum dici oportebat, and ix. 23: si enim usquequaque
esset analogia, turn sequebatur, ut in his verbis quoque non esset, non,
1 See above, pp. 359 ff. 2 J. Ley Vergilianar. quaestion.
specimen prius de temporum usu, Saarbriicken, 1877, apparently believes
that eram and fui in Vergil are so nearly equivalent that metrical
convenience often decided between them ; cf . Blase Syn. Ill, p. 164 Anm.
I have not seen this dissertation, but the explanation is, on its face,
insufficient. S0f. his Syntax, p. 149: " Der Indikativ des
Imperfekts hat erst seit Beginn der klassischen Zeit eine allmahliche
Verschiebung aus der Sphfire der Vergangenheit in die der Gegenwart
erfahren." Imperfect Indicative in Eably Latin
377 cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis. If these
are real cases of shifting, how do the following differ ? Plautus Merc.
983 e : temperare istac aetate istis decet ted artibus .... vacnom esse
istac ted aetate his decebat noxiis. itidem at tem- pus anni, aetate alia
aliud factum convenit; Mil. 755: insanivisti hercle (perf. def.): nam
idem hoc hominibus sa/[a] era[n]t decern; ibid. 911: bonus vatis poteras
esse: nam quae sunt futura dicis. 1 If the passages from Varro move in
the present (Blase Kritik, pp. 13, 14), the same is true here; cf. Auct.
ad Herenn. ii. 22. 34: satis eratjiv. 41. 53 infimae (infirmae?) erant.
2 That Varro L. L. viii. 74 oportebat stands "zwischen zwei
Per- fekten" (Blase) is accidental. 3 This peculiar
shifting was explained by me Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 189, 190, as due
to the unreal (contrary-to-fact) idea present in the context or in the
meaning of the verb (oportebat, etc.) or in both ; cf. Blase (Syn. Ill,
p. 149) who also calls attention to the auxiliary character 4 of the
verbs involved and thinks that the shifting began with verbs of
possibility and necessity which seems a probable view. In
conclusion a few words are necessary with regard to some general aspects
of the subject and its method of treatment. The original function or
functions 5 of the imperfect can not, of course, be certainly inferred
from a syntactical investigation of material which is relatively so late
even with the aid of etymology and comparative philology. My statement
(loc. cit., p. 184) that the progressive function was probably original
was therefore intended i Cf. Rud. 269 aequius erat, True. 511
poterat, Aul. 424. For the other eases see collection. 2 But
not iv. 16. 23, which I now see is not shifted. 8 And both are
cases of debuerunt! In his Kritik, p. 13, Blase denies my assertion (loc.
cit., p. 181, n. 1), that the perfect indie, and the perfect infin. of these
verbs are shifted in Varro, cf . L. L. viii. 72-74 ; viii. 48 ; viii. 50
; viii. 61, 66. I am glad to find my view supported by Wimmerer Wien.
Stud., 1905, p. 264 : " Denn da der Grund der Ver- schiebung hier
vor allem in der Bedeutung der Verba liegt, so kann konsequenterweise
ebenso gut ein debuit wie ein debebat verschoben werden." «Cf.
Am. Jour. Phil. XXIV, p. 190. 6 It is uncertain whether the
original meaning of the tense was vague, admitting several uses which gradually
became narrowed to one (the progressive), or whether there was one
original meaning which split into several related uses. The facts seem to
point to the second alternative. 378 Arthur Leslie
Wheeler only as a probability based upon the existence of this
force in nearly all the cases and upon the generally accepted etymology
of the imperfect form. But nothing like proof was claimed for this
theory. Blase is inclined, following Delbrtick and Brugmann, to regard
the reminiscent usage also as an original one (cf. p. 26, n. 2), but he
rightly says that no statistics can prove which of these two is earlier.
If my view that the reminiscent usage is rather an application of the
progressive than itself a separate function is correct, then the
progressive is older. The existence of the reminiscent imperfect in
Sanskrit and Greek certainly makes it very probable, as Blase says, that
it existed in preliterary Latin also. If this is so, I am inclined to
refer it to the same general origin as the so-called descriptive
imperfect — to the effort to present a past act (here a personal
experience) vividly. 1 But the search for original meanings must
ever remain within the realm of theory; nor can we hope even
theoretically to reach any considerable degree of probability in the establishment
of such meanings without the most careful collection and
classifica- tion of the facts within the period of written speech. And
this should precede the appeal to etymology and comparative phi-
lology. What is actually found in any given language, not what according
to comparative philology ought to be found, should be our first aim.
Although I would not minimize the importance in syntactical study of the
comparative method, it seems to me prop- erly applied only as a
supplement, not as the controlling factor to which all else is
subordinated. Indeed, a premature appeal to comparative philology may
result in premature conclusions, for an investigator whose head is filled
with preconceived notions drawn from Sanskrit and Greek is all too apt to
imagine peculi- arities in Latin phenomena which he would not have
perceived at all, had he approached by a Latin route alone; and
such peculiarities have little value unless they can be recognized
as Latin without foreign assistance. Once recognized they may, and
often do, receive much additional light from comparative philology. While
it is true, then, that scholars will differ with •Cf. Am. Jour.
Phil. XXIV, pp. 185, 190, where it was surmised that the descrip- tive
application of the tense was Indo-European. Imperfect
Indicative in Early Latin 379 regard to a few cases' in any given
syntactical phenomenon and the ultimate classification must not neglect
the aid of comparative philology, yet the chief basis of investigation is
agreement among scholars with regard to the great majority of such cases
viewed as purely Latin phenomena. If this agreement is lacking,
comparative philology can rarely bring reliability to the results.
COLLECTION The statistical table shows that this
investigation is based upon a collection of 1,223 imperfects. It has been
my aim to exclude from consideration (and from the table) all passages of
dubious authorship, corrupt text, or insufficient context. About 170
cases have thus been excluded, a seemingly large proportion, but it
must be remembered that much of the literature of the third and second
centuries before Christ is fragmentary and very often there is not enough
context to render classification at all certain. In so large a body of text
it is probable that some cases have escaped my notice, but most of the
ground has been examined at least twice and such omissions can hardly be
numerous or alter essentially the results. I have subjected the material
to a careful revision and the table differs slightly from that published
in Am. Jour. Phil. XXIV, p. 183. It would seem unnecessary
nowadays for any syntactical scholar to state that he lays no stress on
statistics as such, but when a reviewer 2 attributes to me the conviction
that I have proved this and that by just so many exact figures, it
seems proper for me to disclaim any such conviction. The fact that
exact figures do not in themselves mean anything does not, however,
excuse one from being as exact as possible. iCf. Wimmerer Wien.
Stud., 1905, p. 262: "die syntaktischen Einzeltatsachen sind viel zu
sehr umstritten . . . . als dass auf sie allein eine brauchbare
Klassiflkation und Erkl&rung der Arten eines einigermassen
verzweigten syntaktischen Gebrauches gesttizt werden kdnnte." With
this I agree, except possibly as to what is a "brauch- bare
Klassiflkation," but when he says (p. 61), with reference to my inference
that the progressive function is original: "Den Begriff aber hat die
vergleichende Sprach- wissenschaft langst festgestellt," I would
suggest that such a conclusion could not be regarded as 'firmly
established' except with several investigations like mine as chief
ies. 2 In Archiv.f. lat. Lex. und Gk. XIV, p. 289.
380 Abthuk Leslie Wheelee The method of citation adopted in
the collection will doubtless seem to many inadequate. It is especially
true, however, of the classification of tense functions, that very often
a large body of context must be taken into consideration. For this reason
very many of the citations even in Blase's "Tempora und Modi"
are quite useless and misleading because of their brevity. It
seemed best, therefore, to cite as fully as possible in the body of
the article, but in the collection to cite only each form and the place
of its occurrence. Those who are interested in examining a given usage in
detail will in any case revert to the complete context, as I know by
experience. I. Progressive Imperfect A. Simple Types,
including imperfects in description, reminiscence, and the
"immediate" past variety. Plautus, ed. Goetz and Schoell, ed.
minor, Lipsiae, 1892-96. Amph. prol. 22 scibat; 199 pugnabant ....
fugiebam; 251 com- plectabantur; 383 aiebas; 385 sci[e]bam;
429erat; 597 credebam; 603 stabam; 711 solebas; 1027 censebas; 1067
confulgebant; 1095 rebamur; 1096 confulgebant. 14 As.
300 scibam; 315 mirabar; 385 censebam; 392 volebam; 395 volebas;
452 volebam; 486 volebas; 888 suppilabat; 889 suspi- cabar .... eruciabam;
927 ingerebas .... eram; 931 dissua- debam. 13 Aul. 178
praesagibat .... exibam; 179 abibam; 295 poterat; 376 erat; 424
aequom .... erat; 427 erat; 550 meditabar; 625 radebat ....
croccibat; 667 censebam; 707 expectabam .... abstrudebat; 754
scibas; 827 apparabas. 15 Bacch. 18 (frag, x) erat; 189 volebam;
282 erat; 286 dabat; 297 dabant; 342 censebam; 563 erat; 675
sumebas; 676 nescibas; 683 suspicabar; 788 orabat; 959 restabant;
983 auscultabat .... loquebar. 14 Capt. 273 erat; 491
obambulabant; 504 eminebam; 561 aibat; 654 assimulabat; 407
audebas; 913 frendebat. 7 Cas. 178 ibam; 279 aiebat; 356 rebar; 432
trepidabant .... fes- tinabat; 433 subsultabat; 532 erat; 578
praestolabar; 594 ibam; 674 volebam; 702 volebam; 882 erant; 913
erat .... erat .... erat. 15 Cist. 153 poteram; 187
exponebat; 566 perducebam; 569 adiura- bat; 607 ai[e]bas; 623
properabas; 721 rogabat; 723 quaeritabas; 759 quaeritabam. 9
Cure. 390 quaerebam; 541 credebam. 2 Imperfect
Indicative in Early Latin 381 Epid. 48 amabat; 98 solebas; 138
desipiebam ; .... mittebam; 214 occurrebant; 215 captabant; 216 habebant;
218 ibant; 221 prae- stolabatur; 238 dissimulabam ; 239 exaudibam ....
fallebar; 241 ibat; 409 apparabat; 420 adsimulabam; 421 me
faciebam. 482 deperibat; 587 vocabas; 603 dicebant; 612 aderat. 20
Men. 29 erant; 59 erat; 63 ibant; 195 amabas .... oportebat; 420
advorsabar; .... metuebam; 493 eram; 564 ferebat; 605 censebas; 633
negabas; 634 negabas .... ai[e]bas; 636 cense- bas; 729 negabas; 773, 774
suspicabar; 936aiebat; 1042ai[e]bat; 1046 aiebant; 1052 ferebant; 1053
clamabas; 1072 censebam; 1116 cadebant; 1120 eramus; 1135 erat ....
vocabat; 1136 censebat; 1145 vocabat. 28 Merc. 43 abibat; 45
rapiebat; 175 quaerebas; 190 abstrudebas; 191 eramus; 197 censebam; 212
credebat; 247 cruciabar; 360 habebam; 754 obsonabas; 815 censebam; 845
erat .... quae- ritabam; 884 ibas; 981 ibat. 15 Miles 54
erant; 100 amabant; 111 amabat; 181 exibam .... erat; 320 ai[e]bas; 463
dissimulabat; 507 osculabatur; 835 cale- bat .... amburebat; 853 erat;
854 erat; 1135 exoptabam; 1323 eram .... eram; 1336 temptabam; 1140 erat;
1430 habebat. 18 Most. 210 quaerebas; 221 su<b>blandiebar;
257 erat; 787 erat; 806 aiebat; 961 faciebat. 6 Persa 59
poterat; 171 censebam; 257 somniabam .... opinabar; .... censebam; 262
erant; 301 cupiebam; 415 censebam; 477 credebam; 493 occultabam; 626
pavebam; 686 metuebas. 12 Poen. 391 dicebas; 458 sat erat; 485
accidebant; 509 scibam; 525 properabas; 748 dicebant; 899 vendebat; 1178
aderat; 1179 complebat; 1180 erat; 1231 volebam; 1391 expectabam.
12 Pseud. 286 amabas; 421 subolebat; 422 dissimulabam; 492
nole- bam; 499 scibam; 500 scibas; 501 mussitabas .... scibam; 502
aderat .... aberat; 503 erat .... era<n>t; 677 habebam; 698 arbitrabare;
718 ferebat; 719 accersebat; 799 conducebas .... erat; 800 sedebas ....
eras; 912 circumspectabam .... metuebam; 957 censebam; 1314 negabas.
24 Kud. 49 erat; 52 erant; 58 erat; 222 oblectabam; 307 exibat;
324 suspicabar; 378 scibatis; 379 amabat; 452 censebam; 519 age-
bam; 542 aiebas; 543 postulabas; 600 quibat; 841 erat; 846 sedebant; 956a
faciebat; 9566 fiebat; 1080 aiebas; 1123 pete- bas; 1186 credebam; 1251
monstrabant; 1252 ibant; 1253 erat; 1308 erat. 24 Stich.
130placebat; 244praedicabas; 328 visebam; 329 miserebat; 365 superabat;
390 negabam; 540 erant; 542 erant; 543 erat; 545 erant; 559 postulabat.
11 382 Arthur Leslie Wheeler Trin. 195 volebam;
212 aiebant;.400 ibam; 657 scibam .... quibam; 901 erat .... gerebat; 910
vorsabatur; 927 latitabat; 976 eras; 1092 agebat; 1100 effodiebam.
12 True. 164 vivebas; 186 cupiebat; 198 lavabat; 201 celebat
metue- batque; 332 dicebam; 333 revocabas; 648 debebat; 719 eras;
733 dabas; 748 volebas; 757 aibas; 813 erat .... valebat .... petebat;
921 ibat. 16 Vid. 71 miserebat; 98 piscabar. 2
Fragmenta fabb. cert. 86 sororiabant; 87 fraterculabant. 2
Plautus, IA, Total 291 Terence, ed. Dziatzko, 1884. Ad.
78 agebam; 91 amabat; 151 taedebat; 152 sperabam; 153 gaudebam; 234 eras;
274 pudebat; 307 instabat; 332 iurabat; 333 dicebat; 461 quaerebam; 561
aibas; 567 audebam; 642 mirabar; 693 credebas; 809 tollebas; 810 putabas;
821 ibam; 901 eras. 19 And. 54 prohibebant; 59 studebat; 60
gaudebam; 62 erat; 63 erat; 74 agebat; 80 amabant; 86 erat; 88 amabant;
90 gaude- bam; 92 putabam; 96 placebat; 107 amabant .... aderat;
108 curabat; 110 cogitabam; 113 putabam; 118 aderant; 122 erat; 175
mirabar; 176 verebar; 435 expectabam; 490 imperabat; 533 quaerebam; 534
aibant; 545 dabam; 580 ibam; 656 adpar- abantur; 657 postulabat; 792
poterat; exit, suppositic. I expec- tabam. 31 Eun. 86 eras;
87 stabas .... ibas; 97 erat; 112 dicebat; 113 scibat .... erat; 114
addebat; 118 credebant; 119 habebam; 122 eras; 155 nescibam; 310
congerebam; 323 stomachabar; 338 volebam; 345 erat; 372 dicebas; 378
iocabar; 423 erat; 432 ade- rant; 433'metuebant; 514 erat; 533 orabant;
569 erat; 574 cupi- ebam; 584 inerat; 587 gaudebat; 606 simulabar; 620
faciebat .... cupiebat; 621 erat; 681 erat; 727 adcubabam; 736 erat
.... nescibam; 743 expectabam; 841 erant; 928 amabant; 1000 quaerebat;
1004 scibam; 1013paenitebat; 1065 quaerebam; 1089 ignorabat. 43
Heaut. 127 faciebant; 200 erat; 201 erat; 256 volebam; 260 can ta-
bat; 293 nebat; 294 erat .... texebat; 308 scibam; 366 tracta- bat; 445
erat .... erant; 536 oportebat; 629 erat; 758 opta- bam; 781 dicebam;
785credebam; 844 quaerebam; 907 videbat; 924 aiebas; 960 aiebas; 966
erat. 22 Hec. pro. II. 16 scibam; 91 eram; 94 licebat; 115 amabat;
162 erat; 172 redibat; 178 conveniebat; 230 erant; 283 eram; 322
poteram; 340 eras; 374 dabat; 375 monebat .... poterat; 422 expectabam;
455 agebam; 498 orabam; 538 negabas; 561 aderam; 581 rebar; 651
optabamus; 713 credebam; 806 pudebat. 23 Imperfect
Indicative in Eaely Latin 383 Phorm. 36 erat; 51 conabar; 69 erat
.... supererat; 83 servi- ebat; 85 restabat; 88 discebat; 89 erat;
97 erat? 99aderat; 105 aderat; 109 amabat; 118 cupiebat .... metuebat;
298 duce bat; 299 deerat; 355 agebam; 365 habebat; 468 erant; 472
quae- rebam; 480 aibat; 490 mirabar; 529 scibat; 570 manebat;
573 commorabare; 582 scibam; 595gaudebat .... laudabat ....
quaerebat; 596 gratias agebat; 614 agebam; 642 insanibat; 652
ven<i>bat; 654 opus erat; 759 volebam .... volebam; 760daba-
mus operam; 797 sat erat; 858 aderas .... aderam; 900 iba-
mus; 902 ibatis; 929 dabat; 945 eras; 1012 erant; 1013 erat;
1023 erat. 47 Terence, I A, Total 185 Cato ed. Jordan,
Lipsiae, 1860. p. 36. 2 sedebant .... lacessebamur. Total 2
Dramatic and epic fragments. Naevius. Bell, pun., ed. Mueller,
1884. 5 immolabat; 7 exibant; 12 exibant; 65 inerant.
tabular, fragmenta, ed. Ribbeck 3 , 1897-98. I p. 16 IV habebat
.... erat; p. 322 II proveniebant. II p. 30 VII faciebant ....
tintinnabant. 9 Ennius, ed. Vahlen 2 , 1903. Annal. 28
premebat; 41 videbar; 43 stabilibat; 82 certabant; 87 expectabat; 87
tenebat; 138 mandebat; 139 condebat; 147 volabat; 190 sonabat; 202
solebat; 216 erat; 307 vivebant; 307 agitabant; 309 explebant ....
replebant; 343 aspectabat; 408 sollicitabant; 459 parabant; 497 fremebat;
555 cernebant. 21 Scenica. 15 eiciebantur; 123 erat; 127 inibat; 251
petebant; 324 scibas. Saturar. 65 adstabat. Varia.
45 videbar; 64 ibant. 8 Pacuvius, ed. Ribbeck 3 1, p. 65 XVI
conabar. 1 Accius, ed. Ribbeck 3 , p. 162 V ostentabat; p. 162 VII
scibam; p. 165 VI expectabat; p. 205 X erat; p. 210 XII
commiserebam .... miserebar; p. 213 XX educabant; p. 251 XIII
mollibat. 8 Incert. p. 273 V ecsacrificabat; p. 282 XXXII hortabar;
p. 285 XLV scibam; p. 304 CI expetebant. 4 Turpilius,
ed. Ribbeck 3 II, p. 101 II nescibam; p. 107 V sperebam; p. 120 X
videbar. 3 Titinius, ed. Ribbeck 3 II, p. 168 II aibat. 1
Afranius, ed. Ribbeck 3 II, p. 215 VI hortabatur; p. 217 XII sup-
ponebas. 2 Pomponius, ed. Ribbeck 3 II, p. 303 II cubabat.
1 Incert., ed. Ribbeck 3 II, p. 137 XXIV ferebat simulabat. 2
Dramatic and Epic Fragments, IA, Total 60 384 Arthur
Leslie Wheeler Historicorum fragm., ed. Peter, 1883. p.
70. 9 nesciebant; 72. 23 erant; 72. 27 cymbalissabat; 72. 27 can- tabat;
73. 37 mirabantur .... reddebat; 83. 27 apparebat .... habebat ....
sedebant; 94. 13 erat; 110. 7 habebat; 136. 5 erant; 137. 8 concedebat;
137. 8 praecellebat; 137. 10 b antista- bat; 138. 10 audebat; 138. 11
licebat; 141. 29 erant; 142. 37 erant; 143. 46 captabat; 145. 57 erat
.... erat .... sciebant .... apparebat; 149. 81 mirabantur; 150. 85
sauciabantur .... opus erat .... defendebant; 178. 8 erat .... tegebat;
178. 9 pot- erat; 179. 23 indigebat; 184. 79 sciebat; 184. 86 erat.
I A, Total 34 Orator, fragm., ed Meyer, Turici, 1842. p. 192
narrabat .... poteram; p. 231 existimabam .... arbitra- bar .... stabant
.... erant; 236 ferebantur .... lavabantur. I A, Total 8
Lucilius, ed. Marx, 1904. 393 stabat; 394 obiciebat; 479 erat; 531
serebat; 534 ibat; 1108 gemebat; 1142 ibat (not in Mueller's ed.); 1174
volebat; 1175 ducebant; 1187 haerebat; 1207 premebat. I A,
Total 11 Auctor ad Herennium, ed. C. L. Kayser, 1854. G. Friederich's
text in C. F. W. Mueller's Cicero, Vol. I, has been compared
throughout. 1. 1. 1 intelligebamus .... attinebant .... videbantur; 1.
10. 16 postulabat; 1.12. 21 erat; 1. 13. 23 defendebant .... erant;
2. 1. 2 existimabamus .... ostendebatur; 2. 2. 2 videbatur; 2. 5. 8
faciebat; 2. 19. 28 volebat .... metuebat .... videbat .... sperabat ....
verebatur .... hortabatur .... remove- bat; 2. 21. 33 erant .... habebat;
3. 1. 1 pertinebant .... erant .... videbantur; 3. 15. 26 demonstrabatur;
4. 9. 13 pote- rant .... videbant; 4. 12. 18 inpendebant; 4. 13. 19
ingenio- sus erat, doctus erat, .... amicus erat; 4. 14. 20 erat; 4. 15.
22 removebas .... abalienabas; 4. 16. 23 damnabant .... ini- quom
erat; 4. 18. 25 erant .... poterant; 4. 19. 26 proderas .... laedebas
.... proderas .... laedebas .... consule- bas; 4. 20. 27 oppetebat ....
comparabat; 4. 24. 33 putabas; 4. 24. 34 habebamus .... habebam .... erat
.... obside- bamur .... videbar; 4. 33. 44 adsequebatur ....
profluebat .... erat; 4. 33. 45 pulsabat .... ducebat; 4. 34. 46
videban- tur; 4. 37. 49 erat .... oppugnabat; 4. 41. 53 veniebat
.... occidebatur; 4. 49. 62 inibat; 4. 55. 68 faciebat. I A,
Total 62 Corpus Inscr. Lat., Vol. I. 201. 6 animum ....
indoucebamus .... scibamus .... arbi- trabamur. I A, Total
3 Imperfect Indicative in Early Latin 385 Varro,
De lingua Lat., ed. Spengel, 1885. 5. 9 videbatur; 5. lOOerat; 5.
128erat; 5. 147 pertinebat; 7. 39erat; 7. 73 erant; 8. 20 erant; 8. 59
erant. 8 De re rust., ed Keil, 1889, 1. 2. 25 ignorabat
.... despiciebat; 1. 13. 6 habebat; 2. 11. 12 ibam; 3.2. lstudebamus; 3.
2. 2sedebat; 3. 13. 2erat .... dice- bat .... erat .... cenabamus; 3. 5.
18 dicebatur; 3. 16. 3 erat; 3. 17. 1 sciebamus; 3. 17. 9 ardebat.
14 Sat. Menipp., ed. Kiese, 1865, p. 198, 1. 1 regnabat; p. 223, 1.
9 findebat. 2 I A, Total 24 Grand Total, I A,
680 B. Imperfect of Customary Action. Plautus
As. 142 habebas; 143 oblectabas; 207 arridebant .... veniebam;
208 ai[e]bas; 210 eratis .... erant; 211 adhaerebatis; 212 faci-
ebatis .... nolebam; 213 fugiebatis .... audebatis; 341 sub-
vectabant. 13 Aul. 114 salutabant; 499 erant. 2
Bacch. 421 erat .... eras; 424 accersebatur; 425perhibebantur;
429 exercebant ; 430 extendebant ; 438 capiebat ; 439 desinebat. 8
Capt. 244 imperitabam; 474 erat; 482 solebam. 3 Cist. 19
dabat .... infuscabat; 162 habitabat. 3 Epid. 135 amabam. 1
Men. 20 dabat; 484 dicebam; 715praedicabant; 716 faciebat; 717
ingerebat; 1118 eratis; 1119 eratis; 1122 eratis .... erat; 1123
vocabant; 1131 erat. 11 Merc. 217 credebat. 1
Miles 15 erat; 61 rogitabant; 99 erat; 848 erat; 849 imperabat
.... promebam; 850 sisteba<h>t; 852cassaba<n>t; 855 a com
- plebatur; 856 bacc<h>abatur .... cassabant. 11
Most. 150 erat; 153 victitabam; 154 eram; 155 expetebant; 731
erat. 5 Persa 649 amabant; 824 faciebat; 826 faciebat.
3 Poen. 478 praesternebant; 481 indebant; 486 necabam. 3
Pseud. 1171 eram; 1180 ibat .... ibat; 1181 conveniebatur. 4
Rud. 389 habebat .... habebat; 745 erant; 1226 memorabam. 4
Stich. 185 utebantur. 1 Triu. 503 erat; 504 dicebat. 2
True. 81 memorabat; 162 habebam; 217 habebat; 381 sordeba-
mus; 393 habebat; 596 erat. 6 Pragmenta fabb. cert. 24 erat;
26 monebat .... erat. 3 I B, Total 84 386 Arthur
Leslie Wheeler Terence Adel. 345 erat. 1
And. 38 servibas; 83 observabam; 84 rogitabam; 87 dicebant; 90
quaerebam .... comperiebam; 107 habitabat; 109 conla-
crumabat. 8 Eun. 398 agebat sc. gratias; 405 volebat; 407
abducebat. 3 Heaut. 102 accusabam; 110 operam dabam; 988
indulgebant .... dabant. 4 Hec. 60 iurabat; 157 ibat;
294 habebam; 426 impellebant; 804 accedebam; 805 negabant. 6
Phorm. 87 operam dabamus; 90 solebamus; 363 erat; 364 con
tinebat; 366 narrabat; 790 capiebant. 6 I B, Total 28
Cato, De agr., ed. Keil, 1895, and fragmenta, ed. Jordan, 1860. 1.
2 laudabant .... laudabant; 1. 3 existimabatur .... laudabatur.
Jordan, p. 37. 20 capiebam; p. 39. 8veniebant .... deverte- bantur;
64. 2 dabant; 82. 10putabant(?); 82. 11 habebatur .... laudabatur; 83.1
mos erat .... erat; 83. 2emebant; 83. 3 erat .... studebat ....
adplicabat; 83. 4 vocabatur. I B, Total 18 Dramatic and
epic. Ennius, Ann. 214 canebant; 371 ponebat. Scenica 355
suppetebat. 3 Incert. Ribbeck 3 1, p. 287 I aspectabant ....
obvertebant. 2 Turpilius, Ribbeck 3 II, p. 101 V flabat .... erat.
2 I B, Total 7 Historicor. fragg. p. 64, 114
unguitabant' .... unctitabant; 1 66. 128 temptabam .... spectabam ....
donabam .... laudabam; 83. 27 faci- ebat; 109. 1 demonstrabant; 110. 6
proficiscebatur .... seque- bantur; 123. 13 utebatur; 141. 31 vocabantur;
202. 9 claudebant .... educebant .... continebant .... cogebant ....
insuebant. I B, Total 16 I B, Total 2 I B,
Total 1 Orators, ed. Meyer, p. 222 vocabant; 355
solebas. Lucilius, ed. Marx 1236 solebat. 1 Perhaps
different versions of the same passage ; cf . Peter. I count them as one
case. Imperfect Indicative in Early Latin 387
Auctor ad Herenn., ed. Kayser. 4. 6. 9 videbat .... poterat;
4. 7. lOerant .... poterant; 4. 16. 23 putabant .... existimabatur ....
putabant .... opserva- bant; 4. 22. 31 concedebant; 4. 53. 66 erat; 4.
54. 67 solebat. I B, Total 11 CIL. I. 1011. 17
florebat. I B, Total 1 Varro, De ling. Lat., ed.
Spengel. 5. 3 dicebant .... dicebant .... significabant; 5. 24
dicebant; 5. 25 obruebantur .... putescebant; 5. 33 progrediebantur;
5. 34 agebant .... agebat .... poterat; 5. 35 agebant .... vehebant
.... ibant; 5. 36 coalescebant .... capiebant .... colebant ....
possidebant; 5. 37 videbatur; 5. 43 erat .... advehebantur ....
escendebant; 5. 55 dicebat; 5. 66 dicebat .... putabat; 5. 68 dicebant;
5. 79 dicebant; 5. 81 mittebantur; 5. 82 dicebatur; 5. 83 dicebat; 5. 84
erant .... habebant; 5. 86 praeerant .... fiebat .... mittebantur; 5. 89
fiebat .... mittebant .... pugnabant .... deponebantur ....
subside- bant; 5. 90 praesidebant; 5. 91 fiebant .... adoptabant; 5.
95 perpascebant .... consistebat; 5. 96 dicebant .... parabantur;
5. 98 dicebant; 5. 101 dicebat; 5. 105 faciebant .... servabant
condebant; 5. 106 coquebatur .... fundebant; 5. 107 faciebant ....
vocabant; 5. 108 edebant .... ferebat .... decoque- bant; 5. 116
faciebant .... habebant .... opponebatur; 5. 117 fiebant; 5. 118
appellabant .... erat .... ponebant; 5. 119 infundebant ....
figebantur; 5. 120 ponebant .... ponebant; 5. 121 nominabatur; 5. 122
erant; 5. 123 habebat; 5. 124 dabant .... sumebant; 5. 125 erat ....
vocabatur .... ponebatur: 5. 126 erat .... vocabatur .... habebant ....
solebat; 5. 127 apponebatur .... bibebant .... coquebant; 5. 128
arcebantur; 5. 129 ministrabat; 5. 130 vellebant; 5. 132 utebantur ....
iacie- bant; 5. 139 corruebant; 5. 141 muniebant .... exaggerabant
portabatur .... sepiebant; 5. 142 relinquebant; 5. 143 conde- bant ....
circumagebant .... faciebant .... vocabant .... fiebat .... erat; 5. 146
erat; 5. 154 aiebat; 5. 155 coibant; 5. 156 vehebantur; 5. 160 adibant;
5. 161 relinquebatur .... dicebatur .... impluebat .... compluebat; 5.
162 volebant .... cuba- bant .... cenabant .... vocitabant .... cenabant;
5. 164 exigebant; 5. 166 legebant .... ponebant .... dicebant ....
involvebant .... erant .... dicebant; 5. 167 calcabant .... insternebant
.... appellabant .... operibantur; 5. 168 scande- bant; 5. 169 dicebatur
.... erat; 5. 173 valebant; 5. 174 vole- bant .... erat; 5. 177 dicebant;
5. 180 petebat .... inficiabatur 388 Arthur Leslie
Wheeler deponebant .... auferebat .... redibat; 5. 181
exigebatur; 5. 182 dicebant .... erant .... ponebant ....
stipabant .... componebant .... pendebant; 5. 183 accedebat; 6. 4
dicebant .... inspiciebantur .... dicebant; 6. 7 dicebat; 6. 8 videbatur
.... dicebantur; 6. 10 putabant; 6. 11 persolvebantur; 6. 14 erat;
6. 16 fiebant; 6. 21 dicebat; 6. 22 circumibant; 6. 28 conveniebant; 6.
47 dicebant; 6. 54 consumebatur; 6. 59 vitabant; 6. 60 ponebant; 6. 66
legebantur; 6. 70 spondebatur .... appella- batur; 6. 71 dicebant; 6. 74
promittebat .... consuetude* erat; 6. 80 dicebant .... dicebant; 6. 89
acciebat .... videbatur; 6. 95 intererat .... fiebant; 7. 26
dicebant; 7. 36 appellabant; 7. 39 putabant; 7.40 relucebant; 7. 41
legebantur .... poterant; 7. 44 dicebantur .... fiebat; 7. 52 erant ....
habebant . . . . conducebantur; 7. 56 ascribebantur; 7. 57 habebant; 7.
58 com- mittebant; 7. 63 dicebat; 7. 73 animadvertebantur; 7. 74
arabant; 7, 84 dicebant; 7. 91 dicebant; 7. 93 erat .... vocabatur; 8.
10 erat; 8. 17 erant; 9. 54 erat; 9. 56 dicebantur .... erat; 9. 60
notabant; 9. 68 erant; 9. 59 utebantur; 9. 76 dicebatur; 9. 83 pendebat
.... dicebant; 9. 87 valebat; 9. 100 dicebatur . . . . constabat ....
dicebatur; 10. 70 dicebant. 212 De re rust., ed. Keil, Lipsiae,
1883. 1. 2. 1 solebant; 1. 2. 7 dicebat; 1. 2. 9 poterat ....
effodiebat .... appellabant; 1. 7. 2 faciebant; 1. 8. 6 vocabant; 1. 10.
2 pendebat; .... dicebantur; 1. 13. 6 faciebant .... erant . . . .
laudabatur providebant; 1. 29. 3 dabant .... dicebant; 1. 41. 1
inserebantur; 1.59.1 vocabant; 2.1. 1 praeponebant . . . . putabant; 2.
1. 6 erat; 2. 2. 3 appellabant .... reiciebant; 2. 2. 9 hibernabant ....
aestivabant; 2. 5. 3 vocabat; 2. 7. 1 solebat; 2. 8. 3 dicebant; 2.
11. 5 dicebant; 3. 1. 3 habitabant .... scie- bant; 3. 1. 4 alebantur
.... redigebant; 3. 1. 5 credebant; 3. 1. 7 habebant .... serebant ....
pascebant; 3. 2. 6 habebat; 3. 2. 7 ostendebas; 3. 2. 14 accipiebat ....
dicebat; 3. 2. 17 dicebat 3. 3. 2 dicebant; 3. 3. 6 erat ....
pascebantur .... erat .... erat 3. 3. 7 habebant; 3. 3. 8 erat; 3. 6. 6
laudabant .... aiebat 3. 9. 19 dicebant .... vocabant .... dicebantur;
3.10.2iubebat 3. 12. 6 putabat .... appellabant; 3. 13. 2 appellabant; 3.
17. 3 capiebat .... dabat .... consumebat; 3. 17. 6 erat ....
habebat .... adgerebant; 3. 17. 7 coiciebat; 3.17.8 erat ....
laborabat .... aiebat .... despiciebat. 68 Sat. Menipp., ed. Eiese,
1865. P. 126, 1.9 erat; 139. 10 radebat; 140.4 vehebantur; 141.1
sol vebat; 169. 8 loquebantur; 181. 2 solebat; 186. 5 suscitabat; 216.
1 habebant; 225. 10 habitabant. 9 I B, Total 289
Imperfect Indicative in Early Latin 389 C. Imperfect of
Frequentative Action. Plautus, Asin. 938 dicebam; Capt. 917
percontabatur; Epid. 59 mit- tebat; 131 missiculabas; Merc. 631
promittebas; Miles 1410 dicebat; Persa 20 visitabam; 433 negabas; Kud.
540 promittebas; True. 506 poscebat. 10 Ennius, Ann. 50
tendebam .... vocabam. 2 Historicor. fragg., p. 138, 11
expoliabantur. 1 I C, Total 13 II. Aoristio
Imperfect Plautus, Amph. 807 aibas; 1009 erat; As. 442 aibat;
Bacch. 268 aibat; Capt. 676 aiebatis(?); Cist. 143 ai[e]bat; 585
ai[e]bat; Cure. 488 aiebat; 582aiebat; Epid. 254 aiebat; 597agnoscebas;
Men.532aiebas(?); 1141 aiebat; Merc. 45 poterat; 635 ai[e]bant; 637
aiebat; 638aiebant; 765 aiebat; 766 aiebat; 804 aiebant; Miles 66
ai[e]bant; 1107 aiebat; 1430 erat; 1431, erat; Most. 1002 aiebant; 1027
aiebat; 1028 aiebat; Poen. 464 aibat; 900 aibat; 1069 erat; Ps. 650
aiebat; 1083 aibat, 1118 aibat; Eud. 307 aibat; 502 erat; 1130 aiebas(?);
Stich. 391 aibat; Tri. 428 aibas; 874 aibat; 944 aibant; 956 aibat; 986
aiebas; 1140 aibat. 43 Terence, Adel. 494 erat; 716 erat; 717
aibat; Andr. 930 aiebat; 932 aibat; Eun. 700 scibas; 701 dicebat; Heaut.
203 erat; Hec. 238 aibant; Phorm. 572 aibant; 768 sat erat. 11
Historicor. fragg. 187. 126 poterat. 1 Varro, De r. r . 2. 4.
11 dicebat(?); 3. 17. 4 dicebas(?). 2 Auctor ad Herenn. 2. 1. 1
poterat; 4. 9. 13 erat. 2 II, Total 59 III. Shifted
Imperfect Plautus, Merc. 983 6decebat; Miles 755 sat era[n]t;
911poteras; Rud. 269 aequius erat; True. 511 poterat. 5
Terence, Heaut. 785 poterat. 1 Lucilius, 204 (Marx) sat erat.
1 Varro, De 1. L. 8. 47 oportebat; 8. 65 debebant; 8. 74 oportebat;
9. 23 sequebatur; 9. 85 oportebat. 5 Auctor ad Herenn. 2. 22.
34 satis erat; 4. 41. 53 infimae erant. 2 III, Total 14
390 Arthur Leslie Wheeler
I. PEOOBESSIVE (TeUB) ImPEK-
FECT Total
II. Aobistic III.
Shifted A. Simple B,
Cast. G. Fre- Prog.
Past quent. Plautus
433 291 84 10 43
5 Terence 225 185
28 11 1 Cato 1
20 2 18 Dramatic 2
and Epic 69 60 7 2
Historians 3 52 34
16 1 i Orators*
10 8 2
Lucilius 13 11 1
1 Auctor ad Herenn. 77 62
11 2 2 CIL., Vol. I
4 3 1
Varro 320 24 289
2 5 Total 1,223 680
457 13 59 14 1
Except historical works the citations from which are included among the
historians. 2 Laberius and later writers not included. 3
Nepos and later historians not included. 4 Hortensius and later
fragments not included. Grice: “Ceccato developed a theory very similar to
mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio Ceccato. Ceccato. Keywords:
il perfetto filosofo, logonia – logonico, tabella di Ceccatieff, Adamo II,
lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria della felicita, il genitore
come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di Bridgman, influenza di Gentile,
modelo cibernetico della communicazione, adattazione, soprevivenza, organo
ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale, modello mentale,
psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- -- l’aspetto
perfettivo, non-perfettivo, imperfettivo della conjugazione Latina -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51710802336/in/photolist-2mMZzKx-2mMvnXw-2mPiqeP/
Grice e Cellucci – il paradiso – aus dem Paradies, das Cantor uns
geschaffen, soll uns niemand vertreiben können -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Santa Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love
Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s paradise, which is an extremely
interesting tract and figure! There’s earthly paradise and heavenly paradise
and Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like me, also philosophised on
‘logic,’ in my case because of Strawson; in his, because of me!” Si laurea a
Milano. Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e
teoria della dimostrazione, filosofia della matematica, filosofia della logica,
ed epistemologia. Altre opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo
al primo Novecento” (Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza,
Roma) – perche no? “La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza,
Roma); “Filosofia e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza,
Roma); “Teoria della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti
salienti della storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo,
Syzetesis); “La logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza
scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed.
A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica
e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone.
Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi, Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La
filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve
storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento [Lulu Press,
Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della
matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome,
Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione,
Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di
filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e
morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo, La Cultura. La
logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo
del nous nella conoscenza scientifica”, In Il Nous di Aristotele,
ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt
Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi.
Scienzae senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni,
Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In I modi della
razionalità, ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria
della logica polivalente nell'antichità o la storia antica, Bollettino
della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e
all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica,
Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio
Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia.
Un colloquio con (e su) Carlo Cellucci; La spiegazione in matematica. Periodicodi
Matematiche (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has
zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze,
Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica
ediritto: argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Vaticano); Ragione,
mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta, Bruno Mondadori, Milano); Filosofia
della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi,
I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per
l'insegnamento della logica. Nuova Secondaria. La logica della macchina,
in Le macchine per pensare,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della
matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in
Italia nel ‘900, Franco Angeli, Milano; Bolzano, Del metodo matematico, Boringhieri,
Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione
(Ed.), Scienza e filosofia,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza,
Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità
delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica
Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle
teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza
e storia, Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui
fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di
coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di
uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La
logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica, Editori Riuniti,
Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità, Bologna (il
Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche.
Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il
Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un
connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma
hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui
fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità
formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia.
Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione
sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della
matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o
non meccanico? In L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie
ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della
matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive
della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia
della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della
logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche
moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il
dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La
filosofia della matematica. Laterza, Roma. C. Cellucci ha illustrato gli
scopi della logica matematica di Peano. Anche se con motivazioni diverse, tali
scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege, e consistono principalmente nell
' ottenere. Infiniti 14/3/18 9 / 75 LM Prima di addentrarci
nelle questioni concernenti gli insiemi qualsiasi, facciamo una breve rilettura
di quello che sappiamo sugli insiemi finiti. Lo studio degli insiemi infiniti è
iniziato nel decennio 1874-1884 ad opera del matematico tedesco GEORG
CANTOR Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 10 / 75
Cardinalità di insiemi finiti LM Cosa vuol dire che in una palazzina ci
sono 10 appartamenti? Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 11 /
75 Cardinalità di insiemi finiti LM Per contare gli appartamenti
abbiamo associato univocamente a ciascuno di essi un numero (naturale) tra 1 e
10. In termini matematici, abbiamo determinato una corrispondenza
biunivoca tra l’insieme degli appartamenti e l’insieme ω10 = {1,2,3,4,5,6,7,8,9,10}
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 12 / 75 LM f
è un’iniezione di A in B se è una corrispondenza biunivoca tra A e un
sottoinsieme di B Siano A e B due insiemi qualsiasi e f : A → B una funzione,
ossia una legge tale per cui per ogni a ∈ A esiste uno e un solo b ∈ B tale che f (a) = b.
Definizione 1 (Corrispondenza biunivoca) f è una
corrispondenza biunivoca tra A e B se per ogni b ∈ B esiste uno e un solo a ∈ A tale che f (a) = b. Definizione 2
(Iniezione) Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 13 /
75 LM Esercizio 1 Dire quali di queste
funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando
la risposta. (a) f:N→{numeripari},n→2n (b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio → mamma (c) f : quadrati → R,
quadrato → area
del quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato → area del quadrato (e) f :
{quadrati centrati in O} → R, quadrato → area del quadrato Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 14 / 75 LM Esercizio 1 Dire quali
di queste funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche,
giustificando la risposta. (a) f:N→{numeripari},n→2n (b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio → mamma (c) f : quadrati → R,
quadrato → area
del quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato → area del quadrato (e) f :
{quadrati centrati in O} → R, quadrato → area del quadrato Soluzione dell’Esercizio 1 (c)
niente (d) corrispondenza biunivoca (e) iniezione (a)
corrispondenza biunivoca (b) niente Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 14 / 75 questo caso scriveremo |A| = n; LM
Cardinalità degli insiemi finiti In conclusione, per contare gli elementi di un
insieme finito ci servono l’insieme dei numeri naturali N = {0, 1, 2, 3, 4, 5,
6 . . .}; i sottoinsiemi di N della forma ωn = {1,2,3,...,n}; la nozione di
corrispondenza biunivoca. Definizione 3 (Cardinalità degli insiemi
finiti) Sia A un insieme e n un numero naturale. Diremo che A ha n
elementi (o anche che ha cardinalità uguale ad n) se esiste una corrispondenza
biunivoca tra A e l’insieme {1, 2, 3, 4, . . . , n}. In Diremo che A è un
insieme finito se esiste n ∈ N tale
che |A| = n; Diremo che A è un insieme infinito se non è finito.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 15 / 75 Proprietà della
cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di
proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa
cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 16 / 75 Proprietà della
cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di
proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa
cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un
sottoinsieme A ⊆ B di
un insieme finito è un insieme finito. Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 16 / 75 Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM
La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1)
due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in
corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A ⊆ B di un insieme finito è un insieme
finito. (3) se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B, allora |A|
< |B|. Riflettiamo un po’ su queste proprietà... Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 16 / 75 LM Due insiemi
finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca
tra loro. Ci sta semplicemende dicendo che le corrispondenzee
biunivoche A a b c d e f g h B 1 2 3 4
equivalgono a A a b c d e f g h B Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 17 / 75 LM La nozione di corrispondenza
biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una
semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una
retta). Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 18 / 75
LM La nozione di corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi
infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza sono in corrispondenza
biunivoca con i punti di una retta). Questo ci permette di estendere il
concetto di "equinumerosità": Diremo che due insiemi A e
B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste
una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| =
|B|. Ovviamente, se gli insiemi sono infiniti la cardinalità NON è un
numero. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 18 / 75
LM Nota: nel caso di insiemi finiti "<" è l’usuale simbolo
per l’ordinamento tra numeri. Nel caso di insiemi infiniti denota una nozione
astratta nuova, introdotta per analogia. Sempre "imparando" dagli
insiemi finiti e utilizzando le funzioni, possiamo introdurre una nozione di
"maggiore numerosità". se A è un sottoinsieme proprio di
un insieme finito B, allora |A| < |B|. Inoltre, |A| < |B| se e solo se
esiste un’iniezione di A in B B a b c d g h A
Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di
un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo
|A| ≤ |B|. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 19 / 75
La stravaganza dell’infinito naturali N. LM Abbiamo ora a disposizione
gli strumenti per confrontare la cardinalità di insiemi qualsiasi. Prima di
procedere oltre, entriamo nello spirito giusto per studiare gli insiemi
infiniti con una storia stravagante: l’albergo di Hilbert (immagini tratte da
"A. Catalioto, Seminario TFA 2015") L’insieme infinito protagonista
di questa storia è l’insieme dei numeri Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 20 / 75 LM
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 21 / 75
IonilTraLnquillocercava M una camera.... Pensò di trovarla all’Hotel
Infinito, noto per avere infinite stanze.
Ion non ebbe fortuna perché l’hotel ospitava i delegati del congresso
di zoologia cosmica. Siccome gli zoologi cosmici venivano da
alassie, e di galassie ne esiste un numero infinito, tutte
le stanze erano occupate. tutte le g Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 22 / 75 LM ...Soluzione del problema... Il direttore
dec ide di spostare lo zoologo della stanza 1 nella 2, quello della 2
nella 3 e così via... così può mettere Ion nella stanza 1! In generale, viene
spostato lo zoologo della stanza «n» nella stanza «n+1»
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 23 / 75 LM Il
problema si complicò perché arrivò un rappresentante dei filatelici per ogni
galassia per partecipare al congresso interstellare dei filatelici
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 24 /
75 LM Il direttore, come soluzione al problema, decise di
spostare l’ospite della 1 nella 2, quello della 2 nella 4, quello della 3 nella
6 e così via... In generale mettere l’ospite della stanza «n» nella stanza
«2n» Così, gli zoologi
occuparono l’insieme delle stanze dei numeri pari e i filatelici occuparono
l’insieme delle stanze dei numeri dispari, visto che il filatelico n-esimo
nella coda ottenne il numero di stanza «2n-1»
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 25 / 75 LM rimettere tutto in
ordine e a chiudere tutti gli hotel, eccetto l’Hotel Cosmos
I costruttori dell’Hotel Cosmos avevano smantellato tantissime galassie
per costruire infiniti hotel con infinite stanze. Furono
costretti, però, a Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 26 / 75 LM Quindi venne chiesto al direttore di
mettere le infinite persone di infiniti hotel nel suo hotel, già pieno.
COME FARE ? Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 27 /
75 LM Ion propose di usare solo le
progressioni dei numeri primi poiché se si prendono due numeri primi, nessuna
delle potenze intere positive di uno può equivalere a quelle dell’altro.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 28 / 75
LM In questo modo nessuna stanza avrebbe avuto due occupanti!
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 29 / 75
Esercizio 2 LM Vediamo cosa ci ha insegnato questa storia.
Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri
(1) A={n∈N, n≥7}
(2) A={2n+1, ninN} Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 30 /
75 VediamLo cosa ci ha insegnato quMesta storia.
Esercizio 2 Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti
sottoinsiemi propri (1) A={n∈N, n≥7}
(2) A={2n+1, ninN} Soluzione dell’Esercizio 2 01234 n
7 8 9 1011 7+n 01234 n 1 3 5 7 9 2n+1
L’ultimo partecipanti, che
sostanzialmente ci racconta che l’insieme prodotto N × N ha la stessa
cardinalità di N) è più complicato e ci torneremo più tardi. I risultati
dell’Esercizio 2 sono una vera e propria rivoluzione del pensiero. caso
descritto nella sto ria(quello degli infiniti convegni con infiniti
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 30 / 75 Povero Euclide! LM
Abbiamo imparato che se togliamo all’insieme N i primi n0 termini (pensate n0
grande quanto volete!), quello che resta ha esattamente la stessa cardinalità
di tutto l’insieme. Crolla così il principio fissato da Euclide: "il tutto
è maggiore di una sua qualsiasi parte" (Elementi,300 a.C.) Ricordiamo che
Euclide è probabilmente il più grande matematico dell’antichità e i suoi
Elementi (opera in 13 libri) sono stati la principale opera di riferimento per
la geometria fino al XIX secolo. Quello citato è uno degli 8 enunciati di
"nozioni comuni" contenuti nel Libro I, quello in cui vengono fissati
tutti i fondamenti per la trattazione di tutta la geometria nota all’epoca.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 31 / 75 Povero Galileo!
D’altra Lparte, di questo problemMa si era accorto anche Galileo, senza
trovarne soluzione: "queste son di quelle difficoltà che derivano dal
discorrere che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agli infiniti,
dandogli quegli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che
penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza,
minorità ed ugualità non convenghino agli infiniti, dei quali non si può dire
uno essere maggiore o minore o uguale all’altro" (Nuove Scienze, 1638)
Parafrasando Galileo, possiamo dire che la teoria della cardinalità di Cantor è
esatta il giusto attributo di maggioranza, minorità ed ugualità che convenga
agli infiniti mente Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 32 / 75
LM Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo
dei metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due
insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se
esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| =
|B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o
uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo
caso scriveremo |A| ≤ |B|. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18
33 / 75 LM Riepilogo e domande Finora sono stati solo
definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.
Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono
equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso
scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un
insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione
di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il
momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità
diverse? Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 33 / 75
LM Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi
di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e
B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una
corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.
Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di
quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso
scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi qualche
domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una
"cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 33 / 75 LM Riepilogo e domande
Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità
infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa
cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra
loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la
cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se
esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.
Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi
infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più
piccola di tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande
di tutte le altre? Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 33 / 75
LM Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei
metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due
insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se
esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| =
|B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o
uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo
caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi
qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una
"cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una
"cardinalità infinita" più grande di tutte le altre?
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 33 / 75 LM Ripartiamo dal caso
dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta
che la funzione (m,n) → 2m3n
mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un
sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza
biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria...
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 34 / 75 Se A ⊆ B, allora |A| ≤ |B|. LM Ripartiamo dal
caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci
racconta che la funzione (m,n) → 2m3n
mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un
sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza
biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria...
Esercizio 3 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 34
/ 75 LM La funzione f : A → B, a → a è un’iniezione di A in B. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18
Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La
storia ci racconta che la funzione (m,n) → 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N
× N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una
corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla
teoria... Esercizio 3 Se A ⊆ B, allora |A| ≤ |B|. Soluzione
dell’Esercizio 3 34 / 75
Teorema LM Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤
|A|. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75
LM Teorema Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤
|A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni
n ∈ N un
unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75 LM Teorema
Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire
un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni n ∈ N un unico elemento an di A. Lo faremo in
maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸=
{a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 35 / 75 Teorema LM Sia
A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione
di N in A, ossia associare ad ogni n ∈ N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva.
Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸=
{a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo:
supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti
a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an},
quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un elemento an+1 ∈ A distinto da tutti i precedenti.
Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3: Ogni
sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75 Teorema LM
Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo
costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni n ∈ N un unico elemento an di A. Lo faremo in
maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸=
{a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo:
supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti
a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an},
quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un elemento an+1 ∈ A distinto da tutti i precedenti.
Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3: Ogni
sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N. In particolare, {p ∈ N della forma p = 2m3n, n, m ∈ N}, ha la stessa cardinalità di N. Quindi
N × N ha la stessa cardinalità di N. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 /
75 LM Cardinalità numerabile Quindi la
cardinalità dell’insieme numerico N è "la più piccola cardinalità
infinita". Per questo si è meritata un "nome proprio" e un
simbolo speciale א0 = |N| prende il nome di CARDINALITA’ NUMERABILE.
Il simbolo "א” è l’aleph, prima lettera dell’alfabeto
ebraico. Diremo che un insieme A è numerabile se |A| = א0,
cioè se A può essere messo in corrispondenza biunivoca con N.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 36 / 75 LM N⊂Z⊂Q⊂R
Ricordiamo brevemente cosa sono per poi confrontare le loro cardinalità.
Esistono insiemi infiniti con cardinalità diversa (maggiore) da quella
numerabile? Per rispondere a questa domanda usiamo gli insiemi numerici come
prototipo. N = {0,1,2,3,4,5,6...} Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} numeri
NATURALI numeri INTERI p Q = q , p intero, q ̸= 0
naturale numeri RAZIONALI R numeri REALI Valgono le inclusioni strette:
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 37 / 75
LM I numeri interi Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} I numeri interi
sono un’estensione dei numeri naturali, nata dall’esigenza di poter fare
liberamente la sottrazione. Si ottengono considerando tutti i numeri naturali e
tutti i loro opposti. Possiamo rappresentare l’insieme dei numeri interi
tramite punti di una retta ordinata. Basta fissare un punto che determina lo
zero fissare un’unità di misura disegnare tutti punti equidistanti dal
successivo. -6-5-4-3-2-10 1 2 3 4 5 6 In un certo senso, i numeri
interi sono "il doppio" dei numeri naturali, quindi è ragionevole
pensare che siano un insieme numerabile. Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 38 / 75 Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM an = n 2
sen=0oppuresenèpari −n+1 senèdispari 2 Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 39 / 75 Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM -4
−3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 n 2 sen=0oppuresenèpari
an = 2 −n+1 senèdispari 012345678 39 /
75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 40 / 75 LM n 2
sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 41 / 75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1
senèdispari 012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 42 / 75 LM n 2
sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 43 /
75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 44 / 75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an =
2 −n+1 senèdispari 012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3
4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 45 / 75 LM n 2
sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 46 /
75 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2
−n+1 senèdispari 012345678 Abbiamo così ottenuto
che Z è numerabile. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 47 / 75
LM I numeri razionali Q = qp
, p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri
interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono
considerando tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che
quindi determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non
nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri
razionali. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 48 / 75
(i
numeri interi sono discreti). LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0
naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata
dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando
tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi
determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo.
Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali. Tra
un numero intero e il suo successivo non c’è nessun altro numero intero
01 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 48 / 75
Densità dei numeri razionali Invece tLra due numeri razionali dMistinti
c’è sicuramente un altro numero razionale (ad esempio la loro media).
0 12 1 In realtà ce ne sono infiniti (tutte le possibili medie delle
medie). 01131 424 113 084828481 Si intuisce che i numeri
razionali coprono abbastanza bene la retta. 1537 Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 49 / 75 LM Da quanto abbiamo detto sembrerebbe
che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla
retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano a
stupirci: Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 50 / 75 LM
Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più
dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli
insiemi infiniti tornano a stupirci: Q ha cardinalità
numerabile. Per dimostrarlo, basta esibire una corrispondenza biunivoca
tra Z e Q, che possiamo pensare come un modo di "etichettare" con
numeri interi gli elementi di Q. Per fare questo utilizzeremo il cosiddetto
(primo) metodo diagonale di Cantor. Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 50 / 75 Esercizio: trovare un percorso che passa una sola
volta per ogni stellina e numerare le stelline man mano che si incontrano
(nota: verso il basso e verso destra ci sono infinite stelline!) ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· LM ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· . . . . . . . Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 51 / 75 Soluzione 11 20 ⋆ ⋆ ⋆ ⋆ ⋆ LM . . . . . . . Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 1 → 2 6 → 7 15
→ 16 ⋆ ··· ↙↗↙↗↙ 3 5 8 14 17 ⋆ ⋆ ↓↗↙↗↙ 4 9 13
18 ⋆ ⋆ ⋆ ··· ··· ··· ··· ↙↗↙ 10 12
19 ⋆ ⋆ ⋆ ⋆ ↓↗↙ 52 / 75 Primo
metodo diagonale di Cantor: costruire la tabella... LM 1234567 1111111 ··· ···
··· ··· ··· 1234567 2222222 1234567 3333333 1234567 4444444 1234567 5555555 . .
. . . . . Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 53 / 75
... e percorrerla con il metodo che abbiamo determinato LM 1→23→4567··· 1111111
↙↗↙
1234567 ··· ··· ··· ··· 2222222 ↓↗↙ 1234567 3333333 ↙
1234567 4444444 1234567 5555555 . . . . . . . Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 54 / 75 LM Abbiamo così mostrato come mettere in
corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali.
In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno
cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri
razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 55 / 75 LM Abbiamo così mostrato come
mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i
numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali
positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che
tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da
dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A ∪ B è numerabile
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 55 / 75 Questo produce una
corrispondenza biunivoca tra A ∪ B e N.
LM Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i
numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo
dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo
stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno
cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi
numerabili, allora A ∪ B è
numerabile Dimostrazione. visto che A e B sono due insiemi
numerabili, allora esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme dei
numeri pari e una corrispondenza biunivoca tra B e l’insieme dei numeri
dispari. A ←→ {pari} B ←→ {dispari} =⇒ A ∪ B ←→
N. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 55 / 75 Voglia di
misurare... LM 0? LA DIAGONALE DEL QUADRATO DI LATO UNITARIO NON HA LUNGHEZZA
RAZIONALE! Abbiamo visto che i numeri razionali coprono abbastanza bene la
retta. I Pitagorici pensavano che tutte le lunghezze fossero razionali (ossia
che i punti corrispondenti ai razionali coprissero tutta la retta) e invece
scoprirono presto che manca qualcosa... 1 ?
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 56 / 75 LM
Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da
ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si
può scrivere come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso
da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R =
{allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre} ed
è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca
con i punti della retta (difficile da dimostrare). Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 57 / 75 LM Quali numeri mancano? Per
capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le possibili
lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come
allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo
l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti
decimali con un numero arbitrario di cifre} ed è quella
giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i
punti della retta (difficile da dimostrare). −π −2−√2−101 √22 π 22
Quindi, geometricamente, possiamo pensare di aver "tappato i
buchi" sulla retta lasciati dai punti corrispondenti ai numeri razionali
(abbiamo aggiunto tutti i numeri irrazionali). Non sembra che siano stati
aggiunti tanti elementi... invece... Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 57 / 75 LM l’insieme dei numeri reali R NON ha cardinalità
numerabile! Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 58 / 75
LM R NON ha cardinalità numerabile!! Dimostreremo questa
sorprendente proprietà in tre passi: l’intervallo (0, 1) non è numerabile; due
intervalli distinti (a, b) e (c, d) hanno la stessa cardinalità; ogni
intervallo (a, b) ha la stessa cardinalità di R (Ricordiamoci che R è in
corrispondenza biunivoca con i punti della retta, quindi i due insiemi hanno la
stessa cardinalità) Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 59 / 75
Secondo metodo diagonale di Cantor LM Dimostriamo, per assurdo, che
l’intervallo (0, 1) non ha cardinalità numerabile. Ipotesi per assurdo: supponiamo
che (0, 1) abbia una quantità numerabile di elementi ed enumeriamoli nel modo
seguente: . Il numero reale x = 0,β1 β2 β3 ... con r1 = 0,a11 a12 a13 a14 ...
r2 = 0,a21 a22 a23 a24 ... r3 = 0,a31 a32 a33 a34 ... βj ̸=ajj, βj ̸=0, βj ̸=9,
∀j
appartiene all’intervallo (0, 1) (è positivo e ha parte intera uguale a zero),
ma è diverso da tutti i numeri reali rj , in contraddizione col fatto di aver
enumerato tutti i valori nell’intervallo. Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 60 / 75 LM Quindi sicuramente la cardinalità dell’intervallo
(0, 1) è diversa da quella del numerabile. Passiamo a dimostrare che tutti gli
intervalli della retta reale hanno la stessa cardinalità, dando solo un’idea
grafica della dimostrazione. Esercizio 4 Determinare
(geometricamente) una corrispondenza biunivoca tra due intervalli aperti (a, b)
e (c, d) della retta reale. Suggerimento: allineare i due segmenti e
considerare un punto P come in figura: a c b d P Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 61 / 75 LM Soluzione
dell’Esercizio 4 P a c b d si proietta ogni punto di
(a,b) in un unico punto di (c,d) dal punto P esterno ai due segmenti.
Ovviamente questa operazione geometrica si può scrivere in formule utilizzando
la geometria analitica e si trova la corrispondenza biunivoca cercata.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 62 / 75 LM Infine, per
mettere in corrispondenza biunivoca un intervallo limitato, diciamo (−1, 1),
con tutta la retta reale, serve una sorta di “meccanismo di amplificazione”
(proiezione stereografica). Diamo un’idea geometrica della corrispondenza
biunivoca: disegnamo la retta reale; dalla retta reale “stacchiamo l’intervallo
(−1, 1)” e disegnamone una copia; −1 1 R Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 63 / 75 LM Proiezione stereografica
disegnamo la semicirconferenza di raggio 1 tangente alla retta reale in 0;
indichiamo con P il centro di tale circonferenza; P −1 1 R
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 64 / 75 −1 1
LM Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 Proiezione stereografica fissiamo un
qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); P R 65
/ 75 LM Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi punto
dell’intervallo (−1, 1); proiettiamolo verticalmente sulla circonferenza;
P −1 1 R Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 66 /
75 LM −1 1 Proiezione stereografica tracciamo la retta per P
e il punto della circonferenza; associamo al punto di partenza in (−1, 1) i
punto intersezione tra la retta considerata e la retta reale; P
R Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 67 / 75
Se facciLamo questa operazione per ogni punto dell’intervallo (−1, 1)
costruiamo una corrispondenza biunivoca tra questo intervallo e tutta la retta
reale. −1 1 Il meccanismo di amplificazione funziona perchè proiettiamo tramite
una semicirconferenza che ha tangente verticale agli estremi: i punti molto
vicini a −1 o a 1 si proiettano sempre più lontano. P
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 68 / 75 M LM
Cardinalità del continuo La cardinalità della retta reale prende il nome di cardinalità
del continuo. Possiamo dividere i numeri reali in tre gruppi: razionali
irrazionali algebrici: le soluzioni di equazioni algebriche a coefficienti
interi (ad es. tutte le radici quadrate, cubiche, ecc...) irrazionali
trascendenti: tutti gli altri irrazionali (ad es. π) Conosciamo esplicitamente
tantissimi irrazionali algebrici e abbastanza pochi trascendenti. Abbiamo visto
che i numeri reali sono molti di più dei numeri razionali (ma ricordiamoci
anche che i numeri razionali sono densi in R). Si può essere più precisi sulle
informazioni riguardanti la cardinalità dei numeri irrazionali. Precisamente,
si può dimostrare che i numeri irrazionali algebrici sono una quantità
numerabile; quindi i numeri irrazionali trascendenti sono veramente
tanti! Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 69 / 75
QuantLe e quali altre cardiMnalità ci sono? Studiando gli insiemi
numerici abbiamo trovato due cardinalità distinte, quella del numerabile e
quella del continuo. E’ del tutto naturale porsi due domande: ci sono
cardinalità intermedie tra queste due? ci sono cardinalità superiori a quella
del continuo? La prima apre una questione particolarmente affascinante (o
frustrante, dipende dai punti di vista) che prende il nome di Ipotesi del
continuo nda ha una risposta stup ci sono infinite cardinalità (infinite)
distinte! La seco efacente: Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 70 /
75 LM CH “Continuum Hypothesis” non
c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella
dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse
vera. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 71 / 75
LM CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna
cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei
reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel
1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non
si poteva dimostrare che CH fosse falsa. Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 71 / 75 LM CH “Continuum
Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra
quella dei naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto
del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della
usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel
1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non
si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 71 / 75 LM Per fortuna i modelli della
matematica applicata non dipendono dalla validità o meno di CH, quindi la sua
indecidibiltà non incide sui risultati che vengono utilizzati nella vita reale
(fisica, ingegneria, informatica...) CH “Continuum
Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra
quella dei naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto
del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della
usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel
1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non
si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Quindi, la CH è indecidibile
nell’ambito della usuale teoria degli insiemi, nel senso che è altrettanto
coerente prenderla come vera che prenderla come falsa. Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 71 / 75 ∅ {a} {b} {c} {a,b} {a,c} {b,c} {a,b,c} LM
L’insieme delle parti Per rispondere alla seconda domanda introduciamo una
nuova nozione. Insieme delle parti Dato un insieme X,
il suo insieme delle parti P(X) è dato da P(X) = {A sottoinsieme di X}.
Esempio. Se X = {a,b,c}, allora P(X) è l’insieme formato dai seguenti 8
insiemi: Si può dimostrare che se |X| = n allora |P(X)| = 2n > |X|.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 72 / 75 LM Esistono
infinite cardinalità infinite Teorema di Cantor Sia X
un insieme. Allora |P(X)| > |X|. Come conseguenza del Teorema di Cantor,
otteniamo che esiste una sequenza di cardinalità infinite,
ciascuna strettamente maggiore della precedente. Partendo da |N|,
che sappiamo essere la cardinalità infinita minima, basta iterare il passaggio
all’insieme delle parti: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| <
|P(P(P(P(N)))))| < · · · Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 73 /
75 LM Dimostriamo il teorema di Cantor. L’applicazione ”x → {x}” è un’iniezione di X in
P(X). Quindi |P(X)| ≥ |X|. Dimostriamo ora che non esiste un’applicazione
biunivoca tra X e P(X). Supponiamo, per assurdo, che esista e indichiamola con
”x ↔ A(x)”. Consideriamo l’insieme C ∈ P(X) C = {x ∈ X tali
che x ̸∈ A(x)}.
L’ipotesi per assurdo garantisce che esiste un’unico x0 ∈ X tale che C = A(x0). Si ha che se x0 ∈ C = A(x0), allora, per come sono definiti
gli elementi di C, deve essere x0 ̸∈ C = A(x0) se x0 ̸∈ C = A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di
C, deve essere x0 ∈ C =
A(x0) Le contraddizioni trovate dipendono dal fatto che abbiamo supposto che ”x
↔ A(x)” sia biunivoca. Se ne conclude che non può esistere nessuna
corrispondenza biunivoca tra X e l’insieme delle sue parti. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 74 / 75 Aus dem Paradies, das Cantor uns
geschaffen, soll uns niemand vertreiben können. Insiemi infiniti 1.
Introduzione Finch ́e gli insiemi che si considerano sono finiti (cio`e si pu`o
contare quanti sono i loro elementi mettendoli in corrispondenza biiettiva con
i numeri che precedono un certo numero naturale) la nozione di insieme pu`o
fornire un comodo modo di esprimersi, ma non `e indi- spensabile. Di fatto
Cantor per primo elabor`o la nozione di insieme per risolvere problemi di
quantita` di elementi in insiemi infiniti (cio`e non finiti). Definizione. Si
dice che due classi hanno la stessa cardinalit`a quando c’`e una biiettivit`a
tra le due classi. In tal caso si dir`a anche che le due classi sono
equinumerose. Definizione. Si dice che un insieme A `e finito se esistono un
numero naturale n e una biiettivit`a da A sull’insieme dei numeri naturali che
precedono n; in questo caso diremo che A ha n elementi. Se ci`o non succede, si
dice che l’insieme `e infinito. Se un insieme A `e finito e un altro insieme B
`e contenuto propriamente (contenuto ma non uguale) in A allora A e B non sono
equinumerosi, cio`e non c’`e alcuna biiettivit`a tra i due. Questo risultato
dipende dal fatto che per nessun numero naturale ci pu`o essere una
biiettivit`a tra l’insieme dei numeri che lo precedono e l’insieme di quelli
che precedono un diverso numero naturale. L’ultima affermazione non si estende
agli insiemi infiniti; lo giustifichiamo con un con- troesempio gi`a
considerato da Galileo Galilei nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del
mondo. I numeri pari sono un sottinsieme proprio dei numeri naturali, ed
entrambi gli insiemi non sono finiti; inoltre la funzione che a un numero
naturale associa il suo doppio `e una biiettivit`a dai numeri naturali sui
numeri pari. Cos`ı si deve dire che i numeri naturali sono tanti quanti i
numeri pari pur costituendo questi un sottinsieme proprio dell’insieme dei
naturali. Per gli insiemi finiti non solo si pu`o dire se hanno lo stesso
numero di elementi, ma anche se uno ha piu` elementi di un altro o meno. Per fare
ci`o ci si rif`a alla relazione d’ordine naturale tra i numeri naturali che
contano gli elementi di ciascuno dei due insiemi. Per gli insiemi infiniti non
si pu`o utilizzare lo stesso metodo. Come decidere allora quando un insieme ha
piu` o meno elementi di un altro? Ci si potrebbe limitare a dire che un insieme
`e finito o infinito. Tuttavia l’esperienza di vari insiemi infiniti porta
naturalmente a domandarci se si pu`o stabilire una gerarchia simile a quella
fra gli insiemi finiti. Prenderemo a modello le stesse propriet`a degli insiemi
finiti. 2. Cardinalit`a Definizione 1. Siano A e B due insiemi. Diremo che la
cardinalit`a dell’insieme A `e minore o uguale a quella dell’insieme B, e
scriveremo |A| ≤ |B| quando esiste una funzione totale iniettiva di A in B.
Questa relazione fra insiemi non `e un ordine, n ́e stretto n ́e largo. Non `e
stretto perch ́e |A| ≤ |A|, per motivi ovvi (basta considerare la funzione
identit`a). Non `e un ordine largo, perch ́e pu`o accadere che |A| ≤ |B| e
anche |B| ≤ |A|, con A ̸= B. Un esempio `e proprio quello in cui A `e l’insieme
dei numeri naturali e B quello dei numeri naturali pari. Scopo di queste note
`e di studiare le propriet`a di questa relazione. Attraverso essa potremo
arrivare al concetto di “uguale cardinalit`a”, che `e ci`o che ci interessa.
1 2 (2) (3) INSIEMI INFINITI Esempi. (1) Se A `e un insieme e B ⊆ A, allora |B| ≤ |A|. Se Z `e l’insieme
dei numeri interi e N quello dei numeri naturali, allora |Z| ≤ |N|. Ci`o pu`o
apparire paradossale, ma vedremo che non lo `e. Consideriamo infatti la
seguente funzione: 2x se x
≥ 0, −2x−1 sex<0. Si pu`o facilmente verificare che f : Z → N `e non solo
iniettiva, ma anche suriettiva. Se X `e un insieme finito e Y `e un insieme
infinito, allora |X| ≤ |Y |. Supponiamo che X abbia n elementi. Faremo
induzione su n. Se n = 0, la funzione vuota `e quella che cerchiamo. Supponiamo
la tesi vera per insiemi con n elementi e supponiamo che X abbia n + 1
elementi: X = {x1, . . . , xn, xn+1}. Per ipotesi induttiva esiste una funzione
totale iniettiva f: {x1,...,xn} → Y. Siccome Y `e infinito, esiste un elemento
y ∈/ Im(f)
(altrimenti Y avrebbe n elementi). Possiamo allora definire una funzione totale
iniettiva g : X → Y che estende f ponendo g(xn+1) = y. Diamo subito la
definizione che ci interessa maggiormente. Definizione 2. Siano A e B due
insiemi. Diremo che A e B hanno la stessa cardinalit`a, f(x) = e scriveremo |A|
= |B|, quando esiste una funzione biiettiva (totale) di A su B. Non daremo la
definizione di cardinalit`a, per la quale occorrerebbe molta piu` teoria e che
non ci servir`a. Sar`a piu` rilevante per noi scoprire le connessioni fra le
due relazioni introdotte. 3. Propriet`a della cardinalit`a di insiemi infiniti
(C1) Se A `e un insieme, allora |A| = |A|. (C2) Se A e B sono insiemi e |A| =
|B|, allora |B| = |A|. (C3) SeA,BeCsonoinsiemi,|A|=|B|e|B|=|C|,allora|A|=|C|.
Queste tre proprieta` sono quasi ovvie: basta, nel primo caso, considerare la
funzione identit`a; nel secondo si prende la funzione inversa della biiettivit`a
A → B; nel terzo si prende la composizione fra la biiettivit`a A → B e la
biiettivit`a B → C. (M1) Se A `e un insieme, allora |A| ≤ |A|. (M2)
SeA,BeCsonoinsiemi,|A|≤|B|e|B|≤|C|,allora|A|≤|C|. La dimostrazione di queste
due `e facile (esercizio). C’`e un legame fra le due relazioni? La risposta `e
s`ı e sta proprio nella “propriet`a antisimmetrica” che sappiamo non valere per
≤. Il risultato che enunceremo ora `e uno fra i piu` importanti della teoria
degli insiemi e risale allo stesso Cantor, poi perfezionato da altri studiosi.
Teorema 1 (Cantor, Schr ̈oder, Bernstein). Siano A e B insiemi tali che |A| ≤
|B| e |B| ≤ |A|, allora |A| = |B|. Dimostrazione. L’ipotesi dice che esistono
una funzione f : A → B iniettiva totale e una funzione g : B → A iniettiva totale.
Per completare la dimostrazione dobbiamo trovare una funzione biiettiva h: A →
B. Un elemento a ∈ A ha
un genitore se esiste un elemento b ∈ B tale che g(b) = a. Analogamente diremo che un elemento b ∈ B ha un genitore se esiste a ∈ A tale che f(a) = b. Siccome f e g sono
iniettive, il genitore di un elemento, se esiste, `e unico. Dato un elemento a ∈ A oppure b ∈ B, possiamo avviare una procedura: (a) poniamo x0 = a o,
rispettivamente x0 = b e i = 0; (b) se xi non ha genitore, ci fermiamo; (c) se
xi ha genitore, lo chiamiamo xi+1, aumentiamo di uno il valore di i e torniamo
al passo (b). Partendo da un elemento a ∈ A, possono accadere tre casi: • la procedura non termina;
scriveremo che a ∈
A0; 3. PROPRIET`a DELLA CARDINALIT`a DI INSIEMI INFINITI 3 • la procedura
termina in un elemento di A; scriveremo che a ∈ AA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che a ∈ AB. Analogamente, partendo da un elemento
b ∈ B,
possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che b ∈ B0; • la procedura termina in un elemento
di A; scriveremo che b ∈ BA; •
la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che b ∈ BB. Abbiamo diviso ciascuno degli insiemi
A e B in tre sottoinsiemi a due a due disgiunti: A = A0 ∪ AA ∪ AB , B = B0 ∪ BA ∪ BB . Se prendiamo un elemento a ∈ A0, `e evidente che f(a) ∈ B0, perch ́e, per definizione, a `e
genitore di f(a). Dunque f induce una funzione h0 : A0 → B0, dove h0(a) = f(a).
Questa funzione, essendo una restrizione di f, `e iniettiva e anche totale. E`
suriettiva, perch ́e, se b ∈ B0,
esso ha un genitore a che deve appartenere ad A0. Se prendiamo un elemento a ∈ AA, allora f(a) ∈ BA: infatti a `e genitore di f(a) e la
procedura, a partire da b = f(a) termina in A. Dunque f induce una funzione hA
: AA → BA che `e iniettiva e totale. Essa `e anche suriettiva, perch ́e ogni
elemento di BA ha genitore che deve appartenere ad AA. Analogamente, se
partiamo da un elemento b ∈ BB,
allora g(b) ∈ AB e g
induce una funzione iniettiva e totale hB : BB → AB che `e suriettiva,
esattamente per lo stesso motivo di prima. Ci resta da porre h = h0 ∪hA ∪h−1. Allora h `e una funzione h: A → B che `e totale, B iniettiva
e suriettiva (lo si verifichi). Esempio. Illustriamo la dimostrazione
precedente con la seguente situazione: sia f : N → Z la funzione inclusione;
consideriamo poi la funzione g : Z → N 4z se z ≥ 0, −4z−2 sez<0. Quali sono gli elementi di N che
hanno un genitore? Esattamente quelli che appartengono all’immagine di g, cio`e
i numeri pari. I numeri dispari, quindi, appartengono a NN, perch ́e la
procedura si ferma a loro stessi. Consideriamo x0 = 2 ∈ N; siccome g(−1) = 2, abbiamo x1 = −1;
poich ́e −1 ∈/
Im(f), la procedura si ferma e 2 ∈ NZ. Consideriamo invece x0 = 4 ∈ N; siccome g(1) = 4, abbiamo x1 = 1 e possiamo andare avanti,
perch ́e 1 = f(1), dunque x2 = 1 ∈ N. Poich ́e 1 ∈/
Im(g), abbiamo che 4 ∈ NN.
Studiamo ora x0 = 16 ∈ N;
siccome g(4) = 16, abbiamo x1 = 4; siccome f(4) = 4, abbiamo x2 = 4 ∈ N; siccome 4 = g(1), abbiamo x3 = 1 ∈ Z; siccome 1 = f(1), abbiamo x4 = 1 ∈ N. La procedura si ferma qui, dunque 16 ∈ NN. Si lascia al lettore l’esame di altri
elementi di N o di Z. La relazione ≤ si pu`o allora vedere non come una relazione
d’ordine largo fra insiemi, ma piuttosto come un ordine largo fra le
“cardinalit`a” degli insiemi. Non vogliamo per`o definire il concetto di
cardinalit`a; ci limiteremo a confrontarle usando le relazioni introdotte. Il
teorema seguente dice, in sostanza, che la cardinalit`a dell’insieme dei numeri
naturali `e la piu` piccola cardinalit`a infinita. Teorema 2. Sia A un insieme
infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dimostrazione. Costruiremo un sottoinsieme di A per
induzione. Siccome A `e infinito, esso non `e vuoto; sia x0 ∈ A. Evidentemente {x0} ̸= A, quindi esiste
x1 ∈ A \
{x0}. Ancora {x0, x1} ≠ A, quindi esiste x2 ∈ A \ {x0, x1, x2}. Proseguiamo allo stesso modo: supponiamo di
avere scelto gli elementi x0, x1, . . . , xn ∈ A, a due a due distinti. Siccome {x0, . . . , xn} ≠ A, esiste
xn+1 ∈A\{x0,...,xn}.
Dunque la procedura associa a ogni numero naturale un elemento di A e la
funzione n → xn `e
iniettiva. Questo
risultato ha una conseguenza immediata. g(z) = 4 INSIEMI INFINITI Corollario 3. Sia A ⊆ N. Allora A `e finito oppure |A| = |N|.
Dimostrazione. Se A non `e finito, allora `e infinito. Per il teorema, |N| ≤
|A|. Ma |A| ≤ |N| perch ́e A ⊆ N. Per
il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. Un altro corollario `e la
caratterizzazione che Dedekind prese come definizione di insieme infinito.
Corollario 4. Un insieme A `e infinito se e solo se esiste un sottoinsieme
proprio B ⊂ A tale
che |B| = |A|. Dimostrazione. Se A `e finito, `e evidente che un suo
sottoinsieme proprio non pu`o avere tanti elementi quanti A. Supponiamo ora che
A sia infinito. Per il corollario precedente, esiste una funzione iniettiva
totale f : N → A. Definiamo ora una funzione g : A → A ponendo: f(n+1) seesisten∈Ntalechex=f(n), x se x ∈/ Im(f). La condizione “esiste n ∈ N tale che x = f(n)” equivale alla
condizione “x ∈
Im(f)”. La funzione g `e ben definita, perch ́e f `e iniettiva; dunque, se x =
f(n) per qualche n, questo n `e unico. Osserviamo anche che x ∈ Im(f) se e solo se g(x) ∈ Im(f). Verifichiamo che g `e totale e
iniettiva. Il fatto che sia totale `e ovvio. Supponiamo che g(x) = g(y). • Se x
∈/
Im(f), allora g(x) = x; dunque non pu`o essere y ∈ Im(f) e perci`o g(y) = y, da cui x = y. • Sex∈Im(f),`ex=f(n)perununicon∈N. Allorag(x)=f(n+1)∈Im(f). Perci`o g(y) = g(x) = f(n + 1) ∈ Im(f) e quindi, per quanto osservato
prima, y ∈ Im(f).
Ne segue che y = f(m) per un unico m ∈ N e g(y) = f(m + 1). Abbiamo allora f(n+1) = f(m+1) e, siccome f
`e iniettiva, n+1 = m+1; perci`o n = m e x = f(n) = f(m) = y. Qual `e
l’immagine di g? E` chiaro che f(0) ∈/ Im(g). Viceversa, ogni elemento di A\{f(0)} appartiene
all’immagine di g, cio`e Im(g) = A \ {f(0)}. Se allora consideriamo la funzione
g come una funzione g : A → A \ {f (0)}, questa `e una biiettivit`a. In
definitiva |A| = |A \ {f(0)}|; se poniamo B = A \ {f(0)}, abbiamo il
sottoinsieme cercato.
Notiamo che, nella dimostrazione precedente, A \ B = {f (0)} `e finito. Come
esercizio si trovi in modo analogo al precedente un sottoinsieme C ⊂ A tale che |C| = |A| e A \ C sia
infinito. 4. Insiemi numerabili Il teorema secondo il quale per ogni insieme
infinito A si ha |N| ≤ |A| ci porta ad attribuire un ruolo speciale a N (piu`
precisamente alla sua cardinalit`a). Definizione 3. Un insieme A si dice
numerabile se |A| = |N|. Un sottoinsieme di N `e allora finito o numerabile.
Abbiamo gi`a visto in precedenza che anche Z (insieme dei numeri interi) `e
numerabile. Piu` in generale possiamo enunciare alcune propriet`a degli insiemi
numerabili. Teorema 5. Se A `e finito e B `e numerabile, allora A ∪ B `e numerabile. Dimostrazione. Se A ⊆ B, l’affermazione `e ovvia. Siccome A ∪ B = (A \ B) ∪ B possiamo supporre che A e B siano
disgiunti, sostituendo A con A \ B che `e finito. Possiamo allora scrivere A =
{a0,...,am−1} e considerare una biiettivit`a g: N → B. Definiamo una funzione f
: N → A ∪ B
ponendo an se 0
≤ n < m, g(n−m) sen≥m. g(x) = f(n) = 4. INSIEMI NUMERABILI 5 E` facile
verificare che f `e una biiettivit`a. Teorema 6. Se A e B sono numerabili, allora A ∪ B `e numerabile. Se A1, A2,..., An sono
insiemi numerabili, allora A1 ∪ A2 ∪ ··· ∪ An `e un insieme numerabile. Dimostrazione. La seconda
affermazione segue dalla prima per induzione (esercizio). Vediamo la prima.
Supponiamo dapprima che A ∩ B = ∅.
Abbiamo due biiettivit`a f : N → A e g: N → B. Definiamo una funzione h: N → A ∪ B ponendo: f n 2 h(n) = n − 1 g 2 Si verifichi che h `e
una biiettivit`a. In generale, possiamo porre A′ =A\(A∩B), e abbiamo A∪B = A′ ∪(A∩B)∪B′;
questi tre insiemi sono a due a due disgiunti. I casi possibili sono i
seguenti: (1) A′, A ∩ B e B′ sono infiniti; (2) A′ `e finito, A ∩ B `e
infinito, B′ `e infinito; (3) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito;
(4) A′ `e infinito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (5) A′ `e infinito, A ∩ B
`e finito, B′ `e infinito; (6) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e finito.
Ci basta applicare quanto appena dimostrato e il teorema precedente. Si
concluda la dimostrazione per induzione della seconda affermazione. Il prossimo teorema pu`o
essere sorprendente. Un modo breve per enunciarlo `e dire: L’unione di un
insieme numerabile di insiemi numerabili `e numerabile. Teorema 7. Per ogni n ∈ N, sia An un insieme numerabile e
supponiamo che, per m ̸= n, Am ∩ An = ∅. Allora A={An :n∈N} `e numerabile. Dimostrazione. Per
questa dimostrazione ci serve sapere che la successione dei numeri primi p0 = 2,
p1 = 3, p2 = 5,..., `e infinita. Sia,perognin∈N,gn:An →Nunafunzionebiiettiva. Sex∈A,esisteununicon∈N tale
che x ∈ An;
poniamo j(x) = n. Definiamo allora f(x) = pgj(x)(x). j (x) Per esempio, se x ∈ A2, sar`a f(x) = 5g2(x). La funzione f :
A → N `e iniettiva; quindi |A| ≤ |N|. MaA0 ⊆Aequindi |N| = |A0| ≤ |A| ≤ |N|. Per il teorema di Cantor-Schr
̈oder-Bernstein, |A| = |N|. Il
teorema si pu`o estendere anche al caso in cui gli insiemi An non sono a due a
due disgiunti; si provi a delinearne una dimostrazione. Questo teorema ha una
conseguenza sorprendente. Teorema 8. L’insieme N × N `e numerabile.
Dimostrazione. Poniamo An = { (m, n) : m ∈ N }. Gli insiemi An sono a due a due disgiunti e ciascuno `e
numerabile. E` evidente che n∈N An = N × N. Ancora piu` sorprendente `e
forse quest’altro fatto. Teorema 9. L’insieme Q dei numeri razionali `e
numerabile. se n `e pari, se n `e dispari. B′ =B\(A∩B) 6 INSIEMI
INFINITI Dimostrazione. Un numero razionale positivo si scrive in uno e un solo
modo come m/n, con m, n ∈ N
primi fra loro (cio`e aventi massimo comune divisore uguale a 1). Ne segue che
l’insieme Q′ dei numeri razionali positivi `e numerabile, perch ́e a m/n (con m
e n primi fra loro) possiamo associare la coppia (m, n) ∈ N × N e la funzione cos`ı ottenuta `e
iniettiva. Dunque |N| ≤ |Q′| ≤ |N × N| = |N|. L’insieme Q′′ dei numeri
razionali negativi `e numerabile, perch ́e la funzione f : Q′ → Q′′ definita da
f(x) = −x `e chiaramente biiettiva. Per concludere, possiamo applicare altri
teoremi precedenti, tenendo conto che Q = Q′ ∪ {0} ∪ Q′′. C’`e un altro modo per
convincersi che Q′ `e numerabile, illustrato nella figura 1. Si 1/5
1/4 1/3 1/2 1/1 2/5 3/5 4/5 3/4 5/4 2/3 4/3 5/3 3/2 5/2 2/1 3/1 4/1 5/1
Figura 1. Enumerazione dei razionali positivi immagina una griglia dove
segniamo tutte le coppie con coordinate intere positive. Possiamo percorrere
tutta la griglia secondo il percorso indicato e associare in questo modo a ogni
numero naturale un numero razionale, incontrandoli tutti. Trascuriamo naturalmente
i punti in cui il quoziente fra ascissa e ordinata `e un numero razionale gi`a
incontrato precedentemente (per esempio, nella prima diagonale si trascura il
punto (2, 2) che corrisponderebbe al numero razionale 2/2 = 1, gi`a incontrato
come 1/1; nella terza diagonale si trascurano (2, 4), (3, 3) e (4, 2)). 5.
Esistenza di cardinalit`a A questo punto sorge naturale la domanda se ci sono
insiemi infiniti di un’infinit`a diversa da quella dei numeri naturali. Non ci
siamo riusciti nemmeno considerando l’insieme dei razionali che,
intuitivamente, dovrebbe avere piu` elementi dei numeri naturali. C’`e una
costruzione che produce cardinalit`a maggiori. Prima per`o definiamo con preci-
sione ci`o che intendiamo. Definizione 4. Se A e B sono insiemi, diciamo che A
ha cardinalit`a minore della cardinalit`a di B, e scriviamo |A| < |B|, se
|A| ≤ |B|, ma non `e vero che |A| = |B|. 5. ESISTENZA DI CARDINALIT`a 7
Il modo corretto per verificare che |A| < |B| `e questo: • esiste una
funzione totale iniettiva di A in B; • non esiste una biiettivit`a di A su B.
Notiamo che non basta verificare che una funzione iniettiva totale di A in B
non `e suriettiva. Per esempio, esiste certamente una funzione totale iniettiva
di N in Q che non `e suriettiva; tuttavia, come abbiamo visto, |N| = |Q|. Un
altro esempio: l’insieme N ∪ {−2}
`e numerabile, anche se la funzione di inclusione N → N ∪ {−2} non `e suriettiva. Infatti la
funzione f : N → N ∪ {−2}
definita da f(0) = −2 e f(n) = n − 1 per n > 0 `e una biiettivit`a. L’idea
per trovare un insieme di cardinalit`a maggiore partendo da un insieme X `e
dovuta a Cantor. Teorema 10 (Cantor). Se X `e un insieme, allora |X| < |P
(X)|. Dimostrazione. Dimostriamo che esiste una funzione totale iniettiva X →
P(X); essa `e, per esempio, { (x, {x}) : x ∈ X } cio`e la funzione che all’elemento x ∈ X associa il sottoinsieme {x} ∈ P(X). Dobbiamo ora dimostrare che non
esistono funzioni biiettive di X su P(X). Lo faremo per assurdo, supponendo che
g: X → P(X) sia biiettiva. Consideriamo C ={x∈X :x∈/
g(x)}. La definizione di C ha senso, perch ́e g(x) `e un sottoinsieme di X,
dunque si hanno sempre due casi: x ∈ g(x) oppure x ∈/ g(x).
Siccome, per ipotesi, g `e suriettiva, deve esistere un elemento c ∈ X tale che C = g(c). Dunquesihac∈C oppurec∈/C. Supponiamo c ∈ C;
allora c ∈ g(c) e
quindi, per definizione di C, c ∈/ C:
questo `e assurdo. Supponiamo c ∈/ C;
allora c ∈/ g(c)
e quindi, per definizione di C, c ∈ C: assurdo. Ne concludiamo che l’ipotesi che g sia suriettiva
porta a una contraddizione. Perci`o nessuna funzione di X in P(X) `e
suriettiva.
L’insieme P(X) ha la stessa cardinalit`a di un altro importante insieme. Indichiamo
con 2X l’insieme delle funzioni totali di X in {0, 1}. Definizione 5. Se A `e
un sottoinsieme di X, la funzione caratteristica di A `e la funzione χA : X →
{0, 1} definita da 1 sex∈A, χA(x)= 0 sex∈/A. Possiamodefinireduefunzioni,f:P(X)→2X
eg:2X →P(X)nelmodoseguente: per A∈P(X)siponef(A)=χA;perφ∈2X sipone g(φ)={x∈X
:φ(x)=1}. Teorema 11. Per ogni insieme X si ha |P(X)| = |2X|. Dimostrazione.
Proveremo che g ◦ f e f ◦ g sono funzioni identit`a. Sia A ∈ P(X); dobbiamo calcolare g(f(A)) = g(χA):
abbiamo g(χA)={x∈X
:χA(x)=1}=A, per definizione di χA. Sia φ ∈ 2X; dobbiamo calcolare f(g(φ)). Poniamo B = g(φ) = {x ∈ X : φ(x) = 1}. Occorreverificarecheφ=χB.
Siax∈X;seφ(x)=1,allorax∈BequindiχB(x)=1; se φ(x) = 0, allora x ∈/ B e quindi χB(x) = 0. Non essendoci altri
casi, concludiamo che φ = χB. Ora, siccome per ogni A ∈ P(X) si ha A = g(f(A)), g `e suriettiva e
f `e iniettiva. Analogamente, per φ ∈ 2X, φ = f(g(φ)) e dunque f `e suriettiva e g `e iniettiva. 8 INSIEMI INFINITI 6.
La cardinalit`a dell’insieme dei numeri reali Con il teorema di Cantor a
disposizione, si pu`o affrontare il problema di determinare la cardinalit`a dei
numeri reali. Intanto dimostriamo un risultato preliminare; consideriamo
l’intervallo aperto I={x∈R:0<x<1}
e dimostriamo che |I| = |R|. Consideriamo la funzione f : R → R, √ 2
1+x−1 f(x) = x 0 Un facile studio di funzione mostra che f `e iniettiva e che
Im(f) = I. Allo stesso risultato si arriva considerando la funzione g(x) = π2
arctan x. La considerazione di I ci permetter`a di semplificare i ragionamenti.
Sappiamo che ogni numero reale in I si pu`o scrivere come allineamento
decimale: 21 = 0,500000000000 . . . 31 = 0,333333333333 . . . √71 =
0,142857142857 . . . 22 = 0,707106781187 . . . π4 =0,785398163397... dove i
puntini indicano altre cifre decimali. Prevedibili in base a uno schema
periodico nei primi tre casi, non prevedibili negli ultimi due che sono numeri
irrazionali. Il numero dieci non ha nulla di particolare. Si pu`o allo stesso
modo sviluppare un nu- mero reale come allineamento binario. Gli stessi numeri,
scritti a destra dell’uguale come allineamenti binari, sono: 21 =
0,100000000000000000000000000 . . . 13 = 0,010101010101010101010101010 . . . 17
= 0,001001001001001001001001001 . . . √ 22 = 0,101101010000010011110011001 . .
. π4 =0,110010010000111111011010101... e le cifre si ripetono ancora
periodicamente nei primi tre casi. In generale un numero r ∈ I si scrive come r = 0,a0a1a2 ..., dove
ai = 0 oppure ai = 1; in modo unico, se escludiamo tutte le successioni che, da
un certo momento in poi, valgono 1. Questo `e analogo ai numeri di periodo 9
nel caso decimale. Dunque abbiamo in modo naturale una funzione f : I → 2N:
f(r) `e la funzione φ: N → {0, 1} definita da φ(n) = an dove a0, a1, · · · sono
le cifre di r nello sviluppo binario di r. La funzione f `e totale e iniettiva,
quindi concludiamo che |I| ≤ |2N|. se x̸=0, se x = 0. 7. IL
PARADISO DI CANTOR 9 Vogliamo ora definire una funzione g: 2N → I. Prendiamo φ ∈ 2N; la tentazione sarebbe di definire
g(φ) come quel numero reale il cui sviluppo binario `e 0,φ(0) φ(1) φ(2) . . .
ma questo non funziona, perch ́e, se per esempio la funzione φ `e la costante
1, il numero 0,111111 . . . `e 1 ∈/ I. Se anche escludessimo questa funzione, avremmo il problema
del “periodo 1”. Dunque agiamo in un altro modo. Alla funzione φ associamo il
numero reale il cui sviluppo binario `e g(φ) = 0,0 φ(0) 0 φ(1) 0 φ(2) ... cio`e
intercaliamo uno zero fra ogni termine. E` chiaro che, se φ ̸= ψ, allora g(φ)
̸= g(ψ), dunque g `e iniettiva e totale. Teorema 12 (Cantor). |R| = |P (N)|.
Dimostrazione. Abbiamo gi`a a disposizione le funzioni f: I → 2N e g: 2N → I,
entrambe iniettive. In particolare, |I| ≤ |2N e |2N| ≤ |I|; per il teorema di
Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |I| = |2N|. Sappiamo poi che |I| = |R| e che |2N|
= |P(N)|. Dunque |R| = |I| = |2N| = |P(N)|, come voluto. Occorre commentare
questo risultato. Per dimostrarlo abbiamo usato il teorema di Cantor-Schr
̈oder-Bernstein, quindi non abbiamo potuto scrivere esplicitamente una biietti-
vit`a di R su P (N). Ma non `e questo il punto piu` importante. La conseguenza
piu` rilevante del teorema `e che non `e possibile descrivere ogni numero
reale, perch ́e, come vedremo in seguito, i numeri reali che possono essere
espressi con una formula sono un insieme numerabile. 7. Il paradiso di Cantor
Un’altra applicazione del teorema di Cantor porta alla costruzione del
cosiddetto “paradi- so di Cantor”. Questa espressione vuole indicare
l’esistenza di una successione di cardinalit`a infinite ciascuna strettamente
maggiore della precedente. Allo scopo basta iterare il passaggio all’insieme
dei sottinsiemi, per esempio a partire dall’insieme dei numeri naturali, per
ottene- re una successione di insiemi la cui cardinalit`a, per il teorema di
Cantor, continua a crescere strettamente: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| <
|P(P(P(N)))| < ··· < |P(...P(P(P(N))))...)| < ··· Si potrebbe ancora
andare avanti; definiamo, per induzione, P0(X) = X, Pn+1(X) = P(Pn(X)). Allora
possiamo considerare l’insieme Y1 = Pn(N), n∈N e si
pu`o dimostrare che |Pn(N)| < |Y1|, per ogni n ∈ N. Dunque abbiamo trovato una
cardinalit`a ancora maggiore di tutte quelle trovate in precedenza e il gioco
pu`o continuare: consideriamo Y2 = Pn(Y1) n∈N e
ancora |Pn(Y1)| < |Y2|. E cos`ı via, costruendo una gerarchia infinita di
cardinalit`a sempre maggiori. Oltre a interrogarci sul prolungarsi della
successione delle cardinalit`a infinite sempre mag- giori, `e del tutto
naturale domandarsi se tra |N| e |P (N)| c’`e o no una cardinalit`a
strettamente compresa tra le due. Piu` in generale, ci si pu`o chiedere se,
dato un insieme infinito X, esiste un insieme Y tale che |X| < |Y | <
|P(X)|.
10 INSIEMI INFINITI Cantor ipotizz`o che non ci siano insiemi Z tali che |N|
< |Z| < |P(N)|, e questa ipotesi ha preso il nome di ipotesi del
continuo. Non `e questo il luogo dove discutere questa questione, risolta
brillantemente da P. J. Cohen nel 1963: l’ipotesi del continuo `e indecidibile
rispetto agli assiomi della teoria degli insiemi, nel senso che `e altrettanto
coerente prenderla come vera che prenderla come falsa. Non si tratta di
argomenti semplici, tanto che per i suoi studi Cohen fu insignito della Fields
Medal che, per i matematici, `e l’analogo del Premio Nobel. Esercizi Si ricordi
che kN indica l’insieme dei numeri naturali multipli di k, N≥k l’insieme dei
numeri naturali maggiori o uguali a k, e N>k l’insieme dei numeri naturali
strettamente maggiori di k. Esercizio 1. Si dica, motivando la risposta, se gli
insiemi 3N ∪ {2, 5}
e 2N \ {10, 8} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 2. Si costruisca una
funzione biiettiva tra gli insiemi 4N ∪ { 32 , 7, √2} e N>9 . Esercizio 3. Si dimostri che per ogni
insieme finito X, se f : X → X `e totale e iniettiva, allora `e biiettiva. Si
dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste.
Esercizio 4. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale
e suriettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in
cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 5. Si costruisca una funzione
biiettiva tra gli insiemi Z ∪ { 32 ,
√3 2} e 3N. Esercizio 6. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi (5N \
{5, 15}) ∪ {√3,
25 } e 2N ∪ {11,
17} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 7. Si dica, motivando la risposta,
se gli insiemi N≥50 ∪ 5N e
3N ∩ 2N hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 8. Sia A un insieme numerabile
e sia a ∈/ A. Si
costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A ∪ {a}. Esercizio 9. Sia A un insieme numerabile e sia a ∈ A. Si costruisca una biiezione tra gli
insiemi A e A \ {a}. Esercizio 10. Sia Π l’insieme dei numeri reali
irrazionali. L’insieme Π `e numerabile? Esercizio 11. L’insieme di tutte le
funzioni da Q all’insieme {0, 1, 2, 3} `e numerabile? Esercizio 12. Sia P = {I
| I ⊆ N e I
`e un insieme finito} l’insieme delle parti finite di N. Qual `e la
cardinalit`a di P ? Esercizio 13. Si dica, motivando la risposta, se l’insieme
P(3N) `e numerabile. Carlo
Cellucci. Keywords: il paradiso, Peano, logico filosofico, philosophical logic,
logica filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia,
storia della logica in italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione,
calcolo di predicato di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione
matematica, logica antica, la logica nella storia antica, connetivo, connetivo
russelliano, connetivo intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la
mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero, definizione splicita, implicita,
gradual del numero, peano, frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso
di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato,
il problema de significato, il problema del significato in Hintikka, Grice
divergenza connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’
‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711681535/in/photolist-2mMzTj8
Grice e Centi – Savonarola e compagnia – dal
pupito al rogo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Segni). Filosofo.
Grice: “I like Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his
life to Aquinas, o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he
also philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed
the expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice:
“According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della
filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottorò presso l'Angelicum
di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San
Tommaso d'Aquino, Maestro in Sacra Teologia dal maestro generale dell'Ordine
domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il
Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato
per i tipi di Adriano Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma
Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di
san Giovanni (Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli
(Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae
etc.) e varie Questiones Disputatae.
Oltre al commento d’Aquino, si occupa anche di altre importanti figure
storiche come Savonarola e Beato Angelico. È stato membro della commissione
storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha
difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui
attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo
che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua
condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro
VI. Altre opere: “La omma teologica,
testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei Domenicani italiani,
T.S. Centi, Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, POMBA,
Torino); Catechismo Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal
Papa Pio V per Decreto del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola.
Il frate che sconvolse Firenze, Città Nuova, Roma); “La scomunica di Girolamo
Savonarola. Santo e ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano);
“Aquino Compendio di Teologia e altri scritti); Agostino Selva, POMBA, Torino);
“Il Beato Angelico. Fra Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio
Domenicano, Bologna, Inos Biffi); Le altre due Somme teologiche Edizioni Studio
Domenicano. Nel segno del sole. San Tommaso d'Aquino, Ares, Milano. Speranza,
“Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano intenzionalista (grammatico
speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema
del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un segno e
monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un sengno
de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e presente
rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come
punto di riferimento. Un segno particolare o particolarizato è quello del sacramento, o
segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che
dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ –
‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato
no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno
naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per
iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del
segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o
arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation”
(cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica
contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che
intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le
otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di
queste parti. Aquino, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un
commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata
interpretata e commentata durante il corso di Logica tenuto da Gimigliano presso
l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso tutee elabora un’interpretazione su
un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un
contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i
contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione
sono ad opera di Gimigliano. Praemittit
autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in
hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de
principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet
intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit:
primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum.
In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim
demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito
dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de
quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis
autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae
fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc
dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una
quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum
consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem,
prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et
ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod
significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae
pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem.
Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo
syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro
priorum. Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis
partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia
de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes
enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat.
Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex
aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus
determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales
orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non
nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur:
sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine
convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis,
significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et
alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.
His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad
principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae
sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum
(alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam
esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur,
posterius autem manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur
in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de
affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex
pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam
unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non
continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad
quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex
suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur
per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles
praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit
autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio,
quae est genus enunciationis. Si quis ulterius quaerat, quare non facit
ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde
pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de
anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie
orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales
ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse
praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est
enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum
quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum.
Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus
accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum,
sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum
de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de
quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit
significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. Est ergo
considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur
quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus
intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic
passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum
praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi.
Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione
intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione
litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba
et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes
voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter,
quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut
appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in
voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est
quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana,
quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad
designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce,
ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod
dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones
animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira,
gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus
infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones
animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum
sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones
animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus
passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod
non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de
anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem
receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est,
ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam
intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel
odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum
quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.
Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione
Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem
sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce
sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam
manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens
hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces,
significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et
diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae
eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam
in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in
Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur
elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur,
sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius
exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem
significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce,
sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba
quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde
cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant.
Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde
manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter
significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter
significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud
omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae
naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde
dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum
primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae,
idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad
secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae
passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum
rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est
quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae
similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo,
quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem
vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias
habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones.
Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae
conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert;
et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur,
se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis
vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant
verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit
differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera.
Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus,
quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae
est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes
vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex
causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod, sicut in
principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de
anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et
hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso,
aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces
significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc
quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum
similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et
falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod
dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum
ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur
ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est
sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas
et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod
una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum
scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive
essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud
huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi
simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda
operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et
falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur
in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum
divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod
sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed
dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa
veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. Ad
huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur
dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente
vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam
in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum,
non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic
patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum
intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per
respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut
signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum
autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo,
sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum
speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod
conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis
non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt
quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod
est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera,
quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res
aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non
essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum.
Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam
naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem,
consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam
formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum
aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res
naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I
physicae, formam nominat quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per
comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen
cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis
suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi
habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest
cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas
est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem
praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in
re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non
cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re,
puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens
est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui
est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil
aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur
esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est instantia de eo, qui per
unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum
quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur
verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non
significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de
verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his
intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio,
licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum
ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus
et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos
cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus
simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi
quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus.
Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est
esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum
tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum
quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur
exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim
falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel
falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine significationis
vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia
principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in
qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo,
determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi:
enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim,
determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales
ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis
genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo
facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo,
determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re;
ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria
facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim
quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem
nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen. Circa primum
considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter
rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet
definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet
definitio conveniat. Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo,
ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis,
qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum
imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima
differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non
significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non
litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de
significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit
quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit quaedam res naturalis,
nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod
non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum,
quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam
convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam
si quis diceret quod est lignum formatum in vas. Sed dicendum quod
artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere
autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt.
Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales,
ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione
ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum
figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si
nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas
artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit:
secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis
procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter,
sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium. Quarto, ponit
tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo.
Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus.
Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum
tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine,
sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore
mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter
tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum
quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia
autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non
habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod
subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et
participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo,
potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per
adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto, ponit quartam
differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet
a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in
toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem
pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet
formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars
significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum dicit: in
nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo,
quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero
placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis;
tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in
sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat
propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter
nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera.
Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina
composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus,
haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae
est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum
unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis
compositae. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam
inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in
nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo
modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam;
sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil
tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio
differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum
simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu;
nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet
apparentiam quod pars eius significet. Deinde cum dicit: secundum
placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod
ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est
naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat
naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota,
idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat
non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati
enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit
potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent
pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant:
nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod
nomen non significat naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit
diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo
naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii
vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint
naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter
significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut
Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod
eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una
res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae
similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa
diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est
nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam
nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis
sonus est nomen, ut dictum est. Deinde cum dicit: non homo vero etc.,
excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus
nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non
homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut
homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut
Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque
determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae
aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici
indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera
est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est
non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus
existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente,
ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod
potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione.
Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones
concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid
separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio,
id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem
affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi
dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis,
ut dictum est. Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit
casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt
nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est
impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur
casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo,
qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos
dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab
interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid
cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno
infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter
quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat
nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est
differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper
significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem
inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet
impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur,
poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si
diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen infinitum et
casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio,
quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius
definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a
nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his:
nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis
significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam
philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria
facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi:
non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad
nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo
facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem
quoniam consignificat et cetera. Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt
nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat
in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi:
quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod
consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen
significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur
verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra
significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur
hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum.
Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut
distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum
dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae
componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his
distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest
etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur
oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum
habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est
quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non
solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit:
et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia
scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed
verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur habere instantiam
in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum
dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi,
quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in
vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina.
Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per
se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem.
Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto,
velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio,
ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est
egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per
verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse
processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et
significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius
significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam
vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis
partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum
dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et
primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum
ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit:
et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per
modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro
vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium
est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum
est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore
mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod
potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non
convenit nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit
aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut
eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de
subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto
autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo
verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est
ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur
in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem
pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed
quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare.
Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota
eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi
significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur
magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur,
magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper
est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum
ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur
ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel
passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones
significant remotionem actionis vel passionis. Si quis autem obiiciat: si
praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est
quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi
autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi.
Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis
differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt,
deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et
rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de
eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi
privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit
determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis,
quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi
duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit
a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita
non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel
currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi.
Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa
vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter
praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens
indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut
passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae
incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae
consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta:
cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie
verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati
simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum
quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter
casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum
dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens,
futurum autem quod erit praesens. Cum autem declinatio verbi varietur per
modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam
non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed
ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam
actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel
optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis.
Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque
sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et
praedicari. Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat
propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina;
secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi:
sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est
quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia
supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde
proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo
audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit
quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad
hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur
esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem
nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus
audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius
animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio,
ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit
intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius,
et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel
verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit
intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis
et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit
quiescere audientem. Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est,
nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et
divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit.
Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare
veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum
infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum
veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc
generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non
significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum
verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non
sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem
esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non
currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel
non esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum
subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi
notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non
esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de
quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de
decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat,
nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est
per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur
conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et
posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur:
tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et
quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis
expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter
exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc
nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit
quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est
intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret
aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum,
sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est,
sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum
vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam
compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum
dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio
significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest
intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus
nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem
Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis
sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non
significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non
esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse.
Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam
quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse,
per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse
principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret
aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est,
non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem
habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad
veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et
falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat
per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum
est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel
accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum
actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel
simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum
est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de
verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius
existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale
enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim,
proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo
etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.
Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo
ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est
vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de
verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia
supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati,
ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia
significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen
vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra
enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed
solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius
pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat
aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc
definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire.
Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio;
ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc
respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius,
debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei,
puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est
in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde
est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici,
secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde
debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et
compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli
orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum
dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et
compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo
secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic
decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum
perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et
tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus
partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum
mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis,
scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis
principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio
imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio
convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Deinde cum dicit: dico
autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum
esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una
hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis
esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim
aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si
addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit
falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus
quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur
ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia,
oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis,
scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur
quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est
una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet
simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in
quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem
est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in
compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito
et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se,
prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.
Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim
aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad
placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis
oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis;
potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt
naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus
interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum,
quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione
humana significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et
pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat
ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut
supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et
ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus
virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem
naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut
probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem
motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non
sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest
etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non
naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis,
hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas:
in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate
enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur;
et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera.
Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in
secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de
oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis;
secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis
speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de
sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.
Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum
alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut
supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est
usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est
significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt
operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in
alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit
ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa,
sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles
mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non
omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit:
sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.
Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus
veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur
in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro
praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa
est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc
definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus
imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non
faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non
exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur
praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam,
quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa,
interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen
vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis
significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum
provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est
vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum
autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia
ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum
conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant
ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem
ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum,
sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et
inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub
enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam.
Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad
deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc.,
ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor
orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis.
Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad
aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio
dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in
aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui
significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis
congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic
dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem
enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si
enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est
privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est
affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima,
subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa,
ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit
quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex
hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant
rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo
mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis.
Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in
ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu
accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum
propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem
enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua
verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel
negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum;
secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.
Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet
constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est
praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in
enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc,
quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam
enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam
est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est,
quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid
huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio
enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex
nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod
tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa
invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine
nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur,
currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est
nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars
enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur
apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a
forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de
parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica
dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel
negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod
affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et
adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel
verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit
tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una
simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod
illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit
per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat
compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum
est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens
intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi:
quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem
propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est
definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis
definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii.
Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius
assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per
se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per
formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex
forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia.
Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut
scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae,
idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non
interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur
coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed
significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio
morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis
requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione:
quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter
materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem
definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in
his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus
musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta
unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum,
neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio
utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et
similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque
coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.
Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas
orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur
secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum
solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est
albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem
significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam,
animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in
conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem
quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione
ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio
plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione
est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in
praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta
si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures
enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam,
Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod
enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex,
sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur
quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua
coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes;
sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione
plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel
quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit
unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Sed haec
expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia
per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum
significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra
dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem
est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et
ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam
enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae
sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum,
sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda
una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura
nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa
significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc,
haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi
coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum
significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit
quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est,
quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua
plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile,
sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec
enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut
dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt
unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus
pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam
illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo
modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur
primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse.
Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam
plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo
possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in
quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura
significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam
sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Deinde cum
dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et
verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem
aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum
significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio
sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo
loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis.
Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest
dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel
verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi
enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes;
puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem
utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit.
Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non
enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui
profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte.
Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad
interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium
enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod
intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si
quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi
legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat,
manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum.
Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est
omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc.,
manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod
enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo
quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae
enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod
simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet
ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret
enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere
affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset
genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione
generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non
significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari
nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur
aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in
praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque.
Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem,
volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et
negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet
ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere,
cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est
enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo
Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse
sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis,
melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio,
sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod
enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione
nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem
considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis:
quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est
quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse,
vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est
per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et
enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum
congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. Sic igitur
quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum
divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re
est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus
Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non
est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est.
Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad
affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum
enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam;
ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora
procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae,
cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non
esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est,
scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae
opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet
in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur
affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non
esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non
est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad
hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae
per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est,
esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae
enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum
praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus
ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse
est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit:
quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea,
quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt
quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti
et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et
omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis.
Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod
trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde
manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia
affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito
contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem
sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset
contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non
posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit
absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per
nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo
quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni
huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod
dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen
contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut
Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem
et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis
diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio
si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem
diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum
diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est
albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte
praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non
movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est
animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel
temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in
Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex
habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad
domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque
caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus
contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas
oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum.
Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse
contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere
diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera
contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem
enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam;
secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit
autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti.
Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo,
concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera.
Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen
autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est
similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem
rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia.
Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem,
quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero
quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo,
manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem
singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat
philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens.
Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in
primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum
per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed
omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod
significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est
autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo
oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in
intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest
distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem
re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est
haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est
considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod
Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando
igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec
res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem
denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi
dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive
dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem
dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod
referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum
aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam,
quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod
est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod
intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu
definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium
intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio
alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc
impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si
omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter
conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi
solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est
alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est
quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus.
Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se,
communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod
significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo,
quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam,
sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est
in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est
nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis;
sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde
esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si
essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Potest
autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus
praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad
hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit
nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod
universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed
id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non
contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat
naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur
alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit
alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit:
necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim
semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia,
quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel
non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est
suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem
rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de
universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo
considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato
posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in
intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim
attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem
intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive
universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus
attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae
sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic
considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod
attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet
natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est
dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod
est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis
irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra
animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei
praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout
est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae
universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet,
vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal,
vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione
singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad
actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur
aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum
dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem,
ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem,
ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis
negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut
supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit
philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter,
quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus
praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius
in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis
in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species,
quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum
autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur
pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem,
secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi
divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de
pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem
enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. Deinde cum dicit:
si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode
opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo,
distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo,
ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et
falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera. Circa primum
considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a
singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc
diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem
diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici
determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc
aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum
quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non
habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid
dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra
singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur
quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat
universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis,
per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed
universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione
hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum
attribuendi aliquid universali sic accepto. Sicut autem supra dictum est,
quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et
ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit
secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in
affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat
quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub
subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec
dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto
universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi
non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est
accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque
autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis;
et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio,
aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto
universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat
formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat;
unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio
posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter
removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita
etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem
affirmationem. Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus
aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali
praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia,
in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam
homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur
absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi
enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes
oppositae. De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione
praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem
ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo
nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo
ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat
ei ratione singularitatis. Si igitur tribus praedictis enunciationibus
addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius
pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.
Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones
enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad
indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi:
opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de
oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione
indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit
dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Dicit ergo primo quod si
aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum
continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est,
idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est
albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur
quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non
est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter
remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod
affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc
negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum
quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed
super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem
remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem
contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit
contrarietatem. Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit
oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non
universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim
universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus
subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt
contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria.
Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla.
Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter,
sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed
de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in
universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus
homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo,
qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo
praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum
universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur
universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat
quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad
hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non
sunt contrariae. Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit
esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a
diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad
contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc
videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate
rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur
hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in
indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur
subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut
particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo
huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter;
et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod
universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius
quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut
in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest
accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in
affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur.
Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in
qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest
in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si
diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod
hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur,
praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse
verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit
convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia
omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur
sub universali. Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis
homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de
homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur,
omnis homo est omne susceptivum disciplinae. Signum autem universale
negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte
subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati.
Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim
est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo
aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia
proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper
falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam
falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt
semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod
philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere
omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de
oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas,
hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad
particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his
notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero
universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et
cetera. Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non
habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem
subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit
affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et
particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus,
non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi
particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus;
sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non
quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus
(quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est
universalis negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia
contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis
autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid
aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri
non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod
particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde
relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis
negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum
dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et
dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae;
sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam
distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad
rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent
sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc.,
ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum.
Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi:
quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur
contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera.
Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt
contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se
expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus
contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus,
quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est
albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi
etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam
simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse:
potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est
pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae,
sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae.
Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter
veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est
quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi
quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est
altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo,
quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad
idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in
plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa
semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et
subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium
universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse
simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur
esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse
quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Deinde
cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant
veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et
circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum;
ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset
dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum
considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus
videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non
determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse
de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative
et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper
oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera.
Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et
quod homo est probus, et, homo non est probus. In quo quidem, ut Ammonius
refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa
semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem
tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione
materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod
indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis
affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro
particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt
esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis
corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa
sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et
etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut
dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima,
quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod
enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum
est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia,
non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod
malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia
nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori.
Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod
sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis,
universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem
affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa
potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in
genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato
quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio
sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari
affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid
affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit
ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per
signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad
veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis
negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest
aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis.
Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in
his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis
affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus
praedicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat
propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod
indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera.
Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit
negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio
potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem,
sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus,
idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista
affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per
eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi.
Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad
hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt
simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae,
homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur
secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri
ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus,
quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est
imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente
albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit
albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae,
homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit: videbitur autem
etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod
subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est;
quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod
est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant
neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est.
Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus,
nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa
hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur;
secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem
affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae
dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo primo,
manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem
fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur
quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae,
omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus
homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte
consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista,
quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua
aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa
includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in
quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod
affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid
singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter
sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio
neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi
opponitur una sola negatio. [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12
n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per
exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus,
haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si
vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita,
sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae
est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae
est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum
affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi,
omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est
albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando
affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod
huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria
negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non
aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale
indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur
tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. [80426]
Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod
supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita
affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita
affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc
dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur.
Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et
concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una
negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae,
aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de
subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est
etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large
contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in
his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare
autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia
scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul
esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et
ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est
vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt
contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit
quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum
est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua
aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter,
multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas
enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis
non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una
est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem,
quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit
ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno,
sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non
sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut
etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis
ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis
negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit
alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem,
quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod
est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret
unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se
multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis
singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in
uno communi. Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola
unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor
facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis
ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert
corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod
si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est
affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi
dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno
universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat
utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum
quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod
ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et
differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales
alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale
praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod
illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum
modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum
quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est
nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est,
ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et
sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una.
Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si
tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba,
aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus,
et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam
ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum
ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem,
nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo.
Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus,
et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem.
Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera
nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione
facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret
distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed
hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum
dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui
attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.
Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in
his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper
oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud
negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de
oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum
oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum
scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus
enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit
dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis
triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum
unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel
coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio
est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso
universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed
particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in
enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra
habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de
universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et
altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum
est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de
praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de
futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de
universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia
necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in
praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem
impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et
particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus.
In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus
vel praeteritis. Sed in singularibus et futuris est quaedam
dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera
oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in
singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit
vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem:
nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in
futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen
Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad
singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel
repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc
igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus
de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum
sit vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc.,
probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat
propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia
quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper
potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod
non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et
cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est
quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit:
quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco,
probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum
unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat
hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod
in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel
affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum
dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus
propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et
negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse
est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse
vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter
consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re.
Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod
album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare,
ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re
vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et
eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum
dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel
negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat,
sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius
rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus
et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans
determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit
esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera,
necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod
omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium
excluditur. Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a
casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis
se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione.
Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute,
quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium
esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae
permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae
contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive
in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad
utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata:
quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis
determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel
non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet
forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in
II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet
propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet,
licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad
utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad
alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non
erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa
hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate
sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et
sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet,
similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum
quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse
contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale
contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit
vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est
in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod
est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est
in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte. Deinde cum dicit:
amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam
dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et
falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de
praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti.
Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo
primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit
album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante
unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit
verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est
verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest
hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista
duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam
hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur
verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin
illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat
cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem
significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur.
Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex
quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia
illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc
autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod
omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.
Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur
aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem
aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo
quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen
aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic
sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet
esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo,
aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae
tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed
mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam
certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non
magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo
potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non
sit. Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas
non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo,
proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus
alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non
utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo,
ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum
prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex
definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel
non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel
non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio
sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est
falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio
erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est
impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam
rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum
est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod
aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de
praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo
vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae
sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi;
ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia
inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit
ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia
sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut
in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed
omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo
inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari:
probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex
necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse.
Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter
aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt
superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non
operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea
intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis
finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum
dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur
ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta
inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem
inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et
cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando
nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc
aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur,
alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit;
ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in
omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at
vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non
ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno
affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se
habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim
propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel
non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum,
sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod
nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante
quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat
veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere
diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse
sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic
se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat
per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non
futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal
rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici,
scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc
dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea
quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et
accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in
praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.
Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta
esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia;
ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo,
ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et
quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse
impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse
principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et
in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si
removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia
philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis,
nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines
alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia.
Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium
futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et
facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui
actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali
instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile
est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et
sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex
necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc.,
ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus
naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse
et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod
non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est
album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album
permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit
etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est
in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et
non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit
propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est
quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte
agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile
est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra
probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem
contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam
exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque
possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter
concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in
potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed
eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem
quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in
pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit
vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Est autem
considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et
necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea
secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam
erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit,
quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora
prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi
quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile
vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur
esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid
est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est
necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori
et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet
impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et
ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur
illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse;
impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod
ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad
alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad
utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est
sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque
oppositorum. Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in
corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et
non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa
ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde
dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur,
non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae
activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit
determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex
necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur
quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus
naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam
dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione
causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa
autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit,
multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis;
et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem
solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum
assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud
quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie
non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse
musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse
musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter
etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum
poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius
effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis
lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Si autem
utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia
ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset
effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus)
reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam,
quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita,
necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad
ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad
bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa,
necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit
utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt
autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid
per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se.
Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum
accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens
alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est
per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod
per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens
non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum
per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius
provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium
corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim
positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus
quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se
et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive
ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut
probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus
seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis
potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum
sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium
corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem
hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum
differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad
intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur
viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non
inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas
concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum.
Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae
per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus
effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id
autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam
virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per
accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est
una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus
dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in
corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia
scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum
se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum,
cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter
agentem. Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab
intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se
non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo
format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per
accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem;
sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis
quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se
intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi
occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo
aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit
omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso
quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod
est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid
cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest
eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit
evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non
potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.
Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et
operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum
tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte
cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae
secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub
ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra
ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam
secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in
magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si
ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub
ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et
subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad
ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos
eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si
autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa
turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in
via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo
praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter
perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non
cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque
eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem
sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem
sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem
sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est.
Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia
quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt
ex necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes
deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel
necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut
a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc
autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis
alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet
quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed
necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus
eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem
contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi,
aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex
necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non
potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur
bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi
videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex
necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium
et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis
differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam
verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex
necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed
per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa,
principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum.
Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit
ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa
principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate
assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem
quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile,
sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex
necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt
esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae
comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum
in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non
posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad
haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in
his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt
ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt
determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem
dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit,
quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit
esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis
impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim
argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam
removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso,
primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se
habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et
necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa
eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio
est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si
praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant,
oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est
esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et
haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et
non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo
necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod
est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est,
impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem
significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse
quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando
non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non
potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et
omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne
ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate;
nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem
absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse;
quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate
non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra
dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod
etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum. Deinde cum
dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et
necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem
ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod
non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia
necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute
fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod
sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et
haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est
contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque
non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum
accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum:
quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est
necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium
non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est
quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad
necessitatem quae est sub disiunctione. Deinde cum dicit: quare quoniam
etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa
orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate
orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit
veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo
primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut
et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est
vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut
sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum
qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus,
ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio
enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa
determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars
contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in
pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est
etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod
non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet
veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt,
sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum
est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum
et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse.
Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt
autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur
vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba;
secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione
affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam.
Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat
enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel
praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid
additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero
determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones
enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi;
ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum
quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem
enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis
dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat
enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo,
ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi:
at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat
de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed
etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera.
Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima
est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes
distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest
esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit
ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad
dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum.
Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam
formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat
negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam
uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde
sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid,
idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est
unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde
cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex
est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et
verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc
sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et
negare, ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: praeter verbum etc.,
ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum
est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest
enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur
loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni
infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum
constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per
se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen
infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio
illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non
accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc
quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in
enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur
veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel
ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito,
non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo
habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus
verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum,
quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si
dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est
praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo
subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter
positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus
subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus
nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non
potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare
de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale
subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non
universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae
posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis
temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est
eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus
distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex
parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus
nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati.
Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo,
manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero
contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus
in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in
quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit
autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam
ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus
subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus
subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent
etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem
habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo,
proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit
earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio,
exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem
et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc
quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum
est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut
cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam
quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi
principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad
connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est
intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat
ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut
adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium
praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum
nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas
partes et non in tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod
dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur,
dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in
praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti,
secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen
finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo,
non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas
oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati,
quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est
iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo
non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae
particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis. Deinde cum
dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium
adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet,
scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest
enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est
tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi,
dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit,
vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur
nomen vel verbum. Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit
numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit
earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri
explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia
duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis
oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor
enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto
finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc.,
ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae
dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum
consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco
habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et
obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. Ad cuius
evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in
huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum
quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa,
scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices.
Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae
aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur
infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam
sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae
dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes
earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se
habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet
haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero
affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato,
sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed
duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non
homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et
hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad
illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram.
Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et
cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur
in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in
praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non
loquitur. Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes
quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam
speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae
affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non
est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem
affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum
privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato.
Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem
affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim,
homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est
simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit
enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt
disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex
his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito
vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius
evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute
se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere
praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia
illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter
haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum
quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum
loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa
infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici
de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo
iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed
etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo
iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex
est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam
homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est
in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest
dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam
affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum
habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de
aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex
in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest
dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo.
Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod
non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum
iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici
quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus,
qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae. His
igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum,
scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae,
se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una
est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo
consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet,
sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur
(eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam
sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut
simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non
convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam,
quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in
consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.
Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus,
scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex
una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa
privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa
simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in
minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se
habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad
infinitas. Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter
exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera
philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu
diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo
habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu
infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est
expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur
similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas.
Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet
affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum
consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam
sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa
infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero,
scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut
scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur
negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut
infinitae. Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam
quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes:
loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum
praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta
secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod
adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum
negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni
autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est.
Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet
duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra
dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in
supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim
quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo
est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est
iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non
iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum
est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc
diversificantur quatuor enunciationes. Ultimo autem concludit quod
praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout
dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem,
quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco
homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et
non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus
quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur
ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in
quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro,
quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit
sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut
ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice:
“You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call
him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even
non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus,
Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando infirmus
signat infirmitas -- tomismo, segno, segnante, segnato. Aquino, why Aquino is
hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool
Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774003435/in/dateposted-public/
Grice e Centofanti – filosofia italica, no
romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Calci). Filosofo.
Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany
– dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his
philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter
mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he
hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the
Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian
philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his
history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti
dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the
duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa.
Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”;
“La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana,
Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e
le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia
della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa);
“Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri”
(Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia
– noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia”
(Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della
nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano”
(Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo
in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso
storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo
diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di
Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La
letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli;
“Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degli italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e
sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a Crotone
che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa
pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e
vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza
delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce
a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde:
a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine
liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma i romani (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re Numa escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si
calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo
d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I giovani crotoniati lo riveggono
stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima
dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil
morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento
solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo pitagorismo, o,
per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente
desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno
intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura
si move ad escogitarne l’essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario
e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della
società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci
dano occasioni e larga materia alle congetture, alle ipotesi, ed ai
fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi politici accrebbero la
selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli storici era già tardi, e il
maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e
non senza gran difficoltà potevasi oggi mai separare il vero dal falso con
pienezza di critica. Poi vennero le imposture delle dottrine apocrife, il
sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se
il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento
scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla
posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per
trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore. Basta mostrare la
natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe
alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. La società pitagorica
fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i
maschi. La speculazione scientifica non impede l’azione e la moralità conduce
alla scienza. Ragione ed autorità sono cosi bene contemperate negli ordini
della disciplina che avesse a derivarne il più felice effetto all’ammaestrato
[tutee]. Tutto poi conchiude in una idea religiosa, principio organico di vita
solidaria, e cima di perfezione a quella setta filosofica. Condizione prima ad
entrarvi e l’ottima o buona disposizione dell’animo. Pitagora, come nota Gellio
(Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando
la conformazione ed espressione del volto e da ogni esterna dimostrazione
argomentando l’indole dell’uomo interiore. Ai quali argomenti aggiunge le
fedeli informazioni che avesse avuto. Se il giovinetto presto impara, verso
quale cose ha propensione, se modesto, se veemento, se ambizioso, se liberali,
ecc. E ricevuto, comincia la sua prova; vero noviziato in questo collegio italico.
Voluttà, superbia, avarizia bisogna imparare a vincere con magnanimità austera
e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non
dure, ti fa freddo al sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o
ti rende impuro a goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista
codardo, un ignobile schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e
lo spirito. Breve il riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non
godute, a meglio esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla
futura trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello
che procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli
altri ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande
cavillosa, la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno
prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto
e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare
sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la
compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di
Bruckero (Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips.). Chi recalcitra
ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo
è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente
desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole
espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata
a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a
disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione
favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico,
perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”,
dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut
cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón
te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII,
21) consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito
a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των
φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo
abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della
vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo
fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si
dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato
con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di
ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo
magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità.
Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero
dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa
o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si
lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma
all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della
cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi
per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara,
finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata
non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo
e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere
intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di
quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per
anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro
senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso
e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che
così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse
dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè
nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo
attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di
grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione
valeret auctoritas” (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe
detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal
quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come,
secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e
adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella
assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture,
accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel
precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con
più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo
dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per
due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella
vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la
baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non
diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione
sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il
giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado
questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E
allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante,
discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla,
ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento
quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso
ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto,
non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte
uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma
qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere
religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla
classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più
simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata
la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco,
condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente
ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la
geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo
intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario
attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero
l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione
filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di
perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per
eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno
seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando
quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia;
gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’
pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi
il venerabile, etc. Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo
doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa
confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico,
probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII,
etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio
comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser
desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa
parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente
decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una
all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa
come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della
natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al
concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto
a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il
con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia
argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al
corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane,
miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile
negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a
due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa
imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al
quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo
imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo
chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi
canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e
diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua
vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola
ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso
dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza
di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte
del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune
piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν,
την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc
vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str.,
1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica
secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo
vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo
conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella
esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di
atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e
contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale
anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e
singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria
a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una
sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo
ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata
dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e
materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito,
popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo
parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità
col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla
varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento
nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella
civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta
diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi
quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente
riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di
Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in
due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune
condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina.
Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a
rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda
alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con
la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione
ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea
storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese
dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e
fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce.
Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del
mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra
essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità
che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che
precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora
(o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri
si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli
estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria.
Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di
questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia,
alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un
rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla
filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del
filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera
della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale.
Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita
longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi
non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa
nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un
autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro
filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con
quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce
implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa
greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate
reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS
ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per la
Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di
Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare
storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la
sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle
parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21).
Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a
suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di
sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla
concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a
quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e
maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in
senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis
opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam
quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula
rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico
nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento
istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il
quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità
non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui
alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore
etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma
per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio,
pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una
più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria
partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di
lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II )
conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo
iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri
filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o
molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie della
vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella Vita
di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in
libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας”)
quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana (“èv toiS TAVT
atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo,
aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis” -- zúov;
che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione
latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono obiettivamente
divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune principio. Il
Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica
che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano (Hist. de la
phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro
Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit., 19) ci
lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά
πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei
vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana
di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica)
tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento
organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato.
L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la
prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e
la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto
intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in
Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno
nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa
velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta
occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra.
Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico
testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica
dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta
per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca
che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione
puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più alta
e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia anche
nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e di
perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e l'avvera
nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo l'idea di
questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società
religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato.
Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata
con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far
distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le
condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che scientificamente
e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci
sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente confermano
il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici: l’uomo esser
bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile al
nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice la verità:
i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver
fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte
e radice della natura sempiterna. Alcuni videro in questa tetratti il
tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro,
altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da
Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali
riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento
pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως
ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem
perennis naturae radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio
sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento
pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla
duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s.
20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo
genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o
filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli
ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi
anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e
determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è
sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno
altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini,
capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le
greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa
cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand'
opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le
acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo
proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e
instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il
tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella
costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee
correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui
esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane
nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora
ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana
eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella
sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per
rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella
vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime
congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà
furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più
addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario
fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo
con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il
quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio,
che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni.
Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre
difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e
famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa
debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si
discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi
quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per
alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma
simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano
sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra
diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il
mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino
alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale;
fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e
dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo
processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e
riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo
lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e
diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva
formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si
vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli
uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni
intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal
nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in
quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la
storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma
attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che
sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e
il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano
ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a
intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo
facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più
devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi
scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono
di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria
spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra
cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a
Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se
altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico.
Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna
in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in
balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà
opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una
scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi
accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS
ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune.
Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al
disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù,
Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες
το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è
creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è
ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue
istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora?
Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις
Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo
pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni
getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e
connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la
testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e
generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti,
incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e
la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima;
conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre
attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina
pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo,
favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa
all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito
pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma
primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la
verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali
si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il
Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma
dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo
lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti
i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con
legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo
la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola
pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci
generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro
lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in
Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a
maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che
i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora,
senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne
tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno
accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e
le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già
opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d'
Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di
Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini
legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento
a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide
istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro
il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche
anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con
giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio
che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io
veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e
quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente
introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal),
congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole
di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il
sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo
un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V.
P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare
anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra
occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti
nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi
questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non
solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui
perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall'
Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono
esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al
curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all '
incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà
sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa
-- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea
non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé
gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li
curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del
comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse
l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum
gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII;
Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale
saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio
eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede
questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la
civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica
di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra
filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min.
ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella
studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte
le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo
presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una
disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo
le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia,
ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda
vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi
e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più
razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il
Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa
notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la
formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini
legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva
la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non
osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e
ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi
nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo
gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea
pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole
sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al
nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine
jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo
nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo
per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni.
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea,
fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo
della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e
di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la
concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste
sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina
jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità
cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle
misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare
un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi,
fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni
non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di
Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza
ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella
storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita
pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime
sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi
di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto
disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida
contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità
suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel
sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem
psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam
sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis
illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., p. 339. Prodigiosi
effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i
fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora.
Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella
filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e
degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si
diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa
antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei
miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione
con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare
questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar
feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi
l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma
attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e
nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della
scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali
carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di
un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli
gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre
meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali
cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le
leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa
sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte
le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora
in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V.
P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas...
venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs
viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII,
16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con
altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus.
Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus
auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche
congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando
romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e
contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave
vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella
costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva,
dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero
nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla
formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe
continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria.
Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una
religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo
ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio
simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le
pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi
Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella
Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto
etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il
Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e
credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi
potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli
dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio
questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e
le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia
col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non
recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno
quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di
colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano
gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a
pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose,
ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i
sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi,
i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra
idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco,
in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine
Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.:
pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana,
ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico
-- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a
Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente
discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine
ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita
sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema
indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio
Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che
intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca,
che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo
con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse
spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la
via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola
orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri
abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I
Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il
quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle
Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e
d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di
boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena
d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in
questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche
gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola
pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati
in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di
vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native,
o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi
elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di
un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli
elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua
instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno
storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci
siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem
pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed
egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle
egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle
idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è
chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora
nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29;
Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla
de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum,
ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et
diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae
praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas
esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου
καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per
isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo
sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit.
Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la
teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol
1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la
instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee,
alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de'
popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a
Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle
consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che
se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le
parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di
cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio
alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e
congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura
umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già
ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata
grandezza. Questa è la con clusione grande che ci risulta dai
preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi
nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause
che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad
esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c.
V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse
eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che,
achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle
terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute,
repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni
pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e
lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori
tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi
della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione:
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia,
ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e
ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell '
Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del
mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata
ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche
verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti
e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto
pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero
iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già
contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e
continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono !
Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all
' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le
parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo
d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per
fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo
come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La
disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e
procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e
secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana
persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità
par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la
fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con
pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le
fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai
abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa
idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.,
XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi
glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla
generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e
governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.
XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice
Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a
tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere:
ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini
maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero
mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver
senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza.
L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la
dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di
tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però
restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio
delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in
quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero
consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di
una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè
comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a
bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste
parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον
ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri
unum (Str., IV, 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i
pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè
perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di
credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che
ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte
principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della
istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse
essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di
educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla
società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un
legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al
cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve
anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città
alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile
partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della
natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno
promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò
talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti
com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura
ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi
ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo
scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo
politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti
del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una
specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con
larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava
in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei
suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà
parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora,
infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore
dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che
aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea
ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse
recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli
attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la
ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti
storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand'
uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità
degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non
avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono
sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il
sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza
altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo,
che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la
speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un
supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia
pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella
musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella
politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e
argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora
scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza
mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una
scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema
dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale,
alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e
di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno
coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον
TÒ Év. De Ei apud Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal
mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa
prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il
numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e
possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento
e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme
ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade
esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e
insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose
abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che
ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà
individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una
necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio
dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e
convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del
numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina,
e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica,
e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna
ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano
tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della
scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale
nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica,
in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica
universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime
cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io
credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale
Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone
della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi
nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico
che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo
è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente
profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da
Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con
quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero
essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin
cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a
principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le
cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si
vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle
matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè
considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano
la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E
cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna
cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una
perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se
stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente
e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose
essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce
ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da
ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome
che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p.
48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per
rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a
penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου
κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del
punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica
generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella
metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò
bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono
l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di
atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo
seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del
numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le
anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono
nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare
delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto
l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi
ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore
principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione
dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam
detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di
Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente
attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità
straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio
arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le
maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne,
non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui
osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte
bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea
venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων
τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem
appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero
ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.,
VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee
religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla
Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo
volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e
di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui
buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima
ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia
discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste
parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano
spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua
istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie
distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi,
alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e
beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or
chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per
rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi
propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice
delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al
popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a
sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non
mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono
trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone
de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni
teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza
della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis
natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia fisica era
altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai
libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è
concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da
Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L. 1, c. 1,
4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri; XIII, 13.
Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il
fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di
severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la
società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa
ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che
sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica
delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli
studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non
vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i
pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella
religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti
gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata
dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non
contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita
con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca
la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose,
che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse
cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo
interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come
il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione
pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio
giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo
trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo
che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo
i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal
concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello
dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de'
suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto
segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin
ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica.
Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli
bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con
profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici,
essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano
non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per
sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la
Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano
cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle
menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della
sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni,
fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore
importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le
volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori
nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla
quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte
quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene
continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è
imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e
dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il
tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano
tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato
l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico,
potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema
organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse
prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di
discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni
desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le
une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le
classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o
convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in
tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia,
disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo,
indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti
ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea
sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo
verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero
adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello,
la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e
aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa
pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso,
promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto
larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi
erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima
formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si
debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono
esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima
forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto
il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in
questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che
in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli,
fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la
politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano
avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici,
ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a
raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva
fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in
quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni?
O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni
legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro
consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione
mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro
dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose
non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche
le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero
degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a
tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più
pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il
segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette
inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto
difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di
Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle
opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di
questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il
popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi
motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all'
apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e
ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero.
Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in
opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e
miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli
cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara
proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e
diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli:
parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi
una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea
coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio
migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste
ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la
necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa
disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per
cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le
varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto.
-- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et
accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo
averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche
per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo -
pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al
Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso,
quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita
gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e
in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come
potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita
del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e
non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle
profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio
con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po'
lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti
più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto
solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non
hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia
che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro
necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di
fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti
trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi
quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico:
infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma
dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità
degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte
norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e
massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i
piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento
loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu
strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di
primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura.
I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a
meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi
alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto
giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose
e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa,
la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda
iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed
erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto
delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito,
la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una
debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i
cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà
cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi
che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina
psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con
l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante
per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori
della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava
testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi
psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di
Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma
nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è
l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La
psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta
deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle
anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive
Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav,
äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora)
sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari
animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma
che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non
vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da
principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che
le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima,
fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di
queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi,
non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone
ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo
l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in
nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici
della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una
forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima,
ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, VIII, 15, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199,
da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo
ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον
δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin
guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a
farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica
non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti
coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni
loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il
principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano
lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il
deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato
alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di
formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di
usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora,
ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no
zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni
mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la
critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu
strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla
verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare
da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo
segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le
ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora
anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo
studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie
condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò
dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di
Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di
quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo
argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare
davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė
mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma
leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile
risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò
il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel
mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè
il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in
gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un
processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa
dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi
in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la
maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col
Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza,
che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica,
quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda:
forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi
recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a
Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi
viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha
gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti
elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può
argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto
imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la
filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta
alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla
natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non
sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi
sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono
il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque
natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un
fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di
tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente
ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o
professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il
secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed
accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i
loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose
pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali
che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui
mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed
imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle
cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo
amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente
profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là
egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare
il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e
corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi
limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di
tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza
propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita
seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e
con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro
i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras)
scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse
(VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo.
Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento,
non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore
fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei
seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce,
in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose
mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e
scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor
rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta.
I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni
ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo.
Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le
vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto
fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a
felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi
insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e
Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici
antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di
Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone
che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa
pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e
vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle
ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a
grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a
Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine
liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si
calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d'
Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti
e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e
malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte.
Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un
intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al
nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga
materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le
passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni.
Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle
anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi
oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le
imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore
di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu
fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta
di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle
arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in
errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a
perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La
speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla
scienza; e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini
della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli
ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico
di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione
prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora,
come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes
Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da
ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali
argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti
presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se
veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia
bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il
piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai
sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle.
Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè.
Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo:
semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar
l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le
anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede
dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne
restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose,
questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni
giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il
disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i
ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le
squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti
vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril.
phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato,
accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è
alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente
desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione
del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni ordinata a
felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un pitagorico
era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il resto,
esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale
dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell'idea;
cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis sodalium
facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc. (Excerpt.
Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv fysiofai",
"proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona
al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il detto attribuito a Pitagora
da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose, "κοινά τα των
φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide, i corporali
gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre punti
cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E
però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti
centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e
l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè
l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con
leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa
fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola,
s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè
spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che
presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a
fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la
presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione
radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le
vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne
abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non
bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e
sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono
essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde
l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita
esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza,
ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti
erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione
assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e
insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso
ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive
Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai
discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave
disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione
valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto
Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse
ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" --
come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di
*sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo
appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche
alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e
dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza
il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea
conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du,
tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità
del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la
baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa nell'esterno
discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro
se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo proprio col quale
poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto ed il santo.
Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado questa
difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del senno
pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine stabilito? E
allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini discepoli, o
familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi impotenti a
continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi i loro
beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei
candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini
morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners.
All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon
governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma
i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e
seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio
austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa
cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro,
potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche
apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo
intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari
attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle
cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica
otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto
e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza
uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel
genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i
più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e
a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo
quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi
la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai
gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con
gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V.
P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la
casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che
sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere
nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne'
due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine
con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a
metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce
animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li
disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse eccitamento
all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da
fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I
maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a
divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso, alla
lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed
acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili
negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a
due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose
im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun
pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii
lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali:
e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E
prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante
fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali
alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri
i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio,
rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero
le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente
si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche
storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente
Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos?
ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud
ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini,
questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via
formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate
ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella
dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella
feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col
mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così
il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la
sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare
dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era
necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e
quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa
bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa
essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità
degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si
consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto,
quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una
certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima
cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia;
e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal
quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui
quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro
apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia
moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi
con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora,
vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee
principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli
uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una
sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel
nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica,
ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che
sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta,
Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer
tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi senz'ombra pure
di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica
instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi
risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni
risultando dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità
molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto
della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia
contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un
ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un
personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato
senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il
contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che
Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte
le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla
sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare
anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che
venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse
assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia,
sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi
conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe
di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini
razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza
istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo
della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le
orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e
con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di
Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle
barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima
intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων
) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa
viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed
Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più
che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e
scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la
cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino
(Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice
erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente,
la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa.
Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di
Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra
conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una
filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam
praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque
vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes Perspexit
facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia secla.
Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id.,
30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci dispiaccia di
ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo nome appellato
perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo Pitio. Diog.
Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non per accettare la
convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con quello scientifico
dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il nome di Pitagora era
anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana
virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità fonda vasi
l'opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato
da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i Crotoniati
lo appellavano Apollo iperboreo. Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e
tutti gli altri scrittori meno antichi, i quali peraltro ripetevano una
tradizione primitiva, o molto antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore,
innanzi alla cui autorità volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa
sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era que sto:
tre essere le forme o specie della vita razionale, Dio, ľ uomo e
Pitagora. Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers.
Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (èv τοίς
περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod huiusmodi divisio αυiris illis inter
praecipua urcana (èv toiS TAVT atroppñtois) servata sit: animalium rationalium
aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice
animalium, ma animantis, Súov; che è notabile differenza: perchè, laddove le
tre vite razionali nella traduzione latina sono obiettiva mente divise, nel
greco sono distinte e insieme recate ad un comune prin cipio. Il Ritter,
seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che
pure è contenuta in queste parole, né la ragione del l'arcano (Hist. de la
phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro
Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit., 19) ci
lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα
παρά πάσιν") era anche questa: και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ
dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature animate debbonsi repu tare
omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente Pitagora;
la natura media tra quella puramente umana e quella divina: idea demonica,
probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento organico
dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati: l'altro
dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima
sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che risguardava oggetti
sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta, per ciò che
risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse esser nota
nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si
fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei
Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e con qual
proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle
essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa
contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre
dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si
ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità
recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora
essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e
l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e
perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia
anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di
perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e
l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua
società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome
vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del
fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far distinzione
da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni
storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e
storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci
sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e mirabilmente confermano
il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici: l'uomo esser
bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai
Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità: ei suoi
detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto
tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e
radice della natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa
sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico, il
nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due
versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit..
XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali riguardavamo toccando della
Tetratti, e che sono la formola del giuramento pitagorico: Ου μα τον αμετέρα
ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum,
qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem perennis naturae radicemque
habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico (in Theol.
Arith. ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo
spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco
felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, $ 20, p. 581. ) Noi dovevamo
governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo genere. Le
quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea
o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non
importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi
mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il criterio adunque a
potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia
parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che
l'abbiamo considerato, è sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato
di un animo e di un ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di
migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co
stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche
studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine,
apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una
sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo
ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi
intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società
religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità
e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua
scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile
reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a
guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la
stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende
testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non
solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice
del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini
storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per
meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la
civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e
le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia
di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee
storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi,
non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se
tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al
di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si
va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive,
e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato,
che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano
conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur
danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole
primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti
con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste,
indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità
comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e
significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un
fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza
importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si
debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia
che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le
sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non
era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente
proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le
cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare
che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle
supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società
pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo.
Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im
personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella
ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si
riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il
criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si
facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua
istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa
imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre
l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e
alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni.
Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il
bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila
Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più
offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero
mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina
psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli,
tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate,
all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il
mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha
conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore
dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire
le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di
Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i
costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti
ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a
civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una
specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i
principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea
aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime
col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei
piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da'
loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον
δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto
morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual
nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel
popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa
anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις
άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo -
tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle
pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino
dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il
quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza
medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché
la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen
dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale
e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando
degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di
Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa
sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. )
Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini
antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio
sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol
recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare
uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa
critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in
questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che
vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che
valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio,
a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che
ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora
comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia
l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri
schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già
occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide,
visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici
più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi,
reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi
mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze
o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le
ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o
viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una
certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di
Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola;
cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici
prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza
cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa
sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone,
di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di
alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon,
contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53;
Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire
tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni
pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti
frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero
l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti.
Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente
all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la
vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse
leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale
ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno
(allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e
pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con
l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci
italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e
quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica
confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX; Porfirio, id., 21,
dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare
Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di
queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche
e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor
gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando
esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta,
come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie
fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di
molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee
appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun
popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una
società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima
della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv.
fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre
che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e
segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita
l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6;
excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma
vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone
-- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le
leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla
familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa
il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora
intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e
della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou
bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch'
ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione
vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio
sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città:
tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la
ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre
domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti
civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate:
proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato;
esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir
riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i
banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca
cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva
Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora,
l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo
medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già
provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero
preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste
società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el
lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni
jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe
importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci
alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono
nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era
il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume
della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio
un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non
seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica
di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della
pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia
delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica
dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose
che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero
essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo
onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle
perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani
ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di
necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e
alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende
opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma
alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose
più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce
lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo
degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli
Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue
riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano
l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della
verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone
nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle
Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck
scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in
transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et
nonnunquam irridens. Aglaoph., Prodigiosi effetti della lira orfica
furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città
edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la
sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori
divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri
sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva
per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e
rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle
tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove
idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito
di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io
non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei
misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una
rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo
troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica.
Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere
l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà,
fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre
opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano
anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono
nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi
dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere
che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le
altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita
gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15;
Giamblico, V. P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone:
civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa
urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit.
VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno,
potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima
civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas
Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini
saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù
nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre,
dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi
abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo
del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen
deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.)
anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di
Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus
et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha
genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te,
Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi
piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo
col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo
rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma
recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis
Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII,
774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa
duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del
pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera
dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla
tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e
Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e
simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la
congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia,
il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con
nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci
bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui
gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli
conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica,
astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica.
Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo
nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città
celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la
di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con
seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e
la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id
dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della
terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte
politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una
scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide
analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio,
introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di
Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1.
C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia
pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il Lampredi trovò
analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi
state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena
comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici,
scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di
divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e
comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col
pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare
il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello
di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui
che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli
Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a
pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose,
ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i
sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi,
i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra
idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco,
in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine
Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.:
pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana,
ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico
-- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a
Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente
discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine
ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita
sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema
indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio
Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che
intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca,
che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo
con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse
spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la
via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola
orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri
abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I
Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il
quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle
Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e
d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di
boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena
d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in
questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche
gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola
pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati
in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di
vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native,
o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi
elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di
un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli
elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua
instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno
storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci
siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem
pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed
egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle
egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle
idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima:
e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie.
Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo,
II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi
terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii
velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu,
vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt,
in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas,
vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι'
ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di
seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato,
nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa
derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei
numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag.
296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione
famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui
applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che
avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora
gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini
volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il
sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone
che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti
e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna
Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la
sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era
l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia
negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la
con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella
quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della
prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare
la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma
l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un
disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che,
achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle
terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute,
repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni
pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e
lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori
tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi
della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento
dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una
grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge
l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai
confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi
nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento
della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum
ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur.
Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a
Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi
largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo
de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a
Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E
questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser
la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità
sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e
alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto
pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero
iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già
contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e
continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono !
Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all
' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le
parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo
d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente
disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella
donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina
adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo
quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della
superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale,
inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che
rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria
e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti
oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per
leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo
di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola
autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect., XX; Tuscul., 1, 30),
ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione
dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a
Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita
fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm. XCIX. – Dicearco,
ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso
Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della
vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si
formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero
dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle
consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani,
gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da
doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di
bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine.
— Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a
tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria
disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e
difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per
nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la
vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti
nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano
sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità.
Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς
oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,....
oportere hominem quoque fieri unum (Str., IV, 23.). Imperocchè fin dalla loro
prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a
questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia
venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa
è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e
che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più
alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si
dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di
educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla
società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un
legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al
cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve
anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città
alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile
partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della
natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore.
Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non
conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise
in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e
le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede
leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo,
venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa
società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello
almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma
essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a
generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe
dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione
miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma
di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino
dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla
vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de'
singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia
tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella
società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime
intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui
disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe
spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la
pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne
risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli
necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella
quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico.
Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo
consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella
sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era
libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che
fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che
egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia,
nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si
potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè
ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o
genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da
quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do
mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi
col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come
a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non
potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro
di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud
Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la
una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e
sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e
il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili
combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione
del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in
quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con
queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo
eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento
ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco
effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al
processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e
governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser
di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato
armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella
materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si
moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra
loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che
se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono
ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano
con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica,
nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e
l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile;
un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina
sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale
e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta
la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica
fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino
dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi
eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l '
indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i
sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5)
sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto
Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente
contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella
filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio
scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che
esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole
ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle
matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè
considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano
la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E
cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna
cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una
perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se
stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente
e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose
essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce
ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da
ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome
che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p.
48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per
rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a
penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου
κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del
punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica
generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella
metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò
bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono
l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di
atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo
seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del
numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le
anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono
nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare
delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto
l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi
ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio
in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà,
la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente
si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte
superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le
quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo,
ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e
nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap
parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci
renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui
osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte
bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων
τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem
appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero
ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.,
VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee
religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla
Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo
volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e
di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui
buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima
ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia
discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste
parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano
spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua
istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie
distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi,
alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e
beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or
chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per
rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi
propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice
delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al
popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a
sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non
mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono
trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni
teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza
della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis
natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia fisica era
altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai
libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è
concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da
Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L. 1, c. 1,
4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri; XIII, 13.
Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il
fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di
severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la
società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa
ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che
sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica
delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli
studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non
vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i
pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella
religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti
gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata
dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non
contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita
con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca
la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose,
che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse
cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo
interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come
il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione
pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio
giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo
trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo
che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo
i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal
concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello
dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de'
suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto
segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin
ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica.
Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli
bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con
profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici,
essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano
non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per
sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la
Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano
cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle
menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della
sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni,
fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore
importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le
volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori
nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla
quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte
quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene
continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è
imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e
dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il
tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano
tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato
l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo
pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto
il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa
dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di
discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni
desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le
une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le
classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o
convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in
tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia,
disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo,
indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti
ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea
sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo
verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero
adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello,
la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e
aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa
pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso,
promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto
larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi
erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima
formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si
debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono
esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima
forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto
il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in
questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che
in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli,
fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la
politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano
avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici,
ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a
raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva
fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in
quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni?
O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni
legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione?
Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non
discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine,
filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non
corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le
idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero
degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a
tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più
pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il
segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette
inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto
difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di
Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle
opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di
questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il
popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi
motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all'
apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e
ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero.
Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in
opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e
miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli
cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara
proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e
diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli:
parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi
una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea
coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio
migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste
ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la
necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa
disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per
cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le
varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto.
-- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et
accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo
averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche
per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo -
pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al
Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso,
quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita
gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e
in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come
potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita
del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e
non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle
profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio
con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po'
lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti
più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto
solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non
hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia
che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro
necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di
fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti
trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi
quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico:
infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma
dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità
degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte
norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e
massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i
piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento
loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu
strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di
primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura.
I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a
meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi
alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto
giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose
e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa,
la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda
iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed
erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto
delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito,
la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una
debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i
cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica,
ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero
essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di
Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè
torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca
come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e
quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari.
Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi
le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente
unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e
studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse,
quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in
questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che
comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu
favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide,
stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro
pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri
concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide
pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il
che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità
miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la
sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica
essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi
doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole
a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον
απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5,
VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum
necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi
fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse
cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con
questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la
morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao,
quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di
Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb'
essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè,
ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al
primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza
avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo
tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita
cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza
maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che
molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, VIII, 15, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199,
da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo
ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον
δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin
guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a
farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica
non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti
coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni
loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il
principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano
lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il
deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato
alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di
formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di
usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza,
che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica,
quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda:
forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata
ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti
elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può
argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto
imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la
filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta
alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla
natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non
sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi
sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono
il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque
natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un
fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di
tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente
ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o
professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il
secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed
accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i
loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose
pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali
che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui
mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed
imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle
cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo
amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente
profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là
egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare
il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni,
e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi limiti
bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i
paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e
formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere
nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre
sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i
Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non
lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è
argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un
valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide)
nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in
luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte
le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a
degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la
società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli
disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina,
professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo
il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano
corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e
danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio,
e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con
pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide,
Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i
pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno
della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII
Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al
primo anno della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C.
Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal
l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma,
la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli
scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città.
" * Fra le varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori
l'oscurità della prima storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de'
Galli, nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il
Beaufort, e a' di nostri più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma,
quali le narrano Livio e Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello
che può dirsi in generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser
favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era
uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su questo
argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia stato
fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi.
Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti
che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor
narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come
quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj;
tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i
quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide
scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore
anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la
storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso
più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri
ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea
PLUTARCO. - 1. 5 50 ROMOLO. Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere
andati va gando per la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior
parte degli uomini, si misero poi ad abitare ivi, e che dal lor valore
nell'armi diedero il nome alla città.? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia,
alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi
in Etruria ed approdassero alle foci del Tevere, dove, es sendo le donne loro
già costernate e perplesse, e mal tolle rar potendo più il mare, una di esse,
che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su
perar tutte le altre, abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi.
Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi
per necessità collocati d'intorno al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo
la cosa meglio assai che non avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità
del luogo, e bene accolti ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che
fecero a Roma, denominarono la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si
edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi conservato il costu me che
hanno le donne, di baciar nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè
anche quelle, quand' ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste
amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la
collera. Altri poi affermano, Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di
Roma dalla sua origine, e ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che
una volta e per dissentirne; ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda
con lui. Costoro invasero la Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che
almen 1800 anni prima dell'era nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche
in Italia. a Poichè fafen significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide
sovrannomato Lembo, contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere
l'originale ha Tirrenia e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto
intorno a Crotone, presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla
fondazione di Roma appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi
d'Alicarnasso (St., l. I ). Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le
donne che le abbruciarono, prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte
Palatino fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno
Antioco siracusano, vissuto un secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo
tempo prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma. Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo
d'Ercole, ad Enea spo sata, ed altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver
po sto il nome alla città; altri aver la città fondata Romano, figliuolo di
Ulisse e di Circe; altri Romo di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia;
altri quel Romo signor dei Latini, il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da
Tessaglia in Lidia, da Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta
ragione sostengono che fu alla città questa denomina zione data da Romolo,
concordi sono intorno alla di lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli
figliuoio fu di Enea e di Dessitea di Forbante, ed ancora bambino fu portato in
Italia insieme con Romo fratello suo, e che, periti essendo. gli altri schifi
per l'escrescenza del fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello,
in cui erano i fanciulli, essi, fuor di speranza, restaron salvi, e da essi fu
poi la città appellata Roma. Alcuni pretendono che Roma, figliuola di quella
Troiana sposata a Latino di Telemaco, partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne
sia stata madre Emilia, fi gliuola di Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte;
" e al cuni finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione,
dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e
crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che,
sollevandosi un membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per
molti giorni, e, ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo
recata risposta a Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel
fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed
insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto
vaticinio ad una delle sue figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima
lezione, meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3
Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più
diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel primo delle sue Storie, reca i nomi de'
greci e de' romani autori, i quali tennero queste sentenze diverse in. torno
all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora,
Dionisio calcidese, Antioco siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono
frequentissime nella storia de' secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da'
Romani Carmente, a cagione appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide
mai non s'intese parlare. 6 2 ROMOLO. con quel mostro, dicono ch'essa non degnò
di cið fare, ma in sua vece mandovvi una fante; che Tarchezio, come seppe la
cosa, gravemente crucciatosi, le fece prender ambedue per farle morire; ma che
poi egli, avendo in sogno veduta Vesta, 4 che gliene vietò l'uccisione, diede a
tessere alle fanciulle imprigionate una certa tela, con questa condizione di
dar loro marito, quando avesser finito di tesserla; che quelle però andavano
tessendo di giorno, ma che altre per ordine di Tarchezio ne disfacevano il
lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti due gemelli, Tarchezio li diede
ad un certo Terazio, comandandogli di toglier loro la vita; che co stui,
avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava poi frequentemente a porger
loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando minuti cibi, ne imboccayano i
bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e meravigliandosene, prese
ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che finalmente essi, in tal
maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose
sono state scritte da un certo Promatione, che compild la Storia Italiana. II.
Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj, è
quello, le di cui particolarità principali furono la prima volta pubblicate
fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio
Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per ispe dir la cosa in
poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che nacquero in Alba
discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento erasi fallo
vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla guerra di
Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali di
Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in moltissimi luoghi
lo prese a guida. 4 Fabio, che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui
l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore,
aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis;
pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da
Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri storici, e il
diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna
corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi
furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio, sono
311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso
Roma. ROMOLO. 53 pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio.
Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto
al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno.
Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva
Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla
figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai
sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri
Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge
alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio,
Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa
in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona,
acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due
bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo
ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni
dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma
quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in
una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir
giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la
riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente
dall'inondazione la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale
ora chiaman Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè
chiamavan Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico, il
quale appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte,
o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. •
Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome
Egesto (Dione, 1. 1 ). 3 Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser
caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice
Festo. Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno lla
fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale calcolò l'uno e l'altro (anzi
calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo
Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente. 5*
54 ROMOLO. zogiorno bestiami che ruminano, o piuttosto per essersi ivi al
lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e
Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del nutrimento
degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino, º facendo libamenti di latte.
A'due bambini, che quivi giacevano, scrivon gli storici, che stava a canto una
lupa che gli allattava, ed un picchio, che unitamente ad essa era di loro
nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini
hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a colei,
che quei bambini avea parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella
affermava d'averli par toriti da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse
per inganno fattole, stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere
armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice, per essere
un vocabolo ambiguo, abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto
favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale
specie, ma le femmine ancora che si prostituiscono: e vo gliono che di tal
carattere fosse la moglie di quel Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per
altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel
mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella
festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la
chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato
anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si
era fatta Cunina, divinità che proteggeva i fan ciulli in culla. 13 La
conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i
casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola
straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro
istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que'
primi tempi copersero col velo della religione i loro errori. 5 Coloro che
accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere
la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di
questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo d’apri le, l'altra ai 23
di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende che in aprile si
festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma
Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor
romano piuttosto che ad un greco. ROMOLO. 55NN zia, e, per tal cagione, il
custode del tempio di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al
Nume di giuo care a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon
presente dal Nume; e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume
stesso una lauta mensa, e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo
ciò, geltati i dadi prima pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora
volendo mantenere i patti, e pensando cosa ben giusta lo starsene alla
convenzione, allesti al Nume una cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era
giovane e bella, ma non per anche pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove
disteso avea il letto: e dopo cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per
aversela. Dicesi per verità che il Nume fu insieme colla donna, e che le impose
di andarsene sull'alba alla piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse
incontrato, sel facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in
età e di molte ricchezze, che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli,
siccome quegli, ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le
volle bene, e morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior
parte delle quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che,
essendo ella già molto celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve
in quel medesimo luogo, dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo
si chiama ora Ve labro, perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta
vano co' barchetti per quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto
chiamano velalura.?. Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che
davano qualche spettacolo, coprir facevano con tele quella strada che porta
dalla piazza al cir co, incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa
foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la
seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son
descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in
derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo: velaturam facere etiam
nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il
nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui
qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella
dedicazione del Campidoglio. Plin., 1. XIX, c. 1. Faustolo pertanto, il quale
era custode de'porci di Amulio, raccolse i bambini, senzachè persona se
n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne dicono alcuni, ciò si
fece con saputa di Numitore, ' il quale di nascosto som ministrava il
nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi fanciulli,
condotti a Gabio, apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose che
convengonsi alle persone ben nate: e scrivesi che furono chiamati Romolo e Remo
3 dalla poppa, poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che scorgevasi
nelle fattezze de’loro corpi, fin dall'infanzia diede subito a divedere nella
grandezza e nell'aria, qual fosse la di loro indole. Crescendo poscia in età
divenivano amendue animosi e virili, ed aveano un coraggio e un ardire affatto
intrepido ne' rischi più gravi. Romolo però mostrava d'essere più assennato e
di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno a’pascoli ed alle
cacciagioni ei te neva co’vicini, facendo nascere in altrui una grande estima
zione di se, che già manifestavasi nato per comandare, assai più che per
ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli eguali ed
agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed inspectori
regj, e de'go vernatori de’bestiami, considerandoli come uomini, che punto in
virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro curavano, nè del
loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non
pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche,
ma bensi i ginnasj, le cacce, i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i
ladri, il diſendere dalla violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste
cose eran essi già decantati in ogni parte. V. Essendo nata una certa
controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue speranze di ricuperare il
trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran parte l'interesse di
questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due fanciulli vennero
istituiti nelle gre che lettere, nella musica, e nelle belle arti. Furono poi
spediti a Gabio, città dei Latini e colonia d’Alba, distante circa dodici
miglia da Roma, siccome a luogo di maggior sicurezza. 3 Il greco usa sempre il
nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più a quello di Romolo.
Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo via de’be stiami agli altri
rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero loro delle percosse, li
volsero in fuga e li privarono di una gran parte della preda, curando poco l '
indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano molti mendici e molti
servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez za. Ora, essendo Romolo
intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e
versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi con Remo, che se
n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e
ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente vittoriosi quelli di
Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi
a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del fratello, ch'era uómo severo;
al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva di ottenere soddisfazione,
essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava, egli che pur gli era
fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore
fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a rilasciargli Remo, perchè
ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto, se ne tornò a casa, e
guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura, che di
grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo nel di lui aspetto il co
raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere, e si mostrava in
sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo che i fatti e le imprese
di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e soprattutto, com'è probabile,
coope- · randogli un qualche Nume, e dando unitamente direzione a principj di
cose grandi, egli, locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la
verità, interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita,
aggiungendogli fiducia e speranza, con voce mansueta e con amorevoli sguardi e
benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire: « Io » non ti
nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più » re tu, che Amulio; mentre
tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli rilascia al supplicio le
persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima esserefigliuoli di Fau
» stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due fratelli nati 58 ROMOLO. » ad
un parto; ma da che ci troviamo accusati e calunniati » appresso di te, ed in
repentaglio della vita, gran cose dir » sentiamo di noi medesimi, le quali, se
sien degne di ſede » sembra che abbia da farne giudizio l'esito del presente pe
» ricolo. Il nostro concepimento, per quel che si dice, è un » arcano: il
nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo » allattati, sono cose
stravagantissime ed affatto disconve » nienti a'bambini. Da quegli uccelli e da
quelle fiere, alle » quali fummo gittati, siamo noi stati nudriti, da una lupa
» col latte, e da un picchio con altri cibi minuti, mentre gia » cevamo in una
certa culla presso il gran fiume. Esiste an » cora la culla e si conserva con
cinte di rame, dove sono » incisi caratteri che appena più si rilevano, i quali
un giorno » forse potrebbono essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili
di riconoscimento, quando noi morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso,
e veggendo che bene corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non
iscacciò più da se quella speranza che il lusingava; ma andaya pensando come
potesse nascosamente abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che
leneasi ancora strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito ch'era
preso Re mo e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli soccorso, e
gli diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita, della quale
per lo addietro favellato non avea che in enigma, e fattone intender loro sol
quanto basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero
bassamente. Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore, di
sollecitudine pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però
sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro,
e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si
accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra
di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar
via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte
della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba
qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero
esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da'
caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito,
fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale,
essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si
tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi
ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar
menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse
volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi
figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che
con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio:
conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di
Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era
pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque
costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma
sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già
egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di
quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto:
im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui
fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne
aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati
distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava
legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le
quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche
presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo
avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 *
Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo
l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche
critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto
come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non
è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a
tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò
che sapeva aver Amulio deliberato? 60 ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso
di partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno
per sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan
tunque asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare,
fu il primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in
sospetto di favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non
debbon esser punto increduli " coloro, che osservino di quai cose ar
tefice sia la fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe
giammai a tal grado di possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche
principio divino, e da non essere riputato mai troppo grande e incredibile.
VII. Morto Amulio, e tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè
abitare in Alba, senza aver essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo.
A lui però lasciato il go verno, e renduti i convenienti onori alla madre,
delibera rono di abitare da se medesimi, edificando una città in quei luoghi,
dove da prima furon essi nudriti, essendo questo un motivo decorosissimo del
loro dispartirsi;? e, poichè unita erási a loro una quantità grande di servi e
di fuggitivi, era pur forse di necessità che o restassero privi intieramente
d'ogni potere, sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare
con essi. Imperciocchè, che quelli che abitavano in Alba, non degnassero di
ricevere in loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini,
manife stamente si mostra, principalmente da ciò che questi fecero per
procacciarsi le donne, prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro
malgrado, mentre non potean far mari taggi in altra maniera, e non già per
intenzione di recar onta, poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra
pite. In appresso, gettati i primi fondamenti della città, avendo essi
instituito a' fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro
del Nume Asileo,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco
dovuto mostrarsi un po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge
dal traduttore. Fu motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria
dell'educazione loro in que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità
con tal nome adorata, poichè fra ROMOLO. 61 ogni persona, ' senza restituire né
il servo a' padroni, né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati,
affermando che quel luogo, per oracolo d'Apollo, esser doveva inviola bile e di
sicurezza ad ognuno, sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di
uomini: imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più
di mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla
edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del
luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser
quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città: e Remo voleva che si
edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino, il qual sito per cagion
di lui fu chiamato Remonio, e Rignario presente mente si chiama. Quindi
commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio degli uccelli,
e po stisi a sedere separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e
dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma
che Romolo abbia mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando
a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli
augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole
solea rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa,
conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non
guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso
degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende
animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza
ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono
pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo, Come
fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è Plutarco:
sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice
invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò può dubitarsi
assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte Palatino in
luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il presente, ne
induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più gli altri ci
si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno sentire; ma
l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne sappiamo i
pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua discendano
da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto rari ed
insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce, non
secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi
Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per
alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi:
finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di
Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un
certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur
morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo
ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua
chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto
Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un
combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far
quell'apparato. VIII. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in
Remonia, si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria
uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano
ogni cosa, come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir
colare intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le
primizie? di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e
per natura come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità
i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto
il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia
contro l'espresso di vieto di Romolo. 4 Vocabolo greco che significa cavallo
veloce. 5 Sul monte Aventino. 6 Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli
augurj e nelle cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete
discepolo di Mercurio. 7 Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà.
di terra dal paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono
insieme ogni cosa? (chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman
anche l’ Olimpo, cioè mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la
città in guisa di cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero
di rame ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in
giro, un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli
vanno dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva
l'aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il
muro con una linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o
dietro il muro. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando
l'aratro, vi lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il
muro, eccetto le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non
potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie
e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia
stata ai ventuno d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo
il natal della patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non
sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse
conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor
patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo
giorno una certa festa pastorale, che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei
mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono
ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le
fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino (et de vicino terra
pelita solo ), a significare che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe
all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole.
Meglio sarebbe: mescolarono le va rie quantità di terra. 3 Il testo dice:
l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di
numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i
moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di
G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione
dei quadrupedi (Dion. I. 1. ) città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese,
e che fuvvi una congiunzione di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono
essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno
terzo della sesta olimpiade.? Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i
Romani ver salissimo nella storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo
anch'egli e matematico, il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a
quella scienza che spetta alla tavola astronomica, nella quale riputato era
eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e
de terminarne il giorno e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si
dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le
risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della
speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona,
da tone il tempo della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la
maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo
considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della
vita e la qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto
pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre
il primo anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il
giorno vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente
ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo,
circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il
nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè
stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il
suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine,
relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più
altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle
varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale
merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con
molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone,
che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius
Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.
ROMOLO. 63 possano riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso,
X. Fabbricata la città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed
ogni ordine era di tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione
dall'essere questi bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi
distribui il restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò
consiglieri cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli
patrizj, e senato chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa
veramente un collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono
chiamati patrizj, perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli
legittimi, o piuttosto, secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i
loro padri, la qual cosa non poteva già farsi da molti di quei primi, che
concorsi erano alla città; o, secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal
patrocinio, col qual nome chiamavano e chiamano anche presentemente la
protezione e difesa degl' inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con
Evandro, vi fosse un certo Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più
bisognose e le soccorreva, e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a
questa maniera di operare. Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi
si credesse, che Romolo cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben
giusta e conveniente, che i principali e più potenti cura si prendano de’più
deboli con sollecitudine ed amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo
gli altri a non temere i più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli
onori, ma anzi a portar loro affezione e a riputarli e chiamarli padri.
Imperciocchè fino a' nostri tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato,
chiamati son principi dagli stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani,
usando questo nome di somma dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha
mai, e lontanissimo dal poter muover invidia. Da principio adunque furono detti
solamente padri, ma poi, essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più,
detti furono padri coscritti: e cosi di questo nome si rispettabile servissi
Romolo per di slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla 66
ROMOLO. moltitudine de' plebei gli altri uomini, che poderosi erano, chiamando
questi patroni, cioè protettori, quelli clienti, cioè persone aderenti; e
insieme nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza, che per
produr fosse grandi e scambievoli obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se
medesimi in favor de' suoi clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne'
litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri
poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli
altresi, quando fos sero in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro
debiti; nė eravi legge o magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni
a testimoniar contro i clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi
di tempo, durando tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e
vile, che i magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI.
Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo
l'edificazione, come scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle
donne. Dicono alcuni che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed
inoltre per suaso da certi oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma,
nudrita e cresciuta fra le guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad
usar violenza contro i Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle,
ma trenta sole, siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che
ma ritaggi. Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la
città piena in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed
i più, essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè
sembra va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che
l'ingiuria, ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio
di alleanza e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede
mano all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che
ritrovato avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano
Conso, o si fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior
verisimiglianza, essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una
città, per così dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che
doveva eccitarle contro un si pericoloso nemico? ROMOLO. 67 chè i Romani anche
presentemente chiamano consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli
che hanno la maggior dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse
Nettuno equestre: conciossiachè questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni
altro tempo tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni
poi dicono che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben
ragionevole che l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora,
poichè fu scoperto, fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido
sacrificio, un giuoco di combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi
concorse però molta gente: ed egli sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli
ottimati, in toga purpurea. Il segno, che indicato avrebbe il tempo del
l'assalto, si era, quand'egli levatosi ripiegasse la toga, e poi se la gittasse
novamente d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui; e
subito che fu dato il segno, sguainando le spade e con gridi e con impeto
facendosi ad dosso a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole, lasciando andar
liberi i Sabini stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente
ne siano state rapite, dalle quali state sieno denominate le tribù; ma Valerio
Anziate dice, che furono cinquecento ventisette, e Giubba seicento ottantatrė
vergini, la qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè
dal non essere stata presa altra donna maritata, che Ersilia sola, la quale
servi poi loro per mediatrice di pace, si vedea ch'essi non erano venuti a
quella rapina per far ingiuria o villania, ma con intenzione soltanto di
ridurre in un sol corpo le genti, ed unirle insieme con saldissimi vin coli di
una necessaria corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con
Ostilio, uomo fra’ Romani sommamente cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e
ch'egli n'ebbe anche prole, una figliuola chiamata Prima, dall'essere stata
appunto la prima per ordine di nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò
Aollio, ' alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo
nominarono Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha
molti contradditori. XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero
Quasi volesse dire aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare.
alcuni di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà
e grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni
altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli
che la conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane
insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste
acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad
accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di
cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi
nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo:
conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua
moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie,
diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e
che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo
mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali
è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al
lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora
confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa
non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come
i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè,
quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le
donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro,
che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi
novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che
accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo
Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro,
che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa,
passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma
ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per
forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la
consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere
state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose
abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno
decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente
Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. XIIĮ. Erano i Sabini e
numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle
quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi
colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si
grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che
facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le
fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer
amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e
legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava
pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel
consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di
valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite
imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per
quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più
tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra,
e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui.
Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si
sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli
eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di
appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e,
attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non
fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad
atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime
condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi
crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se
stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto,
per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo
spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la
recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi
sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo
zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto
fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto
l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una
tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E
questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo
ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di
atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome
chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno
appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione.
L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan
dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il
capitan de' ne mici; 4 la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il
primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio
Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé
Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei,
entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si
servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di
Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i
trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio,
fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il
rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco
s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie.
Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles
delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui
appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso,
quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale.
Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati
in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero
unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono
costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino
ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui
Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta
da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi.
Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio,
mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a
motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed
eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine
Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi
Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie,
di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel
luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano
alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una
porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi
vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser
tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il
tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un,
sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno
avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro
l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando
ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia,
co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei
nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la
smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo
tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla
quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da
Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi
da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser
creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di
Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò
quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi.
Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi
mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne
parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del
Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver
letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo
sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli
diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le
battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di
morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei,
finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono
trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che
appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci
pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li
provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche
venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura.
Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani,
essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione
il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto
breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume
non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma
cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne
si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri
colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini,
accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto
pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed,
en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di
cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che
ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione
sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il
pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo,
quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che
fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV.
Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è
probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale,
essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso,
ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati
dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi
alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e,
ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma,
veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non
essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le
mani al cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose
dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la
preghiera, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e
il timore di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente
durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe
interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo,
e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio
di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono
da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le
figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da PLUTARCO. - 1. diverse
bande fra l'armi e fra i cadaveri, con alte voci e con urli, come fanatiche,
a'loro padri e a'mariti; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla
chioma disciolta, e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando
i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli
altri, e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi. Già i loro singulti
venivano uditi da tutti, e molta com passione destavasi alla vista e alle
parole di esse, e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano
liberamen te, passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai
cosa, diceano, fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia, per la
quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo
rapite a viva forza, » e contro ogni diritto, da quelli che presentemente ci
ten » gono; e, dopo di essere state rapite, trascurate fummo dai » fratelli,
da’ genitori e da'parenti per tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci
finalmente unite con saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto
nemiche, ci fa ora timorose » sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle
leggi, i » quali combattono, e ci fa sparger lagrime sopra quei che »
periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a vendi » car noi ancor
vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma » ora voi strappate da’mariti le
mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un soccorso assai più calamitoso
di » quella non curanza e di quel tradimento. In tal maniera » amate fummo da
questi: in tal maniera compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste
per altra cagione, dovre » ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti
essendo per » noi suoceri ed avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se
già per cagion nostra si fa questa guerra, menateci pure » via insieme
co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate
rapirci la prole e i mariti, ve ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non
divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si
fatte cose, e mettendo suppliche pur anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i
capitani ad abboccarsi fra loro. In que sto mentre le donne conduceano i mariti
e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi
ne abbisognava, e medicavano i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro
vedere com'elleno avevan della casa il governo, come attenti erano ad esse i
mariti, e come trattavanle con amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi
fu pattuito che quelle donne che ciò voleano, se ne stessero pure co'loro
mariti, da ogni altra servitů libere e da ogni altro lavoro, (siccome si è
detto) fuorchè del lanificio: che la città fosse di abitazione comune a'Romani
e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i
Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e che regnassero amendue e go. vernasser
la milizia unitamente. Il luogo, dove si fecero que ste convenzioni, si chiama
sino al di d'oggi Comizio, poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme.
XVI. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº
de'Sabini; e le legioni fatte furono di seimila fanti: e di seicento cavalli.
Avendo poi divisa la gente in tre tribù, altri furono chiamati della tribů
Ramnense da Romolo; altri della Taziense da Tazio; e quelli ch'erano nella
terza, chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a
molti che vi si ricovrarono, i quali furono poi a parte della cittadinanza,
chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre appunto fossero quelle divisioni,
il nome stesso lo prova, dette essendo anche presentemente tribú e tribuni
quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie, le quali dicono
alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne; il che però sembra esser
falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi
furono a queste donne conceduti, fra'quali sono anche que sti: il dar loro la
strada, quando camminavano, il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di
esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun cittadino dovea chiamarsi in
particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. » Ma la formola Ollus Quiris
lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti. Intorno
all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria
vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu
data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco: a
lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli, come
potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il non poter essere
chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali, e l'esser
permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla, ch'era un
ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura simile a quelle che
si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito unitamente intorno
agli affari, ma ognuno di loro consultava prima separatamente co'suoi cen to, e
cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava Tazio 2 dove ora è il tempio di
Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono que' che si chiamano Gradi di
bella riviera, e sono là, dove si discende dal Pallanzio al Circo Massimo; e
dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo sacro, favoleggiandosi che
Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall' Aventino una lancia che aveva
il legno di corniolo, la punta della quale si profondo talmente, che non fuvvi
alcuno che potesse più svellerla, quantunque molti il tentassero; e quella
terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel legno, pullular fece e
crescere ad una bella e grande altezza un tronco di corniolo. Quelli poi che
vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come la cosa più sacrosanta
che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi si ap pressasse, paruto
fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi mancassegli il
nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea subitamente a
quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar soccorso volessero
per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano da ogni parte,
portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per quello che se
ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno e da presso,
ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco. I Sabini
accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che tornasse
bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli scudi
de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser
giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. ·
Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. 3
Cioè Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano
prima scudi all'argolica. XVII. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor
feste, non avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o
dell'altra nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle
delle Matronali, 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra,
e quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata
a presiedere alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle
madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed
inspirata da Febo, la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli
oracoli in versi, mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo vero
nome era Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di
quelli che più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per
mo strarsi fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser
privo, e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra.
E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si
celebra, che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di
nefasti del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e
quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali
significa lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella
solennità molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma,
comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere
che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i
Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo
esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che
si celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a
Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha
celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla
porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva
Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di
Temi. 3 Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per
che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi
scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni
toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono
subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono,
convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie,
discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando
scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le
percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente;
ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo
Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate
da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio,
corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a'
bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i
nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade
in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello
insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora,
e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio
Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami
guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in
traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono
d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una
purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal
animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle
purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che
chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che
scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del
popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da
Cicerone e da Tito Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in
latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in
ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si
sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità
quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel
mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la
consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate
Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli
storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan
di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por
tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del
cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa
verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa
da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa
dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita
era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella
che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi
che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso
di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro
motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so
stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo
che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare,
ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero
ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse
questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età
parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità,
" S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le
Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che
questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3
Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo
sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni
attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com
messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale,
Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però
basti quanto si è detto sin qui. XIX. L'anno quinto del regno di Tazio,
incontratisi alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da
Laurento venivano a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e,
poichè essi resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi
temeraria, Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori;
ma Tazio si andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e
questo fu ad essi il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi
con bella maniera in tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è
possibile, di comune con senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo
per cagion di Tazio in alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma
delle leggi, assalitolo in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo,
gli tolser la vita, e si diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto,
con fauste accla mazioni. Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo
seppelli nell'Aventino, presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò
poi di punire quell' uccisione. Scrivono però alcuni storici, che la città di
Laurento intimorita gli consegnò gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò
an dare, dicendo che stata era scontata uccisione con uccisione: il che diede
qualche ragione di sospettare, ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi
gli era compagno nel regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento
veruno, nè si mos sero punto i Sabini a sedizione: ma altri per la
benivoglienza che gli portavano, altri per la tema che aveano del di lui potere,
ed altri perché il tenean come un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad
ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma
erano obbligati a trasferirsi ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei
della patria; cioè ai Penati di Troia che v'erano rimasti. • Luogo
dell'Aventino, dove le milizie andavano a purificarsi nel giorno 19 di ottobre.
anche molt'altre genti straniere; e gli antichi Latini, man datigli
ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui. Prese poi Fidena, città
vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni, repentinamente mandata la
cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle porte, ed essendovi soprag
giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri dicono che furono primi i
Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio
romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo loro teso un agguato, e
uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non volle demolirla però, nè
spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati avendovi duemila
cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una
pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine senza veruna malattia,
e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i bestiami. Oltre ciò fu la
città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè s'aggiunse a quelle inevitabili
sciagure una grande superstizione. Ma, da che le medesime cose avvenivano aạche
a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno, che, per essere stata violata la
giustizia, tanto sopra la morte di Tazio, quanto sopra quella degli
ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città. Dall'una e
dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori, si videro manifestamente
cessar quei malanni: e Romolo purificò poi la città con que' sacrifizj, i quali
dicesi che si celebran anche oggidi alla porta Ferentina. Prima che cessata
fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad assalire i Romani e fecero scorrerie
nel paese di questi, con siderati già come impotenti a difendersi per cagione
di quella calamită. Romolo adunque mosse tosto l'esercito contro di loro, e,
superalili in battaglia, ne uccise seimila. Presane poi la città, trasporto ad
abitare in Roma la metà di quelli * Cosi anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso
incolpali d'aver rubate le vettovaglie che i Romani traevano da Crustomerio.
dice soltanto 300; da quel che segue in Plutarco apparisce che questo numero è
minore del vero. Queste pioggie di sangue, tanto terribili agli anticbi,
compongonsi molto naturalmente da insetti o da esalazioni tinte in rosso; ed
anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj. ch'erano restati vivi; e da Roma
passar fece un numero di gente, il doppio maggiore, ad abitar in Cameria il
giorno primo di agosto, coll'altra metà che vi aveva lasciata. Di cosi fatta
maniera gli soprabbondavano i cittadini, sedici anni circa dopo la fondazione
di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da Cameria anche una quadriga di rame:
questa fu appesa da lui al tempio di Vulcano col simulacro di se medesimo, che
veniva incoronato dalla Vittoria. Rinfrancalesi in questo modo le cose, i
vicini più deboli si sottomisero alla di lui si gnoria, e, trovandosi in
sicurezza, se ne stavano paghi e contenti. Ma quelli che aveano possanza, da
timore presi ad un tempo e da invidia, non pensavano che convenisse ri maner
più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo, e cercar
di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali possedevano un vasto paese, ed
abitavano in una grande città, furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la
guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di loro ragione: il che però non
pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo; perocchè, non avendo essi dato
soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra,
ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno,
mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque aven do riportate da Romolo
risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in due parti: coll’una assalirono
l'esercito dei Fide nati, coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena,
rimasti superiori, uccisero duemila Romani, ma dall'altro canto superati da
Romolo, vi perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo
intorno a Fidena: e si confessa da tutti, che la massima parte di quell'impresa
fu opera di Romolo stesso, avendo ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita
all'ardire, e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion
non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso
e interamen te incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella
battaglia, più della metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio
capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di
vittoria. Cosi anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i
Messenj intorno ad Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento
vittime per altrettanti Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir
lasciando quelli ch'erano re stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava
alla di loro città. Ma quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non
fecero più resistenza, anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed
amicizia per anni cento, rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da
essi chiamato Sette magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso
al fiume; ed inoltre datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati.
Anche per la vittoria avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre,
avendo fra molti altri prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma
che sembrava che in quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella
sperienza che si convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente,
quando sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla
pretesta per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e
il banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i
Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. XXI. Questa
fu l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che
a molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi
e straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno
però di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto,
già si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto
contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia
dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne
d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei,
cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio
spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non
procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della
costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone,
s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la
Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione
standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli
poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano
ne' ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano
risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar
prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora
da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da
essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi,
dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che
questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima
Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i
Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba
l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per
far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno
in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche
quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed
arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati.
Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte
alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi
in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano
tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non
aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i
primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor
importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte
di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que'
patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria
persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier
non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli
considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani,
l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con
tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo
alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista
degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed
allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e
d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente
si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento
di allora. XXII. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando,
morto essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo
onde poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni
dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso;
altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo
assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva
esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea
dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte.
Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di
lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i
senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato
n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser
via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli
sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in
un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero
subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni
incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida
e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ,
e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si
vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione
Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece
per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse:
Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con
tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta;
onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero
insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la
luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo,
dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero
che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che
esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli
Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno.
Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo
adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali,
aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne'
patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose
vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. XXIII.
Essendo adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra'
patrizj principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni
costumi, fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba )
andatosi nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto,
disse alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli
Romolo, che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che
per lo addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad
una tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata,
o per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e
malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che
quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io
per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di
gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, »
donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che
colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre
dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io »
sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani
degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che
fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto
divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi
alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si
diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha
della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo
Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto
sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per
dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano
da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella
strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e
gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e
furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di
fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse
nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli,
raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e,
avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu
possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che,
spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde
stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla
Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche
svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in
iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma
raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta
e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel
tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della
risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non
appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando
le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E
per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è
cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra
col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro,
si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo
ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché
questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen
ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo
al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto.
Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di
Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo,
come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo
cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s
' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli
uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime
per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di
uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre
espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale
e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità
e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi,
ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di
Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che
cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri
pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l '
asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora,
riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il
primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli
Dei. ROMOLO. 89 Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone
Quirilide; e Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli
che valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde
affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume
bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto
Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo,
e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla
palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti
nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi
vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che
questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine,
riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano
occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed
indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti
de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco
lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini
suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela,
coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che
però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne
senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo
l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la
guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo
stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una
serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di
non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto
l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide
medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone
li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed
allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno,
e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini.
Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro
ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse
da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro,
subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi
spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati
allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal
festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None
capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno
poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si
portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo
giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come
allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel
conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di
chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra,
come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima
ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel
giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato
dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di
regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al
suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia della
storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco, la
prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della
filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia,
formola logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio. Refs.: “Grice e Centofanti” – The
Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51717263650/in/photolist-2mN5uFu-2mKDA5r
Grice e Cerebotani – la botanica
linguistica – e il prontuario -- il
toscano di Ceretti -- (Lonato). Filosofo. Grice: “Ceere-botani is a genius, and I’m
amused of his surname, since a linguistic botanisit he surely was! His
‘prontuario del periodare classico’ charmed everyone, including his ‘paesani’
of Brescia – the little bit on Lago di Garda! There’s a stadium in his name! He
also played with Morse, which means he was a Griceian, since he was into the
most efficient way of ‘transmit’ information! ‘quod-quod-libet, he called it, what
Austin had as Symbolo!” Presentato da Marconi. Linceo. Altre opere: “L’organismo
e l’estetica della lingua italiana classica” Inventa il teletopo-metro, l’auto-le-meteoro-metro,
il tele-spiralo-grafo, ecc. Il pan-tele-grafo-cerobotani o tele-grafo
fac-simile, cioè apparecchio a comunicare immediatamente e per via elettrica il
movimento di una penna scrivente o disegnante ad altre comunque distanti.
Emise idee sulla tele-grafia multipla. Fonda il Club elettro-tecnico, coll’intervento
della regia Legazione italiana. Inventa il tele-topo-metro, uno strumento che
serve misurare la distanza tra due punti. Altre opere: 'La tachimetria senza
stadia'. Fa costruire una stazione meteorological. Amico di Marconi. Riesce a
trasmettere La Divina Commedia a 600 km di distanza. Nel settore della
geodesia, inventa il teletopometro, un apparecchio che serve a misurare le
distanze fra due punti che sperimenta sulla marina da guerra. Inventa il nefo-metro,
per misurare le nubi. Costruzione di una stazione meteorologica automatizzata
nelle montagne del Caucaso. Questa stazione e dotata di strumentazione in grado
di comunicare le variazioni atmosferiche direttamente a Roma attraverso segnali
a radiofrequenza, ed era alimentata elettricamente con delle batterie che si
dovevano ricare ogni due o tre anni. Il teletopometro serve a misurare la
distanza tra un punto mobile ed un punto fisso. Il Santo Padre l’esegue la
misura della distanza tra la cupola della basilica di San Pietro e le stanze
papali. Il teletopometro fu usato a inizio secolo per eseguire i primi rilievi
topografici in Liguria, ed è stato soppiantato poi dal telemetro
monostatico. Inventore di un telegrafo a caratteri, che fu sperimentato
con successo tra Roma e Como. Inventa un ricevitore a caratteri senza filo, che
rende più docile il Coherer.Inventa una serie di strumenti per le miscurazioni,
come il autotelemetereografo e il tele-curvo-grafo. Inoltre, ha anche costruito
un pantelegrafo, ed è stato il primo a tentare una trasmissione radio inter-continentale,
esperimento che riuscì a Marconi. Il tele-autografo è uno strumento che sirve a
trasmettere un segno (disegno o scritto) a distanza. Costruì un teleautografo
che, con un penna, permetteva di comandare il moto di una penna ricevente,
comandata elettricamente. Grazie al suo apparecchio, riuscì a trasmettere un
segno a 600 chilometri di distanza. Il sistema di rilevazione della posizione
del pennino, e di comando, è completamente diverso da quello del pantelegrafo
Caselli. Nel settore della telefonia, inventa un selettore per una chiamata
individuale, per centralini telefonici e telegrafici inseriti in un circuito;
il 'Qui-Quo-Libet', oggi chiamato telegrafo stampante. il teletipografo, o
telefono scrivente, o telegrafo stampante. Il teletipografo è una macchina da
scrivere collegata ad un telegrafo, il quale a sua volta viene collegato ad una
ruota, il 'tipo', sul quale sono impresse le lettere dell'abecedario. In
trasmissione, l'operatore scrive sulla macchina da scrivere, e il telegrafo
invia una serie di impulsi elettrici che codificano il carattere inviato, come
nel codice morse. In ricezione, il telegrafo riceve gli impulsi, e, in base al
segno, comanda il 'tipo', con il quale viene stampato su carta il carattere
ricevuto. Lo stesso apparecchio è utilizzabile sia in ricezione che in
trasmissione, e sfrutta la normale linea telefonica. Questo strumento
permette di trasmettere un carattere alfanumerico ad una velocità di 450 segni
al minuto (più di 90 parole, come una normale macchina da scrivere dell'epoca),
e quindi tre volte superiore rispetto al codice morse. Usato per le
comunicazioni tra la Segreteria di Stato e gli uffici vaticani. Inventa
un orologio elettrico senza fili, capace di regolare il movimento di altri
orologi collegati con la stessa fonte d'energia. Studia la luce fredda.
La lampadina ad incandescenza sfrutta l'energia della corrente elettrica per
effetto Joule, mentre la luce fredda è luce generata sfruttando la corrente con
dei condensatori, in modo tale da eliminare il calore. Questo tipo di
illuminazione ha trovato impiego nelle lampade al neon. Lo stesso principio
della luce fredda è anche alla base della tele-visione. Altre opere: Direttorio
e Prontuario della Lingua Italiana. Dizionario biografico degli italiani UN
SAGGIO DELL’OPERA. Nervatura del periodare e dire classico italiano (“I () i.
ABBOZZI E LINEE I ) I l N DIRETTORIO E PRONTUARIO DELLA LINGUA ITALIANA sI:(1 )
NI ) () (i I, I S(H: I l 'I ()1: I ANTICHI a) V 1, I ' () N A “. 'I' AI;. 'I'I
l'. Vl. I; l 'I l'IN EI. I, l E i FROENAIO ('n i grande mov/r, l'archi: o
c', ''a / ) a italiana - (, e mesi da V /i ) i o / /i, le gio. a m. ' -
/Xivisione -. 1//a f, ggio in cem, l ’ abi/e, intangibile il valore dimo, fra l
' - l ' 7 de /fo di scrittori gratissimi e figure rºt/or he, le me/a/ore non
sono la lingua - Voi: i stile senza la lingua - V)all'integrit. 1 del tessuto
la psiche della lingua italiana - Via lingua italiana adopera al risveglio del
sopito genio italiano - Prima demolire e poi riedificare - L'una e l'altra cosa
dal Direttorio imp, ric a. miun senso da lingua, chi ct // ruga a ſe la c/o
cuzione può essere cosa convenzionale e arbitraria -. I mularne un mom/i le//a
ne va del /'intrinseco valore e della. ila importanza adunque e valore ancora
didattico del DIRETTORIO. Opportunissimo ad ogni pemma e gra - devolissimo il
PRONTUARIO l/aniera di la S (17 ) a 62. Sono agli sgoccioli della
povera vita mia, e sarebbe gran peccato se mancando questo uomo mancasse anche
quel po’ di bene che mi sono lavorato per la patria mia adorata. sicura,
un repertorio, l’archivio della sua bella lingua. Se niun’opera dell'uomo può
essere mai si conipletº e perfettº che non sia anche suscettibile di
modificazione e di ammenda, molto più devesi ciò affermare di un saggio
che vorrebbe aver cerche tutte le innumerevoli regioni e più riposte di una
lingua, e particolarmente di un saggio siffatto, il cui indirizzo. o dirò
meglio il cui voto Sarebbe di somministrare ordinatamente e con la scorta di
acconce riflessioni, le devizie, le grazie, e le pieghe tutre dell’italico
idioma. Sarebbe quindi temerità, milanteria a dargli nome di opera perfetta e
completa. Il modegi i.clo che per: in fronte, cioè, non altro che di semplice ABBOZZO
E DI LINEE vuole adunque temperare il malsuone che farebbe dirlo alla scoperta:
i) DIRETTORIO E PRONTUARIO. Uscito dall'aringo delle scuole, ove lo spirito
comincia sanamente a vedere, e prende triove forme, ed è avido di nuove cose,
ed agile e svelto si addestra ad imporare, lui tosto sollecito di lavorarmi mano
maro una certa maniera di altre tanti 'dde-Aic, un quante le discipli te nelle
quali l’ufficio mio portava che mi erudissi, e delle quali era vago. E così col
decorrere degli anni mi vennero riempiti parecchi vade-mrcum, sia delle Sacre
Scritture, sia della Morale e della dogmatica, e sia ancora delle cosidette
scienze esatte, della storia, di alcune lingue moderne e finalmente di una maniera
di scrivere dei nostri classici italiani, che mi º brava non solo diversa dalla
comune e vol gare d’oggidi, ma che mi piaceva e mi andava all’animo che nulla
più. Andò poi tanto nn, i 'anore, la delizia, la vigoria che veniva il sito
spirito dailo strid e ibri di quei gloriosi dei 300 e 500 che mi misi alla dura
di farini gia dentro terra, scandagliarne le ragioni ieg he, sapere dell’onde e
perchè di questo notevolissimo, sostanzialissirio divario, e presi subito a
sviscerarne tutti gli autori che quel l’Accademia slie il più bel fior ne coglie
i propone si come maestri di;ingua ed ai quali dà nome di “classici”. II
l'ade-Meetini della linea italiana cresceva indi a dismisura, di che man in no
che si accumulava il materiale, anche l’aculeo della me, e venivº ogrori più
assottigliandosi, ghiotta come n'era, avi da vi più e brenese di elaborarsi
sicuri, costanti criteri qual che la m sria e lo stile del saggio classico si
fosse, mercè dei quali riconoscer ip os e I i s ! º º ci, sicuº, che giammai in
n saggio volgare e moderno. Sgom:onto e in caſi piacciº insieme a ripensare le
aspre fatiche Che con diuturnº i reità ho durate per anni ed ºnni, solo di
vederla a purtg di ragione e chiarirmi di quel tanto encomiato ma non mai
spiegato non so che. Stupendo, meraviglioso i tito quello che il lorno i.ll l I
l CAN/ A r ci lasciarono scritto un Varchi, un Bembo, un Cinonio, un
Corticelli, e molti altri. Sottili le disanime di un Bartoli, amplissime le
ricerche, gli si udi di un Gherardini, da sim fuor g. gr mi. Ai. le
dissertazioni di un Padre Cesari, ma dopo tutto ciò, dello scrivere classico
non si è porta e discussa altra cosa che gli accidenti e le apparenze dell’essere,
non il suo vero essere vitale, quidditativo, sostanziale. L'essere. ia ma, ura
dell’ELEGANZA si rii i ſino tuttavia og cilta, e cgili a loro hº e rºg, vi
i ce.re ch: i ganzo è al postutto un non so che. Ma è appunto questo non so che
che io voglio a tutt’uomo tor di mezzo, e farla intuire, non che sentire,
l'essenza, la quiddità immanente di quello che dicesi: Il ci º N / A.E
stimulato dall’ardore di questa idea tenacissima misi mano ad un lavoro arduo e
faticoso quanto niun’altro: mettere cioè a riscontro di tutti quegli infiniti
luoghi del 300 e 500 che più mi ferirono la medesima cosa detta mºdernar:ente. Riempiti
poi che mi vennero per siffatta guisa ben cento e cento fascicoli, e pºstº
luindi nenie a tute le più minuti circostanze del differire che fa il
linguaggio º di riº: d l 'ic: classico, mettendo di ogni luogo in rilievo quelle
voci, tutti quei momenti del logos, quelle curve, quelle pieghe, e quella maniera
di costrurre che è sol proprietà di ogni scrittura antica e classica, di º cosa
all’opposto niente cc:nsine º una cenna volgare e moderna mi notai da prima di
ogni penna classica, e di ogni stile, il mantene e ripetersi inalterato, sia di
un medesimo assetto e tornio periodale, sia di certe singolarissime locuzioni:
ci; mi sfuſi i denti qui.iti i s. a più i ngo e la virtù 2 e di 3 ti -, ingr. l
Ti s. “I e investigandone ad un tempo, e quanto possibile acutamente, gli
intimi rispetti e le più riposte correlazioni logiche, mi vennero a non molto
veduti e costantemente confermati tre ordini distinti di quella cosa onde a mio
senno di genera l’eleganza: e sono appunto le parti della prima sezione di
questo saggio. Cose di indole organica e che più strettamente si rife riscotto
al tessuto periodale: inversioni, separazioni, compagini, locuzioni elittiche
ecc. Parole e forni e notevoli, e il cui retto uso adopera anche alla l'ila del
DISCORSO e all'ossetto costruttivo.Verbi e alcune altre voci generalmente note,
ma dal cui retto uso alla elocuzione garbo si deriva e vigoria. E' in 'b
e º ci reggi e 1 in to gº e sº ort che: - 'n - 1 v altri studi, altre sollecitudini
me ne impedivano, l’avrei già allora consegnato alle stampe, malgrado l’indole
del tempo che abborrisce dal cosidetto purismo. Era naturale che, compenetrato
come era di questo purismo, gli scritti che misi poi fuori intorno alle mie
elucubrazioni scientifiche º v-vºno essi pire ris mire del 300 e 500. A vedere
lo spirito al tutto singolare e diverso onde sono guidate le lettere d’oggidì,
basti ricordare come siano mal capitati i miei manoscritti, e come gli inca
ricari della stampa, non che loro andassero all’animo, ma neanche puº e re. p
v. i), c gion di ssinpio, aveva scritto che quel litogo era oscuro che nulla
uscita vi si scorgea» (simile a: selle scura el la dii iita via era smarrita)
per la stampa si volle ritoccare e completare: a quel luogo era tanto oscuro
che.... ». E dove: i n sºn va che l in', se a condiscºndervi o se rimanerme ne
» (simile a: non Sap 'a che farsi. Se su 'i salisse o se si stesse, l3ecc.) iº
lo vidi inve::: Inp. 1a così: non sapeva che cosa do vessi farc. Se vi dovessi
accondiscendere ecc. ). Dove: « nè questo già ner sancr farmi sl, al viadon sss
(tolto di peso dal Bartoli) si sta impò invece: nè questo già perchè egli vi
adoperasse sapere darmi o li dove ancora affermava di avere fatto a una cosa a
spasso », di « esserini pensato non so che di a arer cessato una mala ventura
º, di giºcº l'aiiiino a checchessia » ecc. ecc., oimè, dolente mè! che invece
mi freero dir el "vevo ! alla cosa al risseggio » che ci aveva pensato di
noti so che, che la mala l’entura era ceS Sgla o che aveva un’arimo grande per
ecc.. ! ! l: di questi pretesi titocchi ed ammende Sono Sconciamente straziati
e snaturati i miei manoscritti che si pubblicarono cella mediazione di chi non
aveva paia o di rivonica, i nº chi classici.E' quindi agevole immaginare lo si
to del mio animo (ora che fi palmente mi accingo a pubblicarle queste mie
fatiche giovanili) di frºnte all'indirizzo del mondo linguistico d’oggidì.
Forse si griderà al retrogrado, al pedante, che vuole imporre cose vecchie e
smesse, e rimettere sul mercato masserizie da rigattiere e da cassoni. Ma ad
enta di tutto ciò tri pensiero già ſin d’ora mi sorregge e mi conforta, ed è
che di questo saggio, quantunque in contrario sia per seguirne, col l’immensa
copia di esempi tolti dai saggi mastri, e di ogni forma e di ogni stile, riun critico,
per acre e spiacevole, potrà mai impugnarne il lato DlMOSTRATIVO, che cioè il
Glamiera di Scrivere degli antichi è gitelia che ti si dimostre, ed è altra
dalla comune e volgare dei mestri giorni. E qui lascio la parola a nomi autorevolissimi,
e prima a quell’entusiasta che fu del 300 e 500, l’abate Giuberti, il quale
pieno di sdegno verso lo scrivere moderno, lo dice, nel suo PRIMATO, senza
una pietà al mondo. Pedestre, terragnuolo, ermafrodita, evirato, senza nervo e
colore, di mezza temperatura, non si alza dal suolo e striscia per ordinario,
allia e svolazza, non vola mai, una fosca meteora, non un astro che scintilla. E
più avanti si rifà all'affrontata, e lo chiama scucito, sfibrato, spettinato, sregolato,
scompaginato, rugginoso, diluto, cascante, floscio, gretto, goffo, deforme, un
bastardume: un intruglio, un centone, un viluppo di brandelli, e ciarpe
straniere, uno stile da fare stomaco, spirito francese camuffato alla nostra le
ecc. ecc. ), mentre, tutto ammirazione e venerazione verso gli antichi prosegue
e scrive: a Paiono talvolta ritrarre gli aculei sentenziosi dei proverbi e le
folgori dei profeti. Quanta leggiadria e gentilezza non annidassero nel maschio
petto di quegli uomini a cui la schifiltà moderna dà il nome di barbari! In
quella era vera coltura Ciò che oggi chiamasi coltura è in molti piuttosto
un'attillata barbarie. Anche il laconico ma forbitissimo Gozzi lamenta che l'Italia
non sa più come parli e ognuno che scrive fa come vuole, una fiera dove corrono
tutte le nazioni e dove tutti i linguaggi si sentono. S’impa racchi a II n a I
l m g II a S m 0 I I i C a td e tr 0 Il Cd, S e Il I a a r red 0, S e n 1 a 0 n
0 re, St 0 p er di re S e Il I d l ibertà e dà quindi sulla voce agli scrittorelli
senza studio e fatica necessaria ad acquistare un sicuro possedimento di quella
lingua in cui si scrive, i quali scrittorelli non avendola per infingardaggine
curata mai, atterriscono tutti col dire, che essa è inutile e col farsi beffe
di chi vi li a p er d II t 0 d e II tr 0 gli 0 C C h i. Il melodico e terso
Salvini deplora esso pure i traviamenti letterari dei suoi tempi, presagisce e
nota. Guai alla lingua italiana, quando sarà perduta affatto a quei primi padri
la riverenza! Darassi in una babilonia di stili e di favelle orribili, ognuno
farà testo nella lingua, inonderanno i solecismi e si farà un gergo e un
mescuglio barbarissimo. Chi non sa che il grande Davanzati, è una maestà, un
portento in opera di lingua? Ma ecco come alloguisce coloro che già ai suoi
tempi facevano a fidanza con lo studio e con l’uso della lingua. Fingete di
vederla (la nostra antica favella) dinanzi a voi quì comparire in figura di
nobilissima donna, maravigliosamente adornata, con la faccia in sè bella,
quanto amorevole, ma ferita sconciamente, e travolta le sue fattezze e tutta
laida di fango, e che ella vi dica piangendo e vergognando. Guai a me, che
straziata sì m’hanno, come voi, quì mi vedete, quelle mani straniere. Io vi chieggo mercè. E ora sia lecito anche a
me, sotto l’egida e fra le trincee di questi valorosi, di dire brevemente
quello che ne sento, ciò è a dire chiarirci di alcune idee, ed anche discorrere
l’opportunità ed il valore non solo dimostrativo, ma anche didattico di questo
DIRETTORIO. Asserendo che nei dettati alla moderna non vi sento quella leggiadria,
quel garbo, quel candore, quel non so che di soprasensibile che regli antichi,
non è già mia intenzione di censurarne le alte concezioni e menomarne
comechessia il valore e la spigliatezza, e sia nella scelta e convenienza delle
metafore e delle immagini, sia nella vivacità e pompa delle descrizioni, e sia
in questa o quella cosa, che del resto, i cn è, vi, p v': c velli rs it:li no,
ma che può essere comune e sº bene neiie in altre lingue. Se l’essere, il
valore di una lingua dimorasse sol nei vocaboli e nelle figure rettoriche, cioè
ièci traslati, nelle metafore e nelle immagini, non sarebbe l'idioma, e ne
andrebbe del carattere non ch’altro e dell’estetica della lingua in quanto
lingua le varie lingue tornerebbero ad una, e renderebbero immagine di III la
sola cantilena che sia suonata ora con uno, ora così altro istrumento,
differendo l’una dal l’altra solo quanto può differire il suon di una tromba da
quello di: 1): l ri: ti:.I e concezioni, il modo di pensare, la disposizione e
l’ordine del le idee sono di una persona che ne ha la lingua, non altro che il
suo stile, cioè un fatto suo individuale, una maniera di DISCORRERE secondo
intende e sente. Come non può essere che un uomo si cessi la sua individualità
e ne prenda un’altra, così sarebbe opera disperata chi si affidasse di pigliarsi
lo stile d’altri. Ma la cosa che negli ameni dettati degli antichi si impone
alla nostra ammirazione e vuol essere oggetto di considerazione e di stu si o,
è l'intrinsec. e sei le ferma sostanziale, c S nip e la medesima, di
qualsivoglia stile, dalla quale allo spirito più che al senso quella soavità
viene cottel diletto che mal si cercherebbe nella materialità delle voci, è la
grazia, quel vago ascoso e nudico onde ogni stile torna a quello che dicesi
stile elegante: simile alla luce che, mentre senza di essa ogni cosa è spenta e
al senso della vista non è solo che un suo raggio apparisca, la natura tutta
subitamente risveglia, e alle molteplici individualità del visibile dà vita e
vigoria di ghºzzo infinito, la lingua è rispetto allo stile quello che la luce,
la forma sostanziale delle cose, rispetto alle individualità. Comr l’origine e
l’essere di tutte le infinite individualità della luce, le quali sono perchè
sono i sensi, è un solo, oltre la barriera dei sensi e fuori di cifra, fuori
della ragion di quantità, fuori delle angustie delle individualità, e come
al - tresì la sostanza delle cose è costantemente e universalmente
una, inaccessibile ai sensi, e, come che essa pure non sia ai sensi
che per le sue individualità, cioè per quello che dicesi materia seconda, specie
od accidenti, ell’è tuttavia ben altra cosa che le infinite sue individualità,
così l’essenza della vera lingua non può essere che costantemente UNA, un “non
so che” di soprasensibile, quantunque ai sensi svariatissima nelle sue
individualità, che sono appunto quello che ha nome stile. Si parla di stile più
o meno elegante, più o meno piacevole, ma non si pon mente alla ragione
intrinseca di quel grato che per lo stile allo spirito si deriva, il quale, non
nella materialità dello stile, ma bensì nell’intima vitalità della lingua
essenzialmente dimora; simile al vago della bella natura, di cui più che il
senso lo spirito nostro si diletta, e che non dal sensibile si genera e dagli
accidenti, ma da quel l’occulto che ne è l’essenza vera, il principio di vita. E
poichè ci venne dato nei veri della natura, notisi ancora una acutissima
considerazione onde la natura stessa ci è maestra, che cioè come cosa qualsiasi
non può essere individualità di una forma sostanziale ove ne manchi la sostanza
(a cagion d’esempio individualità del l'oro, del legno. ove manchi la sostanza
dell’uno e dell’altro, individualità di un essere sia vegetale che animale ove
manchi la vita) così non solo non può essere lo stile di una lingua stile
elegante, ma addirittura non ci può essere stile veruno ove manchi la lingua.l:
ora si capirà anche meglio l’eff to di soc”:inzi.. he cioè la natura, la forma
sostanziale di una lingua, e più che di ogni altra della nostra cara lingua
italiana, nei cui visceri ogni cosa è vita, delizia, soa vità e pace, è ben
altra cosa della materialità dei vocaboli, sia nel proprio che nel traslato,
non altrimenti che di un ricamo, di un disegno il cui pregio agli occhi della
mente nulla si muta mutandosene la materia. Che monta all’estetica, al valore
architettonico, al concento delle linee di un monumento, di un edificio, l’essere
costruito più tosto con una che con altra pietra? Siano pur preziose le parti
organiche di un essere vivente quanto si vuole, che giova se vi manca la vita?
Di Apelle si narra che, invitato da un giovane pittore a dare il suo giudi zio
intorno all’effige della bella Elena, esclamasse. Non la hai saputo fare bella,
l'hai fatta ricca. Metto pegno che chi discorre queste pagine e non ha colºu' º
di lettere altro che moderna, gli nar di tre o mare, di sm morire, e poco si
tiene che non mi mandi con Dio e mi dia anche nonne di esaltato e di
sofisticone. Non meraviglio. Il medesimo sarebbe di chi è abituato alle cantilene
da villanzoni o solo alle canzonette da piazza e da trivio e
altri volesse di punto in bianco ringentilire il suo udito volgare e
bastardo, e recarlo per niun’altra via che tessendone gli elogi, a dilettarsi
delle grazie vereconde di un Pergolese, delle profondità pottoniche di un
Palestrina, di un Orlando di Lasso, dei portenti delle fughe di un Bach, delle
poderosità melodiche di un Beethoven, di un Heyden, di un Haendel: od anche di
chi non vede più là delle Sorde larve e Sozze di certe oleografie, più i degli
imbratti di un pennello pedestre e terragnuolo, ed altri ne deplorasse la
decadenza, lamentasse le turpitudini volgari e moderne a petto delle inarrivabili
sublimità degli antichi in opera di pittura e di scultura. Ah! siamo sinceri, e
confessiamo ch’è oggimai agonizzante la psiche del metafisico e dell’estetico,
e non che sopito il senno antico, ma anche il senso del genio e del bello che
irradia nelle opere dei nostri padri, è oggi a termini del più miserando
languore. Che altro ci rimane adunque se non di por mano a tutti quei mezzi che
adoperano, secondo scrivono l'8artoli, Costa, Casati, ed al tri molti, alla
riforma, ad una sostanziale elaborazione del pensiero, ridestando e rivocando a
vita l’originale candore, il sopito e per poco spento genio italiano è l’elaborato
mentale, soggiunge a tal uopo Giuberti, è di sì intimo messo inoculato al
linguaggio, che sarebbe violato e guasto il concetto, ove la parola mutasse, o
l'ariasse un nonnulla. Nè altri opponga che se la bisogna sta come qui si
afferma, e si tratti veramente di guasto vitale e sostanziale più che organico
del l’umana intelligenza, vano sia per essere ed inefficace ogni umano conato,
e che solo il miracolo di una nuova creazione potrebbe ripararvi. Ma non è
così, ed è la cosa appunto che vuolsi ora sanamente ponderare. Non è vero che
lo spirito eletto dei nostri padri, la mente italiana sia il tuttº esiint: e lo
dimostrano i dettati e le opere più recenti di quei chiari nomi che sulle orme
dei gloriosi antichi, e frutto di dittti i rime fºriche, riverberano il genio
antico. O l’indole dei tempi, o i periodi delle invenzioni e delle macchine,
che fanno del pensiero fantasia, o il grido della ribellione al soprasensibile,
onde è incatenata la mente, l’ontologico dilegua, è in onore e si prende lo
scettro del magistero didattico, la menzogna dell’essere, il mondo dei sensi,
l’individuo, la materia, o questa o qual altra mai si fosse cagione, la mente nostra
è oggimai avvizzita e recata a una ciarpa, a un intruglio, il senso del vero e
dell’estetico sciancato, evirato, l’imaginativa incespicata, aggrovigliata, e
non è quindi non solo a stupire, se la maestà e la virtù dell’italico idioma
non è più sulle penne dei moderni dettatori, ma se è altresì e tal mente
soffocato il senso del vero essere della lingua italiana, che ne è misconosciuta
e recata a vilipendio l’alta virtù, ignorato vergognosamente il sublime lavorio
che questa lingua privilegiata mirabilmente adopera negli aringhi della vita
intellettuale. Con queste mie calde parole parmi di avere toccato dove veramente
ci duole e penso che saranno poi tanto più autorevoli in quanto esse collimano
coll’enfatico sentire di un Davanzati, di un Bartoli, di un Bembo, di un
Varchi, di un Salvini, e ultimamente di un Mamiani, di un Giuberti, e perfino
di quell’ammiratore delle nostre glorie letterarie, il grande Goethe. Non si
pensi poi che con queste affermazioni io mi lusinghi di avere senza più
conquistato il favore e l’omaggio di chi è fuori dell’orbita di queste ai suoi
sensi inesplorate regioni. Nò, non ho altro in animo che di agitzzarne la voglio,
e che si mett meno ti volt, quegli argomenti con cui inoltrarci, ed esplorarle
queste opulentissime regioni.Considerando la profondità e la vastità dei miei
studi in opera di lingua, ripensando le trite disamine di quanto trovasi
scritto su questo materia e rifacendomi mi oi ist cei eri che mi sei elaborato
intorno a quello che costituisce il fascino dell’eleganza, non mi perito di
asserire che codesto mio DIRETTORIO sarà per essere appunto il saggio
desiderato, quella scorta sicurº ed unica, quella palestra nella giale
addestrerº: chi vi si ºccire con i i rivocare l'avito sentire, le occulte virtù
dell’italico idioma. Con un terreno vergine e di fresco dissodato è agevol cosa
farvi di buoni seminati, ed anche conseguire sana e coniosa messe. Ma se il
terreno è stracco, illanguidito, e per male erbe che vi crebbero im bastardito.
nulla giova il farvi ritrove seminagioni; gli è mestieri estir parne dapprima
la zizania, ucciderne i parassiti e non prima riseminarvi in sulla vanga che
non sia accuratamente purgato e risanato. Anche con un corpo ammalato di febbre
maligna e male in essere di visceri e di stomaco nulla approderebbero, anzi
guasterebbero, i corro boranti e le vivande, se mercè di opportuni farmaci non
sia stato prima guarito di ogni male e tornato perfettamente sano. E così è di
chi si disponesse a ricevere nuovi semi di quella lingua che egli non può nè sentire
nè ipperire perchè il suo senso, rigoglioso tuttavia di cesti e mºssº bestardº,
non può altro che sdegnare e ribellarsene, o di chi volesse nutrirsi di quei
cibi prelibati che gli ammaniscono le letture antiche e classiche, essendone lo
stomaco ricalcitrante, come quello che lº paciucche volgari e mederne hanno
viziato e guasto. Sarà dunque opportuno, chi veramente vuole rigenerare e tornare t:sso
e si misuoo Ioio top cluoulli, il lusi li op lºI033. Osloo lº::.looue liuis o
oltu l ' ºssige il gp o ti lº si p ºsòssi pilºp ºliº ºpei.l. It us el ' i' i ti
- e ! ss outigui illuu.ioldsoul Oiesstv. Un li vº: i bl) ºl! Sº! ).le daiºlº
slioni i euuuo5 oliomb u lius sºli o i M o duº lºop i silos gllep luo!. ilo Ao
olloilo,S Ip lo33s o lo s ſ olt.loqt lº 0 ai i ti: osto o.lilt: uou o 55eniull
ouuuun, Ilop ollos e o uuuoò il AS o ºlsiiqo. OI -toni civili lonn 'ouo; o il 9
AIR alloni si sn p op su o!! ). Il ti -Issºlº 3 atlº, lui: ºtti.lo ol olodlu o
l illoulillº ºa so Qrº uviu:I i poi il tt i tr. ss Lt: lº), ci uo:t., e o
isoluo5 eu o optAn.. ui, oggi, i 'ti i ti:: ti io lº t:l lido su tre et 't i3:
lIou 'Il 2005U )It is It ul it e sul i ti cieloiti i lili è il trilos i luopll
S i tit il sot! ti) º il lo, st 3, 8 l.it, º t ti 3llit 8 º A i el:
tlii lp 't ult: ulti del 9 l lu ti iº - il so, si s... 'ti i.i....lºli i;
ss ',...... i - i ! i ti&ui o soli º in l It:ISS º o loti u -
Rutp li ºt toº, ti o, i poi tu º 3 lt è loM o.lgIl lli t..li) op. N..lo slp:
01S, clti, pu Sclip ci, i Ip º lossº t'il pº 'it:5 s: i isl il pºp OiiSAS º al!
Se oè, si va 1 otIº tifos. º ºlio p: 0.it tios oso.I -05! A osio; op: i n.lip
top t millus G, i tº o 3 As il il 3 osseti lap ei liti in el o Isoi cui il bis
'09: loui.it o!!isso) ſi è is 'Glös tipicº -.10ul ti o º lill A i, 5 ti! Sii !
s ºu (olis 10S il q.li i ſiti allº guas iA liliti Il ci º ! A O, 0i) (ſili) i
lº!a il p iù.tvi336 | Il ſul SI, riu aus ottiliº I iosi pe.oſse.I l º d lp
Girl: Iº tunio.lui uli olei è eluoul el gu: A è tºiplit; o tiri uſi:p 3iiiiSpo
otto i p up:I o Aoati olsanb Ip 3Juulo n.ISUS | E.li o illo5 luntti iiiis
ol.Iodp e oilun W o S.- “Si - Si – s S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose
di indole organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto
periodale Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel
valore dei vocaboli e delle l gla o ini) tali lui,ppi: Rida A au ºi i tg ei p..iiil
I pil, ivi op oi il I attº cul.o, ind oilºni -lallagui gi! A p !.lvi 5i A º 3
op.It: ci.vt mt! pſ. I; ii ti Iguas sº Aoin:il nr. - i s Istºnli a
reput. 5 o islip i 51 o 3: Ss li Ili oipnlS ossenb oput ºss ºi i IIIess: lp Oliput
ouvs 1: i su Ifil si al c. 5 i.In 15i giri i rp:5ucu. li odita, uno º Iovi
ouault: sti: è o niti: ti; olio; Itzu Io ip a ol! Ilds OI aulluas Ip o piis
lgido opuali ti OIAi().L.: St | (l Gisonb Ip guided uso 'ofoni dr5 lui ig.it, i
Jr. sp: l o, aiuougers -ued eua3del loo eliricituo3 oood: oSod il mio zn glpo.
I p o puoizilouºp Ip riodo esami ottº oro:ni oirs e insis AIA e W ologIpo
o Soduco l oillouap bus Uieto n.. nip o Ies gipol.I riolle pº oluopeA lap
e Cisgiº Iap 5 i5sti p.s. p r, iº le p.It, i gol q -uoo 'oullios opinismq
Ons Iap oua.I.io II euil. Iddrp o Iri Ind otte! Ieri i pure di
vertiginosi cicli, e di un tempo oltre ogni misura, e di cui niun atto, niuna
parte potrebbe mai mutare senza guastarne l’equilibrio, la Pace. Lungi da me la
pazza ipotesi, la chimera del così detto equivalente meccanico, ma è pur cosa
ſi afes iter d’ogni dubbio che la vita, il principio semplice di un corpo
animale non è, e non può essere sorza i qualitative e ri e che gii è (are a ciò
di si intimo nesso coll’integrità del tessuto organico, che tanto sol che
intristisca questo f 12 f.f. º gt eii, i si.. i tiri i d. -, uf,3 giui tura o
cosa qualsiasi anche minima, non solo ne soffre l’organismo, ma talora si
spegne, è finita la vita stessa animale. E altrettale è appunto della bella,
delicatissima lingua nostra italiana. Ne va del valore intrinseco e della vita
non ch’altro, ove sia ignorato o male osservato il retto uso di certe
articolazioni e particelle, o o sia a la siruttura e la curva sconciata, l’ordine
dell’azione traviato, e l’occulto di certe voci previlegiate mal sentito od
esso pure ignorato. E qui non accade ch’io ne dica di più, che con queste
parole e coll’anzidetto ti è ora molto bene palese quello che il DIRETTORIO
vuol darti, ed anche come usarne rettamente ed utilmente. Non dovremo poi
starci contenti all’esserne soltanto risanati, del guasto sentire e dei torti
appetiti, ma saremo anche vaghi di avere a nostro piacere e commando e
avvenendo di trovarci sulla penna le grazie, le dovizie di questa lingua troppo
cara e più che aitre efficacissima e poderosa. Ed ecco che a tal uopo ti verrà
assai volte opportuno ed utilissimo il PRONTUARIO, che fa seguito al Dl RETTORIO,
e col quale si completa l’ardito torneo di questa mia palestra. Mentre col
DIRETTORIO, cioè collo studio assiduo sulle linee del medesimo, ti troverai la
mente uscire gagliarda e serena dai vincigli di una morbosa rigidità, e la
parola altresì più leggiadra nelle forme, e nei movimenti agile e destra, il
PRONTUARIO sarà per ogni penna vuoi da ringhiera, vuoi da pergamo, vuoi da
effemeridi, o che altro mai, fornitore, ove bisogni, di costrutti classici e di
un corredo di lingua proprio di quella cosa che altri venisse ragionando. Ed
ecco come ne userai. Ti farai a quella parola, verbo o sostantivo che hai sulla
penna, ed anche al nome di quel tema, cosa, luogo, fatto, forza, passione,
virtù, vizio, arte, disciplina onde prendi a ragionare, e il PRON TUARIO ti
darà tutto quello che ti bisogna, cemento grammaticale e materiale di lingua.
ii fornirà di ogni idea generale un copioso corredo di vocaboli e di modi di
dire con brevi istruzioni ed esempi che ti ammoniscano come e quando
rettamente adoperarli. Ti dirà quale verbo o predicato sia proprio o meglio
convenga a quel tal nome, cioè alla cosa di cui è nome, soggetto od oggetto che
egli sia, quale attributo all’uno e all’altro, quali epiteti, aggettivi od
avverbi deno tanti con proprietà di espressione la maniera o il grado di essere
o di agire. Ed anche ti dirà i nomi delle parti componenti ciò che ha parti,
cioè a dire come rettamente e con eletti vocaboli e propri denminare i
componenti e le attinenze di cosa qualsiasi. Ti fornirà da ultimo o più
veramente vorrebbe fornirti, e lo farà completamente quando sarà opera compiuta
i vocaboli propri di quella tal arte o professione, e così di puro ingegno come
altresì di mano, e degli affetti dell'animo, dell’esterno operare e del
muoversi ed agire di checchessia, e in ciascun argomento i particolari e propri
modi di ragionarne, usati nello scrivere che ne han fatto gli antichi, e dove
questi ci mancano, presi da quel che ne abbiamo in voce viva adope rati da
maestri di buona lingua. SAGGIO DIRETTORIO cioè ritagli di alcuni vapitoli
delle sue tre parti. S.- “Si - Si – s. S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole
organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale. Il grato e
l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e
delle frasi, in un certo spiro di virtù occulta, procedente vuoi da una
singolare disposizione e collocamento delle parole, vuoi da una certa forma
compaginativa, e vuoi finalmente da certi vezzi di finissimo intaglio, e di
raſſilature e tagli a corona. Ed ecco tracciati i quattro capi che ci
forniscono a larga mano il materiale di questa prima parte. Inversione e
separazione. Particelle e compagini a foggia ed uso classico. Virtù organica di
alcune altre voci. Locuzione elittica. Sel a aranzi o 1, i cº II, N cºrsi
o 1, i SEC.) NI): ) (; I, I ANTI ('I I I SC'It I'l' To) RI E ('I, ASSI
("I Intendiamoci, non è del I per lui lo ch i l' igi I lill e, ch' io
voglia pur allegare esempi d’iperbuto. Non farei che ripeter quello che ne
hanno scritto ii (il lio, il l'1 l. ll (1 li !li, il Zilli il li, il Ct - il e
tanti altri, i quali al postutto conchiudono che quegli soltanto può giudicarne
e servirsene rettamente che ha l’orecchio educato alla scuola dei buoni
scrittori. In opera di lettere e di estetica nè mi picco di superiorità,
nè mi darebbe mai l’animo di prolierirne giudizi, e nè anche di elaborarne
acute e sollili delinizioni con le ſa ad esempio il Tommaseo), e molto meno di
porgerne teorie e Ilorine da seguire. Uscirei dall’indole e scopo di questo
saggio, che è semplicemente quello di mostrare ordinatamente e con grande copia
di esempi il dicario che ella il linguaggio così dello classico e quello di
oggidi, ed anche di somministi al c. chi ne losse mai cugo, un modo
opportunissimo, collo studio cioè degli esempi, di rieccitare nei nostri pelli
lo spirito classico, e di tornare a quella forma di dire e di pensare che è la
le penne di quei grandi. Siavi di 11 11 I po' balo, che a litrios 1 a 1 lo
col vorrebbe prima far vedere come l'ordine inverso – L’INVERSIONE --, sia il
diritto o questo l’inverso, raccolgo solto questo capitolo, e Ini diviso
secondo un certo criterio buona copia di quel costrutti antichi, nei quali il
collocamento delle parole e l’accozzamento delle parti è altro dal colgare e
comune dei nostri giorni. Non è però il differire soltanto di un costrutto
antico, e come che egli sia, dal moderno, che ciecamente Ini Imuove ad
allegarlo e proporne lo studio, ma scelgo quelle maniere che sono più che altre
frequenti e più in uso appo i classici, e nelle quali il singolare costrutto è
qualità dirò così in lernet, e ormai al III sapore, ad il garbo che lº li a V
l'elolo a pezzi il dili al dolo. La sola TRASPOSIZIONE di questa o quella
particella p. es. non vi essere, non lo vedere, non vi rimanere, ecc. - a e ne,
la creslllla, per non o vi essere stata valevole gia sei anni che regnò (doardo,
la calca degli accorrenti allogava i vescovi e lav.: è necessario che tu per
niente a non rispondessi a persona, ma sempre acessi vista di non li vedere e
non ii udire l’irren: noi possiamo i ce le si avagali lettori di non le
motteggiare (gli al ll il a niere? a non vi prosperare? a non vi proteggere?
Segn.: si potrebbe a Ialun contenere di non se gli avventare egli stesso alla
vita? º Scull.: o una semplice inversione di parole umana cosa è aver
compassione degli allilli. Zali.. e me anche quel tanto a loro il vello il
fine, il li sono oggetto e materia di questo Caploio, ma quella trasposizionr e
inversione, onde al periodo, come si è detto, viene talora vaghezza ed anche
alla frase maggior forza e gravità: one che allore verullo, ch io mi sappia, le
abbia ma da quindi addiello rilevate, e messe in Vislia siccome prerogativa
dello scrivere antico e classico, lo è la cosa al punto che prendo io ora a
dimostrare, ma senza apparato e pompa veruna d lunghe e trite discussioni, e in
un forma semplice al possibile ed evidenlo. Ma prima di farmi a quest’opera
mia e di mostrare queste separazioni e dulle le altre cose di questo saggio
divisale in articoli, la mi di richiedere il le loro benevolo che gli piaccia
di rimanersi da ogni commento e giudizi sopra i singoli articoli, che a
guardarli lo singolo non sono allo che mini vie, ma di aver l’occhio a Illella
gran massa d'oro, della quale ogni articolo non vuol essere che una imponderabile
particella NON DER … CHE … MA in luogo di non perchè …ma … Ciò è a dire: il per
disgiunto dal clie e frammessovi l’oggetto o predicato. 1. ignal, o poco
pi illico irl cosl li e o per dar rassic, valido V. gl’illel'11lare clic:
non llll'olio cagione di... lecchessia gl' Insulti e le Villalie che il ri
limiti gli lanciasse, ma il suo procedere indecoroso cec. esporrebbe il silo a
11 ello solo sopra cosi: non pºi clie ei mi dicesse insulto o rillania, ma
ecc. L'esperto il 1vece, o chi ha e sente le maniere antiche e classiche
disgilige il bell il l vigo assi Is e ci si non per insulto o rillania che ei
mi i licesse, il t.... Pochi esempi e basteranno a farlerle assaporare il
grato, ed anche inlerider e la relaliva il rip, rli - IliII1ento che niun
articolo, per esiguo, è cosa di sì poco momento che, a conserto di mille e
IIIille altre ond è forni ore codesto direttorio, non sia anch’esso un
argomento di vita, per quali lo II il loscopico, un umile virgulto di quell’albero
rigogliosissimo e poi il post che è il linguaggio classico. Signor mio,
io non vengo nella tua presenza per rendella ch’io attenda dell’ingiuria che nn
è stata ſul lat... ma... o 13occaccio. Nè questo già per saper d ai mi ch’egli
vi alopei disse che in quello s in arrimento non ci rimase al riso dai la
milo..... l li..... smarri, ma pur di nsi per l'ergogna che per animi o che gli
bastasse a tanto, ſullosi cuore disse. Bartoli. Non opera ra per appello o
propensione che si sentisse a questa ed a quella cosa, ma pure a guida della
ragione e del placer di Ilio Cesari, Ed anche senza la correlazione di non e'
mai può talora aver luogo si alla disgi Illzi 11. Standosi adunque l’uggieri
nella camera, ed aspettando la donna, a rendo, o per la lice, durata o per cibo
saluto che nel nulla lo stresse, o forse per usanza, una grandissimo sole, gli
renne reali lui....... I; i carri. rispose che ben si ricordava che andalo era
ad albergare con la fante del maestro Mazzèo nella camera della quale area
bevuta acqua per gran se le ch'a rca a 13o crio.« e riponessegli l’anima sua
sicuramente in mano, chè ben potea farlo, per l'uomo santo e lollo che sapere:
lui 'Nsri e litrioli,Ed in generale, sempre che la cagione o non cagione. Il
1olivo, ocra sione di checchessia è l'oggetto stesso, non il rispellivo verbo,
si pºne primieramente quello a guida di per per cagione, per motivo,
quindi il relativo che e finalmente il verbo: sol per l'amore che io nutro per
le, non perchè io nutro ec e per i lucia le mia ch'io porto » ecc. ecc. Nolisi
da ultimo che la stessa forma per... che... può avere altresì forza di: per
quiet n lo ch. Al, i ciò sara: i i ben altro e più rile V al I ri-Si liti nel [..
lil. io il tv: i 1. ci zioni elillich r. Cilf: pronome relativo di
quello, questo, costui, tale, quanto, uno ecc. si disgiunge dalla voce cui si
attiene posponendolo al verbo e appar tenenza relativa al primo
inciso. a... il sole è alto e la per lo i tignon, culi o cd ha tutte le
pietre asciulle: perchè tali parola 'slo lo sci di p ii, le ri sono che la mi
all in di tmzi li il solo l'abbia i ts ull, poi i n n...... I3oce. “. Quanti
leggiadri gorani, li quali, non l'alli, ma Gallieno, Ip poci di li' o li si
illui puo di ri i no 1 li li all ' s NN, mi - la nullino lesinarono coi lor per
l en ll, con poter mi col ct mi ci che lº, la sera i 1 nºn lo appresso nel
l'alli o non lo conti on lli lo i passi li li a lo.e colui è più car o ai ril,
e più la mis, i se si un ali signori onorato con pl e mi gi o nolissimi i cºsti
letto, che poi il lom in roli parole dice, o a alli; 1 i cin (lo l i gogna, l
rol, il l mondo pi esºn le ed argomento assai, rielen le che le rii li li la I
l poi i lil si l anno nella leccia dei rizii i mise i rice'n li di blu nel
nulli. I 3 c.La speranza del per loro si è data a chi lo ruolo: e colui l'ha
per mio dono, che del suo peccato duole la l'odi.(nche di esse e il conlessore
nello in poi i la penitenza discreto. ll e alcuna cosa pruolº la re o sos le me
l'e' una persona, che non può l'alll rai o. IPassa V.Con questa melajora e
somma bi erità diciamo: uno aver dipinto 1) Anche la lingua francese
offre esempi di costruzione non guari dIsstmlle; tel brllle au second rang qui
s'éclypse au premier. che dello o lalto ha cosa calzante per l'appunto che
non polea star me glio ». Davanzati. « Quando.... tal cosa verrà ben falla che
non si pensa. Dav. « Qualche gran fallo dee esser costui che riballo mi putre o
l?occ (coslui che.... dee essere...(Oggi si direbbe saper di guerra o ragion di
stato che fa lecito ciò che e utile. Il popolo la direbbe un time in I)av. i gi
ii) si | | il ll es.. si direbbe. E in colal guisa, non senza grandissima
utilità, per presto accorgi mento, fece coloro, rimane e scherniti, che lui.
Iogliendosi la penna, a rea il ('r('alli lo sch e l'm iro so. I3 cc. E quello
essere che era s'in aginò l?arſ. a 1)issele: non isl in sti c. moglie mia, uomo
tlcuno mai essere nostro amico, il quale la reggia on I ro il nos/ I o cuoi e
o, IP: Indolfini.co Colui non fate citt e Neri i tio. che non rºtolo rirºre sul
no e' lie / - di ilſilli. Quegli al bisogna di poco che poco desidera ».
Albertano. a 1 ssai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono
dai prigionieri con tanta guati liti sei riti. Rocc.a Indò per questa selra
gridando e chiamando a tal'ora tornando indietro, che elli si crºllera in noi
in zi di malare o lº scr.« E i ri si riduce rat no come a un porto, in perocchè
saperano che ('hristo ri remira, e non gli polerano andare dietro in ogni luogo
e ta lora crederano che fosse in un luogo, ch'egli era in un altro ma vener, do
in Iº e la mia. Cav. Solo Iddio sa i nostri occulti ed il nostro fine, che il
giudicio umano molto è fallace: che spesse volte tal cosa ci parrà buona ch'è
ria, e tal uomo ci pare rio ch'è buono Cav.rispose che delle sue cose e ai nel
suo rolere quel farne che più gli piacesse. Bocc. Propose di rolere andare al
mostra lo luogo, e di redere se ciò fosse rero che nel sonno l'era pari lo.
I3ore.a I)a Pietro martire a Solo quel lirario era che già S. (toslino futc, ct
da Futu sfo mi al nicheo, suo maestro, a S. (n broſio: l'uno lullo fiori e
legge rezze. l'altro frutti e saldezza, Dav.a l)i I)icembre dicono che nulla
nasce che si semini, pur semina o i zo, o fare in su lui ranga. piselli e sul
ri le fu mi. I)il V.a Quella potenza con ragione si stima maggiore d'ogni
altra, la quale con sussidio di minori mezzi può conseguire più felice nºn lº
il suo line o Segneri.a gitta l'ammo e tal pesce li rerrà pigliato che ralfa il
tributo per lite » (esari. ARTICOLO (5 Due nomi, aggettivi od
avverbi relativi ad un sol Soggetto 0 verb0 a) Si separano frapponendovi il
verbo. b) Anche il complemento indiretto disgiungesi talora dal
rispettivo diretto, pure frapponendovi i verbo. c) Gli aggettivi si
trovano talvolta framezzati dal sostantivo. \ l 1 g.... l sl e silli, i -
i scolla la, l I l: - Il l i pez, a il II iscir: \l::: ' s." ;
i viaggi chi blo s.... il liri. I sing il il suº pensi li stili e li - si
si i. II. Il li sºlº lirli resi i vigli, sl 1 il II, Lici II l ' s l; in
ºsservazioni. Vs sa sono li al rialli, ss nel s', i rºssi,. maestri s, l.
I li alll I castigatori. I 3. l: ln i ritiri il ', con i tiri, l isp, N..
ll delle sue cose era nel suº i, lei e quel farne cºl pari ai li pºrti ss
i \ ella quale gran parte i ipoti di un de sui soldati \ l. i qui i rolli
per chi mi ieri sono, nel n. ilio alle donne stanno cli, agli ucnini, in
quanto, pii alle donne che ci il rion lui ii molto pati la rº e lungo, quando
si n: a 'sso si mossa la si l: Nali, lº si l ri'il miº l.l l ' i '', un
fiero i nº, l un forte. I 3, i. lº, i Trori i no, in luogo, le loro
i rom: mi stanchi. Il grossi piloti reni buoni.I)i ſanta ma i tiri lui e di
cosi nuova in i pieni..... l3 o. E l appresso, questo non si lanci le la rozza
rocr' e rustica in con le il l e o il latili nel riclit NN, il ct oli canto
lire' i no mi tr Nl l o r, li suono, e nel cui calcoli e nelle cose bellich
cosi noti in come li lei i t. snc: lissim ſi l lira' il n. li mi rilici e, in
grandissimi ti i pomerili e con presti aliula nel lit.... I 3 c'e' I n uomo di
scellerata vita e di corrotta, il quale lui chiamato le lo il lla Alu Nsti e.
lº ce.I' mi nella nostra città un grandioso in cui la nl e ricco. l ore. A piè
di una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a sluirsi se n'urnalò
». Bocc. Voi ordineremo onorevole compagnia di buone donne, e anche
di buoni uomini e forti, che li possano portare, e larci cessare la gente
ulosso. Cavalca. e questo addicenne che quanto è maggiore la infermità e più
puz zolenie, lanlo il medico, s' egli è buono, più s'appressa all'inlermo, e di
più si studia di guarirlo losſo. Cavalca. e (in cort disse loro, il lil tulo
come al rºssºro la re, e' eleggere atlcune buone persone e fedeli che rendessero
queste cose, sicchè. Cavalca. Essendosi tutto il bianco vestimento e sottile
loro appiccato alle ('t l'ni...... ». 13,:C.1ncora quegli rampolli che sono
occhiuli di molte e grosse gen me e spesse, impe occhè dore sa di moltitudine
delle gemme e spesse iri ſia l'abbondanza della genei a lira rili. Cresc.«....
oltre al credere di chi non lo uli presto pati la loro val ornato Giambillari.«
Patira questo ignorante popolo e rozzo quelle lungherie, e parere rallen le chi
altra ra l il ll, un ali di uli I e. l): I V ill.1 rera ad un'ora di sè stesso
paura e della sua giovane la quale lullaria gli pur era di reale e o lui oi so
o del lupo si rangolare... I3 cc « e oggi se fiore ho di sapere e nome rie il
più la rel si cl e lui gli ai 1 - ringhi, e roglio oggi mai rimane mene o.
I)avaliz.a Tu che di nascosta ch'ella era ed impercettibile. la remule's li
molti ' I rut / la bile il ricorut at i Neri Si...., Stºgli.« Non prima dir
parola le rolle di correzione che dileguato si foss' ogni accusa lorº. Sºgn.chi
men riuſ ut I lui al lungo studio e sollecito da lui adoperarlo in lui piccolo
a rincere ogni pazioncello e Cesari.a Belli sono i fiori e vezzosi; mi ai coni
e dice il prorerbio, in mol no all In I l i non islam l), no... Silvi! i.a I
greci panegirici ancora non ci amo mica una pura oziosa lode, ed inutile
ma...... Salvini.a lalalore se questo spirito, di carità ma nca che insieme le
leniſti ed unite le irre in bici di ('ris lo blu / le e in orle qui il li catal
'rc rºm ſono ut ſul rsi. S: il Villi.a lunque non li par questo luogo buono,
lorº iò si gran copia di erbe e si saporite, un fiume che mena i più dolci
pisciatelli di questi potesi ed assai, e alore non ci bazzica mollat gen I e
che ci possa i tr lui il miº r. I 'i l'el l/. NON … PRIMA … CHE.... quando
in luogo di: Il0ml.... prima che e quando a valore di: C0mle prima....; come....
così.. II0Il Si toSto.... che....; appena.... che. il IIIala pcIld.... Che... ;Non
selzi il l ' 1 lo senso di co; il 'la li l' ' gl., Inl \ 1 Il Sºl la colla
illica l 'Inghi e prol di sci i tagli, il lis, rag olio logica, la Virli, il
vigo e l'uso vario e rello di questa e di cento e cento alle singolarissime
strutture, molto più che se vi sono per avventura esempi di una forli alcun poco
diversa, sono questi, esempi di autori non alili hi, ma che solari lo hanno
scritto sulle orme degli antichi Inºltre colle scril (Il re del 300 e 500
colesto I)il el Iorio è veramente, e senza eccezione vertina, il sicuro
Direttorio, e appena che vi si trovi un sol esempio, che colmi il III e con i
radisca. Mello ſui due periodoli di origine antica e classica, con parole
quasi egli li SI 'I Il III non... prima... che..., ma che l' Illo e l'all si
ass: il live si. e la sala si li va il rialli si sia Il pi IIs li sl: non..
primat. che.., e sia l'on.le dell'ulio e dell'altro sigllili: l: I - Non
lo volle prima al suo cospello che egli si fosse pentito e avesse le testato il
sile) fallo no. Non venne prima al suo cospello che egli nel cuore con
punse e sl, il sl 1, ſtillo Mentre il vago del primo periodello consiste
manifestamente nella separazione dei due incisi della forma avverbiale
demolante precedenza di tempo: prima
che: lasciando cioè il che solo al posto
suo e antiponendo il prima, cioè avanti il verbo del primo inciso ed accanto
alla rispettiva negazione e parlicella negativa, non o nè che ella sia: nel
secondo pe riodello la stessa forma: non... prima.. che.., indica invece
simultaneità di azione, è ormai ci ripagilialiva che il lilli il ra lingua, e
orna al 'il II ra: con e prima...; come... prima: come pill los lo..; poichè
prima..., con '... così: ecc. Noli Irli esſendo il considerazioni che,
più che le mie parole, ſi darà materia di senſirle, non che di falle, il grillo,
la spontaneità del costrutto, la morbidezza e soavità della curva, il velluto
negli esempi che quì li allego. SSEM L'I DI UN: Il0Il.... prima.... Che....
ed anche senza la negazione, I)I UN: prima... che …in luogo della forma volgare:
Il0m... prima che; oppure:.... prima che Delºrm inò di non prima mi torri
e a lui il riglia che egli gli arresse alloltrinali e costumi ali ai la licati
e I), v. 12.perche' essa rc i goſ n. Nani e le lissº, si esse il piu' recel et
lui ci al ogni suo comando: ma prima non potei e che l e onl, inola lo Iosse in
Purgatorio ». Doce.Mouli, a cui rullo, col ti l'a 1 / i ti al cio: in prima all
I o le c', che ella s in ſegnò li reale i lielli di tiro …dirò come una di
queste sui ti 'ºssº, il cosi l mi 1 e si lil e si mostri - li, osse lui ll, il
ſei no, l'unº su di lui ci ti i prima al N. nl I e il I moi ll rull: con dolla
che i lioli di rºsse con sei il I.lasciano slal e i pensieri....... e gli e li:
i in I so mi ci li. che prima siamo sli acchi, che i libici mi disposto, e
apparecchio lo le cose oppo lui ne (('un l'ºliº e li ill ci, la r il.Prima
prelerirebbe cioe' ini, l be tullo il mondo, che Idilio fosse lºslini onio di
falsità pure in un primº lo Iºr (ii rel. a nè prima ri formò che il di s.
gueul, 13oce. perchè messosi in cammino prima non si listelle che in Londra per
rºmanº o. I 3 cc.« rolle non solo disporre, ma intera nºn le conchiudere il
patrºn letali, nè prima reslò li lire che non utlisse: l'in l?elier cui ci
ritmi le Segr. 13 Così coperse lui nuli di lell'utilull ºrti, di lui con lolla
nel le mi pio, quando non prima di parola le rolle di correziose, che dileguato
si fosse ogni accusa lo re... Segri.« ('osì comerse la nudità della Santrilotti
at. a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimprororare la rolle
di disonestà, che rili ralo si fosse ciascun apostolo. Segni. I 1.« e rolera
parlargli, se ne scusò Luigi per non arene licenza, nè prima lo rolle ascoltare
che il generale l'a resse a ciò licenziato, di che il cardinale ne prese
grandissima edificazione ». (es.« Quiri riposatisi alquanto, non prima a larola
andarono, che sei canzonette cºn tale furono o. I3o c. 15.a Prima sofferirebbe
d'esser e squal lato che tal cosa contro l'onor del suo signore nè in sè nè in
altri consentisse, Doce. ESEMPI DELLE FORMI E COMPAGINATIVE, DIMOSTRANTI
CONTEMI L’ORA NEITA I)I AZIONE Il0II prima l Il0Il...... I10Il Si toSto.....
che... ilppella il IIIilla perla..... EI) ANCII E DELLE EQUIVALENTI:
C0mle primiù....; C0mle.... prima....; come piuttosto poichè prima....;
come -... così... slli il tille V lgi l'I e ci li Nlo che su bilo, che,
ci. I. Non prima e libri al boillu lo il gºl in cesto in lei l a che la cugion,
della noi lo lei mi isºli a mio n li a ppoi i re. I 3.Il ct c'Ncat e 5 in bella,
per ogni sorta di tici ll e non li di prima Nºli - di alo uno che gli li o I il
sºlo se mio lo sta la a lola. Caro. l. Il ct: l tesle in tilt ne reni ſono i pi
ppo, e il so il 1 l po'. Ne' non prima la l rila che gli l'ha. I lav …l doll,
che sarà, io li promello cli gli non ne senti il prima l' al re', che lei riti
liti e li isl il l il c. l 1 l'. Idilio. lisse, li Il 1 li lo i cui, e non
elilu il n 1 l o di lirilli, lo che ſli si coni in tal il pil irli, e lº ri.e
non elil, e li rile, l'intillnerali la mia sl i il che il reti lo si l irolse
al l l. in on lui ma i Nplut mi, su bilo il n 1 l l.Non prima al talli lo ri mi
li a mo di ril lo i ti noi, che lo slo, Nlton no ci ri li di lui. I l at col 1.
se non lo sº e nelle di ''I I I nosissimi al ligut. Segl. Nè prima il rule o
che pi ruppero in lullo da disperati, in gen il il ct o. Se gliL'isl, Nso (io
li ho li sui bocca in lesina lo conferma l'orch è mor prima, l lorº letto: \ un
renis/is. el modo ricºnles plagotn mi rotn linells. che nel rersell seguente
soggiunse su bilo: \ un quid dia i: a lei le mili il l cle su lislam lidi resl
rat clona le mih l'. Segli. Inzi non prima r han con le rila una grazia
alquanto spesiosi, ch'essi pretendono tosto che lui lo il dì roi li dobbiate e
accompagnar ne' corteggi, e apportar ne' cocchi, e servire nelle anticamere ».
Segn. \ on rel lissº io º non prima io roglio, cominciare a parlare, che il
Santo P ofele I)a riele mi toglie le parole di bocca ». Se gli. Non prima riule
ro ossequiosi sol lorni eIlersi i mari alle loro pianle'. e tributarie
stemperarsi le murole ai loro palali: non prima sperimentarne a loro pro
luminosa la molle, ombrato il giorno, rugiadose le pietre, fe conda la
solitudine, non prima cominciarono a debellare i popoli con la forza o a
premerli con l'impero, che si ribellarono arrogantemente dal culto del vero Dio
ecc.. Segn. Non prima contemplò quiri assisa la forma pubblica di giudizio ap
prestatosi a condannarlo, non prima i giudici apparsi nel tribunale, non prima
gli (ircustlori uscesi sui l os/ri, nºn prima il popolo concorso (t)) ol
lalamente a mirarlo, che non potendo più reggere alla rergogna, ristelle un
poco, e di poi, tra lo furiosamente uno stile, si diº la mortr. Segn. Troppo
indegna cosa è il reale e che non prima risolva usi quelli donna, quel
cittadino, quel catrali, re, o ai rºslire con maggior sempli cità, o a con
rersare con maggior riserbo, o di ricere con maggior rili ratezza, che subito
cento male lingue si ci fu zzino al molleggiarli. Segli Non prima l'innocente
colomba uscì fuor del nido, che diede fra le ugne di un rapace sparriere.
Segn.IIa un ingegno diabolico e pronto, un proceder ſardo, un pati lar grare,
un arriso subito, un ritratta i si in su l la II, che non gli c prima messo un
lascio innanzi che r la I l o a lui la sua riſortolot o. Caro. « Non si
tosto poi la riſolse in mano, che la fece di sorpe ritornar gut ». Sºgli.
E appena ebbe letto le predelle parole, che li subito sopra di loro renne una
luce con la n la chiarezza, che essendo il rore nelle oscuro e' si redeano
innanzi chiaramente come di bello di chi ti o. Cavill a. ()uiri appena ) il che
ecco l'ar male degli Areni, i quali quali lo pl in al riale ro i nostri, diede
l o l u llo insieme in col mal e latin li li li. I 3: l'1. Appena egli posò il
piede in terra, che mentre si mira col (l'ul ll ' 'n i. quiri
l'inchiolarono..... Si gn.E a mala pena e libe apri la la bocca, che gii, o
rinò misert nºn le. l'iore 17.Ed appena erano le parole della sua risposta
ſimile, che ella Nºn li il tempo del mar Iorire esser renulo o Docr'.a.... e'l
figliuolo essendo andato per il n calino per lat (lolcit. appena era il ferro
entrato nella carne un'oncia che il porco cominciò a gridare i Sacchi.« Appena
si sollera ra un leggiero, diletica nºn lo di senso negli animi i di un lierna
raſo, di un Franco, di un lemºdello, che in con lui nºn le I lilli ignuoli
correrano chi ad allui)arsi nei ghiacci chi.... Segn.« Appena era comparsa nel
campo la generose (iiudillo che l'atlli subito quasi alla risſa di un insolito,
lune, rintser lilli incitmlali a si gran beltà ». Segn.Il ralen l'uomo senza
più tranti andare, come prima chlie tempo questo racconlò.... ). I3cc ('.a riri
sicuro che come prima addormenta lo ſi fossi saresti slalo (tm mazzalo) ».
ROCC. a dore egli come prima ebbe agio fece al messere grandissima festa
». Docc. -. E in altro luogo ripel e il 13 cc. la stessissima frase: « Ella,
come prima el be agio fece il Saladino, grandissima festa »..... la qual cosa
come prima si udi per la Lombardia, lolse laul (li credi lo o, (iiamb. “e
promellendogli ancora largamente di levarsi in aiuto suo. come egli prima possº
in campagna. (iianl).la cui poichè prima ne in lese, si son li prende i si. che…).
3il 'l. « L (quila come piuttosto di ciò s'accorso'. enl, è lui la sol lo
sopra e così s'andò la (iiore, e con togli il caso, lo pregò che......
l'iorenz. e quando egli ci sarà, io lo me è e come tu mi senti, cosi il ia en
li ai r in questa cassa e se i ra i cl clen I ro. I3 cc. con le prima, lº sl he.
Come lu gii, disceso cosi il lil o I russe. I 3 ('.Come ti ſei rola il sen li
tono cosi se ne scese o alla sl 1 di lui lº ce Come ride corre e al pozzo. cosi
ricorerò in casa e se i rossi le uli o 3 ).... per le quali parole il mio
marito incolla nºn le s'allo nºn lo e' ccme al lorni en la lo il set le cosi
tipi e l'uscio e riense ne dem l'o, º slots si con m cco e questo non la lla
mai e lº il S.Come io giunsi ed ecco sopi arreni, l'irl ro 13ore 19 NOte e
Aggi U1 1 m te all' articolo 8 12) Simile alla coes-ruzione
tedesca: nicht eher... als.... Il luogo di ehe oppure bevor, che sta per l'
itero prima che,13, Quel non, che li i lo I r. I s-li alti - Ilpi, a 1 lie
della sesso Segneri, è lorse scivolato di liti per il la ai valori e i
Segneri, ai quale sapeva male, pensº io, o gli veniva del guasto e dello storp
Io a dire: che udisse. 14, l'oni Ine!lte il lesto e i i pr. e le 11 e le
1 di... II, 'il:lo all'ait, si rassolini, li, i lle 11. Il perdori sl il 1.
l)llº I – Il re 1 il ll li si, gol i. 15 Il Corticelli si l plico Ia, il
il 1, par. 1, se qui con le e di ragione, imperocchè rilerenido, lo stesso -
Impio, osserva che la par ticci la prima con la negativa ha la proprieta di
significare talvolta infi nattanto che, e talvolta subito che. I - Il ll il 1,
si l: i 1ei la se conda parte di questo Inedesimo al tiroio S. Mia che li
citato non prima fol mi da se S lo frase o modo avverbiale colli e vorrebbe e
valga infin tanto che, non so cui possa Ilia I capire nella 'lini, che il grato
sente e intende (lei II l 'ti er-e III l i lill 1. Il nel significato di
infintanto che, lira Ilei la s partiz le due lil - la l l'avverbi, prima che,
tra li l'11 | tendov -: o li e -il-sogllita o leve sllssegllire. 16 Qil -
o prima 1 e 1::l'i; 1: de l eher li di piuttosto, più presto. Ma ad ogni modo,
resta sempre il grafo della di sgiunzione e trasposizione dell'inciso
che, 1, Binda che i ll'en III al clie fa r, ti ra questa o qllelia for
Inti in coInfronto di un'altra clle III i dl o con i lille e volgare, non è In
lo avviso che questa sia sempre lilello bilonia, e sia la sli: 1 ter addlr
IIura. \ che i Inodi tos:o che, subito che non solo a ragi m d' s III pi - II:
il 1 li che non ne usasse quando ben torni, anche il I recenti e cinque º to
Simile a questo subito che, IIIa in Iorma piu gaia e pil ſorte è il da te si o
ratto che:....... ed r si lev o ratto Ch', la ci vide passarsi (l: V: l Int (m.
18) Al che i Latini usarono ut i greci o snello stesso siglli l'rim.1 di
passare a l alti e altri tazi, i no: voglio qui rimanermi di ºsservare che (Il
testº: come.... così..... è ben altra cosa della forma coin. parativa, p. es.,
del sieguente passo: nè sia chi ne stupisca, perche come l'uomo è vissuto cosi
generalmente muore. Notisi però che di questa forili º comparativa ai buoni
scrittori piu che il diretto: come... così..., a: a Va assil I
lll'ill Ilio l'assetto in V clso: cosi... come...; che cosi in alti e non come
l'ho citato lo trovi questo inedesimo passo nel testo originale del pil dre
Seglieri: li siti e li I tre still list il per le cosi l'ul, irlo lilllore generali
Irelle, come è vissuto n.Assaporalo il grata di codesta lli versi rime anche
negli eseIl pi se gllenti:Queste sono le operazioni (le l' ill: Ino: all III:
estrº l e, a Irl III ollire...., l - gli cosi Coni e lº, il 1 lt il ſil 1 l. -
- - - - - e ce, aci per i re cosi lo III: i glie loro come lo Ilge gli ed
intelligenza il ogli i sa, e pera º norevole I l Ill sa.... » l' 1:1 lo l
Illi.Io potrei cercare lulla Siena e Ilol Ve ne troverei illmo, che cosi II i
s.esse belle come il si.La li la dre, che le tl, l ire l: I 1:. ll ll l: I g il
va Il ferirla, poi, le le seppe Il rito Il. dI S. l a no esco con lido che cosi
or: la p 1 l el l e l'Isll st 11: l III, I | 1, come, Zi l', i Vrebbe potuto
risal lia l' iller IIl l: illo. ll, cosi i ns, come gli 1 ll dal V a ntl gli si
gel1 o 1 pl il 1, rot! S si III in id), Il Irgli ». I3: l.«...... ll I II li
assi. Il ril. ll I 1:1 e-1 r il pil sapere di V (I, cosi II slla l la
legg.. I 1st a 1 il ss 1 vs 1 1, come voi ora il I persl 1: i let ss. l
la s. l '. I 3: l. e … se li, V. - ti.. ll cosi !) il liti e In Il lidosi come
il l V el'elil e la V il si, 13a l.« A Ilzi cosi il ssista Idcl I o il V revole
il Il le:is eri come i 1:ì ll pil II: i n1 il Se tl.Se l'uomo la il sottil I
geg. l lo i teli e lo chiali o, il salda me noria, loli se li puo e l'1, i re:
le cosi -: S I lllll liti de Vizi, come li virtll,. lPass: l V.lº, il vero, li,
cosi come lei, il... - Illesi: da li ll. I l il l re i ti li.. -. I 3, i.“. - -
- - il ilse la V I rl I si sa delle liti.... per le cosi come, lisa V
Vedula trielite: so - ei 1, si via tre il - i l: spegnere per o!: ºr i li
ll li i' l I l: il ct, lì 11. - lo Il Vila: “i sa slla i livi gli in stra quella
cosa la qual e egli ha più cara, a flernlando che se egli potesse, cosi come
questo, ma lto pit volentieri gli mostreria il suo cuore », l?occ. “e che cosi
fosse servita cosi ei come se sua propria moglie « I (lsse ». I3C) (('.«.....
rispose che così era il vero come quello Irti le aveva detto ». Fioretti.« E
son certo che cosi a V verrebbe come voi dite, dove così a ndasse la e bisogna
come avvisate ». I3 a.« Ma non illte:ldendº essa che questa fosse così l'ultima
come era sta e ta la prima ». Bocc.e Sio Irli conoscessi cosi li pietre
preziose, come i ini, sarei e buon gioielliere ». I.ib Motl.19; Ho annesso agli
ani e li liti in li Il testo esempi di un come.... e...., e sì per mostrare
l'allal - ia, mie a 1 he per rilevar e la diffe renza. A cenlla bellsl 1 il l
Il s.o come.... e.... alla con impara nella di dlle atti, Ina Vi senti al che
la relazione | 11:1 lo di: in quel mentre, in quella che..., precisamente al
fora..., e qlla ido, di quando..., tanto....; di che ti sia l all o p III, l i
rili pari le lilli e si ra., il 1 e l'allegato, gli esempi che seguono:e IO Ini
leva diritto, e come i i vole: l IIIa ridare chi fosse, e che a Vesse, ed e.,
Iri esser I.: Inler 1 1: v. I l sul l. 1 litot e 2, 3oCome noi pro lia il e s
II h, a e ge')till III: I mie!'e V (Ing Il i: ll' ! ! li,, (si ri.Come pili i
vecchia la V. AV relIl mio tilt li in li iori -: l:di. l il bit. ll e pill
ripostigli, e più si cerebb il le s II -, e come piti adoperate e liti per ferite
e ! ti ve nio, poi io che si lo i come le vesciche, le quali come pili solo lo
rientate, e pii - empiono,. (.ar.()sserverai lili -1 e si pllo talora sotſi' il
lil re, ti: nel I e torni bene, e punto illlia n soffra il senso.
l'rima di uscire di questo come, cli i lili: lelli voci re Illonti sulle penne
degli alti li, p la eliri per il III: il clii il 7 Zii e collettivita, di
completare e mette e qui il Vppenali ll l a rigor di ordine s: rebbe materia
del capit, i gli ºli,,,, il ll li - Il pi l'1 ol':i, sia di un semplice come,
che, -: l li a lli I chi, lui ora Iorzi di siccome, poscia che, conci ossia
che, subito che, li quale il. col... quale, precedute dalle voci modo, via
ecc., e quali (lo di che, di finchè ed anche di quanto n 1 modi: come spesso,
come presso?) e talora lillalrilen e di im, con, di qual maniera, guisa e
simili, sia de 'I I riport come che, a valore quali ido, di avvegnache, I: I:
Ido li in qualunque marie ra che, e talora anche di uli semplice come (siccome.
“e com'è Illisse di verilo e'l freddo gra il le, V eg. ) io l'ill l'e ll 11 di
que” bacherozzoli o F, ronz. a Come villan che egli era il canili, di
lilltalli, gli illò della s lll'e a sulla testa sì piacevolmente che … Fier
liz. I concia -si: chè egli era villa li, cosi ſi celido come si lol la r
llli Villa lì lì. ti e come colui che pi col l lev:I | Il ra a V V a 9. l
3 ct'. “..... un giorno verso la sera elitrò li ei gia i dilio illi: gi
valle hella e vistosi, come quella che Ioriº ita era di vestiti riti di
seta e d'argelli avea intorno le piu nuove ed is;uisite legge che si lisa-ser,
(iozzi a.... e com'e' vedeva i lºlirici in posi, novella illelite ridava
all'arle º Bart. e dissegli che come nona sonasse il chiamasse» Bocca Come la
donna udi ques.o levatasi in pie, comincio a dire....» Doce. E dire il
vero, com'e' l: rai, Ild ri. Illesla (til lido ilz:i di l)io il lin llc, l'e, è
lllli il n. St gli...... e com'ei Ill iIII per li re, lei scaccia la... ft III
l'il' li lllllg, si eliſ on I ); i V.a Questo animale, come sentirà l'odo e del
pesce, ilscira fuori e con il a ciera a mi: ng la rsi di Ill peso 1 il ni,
Fiºrenz.“ - - - - - - come pervennero alla città di Gaza li l iuoli
inlerinarolio si gra veli elite d'ulio Inc. rilo e le el'a ll lisleri It I l (il
Val 1. Io voglio andare a trovar modo come il s 1 di qlla elitro » lº - e
segretamente deliberero io che si dovesse trovare ogni via e ogni modo, come
poi sistro la r 1:1 ril e (ies Il Cav.... e da quivi innanzi penso sempre modo
e via come e glieli potesse ll l':ll'e o li l el'. … che per certo se p
ssibili fosse ad avere pi e ebbe come i il V esse » i 3. li Il l..... l Ebbe l:
nuova come (ialobal era il is l il V..... come ti se lui spesso ad Ira..
I3llon: i ferrilli!):l, come il cºlessi I ea voi? Vlessere, dlle tl):17 /:ll di
ma lo » 13. In Itlal I l 'lieri, i 11: il prezzo).Come è il V, si ro Il le? e
il V I l come li, il 'll? e lº quale, di ſlal lo fila. e... e di li a 1 lo come
li -: -st:: Il a I.:i giova:le, plai lig il, l ' s -. ll avev. a - la li
paglia nei a selva sli tirrita, i ri. I come presso lo ss o il Vlag::l, i cui I
l bilo: ll il si se...... l3 e. I ) Iss i llora l: i giova il lº come i l
so io: l italizi presso di di ver il berga l'? » I 3 i.Veduti e gli allegati i
seri ini i lil 1 | li i lisi di tiri come il form la selm plice, passiamo ora
agli esempi del collip - come che, in quell'lls, e val(il chilo (li: i
rizi: (*) Notale queste forme: come avete mom e? com'è il vostro nome?
Vostro padre corn e ha nome? Sono st m.lli alle tedesche ed inglesi: Wie
heissen Sie? Wi e ist der Name? What is the name? ecc.Usane anche tu, e la sera
il francesismo: come vi chiamate? ecc. e simili. Si che l'ha anche il Boccaccio
questo chiamarsi in significato di aver nome, ma ne us a tm maniera ben diversa
e più leggiadra, che non fa il moderno. Esempio. « Domandò Giosefo un buon
uomo, il quale a capo del ponte si sedea, come qui vi si chiamasse. Al quale il
buon uom, rispose: M a sera qui si chiama il ponte all'oca ». I) al qual
esempio ognuno intende che quel si non è particella pronominale riferita a
quivi, qui, ma sta per gente, uomo, on, man th ey the people - e qui si chia:n
a vuol dire: qui la gente dice, qui si dice, qui tutti chiamano, o cosa stmlle.
Di esempi del modo aver nome in luogo di chiamarsi abbonda ogni libro classico:
“ Beata Margherita fu fi gli uola d'uno ch'ebbe nome Teodosio, Il quale era
Patriarca ed era gentile uomo e adorav gli Idoli... “ Cav., ed io non Glan
noto, ma Giuffredi ho nome Bocc. ec. - Nel tempo d'un Imperatore pietoso e
santissimo, il quale ebbe nome Teodosio Iu un senatore della città di Roma, il
quale ebbe nome An tigo no, uomo di grande affare, e molto congiunto al detto
Imperatore... Tolse questi mog te, una donna, la quale ave a nome Eufrasia,
donna religiosa, e molto temente l ddlo n. CaV. 33 a) L'avverbio
come che non ha quel senso di perciocche nel quale tanto frequentemente è in
bocca d'alcuno. Il suo natural significato e d'avvegnache, ancora che,
ben che (Bar toli). Notisi però che anche in questo senso trovasi il piu SOVC
Ilte, l) Ull al principio del periodo, ma entro a questo acconciamente
innestato. In testa al periodo prelerilai: quantunque, quantunque volte,
benche, avve gnaCChe ecc. « AVVisando che dell'acqua, come che ella gli
piacesse poco, trovereb º be in ogni parte » Fierenz. “......e sempre che
presso gli veniva quinlo poica (n mano, come e che poca forza l'avesse, la
lontanaval o 13o. "...... ed oltre a questo, come che io sia al
titº, io sono inoltro, colite « gli altri, e con le voi vedete, io: io, i s a I
r; i vec li a Lioce. º...... il quale, come che II lotto - ingegnassi di
pir, r, salito:ier, º al flat ol' della fede e l'isi d l'1, i ra Ilon III.
Il tono liv st 1. alore di hi a piena a V ºa la b rsa e li li rli dI - ii a lei
le s III sse » l?occ. a Ella ll (lilediCa Il li l' ', conne che li l s, il lit:
i rito, se la ll I li « fallo llli crede. 1 e esser III, I » I 3 t.« L'ira in
fervelllissili lo Il rore accenti si r.:; e come che e questo -C Vento 1: egli
iol 1, 1, 1 a VV 11: 1, 1: là con ni:::::: danni s'è nelle donne Veillllº º
Bocc. º...... si è adoperato i 111a Iliera di ri..., come cime inolfi il
Liegano, a ((Il dann, a lido d'errore il dire.... » I3: l'I. «...... e
come che gran moja nel cuor fi nis e, º eriza n. il tar viso, in braccio la
pose al famigliare e dissegli: te..... 13 cc. « I Inalla cosa è aver
rimp.issione d gli: Il Il ti; e ceme che il claso una a persona stea bene, a
colori e mass III, III e 11 e 'I l ' st, ' quali.... » 13 r. b) Anche per
comunque, in qualunque maniera, e ad i era lui si desimo come che, scrive Il I
al I l l', - lizia Illi. Il sospet lo d'errore.In questo caso pero e il come
non il come che) l'avverbio risolv: toile lei sului (le111enti: in qualunque
maniera, e ii che li e la rispettiva. giunzione o pronome realivo, congiuntivº:
nella quale ecc. o Nuovi tormenti e nuovi torinºlltilt i Mli V gg, Ill. l'I1,
come che io, « mli Inuova, E come che lo li li V l il.... » l)a ille. « Come
che questo sia stato o no.... o lorº. a Come che in processi di tempo
s'avvelisso. Docc. « Come che loro venisse fatto » l?occ. « Ora come che la
superbia si li renali, o per l'un modo, o per l'al.ro...» Passavanti.« Ma come
ch'ella li governi e volga l?rili lavora per me non tol la « mai »
Petrarca. c) Notevole anche il come che dei seguenti esempi, nei quali
sia il valore di un complice come i siccome, « E come che il povero corvo
fosse persona antica e di gran ripºrta « zione....., molti lo venivano a
visitare, e come si usa, pil con le parole « che con fatti, ognuno gli
profferiva e aiuto e favore ». l'iel'eliz. 3 - - - - - - m:
disposi a non voler più la dimestichezza di lui e per non averne ragione, nè
sua lettera, nè sula 1 Imbasciata più volli ricevere; come che io e l'elo, se
li lu fosse perseverato,..... veggendolo io consu « Illare, colli e si fa
la neve al sole, il limito dll r, proponilla mt, si sarebbe a piegato »
Boce. I3mila però che il come che di questi ed allrl siiiiili esempi
senza nu Intero, 11, li si vuol leggere i dlli filo e pr. llllll iare con
quell'accento che il comme che a valore il quantunque, benchè, che sarebbe
imbra il o troppo rincrescevole e noi ne aver sti a lei in senso, ma
profferirlo in guisa che il come risalti e recli egli solo l'impronta di
siccome, im perocchè. La congiunzione che non ha qui a far nulla col come, nè
sta ad al.ro ulfficio, oliº di semplice collg Illizione o nesso di puro
OrnaIlento, e la portersene all'he l'Il rialle e', 'Irle appllll., fece, tra
l'altri, e assai si velli e il lºlere:lzuola. Particelle e compagini a
foggia ed uso classico; avverloi, cioè, col ngiu 11 azioni e voci il n go
- I nera n lo è o li in iu 11 i valore altro cl neº rela a tivo, 1 r) a tu ltto
i 1 n t rii msec », i1 in in nea 1 nerì te Clirò cosi, e il nero 1 i te al
costruutto, con i lcº il gran to del tcsst 1to l crio la ale, il va ago. lo il
coro lit collega - 1T nel nto gli slo: nrtite i lec. Ad alculle di
sili. Il l Irella l. I li gi i tiri lici li nomine di 1 - pieno, e ci sono ce
le colali particel.... ess, proprie della lingua toscana, le quali, oli e il 11
11 11 -si l i i s ll la III, il alla tela gl a - Intili: Ile, clie pi l'eblo
sl. 1' st 117 -s. l II l' - I lil a cle aggli Ingallo a - l'orazione forza,
grazil. ori a 111 mil... se li n. I ro. Il cerla maliva pr - prietà di
linguaggio... C. rl Icelli. CIl mio ed altri. Ma vorrei qui rilevare che
codesti autori fanno appunto oggetto di particolare osservazione le l ' Vlt i l
(..l'.I l.E che non inati, o ti ifici o altro cile di ornamento e di ripieno;
men.re le l ' V l l I (I, I l l. e 4 t ), il V º il N I, e le V () ('I IN (i I,
NIEI è VI,E, di cui e parola in questo e in altri capitoli del I)II E
I'l'ORl(), sono argomento di studio da quindi addietro al tutto igno rato e
assai più rilevante che non sia cosa puramen le ori:arm2miale, come quello che
adopera all'origitial candore e alia NEI VA I V del perio dare classic. NON SI
(tanto)... CiiE NON... Per squadernare che io faccia un libro, il derio
di penna volgare o colta, a gran pena ch'io vi Irovi pure il periodo a lornia e
sll'ulltila clie negli esempi che qui ſi allego. E dire ci clia è si bella,
strella, evidente e di un garbo tutto ilaliano ! L'ebbero a grado assai ed
usarolila di Irequente scrittori non pur del [recento ma e ti i cinquecento ed
anche dei piu recenti, – di età cioè, non di sonno e di ullura, ch'ella è
antica e non invecchia mai. ltisport pressa poi al 11 sl 1 o: per
quanto... lulla via..., e talora a 11 ne ai cori e tali vo: qui un lo...
all.rellan lo.... Cili è però mestieri di ben altri, i lilo a 1 il ri: il lique
suscellibile sia dell'uno che dell'altro 1 ggi il coinvºlte i Sy Pochi
esempi, ma quanto basti ad aguzzarlene l'appetito: .... e le giustizial to
a sioni in calesine in diverse lor pan li debbono a re e al rei si nun
li, nè si l ruora alcuno muri e o cosi bello e leggiadro, che ustio li', pur
intenſe non luiuslidisca e generi sazietà. Varchi. E dunqu su penso che l'osse
un re libero di carila, che non è si poco site noti avarizi, e, a lui pia, che
li lle le cose ci colle, onde ella di mld l'a, più te, e l'uni, e in. ch ella
non la ceca se medesima. Cavalca. .... m. a e la loro si alla lo alla mia
che una paroluzza si che la non si può dire, che fiori si senta o.
liocc. ....pei e che mai uomo non mi vuol si sce, e lo parla e che egli
non roglia la sia pari udu e, e se ci cruene che... i 13ove..... Mi ss, i disse
la donna, il giovane con che alle il laccio non so, ma egli non e un casa uscio
si serrate, che come egli il tlocca non s a lui a... I c.percio, che egli non c
alcun si o bito, al quale io non ardisca di da ciò cl, bisogna, ne si lui o o
zolico che io non annoi bidisca l'ºnº r, il il di ciò che io cori di litrº.il
in ii...... ancora che egli non loss mollo chiuti o il dì, ed egli s ci sº in
sso il cappuccio in util: li li occhi, non si seppe si, io ci o cali non posso
prestamente conosciuto dalla donna - lº no: si p co che oltre a diecimila
dobbre non calesse e lº ins, s. capelletto: Messer lo piale, non dil cosi, io
non mi onirs se ne tatto e le nè si spesso, che i sempre non mi i colºssi i sa,
i n i 'mente di lulli i miei in rili. che io mi ricordassi dal ci, ci e, a qui,
in lino a quello che con lº stilo mi sºnº i 80 t. ve mai enti e così ci rendo
cedrete coi, niuna spesa lalla si ſnºdº, è si s., lo sa, ne tanto magnifica,
che ella non sia di molli, per molli mancatinenti, biasimarla l' º '.e 1,i, il
re in guardi, che i cari sia le nulle si lº lui il li) con l rul 'lo alla fase
a degli uomini quanto l'ºrº ristº: niuna è si chiut l'ut (' eccci fetil e in la
quale non stia oscura, e sconosciutº sºlº l'u n'atrizia ». l', i licli il. - -
E la chi potremo noi lidire' più il vero, che da voi, il quale si"
riputato sion tanto spendente che in roi non slot onesta mºsso" " si
le massaie, tale che non dobbiale ºsserº reputato liberale? ». andolº. si eli,
a I, sperar mi ero cºſiº I)i quella ſera la gaietta pelle.; del I n po, la
dolce slogionº, Ma non si, che paura non mi dºssº La rista che mi apparre di un
lºrº º l)ante. - - - - - i vini campo, fu mai si ben collirottº, che in esso º
orticº ". o alcun primo non si l'orossº mescolato fra l'erbe migliori º l'
iamme" « Non ci sarà tanto dolce la consolazinoe che prenderete del
sºlire,.... che egli non vi debba altresì essere utilissimo il al re... C -
sari. (29).« e dilellami di pensare di lei maggiormente, che reca maggio: virtù
e maggior ſortezza: e so bene ch'io non potrei tanto mensa, che più non ci
avesse da pensare a Caval a.«... e' l dimonio disse: Al mondo non è per cui lo
si gr. 1 nel, che I, lali, non gli perdoni, se si converte, ma qualunque uomo
si accal.. per I l pºnilºnso o per altro modo, se llio non gli ha misericordi,
si e ci rius I., Cavalca. non è si aspra e malatgerole che alcun pur non la
les, le i Cav.« non è si magro carallo che alla bietola non rigni in il 1 lo..
S º..... con piacere inci 'dibile del mio stillin, che son d se la trº Sloi (),
che per si la lo on i re non si l is 'n lor e il tr..... );...a Io ne ho
parecchi esempi ma per dir crro, non son cos: i ſissini: che non possan
ricevere latin lo accorcia in n 1 l in I pm la l... li « Qual luogo è si sui
grossi nto, che i c. coli non ti tra il ct 1 nel 1: insidie alla loro incut u
lui one's là?, S gl, 30« un lento morire di dodici anni, per una penosissimi a:
i riti iii: nè tanto leggiera, che quasi sempre non isl ess, in agonia. se
tanto il re alle forze della sua carità, che sempi e non in licasse i sei zio
di Dio e delle anime n. 13a l'I.« Non istelle o però sempre quiri in Tucuscima
fermi si ciºe l'uno e l'altro non iscor esser tal rolla a seminatre e mielere
il lle tll re isole di quel contorno ». Bart.« Che se non è mai tanto aspro
dolore che il len per non lº distri li ed anco non lo annulli, perchè la
prudenza e la costati ai rom l dr G almer in itigare? ». Caro.a Secolo non però
tanto di rii li sterile che qualch. n e si ri; i non producesse ». Dav. - «
Sicchè bisogna guarda i ri da animo delittº ºlo. perchè alla osti, nazione non
è si difficile impresa che non riesca. Fiºr º.a V ero è nondimeno che in questa
pati (e di nasconi, si tl riti º gli renne fatto di conseguirlo si interamente
che ti º di quello, che fuor che agli occhi di Dio egli pensava essere occill
I, r; l uſ gli atll ri. nºn si palesasse ». Dart. – 38 – NOte
all clrticolo 7. ?S) To II: Ilive e per i 1:1 1: la..... Il Not so.... but
that.... Es.: I noi so but that I l l:lve g ancd at rva - sonº l'1: v. l. ll,
Willls ver not so Il 1 l v d... A cºl bu:i tinat i -li si stile t:
2!) ();: non si u, le motº..... ! ! (r -,, e al I li e !::i ll l: llll rºl, l
tall ll...... o si pºte:to... o tre.... vi il lla -. v. l i non
meno,,, cime VI, ina: qui li a l. egi 12 linette i'a, la cosa e i'altra; I l V
i l IV V:) 11 egua i rincari e il pregio di virtù e in nuriero di lei le!. l.....,
l i i 30 (). li è in ſo..! i; iprimo incis, l' ri: Ni: in It:ogo è si s -::
cin e voi i pl: i non te !, trici 1 e ti. 13 n0n Ciii... (anzi, ma...)
l' vi l' non rli slli gg ad Il col: il liso, ci chi si l i delle in circ venti
li e ſi ha - - il l e per le fornire e c i cl: ssi i: I l. E li ul:
ssaggio dei model i i non cli: « E vi la lo il tg ci li:. spicca il I l.
non v li e' viali ecc. il III il s lis.. l si gli e il solo cile
gialnili: li si riliv li i ll ': 1' ll -: il lassiche, | Non sº, l l: li
lilai i ". I sici in l:il guisa, ma luitino, se lingua a que”
gloriosi. l:s il de vi: il re ciò e,i lire: si oln in he uscir de
condo pari a me, pole a riti per il che | Il il colport Isse, lanlo è diverso
questo modo, non che dall'antico e lui si li l'ente sulla Appo i classici
vale a dunque quando non solo, (Illando non solo non. Il Bartoli e parecchi
altri sottili investigatori in opera di lingua appuntarono il Vocabolario che
definì il non che: Particella e crersalir. e di negazione, e corressero
aggiungendo: alcune role sì, alcune colte no ma e del si e del no niuna regola.
Io non pretendo crear regole; rife risco l'Osservato e se altri fai assene
regola, al sia di lui.Dico adunque che Dante. Doccaccio, Cavalca, 13a Ioli, di
altri li grande autorità dànno al non che senso di non solo non quando regge in
passato e talora anche il presente del modo congiuntivo: in altri casi vale
sempre o quasi sempre non solo.Il Cesari però adopera l'un per l'altro. Forse
ch'io inal, apponga o che il valoroso Cesari (lui sgarrasso? Non oserei
asseverarlo. Il ma od anzi del secondo inciso ordinariamente non ha luogo di
lando. vi è inversione di frase, e però il non che sussegue, non precede, come
si farebbe direttamente. Nè per questo torna al non che moderno, che la
relazione di non solo non e mai vi si sente ſul lavi, ed è lontano le mille
miglia di assumere il torto significato di siccome anche e ancora (C('.Senza
inversione di frase può per altro il mal precedere l rrelativo non che, come
fecero, Boccaccio. Partoli e tant'altri senza rimerci. Loggi e dimmi se vi
ravvisi il non che moderno ! E' affare di ori ginal candore, integrità e vago
non pur della frase, ma del peri do ancora, che i moderni non curano affaſ (c,
lo bistrattano, e pare che i cciano a chi più lo strazia.(38). Non che io
faccia questo.... ma se roi mi dicesſe ch'io dirorassi nel fuoco, credendori io
piacere, mi sarebbe diletto ». Borc.« Non che la mattina, ma qualora il sole
era più alto..... ra si poteva (1 ntl (tre ). T30CC.a non che a roi ma a me han
contristati gli occhi ! ! ». Bocc. « Di qua, di là, di giù, di su li mena.
Nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena ». Dante.a
Quanti leggiadri giovani, li quali non ch'altri, ma Gallieno, Ippo crate o
Esculapio arrieno giudicati sanissimi..... ». Bocc.« Ed oltre a questo non che
alcuna donna, quando fu fatta (la legge ci prestasse giuramento, ma niuna ce ne
fù mai chiamata ». Rocc. (30). « Ma non che punto giovasse a rimetterlo in
miglior senno, che anzi ne riportò parole disconce e di non liere strapazzo ».
Bart. 40'. «... e da questa tanto generosa e salda risposta rimase il buon capi
tano si commosso e sì mutato nel cuore, che non che prunlo (tltro dicesse per
isrolgere il santo dal suo stabile proponimento, ma egli medesimo determinò di
rimanersi, e correr quella medesima fortuna che lui, nulla curando, nè la
perdita della sua mare, nè il pericolo della vita ». Bari. «... e non che il
desse al ballesimo, ma da indi innanzi cominciò una sanguinosa persecuzione ».
I2art.« Sostenne (Socrate, con grandissimo animo la porertà. intanto che, non
che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse ma ancora i doni da'
grandi uomini offeritegli ricusò m. Rocc. (Comm. sopra la Co media di Dante). «
Li quali piaceri lauto all' una parte ed all'altra aggradirono, che non che
l'un dall'alli o aspettasse l'essere in ritato a ciò, anzi a doverci essºre si
lot e cct in nl ro l'un atll al! I o, in rilanci.. l occ.() la che il San lo ri
in tre line di calci i giù a rompicollo in rati i temi pi di ſtuciulli e il mal
dl mi ma che di ragione, ballendo sopra dei sassi a pil del nº iro, poi l' noi
in all zza di reano º immaner imiranti, in ton che la ni avvenisse il lor che
anzi non mi andarono pur leg gri li ul, li si ºr a nolo di Sai, i rol rol,
della promessa, in risibile mi il lit ma il ct - sl n. 1 li s l alti i l. ll. I
3, l.Il Sult 1 io non che si mostrasse il till I N l li li, l.. o si ritirasse
in sè i cd 'simi per non lo si ut e r, i ma, ma anzi con sembian Ie e modi d'
ui a schiella ci ſia balili e il ct pi e l i tiri i tiri in li, lui lo
aggradira, fino a bere per man loro..... l?arl. - - « l' rciorch è c'illi era
di sì l in Nsrl rilai, e li e non che egli l'ultrui on le con giustizia
vendicasse, anzi in limite con valup eroli, illà a lui fattene Nosl e ne rai. I
3 cc.«.... e questo set persi sì con la meml, la e, che quasi mini no, non che
il sapesse, ma nè suspicat, a o lº c.Ma con ciò non che li domasse che anzi
maggio in ente gli inasprì: itl che.... ». I3:art.« Ma non che cessasse con ciò
la l. 1, in e la suoi i rallelli, che anzi maggiormente le crebbe a 13ari.a Le
mie scrilure. e de nei passati, allora e poi le lemmi occulle rinchiuse, le
quali non che ella potess lega re nè ancora rederle º, IP:ulldolf.« Ma, non che
il corno nasca egli non se ne put e nº pedala nè ombra o. l 31 t ('.a... se ce
li rai in corte di lotti si e' reale la scellerata e lorda rila dº coi lipi,
poi, non che, gli ºli (il malco si juta la cris' il mio, ma s', gli lossº cºn i
si tro la sen-a fell, giudeo si ritornerebbe l'oce.illiri o il rili, e
scorallo, non che se ne adontasse. I remi il mulo lui il ſì dal tempio per
nascondersi doc, chessia de Cristo che lo minacciava, (es. 41).e nessun alito
di le ter, di luci costume, nè di sentimento, non che gentile ma nè un erno si
è mai potuto appiccare in Intel srl rigºrio animo v (s. Il salarmino
cielo, non che gli altri, piorera a noi ", il ſiorno ch'elli nacquero.
Filoe. (ſ2.Non che polare è cosa perniciosissima salire sopra i lrulli e scull
picciarli molli anazzosi, o auando è nebbia che gli fa sdºrnire º, l)av. (ppena
el io a dissi di crederlo non che li scriverlo ». Bocr'. 13', si r, tutti di
tingere a tale alle ot, ch' minali ali alberi non che a ritm-i le bicicl, o.
Segn (1 ).« Tutto 'I I, in po di cita, che mi può dare ancor let maltra, ſia
pocº a rammemorare, non che a rendere all'Accademici lo ſtraziº che io debbº
". T):) V.« I)i cosa, che egli roglia, ma io dico si' rolesse l'asin
nostro, non ch' altro, non gli sia detto di no ». Bocc. (ſf).« Madonna, se voi
mi date una camicia io mi ſtellerò nel fuoco non ch' altro ». BOCC. «....
e sfacciati più ancor dell'antico Cam non dubitate per beffa nudar chi dorme
non che in ritare di molti a mirarne la nudità º ). Sogn. «.1 dunque, come ha
rerun di roi gran premura di assicurare l'eterna sua salvazione, mentre
passeranno i dì in lieri, non che le notti, senza che di ciò mai ri ricorra
alla mente un leggier fantasma? ». Segn. (46). «... non sorrenendoli prima, per
sommo loro dispregio neppur di un salmo, non che di alcun più onorevole
funerale ». Segn.«... al sentirsi rimbombare quellº ch m ! nella mente, Don
Abbondio non che pensare a trasgredire una tal legge si pentiva anche dell'aver
ciarlato con Perpetua ». Manzoni. (47). NOte e Aggiunte
all'Articolo 13. (38) Non sarai poi di si corta vista che non ti avvegga
di equivoca zione, a volere, come fanno certuni, sempre e non altro vedere e
inten dere che il ragionato modo non che, sol che si trovi un che accanto alla
particella non. Il seguente esempio ſe ne chiarisca: « Come, disse il ge «
loso, non dicesti così e cosi al prete che ti confesso? La donna disse: « Non
che egli te l'abbia ridello, Irla ogli basterebbe se tu fossi stato « presente:
Inai si che io gliele dissi: ». I3occ. Separa quel non dal che, intendilo nel
senso di non già che ecc., o altro di simile, e la frase è chiarissima. Ma col
senso (li nonche lì lì le cavi alcun costrutto. (39) Traduci: non
solamente niuna donna ci prestò giuramento. Ina. Poni mente costrutto
egualissimo dol seguente esempio: « Il re udendo « questo e rendendosi certo
che IRuggeri il ver disse, non solamente che « egli a peggio dover operare
procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'in crebbe ». I30 ('. cioè: non
solamente non procedè a peggior operare, ma.... E chi dubitare a dunque che in
costrutli si fatti il non che ha senso di non solamente che, e l'uno e l'altro,
come che altra voce non segua che comunque il neghi, vaga e breve forma
avversativa e di ne gazione? Osserva come in molti degli esempi (e potrei
allegarne a centinaia) che fanno seguito a questo primo del Boccaccio il non
che ha senso di non solo non, o come a tutti codesti non che risponde un'im
perfetto o presente congiuntivo, il quale solo che al non che si sostituisca il
non solo non, torna al passato o presente indicativo. Ma quanto è migliore quel
costruito! Ammira stretta commessura e soavità di tornio! Traduci come
sopra: non solo non giovò, e così nei seguenti esempi.41) In questo esempio del
Cesari non vi senti forse quel vigore che nei precedenti. Vuoi saperlo? Manca
il ma od il che anzi come suol fare il Bar (li. Inseriscilo il fatti ed oti
leni subito un tornio COI'l'ettis simo, e al tutto col fornire a quello
costan.emente adoperato dal Bartoli e dal I3Occaccio.(2) Non t'illuda la
costruzione, il vertisei e trovi sempre il non che il discorso: o Non che gli
altri, ma il saturnino cielo pioveva a InOre ». E di siffatti modi a migliaia
ne troverai soluadernando i classici, di ogni età e di ogni sfile. (43)
Inversione: non che di scriverlo ma nè di crederlo. 44) Invers, come sopra, e
così negli esempi (le seguono (5) Qui piacque al liocc. di esprimerlo il ma non
ostante l'inver. sione. Noterai di quesio e del seguente esempio la naniera non
ch'altro, la quale pare che andasse assai all'animo al nostro valente oratore
I3arbieri. L'ha sempre sulla penna e ben dieci o dodici volte la trovi in una
sola predica. Vale: non solo, checchessia d'altro che voi pensi nte, ma
perfino....(6) Se ti sorge dubbio intorno al senso di quel non che, non hai che
a consultare il contes, e saprai subito se vale: siccome anche, oppure non
solo, l'arla di coloro che neppur lesti si sentono una a sol volta rapire
violentemente i pensieri a Dio ».(7) l'8occaccio, l)a Valnzali e lº arti li
avrebbero 'se, coerentemento all'ossorvato, costruita la frase un po'
diversamente. « Al sentirsi rim « bombaro (Illell'ehm' nella mente, l)on
\bbondio, non che pensasse a « trasgredire una tal leg e ma si pentiva persino
del'aver ciarlato con « IPerpetua ». I3ada veli' che non ho detto con ciò che
sia errato o men bello il poriodo del Vlanzoni. l'olga il cielo ch'io a ridisca
di censurare od appuntare comecchessia quelle troppo care, adora le pagine. SE
NON SE NON CHE SE NON FOSSE (che, giù) forli e li dire
costantemente risale dagli antichi e buoni scrittori, ed oggi invece s degli
sani enl e neglelle e al lullo smesse, se non che ad alcuni oratori,
specialmente da chiesa, pare di rammentarsene profferendo assai volle un
solenne se non che, ma a grande sproposito, e insignificato di ma che non l'
ha. (48;.40) Sulla penna a classici le dette forme hanno ben altro valore
e vo gliono dire: se non fosse stato che, a meno che, lollo che, salvo se,
salvo che, altrimenti che. Il Bartoli ragionando di questa ed altre
sorniglianti maniere, cui il periodo deve nesso, brevità e leggiadria | IIIa
italiana, soggiunge: (((“ () - Inuti Ilie poi abbiano a servirvi, o sol per
cognizione o ancora, per uso ». Grazie dell'avvertimento, ma noi seguiremo più
che le parole il suo e Sempio. L' Asia del Bartoli è uno stupendo velluto
contesto e lavorato ad opera di ricami, Irapunti e compassi di così fa la
gioielli, º le sullò tali Nso e se non che ci lui lo sl 1 o, e ralsesi
del calore, ella ne ſacerat mille pezzi. Fiorenz.º (i rotn cosa è slitta col
slot. e se non che la lati della Iu, io non la ('re' le roi,. I 'i rel/.()nde
non è lui in pºi lati e in sè a lijello il non di rerlo, nè di colpa (trerne l
l'oppo; se non fosse già che atll li desse o all' uno o all'altro la cagione,
la quale....?... Passav« Il miglior piacere, e 'l più sano è il ſitcºre
boccone, o quasi, peroc ch è tutte le menº brut clen I l o sl i rino, nel loro
luogo: se non fosse già che la persont a resse losso o asmat. o altro in ſei
mili, che lo facesse ambascia, o noja lo slar boccone. Passav.« E se non fosse
che egli temera del Zeppa egli arrebbe della alla moglie una gran rillatnici
così rinchiuso con e era ». I3oce.a e se non fosse ch'io non coglio
mostratrº.... io direi che dimani...». I 3 co.a e se non fosse ch' egli era
giovane, e sopra i remira il caldo, eſili arrebbe a rulo troppo a sostenere ».
Dolci -.« E arrei gridato, se non che egli, che ancor dentro non era, mi chiese
mercè per Dio e per roi ». Tocc.« E se non che di tutti un poco riene del
caprino, troppo sarebbe più piacevole il pianto loro ». Rocc. (49.« Cosa che
non fosse mai stata redula, non ri crederei io sapere in segnare, se ciò non
fosser già starnuti ». Rocc. (traduci: a meno che si trattasso di....).« Era la
terra per guastarsi se non fosserò i Lucchesi, che rennero in Firori: o yo. G.
Vill.« Se non fosse il soccorso, che il nostro Comune ri mandò così Sit bito.
la città di Rologna era perduta per la Chiesa. G. Vill.« Se non fosse il
rifugio della terra, pochi ne sarebbero scampali ». (; Vill. (5ſ).« E se non
fosse che i Fiorentini ci mandarono inconta nºn le lorº ambasciatori,....
Iologna era l'ulta guasta ». M. Vill.«... e niuno seppe mai il fallo suo, se
non ch'ella il confessò in peni lenzia al prete, dicendo la cagione e 'l
processo del sito isriamento, e la grazia ricevuta m. Passav.« Queste nuove
cotanto felici fecero alzare al Saverio le mani al cielo, e piangere
d'allegrezza, poichè gli giunsero agli orecchi colà nella costa di Comorin,
dore laticara nelle opere che di sopra contammo: e se non che Tuiri (tre a
presente alla mano una troppa gran messe d'anime che rac cogliera, sarebbe
incontamente ilo a Celebes a farvi grande quella piccola cristiani di m. I3art.
º -..... baluardi non commessi come oggidi nelle nostre fortezze, con (tl di
cortina fra mezzo, ma srelli e isolati, se non quanto cerli pomli vanno (i con
il nicare il passo della gola dell'uno, a quella dell'altro ». Bart. Era
donna di gran nascimento e ricchissima, se non quanto i Bonzi l'acerano a poco
a poco smunta fino a spolparla ». Bart. 51). « E non sarebbe rimaso riro
capo di loro, se non che gilardo l'armi e gridando mercè, rende ono i legni
rinti e sè schiari ». I3art. (.... e l'arrebbon linito, se non che un di
loro gridò che il serbassero (Il riscatto ». I3art. º - - - - - -. ri diò
in altra parte con la nla foga, che del tutto arenò: e se non che tagliarono
tosto da piè l'albero della rela maestra, agli spessi e gran colpi che dara,
coll'alzarsi e 'l calar della poppa mobile e ondeg giante, si aprira »
lºart. « Egli (un cerlo 13onzo tanto più infuriara e ne faceva con lulli
alle peggiori: finchè il re il mandò cacciare come un ribaldo fuori di palagio.
e disse: che se non che egli era in quell'abito di religioso, a poco si ter
rebbe di fargli spiccar la testa dal busto ». I3art. NOte
all'articolo 1 f. (48). Quante vol. e si vedono questi ora Iori riprender
fiato, mutar sembiante o proseguire, con vi quando più grave e quando più di
messa, e lentamente, articolando un solenne: Se non che! lo non so di ninno
scrittore antico e se del più recenti almeno puro e corre.to, che adoperasse
mai il se non che in quella forma e senso che in certi dettati o a dir meglio
imbratti moderni.(49). Da questi esempi del Boccaccio si vede che gli era
tutt'uno il se non che e il se non fosse che, ed usava indifferentemente l'un
per altro. (50). Pare che a G. Vill. sapesse meglio il costruito diretto e
senza la congiunzione che, il quale sol che s'inverta o s'inserisca un verbo
torlìa (Vidolltelnonte all'anzidetto: « Se non fosse che 'l nostro Comune «
Imandò così sul [o il Soccorso occº. ».(51). Nota bella elissi: se non fosse
stato che i Bonzi la impoverirono a segno che.... oppure: a meno che ella
s'impoverì di tanto di quanto potevano sul suo cuore i Bonzi i quali la
smunsero fino a.... NON Stranissimo e fuor d'ogni regola positiva, come
che di buona, anzi ottima lega parve all'autorevolissimo Bartoli l'uso di
questa particella. « Però che, dicº egli, considerandola secondo la natura e la
forza che ha di negare e distruggere quello a che s'appicca, pare che
contradica, dove talvolta, se nulla opera. Inaggiormente afferma; e sol un buon
orecchio sa dirci quando vi stia bene e quando no ». Così avvisa il
Bartoli, e con lui ogni allro scrittore cui occorse di ragionarne. Ma io non m'acquelai
e volli non per tanto esaminarla e stu diarvi dentro, e vederla a punta di
ragione, intenderne cioè e discernerne il come, quando e perchè. E non fu
fatica inutile, parini anzi averla colta che nulla più. Tre costantissime
osservazioni mi vennero fatte che ogni caso comprendono del non che non
nega. Non oso erigerle a norma o regola di eleganza. Menzionerolle e me
ne passo. a). La congiunzione salvo, salvo se, salvo che, a meno che e
simili, e l'ammonizione altresì di guardia, cautela, accortezza, vigilanza
che cosa non si faccia, non si dica o l avvenga, che poi dispiaccia o comunque
metta male, è costantemente susseguita, –- simile al se garder dei Francesi –
dalla particella non. b, che, commessura di comparazione risolvibile nel
suo equiva. lente: di quello che, è susseguito dal non sempre che nel primo
inciso non vi abbia non od altra voce negativa o comunque avversativa. In caso
contrario non ha mai non che vi aderisca. – Appunto come avviene del que dei
Francesi, nesso comparativo or seguito or nò dal ne senza il pas. – (55).
c). L'inciso dipondente dai verbi: temere, dubitare, sospettare, suspi care, ed
anche dalle voci: per timore, paura, e simili – espresse o sol tintese – il
quale si governa comunemente a guida di che o che non, solº reggosi e sta
elegantemente senza il che pure a nodo o tramezzo della particella non, ma sì
che il soggetto tramezzi e l'una e l'altro. Seguono gli esempi divisati,
conformemente al ragionato, in tre dif ferenti gruppi. « La casa mia non
è troppo grande, e perciò esser non vi si potrebbe salvo chi non volesse starvi
a modo di mulolo, senza far mollo o zillo alcuno ». BOCC. « salvo se i
Bonzi non levassero popolo e li ci allizzassero contro ». Bart. “ Una cosa
vi ricordo, che cost, che io ei dica. voi vi guardiate di non dire ad alcuna
persona. Iº occ.º l'irºgli da parte mia, che si guardi di non arer ll’oppo
cre - dilo o di non credere alle lavole di Giannotto, l3 cc. º l
Ittºsto la rete, che coi diciate bene i desideri l' Nl li, e guardatevi che non
ri renisse nominato un po' il n till I...... 13,. « e sta bene accorto
che egli non li l'ºnºs le luci ni tdosso o locc. º e lì la loro lo luna
in quello che la olerano più la col e vole, che ('SSi medesimi non dimandavano,.
13,ce.“ Ma lullo al rinculi addicenne che ella arrivato non avea ». Boce. º
tºndo più animo che a sci co non si appartenera, Bocc. º... Se non ci chi è di
rim alo e pli lori che non s no io o l?art. (.... che io ho l'oro lo donna da
molto piu che tu non se', che meglio mi ha conosciuto che tu non laces, 13(Compagni,
non ci lui bale, l'opera sia altrimenti che voi non pen Sale ». DOcc.« Se io vi
polºssi più esser la nu lui che a non sono, la ulo più ri strei, (1tl am lo più
cara cosa, che non son io mi i sensi. I ne mi rende le m. 130ce. « rispose che
per più spazio che non ha da l a iulino al cielo era fuoco ardente ». Passav.«
Assai volte già ne potete aver recluta i clico, delli e di scacchi troppo più
cari che io non sono. l o e... più assai ce n'erano, e li oppo più belle che
queste non sono ». IB ) c.« Voi m'ono ale assai più che non docerale una
persona non cono sciula e di sì poco alla re ci ne son io, (aro.« Ma troppo
altro gli incolse che non avere di risalo. Ces. « Perchè dunque sì rall risluti
ri, che gli altri facciano la m lo bene di più che non ſale voi: e però
inquiela, li deriderli, disturbarli? ». Segn. « Ben conosco per me medesimo la
grave: sa del mio pericolo mag giore ancor che non di le...... Segm.« Forse a
rete voi li rido il rosli o pello la più frequenti percolimenti di pietra, che
non portare nel suo slam pali irolamo. Segn. l « Nelle donne è grandissimo tre
alimento il set persi guardare del prendersi dello amore di maggio e uomo
ch'ella non è o. Boce. « Dubitando non ella confessasse cosa, per la
quale.... ». lRocc. «.... temette non per isciagura gli renisse smarrita la via
». Boce. « I)i che egli prese sospetto non così fosse come era ». 13occ. « Chi
vuol fa, e la cosa ancor non rielala, la fa con timore non ella si vieti ».
Davanz. "Forte temeva, non forse di questo alcun s'accorgesse ».
Bocc. “.... i quali dubitavan forte non Ser Giappelletto gl'inganasse ». Boce.
“ Di che Alessandro si maravigliò ſorte e dubito non forse quegli da disonesto
amore preso, si moresse a così l'attamente toccarlo ». Doce. «... sospettando
non Cesare gli togliesse lo stato ». Davanz.« Tenealo a bada (Cesare Ienea a
bada il Cardinal Polo ch' era ancora al lago di Garda) perchè le nozze di
Filippo si compiessero prima che ('gli arrivasse, temendo non la sua presenza
le intorbidasse ». I)avanz. « La quale udendo questo, temendo non lorse le
donne per troppa lrella tanto l'uscio sospignessero che s'aprisse..... ».
I3occ.(0r questo gli dava lroppo gran pena: conciossiachè egli temeva non lorse
egli losse caduto in quella durezza di cuore.... ». Cesari. « tanto i santi
sono teneri e sfiduciati d'ogni lor desiderio, non forse la natura ne gabelli
qualche cosa sottº inteso: per timore che... o temendo mon....) ». Bart.« Ma
gli parve di soprastare alcun poco non forse la troppa sua sollecitudine gli noiasse
(tenendo non forse....) ». Cesari. «... presso in che di letizia non morì ».
Barl. « Io temo non colui m'abbia ris lo ). I 30cc. - NOte
all'articolo 18, (55). A prova di quanto atºserisco non basta si
alleghino esempi col nom, questi confermano il primo caso, ma occorre anche
mostrare come il che del secondo inciso allora soltanto va senza il non che nel
primo inciso si trova un non o altra forma comunque avversativa.Eccone però un
saggio: «..tutti presti, tutti pronti ad ogni vostro « piacere verranno nè più
(più tempo) staranno che a voi aggradi». Bocc. « Conservate il vostro, non
ispendete più che portino le vostre facoltà» Pandolf«.... nè avete voi più
desiderio di udirmi, che io ho di farvi mas Sai ». Pandolf.Alla parte 2.
articolo 11 si ragiona tra l'altre cose anche di questo che a valore di: di
quello che, e si allegano molti altri esempi con o senza non in conformità a
quello che qui mi avviso. E' poi tanto vero che, in locuzioni si fatte,
cotesto non l'una o l'altra volta ci deve essere, che ove al Boccaccio, non
sapeva buono (come che di ragion ci stesse, ma per suono forse men grato che
all'orecchio ne veniva) la seconda volta, no ! lasciava la prima avvegna che
non ci avesse luogo: « E chi negherà questo i contorto ) quantunque egli si «
sia, non molto più alle vaghe donne, che agli uomini, convenirsi dona « re?»
(In cambio di: molto più alle vaghe donne che non agli
uomini...) Alcune altre voci il cui valore ed uso vario secol
ndo lo scriverc clegli arm tichi ed anche de 1 migliori nºn oderrni, reca a
talora al l'assetto di nuove e vaghe fornme, così che al periodo non nel no che
alla frase, e vicle I nza 1 ne vierne, garbo e sapore. Nel precedente
capitolo allegai ed illustrai maniere – particelle, compagini e tramezzi – di
una forma e ragione tulla interna, coesiva dirò così e inerente alla
struttura e nervatura del periodo. Ora vuolsi invece studiare e prelibare il
grato di tal'altre voci, le quali quantunque rechino un senso delerminato ed
adoperino sull'esteriore soltanto del pe riodo, son però tali e tal collocale
che a lasciarle, sostituirne altre o co munque tramutarle sconcerebbe e
n'anderebbe di quel candore ed ele ganza che è sol retaggio della lingua
antica.Dada neh ! che nel commendare che farò questa e quella maniera, non è
mia intenzione che tu poi la usi a tutto pasto, come fanno certi scrittori i
quali si danno l'aria di purissimi imitatori del trecento, dove non ne sono, a
dir il vero, che odiosi conl raffattori e lo mettono così in discre dito anche
ai meno avversi. Questi colali non sanno far alll'o che infar cire i loro
dettati di maniere solo antiche e male accozzale.Tienlo ben mente, non è
scrillo sì elegante che non sia anche semi plice e spontaneo, nè può esser mai
bellezza quella che si distacca ed esce comechessia di euritmia.Più che la
teoria siati adunque criterio e guida un buon orecchio, conformato però – mercè
di lungo studio e severo - al ſorbito perio dare soavissimo e grave dei nostri
classici. ARTICOLO 4 MISSfil Delle novità che ci venite a
raccontare! Chi non sa degli italiani, per idiota che il vogliate, che la voce
assai è altrettale che molto? Con buona pace vostra, risponderei a chiunque
fosse quel benigno che volesse mai censurarmi ed opporre ch'io ridico cose
molissime, non è il valore 4 soltanto, ma l'uso altresì di alcune
voci e particelle, anzi questo più che altro ch'io mi proposi di ragionare.
Mai, sol rarissime volte, leggendo un qualunque moderno di mezza inta mi venne
scontrato l'avverbio ed anche aggettivo assai al locato e si vago che negli
esempi, fra mille e mille, che quivi appresso.Quale aumentativo (sehr, ti s.
very di aggettivo e di avverbio, si che l'adopera e forse l roppo, anche il
moderno, ma giammai, o quasi mai. accoppiato a sostantivo, o sostantivo egli
medesimo in ogni genere e numero come che invarialbile.E quant'altri e più
minuti scandagli restano tuttavia a fare prima che e siamo rivocale e ristorale
le avite bellezze dell'italico periodare ! VIIro che piali e ciance!
Sollecitiamo a che la via lunga ne sospinge ». (71). E disse parole assai
a Paganino le quali non montarono un frullo ». l 30 (”.Ed assai n'e' uno che
nella strada pubblica o di dì o di molle lini a mo. l 3occº.senza le rostre
parole, mi hanno gli effetti assai dimostrato delia ros rai bene colenza n. 13
cc....Spero di tre e assai di buon lempo con le co. lioco. Entrati in
ragionamento della valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero o. I 3
' ('.... applicò subito l'animo a guadagna lo, e gli si dia a dire assai delle
cose da farlo ra eredere della sua cecità lioco. Il I occotccio l'usò delle volte
assai. I 3arl. «... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo rispello
riguardo) º. Cesari.« Minuzzatolo e messori di buone spezie assai, ne fece un
manicº retto troppo buono ». Bocc.a La prima persecuzione ſu mossa alla
Religione essendo anche tiri assai degli apostoli ». Ces.« Nè vi stelle guari
che egli ride assai da discoslo ritornare il Car pignat con assai allegra
faccia ». Fiorenz.In compagnia di assai numero di soldati per andare di danni
il l live) lo. (iiamb.... la mia guardia ne prende, e si stretta la lenca, che
forse assai sºn di quegli, che a capital pena son dannati, che non sono da
prigionieri con lan la guardia serrati ». Bocr'. ()r chi sarebbe quella sì ci
udele Ch'a rendo un damerino si d'assai, Non direntasse dolce come il miele? ».
Lorenzo de' Medici (73). E oltre a ciò rireggiamo (acciocch'io laccia, per mºno
ºrgognº di noi, i ghiottoni, i tarermieri e gli altri di simile lordura
disonesti uomini assai, i quali.... essendo buoni uomini repulati dagli
ignoranti, (tl lim0mº di sì gran legno son posti ». Bocº. t. A rispondere,
assai ragioni vengono prontissime ». Bocc. «..... nel quale erano perle mai
simili non vedute, con altre care pietre assai ). Bocc.« Assai sono li quali
essendo stoltissimi, maestri si lanno degli altri e castigatori ». Bocc.«...
dove molti dei nostri irali e d'altre religioni trovai assai ). Bocc. «... che
assai faccenda ce ne troveremº tuttavia ). Ces. NOte all'articolo
4 (71) Della frase: essere assai a checchessia (per basilare a,...) che
l'ha delle volte assai e il Boccaccio e il Cav. e loro più scelti imitatori,
parlerassi ad altro luogo. (72) Nota il genitivo. La voce assai non è qui
avverbio Ina sostantivo oggetto, e va unito col complemento della vostra ecc.
La forma obbligua assai di, del.... suona talora Ineglio che la diretta.
Osservala negli esempi seguenti. Conf.: tanto tanto di... alquanto
di...). (73). Uomo d'assai significa valoroso. NUIIIII, NIENTE
NONNUlillſ, NUlill0, NIUN0 ecc. Negli esempi che senza più qui allego –
alcuni dei moltissimi che ho raccolto, e recanti ciascuno l'una o l'altra delle
proposte voci – vuolsi singolarmente notare: a) come le particelle
negativo niente, nullo, nulla, niuno escano ta lora, ed anche elegantemente dai
confini che il vocabolario loro inesora bilmente prescrive e si lasciano
governare, sol che l'orecchio e la cosa il consenta, a maniera di aggettivo e
sostantivo; b) come in nostra lingua il niente e il nulla, oppure non
nulla, (simili al rien dei francesi) si spendono per qualche cosa, e il niuno e
il nulla pur vagliano per alcuno. Alcuni Grammatici ne fecero regola ch'io
non so come a tanti e sì autorevoli esempi, che dimostrano il contrario, non
sia mai stata impu gnata e ripudiata. « Quando si usano, scrive tra l'altri il
Corticelli, per « via di dimandare, di ricercare, o di dubitare, oppure con la
negazione « o particella senza, hanno senso affermativo... Sì che alcuni esempi
ve n ha, ma ve n'ha allresì in cui le delle voci affermano e tuttavia non
negazione, non senza non dubbio o dimanda comechessia. Leggili questi
esempi, intendili, assaporali, e sii certo che come il senso avrai libero e
sano, questo, più che niun'altra norma, ti guiderà sicuro alla scelta
convenevole di questa o quella voce ed anche in quella forma e ragione che nei
libri mastri di nostra lingua. .... invincibili dicendo i romani cui nulla
ſorza vincea ». Dav. .... si stava così a spellando senza piegare a nulla
parte ». a Inall'ulfizio naturale delle nozze nulla ricerca impedimento
all'eser cizio libero delle più nobili sue operazioni ». Bart. «... in
tal modo che nullo più mai ardito fosse d'andare all'eremo Cav. « Se
nulla potenza a reste, bastava uno ad uccidermi ». Cav. senza molti segni
che si nolano, com' egli si ha niente indizio della cosa, l'iel'eliz. ....
di subito si rivolse al sasso brancolando con le mani se a cosa nessuna si
potesse appigliare ». Cav. 1 llora disse la 13adessa: se tu hai a
disporre niun luo l'alto, o l'ºro se ruoi pensa e nulla di questa tua
fanciulla, pensanº losto, impercioc ch º....... (.av. Quando la mia
opinione resti denudata e senza ippoggio di ragion nessuna...... o.
Martelli. Ed a ogni modo è, se non maggior brºne, minor male pendere in
questo caso, anzi nel troppo che nel poco, acciò transi più tosto alcuna cosa
che ne manchi nessuna e. Varchi. non intendo però di quella lunghezza
asiatica fastidiosa, della quale fu ripreso Galeno, ma di quella di Cicerone,
al quale non si poteri aggiungere cosa nessuna, come a Demostene cosa nessuna
lerare si po le ru m. Varchi. Se nulla ri cal della nostra amicizia abbia
le compassione alla mia miseria n. Fiorellº. tssaggiare qua e là un
nonnulla di... ». Bocc. a... alla quale (allezioncella) mi sento
attaccato un nonnulla ». Ces. “ e se li hai nulla a lare con lei tornerai
domani e non ci far questa Seccaggine stanotte ». Bocc. « Ciascuno che ha
niente d'intendimento ». Passav. 82. « remuta meno l'acqua e gli uomini e il
cammello, affogarano di sºlº, º cºrcando d' intorno se niente d'acqua
trovassero, e non trovando t'enº, -1 mlonio..... ». Cav.“ Su bilanente corsi a
cercarmi il lato se niente (qualche cosa) v'avessi ». Docc. « Potrebb'egli
essere ch' io a ressi nulla? o I3oce. “ Gli si fece incontro e salutandolo il
domandò s'egli si sentisse niente ). I30cc.(Come noi facciam nulla nulla, e non
hannº allro in bocca: quel l'allra lacera e quell'altra diceva.... ». Fier.º...
º forſe nºn lº ſa resistenza al nemico, giammai in niun modo acconsentendogli
acciocchi il rinca, e poi del tuo sposo (G. c. possi essere coron (tl (1,
peroco lº 'gli il nemico e le bole, come ſu uno, a chi ardita in en le se ne fa
brile, e anche fori come leone a chi in nulla nulla gli con sente ». Cav.« Non
perciò a me si mostra ragione che nulla basli a derogare l'autorità e la ſede
o. I3ari.«... e per sangue e per rilli d'animo superiore ad ogni interesse, che
punto nulla sentisse del basso, non che, come questo dell'empio, Bart. «
Mostrare se egli ralesse nulla ». I3occ.... ri potr questa scusa legittima,
scusa sa ria, o non piuttosto una scusa che se vai nulla prorerebbe anche che
non dovreste coltivare i ro stri poderi con lanta diligenza, che non... ».
Segn.« al quale io debbo quel poco ch'io raglio nel predicare, se nulla raglio
». Segn.« Vecchi che, perdute le gambe, pare ram sempre pronti, chi nulla nulla
gli aizasse. a digrignar le gengive ». Manz.« Se nulla può sull'animo rostro la
voce della ragione, sia le religioso, perchè religione e ragione è tutt'uno ».
Tomm.« per la qual cosa furono tutte le castella dei baroni tolte ad Ales
sandro, nè alcun' altra rendita era che di niente gli rispondesse » Rocc. (83).
« Ed arrisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli
disse.... ». Docc.« Trorossi in Milano niuno che contradicesse alla potestade?
». No Vellino antico.«.... e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena
a doverla dare... ». Bocc.«... ma se nessuno di quelli che, o si burlassero del
fatto tito, o... ». Fier.«.... e dovunque sapeva che niuno cristiano adorasse
Cristo, il fa ceva pigliare e mettere in prigione.... ». Cav.« egli sarebbe
necessario che tu li guardassi da una cosa: e questo si è, che se nessuno ti
domandasse di qualche cosa, che lui per niente non rispondessi a persona, ma...
». Bocc. (84). NOte all'articolo 9 S?, voleva ci lir qualche
cosa, alcun che di..... e così il niente e nulla di tutti gli I tri es IIIp di
Iu -! IIIedesimio gruppo S3). Il niente d quest, i del s..: 1: es n
i I Il tv l':la a in l'il llll tiltra II la lllera della si sºsi V,
niente, ed i ll Il..:ll (Ill. ll ilìtelis IV, di negazi rile, si inile all'avverbi,
punto del N. edente. Torna sottoso pra alle forme; un menomc olle, in n in
mo,do ive Iles Wegs, iIn gering S[.(ºll ((''.E spaurita e sbig || 1o per le
pelle e per gli gravi tormenti che e aveva veduti sostenere a per at ri
nell'altra v.a, la rendogli i parenti e gli amici carezze e le sta, non
si ra! grava niente ». Pass. «....il quale l'est e. Irle lº rili la si vide i
pescatori adosso, salito e a galla, senza Inlli versi niente, mostrando
l'esser in ort, tu preso ». Fier'.« Niente avevano sonno o pensiero d'andarsi a
riposare in sul « letto, niente, vevano voglia d'esser consola | I, quando
vedevano, () a pensavano che la infinita carita di I) o aveva dato il suo
figliuolo a a patire tante pene e tale morte senza niun peccatº o colpa sua».
Cav Si avverſa, si rive il Pil ti, che questo niente in sentimento di
non) quando si usa senza il non si mette piu comunemente avanti il verbo, e
quando si unisce col non si pospone al verbo. (84). No.a anche qui la
maniera per niente in quel senso che nella nota precedente. ARTICOLO
21 IIITRI (che) – filiIR0 (che) – AllTRIMENTI (che) Quan! inque il
significato e l'impiego di queste tre voci a base di una medesima radice e a
governo di un comune valore, poichè in ognuna vi senti con prevalenza
l'allributo allro cioè altra persona, allra cosa, altro modo non sia cosa lanlo
singolare e peregrina che anche una penna volgare talvolta non ne usi, tuttavia
la maniera di usarne appo i classici è sì diversa e molteplice, e indi anche il
vago e vario foggial' della frase sì notevole e commendevole, che credo
ſarò cosa non meno grata che utile a dirne alcunchè partitamente, e profferirne
di ciascuna e di ogni uso distintamente alcuni esempi.a). Altri o altrui (non
altro, che è fallo) posto assolutamente è pronome, e suona quanto: allr'uomo,
altra persona, un altro, uno, alcu mo, chicchessia. Si trova appo i classici
tanto in caso retto che obliquo. « Molto dee indurre a dolore o al
dispiacere del peccalo, considerando che l'anima è lavata e purificata nel
sangue di G. C'. e altri l'abbia im brattata e lorda nella bruttura dei peccati
». Passav.« Per non fidarmi ad altri, io medesimo tel son renulo a significare
». I30cc'.« Sentendo la reint, che lº milia della sua morella, s'era (le
liberala, e' che ad altri non resta rai (t (lire.... ». I30cc. « Il che la
donna non da lui, ma da altri sentì ). I30(''. «... in tanto che a senno di
minima persona rolea fati e alcuna cosa, nè altri far la colera a suo m. Bocc.«.
(ndiamo con esso lui a Itomai ad impetrare....: ma ciò non si ritolº con altrui
ragionare ». Bocc. « Oh quanto a me tarda che altri qui giunga ! ». Dante. «
Irrere pertugio dentro da la muda La qual per me ha 'l litol della fame. E 'n
che con rien che ancor ch'altri si chiuda, Dante.« La confessione per la quale
altri si rappresenta a quegli che... ». Passa V.a... non solamente i peccati
veniali, ma esiandio i mortali i quali altrui (tresse al lutto dimentica li ).
Passa V.« Il secondo modo, come si dee studiare, e cercare la divina sciens(1.
si è innocentemente, cioè a dire, che altrui riva santa mente ». L'assav. « Si
restiemo una cotta, che non si potea reslire senza aiuto di altri. Vill.« Non
hanno altro mestiere che di pescare altri perle, altri pesce p. 3a l't.a... che
per accorto e sottile intelletto che altri abbia mai non ne giunge al chiaro ».
Bart.« Quanto altri più sa della lingua ben ripresa nelle sue radici lºnſo più
va ritenuto in condannare ». Bari.... nè teme punto ciò che altri di lei dirà.
Segn.... e partirane con quel disprezzo che altri fa delle cose sogge e della
bruttura ». Ces.« Egli mi pare, che niuna persona, la quale abbia alcun polso,
º dore possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimast. altri che noi n. 13 del.
Inverti e vi riconosci il ragionato altri: Egli mi pare che altri clº noi ci
sia rimaso, il quale.... b). ll i clº, altro che vagliono entrambi fuor
che, ma sì che altri che non si riferisce che a persone e torna al dire:
altruomo, qualunque alla prºsolia che..... ed altro che ad altra cosa
qualsiasi. Questo altro, (illº che, in significato di altrimenti, in altra
maniera... che, ecc., è una di quelle forme che andavano assai all'animo al
valoroso Bartoli, e l'usa Spessissimo in Inel miracolo di facondia che è la
Storia dell'Asia. Ma os serva come e con quanta grazia: Io non so potersi
dire di... altro che bene o. E altrove: « Ma poichè º il videro felino di non
conceder la disputa altro che a questi patti, sel presero in pazienza ed
accellarono. Traduci: non in altra forma che. “ E ancora: « E perciocchè quivi
non era per rimanere altro che inutil mente, gli ispirò al cuore di andarsene
al Meaco o, ecc. ecc. che ad allegarli tutti codesti esempi non ne verrei a
capo in parecchie centinaia di migliaia. Al lllllo simile a questi luoghi
del Bartoli è l'altro del Bocc.: « non º avendo avuto in quello convif [o) cosa
altro che laudevole o: e altrove: (AV ea grandissima vergogna, quando uno dei
suoi strumenti fosse altro che falso Irovalo ». Nè guari dissimile quel del
Davanzati: « Con gente « sì accagna, crudele e superba puoss'egli altro che
mantener libertà o « morire? ». ſar al Ira cosa). Bammento l'intercalare
non chi alti o, di cui si è ragionato al Capo Secondo - Articolo 13, e piacermi
ancora menzionare il modo: senz'altro..., che opplre, e talvolta anche rileglio:
senza... altro che: « senza amici altro che di mondo o invece di senza all i
amici che...: « senza famiglia allro che bastarda o, o senza affelli altro che
brutali o ecc.. IBart). Ed oltre a questo anche il seguente, gli alissimo:
niuno, nessuno, reruno... altro che....: « aspirando a niun fine all ro che
nobile ». « Portatovi da mium stimolo di senso altro che puerile e rello o
a...inteso a rerum lavoro altro che di mente ». «... I rallenendosi con niuna
femmina altro che onestissima ». I3ar[.. Segm. ecc. ecc. Nola qui l'allro a
forma di averbio, mentre congiunto al senza, niuno, reruno ecc. sarebbe ad
uſicio di ag gettivo. Chi legge e studia ne' classici le ritrae queste forme
anche senza avvedersene. « II vietare con semplici parole, senza autorità altro
che « privata non si direbbe propriamente divieto, ma sì quel di legge e di «
decreto ». Tom. c). Analoga a questº forma avverbiale altro che è
l'altra, anche oggi nola e continissima non altrimenti che.« Noi dimoriamo qui,
al parer mio, non altrimenti che se esser vo lessimo testimone di quanti corpi
morti ci siano alla sepoltura recati ». Doco.« Non gli concedè che si
ritornasse altrimenti che promettendo di ri « tornare altro volte a rivederlo
». I3art. (Cioè gli concedè... non in altro modo che promettendo, oppure sì
reramente che promettesse. Conf. Cap. II. A rticolo 25).Ma nota da ultimo di
questo altrimenti (altrimenti che) un uso ben diverso delle forme che qui
sopra: come cioè la voce altrimenti in molte guisa ad altre
collegata e con un costrutto e commessura di ottima ra gione entro il periodo
leggiadramente contesta, sia talora altresì sol orna mento e tramezzo, non mai
inutile e superfluo, se pur non necessario, e non altro, a dirla col
Corticelli, che pura proprietà di lingua. Rinforza la negazione e vale in
nessun altro modo. a Della sua pelle senza ſorarla altrimenti se ne
sarebbe potuto fare un bel vaglio ». I30cc.«... e pauroso della mercatanzia non
s'impacciò d'investirne altri menti i suoi danari, ma..... ». I3oce.« recita
fino a un punto il contenuto senza altramente leggerlo ». Caro. « I Siluri,
oggi estinti, mostra Tacito nel suo Agricola, che ri renis sero già di Spagna,
e al guiscelo da molti segni, che io non replico ora altrimenti non potendo per
ria di quelli sapere quando e' ri siano venuti ». Giambulari..... il nostro
bene, la nostra rera felicità non dipende altrimenti no, dall'amore che noi
portiamo a persona, la quale all rºllan lo ne porti a noi,..... ». I3arbieri.«
E' dunque mestieri fermamente attenersi a quelle idee, a quelle speranze
immutabili, che non sono l'opera dell' uomo, che non dipendono altrimenti, da
una opinione passeggera, che rengono acconce a "ulli i bi sogni, che....
». I3arbieri.« e senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la ſede.... ».
Giall bulari.« E tanto basti aver accennato di quelle, che per poco che sia, al
niente che riliera il saperlo, non può altramente che non sia troppo ». Ball «...
non aspettò altrimenti che il disegno si colorisse ». Giamb. «... non arendo
altrimenti che dargli si lerara il cornon da collo (iiamb.« Le sue cose e sè
parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse rimise nelle sue mani ».
Bocc. un ful I e.tlsou e Iop olooos Ufonq lºp uomiios ilf ouuxupuoqqu
o.luluud lp onloAuslp o toluetu ºttº º ſullº I I ouu Auuuulo ot ouo. I touo A
olsenb ll I luttuº nId otor I allop luou ouulloAul lp ipotu itino le outleti
oli elzºti l' º l.zzoIl fu A ip otl.) os º trou olto.o un o o Iuliud lop
el Aol I lol 55tui ti º º S otto it: i tºlsoni) cl ouol Ru.i uoo Illu) I tollo
olios cui lu u uutti i litio o.ilto. llo i - lo tºllo Alun ottu.tellulos 'ortll
lito.Ioll lui Ruo IV o op.otto: 1 o. ll 'llout Ill.I. “ Isopullios o
Iosso otiosso i “olu.opluuuuuuli ella A e allo Ip:lloti - lllllº º oil.
Issi III, II F o ollo.o! I -.tuti o o luouo td 1 o olio A o.it: i sºli. Il 1 li
tºlsl-º sonl) o o lo stºp ll out. I votolelu o il 'u Iso:) Il ) A LI - Ipotti i
lotti e io lº otlos IA ". eodo]uttlollo outsioloou otus olos: li
titoli onl) Ip A o.Il ol Iso.IddV out Ao;iuniti o totu lo vos luo. I lºtti I
I.) o, dt: ti Il plº o il uAInfioso oln) eo.lolol o eluuun oli l'illS º il
ossImpo.Il tetto SIS Il l III euto ollo]Jo uono lº o lod os os, ou o alle p
letti ossitto, ve º tº IV e void 1. ll il l e o la tollo un 1: Is ll It,
looluu.Iou;il p o Iul e n.InsIl pl. I sei “I lumbs un.oltº otto puºiolli:
Iduloso liuloop) Ied otto.III') ott o lo Isol.Ioli onl Ip ottil. Il od oil.Il
leso, e il -ulououout outIoztto Vito e il p.olio III lo o.olio o.I l: \ Il “Il
d | 12 | | Il sollia.osop o lou.oo Iuulio II lo ottoutele in lull l' "lº
ºlotºs º o | II. Il -Iu.Iouoi ouopuolo.ld o Inddºl otto le vo.In lon.o utin o
55es e Ilillº.ilsotti lod o su Islenb uru lp otto voi o utili ulds ezilos
essudiº.I | Il III ed l miº o ns o olios ouour pidui orie, o vo otlriori olio
lord III trim opotu u onios eupulo, etil e oil.on. l oil o Ip olfettes oil.it
il a ºsteo il o negli Ion A ou ouo olio in Ile e se il N. Ierio. In oiloti in
love u “ouoduloo is opito illed ollop elziloti o le zut: sos ld Ilesse
litolzltifo. ouuuiosi di lui os usul [.. etti e il Ip o | | | | | | |. ll tº o
lo l.tolto) sod l) ouopzlullop el o optito. Io l ott e elliot II o II) ml. ll
los o utopuoli, ) allo, Ao eI.Io.osolio.ol.i e lpini oil.o nello,osi Iloil
oliolli. I ti o Atº III. Il N i lºl li Idl tioli o I.). Il luttoso oft: A
otl.oltelloouoptIoonppe 'otiuillirio o ostili osti i millepitoli Itito.
el.IIIIIIop olilout -eoplollo.I n.InfII e III: lo esonb o lo s oliº o In VoI o
Iellios II, lo (s) osogssu Io e Iuº pop.Ieo I o UUIpsspn U IUP55oIo,I
-Iep eIes II e eu OIun Oo l-IoU I II epU IO “I UIop t Iu II5olo o IoA
-I.Ios OI Opuooos 'eooA u IIon I O unsenb pp e UIopssIULuo po auloIllla
Iuolzno oT sillessi, enalagge, anòfora, iperbate, tropi, metonimia,
iperbole, prolipsi catacresi eutimema, epicherema e va discorrendo.Lessi e
m'imparai i relativi saggi, assaporando a brevi tratti oi l'uno, or l'altro dei
più celebrati componimenti. E qui vi ammirarsi la Pura semplicità del Villani,
e là la nobile dolcezza del Giambulari e quando celebrarsi la faconda brevità
del l)avanzali, quando la rigida su blimità del Machiavelli. E or questo or
quello esaltarsi, e la severa ele ganza del Varchi, e l'abbondante gravità del
Guicciardini.Ma dopo tutto ciò, venendo ai fatti. falliva ogni prova. In opera
di eleganza, meno alcune frasi che a forza di udirle pil l' Ine ne ricordava e
le inseriva sforzatamente, e anche le più volte a sproposito, tra le ciarpe di
una dizione sempre mia e di un periodare sconveniente, avveniva di me quel che
di un gastronomo, il quale senza impararne altrimenti il me stiere e nulla
suppellettile avendo di cognizioni pratiche, pure al saggio di questo e quel
manicarello e mercè di un buon corredo di nomi, a. cesse professione d'arte
cucinaria.Quarle sconciature ! quanle ingrale dissonanze ! quanti piastricci
rincrescevoli ed insipidi! E non se ne può altrimenti. Il commettere ordire di
frasi e periodi più tosto ad una che ad altra foggia è cosa tutta soggettiva, è
affar di sentimento e vigor mentale. Il quale se guasto o Inal composto, ed il
linguaggio altresì. La ridice adunque, il midollo, non le foglie e i fiori si
vuole medicare, riformare, ringentilire, a volere che l'albero di selvatico e
malvagio risani, Trulli buoni renda e soavi. – Chiesto parecchie volle dai
Tedeschi, Francesi ed Inglesi del modo ond'io mi resi lo studio di lor ſavelle
proſi! Ievole a segno da reputarini si al parlare che allo scrivere un lor
connazionale, diei risposta che fa ap punto pel caso nostro. Perare la mia
mente, il mio pensiero ad eſligiarsi in delineamenti e forme straniere non
importa appo me l'accostare alla 'nia l'altrui favella, mettere a riscontro
l'una parola all'altra e violentare lue e più disparatissimi linguaggi, mercò
di contusioni e scontorcimenti, a combaciarsi l'uno all'altro, fatica da farla
i provetti ed investigatori delle ultime recondite ragioni filologiche, non via
ad imparare lingue fo. restiere: sistema orſo, le diosissimo, lunghissimo e mal
sici Iro. Il metodo delle sempiterno raduzioni è una bizzarria, un perditempo,
tortura delle menti, inutile, anzi esiziale. E' sempre il linguaggio a
conflitto col lin guaggio: non il concetto ad assisa dicevole e sua, e quindi
il parlare e scri vere insipido, barbaresco, a urti, a stropiccio, a
singhiozzi; indi il de turparsi della propria ed altrui favella; indi lo
studiare che si fa ben otto anni la lingua latina ed uscirne appena
balbuzienti, quando due anni – chi veramente slidiasse ed avesse alleli o da
ciò – basterebbero a farne poco men che un Cicerone. A dunque il ripeto, recare
il mio pen siero a riprodursi in effigie di altro idioma vale, a casa mia,
legare imme diatamente la parola all'idea, suscitare, a forza di leggere,
trascrivere e ripetere ad alta voce e pensatamente gl' idioſismi, le frasi più
elette, i per riodi più caratteristici ed anche lunghi tratti, un senso, cioè a
dire, im pressioni e senzazioni, pari alla natura ed indole di quel medesimo
idioma. ma sì che facendomi a quel linguaggio, le risento e al risentirsi spontaneo
scorre dalla lingua il linguaggio stesso. E' un fatto incontestabile. Io ho
memoria assai tapina, ho studiato sempre solo e senza guida, non ho mai salto
tradizioni, eppure, la mercè di un tal sistema, e a tirocinio di po chissimo
tempo mi son reso signore di alire lingue.Egli è il dunque per convnizione di
fatto ch'io dico e sostengo che ſilichè l' italiallo d'oggidì si contenta di
vederla soltanto ed ammirarla l'eleganza e non è punto del mondo sollecito di
recare a proprio sentire il caratteristico elegante e classico, non gli verrà
mai fatto per fantasti gare, lambicare, comporre e travagliarsi ch ei faccia,
di ritrarre il grato dei gloriosi antichi, ma il suo linguaggio sarà sempre
suo, ritratto sempre del suo sentire, del suo pensare. Egli è mestiere di una
radicale riforma. Noli erudi e dissertazioni, non indagini, non rile analisi o
scrutini filolo gici. Troppo presto. Lo ſaremo sul nostro quando sapremo
parlare. Ora lia li sll'o compito studiare accuratamente il magistero del
favellare periodare classico; decomporne le parti e quegli elementi imprimerci
che ne costituiscono il caratteristico e bello.I ritornando a d'ondo il giusto
sdegno, mi trasviò, dico che ad apprendere con sicuro profilo ed anche usare
convenientemente quella figura che si chiama con il nemici le elissi, ci
bisogna prelibare assen natamente, e leggere, e poi rileggere ancora quegli
esempi che in varie guisa la contengono, e ch' io li porgo, gentil lettore,
schierati in due di sliIl le classi e solo: I. Voci e il dtsi che comporlot no,
e licenza. II. l'articelle e il ct si cui si alliene il prete mi esso.
("LASSE I. Voci e frasi che comportano reticenza l: previlegio
di alcune voci o parole, che hanno luogo nel discorso, e luttavia non vi sono,
di poterle, chiunque legge ed ascolta, agevolmente intendere, e sentire, e
lorse più che non si otterrebbe esprimendole. Molte di colali reticenze
sono in uso anche oggidì, e le ha il popolº continuamente in bocca, e di queste
non accade occupal selle. Ma ne sono alcune che il moderno ordinariamente
non usa, e solº pur quelle onde, a mio senno, vagamente si abbellano e prendono
sa pore e forza gli ameni dellali dei migliori scrittori. Te ne offro,
caro lettore, che mi lusingo di averlene ogginai in vaghito, eletti e copiosi
esempi, colli la maggior parte nell' Eden deli ziosissimo del trecento e
cinquecento, e che mi parve di ordinare lº articoli recanti in fronte il segno
di quella voce che secondo il sºntinº degli esperti in opera di lettere, in
qualche modo si omette, e va Pº intesa. Torno a dire che non è l'assetto
della collezione ch'io metto innanzi, e quello che io ne sento– che non mi dà
niente noja se ad altri non piace o se ne facesse anche beffe – ma oggetto del
mio lavoro è la Lingua degli antichi, e non altro che la lingua. cioè il
costruire e fraseggiar clas sico in quanto differisce dal volgare e moderno,
mostrato con esempi, e di tante e sì diverse forme, e di autori colali e in
numero tanti ! ARTICOLO 1. Ifilif; IMIlMENTE: (si bene; in guisa
ecc.) L' omettersi a suo tempo e luogo l'una o l'altra di queste
particelle dà alla frase un garbo che il profferirle non farebbe.Dove, quando e
come te lo diranno assai chiaramente gli esempi. (101). «... e così
dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro tutto il viso gli
ruppe ). Bocc. (Traduci: le quali aveva sì ialle). « Di ciò che... so io
grado alla ſottunu più che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che
bisogno ci ſi di renire a casa mia ». tale) Docc. « Diceva un chirie e un
sanctus che pareva un asino che ragliasse ». BOCC. (ad ora'
Alfermando sè, di spezial grazia da Dio, avere una donna per moglie, che lorse
in Italia ne losse un'altra ». I3occ.« Parti egli d'aver fatta cosa che i moli
ci abbian luogo? ». Bocc. «... e andronno in parte, che mai nè a lui nè a te,
di me perverrà alcuna novella ). I30 cc.« E messa in terra parte della lor
gente, con balestra e bene armata, in parte la fecero andare, che...... ».
Bari. (102)« E guardi bene colui che avendo l'autorità di prosciogliere della
mag giore escomunicazione, assolvi altrui che non lasci della forma della
chiesa niente; però che gravemente peccherebbe ». Pass. (ass. altrui in guisa
che).«.... e tanto andò d'una in altra (parola), ch'egli si ſu accordato con
lei, e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona s'accorse ». Bocc.
(talmente - sì chetamente e furtivamente).« Costei è una bella giovane ed è qui
che niuna persona del mondo il sa ». Bocc. (in tal luogo e
maniera). “... Sere, andiamocene qui nella capanna che non ci vien
mai per Soma ». Bocc. (lal nascosta e sicura che,º pensando che in quelle
contrade non area luogo dove egli potesse stare nascoso che non fosse
conosciuto pensossi di iuggire ad alcuna isola rimola ». Cav. in guisa, sì
perfettamente.“... con inciò a gillar le lagrime che pareano nocciuole ». Bocc.
“ cºddº, l'ºppºsi la coscia e per lo dolor sentito, cominciò a mug ghiar che
pareva un leone ». Lo c.“ Dirºmulo nel viso quale è la molto secca terra, e la
scolorita co mºre ». Bocc. (103).« IIa roi adunque in parte la lortuna posto
che in cui discernere pole le quello che ancora giani ma non potesſe vedere...
Bocc. E da indi innanzi penso sempre modo e via come ei glieli potesse lurare
». Fier. 104.() h. non li ricordi della cosa dell'Aquila e dello Scarafaggio,
che non lui moli la più bello rende la ' o Fierenz. Iale, sì bene ordita,
che...). Egli allora con una superbia che mai la maggio e... ». Fierenz. (105)....
roi l'a re le colta che niente meglio... Ces. talmente, sì bene che...), \ on
gli bastando più l'animo di andare in procaccio, si condusse ad atto talora,
che... m. Fiel'eliz. (t... ... e conchiuso di appiallargli un bel
figliuolo che non vedeva altro che lui n. Fiorenz un igliuolo, l'altrº ente
bello e caro, che non vedeva.... « Guarda come ciascun membro se la rassomiglia,
che egli non ne perde nulla. Fier. (in modo, il glisa, sì perfettamente. « Per
ciò bestemmia, che non par suo fallo. Malin. Se ne scantona, che non par suo
allo. Malm. - 1)ice le cose, che non par suo fatto o. I 3el ll. lilli. « Se non
fosse lo scrivere, sarebbe un modo di vivere che non m'arrem mo bisogno, ed in
rece sua serrirebbe il tener a mente ». Caro. (un modo di vivere tale che..).«
E questo pensiero la innamorara sì l'orte di Dio, che non si po - Irebbe dire,
e ricrescevale l'odio di sè e della sua vita passata, che con - - grande empito
si sarebbe molla, s'ella tresse credulo che piacesse a Dio o. º CaV. «...
che se io fossi serrata e rinchiusa tullo di domane in prigione e tenuta ch' io
non potessi andare a cercare di lui, penso mi che immansi che fosse sera,
io sarei trova la morla ». Cav. - «... e andò la infermità montando che i
medici il disfidaro (l'ebbero. per disperato). Cavalca.- a Giunse alla porta e
con una verghella. L'aperse che non ebbe alcun - rilegno ». Dante (106), in modo,
sì presto, sì facilmente. « Si reslieno una cotta che non si potra reslire
senza aiulo d'allri ». - Vill. (Iale foggiata che...). NOte
all'articolo 1, i101) Analizza un po' la frase nostra lombarda: egli è
afflitto come mai, e mille altre di somiglianti, nelle quali vi senti oltre
l'elissi di tale talmente, anche quella de verbo essere che regge la frase: la
quale omis sione è, tra l'altre cose, oggetto di ossrvazione nel seguente
articolo. (102) Guarda come ai valenti in itatori del Trecento uscissero della
penna spontanee le frasi e maniere dei loro Inaestri.(103) Qui si è forse la
voce quale che con leggiadria sta sola e cessa la corrispondenza di tale.
Simile all'allegato è quel del Petrarca: « Piaceni a almen che i Iniei sospir
sieni quali Spera il Tevere e l'Arno ». (caliz. 29). (104) cioè quel tal modo
acconcio e sicuro; non un, nè il, la cui onis sione dice assai piu che
l'articolo non farebbe.(105) E' forma superlativa adoperata spessissimo dai
buoni scrittori. (106) E cosi dovrebbesi intendere, a In 1o avviso, anche il
secondo verso della Divina CUII, III edia: « Nel II mezzo del cali Iilin di
nostra vita -- Mi « ritrovai per una selva oscura – Che la diritta via era
sinarrita ». Cioè oscura tanto, a segno che.... E nºn dare a quel che, senso,
chi di poichè, perchè (Tomm.) e chi di per dove i Cinomio ed altri). Con questo
modo di sentire (tanto, si fattamente), è l'uomo che pervenuto all'età delle
tumultuanti passioni si trova coine in una selva tale oscura che non ne vede
più uscita, Inentre col chè, perchè ne risulta un senso al tutto opposto;
quello che è causa diventa effetto. ARTICOLO 2. flilSSI DI UN
VERB0, quando in maniera subordinata e quando a SS0luta u). I no
stesso verbo di due incisi o membri l'uno all'altro comunque copulati, l'una o
l'altra volta, si lace, ove nol vieti pericolo di ambiguità o bisogno di
precisione. (« Ti avrei rii a modo che alla Maddalena ». Fior. – che avvenne
alla Maddalena). Si sopprime il più nell'inciso secondario, dipendente
subsunto, il quale talvolta il primo luogo occupa e tal'altra il secondo. Assai
vaga e commendabilissima è l'ommissione, non pur del verbo, ma e di sua
appartenenza dopo un che pron.) nesso comparativo, il cui membro principale
suona, espresso o sottinteso; tale, così...., in quel modo e grado, quel...
che: ecc. (« avere in quell' onore che padre ». Bocc. – cioè nel quale si ha o
si deve avere un padre. Si osservi di più che ornettesi talora tal verbo, che
anche nel primo inciso è sottinteso (« Richiedersi un uomo del saper che il
Padre Nugnez ». Bart. – cioè a dire che sia del sapere onde è il Padre Nugnez,
opp.: fornito di quel... ond' è fornito). b). Anche il verbo soggetto ad
un che congiunzione (dass, als, ut, quam) ed al quale risponda un modo –
qualità o grado di azione – che sia più che il verbo da avvertire e rilevare,
si tralascia molte volte non senza leggiadria di frase e sapor di stile. Il
vescovo rispose che vo lentieri ». Bocc. – cioè che il farebbe volentieri la
qual cosa avviene non solo di un che a governo di altro verbo (es.: disse,
rispose che...), ma altresì del che correlativo di tale, così, il più e « lºd
egli con una Su perbia che mai la maggiore, Fier – che non ebbe o non fu mai la
mag giore). Gli esempi che li reco, disposti in quell'ordine che dianzi,
non solo vogliono dirti che è veramente crisi, ma anche farlene sentire il grato
e stimolarli allo studio assiduo ed elica e di questa e mille altre somi
glianti venustà. ... perchè egli chiama rimedii, quei che gli atlli i
Ncellerat lesse o. l)av. quei che gli altri chiamano a rate ciri, ha
questa tarola della penitenzia da quello mºdº da cui la navicella
dell'innocenza, cioè da Gesù Cristo e dallº Sltº Pº sione ». Passa V. « E
poichè non potevano sassi si colsero a gittar maledizioni e calun nie ». 13art.
e poichè non potevano gilla' sassi. ... se la faceva la maggior parte
dell'anno, all'ºstºsº (lell'Indie, con riso; e quando più sontuosamente, con un
pºco d'ºrlº condite sol di lor medesime n. 13arl. e... se la faceva tºll llli
lº d'erbe...) º 107): a punzecchiò un poco la donna e disse: ºdi l' quel
ch' io? ». Bocc. (quel che odo io). Io non so, disse... se a coi sia
intervenuto quello che a me, che tutto il dormire di questa notte m'è andato in
un sºgnº" continuo di...». Ces. e però re intervenuto quello che
(tll'eremila col suo con lo 0 n 0 º. lierell?. « I)eh, non..., che redi
che ho così rilla la ren Iurat les lè che non c'è persona ». lSocc. - - «...
sforzandosi tutto di di non parere quei dessi che dianzi, tanti oltraggi gli
dissero e così luidi: l)av. ierata del parto e daranti di linº renula,
quella reverenza gli fece che a Padre ». Bocc. «... i quali tenevano il
Saverio in quell'amore che Padre, e in quella reverenza che santo ».
Bart. si tiene un santo). º indicasso di ufficio e nei lºdºsini
ierri che il re, inviato a... ». Barl. (ed essendo ºi medesimi ferri nei quali era
stato il re ). (nel quale si tiene un Padre..., nella quale “...
fare a modo che la madre al lº ºillo quando lo ſa bramare la pOppſl n.
Fioretti. « Ma di sè non curò punto più che se non bramasse di rivere, e
non le messe di morire ». Bar. di vivere). «... stimerebbono le anime del
l'ill galorio rose quel che noi Spine: chiamerebbono rugiade quel che noi solli.
Segni. ºi Iliello che avrebbe curato se non braInasse “... trendosi
a credere che Tºllo a lor si convenga e non disdica Che alle altre. I3occ....
che si conviene e l 1 l I disdice alle altre..« E quelle medesime forse hanno
in India l'iti li e gl'ingegni che in lºlºgna: e in quello medesimo pregio sono
i lottolº roli costumi in Austro che in Aquilone » Bocc.« Come il Paragone
l'oro, così l'arrersi di dimostra chi è amico ». I 3 c'e'. “ Ed intendi
sanamente, Pietro, che io Non l'n minº, come l'alt e, ed ho voglia di quel che
l'altre; sì che l'ºrch º io non me ne l) l'ocutc''i non cºndonº da te, non è da
di menº male, I3 cc'.“ - ºgli medesimo determinò di rimanersi e Correre quella
medesima fortuna che lui, nulla curando me la pºi dila della sua mare, nè il
pericol, della sua vita ». Bocc." Iº lº uomini della condizione che essi,
maestri e promotori del l' idolatria, altro non era da (t Spell (Irsi... I
3ar[.." l'Ili all'incontro era fermo di rimanersi al mi e lesimo rischio
che ºsi, parendogli la r da mercenaio, non da buon poi sloi e', se at
bbandonass la greggia... o. I3art. Se io piango ho di che o. I; rec. di che |
Iilliger. “ La ſan le piangeva forte come colei che arera di che, Boce. “ Le
quali ſcortesie, molti si sforzano di fare, che benchè abbian di che, sì mal
far le sanno, che prima le l'anno assai più comperar che non ragliano che ſale
l'abbiano. I loce. (di che doversi sforzare a farle, º Dirò quello ch' io avrò
fatto e quel che no, Ifoc,« Voi l'avete colta che niente meglio ». (les in
maniera che meglio non si poteva cogliere).“ Di certo non lu mai uomo
innamorato così l'alcuna persona che ne facesse o sentisse quello che Luigi per
amore di Dio « Dice il Sere che gran mercè, e che... ». Il che vi tiene
obbligo di gran mercè). « E rispose a sè medesimo che mai no o
l'assav. “... e se di niente ri domandasse, non dite altro che quello che
vi ho detto. Messer Lambertuccio disse che volentieri e tirato fuori il
coltello... come la donna gl' impose così fece p. Bocc. - « Tornali a
Sacai, si ad una ono loro intorno tutti i cristiani a udire voda Lorenzo
che norelle recasse: ed egli a tutti, che felicissime: e contò...». I3: il
1.Prese una tal gentilezza e proprietà che mai la maggiore ». Ces.... ri con
cerrebbe a lui lornare e sarebbe più geloso che mai ». l3 ('.llli 2 di Giugno
1S33 lu incorona la 1 nn 13olena con la maggior pompa che lei ma mai o. I
)av.Fracassata l'armalat. g) e mite le lilora di cadaveri, con più virtù e
lierezza che mai quasi ci esciutti di numero.... Dav. 108).... godendo che
l'ossei o così vilipesi e br amando che peggio ». Fier. li e li avveri sso di
peggio.Vli repliche il lorse... V e di mente che si, ma.... Caro. ! Il rint ºn
li, come lo dimosissimo del noti li io, sarebbe quinci pus sotto dentro le l a
a predica e ad l abi e a Persiani, con quella riuscita che pochi mesi aranti un
lei ren le religioso dell'ordine di S. Francesco, e certi all il seco, li
aliili con stelle e mo) li la saraceni. Bart. N Ote all' alrticolo
2. 10), I, I.issi, a lui lo rigore, sarebbe anz doppia: e quando la
faceva pI i sontuosame te, se la faceva con.Troppo ci sarebbe che dire se tutte
si adducessero le reticenze vaghe parimenti e vigorose di questo potentissimo
scrittore Guarda, per dirne pur qualche cosa, con quanta grazia. I 13artoli
adoperasse un altra eissi simile a questa che abbiam tra Irlano e, non qualche
volta soltanto, Irla soven, che due e tre la riscontri talora nella Imedesima
pagina, cd e quei 1 di una proposizione al pit ve li recati ad un solo mercè di
ll li V el'ho (olillllle e generale, cioè in lire di valore lil delel'Illinato
essere fare, mettere, ecc.), che !., una sola volta ed a cui guida
reggonsi le altre voci di riol: liti il che, come, dove e della diversa azione
attri butiva: debboni prenderla alla scoperta contro de lºonzi, rivelare gli
rrendi e le andi or vizi, e metterne gli insegnamenti in dispregio e i costi tini
in abboninazione del popolo ». « Ciò farebbono levando popolo in Funai
come si era fatto in Amangucci, e mettendo le mer anzie de Pol togliesi in
preda, la nave a fuoco, e quanti v'avea di loro al taglio delle scimitarre o
invece dei gerundi predando, incendiando e tagliando) – I) in Sancio, come
padre comune, a tutti dava albergo, (a tutti largamente di che sustentarsi
».10s Simile il modo nostro lombardo: contento, allegro, tristo, afflit, come
mai, che fu già menzionato alla nota 101. Anche la lingua te desca ci
somministra esempi non guari dissimili, ARTICOLO 12. I VERBI:
VOIERE, DOVERE, p0IERE (mögen, können. diirien) comportano
reticenza ove all'ombra di altra idea, verbo o qual altro sia si termine, sì
leggiadrati len le riparano che più grata ed eſlicace torna la loro parte
assenti, che non ſarebbero presenti. Come e in quanlc guisa e li chiaris
ono gli esempi. Non leggerli soltanto, ma studiali, assaporali e fil di
prenderne dilello. Egli è in questa maniera che il pensare e, per conseguente,
anche il dire prende a mano a mano quel tornio di azione, quelli Iorina al resi
di eleganza che nei dettati dei migliori scrittori. « E vede ra la
bruttura dei peccati suoi, e i demoni d' intorno ag gravando queste parole in
molti modi, vedendo ch ella non sapeva ancora che si rispondere ». Cav. che
cosa dovesse o polesse rispondere. « Qui ha questa cena e non saria chi
mangiarla ». Cav. chi potesse O volesse mangiarla). « Qui è buona cena e non è
chi mangiarla ». I30cc. «... ſecesi compagno..., per lasciar chi succedere ».
Dav. « I)i tanta santili che li dei nomi non al re ritmo a cui entrar dentro o.
Fiorelli. (non avevano persona in cui polessero entrare”.« Viene il demonio per
sospignerlo quindi giuso. Di che S. Francesc non avendo dove fuggire si rivolse
al sasso lo stucolando con le mani...». Cav. i non avendo luogo dove potesse
filggire.« Allora disse la liadessa: ligliuola mia, e non ci ha dove tu dorma:
ed ella disse: «lore coi dormi in ele, e io dormirò.... ». C: V.« ('h e la mia
rila acerba, Lagrimi a nolo II o rasse ove acquietarsi ». Pelr. « Non sapiendo
dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso dore più gli parera ne la porta
ro ». 13 cc.« Non sapeva nè che mi fare, nè che mi dire se non che l'rale Ri
naldo nostro compare ci renne in quella... I 3 t.« I)i Giusea, do ho io già
meco preso partito che farne, ma di te stillo Iddio, che io non so che farmi. I
3 ('C'.« Imperocchè quello libro (l' ipocalisse è di grande solligliezza ad
intenderlo ). I3ll I. Corn. l)all I e.« E redendosi il leone ingiurialo lanlo,
e ſi rendo preso un ſolo slot di intra due, o dargli morte o perdonargli n.
Volg. Es p. (se dovesse dargli morte....). º Tullº la rila sua acra spesa
in lontanissimi pellegrinaggi, cer cºndo i luoghi santi del Giappone, doru nque
e, a qualche idolo o cerimonia con che prosciogliersi dai peccati a Bari.ln
lendi sºnº nºn lo, marito mio, che se io volessi far male, io tro l'ºri ben con
cui: che egli ci sono le ben leggiadri che mi amano, e co gliomini bene l'oro
con cui poterlo lare.Sr lossº un palagio, e l'osse e siandio lullo d'oro e
d'argento e bello quanto pil polºsso essere, e non fosse chi l' abitare e non
ci stesse per sonti, il n grande peccato sarebbe questo lº Giord.Perche... chi
saperlo? chi ride nel secreto di Dio il perchè di que sto gore i nutrsi così '.
Cesari.e l.odulo sia lalello, se io non ho in casa per cui mandare a dire che
lui non si aspellato 13 non ho persona... per cui io possa mandare). E se ci
losso chi farli, per lullo dolorosi pianti udiremmo o. Dav. Il loroso qui i lo
mai alcun altro (19.trasporta casi dove il vento.... Bari dove voleva il
vento). (110). (atlandrini... pºi c'e' lissimo librº srco medesimo d'esser
malato lilllo sºlo tra il latlo qli doni di nullò: Che fo? l)isse lº uno: A me
pare, che tu torni a casa, e i lilli in sul lello. I clie dello io il re?... A
me pare l'ori i ba riare a...V (Ilen l uomo, io ho la più persone in leso, che
lui se sa essimo, º nelle cose al l si l i n olio e col nºi: e per ciò io
saprei colentieri da le, I tale delle l e l'afgi l il repuli la cerace, o la
giudaica o la saracena, o la cristiana loce. Vorrei sapereli a dalla per la sua
presto a dore fare ciò ch'ella gli comandasse ». I 3 (''. | | |.Ella rimase
lulla con lenta, pur e ch'ella polesse fa, e cosa che gia piacessº, e rimase a
pensa e con queste cose si facessero più presto mm e mi l '. (il V: il n.\ 'il'
atli Illes la dolorosa notal re lulli mori, e, e mirando or l' uno or l'altro,
non saprei qui al primo si piangesse o Cav. si dovesse piangere. l?irollosi
tutto a docet li orare modo come il giudeo il servisse, s' av risò di lot rºlli
una forza d'alcuna ragion colo, alla s. Bocc.a 1 me pai rebbe che noi andassimo
a cerca senza star più ». Bocc che noi li ll'emiro, dovremmo andare.Ma se
alcuno si moresse e dicesse: perchè non fu questo rivelat, ad 1 ml mio innanzi
che quel li atle morisse, che, come sorerenne all'uno, così avesse sovvenuto
all' all I o ”. Cav. avesse potuto..... E fallo questo, gli disse: quello che a
me parrebbe che tu facessi sarebbe questo, che tu pigliassi di molti pesci e
ponessegli l'um dopo l'altro dalla bocca di questa lana sino al buco della
serpe.... ». Fierenz. a N on sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse
». Botc. (che ci si dovesse fare, se dovesse...).« Io non so quale io mi dica
ch' io faccia più, o il mio o il tuo pia cer,. I3, c. non saprei qual dei due
io debba, o mella conto ch' io faccia, se il lilio o il lli i piacere.a Ond' io
a lui: dimandal tu ancora Di quel che credi che a me satisfaccia: 'h'io non
potrei, tanta pietà mi accordi ». Dante. (mi vogliº, ini debba, o mi abbia a
sodisfare). « Nastagio udendo queste parole, tutto limido dire nulo....
cominciò ad aspettare quello che facesse il catraliere n. Docc. « E
perciò dunque proromper ('risto in eccessi a lui così disusati di maraviglia?
». Segn. (volle, dovette Cristo prorompere). NOte all'articolo
12. (109 ) Forma di grado superlativo, frequell Issillo -lilla penna i
classici e con lume alla lingua tedesca e inglese. (110) Negli esempi fin
qui allegati avrai osserva lo clic e una delle voci: chi, cui, che, dove, onde,
ove, se il soggetto, oggi 11 o o circost: i nz: principale cui - riferisce con
il lique l'azione del III do elit Iro. i 111) Gustalo, anche negli esempi
che a questo film Ilo segui o, quel congiuntivo che cessa l'all l'o, veri o ill
de si gllida. 'l'ori la loro is: I lente al: mögen, dirfen delle solite forme
tedesche. E dire che si è scritto e di scusso tanto intorno a quei facessimo
del l'assava iti. Non per opere « di giustizia che li oi facessimo » (oè che
noi potessimo Irlai fare V. - sione del testo di S. Iº:nolo: « non ex operibus
ill-titi que facimus nos. E chi la disse scorrezion degli stampa [ori, che e il
rilugio ordinario degli ostinati; chi licenza del traduttore e chi l'una e chi
l'altra (º belleria. Il Bartoli all'incontro, che se l'era il trecento tornato,
per così dire, in natura, sente in quel facessimo non il fecimus e II è anche
il face remus, che sta bene, dicegli, nell'italiano quel che nel la Inal sone.
rebbe; ma un non so che di elittico, come sarebbe a dire: quantunque ne
facessimo o altro di somigliarmi e. Vielle a dire in 1 nelllsi i le cºllº, i
militi che lion lo dica e nessuno, ch'io sappia, l'abbia mai deti',
espressamente, in tale e simili costrutti vi è sempre clissi di uno dei verbi
potere, volere, dovere. Il'INDEfINITO DI UN VERB0 obbligato ad uno
dei verbi potere, role e, sapere, dovere, si trala scia alcune volte, con un
sapore e con un garbo ſullo italiano. L'oppostº del ragionato all'articolo
precedente: là questi verbi, non espressi, erano sottintesi in un altro
verbo; qui sono appunto questi medesimi verbi che ne sottintendono un altro.
Quando e come agli esempi. “ Ti orºlli (o di notti in ono onor quanti
seppe ingegno e amore ». l3 cc. seppe o il mare e Irovare Sºnº lºro non
può l tono un cibo, ma desidera di variare ». Doce. (non può soffrire. l:
I tiri spesso rolle insicuri e si la cella rai no, ma più a ranli, per la
solenne guardia del geloso, non si poteva. I; ci ma di più non si po teva
fare).º... non c'n li tlc mi cco in preconi nè in prologhi. Quando volete
cose Che io possa, but N lui il m con lo... (il l'. lo era un asinaccio
che non poteva la rila, Fiorenz. non poteva reggere).l'ºr la qual cosa ci ri
unº, che ci e scendo in lei a mor con linuamente, ed una malinconici sopralli
di aggiungendosi, la bella giovane, più non potendo, in fermò ed eridem le
mente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumara o. I3 cc. pil non
potendo reggere.Voi mi ſono aste e mi accarezza sle allo, a assai più che non
dove vate una persona non conosciula e di sì poco a fare come son io o, Caro.
che non doveva e onorare una persona, o fare con una....... Spatccia la mente
si lerò e come il meglio seppe, si resti al buio...». I3 cc.« Il percosse Iddio
in la parte che non potea meglio per isrergo (/n (trlo ». Cesari, che li in
pole a fare, accadere meglio.....lºra bassello di persona, e pieno e grasso
quanto potea (quanto pol ea mai esserlo, divenirlo.E già tra per lo gridare, e
per lo piangere e per la paura, e per lo lungo digiuno, era sì rinto che più a
ranli non potea. ». Bocc. non po leva andare, reggere, sostenero).('on gen le
sì laccagna, crudele e superba puoss' egli altro che man temere libertà o
morire º v. l); V al 17.E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco
che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altrimenti che non sia
troppo ». Bari (non può essere, non può fare).« Ma lulli erano a campar la
vita, se potessero con la fuga o. Dav. (se potessero mai farlo con).« Ora con
quante più dimostrazioni di riverenza sapevano, di nuovo l'imarbora ramo.
I3art, la croce sapevano fare, esprimere, tributare). « Adorni il meglio che
sapevano ». Rart.« La lena m'era del polmon sì munta Vell'andar su, ch'io non
potea più oltre a Dante, Maniera comune ad altre lingue).« l 'ea finalmente
preso sì allo grado di perfezione che non si potea più là ». Ces.« La natura
della cosa porta così e non se ne può altro ». Ces. (dire. fare altro). «...
se ne rennero in un pratello nel quale non vi poteva d' alcuna parte il sole ».
Bocc. (non poteva avere azione... -- Nolalo anche negli esempi che seguono
questo particolare uso del verbo potere, che è bello, forte e tutto
italiano). « La bottega dello speziale debbº essere posta in luogo, dove
non possano l'ºn li e solo o. I): I V. (... pendici boscose, per i venti
di tramontana che molto vi possono smaltate di così duro ghiaccio... ». I;art.
Segn. «... in paese di terren magro e sil restro, e in lornia la i là
d'allis simi monti, onde il lreddo vi può eccessivamente: e pur r è caro di Ie
gne ». Bart. () [LASSE II. Voci e frasi cui si attiene il
pretermesso Meritano all'enzione in modo particolare e studio quei
costrulli che l'erario ad l Il senso che grammaticalmente non hanno, od è
altro, e ! all le avanza il malural valore delle parti onde si compongono. La
qual costi procede, io m'avviso, da un colal modo di significare, dirò così la
lente e lºroprio soltanto di questa o quella voce, alla quale, in tale lal all
ra forma ad perala e convenientemente collocata, viene una forza e indi alla
mente un' idea che il senso e l'intelletto subitamente appren dono, ma il
maniera assai più vaga ed evidente che non farebbe un se gno di valore
letterale ed esplicito. Le elissi della classe precedente erano quelle di
certe voci mani festamente pretermesse ed alle tuttavia a sol lin[endere. Ora
vuolsi al l' incontro allegare e proporre allo studio del giovane filologo
molti esempi di quelle voci le quali, non che si tralascino, ma stanno per più
altre dicono più assai che non faccia il material suono. (). () A me
sembra, dirò col Gherardini, che, indirizzando la mente a ritrovar questi
ascosi concetti, si abbia a ritrarre dalla lettura un diletto ignoto a chi non
penetra più là dai lievi egni delle idee che l'autore intende
risvegliare. PreVengo che per non isparlire, più che non l'isogni, la
materta. pillºvelli di alcune menſi varle soltanto e rimandare il lettore ad
altro capitolo di altre ragionarne anche oltre i lerimini dell'Articolo e dire
di altri usi più notevoli. ARTICoLo 1. lascio le discussioni
intorno alla natura di questa particella, se sia O possa essere, secoli l g'
sci il lori, alla cosa che semplice preposizione, se si verili e il posto il
luogo di altre voci, e se finalmente, i saldi si ad i Ilicic, che di semplice
pi e posizione, si i lorº clip i cicli con i voti lolio, li a gli altri, il Ghe
rardini, da lui le ho idea pl e le press e soliti esa, o sia dessa all' in con
l'o, e così pare il mio, e lo ſcroll l: di Iroppe altre idee, torna a l lIn Se
gli e la l li se il l il si l radl Il l'ebbe sull' rogando il re parole, la con
i ponenti in ci o la sintesi e slenuandone Illindi il sapore e il vago di II li
ascosa vi li Islà: e comincio subito co; - l' addii re, prima di lillo, esempi
di un ct ad Iso ben diverso che di sem plice preposizione, e di un gol I loro,
di rina belli, virli cd elicacia, che non si potrebbe a pezza con la lunque al
ra v. e. ()sserver: li: il come l'essere una al parlicella ora articolata
e ora no, iol è, con le dicono, allar di colli o di ſol ma sl l'iore soltanto,
ma adopera sull'essenziale valore e quiddi là del liscorso. Le frasi, a cagion
d'esempio: con lo scudo di pello: stendersi di un vento a poppa: pianura di
mare: quardare al concupiscenza, ecc. ecc. si scollcierebbero e guaste rebbero
non chi altro ad incorporare comunque l' articolo con un a co tale; laddove altre
coll'articolo, p. es.: male allo al camminare: virer.' all' altrui mercede ecc.
ecc., perderebbero lor sapore e forza sopprimen (l lo): lo) come assai sovente
colesl a risveglia nell'animo un senso che torna pressº a poco ai modi: allo
scopo, a fine di, ad elfello di, al hoe ul: in confronto, per rispello a..., al
rispello di..: in forma di.., in modo di... a guisa di.., conforme, i clatira
nºn le t... quanto d..: a lorsa di....ricorrendo a... con, col mezzo: dopo, di
lì a., a distanza, ad inter rallo, della durata di..: intorno a: ecc. ecc.. e
come talvolta li par che codosi a come acutamente osserva il Gherardini, si
continui alle ideº sottintese: inducendosi, recandosi, nellendosi.......:
guardando, ponendo mente: esposto, occupato, inteso, raccomandato, solo posto
ecc.Dopo gli esempi di un a che mi avviso altra cosa che una semplice
preposizione e voce cui si attiene evidentemente il pretermesso, porrò, quasi a
complemento di quello che parmi doversi dire intorno all'uso antico e
commendevole della particella a, altri esempi di un a che, se pur è segno di
semplice preposizione, non però a quel modo comune e volgare d'oggidì. Si
leggano e rileggano colesti esempi, ma attentamente, assennata mente, ed ad
alta voce, così cioè da gustarne il vago e sentirne proprio la forza, il
peregrino che lor viene dalla particella a, e gioverà a render sene al tutto
padroni, e ridirli e riſarne, occorrendo, de somiglianti, ma sì che appariscano
cosa naturale e tua, non opera di studio e d'artificio, gioverà, dico, più assai
che non ſarebbero vaghe teorie, mille sacciute definizioni e divisioni, che in
materia di eleganza guastano talora, non che n'aiutino lo studio, ciò è a
dire il pratico profitto. (138) « Mi metterò la roba mia dello scarlatto
a vedere se la briga lui si roll legrerà n. 13 cc. tafline di... opp. e sarò
vago di...a Che senza dolerlene ad alcun tuo parente, lasci fare a me a vedere
se io posso raffrenare questo dia rolo scatena lo m. Bocc.« Vè caghezza di
preda, nè odio ch' io abbia con ra di roi, mi i lºrº partir di Cipri a dovervi
in mezzo mare con armata mano assali, c. lioccº, º allo scopo di... aſlinchè vi
dovessi.....() ne's la cosa º perdonare ai poreri quando errano, ed esot minuti
e sè stessi a vedere se negli animi suoi alcuno diſello per arren litrº nascoso
si stesse ! ». Casa, Uff.a ()ra ci raccomandiamo a questo Santo morello a
vedere s' ('Ili lº niuna forza in mare che ci faccia riare e l'ancore nostre,
V. SS Pad. « I ccise un suo mimico, e per camparsi dalle forze della Itaſſio nº
si fuggì a franchigia in un monastero ». Barl.«... disse che egli sarebbe a
sepultura ricerulo in chiesa ». I3ocr'. «... or mi bacia ben mille volte a
vedere se lui di rºm o. I3o e'. «Spessissime volte io ho mangiato e bruto non a
necessità, ma a volontà sensuale ». San Bern. Tral. Cosc. Cioè: ho mangiato e
bevutº non a fine di soddisfare t....« Per quanto io posso, a guida mi
l'accosto. l)alle. mi accompa gno pronto a esserli guida,a Ver è ch'io dissi a
lui, parlando a giuoco: lo mi saprei lerar per l'aere a rolo. Dante. (a fine di
pigliarini giuoco.« Se tu studi nella continenzia, fa di abitare non a diletto
ma a sanº tade ». I)on Gio. Cell.« Leggi non solamente a consolazione e diletto
degli orecchi, mi con pensamento, intelletto e fatica d'animo. lºsop. Cod. Fars.
« onde se il frutto ti piace più che il fiore, cioè leggere il librº
º trarne ammaestramento....... guarda al line che importano le parole ».
Esop. Cod. Fars.E andando il leone, poco dopo queste cose, a diletto
sprovveduta mente gli renne dato nel laccio del cacciatore ». Pass. 139....
nondimeno a cautela si ordinò che....... Caro. « Io ro che l campo là do Sul
(teini l omani a spasso andiamo a risilare ». I'illci Luig. Morg. (a scopo a
titolo, a modo di... ). Caro figliuolo, se roi amarale avere a donna questa
damigella. roi non lorº rotte le nºr bargagno -. Vill. M. destinandola a esser
vostra moglie.l 'endo... una gru ammazza la.... quella mandò ad un suo buon
cloco...... e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse o Bo, c. Federigo
andò a V inezia, e gillossi a piedi del... Papa a miser - cordia, per ottenere,
o implorando... Vill. G.Molle colle si conduce l'uomo a ben fare a speranza di
merito, od altro suo rantaggio, più che per propria rirli o Nov. ant.« Chi
potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie sedie, e alloga romsi
nell'altrui? ». I3oce.('osa ordinaria, dic 'egli, che chi è rivit lo
dissolutamente a fidanza della divina misericordia, morendo ne sconlidi ».
I3art. 140). Maledello è da l io ogni uomo che pecca a speranza ». Pass. (141).
La speranza del perdono. Si è data a chi la ruole: E colui l'ha per mio dono.
Che del suo peccato duole: \ on chi a speme peccar suole, Ch' io non faccia la
rengianza la l'ond.Paolo, sepulto rilmente in terra, risusciterà con gloria:
roi, coi sepolcri de ma mi ed esquisiti ed a trali, risusciterele a pena ».
Vit. SS. IP: l d.Trasse di prigione la della ln per il rice, e isposolla a
moglie nella e il là ali Patriot, Vill. (i. i trad. destillandola a esser
moglie. E Maddalena, piena di contrizione, si seri è l'uscio dietro e spo
gliossi alla disciplina, diessi a piatti nei e amarissimo mente i suoi peccati
». Caval.... e da rasi ne' piedi e nelle gambe, e da casi nelle braccia, e lo
gliera la cintola sua spianata la fornita di spranghe, ch'ella solera por lare
a vanità, e spogliarasi ignuda, e batte casi con essa tutta dal capo (il piò,
sicchè ella filatra lilla san Ilie o, Caval.a I)i lui rimase uno figliuolo che
ebbe non e' l rrigo, che 'l ſece eleſſ gere a Re de Vomani ». Vill. (i.
142).I)ormendo in sieme... nel suo lello piccolo a due, ma ben fornito ».
Sacch. cioè fatto per servire a due persone), Ed assai bene circonda la
di donne e d'uomini, da tutti conforta la al negare. I3 # 1 (3). a V
elele com' io son gra ricciuola e male alla al camminare ». Fier. a
Rincorandolo al taglio ». I3occ. a soffrire, a volersi permettere il
taglio. “ Chi adunque s'interporrà a che voi coll'anima non possiate a ro
stri amici andare, e stare con loro, e ragionare, e rallegrarsi e dolersi? ».
Boce. (ad impedire che..., opp. con tale effetto che...):º 1 roi non sarebbe
onore che vostro lignaggio andasse a pover tade ». Nov. ant. (a languire nella
povertà).“... di poi sempre meco medesimo dedussi quei suoi deli, sentenz º
ammonimenti a mio proposito ». Pand.«... e molti altri che a narrar li saria
fastidio ». Giamb. a volerli narrare, se si dovessero narrare, opp. facendosi a
narrarli.« Vom prima decaduti ri mirano a ril fortuna che los lo suonano a
ritirata, a raccolta, se non fors'anche a vergognosissima fuga. Segn. Sta ma
nº, anzi che io qui renissi, io trovati con la donna mia ir casa una femmina a
stretto consiglio ». I3 cc.« Chiamare, venire a parlamento.... o. I)av. – (osì
dicesi: Suonare a capitolo dei fra i).« Il santo fra le fu insieme col priore
del luogo, e fallo sonare a ca pitolo, alli irali raunali in quello mostrò Ser
('appellello essere stato un s(1n lo so. E la C.« ('ongiurarsi alla rovina,
alla morte di... ». I3arl. (a conseguire la.. «... e saranno solleciti a quello
che da maggio i sa, i loro coman dalo ». Pand. (a far quello). « I)i
seta, d'oro e d'osli o era coperto E dipinto a bellissime figure Alaiml. Gir.
(con ornamento di...).« Una coltre la corala a certi compassi di perle
grossissime ». I3 cc. (a forma, il maniera di..., col...).« ('ollirare a
campagne di seminali e giardini di delizie ». I3a (a modo..., in tal
malliera....« ('olesti luoi denti falli a bischeri n. 3 cc. (a guisa di... a
simili! Il dine di...).« Volendo ciascuno la propria insegna, e ſu forza
d'allargarsi in più colori, e quel medesimi in dirersi modi formare a doghe, a
sbarre a traverse, a onde, a scacchi, ed in mille altre maniere o. I3orgh. V. «
E quelle recchie loro col fazzoletto sul riso a saltero.... V e contº elle ci
ſan gli occhiacci torti ! ». I3uon Fier. (144.« I pesci nolar redeam per lo
lago a grandissime schiere ». Ioce. la modo di..., – schaaren Weise, Zll...).«
Venite a me ispesso, ma non venite a troppi insieme che forse non sarebbe il
meglio ». Sacch. (145).«... renendo da me, non renile a molti, ma a due o tre
o. I3ocr'. (non molti insieme, ma due o tre per volta).« E come gli parve tempo
cominciò a mettere coperta nºn le ſanli in Faenza a pochi insieme o Vill. (i.a
Il conte vedendo che la Chiesa non gli mandara da mari se non ti slenlo e a
pochi insieme, le melle... ». Vill. (i.« Le gocciole del sudore del sangue di
G. C. che per tullo il suo lº nero corpo a onde discorrevano in terra.... ».
Med. Alb. Cr. (Fºcerſili grande onore regnendogli incontro a processione
con molli armeggiatori o Vill. (i.“ Come da più lelisia pinti e l ralli Alla
liata quei che vanno a rºta, Lºran la voce e l'allegrano gli alli: Cos... ».
Dante, vanno in modo simile a ruota,(0r chi se lui che ruoi sedere a scranna?
». Dante. (sentenziare a lnodo che fa il (iiudice in tribunale.« La licina
prese a vero la parola e incontamente la significò al Re di lºro ucit sito fra
lello » (i Vill, per cosa simile, o conforme al vero). “ Se io parlassi a
lingua d'angelo e a lingua d'uomo, e non avessi col rilà sì la I ei rom e la
campana che si ball e o. (ir. S. Gir. in modo sº. mille a Illello che puo mai
fare un angelo ecc.,li gli amando la nudità serrò la resle di (risto: voi,
vestiti a seta, arcle perduto il reslimento di Cristo - Vit. SS Pad. (146). Vom
scºrre mai se non a suo senno, I ): ille, Conv. 147. v I na
gioranº... bella li a lull e l'alli e... ma sopra ogni altra bizzarra,
spiacevole e ril rosa intanto, che a senno di niuna persona voleva fare al c'll
not cost, nd” (il tri ſul l lut role ra a suo, l 3,.\ (ii resse l?omolo a senno
suo. V una tecon ciò il popolo a Religione e Divinità,. I ): V.lo roglio del I
e di costui che renne lui di, alel mio a mio senno, arri'. gnacchi non l'abbia
merita lo. Pass, come mi pare e piace).... fallo a ress' io a senno del mio
cane figliuolo e non egli del rec chio padre !. l)av.Dorma ri e da cantar
l'usignuolo a suo senno liocc. quanto e col le V Il le.Ma non si arendo con
quei pesci caratlo a suo senno la fame.... ». I I'.... l (t m lo c'h e a senno
vostro io, lo debbo tre le l il 1 le pel contralatte no. (i il b.\ on ne corrò
meno di li cºn l' ollo, come egli me ne prestò e jam mene questo piacere,
perchè io gli misi a suo senno e l'occ. 1 (S). e in somma si pose in cuore di
colei e io e contrario a tutte quelle cose. eh ella si dilella ra quando ella
era rana: e questo lutto a senno e volontà del suo maestro, e con e ci lui
piacesse Cav.... e atmcora pensatrano di domandati lo che modo e che rila t
ressero a tenere, e ancora quello che dovessero fare delle cose corporali, impe
rocchè ogni cosa volerano che fosse a suo senno e a sua volontà ». Cav. i
149). ... tutto quel rimanente di pianura a mare n. 13art. 150). (posta
vicina al mare, che si illiene al mare, e anche piana come il mare. ('a
mm e rut a tetto, (la zzi. I Ncio a strada. I3oe('. ... e se la
collut ne' loro luoghi a mare l ro raramo riso...., allora de lizia ramo ).
I3arl. ... incontra un rento che le si stende a poppa. l?art. I che sollia
e spinge innanzi investendo soavemente la poppa). « Portava a carne
cilicio aspro. Cav. ſrad. a strazio di viva carne “... faceva asprissima
penitenza, portando a carne sacco asprissimo e di sopra un rozzo vestimento o.
Cav. “... negozi che non si fanno tutta ria col notaio a cintola, ma con
fede e lealtà di semplice parola. liocc. (par che dica: col nolajo attaccato O
appeso alla cintola. ma con ballerano pianali, dove i nostri con iscudo a
petto e spada in pugno, sloccheggiarano quelle menº bront o. Dav. «
Messa si prestamente una delle robe del prete con un cappuccio grande a gote,...
si mise a sedere in coro... I ce che arrivava fino alle... o da coprirsi le
gole) a La moglie ne lece piccolo lamento a ciò che ella dovea fare ».
Vill. G. a petto, in confronto di....« Ma io credo a rei rene dello pure assai.
Aſſà sì, a quello che porla il tempo, non a quello che ſulla ria rimarrebbe n.
Ces.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse...... Bocc.
(per rispetto, relativamente a....« Ciò che daranti dello ſtremo, poco è a
quello che dire intendiamo ». I3 cc.« E tanto basti a rer accennato di quelle
che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può all rimenti che
non sia lroppo ». Bart. « Che è questa pena a quello che merita sti? ». I3occ.«
Ma che è a Dio la oll racola la superbia di un rerne? ». Dav. « Dall' età di
Demostene a questa ci corre 400 anni, o poco più, che alla frale vita nostra
possono parere spazio lungo; ma alla natura de' secoli e all' eterno è un
batter di ciglia ». I)av. (15 l.« V ent'anni ! che spazio son dessi all'eterno?
tu se' ma la merce tanlessa se ruoi ch' io li baralli a quello o. l)av. (1 o 2.«
Ma lasciamo andare questa comparazione e simili, le quali sono piccole
all'altre spese, che si fanno soperchie ». Pandolf.« Le cacce, i parchi, le
conigliere, le colombaie, i boschi e i giardini che ri sono già inviati, sono
cose ordinarie, a quelle che si possono fare ». Caro.« Essendo conosciuta così
allera, Che tullo il mondo a sè le pſ rºot vile ». Ariosto. (cioè: tutto il
mondo, paragonato a sè, le parea vile). « Noi abbiam casa d'aranzo, alla
famiglia che siamo ». Cecch. « Domandò quanto egli dimorasse presso a
Parigi: a che gli ill risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo ». Bocc.
(153). Ch'era presso alla città forse a due miglia ». Fioretti « Appresso delle
sue terre a tre giornate ». Sacch. «... io vi era presso a men di dieci braccia
». BOCC. Onde seguì a poco tempo che 'l predetto Irale non resse
all'Ordine e lorn Ossi (al secolo ! ». Vit. SS. Pad. “ Lo l'isloit
rispose, a lui parere gran fatto, ma dovendosi a pochi di lorni (tre redrebbe
chi di loro losse che dicesse il cero ». Sacch. “ Egli è la fantasina,
della quale io ho avuta a queste notti la maggior lºtti l'a che mi ti s'a rºsse
o lºocc. (intorno a queste...., in una o alcune delle scorse notti. (154).Forse
a otto dì alla sua promessa vicini. I3 cc. Fiam. lla nosli a lo desiderio
grandissimo e in certo modo certezza d'ac col lo..., non ostanti le cose delle
a questi giorni in contrario ». Caro. E a questo sci irri e toscano basta la
lezione delli rostri tre primi l'atmlº, l'ºl rarcati e l'occaccio, e di certi
buoni che hanno scritto a questi tempi ». Caro (circa, in lorno a questi
tempi « Il cui dilello a rendo il maestro redulo, disse a suoi parenti
che dove un osso lracido, il quale area nella gamba, non gli si carasse, a
costui si con renica del lullo o tagliare l’ulla la gamba o morire, ed a
trargli l'osso potrebbe guarire ». Boc ricorrendo al mezzo di... appigliandosi
al partito di...). (155).« A grave e crudel morte ti fa i ) morire o, Cav. di
morte cagionata da grave e crudel supplizio).c... in un suo orlo che egli la
cort ra a sue mani, l?occ. A buone lanciate li ribullarano rovescioni giù dalle
scale ». Bart. (a forza di..«... aggrappandosi a mani e piedi su per greppi
inaccessibili ». Bart.... miun alti o di sua grandezza aver avuto due nipoli a
un corpo: recandosi le cose ancor di fortuna a gloria ». Dav. (156).« Vi dico
che 'l cui rallo è mul rilo a latte d'asint... Ed ln l'ennero clº il puledro ſu
noi ricato a latte d'asina ». Nov. ant. 157).« Il Demonio tutto di pugne a
coltello i peccatori, e non gridano, e non s'agitano, e non si difendono, e non
se ne curano: ma lo sto sentiranno il duolo delle fedile, se non se ne medica
no ». Fra Gior (cioè: « punge cacciando mano a coltello ». Gherardini). «
I rrecarci in collo un fascio di legne, e rende alo a pane ed ad altre cose da
mangiare ». Fioretti. (gegen Brod., mediante permuta di...). a che parimente l'
uman sangue, anzi il cristiano, e le dirime cose a danari e renderano e compra
citno o l'80cc.« Qual colpa, qual giudicio, qual destino, Fastidire il vicino
Porero, e le fortune alflitte e sparte Perseguire, e 'n disparte Cercar gente,
e gradire Che sparga il sangue, e venda l'alma a prezzo ». Petrarca, Non
per vendere poi la sua scienza a minuto, come molti fanno o. Bocc.
Schiacciara noci, e rendera i gusci a ritaglio ». I;occ. “ Vicere
all'altrui mercede ». Giamb. (appoggiato, mercè dell'altrui... (158). -º 1
ndando un dì a vela relocissimamente la mare... ». I;occ. (cioè: la nave
commessa a la vela. 159.“ Malacca, tornata peggio che prima su gli sparenti e
su la diffi. denza era tutta a popolo ed a romore, l art. 160,“... e mise il
mare in così sforma la tempesta che quattro di e qual tro molti corsero perduti
a fortuna, senz'altro miglior governo che..., Bart. abbandonati alla fortuna,
in balia della....; 1 - « Non è sì magro cavallo che alla biada non
rigni un tratto ». Fie. renz. (che al Vedere la biada.« Non possiamo a certe
stravaganze tenerci di non le motteggiare. Caro. « E molte volle al fatto il
dir riem menu) p. I)alte. « Se tu non te ne al redessi ad altro, si le ne dei a
rivedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, Bocc.ſt Ma dimmi:
al tempo de dolci sospiri. A che e come concedette Amore Che conoscesſe i
dubbiosi desiri? ». I)ante. al vedere che cosa, facendo attenzione a che cosa.
« Conoscere all'abilo. alla furella, e simili. « La città si reggeva a
consoli o Vill. (i. (con governo di.... (161. « La della città si resse gran
tempo a governo e signoria degli Impe r(Ilori di Roma ». Vill. G.« Se li vorrai
ricordare di qual patria lu sii nato, conoscerai che ella non si regge a
popolo, come ſacera già quella degli Ateniesi, ma è gorer nata da un signore
solo ». Varchi.« ("h e la città allora si reggesse a Consoli o con
l'autorità del suo con siglio o senato, lo dicono chiaramente gli
scrittori nostri » Bargh. Vin. Seguono altri esempi di un'a ad altro
valore che di semplice pre posizione e di usi assai diversi, ed in parte anche
noti. Non ne faccio serie distinte, che sarebbe troppo lungo, ma ne scelgo
alcuni e li di spongo qui alla meglio, l' un dopo l'altro. " " º
"gli º º º ninno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince
». Bocc. la quale sia da darsi a chi ": lº º l'"ºn lºrº in su
un ronzino a vettura venendosene ». Docc. destinato a lirar la vel | I
ra”. “... con le note rele a chi più mi esalli, I; art. tale [llo, ad
hoc: chi pil...). Inler indire a morte o l'iel'eliz. º lº Iºsti a
baldanza del Signore si il batteo rillanamente... ». Bocc con lº e' Illanti da
compiacere all'ardire...).a l?ilo) ma ndo a d'onde mi era poi l'lilo...... Fier
eliz. (al luogo onde). 1 cc (sotti nel castello... vicinissimo a dove ºggi all
blano 13asilea (iia il (al luogo dove.('on atmdò a pena della testa. I3 c. (bel
Todesstrafe). 1 ml e pare essere a campo, tanto cento viene su questo letto »
Sicch. Fr. esposto all'aria del campo.lº a mal rete in sino a Pisa a questi
freddi i... Cecchi, (cioè esposto a | Iesi freddi lo i diesel villeº la donna
rimasti sola, racconciò il larselto da uomo a suo dorso, l30cc. (sì che facesse
pel suo dorso (162).“ Qualunque altro trilla la resse, quantunque il tuo amore
onest., slalo fosse, l'arrebbe egli a sè amata p) i loslo che a te. l oce.
(cioè: l'avrebbe egli ama la destinandola a sè per sposa, piuttosto che cederla
ti le o. (illerardilli.“ Ed il popolo tutto a grandi voci ringraziò ladio. Vi
ss Pad. (163, l'ill d.In abito di peregrini ben forniti a denari e care
gioie... ». Doec. cioè: il lallo, per quello che spella, relativamente.....1
Firenze il luglio e l'agosto si sta male a pesce, perchè si arriva sempre i radicio
e pazzolen le o. I Redi I e II. I 64.l'ol re, in li a prendere q. c. ad
istanza, ad indotta di alcuno o. I3oce. I ): I V. I 3:ll'1. I tesla
finalmente a mostrare come anche l' a copulativo e ad ufficio di semplice
particella prepositiva venisse allora adoperato dagli autori classici il lima i
maniera assai diversa che non si faccia comunemente e volgarmente col
linguaggio di oggidì ed è pur degna di osservazione e di studio. « lo
estimo, ch'egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Do menedio me manda
altrui o. IBocc. (165). c ('he cosa è a ſarellare ed a usar co' sa ri? ».
I3oce. lo dico che è cosa commendevolissima a mangiare e dormire con
sobrieldì m. 13art. Giunto (un cervo) a una stalla di buoi, entrò fra
essi: de' qua'i buoi uno parlò al cerro lali parole: Questa è cosa nuova e
disusata a star con noi ». I sop. Cod. Fars. « Misericordia si è a
perdonare l'olese che sono fatte...., a consigliar chi dubilat, e ammaestrare
chi non sa m. Fior. Virl. A. M. « Mi si arricciano i capelli a ricordarmi
di quella orrenda entrata, e sola vittoria di Gallia o. Dav. (166. «...
ed ultimamente per renne l'anello) alle mani ad uno, il quale area figliuoli
belli e virtuosi, e molto al padre loro obbedienti ». Bocc. « 1 cciò che
a mano di rile uomo la gentil giovane non renisse, si dee credere che quello
che arrenne, Egli Iddio per sua benignità per mettesse ». Bocc. (167. ...
ed egli ricercò di more colmen le La basso che stesse contento a dazi ordinari,
senza metter muore angherie, (iial b. Ma siccome noi reggiano l' appetito
degli uomini a miun termine star contento...». Bocc. (168. «... e len
negli ſarella infino a vendemia. I3occ. (169. « L'ora ju a sospetto; la
cagione presa per colpa: e la procura la quiete le rò rumore ». DaV. « Da
lui le parti si allolla cano allo no a fidanza di sentirlo parlare. Bari.
« Non ti nara rigliar se io le dimesticamente ed a fidanza richiederò I3occ.
(con conſidenza) (170. «.....passalo a Mantova il cerno, il Padre lo tra
millò a Casliglione a speranza che l'aria ma lira e la bella postura del luogo
lo risanatsse di... S. « Non pensando che li mandassero a processione
cerli re rsi con l' gli han manda li p. Caro (17 l. « Era fornito l'
altare a bellissimo disegno e con molto splendore col (tlchè..... » IBarl.
« Gli parlava a capo scoperto ed occhi bassi (es. « Arregnacchè a sua
colpa la naricella sia fracassata e rolla º l'assav. « Il peccato nº ha
quegli che 'l ja, perocchè l la a mala intenzione o I'l'. (iiol (l. « In
due maniere sono perdule l'orazioni dell'uomo: s'egli non le fot a buon cuore;
o s'egli le fa, e non perdona a colui che natº lº ". (i l'. S.
Gir. a 1)unque loi lu ricordanza al Sere! Fo bolo a Dio che mi vien
voglia di darli un sergozzone n. 13, c. e Slot che lo: io li lai di
medico re al mastro 13anco che è molto mi o (1 mlico. Sacch. i 2;.Signor mio,
io son presto a contessori ci il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire
quando e dove io gli tagliai la borsa, ed io vi dirò quello cli e io ci ri ) la
llo, e quel che no. 13 cc. (173.l'ulte queste cose in lesi io gia i ceti a 1 e
a uno ricchissimo padre e lº la miglior rosli o di colo, l'alla loll.l clendo º
l'ucidide l e lui e ad Erodoto le sue storie, s'accese cla (I 'nº' Noi ci
il bi: i ne'. Salvi i li. I 4. e l not figliol lat.... non essendo ci slui ma,
e udendo a molti cristiani.. -- mollo con nºi, la l e lui ci is list not
leale..... l oce. i menduni o alibi due li fece pigliare a tre suoi
servitori ». Bocc. ll fece prende e a' suoi uomini ». Sacch.chiunque per le
circostanti parli passa ra rubar faceva a suoi soldati.. l) co.e appresso. Nè
lece la rare e sl i picciare alle schiave ». Bocc..... Può e deve per sè dei
irare a tutti questi capi infiniti ed efficci - cissimi i corili rli, (al. I 5.a
guisa che la veggiamo a questi palloni Francesi ». Bocc. a quella guisa che far
veggiamo a coloro che per allogar sono, quatrº - clo prendono alcuna cosa. 13o.Mollo
a reali le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n ci - ri e libri
ancora se slalo non fosse, che lo inci ebbe di vedergli torrº' ancora i rapponi
a coloro che lollo gli avevano il porco. Docc. I., ol, ndo la r e nè più nè
meno che s'acesse ceduto fare al maestrº - ct tal, le... l i r.l mal ripo' a
gillossi alla mano di Paolo: la qual cosa (per la un tal e si relendo quei ba)
bat i prende e la mano di Paolo a quella bestia. - - - - alls Nero..... A li
apost. | | 6.Sbigottiti per le pene e per li tra ci tormenti che avea veduti Sos
tº 7 ti, a peccatori li l': il ril Vlli... l'assveggendosi guastati e a quelli
che c'eran d'intorno... ». Boce.... e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho
ceduto straziare (il mai ») I 3, (-.. goira, di qui e beni che li reali gode) e
a questi padri ». Ces: a ! Lasciarsi ingannare ad una rana e slolla speranza ».
Pass. (177). Lasciarsi colgere al piacere all rui. Caro.Lasciarsi colge
all'obbedienza del superiore, Ces. Lasciarsi rincor e' a questa gente,
l?art.Lasciarsi occi pare e vince e alla paura, per forma che... ». C º Ed egli
tutto fuoco lasciandosi tira e al suo usalo ferro e d'alletto. Ed io roglio che
lui gli conosca, acciocchè regga quanto discre º º men le tu li lasci agli
impeti dell'ira trasportare ». 130cc. t « V assene pregalo da suoi a
Chiassi, quiri vede cacciare ad un ca valiere una giovane, ed ucciderla, e
diroiarla da due cani o Doce. (178). « ILa giovane sentendosi toccare a:
- nºani di c li l il, il 1 le ella sor, i l tutte le cose amara..... senti i l
la erº nell'a mm, quanto, se ios se stata in Paradiso ». Bocc. 179). NO
te e Aggiti inte all'Articolo 1. :138) Gli esempi che ti allego,
divisati e ord. nati come meglio seppi, sono in numero Inolti e di Iliolte
forme e baster: illo; ma son ben pochi del resto, anzi pochissimi a quelli che
mi vennero a mano. Non ne ver rei a capo in parecchie centinaia di pagine se
Illſ e prendessi a recitare le proprietà, i privilegi, le perogative, gli usi
iroll eplici di cosi fatta particella, scandagliarne e discuterne le intime
ragioni logiche, erigerne teorie e apprestarne criteri; fallica, del restº, di
n. llli pro e per poco no civa. Ella è assai spesso elemento essenziale di Ip
idiotismo, o maniera di dire leggiadra e propria della lingua italia tra es.
fare a chi piu Iman gia, beve, grida, ecc., e come tali e non in par (Illi
luogo da ragionarne, si come quella che d'Illi si intimo, lodo si lega, o per
cosi dire si ſolide cogli altri elementi, che ad estrarla, appena la riconos i,
e vi si però sell irrle, gustarne ed apprezza; II e la fa, zii, il ll - da sè
sola, Ina nel suo tutto; il che pili convenientemente ſaremo alla terza parte
di questo I)irettorio. I)i più l' a articolata (III en, preti ess: a 1 in
li od altre voci di II, la moltitudine sterminata di maniere avverbiali, nelle
quali quella medesima preposizione a, che talora il lica spartiſamente
disposizione: a uno a uno; a decine a decine ecc.; tal'altra del ta III do,
Iorma: andare a piedi, a cavallo; fare checchessia alla buona, alla carlona; a
poco a poco, a otta a otta; vesti a oro, drappo a fiorami ecc., e signi a 1:1,
ora, quan-- do imitazione: vestire alla francese ecc., e quando fisica e morale
disposi Ziolle: a viso aperto; a occhi chiusi; a malgrado ecc., lIiolti dei
quali nodi, cioè i meno noti e pur degni da inci Ilcarsi, si addiirra:ino,
corredati al solito di buona scelta di esempi, quando ratteremº degli avverbi o
for me avverbiali in particolare, (139). Nota il modo andare a diporto, a
diletto cioè a scopo di diletto ecc. Simile anche l'altro del Passavanti: Guardare
a concupiscenza cioè con appettito di rea concupiscenza. Cosi si dovrebbe
intendere anche il modo (divenuto) Volgaro: andare a spasso, cioè non nel
significato di an dare a passeggio, ma in quello di andare scrivere, leggere
ecc.) al scopo di svago, di diletto, di passo. al 10,. Ti aſiuc.: (ull'allino,
col intelizione che confidando e ricorrendo alla livina il seriº rili: lle
soglia poi la V V ed Incillo e perdono. I 1, l: la traduzione del molo luogo:
maledictus homo qui peccat in spe. Ma Ilia lil, e lº iu vaga e lo I e la Irase
italiana! Vi senti l'anilino 11 i - osl, illo e resi resi li ti so a ore, il
cliale, Vinto dalla pas sic, Ile, Inti Illit do pur spel I li ai li la V Vt di
Irle:lto e perdono continua Iel 1, ne a 1 I test Illlarsi i pc.I? Nota la rase:
eleggere a re, a maestro, a direttore, cioè ad uf I l i, (il... SIII il
ricevere a servitore. l'elilella, che Griseida non I s se l'all 1', ai loro
presi, e per lui el'. ll v pendendo, ricevere mol \ -- a servidore... l 3, l
'Il sl, avere a maestro, a padre, a si giore, l Ne l il roll, il Sesil I
allegri da poi che l'elobo lo a signore, l'av. S. Analoghi anche i modi: avere
ad o more ad orrore:..... ed s, il fr. ta lite nostre sord, de zze, ma n
avrà ad crrore d'esser da noi i co, da 11 Segn.; avere, tenere; a schifo,
a vile; recarsi a vergogna; tenere, avere alcuno a savio, a folle: N Il tr es.
i tu a molto folle e la l... » e c. Sell. l'Isl.: avere a tale: « Mlo - rand i
poverta lolio Ila e l re r1 llezza l'eo, acciocchè noi il do vessli, i a tale
avere. » (ill 111. l.eli.: avere checchessia a misfatto: « A non « minor
misfatto aveano il lei e una pulce che un uomo ». Bart. avere a niente. Anni 1
-1 a i l’aut re che il luno, per lui sia in istato di gran polenza, prenda il
dire di Villa il gelare e arrogantare i miseri e pic averli a niente.» l'isp.
Cod. Fars.| 13, l. a. arti, lata Ilo, di questo e del seguenti esempi,
dipendente lei il l l e V g. In - re: a portare, a dovere, a fare ecc. o in a 1
l di sol: Igli, l,, sia il il logº dell’ull o dell'altro verbo (vd: l'ast di
Illi e ! ll I lil.S: il l V el sl at le porti li o le inonache. 115 C1 e fra
l'era da cori veri e li molli alla volta. E' proprio il zii viel del I cd si
li. Ed an li a due, a tre e si traduce zu zwei, zu drei e.I 6 Simile: Sopra
vestito a bianco come neve, Vlirac. Madd., ed a 1 le l: i rinse notissimi la
vestire a lutto, a bruno: E vedrai mella morte l ' Illi. Il I | 'ltte vestite a
brum le li:lle l'el -, l'etrarca, \ mire - della quale si sedeva il la
limatrona tutta piena di lagrime vestita a bruno., l'i. e z! modo, secondo,
rili e il senno suo. No alo anche lº: li es. I | i le segli no, lui e sto
mollo: la re checchessia a suo senno, a seiºno altrui.. che è bello e proprio
della Lingua italiana.1 - Si!! i:ll": lo misi a suo senno, a senno, a
talento di..., è l'altra a sua posta, a suo avviso, a posta di....... cºli e lo
ss 1 in do per il ri sultº all, pie o altri membri in sua volontà se iroli a
posta d'altri. IPal d lf. Conf. Parte II, Cap. III, Serie 3: Modi avverbiali a
governo di a.)l º Vl: si ro (i valra pare che piu che il modo: a senno piacesse
ta lo 1 l'altro: a senno e volontà.150 l 'a d (Illesti esempi ha alcun che di
comune a tutti, ma non è - "Il pre il nº de into. Si infilo, gli slalo,
che è evidente e di un sapore che lo: si potrebbe dire. (151) Ha ripetuto
la nota frase di Dante:....mill'all ni..., e l'Iti “tºo Sli zio all'eterno, che
un muover di ciglia Al cerchio che più tai di ill e leio è tOrtO ». (152) Nota
il costrutto: barattare a... Con il Premiº Ilari (153). Senza entrare in
discussioni nulili a chi, noi la filos list della lingua, ma la lingua stessa
si vuole (Il racemente imparare, li II lºttº Illi alcuni esempi di un a che si
riferisce allo spazio sia di 1 li luogo e torna press'a poco ai modi: indi, di
li a, in capo a, Icntano, di stante tante ore, tanti metri ecc. Le frasi
dell'uso: oggi a otto; lettera di cambio a sei mesi lida per sei mesi) e
simili, sono modi di un a a quell'ilso e valore º il gli esempi che quivi
arreco.(154) Questo a è somigliantissimo all' a dei precedenti esempi la to
alla forma, non quanto al senso che manifesta Iriente è assai diverso. (155 )
Questi esempi recano una che par significhi col mezzo, mercè di, ricorrendo a
ecc.(156) Nota qui anche la frase: recarsi a gloria. (inf. V b. Recare, Parte
III).(157) Così dicessi: Quadro a olio, ad acquarello e va dicendo. (158) L' a
di questi eseIIIpi ha i rain (li: abbandonato a, appoggiato a, in balia di ecc.(159
) Crinf. sotto Nave IP ultitario) - VIa niere propri della Natiti a (160) Nota
la bella frase: essere una città a popolo ed a rumore, cioè in rivoluzione, in
balia del popolo ecc. – E piaceni (Illi II, il vantº le altre: andare a rumore
Bart, levarsi a rumore, levar popolo Iº i rt., I)av. ecc. ecc.).(161) Mefferai
a sacco anche questa frase: reggersi a re, a consoli, a popolo ecc.(162) Simile
anche l'altro, pure del Boccaccio: La donna li fece a p. prestare panni stati
del marito di lei, poco tempo davanti morto, li ciuali « come vestiti s'ebbe, a
suo dosso fatti parevano ».(163) Dicesi anche, ed è notissimo. a bocca aperta,
a struarcia gola, a braccia tese. « I)al sommo d'una rovina si vede Ina
donn:i..., la quale « avendo il figliuolo in mano, lo geſta ad un suo... che
sta nella strada « in punta di piedi a braccia tese per ricevere il fanciullº o
Vasari. (164) Prima di passare ad altro ti piaccia altresì por In, nto, tra le
altre molte che le son notissimo e non accade occuparsene, alle maniere: essere
a studiare, a giocare, a desinare, a dormire, e nºn ho: trovare, ve dere, stare
a giacere; porsi a sedere e simili; il cui a, si bev, rifl 'fi, e si è quella
semplice preposizione di vincolo o relazioni o come: venire, andare,
cominciare, disporsi a far checchessia, ma necenna attualità di azione ed
implica il senso delle parole: nello stato di, occupato in, attento, inteso,
dato, ridotto e simile. « Io mi credo che le Suore sien l'uffe a dormire ».
Bocc.: « Che Venerdì che viene, voi facci:lto sì che M Iºa olo Trav orsari « e
la moglie e la figliuola o tutte le don; e lor parenti, e il l'e. In A i a
piacerà qui sieno a desinare moco ». Rocc.:. Venuta a dunque a con « fessarsi
la donna allo abate, ed a piè posta glisi a sedere... » Bocc.: « Costoro
avendola veduli'a a sedere e cucire.... o IBC) c.:. Altre stallino « a giacere,
altre stanno ºrie », l)n mtc.; e Sfi:lmo:) Inc it:) veder l:i gli ri:
a Inostra ». Petr.; e Veduti gli alberelli de silli i colori, quale a
giacere e quale sottº sopra, e penneli tutti git at qua e là e le figure tutte
il Illbrattate e gli isl, -: i bit, p lisò... » Sa ll.: Si III osse correndo
verso a la Cl re e trovandola a mungere e 1: i...., (a: « I); pinse un re a (sedere
coll ol'e lli lilli gli lss II e V dl ialli. - l am dei Incrdi: am Studie ren,
am lesen, am spielen sein, e simili di alcune provincie della Ger II l: l Ilia,
e appllini o l'a del c: la lol V e In altri casi l'a di un in finito soggetto a
V el'lno, loli a m - Vlt; tl, i dll re, la zu.165, l 'a di questi esempi st:
l'a rti oli per altra preposizione articolata e sappi ch'elli e V zzo 1, si a n
a preporre talvolta all'infini, o, a maniera di sostantivo e soggetto
comunqil di una proposizione assolu ta o dipendente, la preposizione a live e dell'articolo,
ecc. (166. Trad. lel I l rilarini, e lui 'i gli 1 volta che mi avvenga il
ricorda l'ini, so oft, quoties recordor ecc.167 i Venire alle mani; a mano di
alcuno e anche Iriodo figurato i le significa: venire in potere d'alcuno.16S)
Nota la frase: star contento a qualche cosa. Cont. Contento, l'arte II, Capo
V.).169) Simili i modi andare a città Vo' in fino a città per alcuna « Irli:l
vicelli la o lº si... per Vai l'll lno illo, cle andava « a città, l o in
illera el tº:ca e vale i nda, e per fatti suoi al capoluogo. Di un viaggiº (ore.
ll e la sºsta di ll'i: in altri, iº fa e non dicessi che va a città; andare a
santo;.. ll v. l t. ll li i possº andare a santo, e nè il niun bila il luogo ».
Boc.; andare, recare a marito –.... e questa Il l:nti ! nº ll e lo o ire a
marito, e le festa bis lo fa a è apparecchiaio, Do..:.. lo - a: a re dei di
delle feste che io recai « a marito » l 30..: essere a riva di... e l ', a riva
di Reno dllo est l' e citi » I), v.: menare a prigione l'a e il gºl al de ll
cisiolle di ri e Illiri... che ella si illlllo ne menarono a prigione, ma tutti
li misero al a taglio delle spade ». V ill. G. ecc. ecc.(170) Non lo scambiare
con l'a fidanza del primo gruppo di questo medesimo numero. Lo stesso dicas del
In lo seguente a speranza. i 17 1) I 'a di questi esempi sta evidentemente in
luogo di una delle pre posizioni: con, per, in, da.17?) Coi verbi: fare,
lasciare, vedere, udire e qualche altro simile, che reggono un'azione in
infinito, il sol getto operante di questa, osserva assennatamen e il
Fornaciari, si suole, per distinguerlo nettamolto dal l'oggetto, cºstruire
collo preposizione a, che corrisponde all'accusativo a - gente melle locuzioni
latine con jubeo, sino, video, andio ecc. – Messo to scalmanente si pone il
soggetto colla preposizione da, riguardandolo come semplice causa dell'azione.
Laddove a dire a esprimesi ancora il rispetto, l'ordine di moto, dirò così, a
chicchessia o checchessia hin, her), l'atten zione, il concorso positivo della
volontà, l'azione comunque diretta del soggetto principale verso l'agenl e, o,
come dice il Fornaciari, verso il soggetto operante, cui egli ſa fare, od al
cui ar o dire porge l'orecchio, volge lo sguardo ecc.Ed ora ritorna agli esempi
e sappi s'egli è indifferente e affare di garbo soltanto, con lo molti
asseriscono, e tra gli altri lo stesso IP. Cesari, il porre in sifatte
locuzioni l'a per da o viceversa. Trattandosi poi di
cosa dicevolissima se pur non necessaria ed opportuna all'interezza
e verità del discorso e tuttavia dai moderni niente osservata, parvelli di
allegarle un buon numero, e ciò all'effetto di toglierne il mal vezzo se Inai
bi sognasse di riformarne il gusto.(173) Ognuno sa che il fare dei modi: far
portare, far lavorare, far medicare ecc. equivale ad ordin: re, coma Ildare che
si porti e, altro di somigliante. Ora vuoi vedere se quell'a lla sua forza e il
n vuºl essere scambiato col da: costruisci ((il comandare, e il 1:1 l 'lie
chessia: chicchessia, sarà nè piu nè meno di colmal, dare a chicchessia 'io di
reatamente) che ei faccia ecce. quando il far fare che chi sia da l 1 es sia è
comandare che si faccia da chi li essia e -- la fa ! (sia cioè che il comando
venga da lui li et la III elte o - li sta r il till iſlie trasmesso).; 174) Se
avesse detto: udendo da.... sal ebbe stata, l'horen 1 e O ll ricevere materiale
involſrl)ti l'io, e aslla le cºlle a l' lel st sia che lo si ascolti, sia che
llo, con l at Inzi - nzi; Il lil I l e i leti, udendo a, volle precisamente
significare l'an. zuhoren, l star o ce clio, tender l'11 di o, l'udire (oli
attenzione e concorso li vol ! 11a. 175) Cioè: dee fare che da 11, l I questi
capi si derivi Quel deri vare è qui adoperato a forma di verbo callsativo e
sigla I a far deriva re (conf. parte II. Natura ed essere val o di alcuni verbi
e(176) Tra (luci: volge:ldo la vista, gli ardi li do a Illella ln l lin, la ti:
i le prendeva la mano di Paolo.177) Sostituisci l'al fine permettere e saprai
li ferenza da a. (178) Questo esempio ci porge ma era di altre osservazio i cle
non fanno qui. Conf. Natura ed essere vario di alcuni verbi ci l'arte II. (179)
Il Gherardini spiega cosi: La giovane sentendosi ti recare venuta o pervenuta
alle madri di colui occ.; pare al Gherardini di sentire il quell' alle mani, la
voglia altresi che aveva di pervenire a...180) Nota differenza tra la frase:
sentir dello scemo e l'altra: sentir di scemo in checchessia, cioè aver
difetto, ecc. Conſ. Verbo Sentire, l': i e III).181) Nota la questa frase far
del...., simile alla precede le sentire, ave re del...), che è Imaniera bellissima
e nostro.º 182) E altrove: « Come state dello stomaco? » cioè per rispetto in
fatto di...., in quanto a... Cilf (cong.) Prima di farmi
all'oggetto da trattarsi, piaceni premettere cosa la quale non li verrà si
strana e Irivola che non ſi sia anche il lile e a grado altresì d'averla
udita. “ (lº è prontone, dice il vocabolario, ma è anche congiunzione
di frequentissimo uso dipendente di verbo, da avverlio, e da comparativi;
º coll'accento sta per poiché, perchè - l' “osi la pensano granai e
filºlogi che l'urolio e che sono, nè sa prei º solº cui cadesse in animo
di contraddirvi. l' olga il cielo ch'io ººº º lilli di tenerla a leva, ma a
censore di sì tillo, autorevole magistero º il falli, che in omaggio a al do
Irina pongo qui il chº, S! " ºn liti il tonº, o il la sa cli, il ragionato
estè. Ma se li pur in mia i a V, e - - irº che questo che di frequentis
sillo liso. I pendente ci v. l - Si p. ssa:ili le intendere o sentire
tuttavia pronone, cioè lº chº, nè più nè meno, del precendente numero A lizi,
diro 'll 'i'i, lº sll sl tit, ti ma il rale di semplificare e vedere il lill lo
tiri I l ss,, - i gºl.... l III di strano ch'io abbio di concepire, io
non so e A cdr e sentire nella voce che, adope, sola o al I e di altra
voce, Se non il pl o non e' e non altro mai che il promonte, | Il lido in una,
quando in altra forma. l' essi i S \ ºpi ilarli poi di questa ini
era l' intendere e sentire, ti Pºi lui appressº i monti e pon i no e
l'intrinseco valore Virli sillclica di Irla i - l\ ini: gli orsi, chi ben
la consi deri, in altre voci pron nera' i ritmi le gi annuali ali:l'irroli
cinque differenti manici e di un colal che cong. | i l. I l a sla al riti
il che vo non, sale. I3 cc. 2a Mio fratello è pil dello che pio. :3a...
che vºli che li cosi rilla la ventilra che non è persona, Boc. ſa « Non era
ancora arriva lo che io e gi i partito.. ;)a lº si pensava che ingannando
i l i crilin fosse appresso al tutto signore n. Vill. (i. Questi
esempi reali, il che dei casi nellovati dal Vocabolario, e che ippo i Cirali ma
ci addini in asi rigorosamente congiunzione. Ma se ci testo che la fa il resì,
e li si sv: r al guisa, da pronome (v. numero precedente, e il qui il lice
cilalo che comporta decomposizione in una ad altra gilisa dello stessº i rom
ne, chi ini viola di riguardarlo, senza inello con le pronoln e sen| Irlie al
suolo i rispellivi elementi? Il che del primo esempio lesla in me il senso dei
modi: di quello che, di quella cosa la quale. Quel del secondo vale, a mio
intendere, quanto le voci: di ciò di questa cosa il verbo del secondo incis,
virtù di elissi, omesso. ll Ierzo lo riconosci agevolmente quale il che del
numero precedente, solo che nell'avverbio così ſi intenda l'equivalente: in tal
modo. Anche il quarlo lo ravvisi evidentemente pronome framellendovi la voce
allora che va lui forse sol ſintesa, ed i cro che la frase torna subito
all'altra: in quell'ora, in quel tempo nel quale ecc. Più malagevole a
concepirsi pronomi pare, a prima giunta, il che del quinto caso, nè mi basterebbe
l'animo di asserirne la possibilità se testimonianze ai lorevolissime non li vi
confortassero. Come infatti ri guardarlo questo, stesso che quale pari ella ad
ollicio di pura e semplice congiunzione e punto capace di virtù
pronominale, se non vi è paro' a cui congiungersi, non un congiuntivo od
indicativo che sia comunque obbligato al che, ma un indefinito? Eppure ant'è.
Proprio il verbo del citato esempio, ch'io voltai al congiuntivo, il Villani e
lo mette all'inde finito, ed eccolo nella sua originale integrità: « E si
pensava che, in “ gannando i Fiorentini, e venendo della città al suo
intendimento, es. sere appresso, al tutto Signore ».l'erchè parini da
ragionarla così: Se quello stesso che, cui noi avremº Ilio obbligalo un
congiuntivo od indicativo, sì come nodo, il ppoggio tramezzo di questo ed altro
verbo, appio i classici rinviensi Ialora susse. guito dall' indefinito, che a
nostro modo di intendere mol palirebbe a - solutamente, egli è pur gioco forza
che quegli antichi, usando egualmente ol l'uno ol' l'altro modo, avessero di un
colal che alla apprensione, allro senso che di semplice appoggio di tramezzo
che si voglia.l) e molti esempi che, oltre l'allegato, mi vennero qua e la
scontrati le tre poligo (Illi alcuni pochi. l eggili allentarne le e di rini se
io mi li In apponga.« Manifesta cosa è che, come le cose temporali sono
transitorio nortali, così in sè e fuor di sè essere piene di noia. I3 cc.
\ - giamo che poichè i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato, solo il
giogo ristrelli, quegli essere dal giogo alle viali, I3oce. -– a Si ve dova
della sua speranza privare, nella quale portava che, se I lor « misda non
la prendeva, ſeriamente doverla avere egli n. Bocc. i E parendo loro che quanto
più si stellava, venire il maggior indegna « zione dei Fiorentini.... ». Vill.
– (Proposto s'avea al lutto nell'animo che, se necessario caso l'avesse
rilenillo, di rinunciare l'Iſlicio... Vill. – « Seco deliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo o Bocc. -– « Pirro per partito aveva preso
che, se ella a lui ritornasse, ci fare altra risposta n. Bocc. – «.... la
precedente novella ini lira a « dover simili nelle ragionare d'Il geloso,
estimando che ciò che si a fa loro dalle lor donne, e massimamente quando senza
cagione inge «losiscono, esser bel ſalto m. I3 cc. – ecc. ecc. ecc.
Costruzione stranissima, e al nostro orecchio per poco errata, quali lo a
colesto che ogni altro flicio si disdica che di semplice congiunzione, I
'allo invece pronorme, recalo - con inque si opponga il rigido gramina - tico –
a valore di ciò, o questa cosa, e la sintassi è chiarissima, logico il
nesso, e l'orecchio pienamente soddisfatto. E quanti altri luoghi piani ci
vengono ed evidenti mercè di sì fa II: interpretazione, senza la quale stranissimi
li credi ed anche errali. Ti basti, per ogni altro, il seguente del Boccaccio:
« E lui come po a rai mostrare questo che ſi affermi? Disse lo Scalza: Che il
mostrerò « per sì fatta ragione, che non che lui, ma costui che il niega dirà
che i « dica il vero ». – E che ha mai qui a fare quel che se noi vale questo,
questa cosa?Ella è pur cosa degna di osservazione che altre lingue ancora a dir
perano ad officio o valor di congiunzione quella stessa voce che è all'esi
pronome, e pronome non pur relativo, ma anche dimostrativo, cioè: oi tos. quod,
que, dass (anticamente anche das si scriveva dass, lh tl ecc. ecc. Talchè io mi
figuro che quegli antichi della prima scuola, dicendo, a cagion
d'esempio: comandò ch'ei studiasse – er befahl, dass er sl il dieren sollte. –
ecc., volessero dire, oppur suonasse loro quanto: collan lº questa cosa
(dasº: studiasse »: ed anche nei medi composti di che ed altra voce –
ll'eposizione od altri i - intendessero tuttavia e vi sentissero non
altro le il proliome, orti relativo, ora dimostrativo. 239. Neh! lo ripeto, è
una mia opinione e resti lì.lº riprendendo ora il filo del nostro assunto, dico
che il che cong.; ha virtù dirò così concentrativa e Irovasi nei libri
mastri di nostra lingua assai solvente. - I di comparazione e recante
senso di: di quello che - l. il significa di affinchè, sinchè, prima che, senza
che, Ne m on, jlto i cºllº e sillili.. llpl calo a lil:inlera e valore
dell'avverbio di tempo: quando.... quando, alcuna rolla... alcuna rolla,
di quando in quando ch'è, ch'è ed anche parle.... ma le. Il che, per
dacchè 210, poichè, posciacchè, perchè 241 poi che (242) è notissimo e
comunissimo, nè porla il pregio di ragionarne. \ iuno dice a trovarsi, il
quale meglio nè più acconciamente ser risse al limit la rolul dl mi m signor e,
che se i ri rut ella, l?occ lo non coglio che lui ne I l a rl pii la
coscienza che ne bisogni o. I 3 (' '. \ orella non quali i meno di
pericoli in sè contenente che la mar l a lui li I tu roll (t ). I 3 cc. ...
che io non so il no ben mesce e ch'io set ppia informare ». Bocc. lº migliori
ol) e le dando che li sali non e' di no..... lSocc. \ on le doti più dolore che
la si abbia. l occ. (n si era la cosa cºn il lut ut lanto che non illi in
en li si curatra degli uomini che morire no che ora si cui e're bbe di capre l
occ. \ on li molea renir molto più ni di doll in, nè di speranza, nè
d'autorità, nè di gloria, che di già s'a rºsse acquista lo. Caro. « I
fallo i sono poco solleciti, e prima cercano l'utile loro che del padrone. Pandolf.
che quello del..... a I)arano rista di non tener più con lo di lui, che
si facessero cogli allri ». Ces. ... io ri a cillà e poi lo queste cose a
Se) lontcorri, che m' (tilli di non so che mi ha ſallo richiedere. I3 cc.
allinchè mi aiuti a questo ggello ch'è..... (i uan da ra d'intorno dove
porre si potesse che uddosso non gli mc rigasse ». Bocc. «... gli
menarono innanzi una sua nipol e ch c'ra rimasta, di sºlli' anni, ch are rai
nomi e Maria, e lasciatron gliela che egli la gol'ºrnd Ssº Comº gli paresse.
Cav. a... recatasi per mano la slanga dell'uscio non restò di ballºrni
che per isl racco la slanga le calde di mano o l'ierenz. (243). ...
precetto che non parlisse che non me lo pagasse ». Caro. «... juggì via e
non riposò mai che egli ebbe ritrovato Riondello Bocc. ((...
nè mai ristette ch'ella ebbe tutto acconcio ed ordinato p). ROCC. - non si
ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Fede l g0 l'emisse ».
Bocc. ... si pensò di dovere per quello pertugio i tante volte gualare che
ella redrebbe il giorane in atto di polergli parlare ». Docc. - “ Ma
fermamente lui non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì delle opere
lue, che mai di niun uomo farai beife, che di me non ti ricordi ». Doce.
244;. º sempre gli (al rilano mancherà qualche cosa mai ſi farellerà che
non ti rechi spesa. I'and. ((... “ Von posso passare per la strada
che non mi regga additare o I;oce. “... e l 'nsò non potere alcuna di queste li
e, più l' ma che l'altra lodarº, che il Saladino non a resse la sua intenzione
». Bocc.« Mai la sera non rimetterete a riposare che prima non abbiate fatto
ſes(tmº della coscienza n. [3art.Giarda le adunque quelle grelole che sono
sotto l'abbeveratoio della rostra gabbia, che per la molla acqua che ci si
versa sopra sono im fradiciale in modo che voi non ri da rete su due roll e col
becco che voi le spezzerete e farete una buca sì grande che re ne potrete
andare a vostro bell'agio ». Fierenz.«... non canterà stanotte il gallo due
volte, che lui ben tre alla fila arrai negato di conoscermi ed esser de' miei
o. (es. 2..« E questo è il riro della fortezza al tutto inespugnabile ad ogni
altra forza che d'assedio e di fame o filorchè, se non. I art. « I)onolle
che in gioie e che in ratsella nºn li d' o o e al di rien lo e che in danari,
quello che ralse meglio d'altre decimila dobbre o. I3oce. « Questo regnò
anni trentaselle, che re dei lomani, e che impera loro n. I)a V. « I'(Il
li ch' è ch' è Ne m (t lo) l'i n. l): I V. « Fu ascolto con giubilo
unirersale e m' ebbe in ricompensat, che in danari e che in roba, un ricco
presente ). I3art. NOte all'articolo 11, 239) Alle
congiunzioni perchè, sicchè, fuorchè, affinchè, che se, poi chè, dopo che ecc.
rispollidono le le lesclle lielle quali il che rendesi tra - dotto ora vo () was
ed ora da 0 den – coll1 razioni (riduzioni di was e das, e sono: warum, darum,
so dass, ausserdem, damit wofern, nach dem. ecc., 240). Dalla prima volta in
poi che io risposi alla vostra non vi ho pIù Scrillo ». Calo.. Essendo limiti i
due anni che Luigi era entrato « lella compagnia ». Ces.241 Nè solo per l'enim,
etenim, mam, ma anche per l'eo quod, e cur; « Vlla prima giunta mi fece un
cappello che io non l'avessi aspettato ». Caro.Disse: Beatrice, l da di l)io
vero Chè non soccorri quei, che ti amò alto Che Ilsi io per te della V
o!gare s ll el l ' » - I), i lite. 242). Nota per o costruzione fuori della
quale il che per poichè, dopo chè lì lì la lr 1:1 i lu go: tuttº si disarmo e
cenato che egli ebbe se ne e andò a ripos lire ». Fier. - è poi che egli ebbe
cenato - e... ci condurrà alla stanza della serpe, dove condotto che sarà, io
ti prometto ch'egli lloli ne sentirà prima l'od re, i lle da naturale istinto
forzato, e le torrà la vita ». Fierenzuola. Ci si dl lano e compito ch'io ebbi;
e gua rito ch'io fui; e letto ch'egli ebbe: e discesi cine noi fummo ecc. ecc.
243 Vlla pari e I V rti. S è par li di tl: la costruzione nolì guari dis simile
a quella di questo e dei tre seguenti esempi; potendo differire l'una
dall'altra solo in ciò: che, ve in quella la V ore prima è espressa, in que sta
può essere soltintesa. Ma sia che quest, che si trovi ad ufficio di finchè, sia
che si senta nel periodo l' omissione della voce prima, è sem pre vero che a
questo che si attiene alcunchè di sentito e non espresso. 21 ). Il primo che
vale: finchè, prima che; il second: senza che, Nota anche i tre seglie, nei
quali il che ha evidentemente senso di senza che,2 (5). Fallo futuro presente
il verbo reſto da' che e il costrutto è unum et idem che il pre edeinte del F.
e enzuola. (illarda l' erenz: e non vi da rete su due volte col be, che voi le
spezzeret (n Ces N ºn canterà sta notte il gallo dlle volte che lui ben 1 l'e
negllera 1 dl conosce l'Illi. CHI In questo e nel segui le n il
loro li porgo una maniera di dire, che il lis; Izzo grammi, i lico (listi prova
add ril lilla e se lendola se ne slrignº gli vien del concio e si con loro e,
per il la col l?arloli, più che non fanno i cedri troll (Iula ndo sentono il
tutor, Vla 1, il s o di lui. Chi -a all'epos lo e sente il..., e la virtù che
viene alla frase per l'elissi di alcune parti del dl scorso ci si allengono a
certe voci ecc., non che intenderla questa In Iniera per l la ed in quel pregio
che un vezzo assai grazioso Il ll garbo sl l'.E sappi alunque che anche la
particella chi la quale bene adoperata, dice il Puoti, dà molta grazia al
discorso – simile alla poch'anzi ragionata che, ha lal virtù sulla penna a
valorosi nostri classici, ch. dice altro e più che non dica il letteral suono
della voce. Tien luogo quando dei casi obliqui a vario rispetto, cioè senza il
segnacaso di, a, da, per, con, che, e quando di chiunque, chicchessia, ed anche
di se chicchessia, se all ri muti ecc.Mlal però si potrebbe stabilire quando il
segnacaso e quando altra roce sia da sottintendersi, che le più volte l'una e
l'altra spiegazione egualmente 1a. « I biloni cosl III li, scrive l'Alamanni,
mal si ponno il 11 a parare chi troppo invecchia, ciò è a dire, soggiunge certo
lale, da chi troppo invecchia. E son con lui. Ma chi mi vieta d'intenderla
anche così: se altri, se l'uomo, o quando l'uomo l roppo invecchia, o in allra
sì fatta guisa? « Ma qualunque spiegazione piaccia, l'asta andar d' cordo su
questo che il chi (son parole del Fornaciari per proprietà º i « lingua si usa
spesso ed eleganlelneri le cosi in certi modo assoluto. « Di rado avverrà di
potere le proprietà delle lingue in I lilli i luoghi « spiegare a puntino nel
modo stesso ».Sentilo questo chi e gustalo negli esempi del Trecento ed anche
del simpatico nostro Manzoni. o «... la casa mia non è troppo grande, e
perciò essº non ci si por trebbe, salvo chi non volesse star a modo di mulolo,
senso la r moll o zitto alcuno ». I30(C.« Molto da dolersene è e da
piangerne... chi ha punto di sentimento, o di conoscimento, o zelo delle anime
o. Passa V.«... e con tutto ciò non si potevano difendere da lui, chi in lui si
scontrava solo: e per paura di questo lupo e cºn nºi o ſi lan lo che nºs suno
era ardilo d'uscir fuori della terra n. Fiorelli.« E non è da farsene
maraviglia, chi pensasse lo sterminato bene ch'elleno portavano alla persona
sua. Cav.Sì come veder si può chi ben riguarda... ». Dante (CoirV.. « Quinci si
van, chi vuol andar per pace ». Danle. potransi far più forti piantamenti, chi
vorrà...». Cresc. « Sì come la candela luce, chi ben la cela ». I3 l'un. « Come
pienamente si legge per Lucano Poeta, chi le storie 'orri cercare ». G. Vill.«
Sì come per lo dello suo trallalo si può reale e', e intendo re, chi º di
sottile intelletto ». G. Vill.« Furonri sventuratamente sconfitti, e così
arrien e chi è in rºllº di fortuna ». G. Vill.« Da volar sopra 'I Ciel gli area
dal'ali Per le cose mortali, lº son scala al Fattor, chi ben le slima ». Pelr.
(per chi, a chi, se allli mai « Invoco lei (la SS. Vergine, che ben sempre
rispose Chi la chitml ) con ſede ». Petr.« I quali trionfando degli animi dei
pazzi cittadini, la misera città variamente lacerarono, con acerba ricordazione
di quelli inlºlici secoli liſt con non minor gioia, chi queste cose andrà
considerando, della tran (I lillità dei presenti ». Scipione Ammir. Stor ſior.
- Le quali lui le cose sono esempi rarissimi di gran povertà, umiltà cd (in
negamento di sè medesimo, chi pensa che talora per mantenere una di Iºsle loro
ragioni, sogliono i mondani nellere a sbaraglio ogni aver loro, e la loro anche
la vita un duello... Ces.º V ºcchi che, perdule le zanne, parcram sempre
pronti, chi nulla nulla gli dissasse, a digi ignar le gengive.....; o,
Manzoni.('osì il lurore contro costui il ricario, che si sarebbe scatenato
peggio, chi l'avesse preso con le brusche e non gli avesse voluto conce der
nulla, o a con quella promessa di soddisfazione, con quell' osso in bocca
s'acque la ra un poco e... ». Manz. ARTICOLO 20 Sf (C0mg.)
Anche la particella se vuoi qual congiunzione sospensiva e condizio nale, vuoi
qual desideraliva, è appo i classici una di quelle voci previ legiale sotto
cºlli ripari in parole, ossia aggiunti, laciuli talora o non
completamente espressi. Il che avviene di un se. – a. recante senso:ì così, e
in certa forma di gi Iran lenlo, volo e simili: lo esprimente ricerca, indagini
ecc. soppresso e si linteso il verbo che lo precede: per ve: dei e, per
sentire, osservare e va dicendo. Non misteri della lingua al dunque, non
licenze degli scrittori come sano sentenziare alcuni (i rammatici dall'orecchio
volgare e guasto, (246) | ma virtù e proprietà delle particelle, onde cioè la
ragione intrinseca di cerle contrazioni e maniere si relle e vigorose, le quali
sien pur strane e niente intese a pochi sperli, ma a chi sa di lingua, non
altro sono, all'incontro, che vezzi e gioie. l;oce. Così l dio mi dea
bene, con l'egli è vero, ch'io mi veniva...). Se Dio mi aiuti, io non l'utri ei
mai credulo o. I 30cc'.a se m'aiuti Iddio, tu se' pore o, ma egli sarebbe mercè
che tu fossi | Se Dio mi dea bene, che io mi i re mira a slitr con le co
un pezzo. molto più o. l occ. a se Dio mi salvi, di così alle ſemine non
si vorrebbe aver miseri cordia ). I 3 cc'. « I), h, se Iddio ti dea buona
ventura, diccelo come tu la guada gnasti ». Bocc. « Subilamente
corsi a cercarmi il lato se niente r'avessi ». (per sentire se). Bocc.«... l'un
degli asini, che grandissima se le arera, tratto il capo del capestro, era
uscito della stalla ed ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua
». Bocc.«... s'egli è pur così, ruolsi realer ria, se noi sappiamo di riaverlo
» Bocc.« Cercando d'intorno se niente d'acqua trovassero ». V. SS. PIP. «...
brancolando con le mani, se a cosa nessuna si potesse appi gliare ». (per
vedere, per sentire se..... Cav.« Corse per tutta la città se per centura la
polesse trovare ». Cav. « Lesse come Libona area lallo gillar l'arte, se egli
avrebbe mai tanti danari clie..., e colali scempiaggini e canità da increscere
buona mente di lui ». (per sapere, scoprire se...). DaV.« Venite qua, guardate
bene... Toccale i polsi se han molo tasta º il cuore se palpita ». (per
sentire...). Segn. (247). NOte all'articolo 20 (246). Uno di
questi cotali poi ch'ebbe ragionato della sinchisi, con fusione di costruzione
nel periodo e dell'anacoluthon, che è quando, lice egli, si pone qualche cosa
in aria, e senza filo di costruzione, e intendeva appunto di parlare degli
esempi di questo numero, del precedente e di al tri che ragioneremo, riprende
fiato e soggiunge: a l)i queste figure non « mancano esempi e nei latini e le
lorstri allt l'i, ma non si vogliallo a imitare, essendo anzi errori che mo.
Sono | Igure, scrisse il valent'll In « inventate per iscusare i falli, nei
quali sono talvolta incorsi per una la « fiacchezza anche i più celebri autori
». –- Cavalca, Boccaccio, Dante, l'e trarca ecc. ecc. ecc., che duraste gli
alli e i decellºni in escogitare e ci Ill porre gl'immortali nostri libri, e vi
si udiaste di l: rlo più chiaramente e leggiadramente che per voi si potesse, solleci'i,
sopra tutto, di dare alla vaga, tersa precisa vostra lingua un tornio ed una
forma facile ad un tempo, decorosa ed elegante, siatene pur grati agli acliti a
sservatori della posterità che a guardarne noi poco sperti vostri lettori
scopersero ne vorstri componimenti i solecisilli, le magagne, gli scerpelloni
nei quali voi pure, e quel che più monta, tutti ad un modo, con tutto lo studio
e saper vostra, portatevelo pur in pace, talvolta incorreste!.... (247)
Alcune volte l'omissione di per vedere, per sapere e simili la luogo molto
leggiadramente anche senza la soggiuntiva se. « Ed è lecito º il nrola
d'usare queste sorte negli olſi i temporali a cui prima tocchi « la volta: come
si fa degli ufficiali della città... ». Pass. cioè per sapere, per stabilire
ecc.) ARTICOLO 24 VENIRE l)el Vario uso e valore così del
verbo venire come di molti altri se n parlerà alla distesa nella III."
Parle di questo Direttorio. Quello che ora piacermi merilovare è una
certa forma di dire, bella, brevissima ed evidente in cui il verbo reni e non è
quell'ausiliare comu I missili o con le guidasi e lorº la passivº in qualsiasi
verbo transitivo-attivo, e che tien luogo dell'ausilia e essere, ma è al arnese
mercò cui l'azione transiliva-alliva volge ad altro rispello, prende un ordine,
dirò così, in verso e ci fa l'effetto di cosa che dall'oggetto soppravvenga al
soggetto o di azione emessa indipendente nelle dal concorso di mente e volontà
del soggetto, sì che il sol parli ipio aiutato dal verbo venire semplifica e t
duce ad una parola le voci: a crenire ad alcuno lo lui la mente, impensatla
mente che.... (286i. Intendila questa bella maniera nei pochi esempi che
ti allego. E' tutta italiana e classica, nè so di altra lingua che ne appresti
un'altret tale. Solo coi verbi così del li dei netti dei l alini, parmi di
sentire alcun che di somigliante. Ma lasciamo ora questa cosa, che troppo vi
sarebbe che dire, ed anche a ragionarlo e discuterne poco o nulla rimonterebbe;
e passiamo subito agli esempi. «... e venutogli guardato là dove questo
Messer sedea e... il renne considerando ». I3occ. e essendo avvenuto ch'egli
vide.... « A queste la rete che coi diciale bene e pienamente i desideri ro
stri: e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro: e come delli li
arrete elle si parliranno o l'occ. (che per mala ventura non tv venisse di
nominare).a Credetlimi, quando presi la penna, dovervi scrivere una convene
role lettera: ed egli mi venne scritto presso che un libro ». Bocc. (ma trovo
all'incontro di avervi scrillo.«... spacciatamente si levò e, come il meglio
seppe, si restì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo
portano, le venner tolte le brache (li.... m. 130cc.« La prima cosa che venne
lor presa per cercare lu la bisaccia ». Bocc. «... le quali i
bisaccie, son si somiglianti l'una all'altra che spesse volte mi vien presa
l'una per l'altra ». Bocc.« Fornito il suo ragiona e disse a Simone: melliti
più dentro mare, e gilla le reti a vedere se nulla ti venisse pigliato ». Ces.«
V atti al mare, gilla l'anno, ti verrà pigliato un pesce sbarragli la bocca e
ci troverai lal monela che raglia il tributo per due o. Ces. «... così andando
si venne scontrato in quei due suoi compagni ». I30 c.a... facendovi qua e là
nola, quelle bellezze nelle quali ci venisse scontrato ). ((S.« Perchè io
entrando in ragionamento con lui delle cose di que paesi, per arrentura mi
venne ricordato Lelio. Filoc.Fu un giorno al suo Padre lui lo ama ricalo d' un
grave sospetto: cioè che cercando la propria coscienza con ogni possibile
diligenza, non gli veniva trovato mai nulla che a suo parere, arrivasse a
peccato re miale... gianni mai avvertiva ch'egli sapesse miai trovare.... Ces.«...
gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla conti
apposta parte scom)illa dal li a ricello, con lui insieme se n'andò quindi
giuso ». (avvenne ch'egli perse per ventura il piè....). Bocc. «... venne
questa cosa sentita al Fontarrigo ». Bocc.« I ll imamente essendo ciascun
sollecito venne al giovane veduta una ria da potere alla sua donna
occultissimamente andare ». Bocc. a Mira lavoro di tribulazioni e d'affanni che
ti dee venir adoperato nell'anima...». Bart, che ti avverà di dovere anche a
tuo malgrado ado perare..... (287). NOte all'articolo 24 (286).
IRecasi, la mercè di un sil fatto costruito, ogni verbo a quella cotal
proprietà che è sol privilegio di alcuni, i quali senza mutarne altri menti la
voce si trasformiano d'uno in altro es - ºre; e dresi p. es. perdere alcuno
irreparabilmente fare che altri rovilli, spari-ra) e perdere, altre si,
checchessia (cioè rimanerne privo, sì che il primo d ce azione diretta, il
secondo quella che non dal sºggetto all'oggettº, ma oggettivamente in relazione
al soggetto intervielle Conf. Natura e essere di alcuni verbi et. IParte
II.). (287)Che tu dei adoperare -offrire) non solo è inen bello e
languido, Intl am(:lle inesatto e lìoll V (l'O). N. ll Vi -(ºlti l'idea della
le cessità dell'atto, indipendentemente dal concorso della volontà.: Tra. Dizioni
e forme notevoli e il cui retto uso adopera anche alla vita e all'assetto
C0Struttivo Le cose che abbiamo vedute ſin qui sono senza dubbio gran
parte di quello oride il costruirre classico è altro dal volgare e moderno. Ma
non si starà contento a questo solo, chi desidera istruirsi davvero ed è
veramente vago di riformare il suo dire e conformarlo a quello dei clas sici,
recarlo cioè a quel candor di coricelli, Vigor di espressioni e tornio di
periodo che è sol proprietà della lingua degli antichi. E però, prima di
passare alla Parte il I., la quale somministra ordi natamente il correlazi. I1
e coesione con certi verbi e voci previlegiate un copiosissimo corredo di
lingua, e le dizioni più elette dell'italico idioma piaceni mentovare
collettivamente alcuni altri capi nei quali il moderno non sempre s'accorda
coll'antico º dai quali la costruzione italiana prende talora sapore e
leggiadria. Natura ecl essere vario «li alcu 11 n i vo rl,i, suscettibili
cioè di vario foggiare riflessivo o irriflessivo, coll'affisso o scenza, e
capaci di Cloppia ragioi i ce li agire O Cli valore a cloppio orcli 1 ne cº
rispetto, tra 1 1sitivo e il n transitivo, attivo e I neutro. Intendo qui
di offrirli, o mio le! I re, partite serie di esempi che i mostrino quasi in
azione corle proprietà e passioni di alcuni verbi, negli accompagnamenti che
prendono, nei casi che reggono e Irelle lalicelle che in cellano o rigellano
13arloli, e come essi prendano or un essere ed or un allro, e diventino quel
che vuol siano chi gli ado pera, puri alliri o puri neutri, o neutri passivi o
assoluti. Ho detto negli accompagnamenti che prendono, avuto cioè riguardo al
vario ordine dell'azione, non al vario messo o rispello in che sta ogni verbo,
e in ogni lingua, col suo corredo; chè non si vogliono qui riprodurre tutte
quelle inſi nite categorie, classi, divisioni e suddivisioni che fecero e fanno
tuttavia grammatici e linguisti: il lime, del resto, e in Filosofia utilissime,
ma non mai a far di leggiadria, sapore ed eleganza. Di que verbi poi, il cui
governo, sulla penna e lingua a classici, relativamente al loro oggetti,
dipendenza e corredo si discosta come chessia, o è altro che il volgare e
comune d'oggidì, ed anche dell'uso e valore vario di molti altri verbi, si dirà
alla dislesa nella Parte III., ove, lra l'altre cose, si ragiona in proprio
delle convenienze grammaticali e concordanze reciproche.NEUTR [ ASSOLUTI, CIO È
VERBI coMUNQUE RECIPROCI o RIFLESSIVI – NEUTRI PASSIVI, ATTI V I PIt() NOMINA
LI () TRANSITIVI PASSIVI – A IDOPERATI ASS() LUTAMENTE Sono alcuni verbi
che nelle menti e sulle penne de Imigliori nostri scrittori si trasformano
assai voli e dallo esser loro comune e volgare e tornano di attivi prol li il
trali, o trailsitivi passivi, neutri assoluti, liberi da ogni affisso o
particella. Piaceni fornirtene un elet o saggio: per lui del rest o, anzi
pochissimi al gran numero che potrei allegare. Studiali, intendili e senti il
garbo, il sapore, la forza che viene alla frase dall'uso dicevole e giusto di
una tal malliera e striltli. ACCIECARE - « In prima si commette in
occulto, poi l'uomo accieca, in e tanto che pecca manifestamente e fa faccia, e
non si vergogna » Cavalca. Al)I)Ol.ORARE – « Or lorniamo a Maria
Maddalena, ch'era illella ca a Imera e addolorava sopra i suoi peccati ».
Cavalca. Al FONDARE andare a fondo) – « E più galee delle sue affondarono
in « Inare con le genti ». Vill.- - v. - - - - - - - «....più volte si
videro su l'affondare, e poichè non potevano dar volta, « gran che fare ebbero
a una litenersi e torcere finchè.... » Bart. AGGHIACCIARE – «Come fa l'uomo che
spaventato agghiaccia » I)ante. « Ghiacciò il mare...., fu grande freddura e
ghiacciò l'Arno » Vlil. ALZARE - ABBASSARE – « Ma già innalzando il solo, parve
a tutti di « ritornare ». Bocc. – Simile al to rise degli inglesi -- il cui
causativo to raise).SCInarido al continuo per la ci là tutte le campane delle
chiese, infillo che non alzò l'acqua.... ». Vill.L'altezza del corso del fiume,
che per lo detto ring rgamento era to nuta, abbassò e cesso la piena dell'acqua
». Vill. – Equivalente dl sinkem tedesco e to sink inglese – attivo senken, to
sink).« Poichè il sole cornincia abbassare e allentare il caldo.... » Cresc.
ANNEGARE - AFFOGARE – e Mescolansi le compagnie con l'acqua ora « a petto e ora
a gola; perduto il fondo, sbaraglia i si, annegano » I)a V.« Mal credendo che
un legno si lacero potesse esser sicuro, mentre faceva tant'acqua e le
pareva di continui annegare ». I3art. « Alla guisa che far veggiamo a
coloro che per affogare solº quan « do prendºno alcuna cosa.... » Bocc.
APPIGLIARE – e Sugano l'umor del campo, e non lasciano esser nu « triti i
sogni nè debitamente vivere e appigliare ». Cresc. APPRESSARE – « Più e più
appressando in ver la sponda Fuggelni er « ror ». I): lillte. «
Quando il cinquecentesimo anno appressa ». I)ante APRIRE – « La terra
aperse non molto da poi... – qui non ti conto con, e « la terra aperse ». I) il
tam.ARRATBBIARE – «..... per quanto ne arrabbiassero i demoni, mai però a
non ardirono più a valti che... » Bart. «...ed all'uscio della casa, la donna
che arrabbiava, lato vi delle Ina lli, « il mallClò oltre.... » I20 cc. »«...nel
soddisfare alle loro passi il arrabbiano, sinºni: no, sono infe. « lici ». Cosa
riASSALIRE – «Il fante di Rinaldo veggendolo assalire, come cattivo, mi ha «
cosa al suo aiuto adoperò » Bocc. (cioè: veggendolo che era assalit, lui essere
assalito).ASSII)ER ARE – «...assiderarono tutta la notte, senza pallini la
ascill « garsi, senza fuoco, ignudi, infranti ». I): v.ASSOTIGLIARE -
INGROSSARE - -. Il collo digrada va sottile, e nel ven « tre ingrossava, e poi
assotigliava, digradando con ragione ſino alla « punta della coda ». Vill.
Parla di certa serpe di fuoco apparsa in aria). ATTENERE – «.... lanciato
da banda tutt'o ciò che attiene a costumi ». Bart. ATTENTARE – «...
desidera ido e nº n attentando a fare imprese e ho a non fanno, che non
attentano di fare gli altri ». Bocc. BISOGNARE –- Questo verbo mi darà ina)
eria da ragionare le più ava lli). « Come costoro ebbero udito questo, non
bisognò più avanti ». B c. – Il Bartoli guarda come l'ha egli pure identica la
stessa frase. I « Bonzi come riseppero di quel così vituperevole
cacciamento, non « bisognò più avanti, perchè si inettessero tutti a rumore ».
– E qui dagli ai puristi, ai trecentisti, quando un Bartoli non solo ne parlava
con sommo rispetto, ma di loro da vizi e studiosamente si arricchiva.
CALMARE – «.... il vento calmò e un altro 1; e scosse e le dava alla nave «
appunto per poppa ». Bal'. COMPUNGERE – e Forte nel cuor per la pietà
compunsi ». Dittain. (.()NCIARE i maltrattare – E la fa Iligiia di casi
vellendo costoro cosi a conciare, corsero a (iesti cori gri a n pianto, e
sl gli si inginº celli:ì rono « a piedi, e dissero: Signore, la Maddalena e
caduta in terra e pare « limorta e... ». Cavalca.Il Puoti nota che li el
vocabolario noi e registrato questo verbo in forma neutra, come ve lº si qui
adoperato, CONFONDERE – «.... onde se si messo nel pianto confondo,
maraviglia non « è ». Dittam. CONTIA ISTARE - Allora, vedendola la
badessa e si contristare, disse « a lei: or che t'è addivenuto, figliu la mia
Fufragia, perchè così a crudelinelli e piangi e contristi? » (avalca.
CONVERTIRE - Si prop, sero di convertire alla fede di Cristo ». Vill.
DEGNARE - «... nè v'è uomo, benchè povero, che degni far servizio della « sua
persona ». Bari. Simile al daigner dei francesi). I )EI,IZIARIE a.... e
se talvolta le llloghi a mare trovava llo ad avere « un uovo di testuggini e
alcun poco di pesce allora deliziavano ». Bari. IDILETTA IXE - Vergognisi
chi le reglia in virtude e diletta in lus « suria ». Nov. Ant. DIMAGRARE
- INGRASSARE - I primi quindici di dimagrano e negli a altri quindici di
ingrassano ». Cresc. a Ingrassando e arricchendo indebitamente.... ».
Vill. I) ISFARE a E di vero inali ſul lis fatta nè disfarà in eterno, se
non al di « del giudizio ». Vill. DOLERE –. E cortamente di lui tanto
dolsi quanto donna del far di « buon marito ». I)itta in« La speranza del
perdono si è data a chi la vuole. E colui l'ha per a mio dono, Che del suo per
rat, duole ». Jac. Tod. ESALTARE – « Della detta pugna esaltò si esaltò
il capitano di Mela a no, e il re Giovanni abbassò. Vill.a IDC lla sopra detta
vittoria la città di Firenze esaltò molto ». Vill. FENDERE - Vnche se ne
fanno convenevolmente taglieri, e bossoli, « i quali radissime volte fendono ».
Cresc.GLORIARE - –... pensomi che l'ºmºnima sua fosse tratta a quella
beata a contemplazione di vedere Gesù, Figliuolo, suo carissimo, così gio
a riare, attorniato dagli angeli suoi, i quali così volentieri gli face « vano
festa con somma letizia ». Cav. Traduci: colmo, circondato di gloria).IMPICCARE
- – Di questo verbo, otlre a molti altri di egual forma enatura, si è il senso
passivo assoluto (non per riflessione si ggettiva cioè, ma d'altronde) di cui è
capace, e senz'altrimenti variarla – simile al vapulo dei latini – la forma
attiva. Pare però che solo l'infinito di tali verbi abbia il privilegio di
ricevere un cotal senso passivo.« Fu condannato ad impiccare ». Vill. I cioè ad
essere impiccato). « La battaglia fu ordinata, e le forche ritte, e 'l
figliuolo messovisi a « piè per impiccare ». Vill. – Conf. più avanti
sbranare. INCHINARE (far riverenza a... } – « E voleseIni al Maestro, o quei mi
fe a segno Ch' io stessi cheto ed inchinassi ad esso ». Dante. INEBRIARE
– « I)ando loro lle celli) a beccare, Sillbito inebriano e lloll «
possono volare ». Cresc. « Egli giuocava ed oltre a ciò inebriava alcuna volta
». Bocc. INERPICARE – « All'alba scassano i fossi, riempiendoli di fascine,
inerpi « Cano Sll lo steccato.... » I)a VINFERMARE (anmmalare) – a.... E da
questo discorse un uso che niuna « donna infermando, non curava d'avere a suoi
servigi un uomo..... Ol Che.... » BOCC'.« Egli è alcuna persona, la quale ha in
casa un suo servo, il quale inferma gravemente.... ». BOCc. « Avvenne che per
soverchio di noia infermò. Bocc. « Avvenne che il detto Patriarca ammalò a
Imorte ». Vill. « infermare, ammalare a morte ». Bocc. Vill. Caval ecc. « La
povera donna cadde tramortita e ammalò gravemente ». Gozzi. INFINGARIDIRE – «
Non badavano n.ITe faccende pubbliche, e insegna « vano a cavalieri Romani
infingardire ». I)av. (Conf. Pigrizia Pron tuario).INFRACIDARE – « Infracidinsi
l'ossa di quella persona che fa cose de « gne di confusione e di vergogna. Lo
infradicidare dell'ossa signifl « Ca..... ». Passa V.« Il nutrimento dei frutti
infracida leggermente, perocchè la natura « non l'ordinò, nè produsse ad altro
fine, se non accio hè infracidas « se ». Cresc.INNAMORARE – « Concede alle
anime che di lei innamorano agevolezza « di Volare in cielo ». Fioretti.
INVII,IRE - RINVELIRE – « Ma poichè si vide ferito invili sì forte... ». Part.«....la
quale (merce) allora appunto rinvili che egli non la voler ». Rart. « Il ladro
surpreso nel fallo invilisce ». Vill. LAMENTARE – « Una donna in pianto
scapigliata e scinta o forte ia « mentando.... ». NOV. Ant. e Giusto duol certo
a lamentar mi mena ». Potrarca. LAVARE – «... prestamonto lo menai a lavare ».
Firenz. LEVARE – « Io sono costumato di levare a provedere le stelle ». Nov.
aInt. « Ma vedendolo furioso levare per batter e glie... » BC (c.
º llll'altra volta la ino MARAVIGLIARE – L'anime... maravigliando
doventare sinorte ». Dante. « Con tutto il maravigliare n'eran lietissimi
Mll I,TI l?ILIC.ARE – « Mla cldo e l'a llie lìte: « adosso in aggiore »,
lºore. « I)ebb no alunque studiare i padri come ». Fia Ill.
multiplichi e con clue Iniestier ed uso s'allmeriti, e divenga
fortunata ſilli. -..... que rime 1tlti i cresce a io e moltip
Il lonte ». I)av. l'ENTIIAE – « SI cl, e pentendo e per lollando
l)allte. « Assolver non si può li noli si sieme puossi ». l)ante. « (.lli
(li trolls PROVARE -- La Marza car, vellla cert: quali a Inosca dello Iara ca
l'ovello dl lilll'allle o lo Provan benissimo alla ril nei luoglli caldi
Prontuario. I? AFFIXEI)I).ARE IN IS(..VI.l) \ I RIE (tale a lui a contro
il Sallesi ». V Ill. al s'affr, tti si s old fa di pentire ». la
calca gli multiplicava ognora a ſalniglia, ! ». lPall.lol
licheranno llaraviglio -:1 fo, l'a ll vita Ne pentire e
llSciIlllllo ». V,iere iil l'laln. la ll pero in sul
nero e - apore ». l):) V. (.. ll noso aleli f. Pianta -
a è quasi sempre d ' e a ed e leggieri a pesarla, e tosto raffredda e io sto
riscalda. Cresc. « I Fiorentini si tennero forte gravati, e il riscaldarono
nell'i gue: ra IRIIP AI: AIRE L'inglese to repaire (on I. lo stesso
verbo, IParte Il I. « Nella quale Fiesole º gran parte riparavano dei suoi
seguaci ». Amet. « Come vide correre al pozzo, corsi ricoverò in casa e
sorrossi dentro ». I30 ('. «.... tutta la lla V e dis armi: i ta
dalle opere in m te, mal nu:i:a e dalla tempesta, e.. aver bisogno
di ricoverare a Mºnla ca e Iulvi a sverl):n l'e ». 13:art. ROVINARE
- Piuttosto vuoi rovinar colla caparbietà tua, che esaltati a col buon
consiglio di chi li vuol bene ». l 'ieronz. a Mentre che io rovinava e li
è col reva precipitosamente a fiacca collo) o in basso loco, Dinanzi agli
occhi mi si fu offerto Chi per lungo si a lenzio parea fioco ».
Dallite. a L'altissima scimmia del tempio di S. lteparata ſu da un
fulmino, il a tanta furia percossa, le gran parte di quel M:I (Ini:n
volli. e Rovinò g il mister, mente da un lalzo della montagna ». a
l'asst, l' illla volta sull traileo che Il tº t. (A') fatto ». Segn.
pilona lo rovino ). l3,) i t. rovinare... non è gradi a
lºietro aveva gia preso la china giù rovinando... se non che... »
Cesari. e Clio non rovini, lli vi i l i lil: r.:i bali: l'i slli
trabocchetti, i 'l:º a sopra saldisini p.I vini: i I, lov Ilie troverete?.
Segn. SALI) AIRE - It.A MI Al AIR(i IN AIRI. I rite g randi non è mal
trovato - e a saldino in ventiquattr'ore e che perfettamente rammarginino ».
Red. SBANI)ARE --.... le (-a coiiil ritte isselli iti, perchè al grido a
del st ) Ve li sbandarono, l... SI3I(r()TTI I º I. – La li ill:1 - 1/:
pll'1 o sbigottire, con voce assai piace vele rie, ose.... » I3oce.
SRR.AN ARF - Illvii “i i sll Ille. la do iº la annata di lui ad un e
desinare, l: qual, v. d. ll -t: IIIedesima giovane sbranare ». B.)cc. Aggiungi
i modi: mandare o menare chicchessia ad annegare, a uc cidere, e simili, ci e
ad essere annegato, ucciso Indi a quattro dl, col ta:nto -piarne, scope, ta, fu
mandata uccidere, I3a t. ccc., cliº li son frequentissimi in tutti i lor
li bilogia il guai del trecento e cinque ei to; e li segi:iti a bella cosa a
vedere: dura a sof frire; – « Case vaghissime a vedere, comodissime ad abitare
». 3:1 rt. Demonia crribili a vedere ). V |!! - V si lt l'1, l'ille, elle mi
racolo furono a riguardare ». I3... solº i maravigliose e pau rose a riguardare
». Vili.... l: Il l: -:1 e l'il 1:1 i lt, il N' - a stagio gravosa a
comportare, che per lo loro piu' volte gli venne dosi dºri di ll 1 le; - l. I3,
Forl II (ll dire che abbia Illo cºntinua in mt boscº 1, scrivi il 13 arioli,
IIIa Il li sempre si agevoli e piare a intendere che i 1: pia in di....i e, v.
altri si av veng: i il: l II; 1 - il 1 l ' I - I riti l' ignII llo. I ' ' ncere
poi di troppo ilt! - In ant III:I: 1 re, che amp ma, o creda po tersi mai
trovare un verbo:itti, o chi in qui, sta o simile gui-, non siasi talora uscito
a riche in significazione assolut: niente passiva. E s che i rutissimili (.ss e
v. 11 ri. di lirl II i qual. In Forli' ciarl,.le.::i: dimi ed altri la
intendono e - i ga: o l Iversalme, sarei tº itato il rigil:i ril: i re corri ti
'i: 1:1, li i leli iti:itti vi si getti: l II l de' verbi: fare, lasciare,
vedere, udire. Ho veduto, udito, lasciato... a mare liare, biasimare... Tizio a
Sempronio - rubare, prendere, por tare, lavorare e il na cosa a chicchessia o
checchessia.Mlal, l. Io: Ilo il cli: no i lil I la 'ti i lil Il di al front i
rili e Inl Itt e il:ì il tro: i:l ll 1: i: li si. I l it,Vli sia però lecito di
osservare le villa di irolti esempi in cui il soggetto i porant e il
preposizione a ion piò cssere l'i cells itivo a rentrº dei lati; li, e li:: lì
il ve li vi ttiva, a tri menti che - orcendo e guar 1:1 dollo la sintassi: e
bast, per tutti il - guente del Boern cio: Va -- e l og: 1o di suoi a Chiassi,
qui ivi a vede cacciare i d uli i Vallicº: il nº. io va ti ucciderla e
divorarla a da due cani ». Si di: • i:) I cacciare, 'l'uccidere e divorare che
l'l1:ì. Il no di mi li ssi: -si V., (belle sta, il lil:) di scorretto: velt
e-ser i: i ti li lì i rivali, il lill cavalli ºre ed eserla cioè: e la stessa
essere ) u (Isa e divorata da due cani. Qual'1 do invece s'oncordanza sarebbe e
sconnessione troppo rincrescevole e male ancora si atterrebbero le parti al
loro tutto, se si volesse riguar (lare il cacciare quale verbo di
significazione, noi Imeno che di fur ma, attivo, il cui soggetto, cioe',
cavalliere accusativo agente, ed og gettº, una giovane. Ed oltra ciò si ponga
mente a quel che segue, che e appunto il suallegato esempio: Illvita i suoi
parenti ecc., Qiii è omessa o sottintesa la ra tisa dell'aziº alle o l a o da,
e però lo sbranare di senso non altro che assoluto passivo. Ma e non e egli
forse quel medesimo cacciare, uccidere e divorare del periodo precedente?
SI) IRI 'CIRE - « Esse Ildo essi li oli gular sopra Majolica, sentirono la nave
a sdrucire » I30 ('. SERIRARE rinchiudere ecc., Olm! che dolore ti venne
quando tu il vede sti serrare là dentro, fra le mani dei lupi rapaci, che desideravano
di velldicarsi di lui ». Caval.E pensonni che questo ti fosse si gravide il
dolore di vederlo così rinchiudere e con lui non potere essere alcuno di voi,
che quello del la morte non fu maggiore. » Caval.Allora una delle suore, la
quale vide visibilmiente gittare lnel poz u ( e zo, gridando
forte.... » Cava! Tra due l: essere gittata (lal dellº - lli, nel pozzº ). SM V
I, I'IRE - - « (..il iarolo a smaltire ». Cres. STANCARE a E avvenendomi
così piu volte, e io pure volendº mi me - a tere per entrare, stancai, sicchè
io rimasi tutta rotta del corpo... ». Ca.Val.STRANGOLARE - Aveva ad un'ora di
se stesso paura o della giovane, « la quale gli pare, vedere o da orso o da
lupo strangolare. » Boce. TEI)IARE - Alquanti cominciarono a tediare e a dire....
» Fier. TIRARIRE i tirare) --. E come a messagger che porta uliv. Tragge la
gente « per udir novelle, E di calcar nessun si mostra schivo... » Dante. a () (corso
lor l'asilmondo, il quale con un gran last me in mano al « rumor traeva. » I30
('C'.º..... il topo che nelle sue branche era stato, riconosciuta la voce del «
leone, trasse al suo rumore, e ricordandosi di tanta grazia....» Voi gar. di
Esopo. a Maravigliando pur trassi a lei. » I)ittani. « Vide ontrare un topo per
la fenestrella, che trasse all'odore. » Nov. V nt.« E la fama di questa opera
di santa Marta s'incominciò a spandore e per tutte le contrade d'intorno, e per
tutta la Giudea di questo modo a ch'ella teneva, sicchè tutti gl'infermi e
poveri traevano a Betania, « e chi non poteva venire si faceva recare, e vi si
riducevano come a « un porto. » Cavalca. e Un piovºnº i grillorando a
scacchi, vincendo il compagno, suona a a martello per mostrare a chi trae come
ha dato scaccontato, o quan ti do gli ºrde la casa i lillllo Vi trae. » Sacchi,«...
tutto quasi ad un fine tiravano assai crudele. » Bocc. – Nota la questa
frase: tirare ad un fine, per aver la mira ecc. Anche del vento del mare ecc.
di cesi che tira, v. gr. violentissimamente a ll e beccio ». I3a 1 t.Per nº lì
tornare a 1', dire le stesse cose, vi piaccia qui di por mente ad altre II1:ì
il lere che si ill bllo: le e dell'ils. Tirare da uno e cioè sol Ili gliarlo);
tirar via un lavoro, tirar giù un lavoro cioè non badare che a finirlo in
fretta, anche st; pazza idol; tirar giù di una persona (dirne male se, za Ibla
discrezione al III ndo,: tirare al peggiore: a Egli 1tlti io che ſi evin (i i
lil I::lco tirava al peggiore ». Da V.; ecc. « Ari ippò l'insegna e
trasse:: - la il I grida 'I l... » I)av. “...... e scorrendo per le vie s'intoppano
negli alimbasciatori, che udito « il l ril 1g (111 di (i e II, 1 lli, a llll
traevano, e svillaneggianli...» I)a V «.... la vaghezza di ricolº oscere i gran
personaggi, sicche in calca la « gelite - ll al trarre il vederli., (es. l ri.
TI IRB.ARE –. Il cielo e lill!) io:i turbare. » Nov All. VERGOGNARE - SVERGOGNA
IRE.... a qual cosa -oste no, per lui, li a sia il lo, temendo e vergognado ».
13ocr'.« Allor: il crav: lo tilt, svergrgnò ». I v. Esoi). Conf. Disonorare,
svergognare – Prontuario). V()I,(iERE - V () I, I AI? E. ()r volge, sign(l'
In 1, l'ill decimo allllo, Ch'io a fili sommessº, al di-. go ». I'et:
Noto e 'n ulso anche og gi(lì, ma chi pensa e vi sento Ina i 'a fol'Irla
assoluta?) a Noril lan'lo III oltr a voiger pr. In queste ruote., I)ante. « Il
tifone voltò e preso altra via, la burrasca subito rallentò...» I3:art
SERI E I | I. VERBI RIFILESSI VI o con L'AFFisso, AvveC NAcri è
superfluo, o NoN NE CESSARIO ALL'INTEGRITA DEL SENSO, L' posto di quello
le si è vedi o lestè. Egli è un colal vezzo de gli scrittori, oggi rarissimo e
per pc o smesso, render reciproci alcuni verli: he (li la III l'a ll l
solo. I 'alliss, mi li, ci, si.: Il paglia verbo si rive il Ft il naciari,
a come forse meglio lirebbesi, riflessivo, ha virli al l'a di concenl ':::
l'azione nel si ggello, quasi come quella sperie di cerbo medio greco che i
grai lilli alici dicono sul biellivo. Nella Serie IV seguente ragioni:
Isi di alcuni verbi, il cui soggellº non è agente, ma causa dell'azione
d'allronde. E come altretta i mi parer ble da riguardare i pronominali di
questa serie: pensarsi, sedersi. cominciarsi, entrarsi, morirsi, ecc. ecc.
volendosi esprimere azione che il soggetto non solo fa, ma si fa fare: e però,
per esempio, mi penso, voler dire: faccio me o a me pensare, o faccio sì che io
penso: mi vede, chec chessia, mi entro, mi comincio, mi muoio V. g. di
cordoglio, di crepa cuore, ecc. ecc., significare: faccio mie vedere, entrare,
cominciare, morire. e, che è lo stesso, faccio si che io vegg, entro ecc. E
quanti più altri co. strutti e modi, che misteri della lingua si appellano, ci
verrebbero piani e ne sentiremino la ragione intrinseca e logica, l'original
candore, se l' genio studiassimo e l'indole della lingua, la natura cioè dei
verbi, l'ordine dell'azione, il vero, non storto valore delle frasi ecc.!
Sturdiali i seguenti esempi, e saprai come e con quanta grazia. V V
EIASI Sapete ormai che a far vi avete se la sua vita vi è cara.» lo c. AVVIS
ARSI –..... la qual cosa veggendo, troppº s'avvisarono ciò che « era e.....
» IBO (('. e perchè... s'avvisò troppo bene con lo dovesse fare a... » Boer, «
Ma io vi ricordo che ella e piu malagevole cosa a fare che voi per avvelt Ilvo
lli v'avvisate. » l Bo.CAMPARSI - - « Appena si campano le dºnne con gli occhi
adosso; che a farebbero sdlmenti a te gli anni e quasi rimandate?» I)av. (()NTINI
AI? SI e... liguarda ll do Emilia sembianti le fe”, che a grado li fossitº, che
essa i coloro che detto a Veano, dicendo si continuasse». I3 cc. I) I BITARSI -
« e saravvi, mi dubito, condannato in perpetuo. » Caro. EN'ITIRA IRSI «E
grillingtºndo alla terra, in vendo l'entrata, senza uccision a vi S'entrarono
o. Vill. a Ruperto vi s'entrò dentro. » Vill. l'SSERSI - «... e messosi la via
tra piedi non ristette, si fu a casa di «lei ed entrato disse.... » B i.Sempiterne
si son le mºzzate, le ferite, i vermi crudi, le stati ran. « golose ecc. ) I):)
Vanz.“ In ogni parte dov le noi ci siamo, con eguali leggi siamo dalla a lla
tll ril trattati. » Boi ('.“ Io mi sono stato, da echè..., il più del tempo a
Frascati. » Caro. l'AIRSI - e Che monta a te quello che i grandissimi re si
facciamo?» Boce. “ Divano º sta di non tener più conto di lui che si facessero
cogli nl « tiri. » (esari.MORIRSI – « Finalmente, dopo due anni, fra le lupo si
mori di vecchiaia». Fioretti. «... e così morendosi in poco d'ora, mostrò
quanto ciascun uomo sia « mal Infol InatO.....» SCglì. NEGARSI – « E' il
vero che l'amore, il quale io vi porto, è di tanti forzi « che io non so come
io mi vi nieghi cosa. Tra luci: che io faccia al lile, « induca me a negare a
voi cosa ecc., che voi vogliate che io faccia º BOCC. PARTIRSI (v.
Dividere – IProntuario, –... dell'isola non si parti ». I3ocr'. PENSARSI –
(Conf. Pensare - IParte III,. – SoInigliantissimo il sich denken dei
tedeschi. – Pensarsi è una specie di pensiero, una fol'Inil d'induzione,
d'imaginazi lie, d'invenzi Ile. Nel pensarsi e sovellle ll il iImaginamento o
supposizione non tutta conforme al vero; nel cre dersi è il silnile, Ina Ilon
talnto. -- Solº parole del Tollll I laseo. Le Spa - lo per quel che valgono. Io
dico che pensare viale formar giudizi, e pen sarsi, un imaginarsi pensando, un
farsi o formarsi pellsieri relativa IIlente a checchessia.« Quale la vita loro
in cattività si fosse ciascun sel può pensare ». BOCC.« La sera ripensandosi di
quello che egli aveva fatto il dì... ». Fioretti «...mi disse Parole per le
quali io mi pensai Che qual Voi siete tal « gente venisse ». I)ante.“
sappiellolo che nella casa, la quale era allato alla slla, a Veva « alcun
giovane e bello e piacevole, si pensò (Traduci: si fece, si recò a pellsare,
escºgitare) Se per lugio alcuno fosse nel Inllro...». Bocc. º...... e si pensò
il buon uomo che ora era tempo d'andare.... ». Bocc. SPERARSI –- «... e
sperandosi che di giorno in giorno tra il figliuolo e 'l « padre dovesse esser
pace.... ». Bocc.USCIRSI – «....io vi voglio mostrar la via per la quale voi
possiate « uscirvi di prigione ». Fier.« S'usci di casa costei e venne dove
usavano gli altri Inerendaliti ». TBocc. SERIE IV. VERBI CAUSATIVI, cioè
INTRANSITIVI o NEUTRI – siA si MPLICI, si A PASSIVI – I&I,CATI AID USO E
FORZA TRANSITIVA. Alcuni grammatici non la guardano tanto da presso e
mettono in fascio liransitivi e intransitici, o transitivi di fallo e di
apparenza soltanto, dando nome di attivi transitivi o di azione transitiva
(imperfetta, come dicono essi) a certi verbi di lor natura neutri e però sempre
intransitivaper Iliesto sol che loro risponde nell'oggetto in cui, per cui, su
cui, od a ºi º è o si riferisce l'azione, non un caso obliquo, come vorrebbe il
natura messo o rispello, ma, per certo lui il vezzo di lingua o tornio di
frase, l'accusativo o caso rel.. - ll che avviene, vi i per elissi di I lº svela
is o preposizione espri mente "in dell'azione, rispetto aila i stanza o
termine cui si ri "sº, lº sºnº:. io h Fei io se stesso, e la sua donna
comini c'Io ct piange e. I 3 º li, o solº a se stesso...:.... cominciò º
ſi correre il regno saccheggiando I; I. io è il dire pel regno: ( Ma pure
ingendo di non aver posto mente alle sue parole passeggiò º due o tre volte il
giardino, sempre ril, inava (iozzi: « venivano il giorno cerli pescatori al
lago di Ghiandaia per pescarlo ». Fier., º Tristo chi vi per cui rimando aliora
le solita te libiche pianure '. Stroc chi; e ci si dicesi: nº l'11tri il
liti in se', nel I e le scale, il monte, ecc.: rotſionati e discorre e un jail!;
liti ti un pº' irolo: andai e una riu. –... la via che ad andare abbiamo. I ce.
passati e il fiume: passare ll no con il coltello dare ad una donna in uno
stocco per inezze il pelo e passarla dall'altra parte I, centi si, desinarsi
qualche ºsº, ecc. ecc., vuoi per rili li erla p i licelli, preposizione, o
altro aderente al verbo con piani e ai per - con i re un paese: obe dire - ob -
audire il padre, la madr: riandare un lavoro, la vita ecc. – (ili cominciò a
spiana e quella grand'ella, qual gli pareva che fosse riandare l'ulta da capo
la sua vita. I; il I., n. ll per reva azione di rella che dal soggello
agente Irapassi all'oggetto paziente. Ma lo è di verbi si illi e li vuolsi o li
ragionare. Nella Serie II. allegai ai verbi al liri-pi o nominali che sulla
penna a classici ci si pre sellli II l ' il lillili il neutri se in plici, la
cui azione, cioè transitiva e ri Ilessi sul soggello li a emoli si rel: il
lasitiva, non più emessa. lira il rimanente e inerente al soggello. Qui invece
mi pongo alcuni altri neitli i di lor nallira. In alli al sl 1 il lei e altresì
il cagionars, altronde della rispelliva azi si rie, si gg i è riori: hi la fa,
ma a chi la la lare. Nolissimo, a cagi li d'esempio, il doppio uso del verbo
Non ci re. l)i esi: la campana, l'isl 1 lu meri lo suona, lila allresì e bene:
io suono, ed anche: io suono la campana, il cembalo ecc. Il primo è neutro in
Iran silivo: l'azione del sil riare, ni: ridar lu ri suono, aderente al seg.
gello, del sogg l sogge! I ci: il si rondo e il lerzo invece non è verbo che
dica azione chi si s Io, il cli: i ar. vale: io laccio sonare io faccio sì che
un isl 1 Imen lo renda silon Vl tried sino modo spiegasi il III zionare al livo
dei verbi qui soll shie ali: e il di p. es. cessare chec chessia torna a
questo: fare che una cosa essi, linisca. (*) I, a lingua tedesca è ricca
pi assai che l' Italiana, francese ed inglese di tal maniera neutri
intransitivi. Lasciando stare il gran vantaggio che ha di collegare a nodo di
una sol voce qualsivoglia verbo con la rispettiva dipendente preposizione sia
dell'oggetto diretto che indiretto o complemento, gran numero di verbi neutri
(che, spogli di ogni affisso, reggono un caso obbliquo, o l'accusatlvo con
preposizione, e però d'ordine e rispetto indiretto relativamente al loro
corredo) trasforma ad altro rispetto e indole quasi transitiva attiva,
premettendo ed affigen dovi la particella be, Es: den Rath be folgen (den Rath
folgen): dem Herrn bedienen (dem IIerrn dienen; einen Freund beschenken; don
Feind bedrohen; Etwas bezweifeln Etwas be sorgen; Jemand behelfen, beweisen, befallen,
belasten ecc. ecc.Si che di alcuni anche il Vocabolario ne riconosce l'uso
attivo, ma li pºne accanto tal altro verbo che risponde bensì al senso della
cosa, ini non n è l'equivalente letterale e non ſi mostra come il suo valor ma
lui l'ale, l'azione neutra resta lullaria, avveglia che dipendente e soggetta a
chi la ſa fare. Dice p. es. che cessare, attivo, vale rimuovere, sospendere,
sºlirſtrº ecc. e ne convengo quanto al senso, ma non quanto alla ra. gione
intrinseca e letterale della parola, secondo la quale il cessare non è
propriamente azion transitiva del soggetto che cessa, v. gr. un pericolo come
sarebbe il dirsi rimuovere un pericolo ecc., ma egli è sempre azion leutra
della cosa che cessa. Si è il pericolo che cessa, e il cessarlo non è, a rigor
di frase, un rimuover!, che si Iacria, ma vale far sì che il pericolo, comunque
non abbia più luogo. Il qual modo far fare, onde spiegasi la forza transitiva
di cui è capace il verbo neutro, vuolsi applicato a qua lunque altro che
comechessia il comporti. NI3. – Si fa qui menzione di quei verbi soltanto
il cui uso alliro - causaliro – il V Vegnachè ordinariamente assoluti o
costruiti neutral mente – è virtù, è particolarità antica e classica. Di allri
molli, dei quali una tal proprietà è tuttavia comune di generalmente nola, non
accade or cuparcene. Nostro compito è richiamare a vita le smarrite o poco nole
hellezze, proprietà, virtù e dovizie dell'avilo, italico idioma. (*) Di
tal fatta verbi è ricchissima fra tutte l'altre viventi) la lingua inglese. E
per menzionartene alcuni eccoti: to fall (cadere e far cadere, to drop (cader
giù, gocciolare e far cadere o gocciolare, to drink (ubriacarsi e far......),
to fly (volare e far.....), to sink (calare, andar giù e far.....), to wave
(ondeggiare e far.....), to fire, to well, to play, to please ecc. –. Nella
lingua tedesca, invece, si è mercè di una piccola alterazione che il verbo di
neutro si rende nel modo esposto attivo: Steigen (ascendere), steigern (far
ascendere); folgen-folgern; nahen - nahern (e anche nahen cucire); sinken - se
nicen; trinken – tranken, dringen - drāngen; schwanken - schwänken; erharten -
erhärten; erkranken - krānken; fallen - fallen, stiche In - stechen; schwimmen
- schwemmen; springen - sprengen; wiegen - wagen; einschlafen - einschläfern;
liegen - legen; sitzen - setzen; stehen - stellen; rauchen - rauchern;
abprallen - ab prelien; fliessen - flössen; schwallen - schwelten, lauten -
làuten; (es laPomba so...., es wird gelePomba) ecc. ecc. Io non so di
niun grammatico o filologo il quale parlasse mai od accennasse a coteste
verbali analogie, rispetti e relazioni etimologiche. E quanti, a cagion
d'esempio – non esclusi Ollendorf, Filippi e Fornaciarl –, s'ingegnano per
molte altre vie e a tutto lor potere, e per dichiarazioni e per esempi, di
mostrare e far capace il lor discepolo dell'uso e valore, l'un dal l'altro
assai diverso, di clascuno dei surri feriti verbi stellen, setzen, legen,
quando una parola soltanto basterebbe e farebbe più assai; dicendo cloè che ll
son verbi causitivi: stellen di stehen, setzen di sitzen, e legen di
liegen. S'io lavorassi o dettassi comunque una grammatica, distinguerei
quattro gran classi di verbi: I.a – Attivi transitivi – lo anno. L'azione
transitiva è mia. II.a –. Attivi causativi. – lo guariseo alcuno, io risano, io
suono, io cesso ecc. – Mio l'atto causativo, ma non gli l'azione stessa
del guarire ecc. III.a – Meutri relativi. – Io corro (una via), io piango
(alcuno) ecc. (Conf Il ragionato testè).IV.a – Meutri assoluti. – io vivo, io
dormo, ecc. Il dire: vivere una vita. tranquilla, dormire un sonno dolce,
placido ecc. non toglie al vivere, al dormire la sua forza neutra assoluta, ma
é sol modo elegante che torna nè più nè meno all'altro: vivere, dor mire placidamente,
e pºrò altro non è l' accusativo che un verbale o simile spiegativo dell'a
zione o qualità del soggetto, non già vero accusativo od oggetto paziente. “
Dormito hai, bella donna, un breve sonno., Petrarca.CESSARE – «...da troppo più
erano in lorze, ma il Saverio ne cessò ogni pericolo ». Bari.«...e cominciò a
sperare - e nza sia per clie, ed al quallo a cessare il desiderio (lell: l III
olt. l 3o t.Così a dilnque, l la sua pr inta e si riazzevol risposta,
Chichibio cessò la mala ventura e la il 1 ossi col sito -... ». Bove. E
se pure i liti e li rig. Vi volesse soprarſi lº cessatelo con pazienza e
sopp rti / i 'le..... l'a ll dollini. Eglino si l vera lo sotto i rii il l i
s'1-s......it, livºr cessare la neve e la notte e le sov l instil V a. l
ore 11 i. Cristo pregò il lº; i dr. lle cessasse il calice le! l -- i il di lui
». ( la Val. e l'el terna li slla voli e, lil cessossi e la lº tissi da
FI l elize ». V ll I.: s cessarsi di q. c. 1 - lei tºls e, rilla nerselle. (:)
| Astenersi lº l'a lt 1 l:ì i l. La terra fu cessata dai livelli lº stilt la c.
l. « l'el cessare i pesi d llllo si, it: i cl l - e gli stessi, con la
Illiato ». (es: ali. « Per cessare ogni vista di tiri, la gran le zza s.
Cesari. CONVENIRE. - indi convenuto, le ini, e il dizi: io, che è participio
non del neutro, ma del call sativo ccn venire, e si n 1 l I a chi è fatto
con venire o gli fu intimato di convenire« Questa (l'anima, dinanzi da sè, il
Clti i lu lu parte del mondo, può a convenire chi le aggrada » (iitll.a Chi
conviene altrui il giustizia di pi st Ilnolli ». (iiulo. « I)ilmalizi a gillsto
gill di 1, i: i - o sia le convenuto ». Bo c. cioè siate stato chi: Irlat, (1:111
o vi è lll' '.CIRESCERE - « Questo luovo tono di vita, crebbe in lui lo studio
della Virtuſ ». Cesari.E indi a poche linee torna a in ora la stessa frase:.
Questa piena de « di alzi alle crebbe il lui lo stll dio della Virt il il
segno... ». « E crebbono assai l: l 'ilt: i (li tºis: l... V Ill.E questo
pellsiero la illlia Ino a va sì forte di l io: che lì lì si potrebbe a dire, e
ricrescevale l'odio di sè e della sulla vita passata, che con grande empito si
sarebbe morta s'ella avesse ci eduto che piacesse più a I)io». Ca Valca. Il
testo li rincrescevale, ma niuno degli intelli gellti dubitò mai ch'egli sia
altrº tale che ricrescevale, il quale sta qui non in significato neutro, come
nota qualche espositore, ma cau sativo retto da pensiero, il quale non solo
la innamorava ecc. ma adoperava ad accrescere vie più l'odio di sè e c. Noterai
qui anche l'altro causativo: si sarebbe morta. E chi dubitarne se da quel che
segue chiaro, a parisce che per lei sola si rimase che d'odio non morì?
DERIVARE. - «.... cºme il giardino con fare il solco deriva l'acqua alle
piante, così.... ». Segn.«....che può e deve per sè, senza ch'io e litri in
queste vane dispute, « derivare (il folgern dei tedeschi) a tutti questi capi
infiniti ed effica cissimi con forti ». Caro.FALLIRE – « Ma il barbaro amore
questa promessa falli ». Rart. « Guarda in che li fidi ! Risposi: nel Signor
che mai fallito Non ha « promessa a clli si fida in llli ». IPetr.« Onori
avevano grandissimi e sfolgorantissimi; come altresì fallendo il loro voto, erano
seppellite vive ». Cesari.Nola qui le frasi: fallire il colpo, alli, e la ria.
Fallire neutro, vale: li tallº all'e, V Cnil lilello - le lire e - V el sagi li
''I raro, commellere fallo, andare a vuolo - si leiler n: - la debolezza
vostra per conto della « carlie è maggiore che non crediale, ed a passi folli
la lena vi fallirà o. Cesari. – « Sentendosi il marchese agli sll'eli e
pallendogli tutti i pal a lili da scioglierne..... (es. \ i rolli: il falli la
speranza ». I liv. Ml. (Conſ. Dilello ecc. Pi ritira iFINIRE –– a Per cessare
il pericolo o finir la vergogna dell'essere sl Iriale sullla bºcca dei suoi 1
ratelli.... ». Bart. « Chiedeva lo riposo per interce e di non morire in
quelle fatiche, a Ina finire, con il pi di viver, si duro soldo o l)av.« Finite
i peccati.... Io vi prega v. 1 che finiste le oscenità dei teatri ». Ceskani.«
III camera dell'ill fºr III o, (Ill: Indo peggiori, gli albarelli e le
alilpolle « Inoltiplicano e l'apuzzano e lui aggravano e finiscono». l)av. –
IPoni niente triplice rispe:to o ti e differenti maniere del verbo finire: a) -
a... di sollecitarlo non finiva glanina i p. Bocc. – Finire di vivere O finire
Selz'altro: a Mall vive il do 11 ll IIi erit:i Ilo di bell finire ). Passa V.
b) - « Un lavoro di grande artista dagli altri si giudica terminato «
quand'egli illon l'ha all ra finito a suo inodo ». Grassi,c) - Finire la
vergogna, finire le oscenità, finire un infermo, come sopra. –- Nel primo modo
è neutro, 11el secondo attivo tra lisitivo, nel terzo attivo ('allSativo.FUGGIRE
– (Conf. Fuggire - Parte III. Chi avea cose rare o mercanzie « le fuggia in
chiese e in luoghi religiosi si ll ' ». Vill. MANCARE - « Questa asprezza
delle grida era Imaggiore che dell'arme « per attrarre l'aiuto a quella parte
di quei dentro, e mancarlo ov'era e l'agguato ». Vill.« Nè a lui basta l'avermi
mancato la sua difensione e l'osserni il v - a cato, ch'egli rsi ride della
Inia rovina ». Fiorenz« Mancare ad alcuno il proprio soccorso ». (iillb. A on
f. ll - i vari di questo verbo - Parte III. MONTAIRE a..... e così in
poco d'ora si mutò la falla co fortuna ai Fio. « rentini, che in prima con
falso viso di felicità li avea lusingati e « montati in tanta pompa e vittoria
». Vill.Anche i francosi dà mmo nl loro il rallsitivo monter va l'il'e altresì
i rall - sitivo. I tedeschi mutano steigen in steigern, e gli inglesi to rise
I'm to raise. MORIRE – Nei preteriti) a Messere, fammi diritto di quegli
che a torto « m'ha morto lo figliuolo ». Bocc.« Tutti gli altri, coll'arme in
mano, uccidendo, l'illmo presso dell'altro a furono morti ». Bart.)lss 13 rullo
plaliani e ite: Velestlla? l?ispose Caliandrillº: oimè si! ella m'ha
morto o lº i. - - - - - e ln, il i gl I l va 1, l. (.li la lill Il lesti
nostri Pontefici e Sa cerlot, º hanno morto questo Gesù Nazzareno, per cui... »
Cavalca., Vedi un altrº º semplo dei Cava a s. ti o Crescere,. Mista l'o
di illma: la pel lidinº la super bla era il veleno che avea morto l'umana
natura ». (es.Fu incarcerato ed a ghiado di coltello, morto ». Dav.
Avendovi morto la ſua 11 l o elito | I solle.... » l)a V. Fra l III olti isl
lel verbi, morire le ultra linelli e il toreno: e Morire di alcuno e lº i loro
esser:le l'i: la morato, morire v. gr. d, uno scoglio, di una spiaggia i fili:
I l a tºrto e lº iallo el'a lln sentiero s gli Imbo. (.li e in liesse il
1 l la n o della lacca Là ove piu. he a mezzo muore il lembo ». l)ante.l'ASS
ARI. Conf. Passare - p.lli III. (i la Iri Irla i lioli fu qui ponte, Il
1. lo si lui e passo slli li e spille Illit lillique... » e l'rego un ge:11: le
li i portasse a a.ti a riva di un fiume. Quegli,, per natural cort sia, o per
che pur gi a lesse dell'anima, volen e tieri il compla llli e passo llo ».
Bart.I mi: rilla I e i soldat,, lire il v vien le lunghe navigaziºni passa vano
il tempo e la noia giocando illrsieme alle carte ». Bart. - Passare il tempo,
frase notissima e volgare, non vale adunque, rigo rosamente parlando,
trascorrerlo zubringen) come comunemente si crede, Ina sì rimuoverlo,
scacciarlo, farselo passare (sich die Zeit Ver tre ben, cioe parsa lo in senso
causativo. Se così non fosse come il lig e vi: e la noia? I a noia non si
trascorre, ma si rimuove di Zeit Ilind di I.: ll e W. Il vertreiben, non zul
rilmgeilm), MI: il l?o, le o, moli e l'altri, con i fertili e la cla scudo al
mio pensiero. ') po.. er detto che alla donna conviene talvolta di Inorrarsi in
ma 'I: onla e gravi i 1:1, se questa la nuovi ragionamenti non è rimossa -:: -
il l '::: il cli, degli innamorati il lilini i lorº avviene. Essi, se:I l il 1:
Irri li vezza il I l ' - I ', gli i filigge, lì:almn Ino di, di illl:: 1:1 re a
da passare quelle ». l 'r erni..I )i, he lo n vedi che codesto passare e il
rimuovere sopra detto. I 'I l? I)I.I E Tinete eum qui potest animi: In et
corpus perdere in gehell ma li ig: tris, Vlath.: ' '|... Il cui numero la loi,
scritto essendo completo, ed egli tolse di I lil: do e lo ebbe perduto
senza riparo » Cesari, Perdidit I)eus II emoria III: Iddio ha perduta, cioè
distrutta, la nº e Ilioria dei sll per l'i ll Illini ». l'assia V. (!) È
ben altra cosa il dire perdere checchessia – cioè rimanerne privo – e dire:
perdere uno, perderne l'avere, la riputazione ecc. Quì perdere denota
azione diretta di volontà che fa che altri si perda, rovini; quando nel primo
modo è cosa che, indipendentemente dalla mente e volontà del soggetto, al
soggetto co me clessia avviene. A gli esperti del Breviario romano
ricordo la bella discussione di S. Agostino intorno al doppio senso
dell'espressione: perdet eam del noto eflato di G. C.: qui amat animam suam
perdet eam, cioè o l'uno, o l'altro: colui che ama veramente la sua anima,
perchè sia beata l'IOVERE - NEVICARE - TONARE – Sue beltà piovon fiammelle di e
fuoco alimate d'uno spirito gentile ». Dante (Convito).a.... e però dico che la
belta di quella piove fiammelle di fuoco ». Dante altrove Conv.)« Il Saturnino
cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che a e ili nacquero ».
Filocolo.Sospira e suda all'opra di Vulca 'lo, IPer rinfrescar l'aspre saette
il Giove, Il quale, tuona, rnevica, or piove ». Petr.Questo e i precedenti
esempi in strano chi la o non esser certi verbi, che si chiami lo illip I
somali, si rigi il sili, elle lilli che non siano slali Ialora adoperati - e lo
si può ſulla via anche a maniera di al livi, sia retti solamente Vegge il la
cagi li che il lato priore ». l)ante: Innanzi che la ballaglia si comincli - si
porre una piccola acqua ». Vill. Pio rele, o Jian ne, e li o in lei il voraci
le possessioni. Segn. Quando il giali (ii ve lona Pell. e par el l e il
libe che squarciata « lona, l anti, sia reggeri li ricorsi il II Il caso. Nè
pol rassi perciò mai lidariri i re di errore il dire come elletri e le till
illegali: le stelle pio rono in luenze: i nu voli pio con sassi, e c.
SOLAZZARE - Non avvali pe: ne, Irla di pipistrello era lor inodo, e e quelle
solazzava, - che ti venti si trovean da ello ». Dante TIR.ASTI I,I. ARE e
\l trastullare i fanciulli ill el le;l p. 13ocr'. VENIRE - - - E l' ste
detta fu quasi tutta se la raſsi e venuta al niente senza colpa dei
nermi. I n. Vill. nell'eternità, darà opera che sia perduta, eloè resa
inerme, la farà perdere nel tempo: oppure: colui che ama la sua anima nel tempo
la perderà nell'eterno.Quanto all'uso di perdere a maniera assoluta ti è forse
noto, ma non ti verrà discaro un qualche esempio: «... Essere tutto della
persona perduto e rattratto » Bocc. «... e mise il mare in così sformata
tempesta che quattro dì e qnattro notti corsero per « duti a fortuna senz'altro
inlglior governo che... » Bart.“ Guarda come ciascun membro se le rassomiglia
ch'egli non ne perde nulla, Fler. Nota ancora gli usi: andar perduto di
checchessia o dietro a chicchessia i perdersi d'animo; amare perdutamente ecc.
ecc.CAPITOLO III. Voci e rnaniere il noleclinabili Non sarà certo alcuno,
per ignaro e poco sperto in opera di lingua - il quale leggendo e studiando nel
clasisci non s'avvegga che anche nel l'uso di certe voci o maniere
indeclinabili - oltre a quelle che ad altro oggetto l'agiolai ed illustra i più
sopra - consiste talora il vago e l'effica cia del discorso, e vi è molte volte
diversità tra l'antico e il model'In.. Anche a queste forme vuolsi adunque por
mente, e farne oggetto di | esame e di studio. Le dispongo a ordine di classi o
serie sol per divisarne comunque la materia, non per logica ragione che me ne
richiegga. Assapora, studia e sappi quando e con le usarne, discretamente cioè
e con lo senno, sì che alla frase lorni garbo e naturalezza, non mai al fetta
la e l'ill ('l'eso e vole ricercatezza.Ti verranno anche qui, come al rove,
scontrati esempi già addot.i. Se il ripetere lalora annoia, in opera di forma
al tutto didattica torna anzi - utile e grato, e vale qui più che in altre
discipline il noto proverbio: Re petita iuvant. SERI E I. MIA NIERE
A VVER BIALI o I o RM: IN C: EN FIRA I, E Albo PERATE FREQUENTE M ENTE I) A I (I,
A Ssl ('I A I) Fs l' RIM l. 1: E l I, GI: A l M (N ) (E SU'PERLATIVO 1) I QU'
ALITA, AzioNE, o Cosv Ql A LSI Asl. Le quali tornano solo sopra alle
volgari: immensamente: incompare: bilmente; inesprimibilmente, assoluta non le:
onnina nºn lo nel modo mi. glio e, possibile ecc. ecc. COMI E ME(il,I();
II, MIlGI.I () ('ll E.....; CI IE NIENTE MEGLIO; CIll: NUl.l.A l'III';
ECC. ECC. - – - Spacciatamente si levò e, come il meglio seppe, si a vestì al
bllio ». 13, c.« Senza liti, la cura e prestamente come si potè il meglio... »
Boc. . - “..... riprese animo, e cominciò come il meglio seppe..... »
Bocc.. “...... a dorni il meglio che sapevano m. Bart.“..... tutti pomposamente
in armi dorate e in vestimenti i più ricchi a e gai che per ciascun si
possa ». Bart.AI, « Voi l'avete colta che niente meglio». Cos. «.... con
quella modestia che io potea la maggiore ». Fierenz. Inv. costr. con quella
maggior modestia ch'io potea. ) - - POSSIBILE; QUANTO PUO' ESSERE;
AL TI "ITO; IN TUTTO; ECC. «.... purissinra l'aria ed asciutta e secca al
possibile ». Bocc.« Vi terrò sermone di nel quale io sarò parco al possibile ».
Cesari, º..... pregandolo di porgere, quanto per lui si potesse, alcuni subitº,
« ed efficace l'ilno (lio ». Balt. e Luigi ne fu lieto quanto potea essere,
ma..... » Ces. « E però al tutto è da levarsi di qui ». Bocc. « () che il prete
fosse al tutto ignorante, che non si pesse discernere i peccati. o fare
l'assoluzione..... » Passav.a Fortezza al tutto illespugnabile ad ogni altra
forza che d'assedio « () (li fa II le o. B:ì rt.« Si pose in cuore e determinò
al tutto di visitarlo personalmente ». Fi, retti.a Malvagia femmina. io so ciò
che tu gli dicesti, e convien del tutto l'io sappia...... » Boce. “.....
non ha bisogno delle 11 i lodi ſi è cll'io l'a lti le lodi slle e e però Inc le
taccio in tutto ». i l IIll). PIU' CHE ALTRA COSA; QUANTO NII N ALTIA();
ecc. « Assai più che a altra femmina dolente, a casa se ne tornò ». I3o.
e Lo scolare più che altro uomo lieto, al tempo impostogli andò alla a casa
della donna.... » Boc ('. “..... il che voi, meglio che altro uomo ch'io
vidi mai, sapete fare con a Vostro sºllino e col V (Stre ll (Vello ». I30 ('.a
Vergine madre, figlia del tuo Figlio, l'Ilile ed alta più che crea a tura, Te:
Irlino fisso d'eterni i collisiglio.... » I)allte.«.... d'altezza d'allirno e
di sottili avvedimenti quanto niun'altra dalla « I):ltº Ira dotata ». Bocc.«
Più tosto si richiede onostà e modestia, la quale fu in lei quanto a in alcuna
altra ». IPandolf.a... la rendi (Malacca j, collo industrie della sua carita e
coll la virtù e dei miracoli, illustre quanto mi un'altra ». Bart. PER
COS.A I)EI, MONI)(); C()I, AI, MIA (i (i I()R... l)EI, MONI)(); II, ME GI,IO
IDEL MONDO: PUNTO DEL MONI)(); SENZA.... AI, MONI)(); ecc. – a.... e
quantulinque in contrario avesse della vita di lei udito, per a cosa del mondo
nol volea credere ». lºoc ('. --- (Simile la fraso del l'uso: per tutto l'oro
del mondo – nicht um die ganze Welt) « Alla maggior fatica del mondo rotta la
calca, là pervennero dove... » Bo(('.« Alla maggior fatica del mondo gliel
trassero di mano, così rabbuf a fat () o mal concio d'Olm l' orº ». Fior.a Io
gli ho ragionato di voi, e vuol vi il meglio del mondo ». Rocc.« Punto del
mondo iron potea posare ne di, nè notte ». Bocc. « Ne la Inella Vano senza una
fatica al mondo ». Fiel'enz. A CHIEI)ERIE \ I, IN(il \: \I. I)I SC) I PR
A: (() MIE I)I() VEI, I)ICA:....E' I N.A FAV ()I..A \ I)IIXE; Sl: NZ A
VIISI IN A: ec....... ed a chiedere « a lingua sapeva onorare cui nell'alimo
gli capeva che il valesse ». l30 cc. « Il popolazzi,.. asso, st L. e ti
emend al di sopra, ridicolo, impau e rito ». I ): v.... un catarro che li
accolla io questi gi il 'ni come Dio vel dica». Caro. «.... colle l'a II lilli,
fierall 'i! te è una favola a dire. Flereinz. « La giovane, la quale senza
misura della partita di Martuccio era stata dolente, ti derido illi e il li:iltri.
sser. In rto, lungamente pialise ». Doce. SERIE II, AVVERBI
I) I TEMl PO Ass v I I REQUEN I I VI po I (I. AssicI E D AI MoloERNI RARE
VOI,TE EI) AN('l I E S (' ) N V ENI ENTF VI l.N l'F, A l)() l'ERATI.
Solº, e ben si vel. io il amezzi e talora anche vºi per sè insignIl lill. I l l
sentire e del pensare rivelano assa i volle, chi li Is I l s, che di gentil e
di fino. Ad intendere a che li gli oli | lesl Iraniere avverbiali siano cosa da
non dove si l rais li tre pas e il por nelle alla sconve nienza di allre voci
che venissero sul gale, per quanto equivalenti c (lell'lls. I, A I
PI? I VI \ (.()S \ \loid 'il: 1 o, e st. In tla prima cosa che faceva, clle dI
va, che li l' I, le ill e I e I blie i. (olf. Al llla si Sel ie. I - il I l I
so: volte, i vi si va via, la prima cosa a visit to il corpo di l l lo so S. Z:lolo
º lº i:li. (n'egli era a levati, la prima cosa spendº via il rile, i ora
zione mentale. » l3: l 't. (o s.VI.I. \ l'IRI MI V di primo in alto il prima
giunti (.lle lisogli a sciolla Il 1 Se la l - i lrn 1. ll il I alla prima
acconsentono º, l):n V (in tilt to li alla prima ti sti lou, i l:t lizione... o
V ill I ) \ Iº lº I M.A... Illando l'alto livlio Vl sse da prima quelle cose a
bello. » I ): l.llto.« Lasso che male accorto lui da prima ! » l'elr. Parla dei
primi istanti dell'amor sul.)IN PRIMA – « In prima si commette in occulto, poi
l'uomo accieca in « tanto che pecca manifestamente ». Caval. « Io voglio in
prima andare a Roma ». Bocc. DI PRESENTE subitamente incontamente).
Matteo Villani elle questa forma di di e continuo alla penna, e per quanto a me
ne paia, non mai usata a significare il ro che su bila mente: nel qual senso la
rove ete nel primo libro della sua Cronica delle vol, allilelio cinquanta.
I3artoli. Ma non inferire la ciò che sia inal Isa! anche il senso di: al
presente. L'ha il Caro, il Lasca, il Segneri e noi, altri: « Ma forse che
di presente non v'è l'Ics Iso? Segn di presente e gli cadde li Iurore ».
I3ore. a... tutte le Imadri che avessero fºr ll illlli ferirli gli o tav: l'1,
l. detto monastero e la badessa li piglia va e pi Vagli llel mezzo del a
chiesa...., e di presente erano saniati d'ogni info, Irlita., Cav.... e poi le
fece il segno della Santa Croce nella sua fronte. All ra « il demonio
incominciò di presente a gridare e... » (a V.Se l'andò di presente alla madre e
contolle tutta l'ambasciatº. » Nov. Ant. Le illimicizie. In riali trascono di
presente. » (ia la teo. a \ppena avvisato da lui questo peso l'intrepidimento,
di presente º so ne riscosso ». CesI)I TIRATTO – a...il domandò se..., ed egli
di tratto rispo- di si. (-. I) \ INI)I INNANZI – « E da indi innanzi si guardò
di Inai piti.. » I3o:. a Chianrossi da indi innanzi non più... Ila.... » (iia
lill).l'EIR INNANZI – «....o tennero per innanzi Messer Betto sottile ed iniel:
a dellte cavaliere. » Boicº a...o fatene per innanzi vºstro piacere. » Rocc.
I).A ORA INNANZI - «...da ora innanzi spenderemo la nostra diligenza « in
cose... » Bart. « In fede buona, discio, io voglio da ora innanzi credere
come il re, e cioè in nulla ». Da V.– Così dicessi: da oggi a 20, 30....dì: Mi
seguiterai da oggi a venti di º. Vit. S. Girol.DA QUELL'ORA INNANZI –. E da
quell'ora innanzi gli pºrtò sempre « onore e river olza. » Fioret. I) I
MOLTI MESI INNANZI....... con le collli cl) o l or Ill ort, l':n ve: i rii a
molti mesi inmanzi. » Rocc.DA QUINDI ADDIETRO. A te, corpo mio, sia pena e
vergog vi e « confusione la tua mala vita che ti hai fatta da quindi
addietro, se a tu ci vivessi conto migliaia d'anni. » Cav. DI POCO
Inolfo) TEMPO VV VNTI... Di poco tempo avanti a marito a vomiltºn lº..... »
IBoc ('. DA POI IN QI A CIIE.... - - « Da poi in qua ch'io servo a stia
Vltezza a non ebbi mai motivo di querelarmi. » POI AD UN GRAN TEMPO per
buona pozza di poi -, senza che a poi ad un gran tempo non poteva mai
andare per via che... » Fioret.- IPOS(.I.A A NON MIOLTO): IP()SCIA \ I) l E,
TRE... ANNI. –....benchè il « perfido, che convertito non dalla verita, lira
dall'interesse, si era illdotto non ti d essere, lila a filigersi cristiano,
poscia a non molto apostasse. » I3 irt.A lui al che si deve la conversione
cleposcia a due anni si ſè di... e d'InCli: sllo forlin. o I 3: i rt.l'OI. – v.
Poi in significato di poichè, congiunzione, Serio 5.) « tue giorni poi lo i
lidir no rel: ma la detti (iialma. » I)a V.a Le mie scritture e dei miei
passati allora e poi le tenni occulte, e e l'inchillse, le quali non chi
e la potesse leggere, nè anche vedere ». IPalld()|f.DI POI, I).AIPPOI postea,
la liber. dal au I e - Il giorno di poi a che Curiazio Materno lo sse il
suo Cat ne... » I)av. Fecesi questo primo ufficio a mano e di poi se ne fù
borsa. » Cron. M () l'(ºll. - S'arrende Cappiali, si lv ro a dappoi
la rocca, -aivo - a l'avel e o V Ill. l) A IPOI CI IE...: POI CIIE.. posi
ea quan Ne furono assai allegri, « da poi che l'ebbe il signor Tav rit. a
E molti enºni, quasi me razionali, poi che pasciuti erano be; le e il giorno,
la molte alle lor, a se, senza al il correggimento di pa store, si tornav: lo
satolli. I3 ). r. « Quale i fioretti dal lot il no gelo, li lati e
chiusi, poi che il sol r e l'imbianca si drizzi in tu! ti: pe: ti il loro stel..
» l)a nte. - Poi che innalzai un co pit 'e riglia vidi il maestro di
color che saillmo se dor tra la fil sofi a larniglia o l)ante. IN QUEI,
TANTO in quel frattempo i 17 w is henº « Quando -: ti o a un colore e
quando sotto un'altrº allungava sempre la cosa, e secre e tamente in quel
tanto attendeva a In tte, si in I tinto., (iiaml). I F. I I I V () I TIC: \SS \
I I) ELI E V () I 'TE. Non a quella chiesa che.... a ma alla più vi in: le più
volte il portavano. Doce..... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo
riguardo ». Cos. I N MIFIDESIMO. - Gelò in un medesimo per timore e avampò per
a rabbia ». I3art. IN (*) Nota uso altro del comune d'oggidi. « Da
poi o di poi, scrive il Bartoli, sono avverbi | - « di tempo come il
poste a dei lattni: non così dopo, che è preposizione e vale post, nè riceve «
dopo sè la particella che, come i due primi. Perciò i professori di questa
lingua condannano « chi stravolta e confonde l'uso di queste voci facendo
valere l'avverbio per preposizione, e « questa per quello che è quando si dice:
da poi desinare, o dopo che avrò destinato; da poi « la colonna, da poi
mille anni, dovendosi dire dopo desinare, da poi che avrò desinato, - « dopo la
colonna, dopo mille anni..... Due testi son prodotti da un osservatore in prova
di « quello ch'egli credette che in essi la particella dopo abbia forza
d'avverbio di tempo: ma, « o 1o mal veggio, o egli in ciò non vide bene, però
che poco dopo e picciolo spazio dopo, « che leggiam nel Filocolo (e ve ne ha
d'altre opere esempi in moltitudine) sono altrettanto che « dire dopo poco e
dopo picciolo spazio: nè perciò che dopo si posponga per leggiadria « perde il
proprio suo essere di preposizione, cambiando natura solo perciò che muta
luogo. » (Torto e diritto),TUTTO A UN TEMPO. –- Si vide egli una volta venire
innanzi quel « figliuolo scialaquatore che tutto a un tempo illil izzito
di freddo e e smunto di farne, a gr. ll fatica poi i più reggere lo spirito lli
sulle a labbra ». Segn.AI) I NA; AI) (N () R V. - I. - lio, e il riº lite illl
collo ad una le l gi che e l'azioliali. (iiillo.E fatto questo al padre - i ti
e, con i ti o dino li avere ad un'ora a cio che in sei mesi gi loves - e dal re
». I3 cc.a Tu puoi quali lo ti vogli ad un'ora piacere a Dio ed al tuo signore
». l3a) (.FII ad un'ora l: ti inta II: i r; V Igli, e il ti: i ta a rieg l'ezza
solº l'appli -, ch, a pena sapeva che ſi rs dovesse Bar!.a S'io avessi mille
cuori in corpo, credo, tutti scoppierebbero a e un'ora ». (a vill.....e lo slle
- rel. l: elie l l' il, clli ' lei i 'o che ella fosse spira 1:1, a un'ora
piangevano i figlill lo e la IIIa - dl e o. (..i Val.AI) () IR.A: A TEVI IP()
ZIl re e lit, Zeit, frilli - e il '..... il III la ll (lſ) ll ll (le' suoi
quanto al ra i vos- li Illi.: I 'a via e se ad ora giunger e potesse d'elitro
rvi. l?oce.Io so grado alla ſor. I: I: pi oi, la III: ll ad ora vi colse In a
cammino che bis 2: o vi Ill di ve la mia piccola ci sa. Bocc.. – Quell'ad ora,
se il il ring oliato al (.: p. Locuzioni e lillich e, pilò al 11 le
sigllifici:'e': in u il trio mi cºn lo ſtile - e i l Zeit Ve! llia! 1
llissell.ALI,()R \, CI IE.... - MIo -s. (r, l il all ora che - guardali do voi
egli crederebbe º li voi sapete l'in - ll - ci, Bocc. - - Allora che e il coin:
sto li ai l'ora che, cioe a quell'olti nella quale. Vu, i vederlo? «....
cominciò a rilere e disse: (iiot ſo a che ora, verº e il di qua allo 'n oltr i
di noi in fo: - ti re, che mai voluto moll t'avesse, credi ti cºllo e gli ori
(le -se che tu fo: - i il ln igli r di « pi:itore del miº endo, con le ti - \
clii (iioti o prestamen! e rispose: a Messore, e ved, i cllo e: i il ''t l
'oblio allora che......., col Ile sopri). AI.I,()R \ \ I, I.() R.... E allora
allora ve: i cori in 1 il to a venire ill a torno alle gote il poco di
lanuggine ». Fierenz. « Se la Irla il giò allora allora in sl1: pro - ilza ».
Fiºr liz. «.... fil percosso da un accidente di filºiosissima gocciola, la
quale allora allora i 'a in atto di sopraffarlo e co- Il lorº ndosi... ». Segn.
CIII E' CHIE E'. a... fatti ch'è ch'è solº l'1 t.. ri o. I ):) v.
CIIE..., CIIE parte.... parte () e - o re: ni) che re dei rom inni e che a
imperatore ». Dav.QI ANDO..., QI VNI)(). Quando sotto lº col re prº testo e
quando a sotto il li filtro.... ». I3: i rt « Quando a piè, quando a
cavallo, º eco il che il destrº gli vi lliva ». T30C ('.l'N POCO.... I N
AI.TIRO (un po o orn, il poco di noi - Intanto ecco a (Illi, cianº i l un poco
e ci:n nci i un altro..... noi siamo a.. ». Cos. I)I CORTO, DI POCO. I)I FIRESC()
(id), l di corto si attºri il tv l e a quindi a mezzo anno seguì. I3art.« I più
furono dei grandi, che di nuovo eran stati rubelli, rimessi in a Firenze di
poco ». Vill.a....mercecchè questo era timore di uno che aveva di poco
cominciato « a peccare ». Segn.a... forma generica di teli fare che sul l usa
l'e il demonio a riguada a gnarsi quei che l'ha di fresco lasciato per darsi a
1)io ». Segn. A (i IRANI)E ()IR.A. -. Va, figli la mira, e clla Ina queste mie
suore, che a ti aiutillo, e fatelo buono assai l'unguento e domattina il lande
ete a a grande ora, si colme tll la i detl () ». (a V.Si parla dell'unguento
col quale la Maddalena di ve:a ungere il corpo del Maestro suo nel. ionumento.
E adunque fuori di dubbio (le la frase a grande ora è altretta le cli a
buon'ora. Ma il valoroso Cesari nota questo modo nei dia gli di S. (i regol io,
e gli pare clie signi! Ichi anzi l'opposto, cioe' tardi, ad ora avanzata.I
PRIMI A (III: A (i I? AN VI \ I I IN() -... ll e il colpagno prima che a a gran
mattino, chiamandolo e scotendo o per farlo lisen Ire del sonno, se º le
avviole». I 3:art.A I, I NOi (), V IP () (.() A NI) \ I I: I ) () l ' () I, I N
(, () V Nl) \ IRI.. A V Vlsa: l.losi o cle a lungo andare o per lorº o per il
litore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Pericoli fare, con altezza
d'animo seco pro pose.... ». I3 cc. e.... (ºd In questo con 1 il tar lì,
ll la lollo la pezza a vanti e le perso la se ne avvedesse l'ul e a lungo
andare, essendo un giorno il Zeppa il casa, Spinelloccio venne a chiamarlo ».
Borc. Così si dilra fatica a difenderlo, ma spero che a lungo andare la
verità verra pur sopra. Caro.« Chi si vergogna di apparire malvagio è facile a
lungo andare che all ora si vergoglli di essere tale o. Segl). I)ev'egli
telider sull'uditorio le masse deila divina parola, senza restarsi per
stanchezza di lati, che a lungo andare gli succeda, o sºlldol' di fronte.... ».
Segn.e Dopo lungo andare, vincendo le naturali opportunità il mio piacere,
soavemente m'a (ld l'Inel tai o, Borº. Si dostò il silo mal illnore, e
che a poco andare livelltò l'ov (ºllo, fl'e lesia, rabbia ».
Giuberti. Non so però di millm altro scrittore e li ll sasse mai il modo
a poco andare il luogo dell'altrº, a non lungo andare. V me pare di sentire
nell'a lungo andare dei citati esempi non tanto il significato di dopo lungo
tempo, quanto quello di continuando su quel tenore, andando avanti cosi, il
quale significato mal si cercherebbe nel modo: a poco andare.IPrima di passare
ad altro ti piaccia, o luon lettore, notare di questo andare un altro uso
avverbiale bollissimo ad andare d'alcuno, e si gnifica: conforme alla durata
del tempo che impiega quel tale a fare un determinato cammino a l)icosi che, ad
andare di corrieri, sono sel e ovvero otto giornate; ma elli vi peliaro
ad andare più di due mesi ». Mold. Vit G. C. NON MOLTO STANTE; POCO
STANTE. perchè..... non molto stante partorì un bel figliuolo maschio ». Bocc.“
E il buon pastore vegliava sopra le pecore sue; e io nni stava allora “ presso
a lui e piangeva di cuore, imperocchè io vedeva bene a che partito e ci
conveniva venire. E poco stante e disse... ». Cav. “... dissº; e poco stante -
e ne vide il buon esito ». Bart.IN POCO ID OR A -- E cosi in poco d'ora si mutò
la fallace fortuna ». Vill..... quandº le si coinil: i) a cambiare il sereno in
torbido e 'l vento I'l'ospel'evole in coli'; il rio e si font, che in poco
d'ora ruppe un'or ribile tempesta. Barte così i lorendosi in poco d'ora,
irrostrò quanto ciascun uo, lo sia sempre Inal in Ioriato, di ciò che passi
nell'intimo di se stesso ». Segn. SEMPRE (il E., 2 ni, olta ch....: per
tutto il tempo che...; - so. It als...: so l' Ilge:ils.. sempre che p -so
gli veniva, quanto poteri “ll In: i fo: zii li i vesse, la lont: in: va ». I
30 ....ti fa l'ſ, con il iº lira? I ra che tu io da uno li ricorderai.
Sempre che l Il 'I viverili. (I e Il III lili,, lº e - Add II e le forme
avverbiali, bisognerebbe compi l'opera e porre Iri al mi allri modi di In li e
costruire il to italiano, dai quali ap prendere le lo Izi li varie ri la
livinnelli e il tempi, e corre cioè accell li: l' e il I e II limiti e il
quando di un fallo, e con le esprimere la durata di checchessia. I cori e lo
spazio di lempo decorso. o la decorrere da un prelisso le minº, e come gli
aggiunti, le circostanze per rispello al pre semle, al passato e al ſul tiro,
ecc. e c. Ma questo lo vedrai nel Prontuario s: II, la parola Tempo.
AVVERBI I I Morbo A: UII A Ioi A, oi: v. SEMPLICE E e RA AR ricolATA (*)
A I3U ()N.A FEI)E (red 1. ll Il lllll III a buona fede llo la Cagioli della a
ai 1 l' - Il I la lorº ita. ll I)1, ». (.a V. Di buona fede, con bucna
fede in buona fede solo i nodi, loli si lo dl f. ſei eliti dall' Ilegato,
ma anche diversi fra di loro: Semplice uomo e di buona fede o V ill. Il pr,
ritente ritrovisi in buona fede » a 'I'utti gli il milli del boilo enti
lorº porta i con buona fede ci è con le alta o. 'I Irl. A ſ;I ()NA EQI
ITA' -. il suº - gliore si ptio a buona equità lo le: (o ri lilllari cari l ' s
ll lo » lºt),Sill','': a buon diritto li lil I l di ragione; a Sotto nome
di Ghibellino occupa questo patrimonio, che di ragione s'a spetta il Guelfo ».
Salv. (*) Conf. Particella A, Cep. I v.A ROTTA –... In zzando in un
tratto il bel discorso di suo fratello, e si parti a rotta ». Fier. cioe pieno
di mal talento, stizzito,tutto veleno ecc).In tal guisa scrivendo a rotta se ne
compilerebbero i grossi volumi. (es. Simili le frasi scrivere in borra,
borrevolmente --- abboracciare un libro. I)av - Caro - Gillb. A I) ()V EIRE - (osa
fatta a dovere overnarsi a dovere » A FII) \NZA - Non ti maraviglia e se lo te
dimesticamente ed a fidanza a rielli e del do o. IBoc.A FI RORE: A FURIA -
Quando il rumore contro il re si levò nella terra, il popolo a furore
corse alla prigione a Bari. e Temevano gli uomni li lt il:giurio ed esso (i ('.
lº sostoli ho gran dissime essendo dannato così ingiustamente (a furore di
popolo ». Cav. ci è abband intito, dato in preda... ) a Carlo v'andò
coll'esſere to, a furia ». l, l'll i. A SI º V VIENI ()... prende questo servo
e quello per lo braccio: Te, ficcal qui. Fuggono a spavento, di lino nel luine:
rimas() al blli ggiIrlai della morte, con due colpi si sventra ». Da V.A (.() I
'SO I. \ NCI VI'().... volmita le sue bestemmie in una foga di ben nove versi a
corso lanciato, senza il fiatar di mezzo ». Ces. \ SI, A SCI (): \ I 'I V ((A (()
I.I,() Cori ele, precipitarsi a slascio, a fiacca collo v. Correre,
IProntuario).e due schiere di lenici a fiaccacollo, della selva nel piano e del
a piano nella selva si fuggirono in intro a Dav.E gia so: i gialliti dove il
fossi on firma l'resso alla terra, e la fin tanto forte. Ognilli a fiaccacollo
VI ruina: Chè 'l ponte è alzato e si in chiuse le porte ». Bern.A SGORGO; A
RIBOCCO.... fonti... le quali doccia no a sgorgo per dar a bere e saziare a
ribocco i slloi V ml: nfi di Villo dolce ». Medit. del | Vlb. (lollº (l' ) ((º
A (IR AN I 'IN A a.... ll'el a tanta la grande gol to che vi veniva, che a a
gran pena vi capeva » Cav.A ((i RAN) E ATIC V.... (con le luci tanto confitte
dentro di quelli e occhi) che a fatica vi si vedevano ». (iiamb. a I)i
cento mila, a gran fatica un solo ». Segn. Traduce il noto effato di S. (ii
l'olio in co: Vix (lo con tull) l Il till I lolls lllllls ». )a Quel figliuolo
scialacquatore che tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame a
gran fatica potea più reggere lo spirito in e sulle labbra ». Segn.a Quella
povera vedova, la quale vi avea a gran fatica riposti due soli piccoli... »
Segm. duo minuta). ... a fatica poterono le insegne campare dalle folate
del vento ». Dav. ()ttone, contro alla dignità dello imperio, si rizzò in sul
letto e con e preghi e lagrime gli raffronò a fatica ». Dav.« A fatica, risposi
io, gli ha potuti per un grosso nuovo cacciar di a mail a un pescatore ». Fir.
As. \ MAI O STENTO a mala pena) -.... e a malo stento si tonno ch'ella
nol a fe (o o. Iº nt ('.A GRANDE AGIO -- a... tanto che a grande agio vi potea
metter la mano « e il braccio ». Bocc. A TORTO – « Messer, fa
IIIIII diritto, di quegli che a torto In'ha morto a lo figliuolo ».
I30cc. .A NI IN PARTITO; A NI UN IP. \ I Tt ) egli a niun partito s'indl
Isse a coin a piacermelo ». Dart. (Conf. Partito, parte III. « E
certaIllelìte se ciò non fosse, il clitori, li li credo i già che Irli sarei «
contentato a patto veruno (li comparire stamane su questo pulpito ». Segn.–
Keilles Wegs, un keine il Preis. - Simile l'altro avverbio dell'uso e classico:
per niun verso, per niente, v. Serie seguente). A CREDENZA (senza
proposito, non serialmente e daddovero) –. E' a debbono essere da sei o
sette anni che un brigante di quei lilli ha a tolto a litigar III eco a
credienza e Vieille alla volta lnia ard Itamente ». Car().« Sicchè lion (1 edo
far I)io bravate a credenza quandº i lºg 'i a fferma a che repentina succedera
la morte ai mormoratori ». Segn. A BALl).ANZA -- a...e questi a baldanza
del Signore si il batteo villana III e ille.... » Bo(:('. – « Che a dirlo
latilio, soggiunge il Cesari, non si direbbe più breve di a questo: I) Inini
patrocini fretllesi. A MAN SALVA senza tiri re di punizione o vendetta
ecc.; impunemente) a....e quello con tutta la ciurma ebbero a man salva
). I3oce « Senza che al ll no, o marinaio o altri se l'acci orgesse, una galea
di corsari sopra venne, la quale tutti a man salva gli prese ed andò a Via ».
RO(('.« E perchè tante diligenze? non potea egli averlo a man salva ovun a que
volesse? » Segn. (parla del fratricidio di Caino). A MIA POSTA; A
TI"A, A SI' A POSTA; ecc. – Somiglia all'altro mento vato sotto A,
Cap. IV: a suo senno; e significa gosì in disgrosso: con for Ine all'ordino
posto, secºndo aggrada ecc.« Io non posso far caldo e freddo a mia posta, come
tu forse vorresti». BOCC.«.... mi disse che tu avevi (Illinci una vignetta che
tu tenevi a tua posta ).a... Ma quell'altro magnanimo, a cui posta Restato
In'era, non mutò aspetto ». Dante al cui ordine). Lascia pur dire il mondo a
sua posta » Caro. aspettava solza mandarsi a lui dinunziando od entrare a sua
posta, come avrebbe potuto ». Ces.... del resto se volesse andarsene, facesse
pure a sua posta ». Ces. Il tempo è cosa nostra..., e a nostra posta sarà
d'altrui, e quando Vorremo ritornerà nostra ». IPandolf. Farassi, disse Malerno,
altra volta a tua posta ». Dav. Non si doe a posta d'alcuni milensi levare a
mariti le loro consorti de beni e del mali, e lasciare questo fra le sesso
scompagnato in preda alle vanità sue e alle voglie aliene ». Dav.«... ma lascia
dire e tien gli orecchi chiusi, Non ti piccar di ciò, sta pure al quia; Gracchi
a sua posta, tu non le dar bere ». Malm. (r (l\ A
\ \ A .A V - Oltre agli altri significati della V
o posta, olre i son noti o del l'uso, nota anche quello di agguato, e però la
frase: stare in posta. – Si pºsero il cuore di trovare quest'agnolo e di sapere
se egli sa pesse Volare: e piu notti stettero in posta ». Doce. MIIC), A
SI () AVVISO zza e chiarita, che a suo º avviso a Vanzi va per sette a rili la
bellezza del sole ». Cav. (il II).A – Vennono i Magi a guida della stella, V
it. SS. PP. "... (Illi, l'alt alllll III e lo gliti li l'Israel a
guida della colonna ». Vit. SS IPI. SECOND A - Venendº giù a seconda di l
iilline eri in un grosso al e bero attraversato il l leti o le! ! util, a (-1)ITO:
A MISNAI) ITO per i pp, li o Illiile ()Inbre Ilio e St l'OI Il Ill I e il Il l
a dito... I l liteINDOTTA - Scrive e in a indotta di un qualche amico ». Giub.
TENI () NE; A RILEN l'() co. l l:: Fal e clle clessi:i, opei a re,
lavorare a tentone; il nºda, procedere a rilento. SI PI? () lº() SI 'I'() - Fra
- della era te a sproposito, gramma t (a 1 rbitraria..., Mla lizl3 Al
RI)()SS(): \ BISI) ()SS() I.el l. Ville a cavallo senza sella e guarni Il lent:
fig. alla peggio, alla buona, alla carlona.“... titlito è Irleglio, il dicit re
lº tºga rozza e a bardosso che in cotta las Iva da Irie reti I ce.. l):
V...... tilt. I3rotier.... E ogni liofil Ill se le scolla, Veggendogli una
cupola a bisdos « So )). Bll roll.I II)()SS() Non un sol l'eroerin º ome in
l'annonia, nè soldati veg º gentisi pit | rti seri ti a ridosso, ma molti a
viso aperto alzavan « le Voci ». l)a V.Ridosso, sost. vale: renaio lasciato il
secco dalle acque. –- Cavalcare a ridosso è lo stesso che cavalcare a
bisdosso.RANI) A \ RANDA (appresso, rasente, ed anche a mala pena, per l'ap
punto). Dal tedesco Rand margine, orlo, estremità....«... A randa a randa, cioè
risente rasente la rena, coiè tanto at costo a e tanto rasente che non si
poteva andar più là un minino che, a IBl1t. « Quivi fermammo i piedi a
randa a randa ». l)ante. «...era apparita l'alba a randa a randa ». Morg. «...e
poi gli mise in bocca l'na gocciola d'acqua a randa a randa » Segr. Fior.
IBACIO (al rozzo, all'uggia º contrario di: a solatio. « I susini simiani nelle
orti, lungo i muri, a bacio fanno bene. Dav. (.()NTR VILI,l ME (che ll ) m l'i(ove
il llllll (º il dirittll l':ì \ Qlla dro a con trallume – faro che li ossi:ì a
contrallume. SPRAZZO (sparso di mil utissime macchie l'anºni a sprazzo,
lavorati a sprazzo.SEST'A misuratamente, precisamente, per l'appunto) -- I)a
sesta, com passo. Nota il modo: colle seste. Parlare celle seste, cioè
parlare cal colato, misurato, compassato. «...e menandogli un gran colpo
che passò a sesta per la commettitura « dell'osso, gli spiccammo il braccio »
Bocc.A SCHIANCIO – Da schiancire – schrag treffen, schief Schlagen. «
Tagliandolo a schiancio in giu dall'urna parte, salvo il Imidollo... » Pallad.
Fobbr.« Le sue pertiche del salcio, si ricidano rotondamente, o almeno li n «
molto a schiancio ». Cl.A SGHEMBO: A SGIIIMBESCI() / di traverso, obliquamente,
– «Sull'elirio a sgembo giunse il colpo crudo. Bern. Orl. «...campi divisati
Per piano, a pl Imbo, a sghembo ». Bllº lì. Fier. « Capito al pizzicagnol,
chieggo un pezzo di salsiciotto, ed ei Inel ta grlia a sghembo ». Buon. Fiei'.
«... Se non che a sghembo la lancia lo prese ». Morg. « Pare ogni palco appunto
un cataletti IRestato, come dire, in Iºlel a Galestro. Che la natura fece per
l'Ispetto, Ed ogni tetto a sghimbescio « Il Il canestro... » Alleg. – Tagliare,
lavorare, operare, camminare a sghimbescio. A MICCINO a poco a poco, a poco per
volta) – Fare a miccino, collº all Imare con gran risparmio; dare a miccino;
parlare a miccino.«... E' un dare a miccin la ciccia a putt I, Vccio ch'ella
moli fila cia poi « lor male ». Fil', rim.«... Senza chè qui fra noi I)el buon
si debbe far sempre a miccino ». Alleg.« Favellare a spizzico, a spilluzzico, a
spicchio e a miccino a è dir poco e adagio per n In dir poco e male ». Varch.A
GHIAIDO – « Fu incarcerato ed a ghiado morto » (cioè di coltello). l)a V. A M
AI, OCCHIO – « Antonio, mirando quel dischetto a mal occhio, dice « va e pensa
Va infrì sè stesso: ond'è... » Cº V. A SOLO A SOLO; A TU PER TU a quattrocchi,
da solo a solo). « I)esidero di fa Vollare a solo a solo )). V. S. (i. l3. «...mangiare
un poco con lui a solo a solo ». Rini. Ant. « E' mio marito, e non è
ragionevole ch'io Ini p inga a colitenderla a seco a tu per tu v. Varch.« A tu
per tu d'ordinario indica, se non contesa, almeno un non s. che di lì (r))
amichevole o di riottoso ». Tomln).A IOSA – a Idiotismi lombardi a iosa, frasi
adoperate a sproposito, « periodi sgangherati.... » Mlalz.– Simili: a ufo, a
macco, a diluvio, a masse, a larga mano, ad usura, a oltranza, a gola, a buona
misura ecc. e Iddio renderà al bonda lito a mente, a buona misura, tormento e
pena a coloro che fanno la su « perbia». Passav. – Retribuet abundanter
facientibus superbiam. Sai:Il A GUISA CIIE...: A MODO CIIE..., DI... – « A
guisa che far veggiamo a h a questi palloni francesi.... ». Rocc. i a...
schiccherare a guisa che fa la lumaca ». Bocc. ti « Fare a modo che la madre al
fanciullo quando lo fa bramaro la « poppa ». Fioretti. « F: l'(a
modo che alla Maddalol)a.... » Fioretti. - - - - - entrò in una siepe
molto folta, la quale molti pruni e arboscel « li avevano acconcio a modo d'un
covacciolo o d'una capannetta ». Fior.A PEZZA: A GRAN PEZZA di gran lunga, di
lunga mano, a dilungo )« Iddio la IIIa lì dato 1 elill, a lille desll'i: - i
lol prendo, per avvell « tura S III lile a pezza li rl III i ti l'lleri ».
lSucc. « Tu non la pareggi a gran pezza ». l 3 a... che Villce a pezza le forze
il ii il II alla natura ». Ces. «... che a pezza li in poterono i no, l'1:li a
liostrº ». Giuli....al qual peso pollai e gli a gran pezza lo! I SI se lliva
sufficien a te n. Ces. ET - A buona pezza, a pezza sia al 1 ora per: da un
pezzo. Il Corticelli lo fa altresì avverbio di tempo a vu i tre, º io e a dire
col significato di: a lungo andare, indi a gran tempo e.:: il l: l V a Illel
lil - go della Nov..º in cui il 13o a clo, il ricolllla lir di Tebaldo,
l'e putato uccisº dal 1. l re: ti sºlo i clie: l i vº: lo ſtesso, dice:
l' 1. l e I edeva no all or I e II la lr e 11, se i vi ebber iatto a pezza i in
li e a lilolto l'Irl | o s, il 1 o l -se che lor e lì i rio « chi fosse stato
l'll (iso.Pezza per tratto di teli e ti In e te l: il sito dai classici:...a e
le quali, quando a lei i i nip.. - rido e la buona pezza di mot a te....,
l 3,. \ V, l: do ss 1 di buona pezza di notte e il ogpl I lioli o il l ' Illi:
e... l.... ed i: questo con I lilla rotto una buona pezza iva il l i soli: si
ll il V.. desse º lº). Erano a buona pezza pia. Il l... » lº. A I) II, l'NG ()...lila
po. I sa – 1, piti il V ".go, a dilungo le pi Vinci e ill « gannò ». l)a
V.A (..ATA FASCI () Fa cela di voi gli l a catafascio ». l 'a taff. Io
non fu mai. lle solo di gloria Vago, lº vivi, a raso e scrivo a Ca « tafascio
». Vlatt. Fraliz. l.ibli (i rte a catafascio. \ I,I, I S.ANZA ()ltre i
cliest.: se si lal::lo ba nelletti regali... ll !) e inoln Ine: l'e,
all'usanza (li (1:la, di co- e dl gla il valore, ll lì.... ». Calo. «.... se la
faceva la maggi. parte le 'a nero, all'usanza dell'Indie, e con l'iso, e quando
pit sontuosa ine:lie oil... » Bart. ALI, I SAT(); AI, SOI, IT().... lle
resta V a dl di rilli all'usato di strane « tentel)llate ». Fiel'.«... e ne
rinfocola V a l'iberio, per ll è al solito lllllga lllente in lui a V a
vampati, ne uscisse o saette il rov in se. l)av.“..... non ga e al solito, Irla
cori tlc it to... e co; i visi, benchè a ce on e ci ai ln (stizia, pil V (ralli
elite cagles lli.... l):ì V. AI, CONTINU () Sonando al continuo, per la
città tutte le campane... » V ill. AI, TUTTO - Conf. Tutto, Cap. III e
l'elisorili che Marta s'inginoc a chiò a piedi di lei e disse: Madre
dolcissima, al tutto sono appa a recchiata d'ubbidire, chi io sento n. ll'admin
la mia che l vostro par « lare Imi conforta ». (.a V. AI, CERTO – - a
Se....., al Certo i denloni ne farebbero, gran rumore ». Iºart. AI.I.A
SCOPERTA –..... potè poi mettersi con lui alla scoperta in più a ragionamenti.
» Bart.Al, DIRITTO – « Il Sole..... feriva alla scoperta ed al diritto sopra il
te « nero e delicato colpo di costei. » Bocc.ALLA DISPERATA – «....nnellare
d'attorno bastonate alla disperata. » BaI l.ALLA SPIEGATA – «.... appunto culme
la nave... sulla quale tornò non e potesse levar mille fasci di lettere, che
dicessero alla spiegata quan a to egli veniva a raccontare. » Bart. ALLA
SPICCIOLATA –. Tagliare a pezzi alla spicciolata. » l)av. – Andare alla
spicciolata o spicciolati vale: andare pochi per volta e non ilì Ordinanza: l'O(o
dopo si Inossero gli altri bravi e discesero « spicciolati, per non parere una
compagnia. » Manz.ALLA SPARTITA –. Le varie scienze brancate non hanno più
alcun « Vincolo coinline che insieme le c' III ponga e le organizzi; si no a ce
« fali, vivono alla spartita e tenzonano fra di loro. iub. ALLA STAGI,IATA –
Andare alla stagliata per la via più corta i: «.... E vanno giorno e inotte
alla stagliata. Non creder sempre per la a calpestata ». Morg.ALLA DISTESA – «
Ben è vero che quella grandine di concettini e di « figure non continua cosi
alla distesa per tutta l'opera ». Manz. ALLA 1)IROTTA – Piovere alla dirotta. «
Che lavorio non si pigli alla dirotta per alcuna cupidità, ma piut « tosto per
servizio dello spirito ». Ca V.ALLA SCAPESTRATA senza ritegno, – «
Ruzzando..... troppo alla sca « pestrata..... ». Bocc.a Correndo alla scapestrata
e senza ordine niuno, cadono nell' ag a guato ». M. V. – Simili, all'impensata;
all'improvviso; alla spensie rata; alla sciammanata – « Mi diletta oltre Imodo
quel vostro scrivere a alla sciammanata cioè scomposto, se llcito, o, Caro; a
fanfara – “..... non usavano i vecchi nostri far le cose a fanfara ». Allegri;
alla carlona; alla rinfusa; alla sbracata; alla cieca; a mosca cieca; a
chius'occhi –. Negligolza dc lettori che passa lo il vizio, a chius'occni» V
ill. ecc. ecc. ALL' AVVENANTE (a proporzione, a ragguaglio...
dispensavanº loro a oltrate all'avvenante ». DaV. a.... e fece fare... le
monete dell'argento all'avvenante ». G. V. ALLA MEN TRISTA (a farla
bucina) –. Passato il quarto di, Lorenzo, se a condo il consertato, non
ritornò; talcli è già altri il farºvano molti, « altri, alla men trista,
prigione ». Bart.« Stava in gran dubbio di sè, certamente credendo che il re,
alla men « trista, il disgrazierebbe ». I3art. ALLA CIIINA – «... i
piaceri sono monti di ghiaccio, dove i giovani cor. « rOIlU alla china ». I)a
V. ALI,A BRUNA – « Uscire di casa, ritornare, il sene alla bruna, i di
notte « tempo ).PA RTE TERZA Verbi e alcune altre voci generalmente note,
ma dal cui retto uso all'elocuzione garbo ne deriva e vigoria (APITOLO
I. Verloi di particolare osserva, Aio1 ne non quanto all'ordine
dell'azione, che se ne è parlato alla Parte ll º Cap. 2º, ma quanto alla varia
maniera di usarne, così cioè da risultarne ora un senso e ora un'altro, e
quando una frase più che altra concellosa eſlicare e chiara, e quando Ina forma
di dire piacevolis ima. In assello di espressioni elegantissime, nulla comuni
ad altre lingue e al tutto con forini all'indole, all'original candore
dell'italico litigliaggio.Uno dei capi che formano il carattere di una lingua
è, senza dubbio, l'uso frequente e vario di certi verbi previleggiati, onde
quel tal linguaggio prende una piega, una forma che lo distingue da ogni altro,
reca un'im pronta decisa e sua, e rivela l'indole, la natura della nazione che
lo parla I; sli a entra al to do, io ſo, lo gri, i sel. I pul, lo li arr, lo li
hº to trill, lo shall ecc. ecc. degli inglesi: al bringen, Schlagen, selsºn,
lath rºm ziehen, reissen, allen, hallen e er. l i l des hi: al lati e doti lºrº
mºtivº quel gal dler, falloir, aller, ceni, e crc. d. I rili esi.Niuno per
fermo potrà mai farsi a credere di saperlo l'inglese, il tedesco, il francese
se non conosce appieno l'uso molteplice di cotali verbi. Ma e dovrà poi dirsi
che noi italiani conosciamo l'italiano, lo par liano, lo scriviamo, quando
molti usi e vaghissimi di alcuni verbi sºli º gli scrittori nostri del trecento
e cinquecento e loro valenti imitatori, o ci sono al tutto ignoti, o non vi
badiamo gran fallo, fuggono al sensº º quel ch'è peggio, non pigliano al rina
ſatiri di apprenderli?Mentre nel Prontuario trovarsi in diversi luoghi. “ioè
quando sºlº una parola e quando sotto un'altra, l'uso e il significato altresì
diversodi ognuno il ſitº si re bi, in questo Capitolo sono invece raccolti in
pro prio, ci si il li del is fli e, iro, i molti sensi e gli usi inoll piici di
questi si illli i crli. \' scopo poi il liv sarne in qualche non lo la I al
ria, i, li i di li 'il ſole e portata loro, due orditi (listi, ci:V ci li
pi li, si incli di più ampia sv al l: VitaliiD. llli i cºrti non si li prºnti,
il che anche di questi, cioè dei 'oro Ilso l g.gior grazia e vigoria. Il dis(ºr
sor. - S 1 º Verbi più notevoli, ciò è a dire rigogliosi e
fecondi di più ampia e svariata vitalità, e sono: andat e, dare, fare,
prendere, levare, met tere, recare, portare. it jutlatre, sentire, stare,
tornare, venire. Arm ci are Noli II l via di etill irli qll il I
agioli alimenti e andarmene in discus si ti sul come e ind, che a fil e ass. I
li II e i di ºrgan, a il più delle volte a lin, ia, gialli rina approda e laio
a anche trilore; imperocchè allo si ling r. a p. l si la fatica con (edio e
danno di chi legge e li in pro º cli il lr Iriesi e gli anni in istu diare,
raccogliere, e vergar car lei e per passi di quanto scrisserº grammatici e il
logi rh, e li arreco subito alcuni sempi colti li i migliori libri di Ilarsi i
lingua, dai quali potrai di leg gieri a ndere l'uso vario e vagilissimi del vei
bo andare: e metto anche pegno che pur leggendoli nel tendovi un po' di studio,
saprai senza scandagliarne altrimenti le rip. ste ragioni il logiche,
convenevolmente imitarli e rifarne, occorrerlo, d aitrella!. ... e son
cerlissimo che cosi a cre' l e blu conto coi dile, dove così andasse la bisogna
come a risale: ma lla andrà all imenti. Boce. (410). Manda vanglisi di Ilona e
d'Italia gli aguzzamenti dell'appelile; le poste correrano dall'uno all'altro
mare: se n'andavano in banchetti i grandi delle città: rovinavansi esse cillà.....
Dav. ll.(neste cose belle dicerano in pubblico: ma in sè discorrera ciascuno:
questa colonia in piano potersi pigliare con assalti e di molte col medesim, a
dire e più licenza di rubare: aspettando il giorno se n'andrieno in ae cordi e
lagrime: un poco di gloria rana e pietà pagherieno lor fatiche º sangite ». Da
V.“. Somiglianº si può dire anche il genio e la natura degli abitatori I tillo
va in delizie e in piaceri di musiche e di odori e di n. 13al l “ Lo ingegno di
Verone degli anni teneri se n'andò in di pignºre, in tagliare, cantare,
cavalcare ». Dav. “.... lullo il dormire di questo molte m'è andato in un
sognar continua di nomi, cerbi crc. ). (es. “... e per non andare in
troppe parole... Se in. Che fama andrebbe al lui mi i secoli di ieri e I;a,
2... ºbbºlo per rili poi ci li ti resi nel l' u tutti e ne andò gran timore per
lullo, il regno. I al I. I tempi vanno u mi irli, N ſi i St ! ! 1. l’ulla la
città di isti i patiti ne andava a rumore I3. I 413,... la gen I e andò a fil
di spada q io ti l ne volle l'ira e il giorno... l ralosi il pool ogni cosa
andava a ruba. (0 utndo questa cili, la l 'dei lgo in presa, andatoci a ruba
ogni CoSa..ln questi mutnici e si li sº quel luogo il quale andò a ruba ed a Sa
CC0. I.Ma º non crei propri iani e il liri i titoli I e il I il enci si che
face rain, i monaci qualche li ha o di quelli in blio che, le quali miseramente
anda vano a ruba T, il lil. º mi ios li si i 'le, che li ci mi i ssis si
incli il non irresi ſtiamº mai andando me la vita?In queste cose l'isogna andar
cauto; ma lo si e va il capo cantis sino.... \:. A chi con in el l
e così i ti e mi isl 1 il ris va la vita pºi giustizia i a... e giudicò
che e' lusse al pi p si andassene G che volesse dire che egli ci ſi presto al
gni suo placer. Fi, l'. ... vi andasse anche la vita, io sono e sarò si
mpre al l ostro pit (e re... Ci s a I', il lil, i cl e ne andrebbe
dell'onor stuo...... (: l', n. a E se n'andasse il collo, sempre il rero
son per dir li Sacchi. () ual delle due ri pa; lunque più con i nerole:
che ne vada l'onor vostre, orrei o che ne vada l'onor divino? Si, si. r ho
inteso: ne vada pur, (lile. ne ratula l'onor divino. pl i cli, sull' isl il
nostro. Segli a Sim il cosa diceran quel di Tci n. eh il pm a rosso le
ren d'Ital e andrebbe a male se la V era si spirl issa'..... I ... ma in
vano andaremo i pri, gli i?. « Lo stral rolò: con lo sl rale un volo
Subito mi sci. che vada il colpo a vôto o l'iissi).Allora domanda
consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo andarti molto prospere, e
fa ragione che tu se' alto allora a sdruc. ciolare ». Mar lili. V es. º
I) il nulla º quando Ma io ride che li detti lei Sacerdole andavano a quel
medesimo ch'egli intendea... Sal Isl. Ortando la cosa fosse andata per lo
contrario....... Fier. (416). “ (r se li tºsle i tgton son in mileste. Se
le tocchi con mano, s' elle ti vanno, con chi intoli..... I 3el ll. i na
circºla dirà: quell'uomo mi gol in una fanciulla saggia: quel l'uomo mi
andrebbe. Son molte le cose che la bano al gusto e che non vanno (tl e il roll
le re. l'orn Ill. () irando tlcuno o non intende, o non ruol intende e
alcuna ragio ne chi della gli Nict. Nuole dire: ella non mi va, non mi entra,
non mi ralsa, non mi rape, non mi quadra, e il re parole così lalle o.
Varchi. ... l'ira e li cruccio, il 'nendo, andava disposto di lui li
rituperosa mente morire 13 cc. (418).... ma non che la nl o di rivenisse di
loro, che anzi non ne andarono pur leggermente offesi... I3arl. « Quanto
all i più sa della lingua ben app s. nelle sue radici, lanto più va ritenuto in
condannare ». Bart.... e da principio va ritenuto lipoi comincia a poco a poco
ad arricinarsi alle pristino compagni. Si gri i 19«.... se prorar lo potesse,
andrebbe asciolta ». Ariosto. a Le trecce d'or, che dorruen fare il sole.
D'invidia molta ir pieno, IE A1 at li fre'don ne va poco contento IPull. Mi l'.«
Perchè lal, che qui grande ha sugli Argiri Tutti possanza, e a cui l' (cheo
s'inchina, N'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso ». Monli. «... nè però fu
tale La pena, ch'al delitto andasse eguale ». Ariosto, « Si potrebbe indovinare
che noi andassimo facendo e forse farlo essi all res) n. 130cc.« Concediamo che
spendiale in Noren li con rili, in allegrie e, quel che anco conceduto non
andrebbe in men che onesti amori o Menz. pros. () uesto ſarà il mestier come va
fatto. Mtilln).a Le ragioni contrarie, a roler che sieno bene e pienamente
rifiutate. vanno con chiarezza e con fedeltà esposte. Salv.e dunque non va
segnato mai in principio d'alcuna parola quesi 3 segno. Salv. a...
acciocchè resti si potesse e forni di cavalcatura cd andare orrevole. I 3 o. (20. ...
o Nseri utili al loro i I3oluzi: con unº º l'andarsene rasi barba e ca pegli ».
Bari « Von area cominciato nella religione ad andar dispetto e vilmente ». vestire
alla buona, cienciosanielle. Fior. Ces.«... perocchè il rigore toglie la con
lidenza: e dove questa lor manchi andranno con voi copertamente, che appunto è
quello di che il demonio si varrà m. Bart. Con lor più lunga via con rien
ch'io vada. Petr. (421. «... io vi porterò gran parte della ria, che ad andare
abbiamo, a carallo. Bocr'.a... ma la bestia voleva pur andare a suo cammino.
Continuare, proseguire. Fier.«... e dove..... da niuna parte il loro cammino a
sè vietato sentono ii fiumi, riposa la mente le lor umide bellezze menando
seco, pura º cheta se ne vanno la lor via. I 3: Illo.... Lu (lor lco se
n'andò al suo viaggio... l' 1 r.... Ma lasciandoli gridare balassi a ir pel
fatto tuo v. Fior. 122,.... ed ella colal salratichella, facendo rista di non
avvedersene, andava pur oltre in contegno ». Bocc. «... un vento
sempre intavolato per poppa e così fresco che anda vano a più di cento miglia
al giorno. Bart. a Siale in procinto di rela, che non andrà a due anni
che di costà chiamerò molli uli roi n. 13arl. (23. - -« Tulli i cristiani di
quel poi lo iurono intorno al l'. Cosimo, a pre garlo con lagrime che non
frammettesse troppo a campar la vita, chè il perderla andava a momenti...
Ilari.a... Ma poco tempo andrà che l'uoi ricini Faranno sì che lu potrai
c'hiosarlo... T)il rile.«... e costoro si levarono tutti smar il talendo questa
parola: poco andò che noi reulen mo....». (.av.« Essendo già la metà della
notte andata, non s'era ancor potuto Telmullalo adultorm en la re. I30cc.«
Ouesla notte che è andata, si sognai ciò che l'è apparito ». Stor. S. Ells
[ach. « () uei area poco andare ad esser morto. Pelr. Si notino Jin (il
men le le ini (iniere: son..... anni e va per......: « Io la persi, son
quattro anni finiti e va per cinque, quant'è da settembre in qua n.
13occ. a Signor mio, son questi 1)ebili premi a chi l'ado di e cole? Che
sola senza te già un anno resti, E e va per l'altro, e ancor non te ne duole?
». Ariosto. Vada questo per quello: «... e non credo errare ad
aggiugne di mio oi namenti e forze a'concetti di Cornelio alcune colte vada per
quando io lo peggioro ». Dav. Andar del pari con...: 42.1..- - - - - ma i fatti
non andaron del pari con le promesse o. Bocc. - Bart. Ncn andavano in lui del
pari la gagliarda del corpo e la genero sità dello spirito. I3art. - Basti
Germanico privilegiare che in consiglio dal senato, non un con le da giudice si
conosca della sua morte, del resto vada del pari I)aV. Andare a chi più..... «....
perciò dove il fatto andava a chi più può in forze e in armi, i cristiani di
quelle spiagge quasi sempre i rstarano al di sotto. Bart. I t 425.
Note al verbo Andare 41() Similmente di resi con le vanno l la cellule? N
lì so come vada questa cosa. Come va la sanita? Gli affari non vanno
bene, 4 1 1 - - Nota la frase andarsene in chechessia, e io è a dire:
distrug gersi dietro a cherchessia, perdersi, ma -sare il tempo, non far altro
che.... i 12) - L'andare di qui sto e del seguenti i senipi e al ufficio
pressa poco di essere, correre, trovarsi, mettere, soggiacere e Ma è
chiaro che -arebbe guasta la frase, non le andarne d l grato, a voler mettere
un di questi verbi al luogo di andare.i 13) – Maniera bellissima. Simile le
seguenti: andare a ferro, a fuoco, a sacco, a ruba; andare a fil di spada, e
vale essere in preda, abbandonato a... ecc. Frasi, del rost, che a tradurle in
altre lingue converrebbe dire: uccidere, consumare incendiando, rubando ecc. o
che altro di somigliante, – « L' andare a ruba, osserva il Tommaseo, affermasi
di tutte o quasi tutte « le cose in un luogo co; tenute, quando l'essere rubato
può riferirsi ad a una o poche (se tra moltissime ». Mi par di poter asserire
con sicu rezza che ne anche il tedesco idi Ima si apprestarci un modo simile a
questo andare a...., o altra frase che torni se ttosopra il medesimo. 11) –
L'andare chechessia di questo e del seguenti esempi significa: trattarsi di....;
essere in pericolo, esposto a perdere; avvenire, seguire che chessia ecc.
Leggili, intendili, che è maniera vaghissima e nostra. (415) - Ognuno vede che
l'andare di questi esempi andare a male, andare a vuoto, andare in vano, andar
bene, andare a chechessia, andare per lo contrario )val quanto: riuscire,
battere, cogliere, tornare e simili. 416 – Significa: non riuscire, riuscire
altrimenti che il concetto avviso, riuscire nel contrario. Bocc.417 – E' il
Zusagen, anstehen affarsi dei tedeschi. Simile a questo andare è l'entrare dei
modi: mi entra. ci entro; questo non mi entrerà mai, ecc. e significa, l'uno e
l'altro: capacitare, appagare, sodisfare. 418 – Andare, coniugato con
certi partecipi pass. Ovvero con certi ag gettivi, piglia talvolta il valore
del verbo essere, conservando però seni pre l'idea di una cotale progressione e
continuazione nella cosa di che Si tratta, (andar disposto di...; aridar ornato
di...; andarne offeso, andar ne contento; andar metto da una colpa ecc.) e
tal'altra fa l'ufficio del ge rundio passivo de' latini, e vale: dover essere,
voler essere, doversi ecc. (Gheraldini); - - Quel tal delitto va punito;
quell'atto caritatevole va pre miato e Cc 419 – Nota la questa
frase andar ritenuto, guarda i si da.., proceder con riserbo ecc.120 – Anche
l'andare di questi esempi, accompagnato da altra voce agg. partic. o
avverb.) che ne indica il modo, e ad ufficio del verbo essere, o meglio di
contenersi, di portarsi, governarsi, procedere e va dicendo.421 – Pon mente
costruzione o maniera di connettersi delle par le che si attengono a cotesto
andare (andare una via, andare a suo cammi mo, andare oltre, andare a tante
miglia ecc.) Il quale la senso di percor rere, proseguire, seguitare, il suo
viaggio e simili,422 – I nbekil Inl Inert seilles VV egs gehell SI Inile a
Illmina l'e al V lag gio suo: « Ma poichè i regni e gli stati camminano sempre
al viaggio loro a e dove prima furono diritti indirizzati, non fla Inal li or
an. Il a passo ». Giamb.423 – Andare, parlandosi di tempo, indica lo scorrere,
il trapassare del tempo, e la durata del tempo impiegato in checchessia. Nota
costruzione andare a..... – Ricordo qui il modo avverbiale, affine a questa
forma di dire, a lungo, a poco andare ecc. v. lProntuario, Tempo - avv.) Un
altro lISO molº. In alto dissimile, di llll a ndare, cioè, il sºlliso di
passare ecc., è quello della nota frase: « ma lasciamo ora andare questo: «
quando e dove potrem noi essere insieme?» Doce.424 – Questa maniera è simile
all'altra già addotta: andar eguale, andar vilmente, copertamente ecc. ma è
forma di un assetto singolare e va però notata a parte.425 – Chi non ha le
belle ma Iliere italialle Ilon uscirebbe dalla forma comune: trattasi di..... a
perciò dove non trattavasi che di chi prevaleva in forze....... NoDare Il
suo valore, dirò così, naturale e comune all'equivalente di altre lin gue (dare
- latino, geben, to give, donner ecc.) è quello di trasferire una cosa da sè in
all'ul, consegnarla, renderla e simili. Ma poni mente va ghissimi altri usi ed
efficacissimi di un colal verbo, assai diversi dall'or dinario di altre lingue,
inoll plici e ſanti che appena se ne potrebbe rac C () l'l'(il mul) el'.
Gli esempi che allego contengono quei costi utli e quelle maniere, ch. mi
parvero meno note oggidì ti volgari, cioè, e a poco sperti), ma opportu nissimi
e ancora a sapersi, chi vuole impararla daddovvero la lingua ita liana e usarne
l'el talmente Metto prima alcuni esempi di un dare quasi assoluto, cioè
adoperato. per elissi od altro, senza l'oggellº e il mal i ra di assoluto cec.
Poi altri i un delel'inilla lo costrullo, egliali di lornia, non di significato
i dare im, mel: dare del: dare per mezzo a ecc. Seguono undi alcune maniere di
un dare ti forma transitiva, e inallelle all i nodi o Irasi antiche e
dell'uso. Il sole e alto e dà per lo Inugnone entro, ed ha tutte le
pietre ra st it ltte- o lºo...37. "...... Sono posti i primi, quando
lo veggano li ella vernata già secco, a levar la scure e dargli alla cieca tra
capo e collo, tra tronco e rami ». Segn. “...... e ancora raddoppia V. Il
dolore e il piant e davasi nel petto e diceva: or II lisera.... ». (a V.
a l)icoti, Signore, ch'io loll lo virt tl da clò, e tll il sai. E davasi
nel petto e piangeva sì forte che pareva che il cuore se le spezzasse in
corpo, (:) V.“..... e gittato il cappuccio per le ra e dandogli tuttavia
forte.... ». Boce. « Un muletto di Libia avendo scorto nel fiume
l'imagine del suo corpo e meravigliato di sua grandezza e bellezza, dati i
crini al vento volle cor rore come il cavallo ». Adriani. “..... (con
questa tenzone il porco, uscito lorº tra le brache, corre per ulo androne e
l'altro porco dietroli, e dànno su per una scala.... Torello levatosi e 'l
figliuolo dicono: o imiè! Inale in lobiamo fatto. Dànno su per la scala dietro
ai porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di
quà, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria (scº sinº tra bicchieri ed
orciuoli per forma e per modo che pochi ve ne rimasero Salvi ». Sacc.
(438). a Su, andiamo, diss'ella, ma sei mi dà nelle unghie lo concerò io
come ei merita ». I):) V. « Non prima l'innocente colomba uscì fuori del
mido, che diede fra le ugne di un rapace sparviero ». Segn. e Poichè si
diede nel sangue e che "a nominanza era rovina, si attese a cose più sagge
». Dav.a Lorenzo de' Medici a uno che voleva dar nel sangue, ricordò che gli
agiamenti a Filenze si vuota: no di notte ». Da V.La prima e ben grailde II al
I vigº.ia che dava loro negli occhi si era Che uomini di quel conto.... ».
Bart.«.... raccogliere alla rintlls i ciò che dà alle mani ». Macchiav. E come
e vedeva i nemici in posa, nuovamente ridava all'ar. Ino ». Bart.« Il colore
del tuo abit dà che si fornaio ». Cav. 'Inostra, appalesa – verriith).Diamo che
a casa vostra nulla deloba arrecare di pregiudizio l'iniIni cizia divina. Diamo
che col malvagi conquistamenti voi la dobbiate eter 11are. Diamo i le le
lobbiate a l escere credito, aggiuli:go le autorità, a qlli stare a dereilza:
vi pal' però che vi torlli (olllo di farlo? ». Segll. Coil ed la II 10,
assentianro) t439.« Per la qual cosa la confida:izi dentro le dava pe: lo fermi
o li e la pure si convertirebbe. Cav. i 10« Non mi dà il cuore di venire il
cilielli o con sl potlºrosi nellli i n. Segn. 441.E vi dà il cuore di
lasciarveli sta, e nel Purgatoriº piu lungamente?» egn « La mia coscienza non
mi dà di piacere a Dio ». I3ari. S IVARE IN NEI.: a Essere venuti
quatti quattº pe; tl a getto di mare per noi dare in chi gli pettoreggi. cacci
e prema.... I)av. gerathen).Il sali o, facendo intramesse al ra. colito, dava
in affettuose preglio re ». Bart. prorompeva.a Ma su, fingiamo che abbiate
tiato in amici di lor natura piu libera li.... ». Sogindovrà egli dura una gr
ali fatica per mandarla a live) o a r Inter e in uno scoglio, o ad arenar lolle
secche, o a dare nei corsari ». Da V. « Allora Sonzio fece dar ma corni, nelle
trombe: piantare scale, salire al bastione.... ». Giali) b.“..... i quali,
quanto prima videro i nostri, diedero tutto insieme in corna e tamburi e grida
disso! la ntissimi e all'usanza dei barbari ». B: rt. a l'erò qualvolta voi
scorgerete alcune persone che volentieri in luo gli tali convengono a
trastullarsi, dite pur senza rischio di dare in temerità, dite che...... ».
Segm.« Allora il Bonzo, dato in un rider sboccato, volse le spalle ai Padri
C..... ». Barf. (442). T).AIRE I)I l NA (()SA IN, PER.....: a... e, dato
dei remi in acqua, si rili se', al ritornare ». BO. a... comandò che de' remi
dessero in acqua ed andasser via ». lRocc. a Se...., io gli darei tale
talmente) di questo ciotto nelle calcagna, che cgli si ricorderebbe forse
un mese di questa beffa, e il dir le parole e l'aprirsi e 'l dar del ciotto
nel calcagno a Calandrino fu tutt'uno ». Bocc.“..... e inginocchiavansegli
dinanzi e dicevanº: Ave rex Judeorum, pro fetizza chi li percuote; e davangli
delle canne in sul capo, tanto clie le Spille gli si ficcari no insino al
cervello ». Cav. «... le dicevano l'altro suore: e verrà a 1 e Eufragia e
daratti del ba stone. E in Illantille lite che la ll dl va ricordare Eufragia,
cessava il dia Volo (li tol'Illentarla a. (.a V. “..... poscia a se ne
disino die di un coltello per niezzo il ventre e.... ». l)a V. « Cielò ll
llll Inedesimo per timore e avvampo per rabbia, e dato barba ramente di un'asta
per mezzo il petto a quell'infelice lo squartò ». Bari. «.... Si chè,
(Itlillido venne l origine e diede della lancia per lo costato e si a perse il
cuore del corpo di Cl isto, il s a ligu, li us i fuori tutto ». Cav. «... vi
possono dar su di spugna liberamente i pittori sopra un qua dro, ». Segn.
A 13. |) \ IR PEIR A | EZZO) (l, li... (alla e mi l un ct, ct mi scot
ciertt. - - - - - ond'è conseguentemente il dare che la lino per mezzo a tutte
le l"il bill leriº ». Bari. «.... le altre filsto dessero per mezzo
delle nellll ll, il V Ve!ltandº i fuoclli e ſerell (lo (l'ast:) o (li Ill (Selletta
». l 3ii l'1.“..... Inl egli la diede per mezzo alla si apestrata e senza
ragione ». I):av. • I) AIR V ()I, I'E: a Tu dai tali volte per lo letto,
che.... » lº i c dimen trsi. a Messa la chiave nella toppa, dandovi da quattro
a cinque volte, l'aper se e....» (i Ozzi I ) \ E SI () I RIPI E I) \ N NI
IN... e simili Dava ilì ogni cosa storpi e danni al lilli li I); v. « Solo coſa
li scioperati che noi: sanno la l' altro e le illeli:ì 'e la font ini, e
e dare storpi e danni nella fama altrui. » Ces. l.Alt E I E SPALLE collar
le spalle o I)all'aiuto di l)io e dal vostro, gentilissime don me, nel cluale
io sperº. armato, e di buona pazienza, con esso pro ederò avanti, dando
le spalle a questo vento (della mormoraziolie e lasciandol soffiare »
Roce. I) \ IRE STIR A MAZZATE: e.... i quali cavalli in quel terren il
sangue loro e di loto molliccio. davano stramazzate e sprangavan calci.,
Dav. DARE PIRES\ a, di... (dal pretesto, motivo: dare appicco -
reranlassen, « Vero e che queste osservazioni.... daranno presa al lettore
svagato e malevolo d'affibbiarmi un altro bottone che però non mi farà
troppo noia avell (lo l'occhiello. » (iiub,DARE CARICA AD UNO DI Q. C.:
«.....lo Volle seco...., lo colmo di onori e linalmente gli die carica di VI i
eri. » Balt. DAI BRIGA (sich michts aus Eturas muchen): « Ne anco Imi dà
molta briga se, per compiacere a un amico, ho dato da dire u molti curiosi. »
Caro. I)AR NOIA A... Ed accordatisi insieme d'aver per giudice Piero
Fiorentino, in casa cui lano, ed andatiseme a lui e tutti gli altri
appresso per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli
raccontarono. » Boce. DARE GRAN VISTA) (sich schòn, gul ausnehmen -- onde
vistoso): « Tutto va in delizie, in piaceri di musiche e d'odori, di portar la
Vita con grazia, di vestire abiti che dànno gran vista. » Part. appariscenti,
I) ARSI IN (ERIE(.(XIIESSIA, A (III (CHIESSI A (applicarsi, abbandonarsi
t...): e Calalndrilio, Veggendo che.... si diede in sul bere. » Boce.. si
diede allo studio e della filosofia e della teologia. » Bocc. I ).AIRE
NEL MIC), NEI TU () In mein Fach einschlagen –- in casa mia, nella mia bev (t:a
Voi date proprio nel mio: l entrare in discussione intorno a questo [. lll tr.
» (es. - I 3:ì l'1. l3. I ) \RI (III: IRII) I 13 E (da e male riut dal
ridere: e Diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che illlllo v'era a cui
non di lessero le lnascelle. » Boi ('. I) AIVE I MOLTO BENE I) A MANGIARE
ecc. a A te sta ora darmi ben da mangiare, ed io darò a te ben da bere. » Bocc.
a Dar molto ben da far colazione. » Fiel'. I ) \ IX I ) I CC) LIP(). I )
I CC)ZZ() (in... ('('('.: - - Si scagliano di anci, il verso lui e Vanillo a
dar di colpo sopra i di rupi del fondo, dove s'infrangono. » Bart. “..... e V:
Illasi a dar di cozzo in una ville. n Bart. I).AIRE | ) I SIP.VI.I.A: º
Adoperò la sua Madre, che già conosceva assai disposta, a dargli di spalla n. a
S. Luigi per indurre il Padre a...). Ces. I) A IRE I)I SCI() (CC). I )l.I.I l
IRIETICC) ecc. l) Al l I)I IR E, l)| (()NT E e il lilolo) di “Se mi
avesse l'o (ld lIo so clic m'avrebber dato di sciocco il vulu l'e che l'oratore
sia di necessità legista e filosofo ». I)av.benche gli tolgon ) ogni appiglio
di darmi dell'eretico e del miscre dellte. » Giul).Non vi do di signorie, per
le, quando scrivo a certi uomini che sono uomini daddovero, soglio sempre
parlare piu voleliti ri a essi medesimi che a certe loro terze persone in
astratto. » Caro.« Augusto si trovò questo vocabolo di sovranita per non darsi
di re, nè di dittatore. e pur III ostrarsi con qualche nome il maggiore. » Da
V. I ) AIRE AI)l)| | | | | () (ilira si, in limorirsi, sbigollirsi Sich u
b Schrecken a Vinti dal timor della morte, davano addietro e rinnegavano ».
Bart. I) AIA NE' IRI LI, l vale sulla e', i lazzare, r. Scherza) e,
saltare, Prontuario): « Ora è ben tempo, soz I, I)a stare allegramente, E dar
ne' rulli e saltare e cantare l'er questo rovinevolo accidente. Buon.
l'ier DARE VDOSSO VI I NO, VI) (N V Cosv (investirlo con parole e con
jalli - angrºijen, sich re g 1 e il n. 444 ): con le fa un ser it, che,
vedendo l' - le sue l e al cosi il gulal dia. Colì a ver le bagaglie
abbandonate, non quello investe ma dà adosso a quelle e fallì (Sllo bolt Ill (n.
l)il V. I ) \ IR E AI ) (SSC) \ I ) (N I \ V () IR ) significa: alle mele
ri con assiduità). I ) \ I RI SI |.I.A V () (l V | ) \ I,(il N (): Diasi
pur sulla voce al presuntuoso che sale - ha o ha i ed io di... » IDa V. « Io
conosco un auto e a cui per questo peccato si diede più volte sulla voce e,
sventurata nel. e, n loro profilo. » (iiill).IIa i sentito come mi ha dato
sulla voce, con le so avessi detto qualche sproposito? Io non ne n solo la tio
caso punto ». Mlanz. – E' Vgnese l r r l le ricorda a Lucia (lulei
ripiglio sgarbato della signora i 15) I) AIRE A VISI) EIR l, l) \ I l A (IRI,I
) Il RI: «....e dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare, che
andar voleva alla perdonanza.... » Bocc. « Fra Alberto dà a vedere ad una
donna che l'agnolo Gabriello è di lei Innamorato ». Bocc. Conf Far vista,
far sembiante, far veduto - sotto fare). 1)ARLA TRA CAPO E COLLO (sentenziare
di chicchessia o checchessia senza pietà, senza alcun riguardo, con poco senno
ecc.) – l)Ali DI MANO, DAR DI PIGLIO: «... die di mano al coltello
e sì l'uccise ». Pass. “ Noi per questo, dato di mano alla rivestita
ampolla, col marchio.... ce l'andammo.... ». Alleg. « Lo duca mio
allor mi die di piglio, E con parole e con mani e con enni, Riverenti mi fà le
gambe e il ciglio ». Dante. «... i più severi centurioni dànno di piglio
all'armi, montano a cavallo... » IDaV. « Draghignozzo anch'ei volle
dar di piglio ». I)ante. DARE I TRATTI (essere allo stremo della vita: «....
braino che ella, che nelle sue mani dava i tratti e boccheggiava, nelle
mie basisse, spirasse e intrafatto perisse ». Dav. «... e incominciò ad entrare
nel passo della morte e dare i tratti ». Cav. 446). Note al verbo Dare
437 – ll dare di questi primi esempi torna sottosopra ai verbi: bat lere,
percuotere, arrivare, colpire, cogliere ecc. Prova, recalo in altre lingue, p.
es. in tedesco, e non lo potrai far meglio che usando le voci proprie:
schlagen, elnschlagen, klopfen, gera then ecc. ecc. 438 – Dànno su per
una scala è lo stesso che: fuggono, si diſilano. Dare o darla è spesso verbo di
moto, nota il Fornacciari, e ac cenna per lo più a un moto violento e quasi di
urto. 439 – In questo caso anche il tedesco adopera il suo geben (zu
geben); anzi è la forma di dire ordinaria questo: vir geben zu, per:
concediamo, accordiamo ecc. 440) – E' appunto l'einreden ed anche l'eingeben
dei tedeschi. 441) – Simile anche il modo: dar l'animo (Conf animo, Parte III).
442) – Aggiungi le maniere consimili: dare in vacillamenti, in ver
tigini, in frenesie (Segn.); lare in escandescenze; dar nelle gi relle, nei
rulli; dar nel ge mio ecc.443 – Anche il modo: dar di morso a.... va annoverato
qui: « E lu darai di morso al calcagno di lei io. Ces. (Et tu insidia
beris...). 444 – « Dare adosso ad alcuno, figuratamente, vale anche
nuocergli COi detti, co Cattivi il flizi... (il) el'ardini. – Simile al detto:
l'agliar le legne addosso ad uno. – « Tal ti loda in presenza che lontano
Di darti addosso bene spesso gode o. Leopardi. – Nota altri modi con questa
voce addosso: andare addosso a mimici - I bav: l are un processo addosso ad
alcuno (Bart. - DaV.) ecc. 445 – I)are sulla voce è un riprendere, biasimare,
censurare, chia rnando all'ordine per vie indirette, per certi segni, avvisi,
ml Ila/CCe GCC. 446) – Dicesi anche: fare i tratti, e pare che
significhi, anche questo, dare i tralli; cioè agonizzare:... e la Madre e tutte
le altre stettero chete, in silenzio, mentre Gesù faceva i tratti e pas (sava
di questa vita o º av Fare Lascio le dissertazioni intorno a questo
verbo, e mi faccio subito agli esempi, non trascritti dalla Crusca e d'altri
Vocabolari, come fanno ecelli compilatori di grammatiche e dizionari dei quali
tutti, quando presi a lavorare questo libro, io non avea nozione alcuna –, ma
colti, al solito, nei migliori autori, lilli da me diligentemente cerchi e stu
diosamente analizzali e sviscerali. A maggior chiarezza di idee e ad
agevolarne alche meglio lo studio. distinguerello sei ordini liere di
lare: la - che sta per quali il tre altro verbo dianzi menzionato. IIº -
aggiunto ad un indefinito sì come vezzo od ornamento di frase (il pianger che
faceva, che vede a fare ecc.IIIa - a valore di esse e o così che potrebbe stare
anche essere (esser ll lile, esser buono eI Va - ad uso di varia
significazione, cioè in luogo e forza di uno dei verbi: giudicare, ripulare,
ottenere, conseguire, importare, fare in modo, passare, renire (parlandosi di
piante).Va - pronominale farsi) e col significato di inoltrarsi, sporgersi, af
facciarsi e simili.VIº - finalmente, ad usi diversi e come parte di questa e
quella frase, cioè a connubio di altre voci e di un significato inseparabile
dal medesimo. (449). --- -- I. «..... onde ella amava piu te e
l'amore tuo, ch'ella non faceva sè me desitna. » CaV. (450)« l?el lo
co.municare ille,iorire s'avventava ai suoi, loll all l'illelit I che fac cia
il fut.co alle cose urtte. » l3o.- - - - - che io ho trovato dolllla (la III
lto più che tu non se, che li leglio m'ha conosciuto che tu non facesti. »
130cc.« Il cuore non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si
risolves se.... ». Bocc. «.... le dice che se ne guardi; eila noi fa e
avvienle. » I3 a « Quantunque quivi così muoiono i lavoratori come qui fanno i
cittad. ( Figliuolo, Messer (ieri non ti manda a me. Il che raffermando
piu volte il falinigliare, nè potendo altra risposta a Vele, 1o 11, in (ieri e
sl gli li dis se: – Tornavi e digli che si fo ci re: che ti mando. – Il
lamigliare, torna a to, disse: –Cisti, per certo Messer (ieri mi manda pure a
te. Al quale Ci - sti rispose: – Per certo, figliuol, non fa ci e, non mi ti
manda, o Bocc. « I)i spettacoli e d'ogni maniera divagamenti non potea
pur patir di sen tirsene dir parola e partivane coli quel disprezzo che altri
fa delle cose Sozze e della Dl'll tll ra. » (es. a.... e percio' che
amore merita più tºsto diletto che afflizione a lungº andare, con molto
maggior piacere, della presente materia parlando, obbe dirò la Reina, che della
precedente non feci il IRe. » Bocc.a non meno la grazia (i a Inor del Soldano
acquistò i l suo bene adope rare, che quella del (..italano avesse fatto, i 13.'I'll
ci il celll quasi coine se noi non conoscessimo I l 3 a 1 con i collle
fac ci tu. ) Bocc. a.... li quali per avventura voi non conoscete come fa
egli. » Bocc. Itil V Vedeti oggi Ill:li e torna ll II 1, coiile tll escº l' -
le Vi, e non fa l' far beffe di I e ti chi conosce i filo di tllo come fo
io., B º a Tu diventerai molto migliore e piu costumirato e piti da bent
la che qui e non faresti. » Bocc. a... e nol credevano ancor
fermamente, nè forse avrebbe fatto a pezza (indi i lì0m molto), se ll: l
caso a V Velllllo 11oIl 1 sse ch'e lor cllia l' elli fosse stato l' ll
cciso ». 130cc. e prega V: i lil. Inolf (ll II, il III trite ch'ella di V --
andare il lil 1 l 'a sua, com'ella prima faceva, e molto piu..... m (il
V. a Quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio, ad perare, che
a fatto non avea il: altra parte. » Bocc. Ed ecco venire in camicia il
Fontarrigo, i quale per torre i panni come a fatto avea i dalmari,
veniva..... l3o a... non v'è oggina, chi ad un amicº, terreno non creda pil di
quello, che faccia a I)io. » Segn. a I)avano vista di non tener più conto
di lui, che si facessero degli al a tri. » Balºt. Ces. « Ma
veggiamo forse che Tebaldo meritò questi cose? certo non fece: voi
medesimi già confessato l'avete. l 3o. a Niuna cosa è al mondo che a lui
dispiaccia, colme fai tu. ) 13 r. 151 a.... ilſſuale non altrimenti gli lol
corpi cali di li nascondeva che fareb be una vermiglia rosa un softil
vetro o Bocc. « Come suol far bene spesso molti altri, non m'ingannava.,
Fier. 1t)Non potendo egli per le sue malattie intendere agii studi quanto
face vano gli a Irl, º d egi I l Istora Va Illesi e il 'dite coll..... »
(.es. a Dio tranquillasi assai piu ti sto che in li fan l'onde di turbata
peschie a ra al posar (l, vei iti. » Salv. a Amatemi coln, io fo Vol.
(io/ zi. ) ! e Cosi l i poppavano colti i madre avrebber fatto ».
lSocc. S'io mi conoscessi così di lieti e preziose, ci rime io fo
d'uomini, sarei blloli gioielliere. I,il Vlati II. Ed era si gri il de il
percuotere che facevano il Sielli e le lololar,, che slavi, la V il 110 Il loro
o il il iie l relli.Nel fuggir ch'egli Assi i lill ta faceva lie, una foltissi
Irla sei vil, gii in cell le ll ' la g 1, l. 1 Isg, i Zl: 1. S - li.l'el Issa i
cori e se li 1, l su tv li intendere e del guardare, ch'egli i' leva ch'esso
facesse le,i di 1 min. 13,.()n l'e (olls gli::. in l. ii dare che fanno per
mezzº a tutte le ribal (l, l' e.....! I3: il t.Qlle rigoglio dal scperchiar che
fanno le linesse de gli il ll ' (ssell (lo 'll - I ll. (..:Per esaminar che
facesse egli in desino, ogni azion sua..., con quella Sotlill-siIrla a ' ll
ratezza º le farebbe ! l... I l di pill roso e maie a milm:a “ to........
!! (sali 1,3; - Il III ore il plli ſi te e il martellar che faceva
il povero cuor di l.u cia.! Mla liz.pero che tro) po lisa: il si logorava a
disciplina del santo, la l'ecò il pit l i-erlo, si illo e Irl) Il lt, il
battersi che facevano con alcune a discipi ille, o il de ci si ill si Vºle, tl
a V a Ill quella dei santo.... Dari. a... al Illale il saporito bere che a
Cisti vedea fare, sete avea generato ». I 3 mcc.« I)a (Illel ol'l'el' che gli
viddero fare il lla volta (ll... I3:l rt. colll'elera il d a loro, per venir
me: io dissecar che questo faccia, non perciò se lº svil I llia.. ll::lzi... »
13 arb.I l piangere che lo l il re in teneriti fino alle la grini e vedevamo
fare al mostro fratello, ci reco ad altri pensieri, e avremlino a condisceso,
se non clie...... a I3: l l'1. Ne I llli loro a spe, e ne vide i gli
eletti, quando nel darsi che fecero per lo mezzo dei barbari, mist ro tale sp:
vento... ». Iºart. il l. Il liv fa l la teli per atissima stagione di pri
Il l: i ver, l.. I 3: l...... ll vi fa lin'. I l la derisi e greve º I ai t. )l
re a ciò al spiaggia di Malacca fanno venti freschissimi, o l'art. l'etiche, a
ragione di tr Inn ti che vi fanno spessi e gagliardi, esse « (case) non abbiano
il mio volte sopra al chi. » l?art.a Ben so che per te farebbe di lasciare il
vincoli e li poso della carne a e alrdarne a Cristo ». C: Vali.. io -il ebbe il
lile).e Niente ha i sapor di biada e perciò tu non ti fai a me, nè io mi foa te
». Fav. Esop.« Non fa per te lo star tra gente allegra, Vedova sconsolata in
veste negra ». Petr.Fanno pei gran disegni e mutazi e Ilori e da la dare ove la
posa piu ti rovina clie la tern rità. » I)ava zMa perchè nell'acqua chiara ! !
- i lig lio la l et le ia V gg li: la torbida fà per chi gli vilol piglia ',
III: ng ſare. l)avanz. Noli può fare li Ill re: I l e - - al 1ori la lol (III
il tal11:1. Sºg Il ..-e egli dice, N 1 il por io può fare ch'ei rion si p
it, e se n'esce ri le 'le, quell'avel tº Inlito gii accresce il dl!. » Da
V. in quanto piu' alie d ' Iº che agli uomini, l' I, olto parlare e ling
o quando senza esso si possa fare si disdl Bo 155 l Ia' tll a Irli
in olii o li or fan sedici anni, i l... (l Slla V a 56 IV. a Suo cimitero
di Illelia part la lino (1 Epi:ll'o ti 111 i su: i seglia - e ci, (le l'anima
col corpo morta fanno. » l)a 1; e I epili i go, suppongo io, giII il 1 a
1 Ma il popolo che vuol ci ala e il faceva chiari at ali adozio e, a I) avanz «
L'anſica III e Imoria fa il torri pi di icato dal..., I): v.a La tua loquela ti
fa mi i lifesto manifesti rien! Di qui la riobi! pa tria nati. Alla quale lo sa
lui troppo mio' si o I): inte. i s'ipno, ti appalesa – verráth dich.a I),
Pietro in ritiro a Solo quel divario era oli e la S. Vg -tillo faceva da Fausto
Manicheo si primo mi:i stro: S. \ mily g io. L'uno tilt 'tori e leggerezze, l'a
lt) o frutti e -: il lezz' o I): V. Lc fo partito per di qltà ». Fier. a Dunque
hai tu fatto lui bevit re. e V., o di siti - 'e gli dai taccia) Colli i clie ha
il ll ll gli fa l'i....... 11: li l 3, i ll l 1:1, Illeſ le co; to fa
lrlestitºri E questo fa cli: i lio: e Itil, i ni li stili lo i libri li. (s.
i Mla poi li è 11 11 si | lo fare i lic lºl - 1, ' - ri - i l. 1,,, l a
dio alcuno, nè posso - I gri e 'a e l' a i 'tr... ll ' Ina - - a ledir
Cadmo e chiunque fosse altri di quelle teste matte che ritrovarono a questa
maledizione dello scrivere. » Caro ottenere, fare a meno) « Mentre
che.... io non poteva fare ch'io non mi doleSSì almaramente. » Fieren.
rate che al nostro ritorno la cena sia in essere. » Caro fate in modo,
procurate) I)eh se vi cal di me, fate che noi se ne ineniamo una colassù di
queste papere. » Borg.e perciò una canzone fa che tu ne dici qual più ti piace.
» Bocc. l'areva che non ti l'i sole, il la a Sinigaglia avesse fatto la
state. » lºo:. passaio, trascorso (ono fatto fù ii (li chiaro verso la si dl
lizzò., Bocc. | - Il sul far della lotte e presso della torricella nascoso. »
Bocc. 157) l'altra urla de l'en li colli l?olna li.... Susilli non se lº
cura; fanno per tutto, purchè grasso vi sia. » I)avanz. Colne ogni altro frutto
tra piantasi il noce: fa per tutto viene adagio: dura assai: appirasi
agevole: la ombra nociva, onde egli lla il nome, o Da V. 458) V.. Il
quale come egli vide fattoglisi incontro gli die lel viso un gran punzone. »
Boc i 150. « Onde non è mai raviglia, che la llclo, la lit I anni al
presso come si e det to, vider co'a ll no della compagli 1.1, gli si facesero
tutti incontro a domall darlo del loro padre, e se v'era speranza di mai piu
rivederlo ». Bartoli. « Chi volesse cimi (1 lt; lr sl lol a V i rl facessesi
innanzi a l):ì V. « Ma ancora aspettano di dirle altro, e fannosi innanzi, e
mettonle un cotale pensiero. » Caval.a e allora si leva rollo costoro, e il
maledetto Giuda si fece innanzi, e ba (“iolla) e disse. » (a val. a Ver me si
fece ed io aver lui mi fei ». l)a lite, Non posso farmi nè ad uscio, nè a
finestra nè uscir di casa, che egli incontamente non mi si pari innanzi ».
Bocc.« in vista tutta sonnachiosa, fattasi alla fenestra, proverbiosamente
disse: chi picchia laggiù? » Bocc.« Fattoni in capo della scala vidi e sentii
tutto ciò che passò tra loro. » Bocc.« Spinelloccio è andato a disinare stamane
con un suo amico, ed ha la a donna sua asciata sola, fatti alla fenestra, e
chiamala, e dì che venga a « dosillal' coll (esso lì oi ». ROC Cº.« Fattosi
alquanto per lo mare, il quale era tranquillo, e per gli capelli a presolo, con
tutta la cassa il tirò in terra. » Boce,a li contemplava dalla riva in lotta
con le onde, perchè da oli passion « Inosso fattosi alquanto per lo IImare,
dopo Illolto affaticarsi, li l aggiullse, a li prese entrambi per le vesti e
tirolli a terra. » Bart. « Così senz'altro dire, la buona quaglia
starnazzando l'ali per ia gabbia con più empito che poteva fece tanto rumore
che il padrone senti, e fattosi e alla fenestra cacciò via lo sparviere. » Fi(l'enz.
« E facendomi dal primo dico.... ». Ces. 460). a Fatevi con Dio, e di
Iile non fate ragione. » Sarch. COllſ. l' 1 rte I. Ca po III.) a Fannosi
a credere, che da purita d'animo proceda il non saper tra le « dolllle, e co'
valelnt'uomini favellare. » Bo -. 161« Il che se la natura avesse voluto, come
elle si fanno a credere, per al tro Inodo in Vrebbe lorº limitato il
cinguettare. Bocc.« facendosi a credere che quello a lºr si convenga e non di
sºli a che al e le all re. » IBO(''.« I vestimenti, gli ol'namenti e le caliere
piene di superflue delicatezze, le quali le donne si fanno a credere essere al
ben vivere opportune o Bocc. « Ma questo io mi fo a credere che fu un giuoco,
l'n tranello, un lavoro « l)i quel malvagio | risto!.... » Buonar.e Pognano il
torto a tua gente, la quale molestando i paesi pacifici, si a fa ad uccidire
uomini, bruciare templi, sparare donne, sforzare vergini!...» Lett. Pap. Nic. «
Chiunque si farà a considerare quanto..... !!, (l'ulse: i « La vide in capo
della scala farsi ad aspettarlo. ) Bocc. VI. FARE COL SENNO, COLL'
UMILTA' (e simili. 462). (rl lidogllerra ebbe morire ed in sua vita. Fece col
senno assai e con la « spada. » IDante« Fd ella incontalmente lasciò quella
risposta, e prese conforto e disse: e io farò come la Cananea, coll'umiltà e
coll'improtitudine e colla perseve « ranza, pure per avere da lui misericordia,
perocchè m'è detto ch'egli è tut « to benigno e misericordioso. »
Cavalca. F VIR SENNO (53). « Senno non fai se llor: lla i telli ſi gli
Idi. » l)ittaln. « Meglio di beffare altri li Vi glla rderete, e fareste gran
senno. Bocc. Fl\l8 RAGIONE (che..., di..., con...I. Ma io fo ragione che
i nessi tornassero tutti affrettati, e dissero: ve « duto abbiamo che questo
maestro è testè passato per cotale contrada... » Cavalca i 464)« Allora domanda
consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo « andarti molto prospere,
e fa ragione che tu se' atto allora a sdrucciolare. » Martin Vesc.rai: e
Ora per non i petere.... io fo ragione di non tenere un disteso ragiona
lIlCl1to. » CCsari. « E peroc he.... fece seco ragione di rimandarmelo ». Ces.
« Ma volentieri farei un poco ragione con esso teco, per saper di che tu e ti
rammarichi. o lº intenderIileia con..,« E pero a te, siccome a Savio,... ti convien
confortare, e far ragione che Inal ve lli: a 11 mln l'avessi, e lº si lalia a
indare. » I30 c. 465)« E - I fate ragione, che pe: quellito egli potra, Sara
Selmpre il primo a a rovesciare sopra di voi la sua colpa o Segn.lº co; i forni
1 e lo ch sll edette allo sventurato Saulle fate pur ragio « me, l tito:i, che
avveni del bri a tutti i peccatori. » Segn.« E in esso luoco, fate ragione che
il Signore venga a purificar quelle anime, quasi lentro un cro, illolo
terribilissimo, finchè depongono tutta « l'antica storia. » Segn.E pensonni che
Gesti i Marta disse: fa ragione che tu mi vedessi in a ferino, come si mo.
-toro, hº giacciono qui entro, e in così gran Drsogno, « pensa quello che li fa
resti a ine, e fa a loro ». Cav.« E però dico che i lutti l sua sollecitudine
pose di far bene l'ufficio, che a le era dato di lui, il quai ella vedeva che
tanto gli piaceva, che poneva in sè la p rsona e l'era se: vita. Ed ella cosi
faceva ragione di non partirsi a da lui punto; e qua:ldo serviva il povero e
l'infermo pareva a lei servire Cri e sto nella sua persona, o (v. a E fa
ragione ch'i' ti sia sempre allato ». l)ante. \ V EI ) l I () - – I VIR
SEM1 I \ V IS I \ \ V IS | | | ) | --- l' A | 31.VN Tl....., ella a tal -
i vitiche1ia, facendo vista di non avvedersene anda va i colti e in colite- io.
Boa l l' allora fe vista di: andare a dire all'allergo che egli non fosse
atteso a en I, p. I d p moltº ragionamenti, postisi a cena, e splendida In nte
li riti, va i se viti, astutamente quella menò per lunga fila al l: il l -
lll'a. » l oe l'appa ma i ti r; parevano molto religiosi e molto costumati, e
gran vista facevano di cosi essere ». Cavalca (66).l'il, l'io li in voi i 1. ll
scostarsi da Itolina, e ogni anno faceva le vi « sto li voler visit lº serviti
e le provincie. Mettevasi a ordine. Ineve vasi, fermavasi, o, ivi in inet,
orire la ti gallo, onde di evano gallopiè. » l):n V:ll 17. a E fatto
prima sembiante il sere la Ninetti messa in un sacco, doverla a qu. te t - il.
1. Inizzerare, se la rimeno alla sua sorel a l:n. » i 3 t. E quando i s
rso i litro fecero sembiante di meravigliarsi forte. » H3 ).. Fatto adunque
sembiante d', li conoscerlo, gli si pose a sedere a pie a di.. I8o.« Quindi
vicini di terzi levatosi, essendo gia l'uscio della casa aperto, a facendo
sembiante gli vs si a' tr Inde se ne salì in casa e desinò. » Boceº -.... e
cosl ad Andreuccio fecero veduto l'avviso lol'. » Pocº. 'diedero a vedere, a
conoscere) 467, FARE AI L'AI TALENA, ALI..\ IP.AI.I.A, A I.I.E (..AIRTE,
AI.I E (I ) I, TELLATE, A SASSI, AL MAGI IO, (e simili). a e per vilificarsi
faceva al giudo dell'altalena. » Fioretti. « QuiVi si fa al pallone, alla
pillotta. » Lippi 468) « Noi abbialno carte a fare alla basetta. » Cant. Carli.
« IDicesi che c'era un tratto un certo tempione, che si trovava un paio di si
gran tempiali, che facendo alle pugna con chiunque si fosse..., non si a poteva
mai tanto riparare che ogni pugno non lo investisse nelle tempia. » Caro.«
Siccome, se tu fossi nato ill (il e ia, dove e corrottºv le esercitar l'a rti a
In e cora giocose, e gli Iddii ti avesſero fatto nerboruto coine Nicostrato, iº
non « patirei che quei braccioni nati a combattere si perdessimo in fare a
sassi a o al maglio, così ora dalle accademie e dalle scene ti richiaino a
giudizi, e alle cause, alle vere battaglie. Dav.« E' facevano al tocco, per li
avea a Inter: 1 primo di loro. IBllonerotti. (469) FARE A CIII PIU'....:
FAIRE A FARE CII ECCIIESSIA a gara – um die W ette). « i quali con altri
magistrati fanno a chi più adula. » I)av. « Ma lldendosi allora ()tone e Vitelio,
con iscellerate all'Illi, fare delle cose) umane a chi più tira.... ». I)a V.a
che è quanto dire che più di mille e mille lingue fanno continuamen a te a chi
più squarcia il buon noi, e degli innocenti. » Giul).« Vennero subito gran
guantiere colme di dolci, che filro presentati pri « ma alla sposina, e dopo al
parenti. Mentre alcune monache facevano a a rubarsela, e altre complimentavan
la IIIadre, altre il principino, la bindes sa fece pregare il pricipe che.....
Manz. ſ'.ARE A FII) ANZA, V SI(U IRTA' con..... a perdonatemi s'io fo
così a fidanza con voi. Bocc. « Coloro che fanno a sicurtà colle riputazioni e
per sin colle vite, non solo (le” cittadini, ma.... » (iilib. FARE ALLE
PEGGIORI con i contenersi, governarsi nel modo peggiore) « Augusto senza dubbio
inizio l'I: neilla a fare alle peggiori con Agrip a pina. » Dav. « Egli
tanto più il 1 furiava, e facea con tutti alle peggiori, fin lì è il re
il a Inandò cacciare come il Il ril):I l I liori li pii l:ì gi. »
I3:urt.FARE A MICCINO: consumare, od altro, con gran risparmio. Miccino vale
pochino e a muccino a poco a poco. 170) FARE A SAPEI? E a crerti, e,
ammonire e simili. « E quando tu la intenda altrimenti, io ti fo a sapere da
parte sua ch'egli « Sala tanto (Illa Into e ispetta a Sua Maesta. » Fier.
FARE DEI. SAVIO, DEL SUPERBO - I)I.IL PAZZO -- DEL BUON COMPAGNO –- DELl. UOMO
e simili da sl l'aria... den gelehrten spielen ecc).Allora il corvo, che tacea
del savio e dell'astuto prese carico sopra di e - d'esserne (il re... o lº le reliz.«
Il che udendo la testuggine e volendo far del superbo anzi del pazzo, « senza
rico: darsi dei e aminionizioni datele, plena di vanagloria disse.. » Fier.
Volelrd, far dell'uomo essendo lo stie, Illalrdano llla e e rovinano « non
stilainelli e.. » Fiel'.« Ho fatto tanto del buon compagno che me – il lio
acquistati tutti. » Caro. FARl, \, FARSEI, A CON contentarsi.... stai con
lento a....). e Domandò come Silv: la facesse, quello che fosse della moglie
e.. » Fier. « Se la faceva la miaggior parte dell'itino all'usanza dell'Indie
con riso; e e quando piu sontuosamenie con in poi, d'erbe condite sol di ior
mede « Sime. » I3art. FAIRE I,i,() V.. l) il liut ) Ni lºrº in l. FARE
ILE BELLE PAROLE e simili. « acconciarsi le parole in locca. » l80 parlare
lorbito, in quinci e quin di ecc.)« Ed ella, facendo le belle parole,
rispondeva che le era a grado assai, ma « la dimora, l'eta, l'ufficio.... e º
no pur cose (la polmderarsi.. » Fier. FAI? FORZA AI ) A I CI NO) – FAIR
FC) I Z \ l)l Q. C. I 'ARE I)i FORZA ci avvisò di fargli una forza da al ll ma
l agioli colorata. » Bocc. « Colnili ciò a gridar forte: Aiuto, aiuto, che
conte d'Anguersa mi vuol far forza. » Bocc., il « La reina faceva ai giudici
forza dell'appello. » Dav. « sa tanto ben ciurmare che incorrendo in contumacia,
turbando posses a sioni, e facendo di forza, la cagion gliene comporta.... »
Bocc. F AR M1 T TO AI) ALCUNO (v. Parlare Proml.). 'FAR FALLO A abjallen). a
donne le quali per denari a lor mariti facessero fallo. » Bocc.F A R CONTO
DI... CHE (daraui gefasst sein, sich cturas u oill be mer ken – bedenken
ecc.).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui, trionfali dolo ill lor
stessi, a e faccian conto che i pericoli passati son minori di quelli che
sopravver « ranno. » Bart. e sappiamo che...., e sian prevenuti che.....,
e ponderino bene che....) a Dunque dovrò starmene tutto l'inverno tra
questi geli e durare si lun « ga fatica...? Fa tuo conto. » Gozzi a Le
saranno adunque, ripigliava il ragazzo, candele? Fa tuo conto, diceva il
padre, le sono appunto candele. » Gozzi. FAR BISOGNO A. Q. C. a e
le nozze e ciò che a festa bisogno fa e apparecchiato. » Hocc. FARE AI)
ALCUNO SEI? VIZIO IDI SUE I3ISOGNA Bocc. I)av. I3art., I ARE CEFF ().472.
a farebbe ceffo a questa fiorentilliera che cosi le propri la nostre
appe. con barbarisino goffo e sllo e cellsll rel'ebbe così. I a V.
l'ARE ACQUA a Cercar di al III la sorgente ove farvi buon acqua. I3art. Fier. a
poi ripigliò: forse il dite perche quella nave qui una volta fè acqua. »
l3al rt. 473; I AI? CARNIE: I n di ch'ella acquiia, era ita a far carne.
» Fier. º e Ini venne veduto quell'iniquit so giovane colla spada ignuda per
ogni canto far carne, e gia giacerne i suoi piedi tre, tutti imbrodolati di
sangue, che ancor davano i trat..... » Fierenz. | FARF II. TOMC) Conf.
Cadere Pront.. FAR CERA (da Kairen). “ lo indusse a....., a far gran cera. »
I)av. FAR GREPPO quel raggrinzar la bocca che fanno i bambini quando vogliono
cominciare a piangere) Crusca (474)FAR GESU' congiunger le mani in atto di
preghiera – vive in Toscana FARCI II, CAP().- FAI? E TANT ()Farci il capo vale
averci pensato tanto o pen-acchiato o provatosi di pensarci, che nºn se ne
intenda più nulla, nè anco le cose chiare e che si vedevano alla bella
prima.Fare tanto di capo vale sentirsi stordito o da pensieri noiosi o da mal
CSS el'e o da rumori.M'avete fatto tanto di capo, dicesi ad un uomo parolajo
ancor che ne in parli a voce alta, purchè coºfonda ed uggisca la mente. Così
Tommaseo, Gherardini, ed altri. FARSI RELI.O:“...... che se ne fa bello per
aver tradito le tre legioni smembrate ». Dav. l'AIRSI LARGO allargarsi,
agevolarsi la strada – avere i mezzi di farci rispettare e di avanzare presto
nella via che prendiamo.) « Coloro che per le corti colla virtù e colla fedeltà
si fanno far largo ». Iºierenz. « se non vi fate largo coi donare.... ».
Cecchi. --- Farsi largo colle chiacchere, coll'ingegno. -- C'è chi llell'ultimo
altrui si fa largo donando, chi domandando, chi piangendo, chi ridendo, chi co
mandando, chi in Inacciando, chi lo dando e via Via. \ V ER A FARE CO)N.....
I)I a bella donna con cui lo imperatore ebbe a fare ». Dav. che ho io a fare di
tuo farsetto? » l8oce, Note al verbo Fare 449, – Non curo di
molti altri usi, vi oi con uni ad altre lingue, vuoi notissimi e frequentissimi
an ha oggi, p. es. far lare nel doppio significato di ordinare di fare, e di
cagionare di fare fare apparecchiare checchessia anferlingen lassen –
fare all'l'ossire ullo – l'hre Arligkeiten mitchen mich erròthen –
Lessing. fo0 Anche il to do degli Inglesi ha tra gli altri molli, un uso
pres. sochè eguale. Es. The day techn J sau him ho looked belle lham he does
nou'. fol - Quel come lai lu sta per come dispiace a te. Nola inversione
illicola di costrullo e dell'ordine l'azione. 4,2, (iozzi chiude
parecchie volte le sire lettere così. 3 - Nola anche il secondo: che
ſarebbe il fare cioè del primo gruppo com'egli stà per un verbo del primo
inciso sottinteso adoperando..., che adopererebbe..... º, o per l'anzi detto
esa m in tre: colla quale esaminerebbe ecc. 4, Per dimolare lo slalo di
essere del tempo, dell'aria, del mare sillili, o loperano i buoni scrillori
assai sovente il verbo ſul re': come latino i francesi il loro laire. – Guarda
come, i, - Mlodo a lille l'altro antic e dell'uso far senza (una cosa) ci
è pol el sºl le limitinº l'e - esser star bene senza.... ». fºſi - I
granimalici li apprestano indi la regola: « Fare stà per lº minare,
compire, rattandosi di Iempo, e ad esprimere quan lilì passa la lo mi trovo più
semplice la formula che anche il Tuesto caso il verbo far fa pel verbo
essere,157) – Nota di questo gruppo le maniere: lorº la state, l'autunno ecc.
il farsi del dì, della notte ecc. 458) – Analoghi a questo fare sono i
mºdi lar buona proºº, fa, gran prova, provare. Conſ. Pianta. Pront. 459,
– Metti a serbo i modi: idr si incontro: larsi ºººoi farsi in nanzi...; larsi
alla porta, alla fenestra: larsi a credere e simili. 460) – Simile: « E
iatlosi dalla in attina venne lo raccontando... » Ces. - - - - - Dicesi anche:
farsi dappiº, per cominciare dal primo prin cipio. it:I – Pon mente al
senso del pronominale farsi degli esempi an tecgdenti, e ti sarà agevole
intendere come il modo farsi a credere non sia come melle qualche vocabolario,
un credere a dirittura ma un accostarsi, recarsi, darsi, inclinare a credere.
Simile anche l'altro: larsi a fare checchessia – cioè mettersi prendere
a... 4(2 – E' ingegnarsi, studiarsi, faticare ecc., adoperando il senno,
l'umiltà ecc. – Far colla cosa sua. Non gli dar noia.... chè egli la colla cosa
sua Cavalca pare che dica sempli cernente adoperar del suo. 463) – Vale
operare saviamente, metter giudizio emendarsi. E' modo elittico, simile al
precedente ma di significato assai più ristretto e talora diverso. s 464)
– Traſduci: mi penso, mi arriso. Si adopera questo: far ragione che..., di...,
a più altri usi e significa quando supporre, repu tare, e quando stimar bene,
opportuno ecc.; mentre far ra gione con alcuno vale intendersela, fare i conti
e simili. 465) – Far conto che, dicono i...ombardi. Simile anche il
seguente del Segneri. 466) – Far vista, far le viste di ecc. è altrettale
che fingere, dare a vedere (v. Dare); sich stellem als ob....., Miene machem,
sich den Anschein, das Aussehen ſi bem. Pilò però significare anche semplicemente
sembrare, parere: « non facendo l'acqua alcuna a vista di dover ristare, presi
dal N. N. in prestanza due mar lelli. » Bocc. Anche il nodo detr vista (conf.
1)are) è usato dal Sacch. e dal Cesari (e lorse anche da altri che non ricordo):
senso di lar rista, sich slellen ecc. « 1)avano vista di volervi « andare. »
Sacc. « I)avano rista di non tener più conto di lui « che si facessero degli
ºltri. » Ces. 468) – Nel traslato: fare alla palla dei quattrini vale
spendere senza riguardo.Si fa alla palla di checchessia quando avendone a josa,
non si bada a risparmio. Anche la frase: lare alla palla d'uno ha senso non
guari dissimile e vale traslullarsene, dargli la balta, prenderne giuoco, fare
a sicurlà de fatti suoi ecc. 467) – Questo modo far veduto pare che abbia
un doppio senso, e si usi tanto a significare far si che altri pegga o gli paja
di vedere, quanto dare a vedere, lar sembiante ecc. « le iè ve duto di
uccldorli » BOCC.Così pure dicesi: « far vedulo di commettere, di perpetrare
ecc. In questo senso usasi anche l'altro: far vedere. » venne un medico con un
beverag 21, e lattogli reale e che per lotuſosta ICIulu. I « e lo 5 allop
oddo.15 Un'; Iso, o IoitIt: otp lºp o puqquI I ouuº ollo IS.It All I lºp
olioIA os IOI o II.) BAIA ost.I I » – (3 li - ll T. -uui uu.o Idl I «
mhop Imi lood ºzuos e.lolu uluti ſoli al QuUIels e][0.Alu l ol[.) e Illo,I u Ip
(IIIII O]UIelo.) (UIII º II ) o, pullo Iod pm bam api Ip osn, I o IIIssItini il
o, o od o lou il timbrº p Is.IopeAAO.Id Q olduioso 0.Illi, lot o I] Ioli
manlaodm oil al pm b uod mh.op, I le.I]tto toIIIUlis onl. I pi ln()
eztl.).Io]Ilp eloN - - (gli uol.opu or) p. I: ossa: I a 9.Iu 5IoA opotti
lot ou. Il sopo I oddiº o IliioosLI o IIo N. tºzuoloIA In I “uz.Io e Insn
alu.I -oUoS UII eoUIuisis (olduttoso ottil III liop) pc lol lp o. Di opotti II
un illup llp, mo:) Iols )llo, no!) loo oolpe, il Co, sopo II o II.) o | | Il I
Isti.Il '.I]od (OloA [oſ [0, oluooo IlS sopueSu lost Oiolo le prof pl.oool I o:
OICI e ouuu è Iopulso.Id el ouo ez.Io] el º.it / l'Is Out oli ut: qui o ostº.I
| Ip Ici.I e “o.IoSuII.ilso,o un N (Io.I I o Io ti uli Iso, JUIO )) o.Ioi
II.I]s -oo Iap ouo o Iez loſs ottºz.it I lop Il pd to Il prato i pl II IIenb
eplau ooo ufos « lama luo pm ns. oi ml III o uso o il n.IIIIGI ) dd SS IA (o.llitt.top
non lº pztof l l lo Io: l UIonios o Ilop mz.tol ) un loo ollopns Istº.Il flop
“ps.iol pun o. pf pr.toi trof. II lod o e opuoguoo UION luppoI SS )IA (mr lo?
oso).to.) o un ll fiopuo.rmi o e o Iel 5ueu e olotto; Ind lºttout IIIonb oIopuolo.A
» oso).Ioo o oIlluo3 opoUII UI! QUIolº II io.A.Al ' IoitII.I so,o un o.I(Ittios
o po “pzuol asoluoo pun otni ollout: Qn i S o,oo I luoloIA o Inslui “o.Iol -od
p osnque po osta,p o IoA).Ionº olle (Inp QoloIII ons IoToA In olrmu5epuniº o
olio;iuti.Ilso,o ol.In pur o ooºoooº I top ellione ulu.5oIUe,I opuooos ole.A
oum.o)p pm vs.tol pum olmi o pcaoſ 1D.I – Ily outloollll D o 1 pp out.),
lui lo o.tpll pd oII.) Ie IsooICI – (), luooo) glo e opuºluo, “l.It ds-p o lred
as ou5oAtto II opu0.oos o elp mld o oun opuello 5 l Is o “eso.) eull UI!
Il looo) lu o lº odopo.A o[U.A O.).ool / D olm, I – (6), (o topo.to
llbollmſ ollo ossols ol ooogl. lg olt, uouLIOppe otto “llens o lo)s QUI o loq
ooo I lo! [5 e Aup OlogIS Ital Ip o luouaol Ili iFrenciere (Pigliare)
sia lº cºsi di lºro - il mo: into a chi non ha mai o l: lingua italiana –
quello che si è mola, sin 'I I. (Il les (il n ad (SS (l' \ i re cosi di questo
cori li ai ri veri tra loro - r. 1,ºrticolarità di della I i licli, e lassici,
q o no in una º i il Zii, il colal girlo che non la clin a pezza, ali di si !
"i sanno che cosa voglia di e prende, ma i I l ' s ci ii, alla l' hissimi,
che ne usano i d, e, l in A, is simo e i I i di classici del medesimi sono da
Lilli il si e al ci a uno lors, ma li avºltº il peregrino. Chi lo intende, a
cargoli d'ese p. Il valore, ma i le poli 1 ai linelli all'uso: bo i
l'rende e dilello, prende i mali con ri. p, i lorº con l i........
consolazione: prendere p, i ti; i mal. ): i i 'ti li' li ti, prendler guardia.
Sospello; lo: l ' s. losi, i di qualcuno
e.: pt ºutlc i l preso ad atleti no bene, ci pass. p pºi lº i dire: il fare
clic li ssi, i pi nel I e il I i gio EpptI re li. Il sol li: V g: li e lode. I
re. E ci l si si | | | e cose. e prei I l i s 1 si lilire e maniera li i
pir. - di il Italo. “.... pil per istrazia, lo li, pr diletto
pigliare i: l si e Iſ) di Illesl e os º prendendo annni irazione...... il
II l r chi alla toll:I n. I),li (1. (... a Ella d'altra parte o il I e -
e clerlo; o secondo l' ill Iorli; i vi, i i miglior tempo del lo II e il
- mondi è mrendendo il li tl (. Il li l, l si o di non avvedersi di qll
st. a Tu puoi di quindi v lere il 1 l - i N si - li l Inattilla va
tlitto solo, prendendo di porto i. (illata Hilaldo e I liv. ri.I l ril, 1, E
molta ammiarzio i seco prendea, a Chè gli parea ognun fiero e gagli E \ -
jardo » l'ulc. Luigi Morg. a Ed ella Maddale: 1: il corti. Il nte la s lo [Il ',,,
- -ti e prese confor. to e disse: io farò come la Callanea ». Caval l. a Laonde
(gli diceva: Se io (Il test gli dis, la di me e.... le mi metterà il odio, e
cos l III li il l: l li, i « moll avrò ». Bocc.a Bergamino dopo il Illanti ril,
li ! I vi - ge:Idosi il lil IIIa l'', li richie a - I prenderà g
-dere a cosa, che a suo inestier partenesse, ed oilr a ciò consumarsi nell'al
bergo co' suoi cavalli e o suoi fan incominciò a prendere malinconia:
r ma pure aspettava, non la endogli lie: far li partirsl. Bocc. «... e
nondimeno di queste parole di Gesù presero un grande conforto nel.. ll or
loro». (.a Valca.e Nol) Vi si l a 1 i lil l e la coinsolazione li vo:
prenderete le! Seilt il'.... che egli non vi debba essere altresì utilissimo il
vedere....». Cesari. Senza questo, i lus, ira vºi li i ogni fatica, che ci si
prenda intorno » Borg. « La seconda cosa che e efll ace rimedio contro alla
disperazione, si è la virtu deila e ilterza, che la prendono vigo
osaliment. col) folt:ì e sostit ss i v. « Menagli questo cammielo e
digli che ne prenda servizio ». Cavalca. a E voi appresso con III e o insieme
quel partito ne prenderemo che vi pal rà il migliore ». Bo c.« Ora il n dl
avendo gia lº l l: presa grande amistà con esso loro, il tanto che lui si la l
util Vallº li l l'o, - zia 'liente per lì è Vedea no l el' fettamente in lei
Cristo abitare; per la qual cosa di lei niuna guardia o sospetto prende
anc..... » (. I v.: 1.« Di che la donna avvedendosi, prese sdegno, e...» Bocc.
« A \ onla I sta i presi -. 3 i ari. o Il re, o la - sciarlo a B) c. 5?
I V edi, a noi e presa compassion di te » I 3o o??”. La buona Iellini il
l Ill st V e del do, me le prese pietà ». 13o e. «....subitamente il prese una
vergogna tale che ella ebbe forza di fargli v II, il l l Il l3,Gran duolo mi
prese al cor, quando io intesi ». Dante. a l 'Il cavaliere la domandò, se ella
ne togliesse a fare un altro: rispose « che nò; che non le era preso si ben di
lei, che ella si dilettasse di farlo » IB() ('.« Con la piacevolezza sua aveva
- la sua donna presa, che ella non tro « vava luogo....». Bocc. (fatto
innamorare di sè). Prenderete subito tiltti a Iuliilli il re i tº o di
me... » l)a V, 'comince rete,23).Il quale facendo rumore, che molte strade
d'Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza dei conducenti e trascuranza
dei magistrati, le prese a rassettare ». I)a V.sol per onore di lui prendeva a
condurre quella, per altro troppo mai - e gevole impresa ». I3art.
e voltosi al popolo prese a dire in questa guisa ». l'8art. -.... stabilito
com'egli fu nel trono, pigliò di modo a preseguitare i Catto « liri
che.... » Segm.« Ed ecco che ella medesima prese a trattar di rimuovere
dall'Imperio « Neron, suo figliuolo ». Segn. « Anzi cred'io, che il
rigetterebbe la se, ed in cambio di voler più protog e gerlo contro ogni altro,
lo prenderebbe egli il primo a perseguitar » Segm. E così in piedi, prima
di deporre ancor gli abiti di campagna, prende a a fare una lunghissima dice
ia.... o Seg. Ti piaccia ancora di por niente ad alcune altre frasi
nolevolissime oi verbo prendere ed anche i cerli usi del derivato Pi esa.
PI (ENI) Eli TERRA – di una mare, approdare, alle ra e PI ENI) Eli MIARE – PI º
ENI) I.I è IP()IAT ().In quel ritorno g.i avv (-lili, di prender terra il C: la
lorº. I3art. e così le rinaio, alle ore il ſos - Illor: li sta gioli, prese
mare e navigo... » I3:ì l't.Erano i quattro d'ottobre, quando i nemici, preso
terra, e ordinatisi in pit squarire, baldanz si | 1 o il 11ti -- lo ii il solº
a li l e, si ill via l'olio al il 1 l l'olta rsi St...., l il l'1.
1 | | | NI) EI? (..AS.A SI' A NZ V ſe i nati e slanza, cºn l rai e ad albergo,
slan zare, I 'I? I.NI ) ERE I IP.ASSI o Nimili ). 4 a ci ritornò e presa
casa nella via... non vi li gitali di litorato le... » Bocc. a colsero in
gran numero chi a prendere i passi, e li ad avvisare di lui per tutto il
paese di cola fino al mare e l'art. a Floro s'ammacchiò; vedendosi poi presi i
passi dell'uscita succise Da V. « si spartirono chi quà chi là, e in un
tratto presero i passi ». Fiorenz. 1 l? l.N1) EIRE l'N SAI,T (). « e
posta la mano sopra... prese un salto e lussi gittato da l'aitra parte
Docc. I RENDERE UN VOLTO, UN VSPETTO sereno, allegro, soltre, giocondo,
grare, terribile ecc. UN MI \SCIIIO ARI)Itli e simili lari. ('('N. ecc...
l I (; LIAIA LA MIA LE - sbaglia r la struttlet. « Ma io mi accapiglio
teco, o Materno, che aver il ti la natura l'latitatº lº « su la rocca
dell'eloquenza tu la pigli male, hai cons - uito il megliº º il « attieni al
peggio ». l) V. 525. l'RENDERE Q. C. IN FESTA EI ) IN GABBC) – PIGLIARE A
GABBO. « Inteso il motto, è quello in festa ed in gabbo preso, mise mano in
al a tre lnovelle ». HOC ('. « Che non è impresa da pigliare a gabbo
Descriver fondo a tutto l'uni “ Verso Nè da lingua che chiami Mamma o
Babbo ». Dante. I ]RENI)ERE SC)N NO. “ Aveano ciascuno per suo letto un
ciliccio in terra ampio un gomito, e lungo ti e, e in questi cotale letto
prendeano un poco di sonno ). Cavalca. I 'RESA – Pretesto, molico,
Anlass, V eranlassung) AVER PRESA, 13UON V PRES \ V DIRE A FARE – opportunità,
ap picco, buon gitto o l)Al? PRESA A...... r. l)ai e. a Sesto Pompejo con
questo presa di minicare Marco Lepido lo disse da ! ! iellto, lmorto di fame,
vergogna di casa sua....». I)aV. FAR PRESA. a Sono imbarazzo da leva l V
la colli e le centine e l'arma dura quando la r vòlta ha fatto presa ». l)a
V. Note al verbo Prendere 520 – E' il to take degli inglesi
nelle note forme: To take delight; to take pleasure; to take cold; to take a
turn; to take airs; to take a run; to take ship; to be taken ill; to take up,
ecc. ecc. 521 – Conf. voce Partito, Parte l Il. 522 – Notalo bene
l'uso e costruzione singolarissima di questo prendere. Torna quanto al senso,
pressapoco, all'appiglialºsi, apprendersi di una cosa ad un altra. « Amor che
al cor gentile ratto s'apprende » Dante – « E veggio il meglio, ed al peggior
m'appiglio ». Petr video meliora, proboque, deteriora se quor). 523 – li
alla lettera il fangen (an lungen dei tedeschi. 524 – lnvece di occupare ecc.
Si dice anche « dell'occhio che prende un vasto ozzi onle ». Bart. –- l)i una
sedia, di un posto ven duto e simili, dicesi che è preso. 525 – Cioè in
cambio di far l'ol'alore fai il poeta.ne rarr Le vere Ha molti
vaghissimi usi, e voglio si principalmente notare i seguenti: I,EV AIRSI
IN CONTI? ()..... . Ma vedendolo furioso levare la r battere un altra
volta la moglie, leva º tiglisi allo incontro il ritennero, dicendo di queste
cose niuna colpa aver la do Illna.» BUcc. Coll dollnes a placevolezza
levatiglisi incontro, prese a garrirne lo e.... » I30 ('. “ La quale
veggelidol venire, levatiglisi incontro, con grandissima festa il l'it'eVotte.
» BO C'('. LEV. A IRE I)I V. ANZI « E non pareva potesse avere niti
il 1 Imedi, pensando che quel corpo del Maestro suo le fosse levato dinanzi,
ch'ella nol potesse vedere, nè toccare; e gri(lº Va..... » ('i Valt:a.
LEV AIRIE I)'INN ANZI V..... .... Veduta la alterata, e poi dirotta nel
pianto, parve da levarlesi d'in manzi e fare il rimanente per via di messaggio.
» I)av.a Pensonni che Malia il 1 ori il ciava a ridere e a Caltare, e a levarsi
loro dinanzi a quei clie la riprendevanº duramente, e non le stava a Illire,
sicchè costoro riºna e Vallo con Vie n1:1ggior dolore.» Cavalca. 600). I.I
V VIRSI IN SU PI: I RI; I \, IN (() \ | IPI A | NZA I ) I l NA COSA (Bart. (es.
! (50 l. I,EV VIXSI IN AI, I'() . ()h Imadre carissimi, noi ti
levasti in alto, perchè tu lossi Inadre di cotale figliuolo, e per lui.... anzi
quanto era inaggi ºre la prosperità, tanto piu ti profondasti in umiltà.
Cavalca. 60?. I,I V VIRSI A VI () IR E I,I \ AIR IR l VI ()| è l I (50.3.
LEVAR MoltMORIO bisbiglio ecc. d. q. c. I E VAR POPOLO (604) « E ben
liè.... alti esi non line o ani: Ived va le I' 1to l'lti l'll tºru si leverebbe
a rumore. » l3:i l'1.leva losi il popolo a rumore, andava ogni cosa a l ulba o
Giamb. il popolo della citta di Modena si levò a rumore gridando pace, e ('a
ccia l'11e fuori la Signo; in e solº l: t., V ill. (i.“ Alqualiti discepoli
s'avallo e (i lilda, e l'elison che alcuno di loro lo riprende Vallo le iniglia
lilelle, e ci lil e li aveva levato gran mormorio del l'unguento intra tutta
Itl lla g it sºli e i tutto indegnato per la ver gogna e Ile a V ed i VllI:I (I
V: l' ipells lni le si levasse un gran bisgiglio i le genti, e molti gri di V
le liti Illi e sa, e il ti? han:no In orto (ies Il Nazza l'en lo... (:)
V:. Salvo S i lº 'lzi non levassero popolo, attizz: tssero contro. » I3a r. Ciò
li rebl o I levando pc polo il Fuli Ine si era latto ill Arnull gucci, e il bel
tendo le rile: il lizie d l'ortogliesi a ruba, l'1 nave a fuoco, e la li1, V e
allo li l al t. LEVA IRI IN V VI \ | | | | VZI () N E ſe i protra riq lui
e l'iello il palese illello, le. - -s. I lilt lil e i parvoli; e nel se
greto rise! V: lui l', lo l ss, levi in ammirazione l'altissimi e menti. » VI )
l'ill. S. (il'. I l V V | | | | (()N | | (50), ll el l e levare i
conti. lle: vev: i l)i V (llll le ll ' o sospiro...., Dari LEV
VIRSI IN COLI le reti di lei la e meller sulle spalle .... pastore, e li e
o per la l a sti, il liti e riti o vandola, la si a Ievò in collo e le elle l
'i g! ea zii e les", l'ass: v.ti ovò un pover Iº e mio obbi lido lato, ed
egli si levò in collo costui e portollo in lei in luogo, dove egli il servi sei
mesi e lasciò la pace e la a quiet, sia per anno del prossimi » (vale a I,lº
V V | RSI I ) \ SI | )| | RI, I ) \ I ) ) I? \l ll l... l) \ I.l.(i (il l RE,
l) \ SCIRI V l.IR l.. e simili. . La quale non altrimenti lo se da dormir
si levasse, soffiando inco Inilli i.... a l?o. LEV Alt SI \ COIAS \
rale nellersi a fuggire relocemente, ed è bel modo di nostra lingua.lº dicendo
queste parole Antonio, quell'animale si levò a corsa, e fuggi.» (il
Villt':l.Piacermi finalmente inclilovare alcune altre maniere più notevoli a
dell'ilso: LEVARSI IN PUNT A l)I PIEI)I. e e la madre guata va se
fosse irreali, i fattori il suo dolce figliuºlo, e per a chè ella non era
molto grande, e levossi in punta di piedi, guatò in mez « zo degli
armati, e Vlde il dolce Maestro legato colle mani di dietro sic Irle l:1 di
o,.... » C: Va a. I,EV Al? E l) \ I, SA (IA ! ) l'() N | E l e il re e la
l I e Nilm o U.EV \ I? E \ I, S.V (IR() I ()NTI: II. N () \ | | | | I....
13 (I l (rli I.EV AI? SI I)EI, VIENT(); I3art. – LEVARE LA PIAN I \ ali un
edificio, di un terreno – I.E V AR MI I LIZIE – J.E \ AI? LA LEPIRE – I
E\ \ RSI AI ) IIRA, ecc. ecc. Note al Verbo Levare 600 -
Questo le rarsi al in nanzi al l gli In vede, ma l' tirsi, andarsene ecc. I
bicesi al che le reti si dannan si clicchessia, o levarsi checchessia dagli
occhi e significa liberarsene, sgra varselle. lol'selo di dosso.. (olle (l'eslerà
di darle, ella [ 1'0 verà sue scuse per le retrse lo d'innanzi. » Fier.Si
inile: le rarsi dagli occhi checchessiat: le rare cl i dosso. « Si risolverono
gli l'iorentini per bli. Inolo le rai si dagli occhi in alto e Iale ostacolo e
per millma) gilisti più confortarlo. a Stol'. Sonniſ. –- I)i le rarlo mi l'ululosso
Irli studiel'ò » L'occ. (01 - Simile: salire in baldanza. « I)a si felice
principio i litori salirono in tanta baldanza, come nulla potesse durare
innanzi alle loro armi » Barl. (2 - - ()sserva la correlazione (li le
rarsi in alto -– hoch lalren – e profondarsi in umiltà. 603 -- Simile la
frase: la r rumore di checchessia, indurre cioè a tu nullo. dare, da
discorrere, prorompere il disdegno ecc. « Il quale facendo rumore che molte
strade d'Italia erano rotte.... le prese a rasseſ are. » I)av. 604
Piaceini ricordare anche il nodo: essere a popolo, a rumore ec' ('.605 –
Simile: « lerare le partite, p. es. della coscienza con Dio. » I3: i
rt,N/lettere (Porre) fili a quegli degli prºl e lo sel degli inglesi isº
º lº gri, º l ' s ii del mettre dei fran i ' s I. Al ii l ' - I -
volgarissimi 629, nè la li si l sl i l pi. Ma sono alcuni
altri non corrono spedita reni e li - maniere poi di quo l | laii (i l I
t. ! ! - l - l - ss la gran lunatica, sa l' i crº, ci: ci - il - i e il
vago della frase il sisl ei s ci, il ss; li il sia, è ad ufficio e valol
e º il signi lº i - s porli il suo proprio let i r, i -: i i no del verbo
con altre pa i. \ I soli linelle, che anzi li li ii considerazioni
e all is | | | i l ! l sl glº: i \ | | | | | | | | | N A S.,
VI A V, l SU ). (All I I I I Rl, | N A | | | | | | | | | | | | | | | | V | V (il
l V l l ' Simili. mise cinque mila fiorini d'oro contro a mitic ',
i l. -, metter su una cena a lovella da re i.... l 3 -): l l.. i. - i i lo s; i
ti sul metter de' pegni pegnº tra loro messo loro, I, nºtito pegno i - i;.
- i l: i nei i ore il collo a tagliare, e i: lessano che la Verità l); i
V. : l l., (-. il \ | | | | | | | | | | ll piatti lº t'
('. I mette ld, e più forte illli, Va'. (I t si - 11: -, -1; I l -
e mai il tronco avrebbe i l: mettere I l il 1 fi...... (i In li vere - i
rii e assai lo il sull mettere e gel' moglia e o, Ces. 630)METTERE SIPAV EN I ()
- VI I I I I I E \ N I \ I () \ | | | | | | | |, A \ | | | | |.. AIETTERE A
VIVIII RAZI() N. \ | | | | | | | | | | N SI El ' () e Nilli lli. Cadde e
voltandosi i ra i ple li a 'a - e rite, messe tanto spavento e odio le i
soldati si li filº roi o li I ): t: Ig it li, eſ. Quel giovane.... fu il primo
a mettere in lino agli altri. I3e: 1. (ell. I ri vo:aggia li, confortarliQuando
Agricola mise animo a tre coorti Bavere e lui l ingi e di venire a alle Inalli
con le spade ». Da V 63 Ali (III, i se mettevi l'amore tuo. F (a Per la qual
cosa, vedendola di tanta buona f riliezza, sommo amore l'avea posto ». Bocr'. «
Con quei ti:lti lo avi In Irli d mirazione ». Salv. VI a ie. it - lo il I l s. :::
I l lit: i mettono inella moltitudine am. a me, miser pensiero,.lon gli
voles - Il tel rili lpe, pari o all'alltica. l tirar « d ll rallle 11ttº ». I
)d V.i diedero a pensare, fecero sospet e den Verdacht erregten 63?
\IETTIEIR AI.E MI ETTEI E r. g. Il PEI I; I \ N(\ | | TT | | | | V.. STIt II)
A. muggli, i niggili. MI ETTEI MEZZI e simili. l?el ſ to loos o il fiel (il
V al mette ale, l ' ll I, II ig. Vlorg. (figura, a III, corre col gra il
V el. it: “...... nel quale era e il ratto il diavolo, e -la s a costei
legati colle catene le malli e i piedi, e giti vi.. sº i e ai lo schilli e
strideva co' sl1 i denti, e crudeli mugghi e strida mettea, il 1: lit, che
chiunque l'udiiva spa. ve: lta Va ». Cavalca. Allora qllella
stridento, e mettendo grandi e crudeli ruggiti, lol telr1ente l'assilli.... » (a
Val n. º il 'tli la milizia lioli nello che l'eta avea messo il pel
bianco ». Bart. .... per la qual cosa non gli valse il metter mezzi e
pregare. Cesari. \I ETTEI N E. VI V | E. \ | | | | | | | V | | (i | | ()
\ | | | | | | | (() NT (). “ E (Ill si ciò fosse poco, come metteva bene
al suo interesse, ci si faceva girls ligia, dando ragione a chi se la comperava.
Bart. -L'esser bistrattato non e' in previlegio mio o....., ma di tutti univer.
saliente se onlo che il farlo gli metteva bene ». Giub." l'elisa ggiInai e
delibera a quale partito ti metta meglio appigliarti, ('esari.11on perhè alla
l'epillollica mettesse conto patire mali cittadini ». l): v. nè i
figliuoli, ma i rovinati; sovvertendo i cavilli dei cercatori ogni casa ». DaV.
\ | | | | | | | | | N N | () M ET l'EItE IN ASSETTI, IN Alt NESE – MIET I ERE
IN ESSERE di far q. e. MIETTERE IN CAR I \ zu Pap er bringen nel tre par
ècril – lo sel clou n. e se l e la III e li e il Ille, i nto Ittendeva a
mettersi in punto ». Giamb. il pll'esso (Ill sto lilli - misero in assetto di
lar bella grande e lieta est: l. 13,.l'ol le e- il ribe dato o lille con Colpo
del colle e del quando,e che e si luroli messi in arnese di cio che la eva l '
bisogno ». Fierenz. (si for I S il ('si il.... e – l llla la si metteva in
essere di baſ taglia. l 31 lt. l)a V.Irli la bisogno mettere qui in carta (o
poi le ll leo I contorni delle co -1 l Ilia l'ille..... o l8al t. V | | |
| | | | | VV () |, V \ | | | | | | | | V I \ V (V. lolla li l'al' e sl
per ol li tºlti mettevan tavola il s si.ora che l'usato si meteSser le
tavole.. \ | | | | | | | V S |; N V (\I | | | | | | | V l, A l' (C ),
Mll. l l'EIRE | N VV V | N | | | | V, l le 'il l Illia di Illesle lol o
l'agielli soglio li, i li; li il mettere a sbaraglio le la Vita il, (es. i vi
G3 istelli, minacciava di met ierlc a ferro e a fuoco, - t, sto lioli i l V lo
i prigl n. o l8al l. 635 l lº sa e con lì io, e, a disposto a metter la
vita in avventura, e lui e il venil -, al site Ina ri. l'8art. esporsi al
pe: i per i volo li lo del l - l at si \ | | | | | | | | V |, N | |
N | | | \ | | | | | | | | V | | | | | | V \] | I'l'll è l: l"N I)l S(() |
| | )| |, I N SI | | | (\ | | | V | | V,, Nim ili. Se.... I certo I
(lelli rebl.......... ll tiro e, e ogni forza use; per metterla al niente. I 3.
l.(), si va Il lino, si saprò mettervi a terra si reo pretesto. » Segn. N i
letto i ri; 1, l'a! di di l: i ve: Irle fù per mettere la repubblica, se I rsſ
o ll -i (V V in discordie C armi civili. l) a V.dols e si li..... ll e il V e
il messo (es al'e in su le cattiviià e risse. m l)a V.MIETTEIRIE (i UERRA,
CONFLITTI. discordia. dissapore, e va dicendo, tra cristiani, amici ecc. l)av.
Bari. Ces. METTER Por giù r. g. I \ P Al IRA, L'ALTERIGIA, UN PENSIEIRO,
UN AI3IT (I )NE ecc. - e tanto che, posta giù la paura del l e- e dei i
atelli e lii - il colore in tal guisa si addimesticò cl io ne ma qui e son: le
qu'il 1 l III I Voll. 13, a Pon giù l'alterigia e studi:iti di prendere
un viso ilare e gli vi e.» lº art . Pon giù i ferventi amori e lascia i
pensieri triatli o Bo MI ETTEI RE IN N ()N CALE \ | | | | | | | E IN I 3
ASS() - MIE I TI lº l: l N S() )() - MIE IT EIRE IN I () IRSl - \ | | | | | | |
I: IN IP AI ' ()|.I. Per lilla di lina ho messo E. ll 1 II lite in non
cale ogli i l el-i (. l ' ' 1 l'ill ('il.E chi, per esser salto virili solº
rosso, Spel a 4 ellenza: e sol lº l Ill Sto brama Che 'l sia di sir grandezza
il basso messo. 1)ante.«... mi par necessario definire prima e mettere in sodo
il sostanziale valore di alcune espressioni.... » I3art.Chi farebbe i re votare
i loro tesori, pr (Il ce ne Impi sotto la III i loro popoli, e mettere in forse
la loro maestà, se questa spera la non fosse? I 30.e in altro non volle prender
e I - i nº di lover'a mettere in parole se lo delle sue galli; la', e....
» I3o MIETTERE IN V.JA con.... \li raftivella, cattivella, elia non
sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aja con gli scolari.» I;
º cimentarsi, intrigarsi, avventurarsi a voltº la fa r, voler l' il cºlle agli
scolari, misura le sue forze cogli - METTER MI VNO A o per q. c. “....
e messo mano un di di noi per un tagliente coltello, e nella logli un gran
colpo...., gli spicca inno il braccio., Fiereni. e Messo mano ad un coltello,
quellº apri nelle reni, Bo 3;I All. N l VI (III (S \ () \ Q. C. - ....
pose mente alla sl i 1: 1. I s e, ponete mente le carni mostre e lui è
stallino. » I3 n. 1:. Ponete mente atroci spasimi, lil: se l: in lenti e
divili la li l: i les li Se i 1. Ponete mente effetto i li e le e il via
il cºsi della lor debolezza. E \ | | | | | | | | | | | |,((| | | SSI \ A
SI N N () | ) l...... (3,, e gli misi a suo senno, e iroli -
\ | | | | | | | S | A N \:3S \ | | | | | | RSl Al, l'ACElAE – \ | | | | | | |
SI SI | | NZ | () \ | | | | | | RSI IN | A | è (Il I (C.llESSIA – MIET | | | RS
| S (| | | V () | | | \ | | | | | | | SI l N V V | V. dal si misero al
ritornare.» Bocc. I rimisero al ritornare. l 3 al E mettiamoci ai ritorno. 4, N
-- li siti, si s Illal alle; te si posero al iacere. I 3:: 1........ i si metie
siienzio. l 3 l: i. () il l i VI inelli - la si mette al niego.» I ). l.le
sia l i lliesto. Meini. S'era messo in prestare Scpra castella, l in tre loro
entrate. » netiersi sulle volte e lo i leggi i ve. » l?ari. cioè, tor isl
l l: i veri il si per la via, l No!:l, si mise. » l 3o. \I E I I I
I I I I I I I V \ I | A PEIR VI CI N ) da e la sua vita per Nell'all. \ |
| | | | | | | | | V \ I I V. I V S \ NI | V. I l. SOS I \ NZE ecc. Udas le
ben (''.. ll l in 1 m., 'il bis. Nel ' ' li l: osi e se c'è bisogno,
mettiamoci la vita.. (i ll.(i e il (! ! !, il III le pose la sua vita per la
nostra redenzione.» (: v. l ':l.«.... e lui beato che fu il primo che ci mise
la vita! » Cesari. « Però vi esorto a passarli travagli per il lodo, le no, ci
mettiate della sanità. » Cal O. MIETTERE SU UNC), c) MIETTERI AI, l' N I ().
« è istigare alcuno e stimul i r, a dov e dli o la r il il na Inglilia o V
Il a lania, dicendogli il modo, lil po-sd. (del liti o lill la, o lil a.
i litº, - - si chiama generalmente commettere male i l a 'ti i liolo e ! Iltro,....
r Inti o al Ilici che sia imo. Val li Nola gli appellativi: commellinale,
un teco meco: « d'uli con melli a male, il quale sotto spezie d'amicizia
vada la riferendo i testi, e ora a quelli si dice egli è un leco nero.
Varchi. METTERSI AL TIEIRZ() I (C. I )].I, (il V | ) \ (iN (). e Andavano
dotto letti sto i rieg Li, messi al terzo e alla metà ! ! gli: - dagno, a
cercar le case, e le var i ti Irer -- las, i a o l'edità colltro alla
legge, i l): I V. Note al Verbo Mettere -. 628 – Eccone un saggio:
to set al monuſ li I linellere il niente: lo.. set ad usork (porre in opera: to
sel on llame li eſtere a fuo- - co: lo sºt sail nel tere vela: lo set aside
mettere da parte, - - " lo set one s self (imettersi a....: so se lo m in
l. ere giù - lo se out (metter fuori, pubblica e lo pul dorn por gilt,
nettere a terra: lo put in u riling In Ilere in isc l'illput in mind mettere in
alti, ricordare i to put a question; lo put to death ecc. ecc. 269 –
Mettere in abbandono: nelle e tulosso una cosa ecc., nellere le mani adosso,
mettere sol lo l'armi; mette i si in tla i mº; mºl tersi a correre: mettersi,
porsi in animo di 'jar checchessia: mettere in campo; ecc. ecc. i30 –
lndi l'appellativo messa, pallone o germoglio della pianta. « Quel rigòglio è
pur vago. I rallo e l'odio dal soperchia che fanno le mºsse degli alberi,
essendo il succhio... Cesari.Analogo al mettere delle piante è l'altro modo:
mettere pr - sona, cioè crescere di corporali Ira. 631 – Si dice anche,
con valore di egual significato, dar animo. Il modo meltersi in animo di far 1.
c. vale proporsi di farla ». (5:32 (5.3.3 (3 (53,
(5.3(5 (5:3, io m'ho più volte messo in animo.... di volere con questo
nu ſolo provare se così è p. Bocc. Conſ. avanti Voce Animo. Neh! questo
metter pensiero non.... è ben altra cosa che il mettere in pensiero. -
Avrai avvertito differenza i ra il meller tarola (a, e metter la tar'ola. Il
primo è la r lanchetti, dal pranzi, il secondo ap parecchiar la tavola.
Sinile mettere a repentaglio - Giuberti adopera il verbo git lare ecc. • Pronto
al meno no cenno di gillare ad ogni sba l'uti/lio o. Noli ricol (lo si
allo stesso modo e valore siasi mai usata la rnia nelle e al sacco: Giul), ed
altri l'adoperano in senso dii ripio, 1 e, mette da parte, far tesoro. « Debbo
saper grado al Padre Curci che non abbia sdegnato di mettere a sacco la lingua
e lo stile delle mie opere. Giub. Melte mano in checchessia o di lar
checchessia significa co m in cicli di palla rue e c. Col I Muno (al). 2.
(Se il m o l?a l'1 e I. Al clersi al ritorno re, e simili, è il laniera
elitica e vale accin gol si all'azione, all'ill, presa del..... Mettersi o
porsi, in ge le tale, e la r q. c. è all rolla e che il cori linciare,
apparecchiar si, porsi nello stato di farla. Si dice anche mettersi coll'anima
e col col lo t... (Si mºlle con l'anima e col corpo al dice al la r l ich '5 st.
lºl'. (ii il d.Re care Sil primo significato è il l di poi la e, si rire.
Il talu, i (Illali cosi' io llllle di ſua coli n e o di votarne il recai ed
holl 1 e... 13oº'. e con il significa i resi in li lig Il al miele a recare
d'una ill alil a liligi la v. ecc. Mia poli III lil al li isl 1 l issi di
quies era, e il I rili li alle 11 la Iliere: lº e' st e il no, una cosa ci l 'c
li ºss lat, a far lecci es. sia, recarsi a....... liele Illilli il V e io i
reati e sigilli, i ſilando condill re, ridurre, indul re, e quando i riliire. I
l...., il V (l e va dicendo). .. li Ille-t Il l: l ' 1 tl i i l: - i mini
recasti. I3 o 20 I - I i ls ' il - l si l: recarsi a condizione di privato. a (a
s. .... sol che esso si recasse a prender 11 glie. I3. Vedi modo e sappi -,
oli di l: parole il pil i recare al piacer mio. 13o. II lis- 5000 fiori il loro
i litro a 1000.. ll e io la sll, di reche a rei a miei piaceri. I3o.il Vello
già liledira: o gli animi d i s.it i baroni, e recatigli alla vo glia sua.»
(riallil,I ti: l l'orri i- di 1. I l s. vel. l i r, casse la madre e prin cipi
e..... a dover esser cori I lit ' (1 - i Qllesti recando a suo
proprio quel con il Villlierlo di I o Izi, a poco si 1611 le clle coll..... » I
Bill'1. - - l'eputaldo, considerando sullo la r pri... e Ne recava a
prestigio i miracoli, e la santità ad ipocrisia. l?art. attribuiva, o aveva il
conto di..... a recava la mia rettitudine ad ipocrisia. (iiil lill).. niun
altro l'olila 11, di sua grandezza il V e il V l Ito dlle lipot i il ll 1 i
corpi, recandosi le cose ancor di Iori il la a gloria. Da V.«... lle v'è uomo
che legni di fir se Vilio della slla persona che sel reche rebbono a viltà. »
I3:1 rt.Mangiavanº i carne il venerdi e il sabato, e come cosa orali ai passata
e in usanza e comune, nè a coscienza sel recavano, nè a vergogna. Bart. 52, «
Non si recava a vergogna di fare, bisognandolo, l'arbitro con lo dal la
belti.... » Balt.« E dicesi nella storia di Santa Marta che non sia niuno che
creda ch'ella desse il corpo suo a ſanta vergogna: chè quello unoli lo sarebbesollel
to, le ll I ratello cogli altri su i parenti e amici l'avrebbero e li al
celata, impero, le se l'avrebbero recato a vergogna.» Cavalca (528) E vi sara
cli per contrario se la rechi una carica a piacere, a premio, a riposo, e.... S
-:).e generalmente o il lancio, il ril ci rechiamo ad un genere di empietà e
offesa a qualsivogia a ilmale, quando egli non ci dà noia?» Segn. ll – e le: l
le, Fi, al di l orlìa 1 di sl, ll la l'ott 1, e 11 in fillelllo d'in sse; li t.
It con 1 l ils: l ', no; i clle Vilì c'ere i - ilì molte haitaglie, ne recò a
più alto principio la cagiona e oltre - io ho veralmente era, i sse i ll,
si era il V V ei lilli, il vi: ill, 'i. I l i pic lo es reit, del re doll i – l.
e/ se \, Va. l. ; le I) i l rist l li, a. l sei za niun risparmio, N
si | | | (V.I RSI | N S. il strelto alla 1 si sta i ltto in se mediesimo
si recò, e con sembiante 1 a V e a 'e ll it l aºs i tre lisse l3, i
li. | R |,(V | è SI IN VIA N () | V | | Si VI \ N () I RI (AI SI IN (()
l.I.t ) (| | | ((II ESSIA \ oi vi recherete in mano il vostro coltello
ignudo, e con un malviso e tilt to tu balo V e l'anall et g ti per le sca', el
a idrete dice: do; lo ſo lot, il l)i lle o il cog el'o... l ' ve. I 33llfli
liti o recatosi in mano uno de' ciottoli elle 1 a volti a Vea, disse: l)el V ed
si -se egli teste nelle l e lil a Calandrino, e:... o I 31...(olli e il li
elobe Il., 1, li lega i recatasi per mano la stanga dell'uscio, lioni e sto
prima di latte. Il 1 le pel si la stanga le raddo di malmo.» I el l /.e
recatosi suo sacco in collo riposo ni li che egli ehloe vinto il
ſolito.... 13: l'I. l: I VIRSI CO) I I ESE teme le mani al petto, per
riverenza, di rosione, piu'll. i let: Illesi, e latto, recandosi cortese
disse.... » Sacch. | V | | | IN |,l (I Iſetti, il gran tempo, sia i
mas osi, ci appare chiamo a recare in a luce o all's Licht lo ingen). Giamb.r-
a - li ECARSI UBBIA DI....... « Per dilungarsi dal morto, e Iliggi
l'ubbia e le seri prº si recava le « Inolti.» Sacch. IRECARSI A MIENTE
(Itidui si a memoria, sorreni e. a Và, e non volere oggi mai piu pecca e.
Recati a mente, e vedrai che.... a I Passa V.Onde meglio è, sostenere la
vergogna degli Iloii, Ini che quella di Dio, a recandoci a mente (Illello che
dice la Sci Itt il ra 11 l lilol della « parlando in persona di coloro che il
rollo di risori, cioe Sapienza, is ll terril itoli le giusti; i
(It.all.... » l?assa V. IRECARE IN I N ) nellere insieme, a comunanza, in
cui molo, la re un fascio ecc. ). « Voi siete ricchissili, i giovani, li
lello e le llo, i soli io: il ve voi vogliate a recare le vostre ricchezze in
uno e in lar terzo possell: ore oli V oi insieme e di quelle...., senz'alcun
fallo mi da il cuor di la, e, le.... Bocc. l? EC.Alº:SELA (o anche
recarsi assoluta non le maniera elettica e ralle offendersi, pigliare il traie,
pigliare in offesa come falli a sè, o coll'a blatiro della persona, o
coll'espression della cagione ecc.. e recaronsi che gli aretini avesso i loro
rotta la pace, a V Ill. « Checchè egli l'abbia di III detto, io no, voglio, che
il vi rechiate, e se 11oli corile da uno ubbriaco. o 13, la consideria oli le
c, fatta vi da un ubbriaco). -in da 11 a V I Nota al Verbo
Recare 526 – Simili i modi: recare a fine, a perfezione checchessia cioè ſi
nirlo, perfezionarlo, recarsi a menſe, recare in uso ecc. V. il presso.527 –
Nota qui la frase: recarsi checchessia a coscienza, ciºè lº ninrderne la
conoscenza, e simili.52S – Così dicesi recarsi checchessia a noia, a onore, a
Ilºil, º lº rore ecc. cioè stimar nojos, ecc., reputa il “ Mi liº una
grande ingiuria a stili, mi di si p o giudizio che ll il mi debba
ripulare a farore, che li esser N. N. si degli di stºri verini ». Cal'.F corta
re Al l lano i rili Is, elellico di portarsi per portar rici. Qui vogliº
lisl rilenzi, il re alculli usi notevolissimi e ina niere assai fre le li
sºllia per il la ai classici quello che li li fa il moder li e poco spello del
pari tre latliano, cioè l'uso del verbo portare a va lore di esigere,
richiedere, in prorla e, comportare, sopportare e simili; e le maniere: portati
dolo e, poi, la r no a uli che chessia: portar osservan sot, onore, ricerca sa,
l ispello a lui li sssia, portar amore; portar pena: portar per i lenza; portati
pericolo di al'.... poi la r il pregio valer la pena: portar opinione. I rl (es.
porla in pace checchessia: portarsi d'ai il no e Val di elido () i noli e
gli ºri Ilde - i tizi ile, lollo prº sstuma oltre alla sua forza, e fa cia le
imprese piu che non porta il sito potere? » l'assav. e lº sta che i polelli
ssilli dispor di lei, e se non quanto porta e il dovere. » (all'o.Nelle
passioni l'a lliIl r. Il liti S.s: lite portar dov: ebhe la sua lla il ril, lIl
l.. ll la V, º l?a l'lo.Il segreto della profondi - si lli: za di l) lo
portava, che solamente dopo 10 secoli.... » Cers.a Vennero le due g lov il
lette il dile giallo) e di zºld º do bellissime con due grandissimi piatelli
d'argento in mano pieni di varii 1 litti secondo. lle il 1 l... loli portava. o
lºMla io credo IV e ne dett pil re assai. A |fe si a quello che porta il tempo,
11 le lilt:: via l il 1 l Ces. I:i natura del l s i porta così e io, il -
e lº può altro. » (-. Non portavano quelle idee che egli dovesse avere presto
un numero « o d'i!) finite V i..... » (' -. Conservate il vostro, lion
spendete piu che portino le vostre facoltà, fuggite i vizi, seguitate la
virtù. » Pandolfini..... questa volta parmi aver la cosa certa che il sogno
portasse che... Ces. a Portando egli di questi cosa grandissima noia, non
sapendo che falsi, propose di averne parere con mosse lo prele. » Bocc.
So, i testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che le neva
di farvi grande. Caro. l'ex donerà questa inia presunzione all'amore che
le porto da fedel solº Vito l'e. » (art). ... i quali del giovane
portavano si gran dolore che... » loce. « E bene bisognava ch'egli li
fortificasse, chè da ivi a pochi di avevano a a portare smisurato dolore. »
Cavalca,« Di che il padre, e la madre del giovane portavano si gran dolore e
malinconia, che in aggiore non si siria potuta portare.» 13o.« Ma Iddio, giusto
riguardatore degli alti il merili, 'e mobile Iemmina - conoscendo,
e senza colpa penitenza portar de l'al: ru pe cato, altra mente dispose. »
Bocc. - « Percio' lì è quando io gli dissi l'amore il quale io a
costui portava, e la dimestichezza che io aveva si o, Irli capo II li spaventa,
(livelli loin l..... I 3,. le all o!' « E da quell'ora il li illzi
gli pcrtò sempre onore e riverenza. » Fioret I. E 11 lì è da falsene il
raviglia. I lil pensisse lo sterminato bene ch'el leno portavano alla persona
sia o C i va. a. « E se il confessore lo riprendesse dei suoi vizi, porti
lo pazientemente: chè sono inolti che, per essere tanto umili e gli isti, spesse
volte si biasi mano eglino stessi: ma se interviene, che altri gli
riprenda, non lo portano pazientemente, ma iº degli I no.... » Passav.«....porterà
espresso pericolo di riceve e vergog:i e dal lillo., (iia lill). a
Sfirmiamo che pcrti il pregio rilett: s tl dl Ill st luoghi. » Segn.
a... lion portava il pregio ch V | V I rom pesi e il sonno per risponderº a III
e, di cosa massimamente chi lilla II, II i V a l o Ma sai che e'
portatelo in pace. » I 3. « So tu ti porterai bene d'altrui, convien cli altri
si porti di te, e Fioretti.Ajutare L'aiutare dei pochi esempi che qui
arreco non è l'ordinario e comune di presta aiuto, socco so (ail lelen, ma si
rassomiglia al to help degli inglesi, nei costruiti fig.li lo help forucard, lo
help of the time, to help lo ecc. ecc., e dice cosa, in generale, che cresce
altrui virtù, o dà I nodo d'operare. Noterai ancora i nodi aiuta, e alcuno,
aiutarsi da chec chessia; aiutare uno di una cosa: aiuta, si al lar checchessia
ecc. “.... e che l'Inilia cantasse il na. il Zone dal Lillto di l)ione
aiutata. » Bocr'. (guidata, accompagnata.e Ritornò si notand piu da patira, le
da forza aiutato. » Docc. sorret to, sospinto j.Fa Itisi tirare a paiiscalini
ed aiutati dal mare, si accostarono al pic ciol legno. » Bocc. sorretti e sospinti.Ma
quel povero Iritto, per aver a con le tar troppi vervelli, e di varie e mature,
spacciata Iriente si inti e di l::i i: si iroli e forte aiutato di lavo a recci
e di concime. l):tv.« Al lllla lolloni - e al 12a lo! ese, e il lile!:l
ajutaio, lº rese nulov, con siglio. I 3 r..... llQlle - le parti si posso lo
aiutare e collo balillage e co.i soppalli.» Fierenz 571).E se Illesio può fare
il senno per se Inedesimo, quanto maggiormente Il dee 1are chi dalla
opportunita, intendi necessita e aiutato o sospinto.» l30 c.Ajutava le parole
col piangere, col darsi delle mani nel viso e nel letto. Se n. aggiungeva
Virtti alle parole.Ma se il lla pl o la par li a lia del celerino per via di
medicina se ne a prenda, con lierà lo stomaco, e aiuterà la Virtu digestiva, e
farà buono il lito. » Cl es.. ll orrera a rinforzare, a ravvivare, a
promuovere). « Per fare ancora i vini piccanti, saporiti e dolci, aiuta assai,
dopo la prima sera, che siell 1messi... i grappoli inel tino. Soder Vit. (gi
va, adopera. Tuttavia, se la pers, ma fece quel cle eila potè, e non ci
commise ne e gligenza, e ledettesi a vel i- il mio confessore, la buona fede in
questo caso l'aiuta, e 'l sommo sacerdote lidio compie quello che mancò nel
de fettuoso prele, o Passav. A.IUTARE I) A CIll.CCIIESSIA, E ANCHE
DI CIIECCHESSIA. « Vedi la bestia, per cui io mi volsi, Ajutami da lei, famoso
saggio e Cln'ella mi fa tremar le vene e i polsi. » IDante,(difendimi da....
()ppure maniera clittica: aiutami a fuggire a difendermi da loi).« Or ov'è 'l naso
ch'avevi per odorare? Non ti potesſi dai vermi aiu « tare? » Jac. Tod.« Anche::lolto
è da col Sidlerare e da Il 1t la Vigliare che, essendo solo, tutti i 11 st.li
idoli gittò il: tel l'a, e iº li ill la cosa gli poterono luocere, nè da lui
aiutarsi. » Caval. (life! 1tlersi. a Pero ('ll è: i Frances lli non
atavano li Romani dalle ingiurie de I,OIII e liardi e dei Toscani; ne il
Pap 1, ne la Chiesa l ' tiranni che lo perse a guic 11t). » Vill. (i. 572.
e lo fo voto a Dio, l'ajutarmene al Sindacato. ioe d'aiutarmi da que sta cosa
al...., o di li, 1 l'ere, il ll'ajuto le l...., Boc.Io vò infino a città per a
illla m a Vi enda, e porto queste cose a Ser a l 3olla corri d' (i inestre, o,
c le m'ajuti di non so che nn ha fatto richiedere per una comparigione.... il
giull e del dificio. Bocc.a Sempre o poveri di Dio [ile!!o che lo giadagnato ho
partito per n mezzo, la lilia Ineta col Veri e il l is tra Iletà
dall do loro; e di ciò m'ha si il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di
loelle ill me - glio fatti i fil 11 l inici. n 130. e Alberſ o d'Arezzo
era te ! 111 egio, le per delolto il quale gli era addolmandato e mitra
ragione: onde e si ra Intl lido a S. Franco che di ciò il dovesse aiutare. » V;1.
SS. Tad. A.I l I'.Al ' SI A...... a.... Ti o, ipo -olio rimasto dei
lise le mie speranze: III lºt'e Voi, lìoll O sta inte si g l al lilot I V, di
rai VV i dervi, il V e il test i pillttosto a prevaricare, e non vegognandovi,
quasi clissi di al collo la lite ingorde, indisciplina e, le quali allora si
aiutano a darsi bei tempo, era pola 11do per ogni piaggia, carola ndo per ogni
prato, quando antivegg, no che gia sovrasta procella, Segn. s'ingegnano, pro iº
lo trachten, tàchent). Nota al Verbo Aiutare 571 – Parla del seno
delle donne che per parer più pieno si può..... 572 – Così l'ediz. fior.; – La
Cro Sca e La stampa delle Soc. tip. Class. ital. leggono un po'
diversalmente: lion atavano (aiutat vano, nè liberatrano i lio mani. S e
ritire \' illo solillo al Isi pi ii e in no comuni oggidì. Si ado lº' i
''l ct ''l Nºttso, il gºl l pprensione, coscienza, notizia di chec lºssli, li
guardi come il latº glise. Nota i nodi: sentirsi, sentirsi (il capo......; Nºn
li re dl il 1 l gelsi, avvertirlo, la r sentire ad alcuno; N. il lir (le'l gli
e' cio, li ul, l'', l'a mia l o ecc scºni lir bene, mi alle di checchessia, e
simili. lo soli i ll ella sento di me., Rocc. \ V e i tit Illa ira solº
ai la lollia le quasi non si sentia. » Bocc. ll (Illi, le si alte: il letta
ogni parte del corpo loro avea considerata, lls, el l -se deli a Illa, le chi
ai? I n l'avesse pulito, non si sarebbe sen tºto. » Bo se al 1 o l'avesse punto
mi li ne avrebbe avuto il senso). l) l'1 e le lla I d glli il test i e le ii
senti al capo. » l3oce. I me ne sento alla borsa. (... ll I. S. Bernardo
di e li mi ni loro stupido e che non si sente, è più di º ll I ligi
la lla Salt l' 1 ss. l 1 no li il senso li sè stessº, i. (olli lel quale - la i
vizio della super leia, e non si sente, cade nel V Iz lo lella lissili la
del' 1 a 1 ne, e I diio palese il suo peccato, acciocchè la co. fusione e
la nla li la lel peccato brutto lo fa la risentire, che prima er: il
sensibile, l ' s sv. \ V e I talit ezza per l ' s lllite dell'allina, che
della morte del si sentia niente. ti i.a Il rumore dell' 1 al 1::: van ls li a
grande, e quello che più lor gr. l V il V a el.. ll e-- oteva no sapere, il l
ossero stati coloro che i pita la V e vallo. VI: (li, il l Illa 'e liti e le
atl a il no altro ne calea li in aspettº i di li lov erlo in Ischia sentire,
fatta armare una fregata, S I \ i ll lito. (... l 3o. le: le [lli li
elite, e con le addormentato il sente, cosi apre l'uscio e vi sene dentro. o
lºo ('. \la poi che ella il senti tacer disse: o l?o « Non potrei sentir cosa
alcu ma che mi osse più grata, che ierl'esser le!la slla lollolla gl azil. » (asil.si
mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avreb be per
effetto; e per interpositi persona sentito che a grado l'era, con lei si col
venire di doversi e in lui di IRoll la fuggire. » l'8o c. 529). IPer io hº se
rigli' rdat, v'av: ssi, non ti sento di sì grosso imgegno clle tll essi Illella,
oliosi ill to rose, che.... » l'80cc,I a giovane d'esser pil in terra che lº
mare, niente sentiva. » IBoce. (530). (ollo il tavola il solitº l'olio, così se
le scesero alla strada, o Doc C,e Senza farne alcuna cosa sentire al giov., III
- III Ise o il via a Bocc. “ E col mandato alla lor fa nie, le opi: ' viº, per
la quale quivi son trava, dimorasse, e gli 11 -e se a 1.1o v In Is-e, e loro il
facesse sentire, tiltlc e sette sl si vogliarono i l ent: i l el laglietto. »
I3o.\ Vvellº le 1:ll' 11 Ille cl, (.ri, e' o, (Irlino al palo con un stio a
Inico a ce la I e e fatto lo sentire i (i la l.lole, compose con lui, che
quando un certo enno a esse, egli vi -- e troverebbe l'uscio aperto, La
fante d'altra parte lui nte di Ille- o si prend, fece sentire a Minghino clo
(iia corilino l:ori vi. ilava e gli dissi » Bocc. Venuſ o il dl si
alleint e l -sendosi a Vl: ddi le ha 11 ovata morta, III rono alcuni clie per
invidia e l dio h a l gli tto portavano, sul lita III ()11 (:il l)ll a l'ebbero
fatto sentire. » le non si ppiendo per il I | tergli presta mia disposizion
fargli sen tire più accornei:unc)lle cle per te. i ti collinettere la voglio
13o. « Come il sapore del V Ilio vo clio, che per vecchiezza sente
d'amaro....» Sollec. I Pist. 03.Non era nel bilono investigator. l i pieni a ve:
la borsa, che di chi e di scemo nella fede sentisse., I3o.a Io il quale sento
dello scemo a 17 i che lui, lei vi debbo esser caro.» Bocc. « Ed oltr'a e io
disse ti co- li questi - la bellezza, che lui un fa. s|ilio) ad Il dire. Fl'ite
\ Il melt, li costei sentiva dello scemo. » Bocc. 531,. Ttl st -:)
Vissililo, e riel; e se li I)io senti molto avanti. » I3t) 5.3?). Vll'ill ontro
chi, colli e tº. Sente si poco avanti lelle slle file desillo e se, che di se
goli si ricorda, nè sa qual si vivesse sotto gl'innullerabili stati e che nel
decorso dell'eternità ha mutati, segno è che.... » l' irrcllo morl) sente molto
avanti nelle regi lli delle bilolle e l'eanze.» (i illlo. a S. Greg. S.
Agost., S. Ambr., S Girol., che sono i quattro i principali dottori (li Sa.'lta
Chiesa, sentono tutti concordemente l'opposto. » Segn. e Cerf:n ci sa è, che nè
lileno i suoi ni: i levoli stessi ne sentono si empia mente; anzi molti ancor
de genili lo reputaron profeta di gran virtù.» Segui. a I Jacobiti sollo (l'isti
a 'li...., londillelli) male della fede cristiana Sen « tono. » IPºtl'. lloril.
ill.e Della provvidenza degli Iddii niente mi pare che voi sentiate. » Bocc. «
Allora udi: direttamente senti, Se bene intendi perchè la ripose Tra le
sustanze. » Danſe (Par. 24.).e Ciascuno studias-e sopra la questioni della
vision º de Santi, e faces a sene a lui relazione, secondo che ciascuno
sentisse, o del pri) o del con a tro. » (i. Vill.a Del suo pelo del cavallo)
diversi uomini diverse cose sentirono: Ima s pare a più. che baio scuro è da
lodar sopra tutti. » Cresca Questo Inedesillo pare che senta Santo Agostino,
quando parla della « l'esul'l'eziolle di Cristo. » Vled. Vit. (r. e
Virtù, dice, è diritta niente di Dio sentire e dirittamente tra gli uomini a
vivere, e operare. » Caval. Conferisca gli tutto quelio le ella sente,
come farebbe a me proprio. » Casa. Nota al Verbo Sentire 2!) Il V
el'inchineri dei tedeschi: Analoga l'altra frase (v. appresso): la c all rul
sentire chi ce li ossia cioè operare fare in modo che la non i via Venga
il suo l'ecclli ecc. lo 0 lo che li on s. Il ll grazie del 13 o accio ed
altri), osservava qui il Valiolli, e ne sono del III to pl Ivo, avrei detto: «
La gio valle non si accorgeva se fosse il lerra o in mal'e o, il che sarebbe
dello gl. ss lallali e rile. Il lºoccaccio, invece di dire: non si accorgeva,
dice: nien l Neri li ai clie è molo di dire più scello; e disponi le parole il
selli e lo ſullo con molta mag gior vaghezza. Zali ell ' e io li a Lib.
I. 53 | Noli e ulivo re: Senli, di scºm, o v. g. nella fede) vale nati l'
aver diſello di.....; e sentir dello scemo è aver poco senno, aver la
qualità di clil è scenio. Sentir dello scemo stà da sè. e senti di scemio è
predica o di checchessia. Analogo a questo sentire è il sostantivo sentiva
della nota fra se sentita di guerra. 32 .... mia egli con miglior
sen lite di guerra, si era posto in ag gilato dietro alle spalle di una
montagna, per rammezzal loro la via, e cogliergli improvvisi. I
3art.Stare Lascio le definizioni, le discussioni, lascio i numerazione di
qlI clie cose che o tutti sanno o nulla montano – che uscirei del mio assunto,
e troppo vi sarebbe che dire a voler anche sol accennare a lui ii i modi e
forme particolari dell'uso di questo verbo -, e mi starò contento ad ilculli esempi
lei quali il verbo slare è ad Iso, e ad Ilicio di un valore che lnai o quasi
Inai nei costrulli di una locazione moderna, cioè di chi solo sente e pensa
moderna li crite. Noterai le forme: slare checchessia ad alcuno, per
convenirgli, osser gli dicevole anstehen, zustehen, ed anche per costare: stare
bene per com venire, meritarc. esser ben disposto: stai si, stare per
astenersi, rimanersi: slare (di checchessia per alcuno, per non essere, non
aver luogo per call sa di alcullo: slare uno, due giorni ecc., per indugiare:
stati si bene, ma le ecc. per contenersi: slare, assolillimetile, per non mi i
versi stati e di clie chessia, per essere il ſiles', ei lo slalo, condizioni e
cec.: slal e a lot I e cli ºcchessia, cioè il dicali e il l IIailili di azioli
e le siglli ſi alo del Vello che seglie ecc. ecc. I qui li II lotti per i
clie oriev - olio i 't alle donne stanno che i gli uomini, il quarto pit. Il ti
line e le agli il fil III l Iliolto par e la re e lui lg, si disdire. I3o.e E
sev o volete essere di quella legge - se il loro, a voi sta: Ina a valli
lle...., I 3 s -1 el l 1 l el Ill 'le) l.Sillito la vo' veller', s', la dovessi
la r per III: li o lil II rini, che la a non mi stà. » I, rºll Zo di Mleclici.
V el l l ll: l: l s;ì l II e Il non mi Sta. » I 3,. Bene non istà a lei
il clillo. A | V era la III gel'' (la ril - il sil 1 e il il ti (Il'io Sollo,
'1: iStà bene l'attelldere il d all1, l'. » l 3 m. Frate, bene sta, io li e me
li di roteste cos Ill:..., l o '. Frate, bene sta; baste: ebbe se egli li
avesse ricolta dal fallgo. » Do. S78. e Io non son ancilllla alla quale questi
ill: la III o almeniti stiamo oggi mai bene., Bocc. -i al ddi allo).2ssendo
egli bianco º bi º 1 lo; e legg l'1 li o molto e standogli ben la V li il l30
('.e io potrei cercare luita Sie:a, e non ve ne troverei uno che così ini a
stesse bene e me quiesto. » Docc.« Avendo studiato a Parigi per saper la
ragioli delle rose e la cagio: a di esse, il che sta bene il gentile lloli 1..
l 3o.« At colleerò i fatti Vostri (i miei il III: lliera e le Starà bene. »
l'80. a La qualcosa veggendo Stecchi e Marchese cominciavano a dire che a
la cosa stava male. » l'8o c. a.... di che noi in ogni guisa stiam male
se cosl li lilllore.... » Bor ri troviamo a mal pallito).dis- l' ill V: e se
avviso lui Ilai non doversi la a veduto, avesse: ina pur niente perden a lov i
Si Stette. si aste i: il liss 1, il rio - a listelmell I30 ('C'. N isl, li lev
si stava.. l)av. N si s si s i s; i liss.. - Si stesse, e l'80. lº l' 1: v. I l
il sitº Il le stessero. V...:lle cessassero, si fer Il luss (l ', --
ero (i a noi o non istette per questo che egli passati alquanti di, non
gli r! Inovesse sin – li pirole l 3. Per me non iStara -: i sia. » I 3,
cº. l' egali dolo, l e se per lei stesse di non venire al suo contado,
gliele si li, ſi iss, l 3,. S!),. Senza troppo stare t a il lino e
il territo visto gli rispose. » Bocc. - il 1, sich lange besinnen).l ve: i IIIa
pe: il nº te i ni ivi e no 1 po' Stare un giorno che li ssi. 3,Siette al quanti
l i renz. l i no in Stara molto i l:ì l's il 1., l lel. Stando pochi giorni....
l l as it giorni. Ne stette poi guari tempo e le si. la Iltale della Illin
molte ful lieta is: l BtNè sta poi grande spazio le elli, si ni la Giustizia e
la potenzia il I I ) I V - -, l sºl l e.. l 3 SS0'. l I e Ilio - li - Il
d. si iellza stavasi innocentemente. » Ca \ si... li o 1 i vasi. lº, e lo
statti pianamente fino all'i nia tol nata.. liocc. (.l, polendo stare,
via, - ius o è he mal suo grado a terra: i l ier'.Compa il lato l'opera sta
altrimenti che voi non pensate.» Bocc. L'opera sta pur cosi, ti i sa. I l
Vtloi, stare il II; eglio del miº lido. » lºt,E relet, porrete irrente le carni
nostre come stanno.» Bocc. Staremo a vedere, olle V i governel e le,
Calo. Se volete chiarirvelle state ad udire. » Se n.«Che dunque mi state a dire
non aver voi punto i rotta di convertirvi.» Segn.. « Non mi state a descriver
di I lique il ll'Iliferi, caverne oscuro, schifezze - º stomacose. »
Segn. 881;. - lºra i liolli all'i lli li col V e lo slal e' gran parte
moli e dell' Is Ilo ſereno: STARE CONTENTO A QUALCI E COSA con lei la
serie - ed egli rice! cò almorevolmente. La basso che stesse contento a
dazi ordi a mari. » (iiali. - e Ma siccome noi Veggiano l'appetito degli
uomini a niun termine star e contento. » Bo(C. « A me li li pare buono
collli, il quale lo ista contento al suo pro prio. » Palld. STAIRE
SOPRA SE In ne halten SS2, a Alquanto sopra sè stette e cominciò a
pensare quello che la dovesse o Bo), Li Volse dire, senza pit | ns. vi
clie e - e u ss (Il 1 l: proli: tt i Vl a guardandolo fis, nel volto, per V del
e se egli diceva la V cro, le venner a Vedliti quegli occhi spal V n1 i ti...:
stette sopra di se e li e però disse: l'otrebbe esser clic... Fierenz.
ST'.\ I º I, SU I,.... - - ST AIR E SI |, (il V V | | | | | | | | | ((I (). (sillli
| | | 3 (- ST AIRIE SU LA RIPI I \ZI() N E. SI I, IPI N I () | | | | | A (VV
VI.I.E I? I A, I) EL (()N V EN I V () I.I. - SI' A | ' I SU I. (VNI) E
c'e'. a Stavano sempre sul contradirsi e difendere la propria lt - i « Inigliore.
» Bart. e Stalino Irti su la riputazione e gli ideg: « Messer lo corvo io lo
paura che il vostro star sull'onorevole non vi a faccia lIlarcire in questa
prigione. » Fierenz.a E stanno in ciò tanto sul punto della cavalleria che
persona di Volgo « è Inai alm Inc.-- a loro col Vogli. » Bart. : gli 1 il
ri., l3 l: i. STAIRE A PETTO | ener fronte, reggere al paragone, «
si scusò col dire che non ave: gente di stargli a petto. » (iia Ilil).
STAI? I, IN FIEI)E a Pochi ne corruppe, gli altri stettero in fede. »
l)av. SI \ RE IN SOLI ECI l'UI) INE V. g. de lalli altrui prendersi briga, es
serne lui lo premi tra SI \ It I A Ll.((il crisi liti, elorca, la II
nella liti... reggersi secondo... ) l Il e no, le tuito, stava a legge ma
umettana, gli si ribellò... » Bart. S I \ I Rl l?I l l N () / e mi e' e
la llo su di lui l Nilo partito – STAR BENE IN (i \\llº E forſe da la
persona SI \ RE IN CEIRV El.I () (saldo alla pr 111 ss S I \ RE \ | I \ PIR ) \
A di Probe bestelen – STAR SEN E NEI.I. \ SENI ENZ V NO a lire al visi – STARE
I).AI - I 'OCCIII () (A | | | V (). \la V to io, che gli stava
dall'occhio cattivo, non lo volle udil e....» l'occ. S | V | | | | N N | | | |
| SI' A | R| | N | | N | | N N l. (o la base del 1 al pil e quasi ai li o
sta in puntelli il mondo.» Fier. si eI tto, le li se in esilio, p - e lo Io e
il ti: i piè Inail o, stava in tentenne. o l: le (liz Si ponga nelle da
li Ilio all'uso del sosta livo slanza per slare, tral le mº) sl. in lui ſia i
c', lino e lo micilio e c. (il voll:i li in lato veri pla, endogli la
stanza, là g: i (oln e 1 I pia e in stanza in Ille ta i ltta? Fiel enz. E come
le g. a V e li palesse il partire, pur tenendo moli la troppa stanza gli osse
agio e di voli e l'avil o dilettº in tristizia, se n'andò. » l 31.I ra gli alti
Vlo i l o, cavaliere celebratissimo, e primo perso maggio nella dell'imperato e
in petrò al padr e la stanza stabile nel. Mlea o, e per i o is reti ministri se
ne spedire al regie patenti. » Bart. IPensando voler fare stanza il ga e
continua fuor di Roma, e per la sei i re a l), il so solo ova rinai il
consolato,... » l)a V.Note al Verbo. Stare S7S – Questo bene sla è
maniera in personale e orna all'altra: () - ſimamente, sono con voi, siamo
intesi, basta così ecc.; oppure all'interiezione: capita, buono allè ecc. –
Simile il modo del l'uso: ben gli sta, cioè l'ha il ritata, e
simili. S79 – Conf. Rimanere – maniera eguale: rimane e per alcuno od -
una cosa dipendere da.... SSO – Alialogo a codesto slare è il sigili il
lo del trio(lo avverliale - poco slan le, non mollo slot n lº..... disse e poco
slante se ne - vide il buon esito. I3a rI., se li il climpo del pari orire ess
torì un bel figliuolo maschi. I3 cc. SSI – Simile lo slare dei modi:
stare al campo è iè eſsser accani palo, – stare a buona spel al nsot. Pioli di
compassione il conforlò e gli disse che a buona speranza stesse,
perciocchè se.... Iddio il riporrebbe li onde lorº lina l'avea gillalo o.
13ore. ser venuto; perchè dalla ma di e ijilala non molto stante, par- -
CC (”. SS2 - - Esprime l'alto di chi si pone al pensiero, in dubbio, in
so spetto. -- I tiri la nel libblos, sostene e, sopraslaT corri a re Si
lsi ci sia le molle per lo nare a essere, divenire, diventare, lor 1 (tre il
90S, pºi renire. ridurre, ripori e, iar ritornare, iar diventare lsali\ al
lile. l iuscii, l i londa e ed anche per essere di nuovo ciò che alli i ſo alla
cosa ci si innanzi ecc., finalmeno per andare a stare, prendere Nl ct mi s (t.;)(!
). l oggi, poli legali le lito, lo costruzione e l'ordine del l'azione, e
lo si liri, clie lori ci ſi poi accadendo cosa tua. lº a V v l It il il I
e torna uomo Ine tll esser solevi, e lì Olì fal far l ' I l3...l'alto i a | 11
he tutt, torno li sudole, e tutto trangosciava. » Ca valca 910,\ l spill 1, si
rende l'ono alla Verità, e battez z.it tornarono non solamente cristiani, ma
predicatori di Cristo. » IBart.. La nl IV Coletta - I lista e torna in aria. o
Fr. Glord.l)el lle tornò in istatua di sale. » CeSari. I loro pompose botteghe
tornano a orciuoli e zolfanelli. » Sacc. di v si liti il collo il l essere.....()
il 1 ltra il ro lo ai la tornavano al buon ll mio forse tre e mezzo. » Sacc.? E
il V V elli, colle del buon cotto che a mezzo torna. » CreSc. a S1, ll ' I g
Ill la l effa iornò a vero. o l?art.a (i la, la Valle, le carni i listinte...
Egli era tornato ossa e pelle nuda. » (es: l l'.La caduta di lºietro torno in
fondamento piu solido del suo innalzarsi le lege poi. Ces.Ogni vizio puo in
grandissima noia tornare di colui che l'usa. » (ri doll dare il.... l o C.A
dunque le parole di Crist, tornavano a questa sentenza... » Cesari, a
tanto lo stropiccio on a qua calda che in lui ritornò lo smarrito colore ed
alqua lte delle perdute forze, e le e rivivere) Boce.a inſer ma di gravissime
ed i maldite infermità intanto che la purgatura del naso e le lagrime degli
occhi e il fra ido Ilmore che le usciva dagli lui, cºn le lido: il terra in
ontanelli e ritornava in vermini. » Cavalca. La qual cosa ti memdo l'aolo,
fuggi al deserto e quivi aspettando la fine della persecuzione, con le piacque
a l)io, che sa trarre d'ogni male belle, la necessità tornò in volontà, e
incominciossi a dilettare dello stato dell'eremo per amor di Dio, dove prima
era fuggito per paura mondana....» ( l'avalca. I, lu go studio della
volontaria servitude, la consuetudine avea tornata in natura. » Cavalca. º sel
l'eca un inferno) a casa, e con gran sollecitudine, e con ispesa il torna nella
prima Sanità. Io e. e la quale ſia inina, rapida Ilente consiln io e
tornò in cenere quel poco a che l'era rimasto, o (es. le e divenir,.Ma il Si
Verio tormolle all'abito e al ritirarmento..... I 3:1 I t. io e le ſei e
ritornare.“ Qil lio stesso ill, la I a bbona e Io e torno il vento in poppa.
onde sall'ite l'ancore, ripiglia o! I l vi i gio. 13ari. Ie e tornare,.... e Sp
111a gli 1 11:1, V., inza, i - II i cd 1, tcrnò in amicizia i parenti i degli
ammazzati. » l?il l di t-se il l....... e dei suoi zii - lli di II lo ristor.
tornandogli in buono stato. Bocc. 911).a Tornato il re in istato e la città
come era in tranquillo.... » Bocc. i -e fosse stato il piacere a Dio di
tornarlo in istato, tutto.. s - si gulalaglia Va all i lede. » I 3art. No Il
Solalilei 11, avea tornato l'uomo nel primo stato. Il la a V vantaggian (loit di
1 1 cippi pill dolli l'a Vea - Il bil II la.... (.esil loIII e di.... lIl lla
nella memoria tornato una novella.... » I3o c. Tacitarmente il tornarono
nell'ivello., 13, riposero a l'ill ('a la clle IIIali in casa tornatalaSi.....
I 30. lIn giorno di salvato se lei lo costo: il la 'nzi alia chiesa di S.
(i lill allo, a nella quale tornavano. I regim V allo I; ost l' V (st Vo Nll II
lo, Ca Valca. a lº fa venire Simone, il quale torna in casa di Simone coiaio. »
Cavalca fatti Aspo-toli).a colmando il dile sll Zelli che il - Itassero, e
consider: ss l' in quale albergo tornava il vescovo che i veri predirato a
Cavalca. Simile al ragioni lo è il tornare delle frasi: II, (.()NT ()
T()IANA cioè non c'è errore i cl calici lo. I | Ierale: il collo si riproduce
bene, risulta esalto, riviene 912. TORNAIR 13ENE esser utile, di
piacere...... « Coloro i quali sono grati perchè torna loro bene cosi,
non sono grati se a non quando e quanto torna ben loro. » Varchi.a Scrisse
quello che a suoi i teressi tornava bene di far l'edere. Bill I. e fatela
quando e come ben vi torna., Bocc. l'()lº N VIRE IN A (() N (I () \...... stal
utile lºlºsa che se a Dio fosse piaciuto di prosperarla, tornava mirabil
mente in acconcio al desiderio del Palavi, e a grande utile alla Corona a dl
l'ortogallo., Bart. l'() I N VI RE IN NI EN I E lil liti º se
assai, le ſtia li tutte in vento convertite tornarono in niente.. I; ) -.
l' )| | N VIRl V (il l ()| | | ((I | | | )| la Illal e sa tornandogli
alle orecchie., Fier. Il testo la r o' e tornate agli orecchi di.... »
l?art. l' N VI E \ I ) | | | | V | VIRI e c. si pa rtl e tornosSi
stare in Verona, e (ii:alm! Note al Verbo Tornare !)()S Sinile al
tour ner dei francesi e più ancora al to turn degli in glesi: The milk, the
beer, the urine, le cream, ere g thing li (ul lunn ed sour. l he jeu is going
to turn christian. – l'his young mall first intended to study Ihe lav, but
after W:ards lle l urned Soldiel ecc. ecc. 909 l'illlo simile anche in
ciò all'inglese: lo turn in an inn, e va dicendo. 9 () Nolalo questo
modo: tornare in sudore, lornare in aria, tor mare in sangue e simili cioè
diventare, convertirsi in.... !) | | Nola, la maniera: tornare alcuno in
islalo, in vita etc. Co testo tornare tiene alcuanto della natura ed essere di
quei ver lui che mi piadue di contrassegnare col nome di causativi (Par le 2.
Cap. 2. Serie 4. Ma è l'uso e la forma al tutto singolare che vuolsi qui ancora
notare. 912 – Tornar con lo simile a metter conto, metter bene, metter:
me glio - è altra cosa: « Non li torna con lo recare all'anima tua un
minimo pregiudizio º Segn.Vernire Olire alle cose delle alla parte I.
Cap. IV Classe II, noterai di que sto verbo i seguelli usi:\ EN Il 3 E A.... V
EN Il ' E IN....: e il ct rich o V | N | | | | CI I IE(CIIESSI \ ecc., per dire
nire, la rsi, rialli rsi di..... lo ruoli e c' Nini ill, sul Pil l'as tre
rulen, su I l l'ots ka) mi mi ºn e le. gli il II pe: a lo; i erano venuti
a quattro, il le All - lls-ii e dtle (e-il rl., (iia lill)..... ades, a ndo i
piti leggeri di cervello, il bril iati il danari, preci pitosi i ga bligli,
venne a tale che.... l)a Valz. e assile la Itosi.... a patire la la lire,
il s II', sei, con tutti gli altri st Illi e disagil.clic..., era gia venuto a
un termine. lle il disagio non lo olfendeva e dell'agio noi si ci a V a (riali
W e il briligen dass...., 11 -: dosi illeri, il venire a volte si furioso....
(i, allil, il (ſlale il tori, ea lilelli e il nºt e V a 1 il 1 l l li do a V e
1 - o ti il to Il sito altri 11 venuto in povertà, il ire gli il li ri.:)
V:llieri, c. I I I I I I I 1, divenne a tania triSiizia e mia iin coinia il si
volev l l I-; e il l. » l' 1-- I v. desiderosi vennero il 1 I l l: V.. le;
e...., I 3, «... sino a tanto, he venuta discordia civile tra l ti: io e
l'altro paese...., (i 1,1 mil).« Tanto pili viene lor piacevole. Ili: i to li
aggi e stata del salire e dello slli (olti ro la gri V. Zza. » Bo ('.
VIEN II? | IN ()| I. IN |) ISIPI,I VZ |() N l e Nili i li V | N | | | | IN S(I
R].ZI () (.() N.. V | N | | | | | N | V \ | | (i i | V V | N | | | | V..... per
renire, di l riraro. venutasene in somno furore...., l 3, ('. calo il 1
alta trisi izia e il la; iia a irli: i - I ne vengo in dispe razione. » Fit,
l'.Veilezia turbata li. Il testa per lita sarebbe venuta in qualche disor dine.
» (ii: Il j).a M: la Belcolo: e venne in screzio col Sero, i telli e li fa
Vella....» Boc. « Non ostante che tutti venuti fossero in famiglia, uniti che
mai strabo - -, le oltre le spel ea. » I3 ge.Chi mi sta pagatore l'Io
venga a dimani. » Bart. Ces. Questa parola parve lol te olltraria alla donna, a
quello a che di ve nire intendeva. I 3,. VENIRE AI) Al Ct N ) che che
sia, conseguire, meritare. – VENIR | N (()N (I ) \ ENIRE I 3 EN E ad ai tirio
per riuscire. arrenir bene, al maltro all'attimo. VEN | | | V ((N SEI RT () V
l'Nllº I; l'()N PUNTO). Nori gli potea venir molto polti tre li dottrina,
ne di speranza, nè di autorita nè li gio! a s'avesse acquistal n. » C aro.(Il
le veniva loro in concio di Il gere, ed essi ll facevano con lor sen e 11. »
I3: i rt.Col forte le 'la falli e la ali lo si levar l'assedio e tutto venne
bene.» Dav. MI l'asciassero a pi: el e e bilo: empo per le foreste e discorrere
a Irle ben mi venisse. l' el'el./partiamo d. ordo li la sto la soro, il to he
ognuno possa fare della parte sua quello che ben gli viene. Fiorenz.ma per le
ogni cosa gli venisse a conserto, appena fu in porto che s'incontrò il l.... o
IX I l i.\ Iſili hè dove gl ii e venisse buon punto, al re lo mostrasse. »
lºart V ENIRE, VENIR A \ VN 'I per occo, e, v. occorrere, apparire, mo
strarsi, affacciarsi. - Aguzzato lo ingegno gli venne prestamente avanti
quello che dir do a vessº. » I Bot (. « A rispondere assa glon vengono
prontissime. » Bocc. VIENIRE A l) ALCUN () ll. F AIR CIIECCHIESSIA
(loccare, Jemand die lei le kommel, . A te viene ora il dover dire. o
Boct'. VENIRE AI) ALCUNO DEI CENCIO VENIRE Pl ZZ0) – VENIRE DEl. CAPRINO
e simili - ed anche solo venire per venir fuori uscirne odore, esala l'e
ecc. E quando ella andava per via, sì forte le veniva del concio che
altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse, di chiunque ve «
desse o scontrasse. » Bot ('. 920). E se non che di tutti un poco vien
del caprino, troppo sarebbe più a piacevole il pianto loro. » Bove,
Dianzi io imbiancai miei veli col sulfo...., sì che ancora ne viene. » Lipp, \
ENIRE DELLE PIANTE per reni, su, mettere, crescere, « Quella che mezzaliani
ente - lo iglia, a liglia e viene. Cresc. VENIRE ALLA MIA, ALLA | UA.....
a Venuto s'è alla tua di condurmi oltre Imonti. » Vill e da hin bringen \
EN II? MI EN ) a chicchessia - gli ºli p. I l:i, i lobi o delle promessº
e simili) \ niti il partito il 1 e il l via lo venir meno al debito delle
loro promesse. I)a V. Risl -, si il ve: a 'I 111 ssa: l' 1 si lill la le
giova il 18 di:lli, al quale non intendeva venir meno. B si ti: 11 e 1 li
della s la propria ssi, V EN II I \ (ENI ) (). I ) I (I,N | ) (),.......
e tll (l: ll II il l:lti S1 ll verrete sostenendo. I 3 i '. e venutogli glia
ridato la d... [ 1 - Vi - e se l a...... il venne con siderando., I3. Fi: no
alla porta a S. Galio, il vennero lapidando., (ovale, e fattosi dall, Illia!
til:: venna lor raccontando.... (- I ri. L'utilita dell'udi e le ville º si
liti di ora in colloscere, e le nel venirli stirpando.» Cers. la lo) l'o
a salitificazioli (poll istal Ile! llo!) il Vel difetti, l'Il Note al
Verbo Venire ecc. è, in Irli Is. Il li sll l'e 'oli 920 - - V
oniro (lel cºncio ll - [llella spiace storcimenti e con l'azioni di viso
e di p l'Stllil, - - - volezza o nausca che al rila di ce:icio o cosa
illilipsilica che gli verrisse vedi la. scillili, il lills il 1.: -) () s
2". Altri verbi di particoiare osservazione, del cui retto uso si
adorna il discorso, ed anche l'idea prende talora maggior grazia e vigoria; e
sono: accadere, acconciare, adoperare, apporre, appostare, appuntare, avvisare,
bastare, confortare, cercare, conoscere, correre, divisare, entrare, fitggire,
guardare, investire, lasciare, mancare, mantenere, menare, mattare, occorrere,
occºrpare, ordinare, passare, pensare, perdonare, procacciare, ragionare,
rimanere, rispondere, riuscire, rompere, sapere scusare, spedire, studiare,
tenere, toccare, togliere, usare, itscire, vedere, volere. Accaci e
re Il suo significato con Ilie, e proprio, e lello di arrenire per caso, inopina
la mente, in lei venire, seguire ecc. Il lorno a questo non accade
esemplificare che e molissilio e dell'uso anche più che non bisogni. Mla gli
all i classici: l i al dissi i vagano il l sless, verbo accadere, in un senso
assai pil ial, o elill Icannelli e vario. Gli esempi li diranno come alcune vo'
e si rii ti: con il lotto, con il corso, ed altre con cºn il '. venir in
acconcio, caler a proposito, reni e ad uopo, loccare, di parlenere, e si ilsi
anche a sigilli al e, ora la r di mestieri, bisognare ecc., ed ora preceduto
dalla particella non non essere bisogno, nichl brauchem ecc. (cc. Conſ. Pall.
I. Cap. III. E in ende ai ancora come un sifalto acca dere si avvenga alla
frase e acizi ci si direbbe sostituendo altra voce o quello che egli
pressapoco º similica. IPerche io ho compero un podero e voglio o pagare,
e fa ne ini, le altri a Iati i miei come accade, a Fiera Inz. come si l: Il
tali e il costanze, o collis bell Illi Vielle, (c'e'.. lolina illo...., e
iº gli risposi a ogni osa come gli accadeva. » Fier. i cioè colive.lientemente,
adeguatamente, o come lui la V e ol)poi tullo', e.... e accadendo ti
serva di me, o l'iorenz. all'uopo, al bisogno). Io potrei, per
confortarla, venire per infinite alti e vie: ma non accade con una donna di tanto
intelletto entrare a discorrere sopra luoghi volgoli e comuni della risoluzio.
e. (i ro, non ſa di mestieri, o Illegio, lo i è oli velici e, dicevole,
opportuali, i c.. Etl alla donna, a cui il ll, lº i io li pi i
lito, li: ()r elle s'aspetta? So correi qui non la grini accade. A io sto
conviene, fa d'uopo. Ma dell'Ilso di Inett l'It gelift zio insieme, come nelle
Real di Sl'ilari: I e di Ilioli i sigli i al rilan: e in alci e l'Italia si
vede, essendo ti-, olt: a 111 inta no e 1 li l 11o-tri, a noi non accade tratta
e o l?orgh. lon 1. (t, il gli si app:i: tiene a.... e a III e il rio cadesse il
ri; e il vi 11e di ei, avendo rigi a: il che '...., Bo.. t.. ss, - appar
lesse, , i so, li i i ll io V Non dis-e: i a lizi (ſt 1: Io la r
cadde lº do il le?, (es. o o se, a V. Vell veli:.-. ll ii l'.... accada: il la
di II lº - stieri..Fece cos e colla pr -: i o!!a spada che non accade adorna le
di l: I: (e, p Cirle...., (: l 'o. i liti e, iroli e le ossa ri..Qll:) !ldo il
rili di leit I e II li ſi l acca dcno altre ti -si l: azioni.. (ri, Zzi. lion,
li li la d'ltopt di..... E lic, chi i: istiani - li Iile ! I po a si'l citudine
di sal º:: -i. ] il ce: i letti I l accade, Sia il I l II toi, le cºl
ltsinglliaIlio. è lI::l 'life-ti- iII:, S.....Ali, il non accade, i 1- I lii: i
g male! » Sºgli. Iila: lor: i ti lit li lit.....N li accadrà, -. -i, li d'oro
il 1 l izi l: i i sta il listino giornal li le t in. i ! e col Salinis a.... l)
ils IIiti in In.. Segm. non sara bi - Ogil (....Non accade per ta: to i lie i t
II li' li -so di lui l'in - l'Ize. lol dl }ivi, i, l1 Il cli..... ll 1: i ', -,
Il li Sºg lì.Vi bast ri e ai la s; e iº li mi l britto a o che fu commesso, mln...
il mio lo; e qlla ido, altri, il e o lo o ign ra lite. A olesse e spritri, o,
avvis it, lo amorevolmente che non accade. Segn, non con vie: -i - Vie. l.Il
qui e disse al detto Fed rigo: \ndate a trovare un certo giovane ore e fice che
ha il III e le velluto: quello vi servira li ti belli e gel o non e gli accade
II io disegno: ma poi li è voi non pen-iale che di tal piccola cosa io v e in
fila giro l ' ſ tiche. Inolto v lentieri vi l'iro Il m po o di di a segno. »
Bell Cell (non è bisogno che egli abbia, o io gli fa ria Il litio (lisegllo.A
cc orm ciare la ssi sºlº il ro - se e se li rai ii garbo e non so che di
eletto, ll Viºli alla II se la Iso i si litio di questo verbo. Guarda come, e
il lilli | is ssi I, elio che non là ordinariamente il Il 1 del'11. Sgrill I l
pl plio, acconi da e, assellare, disporre accon cui mi cºn le mºlle e in buon
ordine al l inger, si richten, lo dress, allogare ssi i i ssa a conciati e le
gambe, le braccia, la testa, ll il ct col Not, il luci col tr. (. ll 1 l. ll.....
di colecisti e cut ralli, uccelli, diamanti, l'ilari e ce: lesto verbo,
costrutti e maniere leggi: i dri, e li ill sigli il l più aplo e
figurato. Acconcio le braccia i li, l l io l'. (.lle si s.... e, a da l
idel e.. averla veduta quali lo s'acconciava la testa. (Illanta diligenza, con
qualita il ll Iel: l i - -, l SI | o! | i ti va, la V Via Va, intreccia Va, ol'
il via i l lil'Il sil i l i 11 il lo e le li li sappiamo acconciare le camere,
ne lar, in olte, sa le a.. si lati: lo sta si richieggono.» Bocc. E e il tro i
la si pe ll it lta, la quale molti pruni e al loscelli avevano acconcio il modo
di iolo o d'una capillnet a. » l'ioret, Racconciava, i le, (.es.E' e all'il: ci
lire i diamanti non si possa lo acconciar soli, i l': i, il l: -- l tra l
' o. » l8ell. Cell. i vz: ezioli e le lezza elle e si veggo:lt il lili iE si
acconci i lil,......... i lor ronzini, e il lesse l ' va ige, e lº \ sl e I I I
I se li ve: ero a F l'elize. I 3 r. ri è st l'illi, il ll(ili ni: elido. lle a
vela l': i slis- gl tl, e g O\ el'll Ssel:ì bene. Chi libio, acconcia la grù,
la II - a filoco, e col sollecitudine a cuo.VI esse l'...... preso, e per
acconciar uccelli viene in notizia al -.Acconcia il tuo i i possº esser
tolto....; se l:ai d. ll: acconciali per modo li si sappia sieno tuoi.... »
Morell. (1. (1, il\ vello a tu qll il Coni e il figliuolo e la figliuola
acconci, pensò di più a li le cliniora e il l Inglilterra e lº allogati, i
messi a posto”. Seglioli al time parlicola i manici e usi diversi del
verbo Vccon cia e conciare.ACCONCIARSI p. es. alla mensa. Fior.: ed anche in
significato di porsi a sedere, mettersi a giacere acconcia mente, assellarsi
ecc.. Si acconciò gentil IIlell, e i ti voi:. Egli verrà la 1 Voi
il 11a bestia nera e o li liti,... (Illa ndo a costata vi salà e Voi
allora Vi Salil Salso. e colli e slls, vi siete acconcio, così a Irl) do e che
se steste e ries. Vi rc II e IIiani a tito, se:iza piu o ai la bestia. »
I 30 ('. \ ((()N (I \ ItSi esser utcconcio ut, o li lati che ce li
c'Nslal ciclot I lati si, russº gnarsi, esser disposto. Il to, tppa i
cech lato..... Io lo:l po-so acconciarmi a l el I e re.... » l 3,.
\ (livelli le li I): 111... a pl i ro a... - l'e. sospil i.... non pote;
gli rendere la lei dili i donila: per i quali cosa oli | il pazienza s'acconciò
a scstenere l'aver perduto la -la pl es Inza I 3,.e Io non posso acconciarmi a
perdere il fi l'io a file si cal. Cesari. « Io mi sono acconcio a biasimar to I
11 che Asp), gli lotli. » I): I V. Io sono acconcio a voler vincere Il -:
i cºnti. » I 3. E come io sarò acconcio, V -st ) e alla va º lº i. Non è
ia carli e acconcia di sostenere. r i ve l Fr. (ii in l. Quanto più se
puro, piti se acccncio di ricevere Iddio e Fr. Ci lo d. Quivi volti i navi in
tiri ſia rico, in acconcio di lavorarvi. » Bali. i la V l',1: vi
m a E ve le; do l' Argilla i in concio di cavalcare. 13o (disposto, appa
l' chi lt).... i A((()N (I \ RSI ctconciati e atlcino (() N (I | I ((I l
ESSI A conciliarsi, (te cordarsi pacificatrsi. \lla fine...
s'acconciò col Fiore: il il li:lti i (illelli (li l si allit, to: Il ssi
iI Vleli agli 1. o V ill. (i. Lo e pri: la II:ito il ole, per
racconciarlo con Messer:) lo li Valois. o Vill. (i. ... col quale entrata
in parole, con lui s'acconciò per servitore facen a dosi elli: II; il r
l: Fiºmille. » I 3 (. Nola questa forma singolare: acconciarsi con alcuno
pºi se ritore. \CCONCI \ ItSI NEI I VNIMI ) capacitarsi. I 'carsi a crede
e persua tlersi. (ili ei trul. \lti Silli SI, V ii e !:i 'li, l'Isalli, e ci
sia - acconciar nell'animo. ) aCCc: i ciar ine! l'aninno, l l3 - li V.
I distinzione e \ ietti li ! I Ve!'l, l: (i iallllo. (ieil.
la melitoria e le |! l -, vi E acconciare nel mio animo, e non ini parea
lecita - l - e-- l - lº s; - li S liatori. » I 3: u.
Lat. \ (C )N (I \ A Nl VI \ / i pati si alla no le col ricevere l
Set 1 e mi cºn li li il ciliotti lº si con ll li ecc. Vi es. (acconciasse
i fatti dell'anima t: glla le, e l a li: il 1 e il .. l l: l. sl a i
(lisse 'lie egli susa, i l si che egli la voleva Z: eri Vil. SS. I Pil
(ll'. v((() N (I \ | RS | | | | | | A N | VI \ il n. i da i falli
dell'anima. ct no io rsi in ciò che riguar N e ciate dell'anima Il
n al! Si li: i pilli ! sto cle vi accon - i lì piu al tempo,
V ((() N (I \ N () \ V | N V | | | | | | (il ('c'e'. F.1: e volesse
stare a ctl i l'u. - I l a bottega. E Vi, l Acconcio con Maestro,
la rasse i.... l acconciateli I tl. lillo, a io lì è inil \
l. (N (I \ I tl. VI (Il N ) pr millo. Il tra Ilia I l. l i nºn lati lo
ecc. su l ich len. \ ii farò acconciare i l Illia lii º l
i si tr..... lle tll ci vive: ai. » l 3o. ... Aloi li. m'acconciò
questi ll e g le I); o V el li o, o (a ri. Sll: il l lilli 1, l is s'. ll
I Il 1 littl. I);l V. lliti sei lili la ll !! ll glie lo concierò
l'eli io lº \ IR E. I ESSI A IN A (C ) N (I ) li.... in vantaggio...,
facen do cioè se r, e checchè sia a suoi lini ecc. l?erg: lilino i lor:i,
senza pil nl o pensi e, quasi molto tempo pelsato a il V e -- e, subitamente in
acconcio de' fatti suoi disse questa novella. » lºoct'. ( \l) Eli li reni e, lo
ma, I N A l in 1 l propºsito, reni in luglio, rec.. Qui cade in acconcio, I, i:
i S. l l si i lºrº di ioso voli in..., se iTorna in acconcio l i -. I l S.,,, i
Nºi voi i 11 - i º se stiti - il re: il 1. º, a tra i -, z º di e, dal e
più acconcio ci veniva, i l ingrºssare il vo. Il V Ad operare
Per poco che al li sappia di Lingua, si accorge ben osſo che il voi, di
loperare dei seglie il I sei il pi è ai l i costi dei lorº il rio e con illo ad
ºgni pelli volgare. - No ai soli a l I I I I: alopei a e bene, ma le o anche
solo taloperai e, per lipo i lati si, gore, narsi, con le nei si; alope) tre,
operare, la r opei a con alcuno li e..... l 'pri ti e', operati e che.... pºr
lati sì, procacciatºre ci: e inali, il ciclopici ai ci... per conferi e, esser
utile, gioca c', o con lo si i e oggi lo on influire. l eggi a Iuo prò e
al dile o al resi. V i lido col e si e-s, li iii, ol, i quaie avea l
adoperato per le a slie III: li I., I o el1 I (verrichtei). a ll re quariiunque
adoperasse i º pr. a, an's Werk seizen). a Mi la V z1: ve il nr ad operaio
i i il 1 il lil... 13:1 rl. Ne ſilesi, gia ch'egli vi adici rosse.
l - - -o sl 11:1, l'III e l11 Il 1:1 s..., vis il l i |,, v – i V, 'l 1 l
il 1 Isse, Irlett -- ed egli il pil ct, i vi l -i, iniorino ai i quali
s'adoperava con l' it (... ss. (); il roli e il lil cli: a C0pera l.ene o y I l
a co; i do ci i ri! tura il - ii Is Izia, - li l ad opera male e vizir - Viv |
- li si diporta, Si ccntiene lº: 1 –- verfahri, vvandoli, iti).e.... li oli mi
ero la gr. z,: i Si - berte a deperare, che [ileia (i (ri: la no tv e ! 1,
governo di vita, ecc.)e il V, e le si illi, o il la il lili, la liene,
virtuosi, troppo modesti, le belle adoperando i lileil lido - lo
appregiati....» Dav. Col, iv. I l l ita 1! Il sºlfi.. niente ad opera
malamente, tutto fa bene, ogni - le glova, e il s Salvani non agit perperamº.
lo II el'o, il rio, dove il confortar ti vogli, si adoperare, e il e...... l:
-, redo re al novelle, le soli i lilli 1 º te ti -Cosi certante iº e Ari it – V
ssc, adoperò colla famiglia. » (i s. si \'.v)lli: li: Il la l o i ri: le tv l
In- ll It ! ! a, e tali o col Re adope rarono. l'egi e 1, il l / s la i3
(fecero sl, operarono in modo, procacciarono).i lil:n le li so il il vi: ti ſia
di m 1, operò con l'apa Gregorio -, hº.... » (1 ialml). id.)ed egli, di e,
operò talmente con Cesare, s. ll e li perdonato il 1 l id.E tº it, adoperarc no
gial l V el:a che... o Bal t. ferirla ndo ll ma l operarono li, il 1 e Carlo,
ripassata la Mosa si torllasse llel rºg il s; I (- i........ e farebbe opera li.
it la liri º la sc a lìoln n. » I) tv. id. Io vorrei che i 1, ne faceste opera
di villa N.N. » Caro (vi adopera sl pressoºl li º il colle per a sua
gracilità Es ) vi il dl -: ma, in egli era il s ii ei cui i valta - at,
di si' nza, di compagno, di luogo, gli sempre adoperar tanto e S: il
riori, ch... » Cesari. che dunque a soste itali: rito dell'onore
adoperano le ricchezze, che la poverta non la ia molto piu i.lilalizi? Io:. il
fluisce, conferisce, giova, « Ma loll di Ilent la ceV a, che poteva, per
rientrarle lnell'allini: li la trielit parenti e li adoperare, si disperse, -
Il 1 ne dove - sº, di par la rl esso stesso, lº giovane, effettuare,
procacciare). State alle li e di buona v glia; che molto più adopera il
valore e l'ardire dei pochi che la inutilissimi i tumba ro, a, quando la fusse
ben t infinita. » (iiamb pro accia.. ol' 'Isre). Si moli da ultimo
la maniera: in opei a li.... i pel in fallo di.....) lonio (i lissimo e
di gran traffi o in cpera di drapperie. » lºocº. e trovato le in opera di buon
garbo, di de enza e di dottrina Vill e va l'aspettativa, mi sentii i
liar, al c il rilore. (i illh.App orre Olll' ai valori e ieller. Il
proprio i tggiungere, arroga e poi so pi di Sel, il re la confusione del polso
e PI 11 cipio tu del mal della il tale, con le li N appi ne........ l () ll il
l i lieti di appori e il 1 - i gi li - - iulo., p e iº le: li ra i sl: i lig il
'... di ripula 1 e' accusa e, in colpare all riti di qualcosa, aldossati
gliela, nel lase apporre ad uno una cosa: l li il 1 i v. l i - gi; ella follia
| I l il 1ale: cippo i si Imparano Is, c live, l ' gi! I lag
esempi. I rito 1 a l er... agi 1 -- lei, e ora apporle questo per i- usi
li - e.. Bo,.E- ii e il V o cl II, l ' Irli i g IIIai sonº la mente io sven t 1
at )::: V, le la cui marie e apposta al mio marito, la quale luorte io l it ti:
B..E le appeni tu ad alcuni quello il 1 i il III col silio t'hai fatto e
iiii?, 13, (r, i 'lo: i --: ci t st: l) il che mi apponete di coolnestare
| e e lil iio la c. 1, l Illa.. (i illl).E Ve; 111 e il rili lag ill: r. 1 lo
si, e s'appose, (l'eli t loss (sua 'Iloglie, ei sºlo a l'i! ). » Mallia !
11. l'att i l 'sti 1, lis - e li, il dr. Ino. l la illg. elier asse non
ti apporre sti a cento.. l):ì s'. Il 21 i liti, vi resti li li lilla i lorº le
co; 1 o Corsi di relli i quei gr. ll li il mini, i l io l.go per certo
che si appor rebbcno. » - n. Inoli s': i galil; e) ebbe o Nota al Verbo
Apporre 5,3 I) a º nel segno. ragionando, è il pporsi, le collge lire, o
forcare il lasſo e piglia e il nel bo della cosa. Var cºlli.App ostare
(Dar posta, star a posta) ''sl - di chicchessia o si illeso, cioè
(lulalido si: s -, l.\ - è issa e il luogo e le tipo s'. Il V: - s ci si
s s' il ct ch ein dei tedeschi, l suo pit ) e', e in quel luºgo | | | i
rt (I sua posta, con I. Parte II (I l. ll i, i', º i apposio c;uando i
lollio. si - i disse l'ogii quella :I - le glali lint re è e.... l'.
I l l - l'avea apposiaia | 1 g l'allo., (i azi. Appostato il piu ienebroso
tempo i l tacite,, lei, ioè nel quale il so: i s - l.: -, i lil a:. ll sell on
clie:almente. ll.:is: i............... (si ll e lo appostasse sull'ingresso del
Campidoglio. ll mi - la al liri o di s in ital re, di frecce e l Segì).I:: dove
aveva appostato, l et al pullm: o ill sul villf 3e; n. l va o, lis- llo, i
retto il colpo).VI it l'ill si Is sennaio. Si sta, la Iat il asta illega vi lo,
i. Apposta ove colpisca, on a o va l), l ' orlo tutto gli l'avvenuta I l o (il
l.\ v... l l ego lº appostar gli Austriaci, a..... ti tasse il la a sul pi
e-iudizio. » Botta te:I n lo lo i in loli - li alidati i ti. le r data
posta il l lie tiva e noi i vlt il cli'io il vi trovi a Quel mal. Ieri in
una siette due anni a posta d'un sold it. » lo c.App urntare 'A | | | | |
| | | | Il lo si ' i loli - li ai i. riprei il l 'o r. tippli il latre il
ct cosa al di la uno. l'l'ov l'. (ppm ti litri e li e.... ii.... l'i: il 1 III
e appuntiti e un colp, e | illlo presi di illil: l. I gi i - t ' ' ) - !.....
l; i si. -: i l fu appuntai o V tº!:lli lo sono, i Padri - -, i::: ' I in
pirole., I):ì v. I l.... I t'i.- I: - - I., fi, i I l - I li.. I ):
I V , le liti, il li il.... -; l -... l is -si l i - i l. S: 1'
iot: vi si appunterà l l i' 13 º 1. E di li a coloro la II, il 1,
Ser Appuntini., (S. S l it 1: AppuntoSSi che s- i t...,
I ) l V. Appuntò coi detti l' 1 l i tutto ciò l: 1:1 Vl:. S.
11, l appuntò un ci: Ip o l: film inò il capit: o o | Ianti lo ci illavº
i. Avvisare (Avvisarsi - a v vi sco) Allego si ripi non del
verbo il livo a rristi e I tir e risapev. le. I vv. 1 i re, I
menſe, il quale in viso a chi og: g:iela i Il lº 1.. i.
s', i lice: i:l I l il altro, si al l o rimase agli sciope::lti l 3
l: ali in lil (: I )i, ci si lti liasin i d il il; ºlio rilli
- ,, l ' il 's si t. e tt l'olarsi, ordilla) e tº. i di l: colpire
il l' -. ! ! !:ì 1 -, i ri'app lº ri: sv ) I s II, V a 1, gl,
\ si appuntar noi l - I l ' ' il il i il appuntare: eppur un apice,
'i - e tutto appuntano, a l - i; - !:) li... la isso il
pari pt Ito, e noi la r il riso, il vell, I tivvisi, e. l' Ili..
issili i i -s (l' i l'i: l' " Il liti i ligi ri.. loli l'illoleri. Ira del
leill ro assoluto, o prono I l hº gli sli, le il valore simile al s'avis 1 e
avis dei francesi li irri in tutina i si. I ti sei sl, la si a: ci lei e co.,
il cili i so, se ben in avviso, I l si ggi ci si po spelli in opera di
lingua ed è a ' s i cli l'oli gli esser:ili le liti e il prelibar l
I l: !. I si li: al avigliosa gran !...... v avviº arcno: lei, i -
in esser velenosa dive I il avvisava li ss e passa r. » Bocc. sup I
l.. li-:i avvisando - - iº l e dissoluti. » I30 ('. - i l avviso il s.se;
desso. » Bocc. lo avvisò i li i' alcuni luogo ebbro lo II: -i, si l e o lº.i l
s ! I 1... ss, il ssetto, 1 ist e dolente se ne tornò; s.l, avvisando - ti - r.
-I:It i..., Bo,li-s, E e Seco avviso illi Illa, i no ll doversi I ve -- l 3o.avvisando
i l e ella gii piacesse poco) trove s ii e lº.l I | tesi. ll e l: e avvisò il
vocabo l'. I ells l'e li it, S'avvisò a coluso ss e trova: e
di... l... l ' ', | 2,. I atto e deliberò I l e' s si s i vi e - ssi di
vole sapere -: ! ed avvisossi del modo nel quale ciò gli i i l3,... l, S (avvisati
- - In che Illes o così ti faccia? Saccº. I.V -: i -. S'avviso il l li llll:n ſ
l /a d'alt lº lì:a: i |....E per ivi set s'avvisò troppo bene, come egli - V. -
ll ': i.Il pil), io si à il lia, s'io ben m'avviso, rispetto ad un altra
assai Il l: si Se; ll. Se gli al riso al ris di un sinificato
ill: i go sl, lº sllo di crisi i '.: i l'avviso, le ''I I I Ilia della sua
bellezza il V i 1 l in tºs, l \l::lli il II lili il. V e e l o il
sallo avviso. l): \ « Nè fù lungi l'effel si o avviso. » B cc. « A cui 11 in
era avviso, li fosse tempo da clan, l ier. e li è già per -: per l'ill Ie 'il'
gli vi ad pe risse, ci il qll 'lo smarrimento non vi rimase avviso da tanto. »
Bocc. 579, acc ol - rilentoe fatti suoi avvisi accettò la proposta. I3 po; id I
a ta li li le e l'i cosa.siccoli le usanzi su l ess, le li fatti suoi avvisi,
spedI.. 13 i fattl i s Il ri. al li,.I)omi: i lidò il pilot se vi era avviso
del I a lisca il lº i rt s si s orgea a Apple la avvisato da lui questo
peso il il p. In 11 e-cºit se ne riscosso a Ces: l'i. Note al
Verbo Avvisare 5, S - Nola il linº al 1 al riso rsi li ti ma i sat. d i
siti si il mal cosa, e vale la d ' a lei la pens. Il ct, i | I l s rie, ci -
ci) ruſ e rsone'. I )i si ti li hº i risa e il noi cosa, per il rei tir lei,
notarla. Appena arrisalo da lui questo peso di ieri di I e di presente se ne
riscosso (esari,579 – Quanto è vago o lorev | Iesſo il is gg si direbbe: Il
- | perocchè a tali strette, non vi fu empo li peli sare, escogitare, o
che altro cli si limigliari i c. E a stare Polli menſo doppio sensº
di basſati e le seg: lili o il violi: ()nte sl'arle basta a me, cioè in è sul
lirielli e li li li i lis alli: iº basto a quest'arte ho mezzi e forza per.....
le lili l: i lil, le liri, l' 17 e il livalho ad imprendere... La prima è
comunissima e volgare, le tre le chiali con esempi. La seconda all'incontro è maniera
eletti, e di quei pochi che sentono un po' avanti nelle rose della
lingulil. Anche il bastare della frase buts/a r l'animo o Se vi basta
l'ulmino di far che in accelli offritenegli Caro Conf.. il Valli l nino - è
al purito il bastare di questa seconda lo ilzi lie, e indica pressa poi
esser (l'animo da tanto, giungere, per renire (l'unino a tanto, e vi dicendo.i
la ro: ra. al its bastiamo, a 13occ. 5S0). - i r re i al l i rbicati e
cresciuti, i il bastiamo a stir : l. bastere;li e.. 13 or sar hl) e ta......
n...... risentirle una copia i ra i on v'avv a quivi dipintore, che a ta,
nto bastasse, I le dele (li. I 3; i 1. Note al Verbo Bastare
) Sſ) l'id è lo stesso lº il ci l dll e il vece, con le diremmo noi, il si
delle donne lo slot l'atl e l l'uso e l'arcolaio, non disse lui slot, Ilia è
assai. il so, orsi e rifigio di quelle che ama mio per i celi è all'all
ssati l'atto e 'l luso e l'arcolaio il di l': i Cercare E il
cristalli lil e I l nl 'l Nucl e il Salili i re, slidiare con il tenzione, I l
is e, il laga l', col sill' 11 lt ll ſi asi: ci ce l un libro, cercar le di se
ci I citi una perso il ct -. l)i si il cc i col 1 e una città, una terra
sigilli passa ossei validi.. ei clo, la co. li oli al lilli e soli i
pi: ()li le!'a il e lilli e, V agli illi: il litigo studio, e 'l grande
cercar lo il volume. o l)il lte.i Lercol 3 al 1, e, i li, li i e i buloi. »
Caro (ricercare una persona sig: i ii a il l e 1 i lie i ': li.\ clotto) etti
si -si il te: zo e alla metà del gua dagno, a cercar le case, e ieva l s: il
1:1, e, per trovar e li godesse lasci lita C, alla l):l V.I 'e'.rso li corcarne
la divina voi omià i ll Zio, le altrui, o l'ior, n iºgge.a Cli ben cerca
tutto il vangelo forse non trovera che un siffatto acqui e sto di tanto pop lo
il solo un tratto in esse mila i lle sue prediche (i ( (Ill:llito il Sola ([llesi
a breve (r; i t. e S. Iºietro, a (.. º rivolse ogli diligenza - l' e di
Illili i lile. ll i s loi a cercar della sa e nità. » Gianllo. Elissi: cercar:
utti i mezzi. Inet r. - mi premi per ria - V el'.a Sillitti,.a Augusto cercò di
successore il rasa slla. l)a A allA. - 1; 1: o lio. Indigo per il
Vere.... e si liliso coli - I li stili (l: iige: z a ricercare falda a
falda della Velità. » Fiel'eliz “ El a Ve lº io cerche molte provincie
cristiane, - per Lolibardia, a º al rallelo, lei passare º I II: iti, i vs en
le le ali da 1 lo di Melano a l'avia, ed essendo gia Vespl o, si s litri
l'olio in 1:1 e il il l Ilio. » Boc. Mla poi li è tutto il ponente, i
senza gia i ſalti:i, ebbe cercato, i 11 t l'ito il IIIa l'e s ile 1:: 1(),
i V ess: il n 13,.. «.... e pot; ei cercare tutta Siena, e io ve li
troverei uno che..., Boc. a A Vell dol' cercata iutta 'a. li col e ssell gia
stali o Ill l II li-i ill l'itori la re. o Fle::lz.Tutta la vita si fa a sposa
l'i loliti li-simi pellegrinaggi, cercando i luoghi santi del Giappone. I 3
art.« E con i grandi ravvolgime liti Filire i quali ora alla ti inontrº la, ed
ora all'opposta parte si aggira ricercandola la terra, quasi per tutto..... »
(iiil Illb. C confortare (sc e riferta re - Conf. D is sua ciere.
Pront.) (on)orla e alcuno a qualche cosa, che si faccia q. c. ecc. e pel
sili derlo, so Iarlo, in arlo, spirig, l' i lil e. S ºf I larinel è l' p oslo.
N i li per i recari e alcuni esempi. Ed issa i beni a impa -, I li
la trie e il torri li da tutti confortata al li gire, la valuti il podesta V
litta, il III lo col l Ilio Viso, e ce li saldi v e quello, che egli a iei
dotina li lasse B I 'oi del suo alti i lite ri o li li lo- i' (Ill: el:
otto lil (st 1, assa preso di quivi, aveva in un io a ccnfortar Pietro
che s'andasse a letto per io che tempo ne a o l'o.e primi i che di quivi si pr
isson, a cio confortandogli il Podestà, i mi odificarono il grillel
statuto.... º lºFresco conforta la nipote che non si specchi, se gli
spiacevoli, come ll e A 1, e ti º 1 ): Ve lei lo i si. l o.I testo ma i ti o
confortati da lor parenti e amici, che riconosces se oli e voli ſessare. » G.
Vill.V e il nero, il V a 11, l Il 1 confortarmelo che ubbidisse al ri. o I): I
V.Gcnforto tutti a lasciar. si sa – glie, l'orazioni e comunioni Zulin::lli li,
Il l i. l)a V.s confortandomi al tornarmene a casa. » Fiel' )nz. - I serio i
silo il confortavano di temperarsi e di allentare l'in i siti il sil i alti ('esa
ri.Se io vi -si p a le!! come tu mi conforti, l'anima mia a noi e le ai le li/
si e io ho dato la carne lli: i.... (il V.\la verido, sto o portata l'. I bias
ial a ad Ell fragia, e a ciò per molte l a io li confortata - l is - e s' i
lisse i olte l'ag: ille, e coll a Inaro pi: il Quai a voi li s oi.. he a
cosi i lte cose m'inducete.... » C o noscere (FR i cc n cos
cere) (o mosco i NI ci li tra i set. -il ii so se con noi il re de I
cl., significa in l'ulci se il '. 'onosce il no,,, l 'ce lessic clu
allro, è di s'ill il 1 I l, is. ('onosce e o riconosce e una grazia, un ja col
e la.... è lov e la, il I l il lirla a... i liti rare di averla da..... -
omose, e della morte e simili li il no, vale riconoscerlo, dichiararlo eo
li..... l?iu', il N.......... l ', l ' l?iconoscersi di una colpa, di un
è liſossal l. s io mi conoscessi cosi di pietre preziose, II e io ſo
d'uomini, sarei il i vi ! lle e º I, Il Matt.per quello ne mi dice lº ſietto
che sa che si conosce cosi bene di q: lesti pallºni sbia vati, e lº r.o i ll (º
non si conoscono il l fſe 1 l punto d'architettura.... » (es.
\, il donº la rispose: I o la o si: Iddio, se io non conosco ancora lui
da un altro. n l3, l. V qui - unità si conosce dal mondano lo spirito di Gesù
Cristo. » (si ri. a Opera da dover far da Irlatti, il che si conoscon meglio le
nere dalle bianche. » Boc.a.... perchè levati quelli, la plebe irrilla
oserebbe: e riconosceriensi po scia i complici dagli amici, o l)av. « Dal
tuo I (rdere e dalla i i la lo! lla le Riconosce il grazi e l: i vi itti It.
l):al 11 e. “ Basti G e Inalli o privilegiare che in consiglio dal
senato, non in corte º da giudice, si conosca della sua morte, el r. -t val del
pari. l)av. º.... e riconoscendosi dell'ingiuria atta a questi frati. »
l'ioretti, e Allora egli riconoscendo la sua colpa, fece penitenza, e
donandogli perdonº. » Vis. S. S. IPad. Correre (Disc correre)
I la molli e vari Isi e formarsi di belle maniere. Nota le principali linello e
Iri III li le seguelli esel pi. e I | rall cesi a ºltrati delit corserc
la terra senza il loll col trasto. » Vill. 585)..... coli in id):i correre il
regno -a loggia il clo. » IBartoli. Illustre predicatore che corre i puipiti
d'Italia fra gli applausi le do a voti » (iiillo.e I (Ini di Ibi: o il r.) vi
Il viate corsa questa preminenza. » (a l o. «... assai mi aggrada d', ssere co
ei clic corra il primo arringo. » Bocc. 5S6. Me felice s potessi correre questo
arringo i velido aiutato l'opo la del « Vangelo. » Cesari.....egli II le
lesiIII, del I II lillò (li l'iri la liersi e correre la medesima for tuna che
lui, nulla curando, nè la perdita della slla nave, nè il pericolo della slla
Vita. » IBart.« Di sette lance che corse li rilppe cinqlle con allegrezza e
meraviglia (l'ogli tl 110. » (1 l'o. a.... queste ragioni mi conforta ono
a correre anch'io la mia lancia in questo al gºl nonto. » Cesari. a
Lasserò correr questo campo della poesia a voi altri Academici che siete
giovani. » Caro affendere a quella, dal e opera alla medesima).· I l II o tempo
correndo le luci la citt non perciò meno l sta inte. ontado., Bo.si li live
sale e contagiosa fù l'infezione che fra loro corse quel l'a ll 3a l'1.tra gli
11 corre un intezione di febbri di... - I pessima ragione, ll... (i vzi. Nello
st: 11 - che allora correva. (rilllo. I ), l'eta di Demoste le: il testa ci
corre 400 anni o poco più...» Dav. 587). \: corresse spazio di un ora. l3.Corre
quest'isola in lungo sette miglia, e tre sole in largo. » Bart. Pe o
mezzo a l.it, l e sa l:ndia corre di itamente da Setten I una catena di monti,
e le sl - a da Call caso e scende a... » l 3: il I agii occhi gli corse a
--. I3o elle gli SS E al cor mi corse (ia i colli e persona ſr. I l...
l): i. ln - correva per l'animo e.... » IBart. (( I il pericolo
slle liner all tizie di gran avrebbo in corso in mare. 13:1 I 1 S) (N ()
l) l. | 3 | | | ill). (() | | | | | | | | | N V | | (). I | Sl.lº \ l/l () l)
l.... In questo a so dove corre il servizio e l'invito d'un mio padrone.
» Caro i. se son pi ve lo disco, cre, usato a significatº: cºn
lº ami e la scom e e, derira e ecc. si lelle che nelal. Mii la- i
ere e buon tempo per le foreste, e discorrere cc me mi venisse, l'it''.e da
questo discorse un uso quasi davanti mai non usatº, che...» l'80C'e'. a io lo -
i tiri la discorrimento per l'ulta la casa º Bart. - mi - nza discorrere il
fine, si lan io subito alla scurre e misesi a pende, in li di quei ciuoli, o l
e ºlz. Senza lºnsºlº al come sia l'elobe : il data a lillire la
cos:lº.Note al Verbo Correre 585 - l' idoperato quasi al livamente, ma
con significato più esteso, figurato, che non farebbe a pezza un equivalente al
letterale ('O l 'Cºm'e'.5Si - Notilla Illesla frase: col rer l'arringo, e
similmente le altre che seguono: correr una lancia, con i ri il campo
ecc. Si - Noli ſtesſo impersonali ci col re. I corre di questi sei ripi, è del
tempo e del luogo che, fila si scorrendo, prende e traccia di ill pillo
all'alli o dei lo spazio I: la determina la linea.5SS –- Qui con lei e e ad
uſiiclo di occurre e venire andare. Nola e frasi correre al cuore, correr per
l'animo, e simili.Sº Q1 slo Iriodo: cori ei pericolo è con uno a molte al re
lingue alie (i clah r lui ieri, ecc. Divisare Senlio questo di
risare nei pochi i serpi che ſi appresso: a signi irare ci è mai rai o
dimalamente a uscinander scizen dispore con ordine, scomparti, e parli e ed i
licli, pensati si arrivare (cc. li loro l'illi i i parlare i 'loli i c.
v. gr., ho di risalo, mi son di risotto, per dillol: l' 'i la propos, o,
deliberato, deciso, non ad esprimere, come ſarebbe chi selle e parla i
alianamenſe, che si è pen safo, ha disegnato, arriserebbe che..... a
tenelidº, per la rino che la cosa -- e passa 1:1 con i giiela avea egli di
visata. » Fiel eliz.a.... ed appresso ciò, che i la' e il V sse, il ritº e il
silo reggimento due rasse gli divisò » a useiirald, setzte. 13o e dagli
scritti del salto trasse materia di comporre il sil: ingata Irla tel', la II Il
libro, Ill e li cºl bel ': dillº diviso | Iti: la tra i cia (leil;a
l'olen zione del II loli (lo. » I3:ll'1. «.... ed e-sendo: -s: i
feriali lente dalla donna ri vili, le disse che cosi la resse l'il la r la
corre Melissa, divisasse., l?o r. a.... la donna.... 1 i clonna Ilula 1 e
(iiosef Illello che vola via si la cessi da desinare. Egli il divisò, e poi
Illand fil ora lo ri:lli, toltinianielli e gli a cosa, e secondo l'ordine dato,
ti ovaron fatlo., lo.Voi avete divisata la cosa assai bene, sicchè mi vi pare
compresa tutta e a Ilatelia dell'eleganza, o disposta, ordinati. Ces.di ſilelle
sole vivande divisò a sti i cuochi per lo convitto reale.» Bocc. a Verall I e
II la i lill. ll ora per te, da avarizia assalito fui: ma io la via e o con gli
el l istone, le tu li redesimo hai divisato.» m'hai fatto il pil e B...
Sl, ma i Ilie la sinagolarissili la differenza, ch'io sopra vi divisava.»
lei o lì a te il sito per le usa da vel un buon scrittore, e si Il bo a al
volgo. (sl se la divisavan Ilie doti, i quali.... » Ball. si elisavallo, avvisa
vi 1..\l l'i mi diviso, le rimastis: Iuori quav dalla soglia, vi mirino filgl
ill::ld. Segli Ini figli l'o).si che io mi diviso che non a rilisse; o i miseri
di alzar occhio, non li orli: l pil le.. Se gli.11 ilare un vocabolario d'un
per il: Itti i vei bl, divisatevi le nature e le proprietà di ciascuno. » Bart.
do- ni di tal ne trarrazione, se non che troppo a me lungo, e forse a li legge
in si evole: ills in elole, divisar qui le tante dispute chi egli ebbe.» 3:ì
nºi.vestiti superbamente all'usanza, d'abiti divisati a più maniere di colori,
con i filisslilli - il milli ntl... Bart. Ermtrare Notevoli di
questo verbo le manie e bellissime a ENTRARE. MI ENTI VIRE IN
CIIECCIIESSIA, ENTRARE A...., per cominciare, prendere a latº e ecc.
lºrin la che tu m'entri in altro, dimmi, -oli io vivo o morto. » Sacch. Non
m'entrate in preccnii, nè in prologhi. Quando volete (lualche cosa che io
possa, basta un centro. (art.lira non a 1 le con una donna di tanto intelletto
entrare e discorrere e sopra luoghi volgari e comuni della consolazione. »
Caro.I) una in altra parola entrammo ne fatti della fanciulla.» Bocc.
poichè io entrando in ragionamento con un delle cºse di quei paesi, per
avv. tu a mi venne ricordato Lelio. » Filoc. | EN l'It Ali E \ All.SS \,
ENTI VIRE \ I \ Vol. V, ENTRARE A MENSA c'Ca'. La confessione
generale che fa il prele quando entra a messa. » Pass.c ENTIRAI? E IN TIM ()I?
E, IN ESI | ) EIRI (), IN PI.NSI EIRC), IN SC)SIPI, l' I (), e c (t (lice
nulo. entrata in timore - sei o III. Il cap tº re Ba 1 t. IP re i 'clie a
g, ilt i, \ l). go l'e l... I mili: i le - -:llito Vivo: e º dell'ill ia 1 1:
era r. ll - I ldei prossimi, entrarono in desiderio ci si pre e, in ancora spo:
desse li ll, l ' t”. tº ll tº si ri' o 1.... 3 I l Iin una settii malizia
entrato, i vo i es - a l It I lilt il 1 e il - d ENTIR ARl,
ad alcuno Al Al I EV VI (E per..... ed io v'entro mallevadore per lui li l
e se è le. llla III It. Fi..Chi entra mallevadore, entra pagatore. - -.: Ilss
II: Il V tº I,N | | è A | I, I | |}I; | Rl, I V | | è \ \ | ) \ |, l N ();
| N I | | VI è E SA | VN I \. I; IRA \ I \ I ) I.....: - N | | | V | | | | N (i
| | () SI \ e c. I ) | VI (l N (): EN V IRE NEI. (VIP ) \ I ) \ I (il Nº in cig
in cui si, clarsi ad intendere, osti il dirsi (t (red º l ', Ils. ll lo)
I | riti si illi -:1; Iz.l i i dis, 7 entrò una febbri cella, e l'inna se lei
III omistero.. (la Valcº. I, qui ii a o o in a. I riti animi entrò smania
nel Ilici; ve a lolli eti, dl e Vil:1. (li paz/ 1. l): i V. per la qual
cosa disse che gli entrò si gran paura º le calde il tºrº, e quasi tutto
stupefatto, ſi angosciando e sud (lii n non Kyrie eleison. » Cavalra. a
Di che la Minetta accorgendosi, entro di lui in tanta gelosia che ce li
non poteva andare in pisso, l e ella non ri - --, l al! -- º
) l'ole e col cºl ll i lili (:: 1, il... tl bol: Issº. I 3 a gli entrò
nel capo li li dove li te: --... lle e-s; il vos - 1 - liotalmente vivere nella
lor povertà. e 13,. I, MI ENTRA CI ENTIRO. (ne son persuaso, mi capacita.
m i quali (t. mi ra.Fuggire l Is: s e il re il sito proprio di partirsi I
l il si alla I - - llando di evitare una cosa, Nºn solº, º ssd i si la clie' ci
essia, e sinii, e quando con forma tran si vi o il sito va si' al re di li
alligare, la luggire, la r portar via ! I l sillili. N Ss, le Ieggi il 1
l I fuggire.» I 3. « Fuggendo la - i liz si i vas i: in entenne ºri e o
Cavalca. N fuggire il i f. sse a l?o. (l III a - l: le fuggia in chiesa e in
luoghi di re I: gl -, il l V, il - ro c n una lettera che seco avea fuggita a
quel li s Il \lo, lisl (r,, lº; i l 1. Si il paiolo, e vale
l'ergiversare, cer ir si l gi, scappa! Io, gelli e. v le lis lo
stilli - e o il modo di prendere il battesimo, egli con si t! lle astuzia se ne
fuggiva in parole, il ia i ghe giallo con promesse, l'... a lºrº rt.
Guarciare Pongo esempi di I guai dare ad al ro uso che il suo proprio di
dirizzar la vista verso il ciggello. Significa quando preservare, difen le re
li ulem, bel dilem, 'lalido cusl uli e, con sei retro', e lalora anche con
siderati e poi non le, gli ai lati bene, sta r bene in guai clic prendre
garde), pone le dire, in gri ma 1 si ecc. Dal qual errore desidera il no
di guardare quei che non hanno l'ngua la lilla.... n 13...I lolio, il --, ti
guardi la bocca, e ebl e II lili, li dirgliel, che gli si con lic Io ad
imputridire., Bart. Dalla stanza poi l ddio le guardi a ni. » (..) l'. Dagli
amici mi guardi Iddi, he da nemici mi guard'io.», noto proverbio). Ill IIIesso
l' 1 lgiolie e il III lilliga III si ria guardato.. º Te, rarissili lo I rate,
Ille, l la guarda « diligelli e Illelite. » Fiol etiia li crisi fi, al IIIe: i
la guardavano il ritta Vi elit . Al fine di guardar la sua pºlvezza a l
'i: e che guardasse molto bene l Llls 1, ii le leſi i [ll: e
bedie:lte. e fedele: e p. io guarda li: i I lilllla pel solla senta giallllli:.
- sia II, il si n. 13, S: l | | | | º io i ſoli posso credere, le
lil - te lo i « per io guarda quello che ti la li: e se l'11 e l: 3 onsidera,
poi i lr 1 lite. io lion ſarei a lili si alti guarda i ti piti di sl
latte cose in ragi, li I. I3 - li ii glia i Non accade esemplificare il
rito al moli li ll Is: (il Altl) Alt I.E FEST E cioe ossei reti e lui e quello
oli e presº i il lo (il V ) \ I RI, V IN IP() (| | | () (V | | | | | N |
I l its e il I ti q. c. con sler lo tsl - - nºn lo si ecc'. (il VI
I ) \ I V S() I I I I VI IN | E c'Na mi in tl e con il l. (i l ' A IRI) \ I? I.
\ (. \ VII.I? \, e Nilm ili. Nolerai da illlllllo il ſigilli il del s II
lil e o si ri.................. che guarda un all ra: que!! piagge, le
quali gt ai lava, l, l i b - lei li di qll illo, o, l rivestire Il suo
primo significa lo è quello di ill e il I ss di II la cal. d'uno slalo, d'un
beneficio ecc. il cili, VIII l iris I/ l il so stalli ivo. In restitui a
concessioni di dollli li \la di essi il li: li ti in resli e il luindi 1
o, (i l i rili –: l in resti e il mio i gl ii li –: c in cºsti di liti i
v. a enti e, d. l, poi, i - l – cioè adoperarlo in compere o si
assalirlo, all'olitarlo (ali fallen, ali in uno scoglio, in una sceca – ci è 'i
- gli sll'alidell, allf cilie Sand i.: \ (il suo in un anello investito,
il c Valli era: 11.... e i I os - ini; d) l'investira altrimenti i lo; dal I
ri, Iii: gli tv va, dato e s, li ve:lli i l. it: l investire e il.
I li, e la i si l aº, li è per molto l, li e li si - ll s: i gli i
il tisse, si lº ric:a li ai tanto i parti e le ore li li: l. Io
investisse nelle tempia. » Caro, «.... liles is a so di il l I e spiaggi
(ii Zeila: d, a dove investi e l II, e l3:ll Lasciare Lascio
gli isi più contini 60i e poligo al solito alcune maniere fro quel ſenelle
adopei al dai Classici, ma niente volgari e poco note oggidì. | \ S(I \ V
| R V | { l N (l \S(I \ | | | | | | | VI (U N () tra lo i veri a lasciate
far me con lui, che voglio conciarlo si Il riti e lº.l) Iss le, l io vi sºs l,
lasciate far pur me, lì e con l'io la troverò, os a bai ei, tanto bella e
Vo: li I \ S(I \ VN | ) \ | Rl, l. \SCI Vlt ST VIRE I a lasciati di dire,
l'assare in silenzio. A on ne parla ro”. \ on lire ecc.() a di: se... [llo da
pozzi sono d [li, pull e, s lº elle lunga mate ria. Lasciamo andare,
l'air (Illesto e le ini, che,.. » Fr. (iiord. lºred. I rosl 1 Ile poi li e - le
quai, lascio andare.. Fr. (, i..Ma lasciamo andare questa corn parazic ne,;
- al: i re si s. ll - il 1 i l Io lascio andare e li I, to! i i se' st -
e il top (', - l l'oi. ll (lasciato andare - -- - lei la lr1 si rii i i li: i
li: i I l g il 1 li:i re S e il se i - \li - - -- li tit. º Slº. - l.: don 1,
lasciamo stare.... / es. a rl I 1. - se, o il piu' il 1, i -: i in ' t:lti li'
les. I titºs « Lasciamo stare, l..... ll II, i::. - l l: Iss, l', ' di lt 11t.
Il... » V ill.lo lascerò stare la rabbia: l. l s s i M. ss: -, lazio: i re: re.
I 3. Mla oli e - - Il ti il V 11 i Lasciaria sia re ciº'egi i t -to - a io | Il
! io. e.. l........... () 1: - -. Lasciamo stare continuo (li I) io li li' l
zi, 11 - di e 1, il il: il: il, par i (s; I l i (50!). - 1, V S(I \ I I \ N | )
\ | | | | N (:() N S \ SS (). (VI (li si di lui i lo - e (),. ll lo un man rc
vescio antia r gli gi i.ascia l s -.. I) li ve li. I !, i i t -. e
lasciato andare, – i l ss (i li lasciai andare in paio di calci pi: l'i: l'.
Vli lascio andare un si fatto tempi orie, (li Il I p. e I3: il FI, r,10.
I, VS (I \ | RSI \ N | ) \ | | | | | | | V Sºs - - I V con lisce nel 'I e
a.... Ne' in luti e lei i son ; - la si lasciava andare al motteggiare. l...
V ºsci.. ire in dotaria il 1: l ' il solº Irla li hit: l.. Il V l (il
l. Il tir,..... -: i li' si lascian andare alle vogl e le liti i:
Segni, Arist IR Nota al Verbo Lasciare (it), Q Ielo per es., a
ce lo valore elillico, di lasciar fare « Que s il 1 lili i dirlo io: liti Iddio
non lo lascia. » Fr. (i:ord io di pl el', mollere, lasciar di lire ecc. t di di
iroli scrivo se non la soli, rila: l'alli e parole la scio. l ' (il d. ed alle
la li lasciar scritto nel testamento..... clie..... e la I Cina lasciò che vi
e' in non po\ esse lorro, moglie se del silo ligliaggio. VI il Pol. ecc. ecc.\
di lascia i colli o alcuno | rascurarlo, non promilo verlo lasciati si indiel I
o al no si perarlo: lasciar di fare, ecc. (il l. (''NN (I l ' () mi e't le I e
Iºl ll. soli, col nullissimi e del i ls e bassi era avelli a crel II l. (I
) S I l esso la I l: non che potesse.... oppure non clima molti i se s'ella
poli's e..... ll l il..... In generale questo lasciatmo sloti e che,
lasciar stati e checchessia ecc. è quando ſolº il di livelli il che colliva i
non clico, e quando significa mºlle', ', li atletsciuti e ecc., si li alll a
lasciar andare. (I )!) \ ggiIl ligi alici e li slo: "li si ispiri
lascia lo stare il cli de' pitler nos li l.... l o c.(, N, ivi, di ques'a
ll'ast: la scia i trialo colpi, calci ecc. l.i v s ital, e fa gr. Il colp.
N/1 arm care I )ell'uso di mancati e', e similmente di allire a forma
transaliva (man tr. I i l etillo, il soccorsº, Valli e all' ui la promessa
ecc.) se n'è par la o alla I al I 2 Cap. 2 Seric. Il mancare dei seguenti
esempi equivale ai nodi venir meno, ſar di ſello di... l e star di lare, restar
di essere e simili. Ma nota singolar for lira e costi illo di un sì al incotro
che non so se alcun moderno, il p co sperto cioè ed ignaro delle occaille bellezze
e proprietà di nostra li igili, l'Isasse lnai. e anc, di questo lo endeva
la Maddai e ma un grande conſolio, che la mi irta di Gesù s'indugia, a pill
tempo: nelle era certa non poteva mancare che non morisse, ma quel chiavello,
che l'era litto ºlel cºllo e suo, lui penso la faceva spesse vol e riscuotere,
e gittar degli amari sospiri. » Cavalca (620) (Juan o a... vedete che il tempo
mi e tolto, domani forse non mangherò ch'io vi soddisfaccia. » l 3o.. 621).a Io
non potei mancare ai molti obblighi che li ti pareva avere con ºutta « la casa
vostra. » Fiel (liz venir Illello.a L'aquilla... se n'andò da Giove e lo
pregò.... Giove che si teneva dae lei bell Sel Vit, nella [llisto il I (i:I
lillili le, non le potè mancare.. I Z. Onile ancor sindusse a e rito, che per
lui si po teva II!aggiore, pagandoli, i lile il - III - l I riti o 1 -: ni si
evil, goli il e borsa di Dio che rilai non gli mancava di quanto v' - - riti a
me a lºro sllo e l'alt l'lli. m I3a l't. non gli fa reva d fel!, li Note
al Verbo Mancare ſi20 – Proprio l'aus bleiben dei cdeschi. Ma i la bell
il 1 o governo e ci si l IIZl llº.621 – ()sservo i li. di Illes, c del ese, il
pi. l' Iso di ill siſal o mancati e ai sbloiben). I l personale. N/i
a nte nere Si Ils. I 1 A il l si i li isºl V: l che è il ', e ci li
ulissillo, I la ill: le li soste il l ', i rºſſº', si l' eſiſ, i c'; cli) e il
clero e slm Ili. (i: la rla i 'i ll ll 1'. - manu e nitori di un
altra g Cstra l': I l (.:I:. Mante:rere a pianta d'armi, i lil. a.... \, - ri ),
l e l'i; e cli), a mantenersi, I te, I? I l. ragioni colle quali essi
mantengono la ior causa. I3: r" non - ea mantenere sue ragicmi - ti li lo.....
i, li: l 't a r. e semplice (r se I e ! -.... a.... e per chi l'inge o iv h e
le la V [a fisica lo Tta mantener le proposizioni, i clie e gli 1, i i.
N/1 e ri a re Ne ad Ilico gli usi e le maniere più cara. Ieristiche,
frequietilissime 622, tippo i classici. I lilello, il sile, V (ilga
l'illelle. (ggiuli. \I EN VI I I VIA NI - All.N VIR I 3 VST (N VTE – MI ENAIA
COLPI e simili. ll 1: V e menava l is lo le mani.» Da V. i Imei far le mani
le.... » (ii:lln), (. I meitai:: in Ceip 3, l ità ell.... Fi, Uilz. (l' -
er tulla la casa, gii -- menanrio d'attorno bastonate alla l sperata, e ciò per
rac i '::: l 'mena ti ma ceffata Il latita i lilla di mano I alla spada e menò
un fendente e lo tig iato un recellio.. l i menandogli un gran
colpo... \ | | N, \! I N VI: 'I SCI di un lago, fiume...... – MENAIR \ N
VI A [...... \ l.N VI R | | | | | | | – Al I.N A | è \ I \ V N '' i; i nne. I
vant 2 figli di eli. - !. !. I I li i. pia di ellite si - nema i piu dolci
pesciatelli di questi paesi ed l.. ssa Iar danno. 2, Fierenz. I: i i li l è
l'ozze, alla I ºne man o cro. S i vii !..l. I l v..... I menava tant'acqua:I pm
i I l ergli o vetture e le quali neri ino V I - I menava vermini.. (a val n. ll
e illlia dell ', o di fuori gliela "; l., i menando marcia e
vermini, e un puzzo intol l si, il til - i lº': i \ | | N V |
| Vlt ) (i | | | | (52 Iliesti nel sima festa, per.............. l e, g i |
tesse la l cha () rimis la i mera:ºsse incºglie, l'. ll di 1 l le (lulello lì
ledesimo Parsin:unda menasse Efigenia, Ill o Ormisda menasse Cassandra ».
º... » lº, \ | | N V 2, i v 11, 1, 1: i menarlo il Saverio) con c ss; 13
i: del pari. I 3': Mlſ, N.VI è SMI-AN | E lie il Viglil I |.... l - ne
menava smanie, In il a il l: il b :ljat per poterla va le 13
c. t 11: me itava smanie. All.N.Al ' () IR(i () (i LI () (li..
I) esi, it , l.: 1:: il l nenare orgoglio., I'l' se Fi \ I f.N
AIR E S | | | V (i V | N A -, l lorº ! ! ! !, i. nmenava ovu: ii
qua si ragiº e rovina,, (1:: Illi. \ | | N A | (i il li. (º
'N. | 3 | () N l i ce li ' NN / 1 - il lui lotto 1, per il miti i lui
'cr. l al 1 l. A | | N VI, IN | V | | | | | | “ Il N V qui \] [ N \ (il ..
!. i: l '::l IN | IM V Nl lemer a pari ole. I ciance ecc. I nne
maio il re i re giorni in parole i I 3 l. El! l i 11 il
pi meno per lunga ſino I l. i rmerava d'oggi in dimani. B:
i (i:º: (52 \1 l a li e on e o menava d'oggi in dimani. (-
i. i lo si si, l'. I I Ili Note al Verbo Menare S i li
cias si i. i issili li e v. " I ri. E volgare, ed è a 11 le lis si, i lr 1
tl, mi e' mai rsu Il le, lilli il la la niglia e fa gli menar su. Si h.
Il menati e di questi li li. pare il re tale che produrre, tre I ecati e º sil
I lili. L'u rore mi dicere le; la lini. Si rile: I rail al giudicati e al
l una sl 1 e qui. N. Il cice gi li all' al i sii isl l'allerile cli li il.
I l sse e qiuali, atto alla medesi ma stre'ſ ut, (iiill). N/lutare Tra r
utare, perrr utare) S li li ma alle li e oggidì, sulla: i la il alla
liturnelite, le maniere: p, i lati si o nº i lati e li ce li ssia lui il mi
luogo, da una cosa cioè toglier via, 'I si po' mi i lati e ulio ed una
cosa al li li lu. I - ll 1, i \ I) Iss l Suff: Inarco: () 1);
13 i bel veduto, se egii liol muta di là, i iS - opravvenga, replli o i
mutarci di qui e andarne e. 13o. il l e l'en veder lui mºnti iava mai gli
occhi da lui. m (S. I s VI tramutò a Castiglione, a sp e.i, 1 'la, le col
piedli nè con i llla, ol' (luà, ol là si tra mutava piangendo, lº(- e il
telº dove ci permutiamo? » S - e si l ss e luoghi dove l'uomo si
per N tre chicchessia del suo proponimento, si l si º li ille, la Mlad
l'o e la lºadessa si sse per lui un modo la pole lel suo pl o poi, in cºn l. ll
li l la ll al re dal monastero. t i vi l I C c correre e di
bisognare, far i sli, i i i s I, -, il ll pal i lide si con i poli e ob, a
Valli, incontro, e il 1 l ' ', ci º l: in lei venire, il reen il ', reni e
incontro a... –- vorkom men, 'n l I 'I ml, li mi cºn silli Ill.« Egli
occorse al III si lillo il caso. I gol so se ne voglia piuttosto dire «
cl'udele che strallo. » Fiel elz.« Nella prima apri lira di uº, il cccorse quei
la parola... » Flor. « Dopo molte parole occorse di villa e l' a Bart.«
Occorrendo le AIII e igo viene il servil e V. E. In'è pirso, poi li è per so:
la fida |a, scrivere.... » al V Vell:ldo. VI: I ti: I.teneva la V [lli b. I
servito ne l'a lllisto di (ialli e no: gli occorrendo per allora luogo pit
si le lis- c. ll -- sl ful (iioVe, e le si Ilierle. Inoli le liote
Iria Il 1: e, a cltro da porvi le ll v a -1 e ſa | | 0. » Fiel'eliz. lli
ll V e' ('il logli il lil, il to,. C c cup a re E | 11 n.... i
violsi: esse e occupato da un aſ ſello, dalla rirti di
cliccchessia. «... I l l da grandissimo sito pi qll st: giovalle,
occupato. I 3o. «.... (Illasi da alcuna i timosità (l, - occupato a V e
so. «... e l: la Virtti di II la bev: 1 la occupato... in lo ev ra Iliori,
(iia Irl). Io lili Ss, il l)i, e l Il gla i ll I ssa Il II li altra volta
vi dissi, o il gi:: le pi e in molti i vi: occupato; ch'io I lli sul pe:
lo....» l': -- I v. C rci in are con leggi: iri. I l gli allori
clas prescrivere, nel loro in ordine III: il liclle li (il lill li
I o II l sici ti significa l'e ll ll st il colpº: il lill. cliecchessia ecc.
colli e ſil, e li li si lal iil I Il lil del ll. sporre, s'abilire, di risati
e, con l'ori e con clic li e ssia ali di mºlti l ', li ſu l e' N, la la ſi
l'Irla: orolin (tre con atleti no, oralini rc in Nic mi e che, con l' ('i.
(º 'C.l ordinarono V eg::leil I e tiltti e tre fos sero insieme, a e l: il l:
st i ta.... lo..... se crdinatc Cine dovessero fare e dire..... I 3,. E st e,
con lui ordinò d'avere ad illl'ora rid) le si gli ºli, sOrdinò con lui, il V: i
villi llles (la li le lºssle le) e, Il ll lºE l evano stimola [o, e
siccome egl o avevano ordinato, i. Il 1 a 1 i lil a ze: \ are i suoi
peccati....» (v. l. E crdinarcino insieme come elle love-sero uscire Il
lo; i il 1/ Ca Val:i. E li si s. p le i s / iol la; e? I doperarli in corsº lle
- e il l. crdinare che niuno di lo; o per la I lOrdinata il v lo s. I l Ilioto
grigia: - tlil. » I) i v. Fassare Nella Sez Io l' 1 l ' 2 (p. 2 Sel
e 1, solo allegali esempi il Il passati e ai lo li li a usi il ct. I
soglielli in sl ratio al 1 li: l ' si e li alie e di questo verbo, note
volissimo, e il I e Ilissili le s Illa pellia si classici. lli: passa i
tlc il no (t. «la banda di banda, puts sare olli e, passati e i lorni in i
lisci la l le puts Noire d'uno in ali o luogo, passati al vino di bellezza, di
sotp e, passa la bene, passar notissimi, sola e simili. I l soli i pll'ic
le solo alcli e oggi (lell' Is. I: l: vi l le passò tra loro.» I ti
it) Ml lit e passavanº il cºi si l: - lì la le!!:i li... o lº
i. E o tiſi into le It V, e passan le cose, o l'it l (',! l /. te
lo do per te li o l la cosa fosse passata colli e gliela aveva egli
divis: ta.. o l'iter l/. Conto lo quanto avea passato col l e Fierenz.«
Le quali tutte Ccse passano su Inza a V - Vellg 11o.. » l'ier Iz. Deside. I va
in il caso passa. 13,. e - l III:: l - l si l sia sempre mal i
Irlato, il che passi,, ni III o li si s -., Sog Il. ()g! li cos: passo al
contrario. l. I V. 6, lº,':ls, ci; e le CCSe il - passar bene. 13: 1. si
III dialie i cvelle ci passiamo., s - I 3 i “.. i: -1: l I l. I jel, lo ero il
tie-t: -: i Ill 1: II i l:: se - ll Iss di passarserie adita niente | 3 ll, st
1, s. ll 1 (- Iº, io -, si S sa: i lei | 1. l se ne passo. I 3, ti i? I l bene
passare. » (: l V l. 1:i.: l 'N. ll si It... sll (! - I i s l e Ileli |, se ne
passava.:I passo mene qui ora brievemente. Vi SS. l'.lo a V ! ! ! ! ! It,
passarmi al tutto di muover parola.... (iiill. - Ma per che io ci, l... - Za li
Ire, mi pare di pc cr passare - al pr - li e, vi li: l la lierli lie) - Ss ('ll
lo 'll C (i 1: Il 1 so di volersi del fallo commesso » da lui mansue lamente
passare. I 3.ei e li i 1: o li passandosi paziente. Fior. E - l: l'agglia - se,
io, Ill. Il lo ! ! ! ! I V (le, l si passava assai leggermente. -. l3 i.
Il II III: 1. ll bh, l' - rili i li li I e il... Ma me ne voglio passare di
leggieri. pe. ll 11: - illili allilnali.... po;: quelli li ti Nolti i
ricorsi i lorº li: I ASS \ | | | | | | N () IN VI, I E l va il l per passare
ol: ti III lili.... B i I) v e il 1 l si passare in Toscana. Ci si ri. - - - -
- p, e vedendo...... - ll I |, il de / Il l l io, s'ils - lli, del a - o e
passò in una gora i lì e il 1 l Z. I lanieliti passarono in icmulto. » l) i v.
Iº V SS \ I? I, I ) I V l 'I V S it | 11:1 - ss: li gli 1:1 c'evade
s'inti, e le passavano in questa via; ma egli non gli all'anima di G. C.) si re
-si l e. (a V al:i.Comiso, 1 la tila doll i i [llai - mi 1, lo le tu di questa
vita passasti, stil a iº l ', ill: l 3 a Dopo non guai i spaz, passo
delia presente vita. » I3. Note al verbo Passare () () Il
passo re di Illesi i sei tipi e il rella le cle accadere, avvenire. in terreni
e seguire ecc. Al: sserva particola le cosl l’ullo e for ll lt l. (i Nola
la testa litanie a passare al contrario, cioè non riuscire, avvenire col il
rari Iliello - e il che la segue le passare bene', ci è l'illscire ('. (i
12 () uesto passo rsi di una cosa si: il tal se passer de q. c. dei l'alicesi è
di varia significa i me. Vaio nºn arne parola, Illasi lºol forli al sl a pal la
no, lasciarlo correre, quasi lo fermarsi a pulirla: ora con le n la sene, li
lasi non fermar si a ll lov e o lillicoili, e si lili un gelien, il bergehen
ecc.) (i 1:3 Scilli ilel passa, si mansu e la mente, paziente mente, le
fermi cºn le e simili per non farne caso, proceder sen sul lig, l ' loli e il
rall e il till ', loll dal Selle fastidio bliga (('c). (i i l'. Il
ſilenlissimo l'uso di passati e per parlirsi, andarsene da lIl 1 ll I go..
ll ti i lo ) q c'h ('ll. Ferm sare Cerlamelle che a definirlo sia,
come la il Tommaseo, esercitare il pen sie o | Iasi clic il pensiero si alll:
cosa del pensare - sia come ſe c'ero già il lolli al rililologi, esser conscio
a sè delle proprie impressioni – quello che io mi dil ei più vera nelle
coscienza, non pensare, – non è Ian, facile e il rarvici e intendere il colme
dei diversi usi di questo ver bo. Deliniamolo all'incolillo con più semplicità,
e quello che veramente è, ſa e cioè giudizi con la mente, ed è subito manifesto
e piano (così pare a me il valore logico, la ragione il lº inseca dei
modi: a pensarla –- sinonimo di lenlellarla -, sovraslare inne hallen,
ille si elen, rallenere cioè la mente il riflessioni e considerazioni, sen za
conchillolere, risolvere o Vellire ad allo; lo pensare una cosa, cioè
indagarla, e Ncogitarla, cercarla e trovarla pensando:c) pensarsi,
immaginare pensando - fare sè o a sè pensare, ecc. – ed anche: d)
pensare, senza l'allisso e in modo assoluto, simile ai verbi della 2 Serie,
Parte 2 Cap. 2. Non parlo dei 111 di pari sa i cui l i na cosa, pensare
sopra i na cosa, di una cosa, che è l'uso ordinario del V b
pelsare. ... era li a lui la pensava, l... l), V. lº da il di illi i 21
pcnso sempre modo e via gli li p s- ll ril l'e. » Fiero lº y. e Con I liti o
id) abbiamo pensato un rimedio.... l Z E siccome a Veduto loli,. p; estini i
ebbe pensato quello che eri da la ! e, e il Salil il llo il disse. l
8, a pensò un suo nuovo tratto il: 1 st z:1. o C sa li. a Oil:ia e la Viſ
n loro il c i i liv - I loss,. i: 1- li il Sel può pensare.» 13,. E si pensò il
bilo n uomo che era l'elipo, d i rid: si me alla B colore. » I3. Mi disse
parole, le qll al 1' mi pensai (li II: il V oi i tal gelite e Vellisse. o l): l
' i te. « Pensossi di ener modo, il quale il ddl esse.... o loce. « Sla tanto
li me che pensiamo sarà presto gilari o del Il lo. » Caro 533. a Illa 11 in si
a Va - lo s... Il la la III e, pen a Sando forse, che si ill a rl),, lov e l'll
el', e: Il lido, V ne sarebbe e quali l'un altro si vi -:ils pe:Isa: dosi,
irrina - ni ndosi. Fiereliz. Nota del verbo Pensare 533 --
trir den kºn er l'ird balal tricole, gi / se in \1 dl, (li lico come si è del [.
e sta per ci pensiamo. Perci con a re (C coro ci cori a re)
Solio liolevoli sopra illlo i modi: per donare la rila ad alcuno, cioè
lasciargliela, non ſorgliella: perdonare, condonare ad alcuno di fare, cioè
accordargli, per le lere ecc., perlonare al jeri o al luoco e simili, slarsi.
rimanervi dal applicare il ferro, il fuoco ecc., e finalmente non perdonare a
denaro, a lot lica od all ro, cioè il sarne più che si può, senza riguardo ecc.
l o elli v - se perdonare la vita. o l'iere 12. ll I po V e le dosi di
III, lta p. egava il leone che lo la s Isse e perdonasse gli ia vita. V, l ' i'
/ II; di Es po. N perciorasse pietosamente la vita a Roma già - Il l il I
I I I I I e l Si l Perde maie, i, pcrdonate il lil, alle ricchezze, le
i:ì li all'ute, e il l i -, i isl al lilia? e. Ed a 'e la in condonisi di
recar lo ve / le pendenti agli a ol'eccl I. » Se ll.Che:lol V - si ill o il
litri interessi unani, io li Vi perdono ciºe arrischiate la I loa, che
avventulliate | lº ri lli: zio, il che li ss i sa, i ta, li l... » Segìn. -col
e gli... oi, illi, e le e' ſù perdonato al ferro e al fuoco. (ii:Tilti i 1, non
perdonando a memorie, magnificenze, librerie, spi: i lito, l I e I do la V el -
1, V., – lla slal'e il nido. » I );l v. se polesle.., 1 l l i gia che perdonereste
a denaro.. Segn. \ V e perdonato a fatiche a spese a industrie, ed avrebbe
tollerato di veder l illa del tri: 1 il pe: i - se poi li fa render
beata?» Fºro cacciare llo is o V al I e il I e il I l re di pi
curarsi, o procu 1 a 1 e ad al Illo che chi essi, i licl il sels, VII l
essere illeso anche il I 1 (lo: di malati e il p o ti º lo gi la di più
l'allino di andare il procaccio, si e' li Is simile a quello del p,
r'alizi l'agi li lo stilope ti e' piu' al '. Si gli assi lilla nelle fare in molo,
ingegnarsi, inclusi i inti si o si riiii. (il è per or |, se | -s,l, le
to e ad i vi i procaccerebbe come i 'avesse.» l '.frastaglia trieli: e vi dico,
i lle i procaccerò s. viza la, che voi di nostra e brigata si ete. » I3.Volla
procacciar col papa che i voli llli d 1- elisasse. » l?o. « Il llla e Veggendo
la nave, sul tallenta in Irlaginò ciò che era, e coa Ina ndò ad un de lalnigli,
che si li/a. Il dilg 1, procacciasse di su montarvi, e e L, i lati.
Itasse ciò che Vi 1 - - o lº. r a )ra si procaccia Viati.i:i di avell are
agli al s oli, (! elisol II: la Vellasse e loro IIIo o il milmente, e co.,
lilolte lag rili. (ilValca.« Procacciante in atto di mercatanzia., lº.. ) - I
tos, l l Ilsl rios,. a Procacciam di salir loria che si abiti: (.li gia lo si
pollici se il dl Il: l iode. » Dalì e.gli venne illio va cile i litoria, i i'
si della reli gione, si, ra ils it la', pro cacciava tornare al regno. (i: i i.
E pensolini che la lon:.: 11 1 1 l vi aveva del o i S. (iii) valli che -
procacciasse d'andare i l leili, e Il 1:1 11 e disse loro, a dire i lic
va ri-s..... - il i: i lila i lilla. E pensº irri ste e - 1 elle e - I
sl11: rr, te.... procacciava di favellare loro. (il via l. e º pe; soli i clie
il vºltº il rii (- si VI: i dolina, e li ci sse: Carissili. Ma il c. v ! le li
li, V e lere chi e gli scril I e F: i sei procacceranno che questo corpo sia
ben guardato, e Irla. 1 ler: li li i di l: -- li si li li li sa l bl e
11est: i stanza li li l: - tra, (. I v Sſare.Procacciando d'aver libri i -1: l
silt: l o (.es: l'i..... e senili e procacciava in vero studio di accompagnarsi
coi laici, e c. l e perso le di l -si l III: ( Ragionare Notevole
l'uso di Illesi i verbo I I I I I I I I I rilisi iv livo, col caso l'ello ecc.
2, a val I e di disco, ci e, se il pli e il di pi la re, emersi parla di di
checchessia ecc. e t -, la e 1 l, i -; tiri. I ll zza. ll (iesti ila -s,
e per ragionare con lui quello, lo delibe: il to Insiellº., Cavalca, a IP Srla
e le m'ebbe ragionato questo l i l: i grilla li do vr ilse; a Per liò mi i
ferº, del veli il pil pro-lo. a l)a te.e forse mi sarebbe igev che ragionato
m'avete, a che Iriella: il rili al V Ita el l Ila. » I 3.« Come il di Ill
venili o ella Inandò per Illi si sale e ragionato con lui a questo fatto. »
Borc.« All (li:llmo 11oi coll e-st, il il lºonia ad Impellare che..., ma ciò
non si a vuole con altrui ragionare. » lº cc.Collllll iarollo il ragionare di
diverse novelle, o Bocc. -.... insieme con il rarono a ragionare delle virtù di
diverse pietre.» Bocc. E' stato ragionato quello che il maginato, avea di
ragionare.» Bocc. Io gli ho gia ragionato di voi, e vlt lvi il meglio del
mondo. » Bocc. “ Se io sentirò ragionar di venderla, io vi dirò si e torrolla per
te.» Sacch. Nola da ultimo i nodi: entra e in ragionamento v. Entrare:
stare d'uno in all o ragiona nºn lo tre i tgionamento: cader nel ragionare, i
sul l tgionali e ecc. e.... e di questi ragionamenti in aitri stili sul
ſua, lo caddero in sul ra e gionare delle orazioni li gl: i lori i l a l)io. »
B cc. Rinn a ro e re Restare) (ill: il da colli i lill li si
l Ill li Ilsill', li, elillica nelle, il Voll)o rima nei '. I in nºi sl, per
cessare, lasciati li la re ecc., ed anche dicevano ri li di me si, i 'sl di I
Ni (li che lessi:i, il logo della folla ordinaria, asle lie selle, non la re
ecc.e Valli il picchiar si rimane. » l'80cc. l'er g. I li, che nel e li li e di
Ille, le i l onllo e le el o nido, si stoppal on i detti art firi per il lo,
che si rimase il detto sucno. V Ill.Per voi non rimase, il st il dele, che egli
non si il 1 les-e colle - lle 11 la Ili. l 36a Tull ti via In li vo che per
questo rimanga che voi non li ne facciate il pia e vostro. 13 i n i VV e il 1.
pl te! is a, si tl al msci).Per questo non rimanga che li per venil e il II lo
al corpo sanlo tro Verò io le; l lodo. 13, i.a Madonna, per questo non rimanga
la r il na notte o per dile, intallo che i pensi.... » Doc.a IPercio hº, quando
io gli dissi al collessore l'amore il quale io a a costi li portava.... mi ero
un rullo e in apo che ancor mi spaventa, di condomi, se io non me ne rimanessi,
io li'a il re in bocca del diavolo nel profondo de l'i nferno. o lº e'.quanto
pochI - n 1 lei che rimangonsi dalle colpe! » Segn.. () il -. o è mal I atto, e
dei tll egli ve ne convien rimanere. » loce. - - - - - ess idono da alcullio
loda l rossiva e inos l'avallº tra i dolori, che, pure per non dargli quella
lanta noia, si rimanevano dalle sue lodi.» (es. r .... e oggi se ſiore ho
di sapere, e nome, vien più da Volsi che dalli al a ringhi e voglio oggiinai
rimanermene; perchè que: codazzi, riverenze ea corteggi a me sono con i bronzi
e io iIII il gilli, e li riti li Il cast: li o!' « contro a Illia voglia. o
I)av.º per cinque anni era con Intlalileite nel pt at, e li pil re: che se a ne
potesse rimanere. » (es: ri.a sfolzil Vasi di oli dll l'1 e l: I); Vill: l 3
lit: i d i lilli olii i cºlori di - i lo a padre che restasse di più opporre
imp, dillio Io...., (es. “.... ei percossº. Il lin fascio di legno, e tratti ne
II: il « e nocchieru o che vi fosse, non restò mai di battermi. » Fie A.
537 Note al Verbo l?ipararsi o al clie ripara i º il so, il II lil
in qualche luogo, è rill Rimanere 536 – Maliera elillica e vuoi dire che
i lu solo di peso da lui se la costi non ebbe effello, ma che per la ri', la da
lui sarebbe anzi il V Venll: 1.537 – - Aggi Iligi la frase: l in an rsi con
alcuno, cioè resi il l'accor d. « e cosi gli raccollò IIa lo si era rimasto col
giudice.. lierellz. | | - Riparare giarvisi, ricoverarvisi, prendervi
stallizzi, il bergo o si riili. l ipoti e rsi la checchessia, prenderne riparo,
e di lenale sene, schermi il seno ecc. e lº co-l facendo, riparandosi in
casa di lil I rate! l la li (Illivi ad Isllr: prestavano e ili pe: I lil.
I d' I, ss MIli ci: Vd io e Il rito, al V Vellino che (ºgli il [..'Irld). o I3,,«
Nella quale, Fiesole, gran parte riparavano le sito soldati. Aln. « Nella corte
del quale il conto alcuna vol 1, l gii ed il figliuolo, per a Ver (la Illa
ligiare, molto si riparavano. » I3o. «.... e avendo ll dito il nuovo riparo
preso da lui.... » I 3 c. « tempeste terribili con poco schermo dell'a! | a
ripararsene, per cal gione dei grandi spezza Irnelli i che vi la line, le
cellule.... I a r. FRispondere Si lis: per l en le e, l ali che si appr.
pria ad usci, finestre li ries si | I go ecc.Vi si st l'1, ed ali e loro
entrate,, le quali di gran vantaggio bene gli rispondevano. l'8 c.E,si i si l:n
linzi li o gli rispon deva.... » I I.il rolliri to, di che gli rispondeva a
stia p.'ol s olle, o Ces. \ la ti tale sopra il maggior canal rispondea,
e (Illindi s (si d. io, e - ta la io el l altra parle dell'andit, I Gime
r spondeva nei cortile..... Vl in 1/. (::llo iella (.li es, e a tinto dal
lato che rispendeva verso la casa parrocchiale, a in la I bitulo, il 1
bugi a: il ii Il \ l: il la. Riuscire la I e di jiu il '..... in li le
rispoliciere V. g., di una fi I solº i di qualche logo. il ri si il
V lente a che il fatto riuscisse, l V e Illel inisero me li: i sliI l l: vi ll.
e qui riusci la fede di Il sºlte. lti... » l al [.. 5.3S l..... il che riusciva
º;; l'orto della sua casa. I leveliz. !... ll le gabbia e gli altri o il certo
I, li sl re d'un palazzo che riescono sopra una bella pescaia di dettº Villa. »
l'itº l'eliz.E le 'tero a dove riuscire ad cdio e inimicizia Illani le 1:1, ed
il (s. Note al Verbo Riuscire 5:'S -- Nota anche il modo:
riuscire nel contº aio (l?art. Fier. Ces: C' ('C'. IRorn pere assolti
alle il c. e di 1, il I e pºi e' ipi di isl, scoppiati e, a Isbrerli li, re nir
fuori, mosl riti Ni, renire al 1 ll il 1 ot, la nulli), il ſuo Srl, il l i tic
li e si il ()sserva Colle. spia º la r la e i d g romper nelle I):ì v.
che il mare ſta il lo rompe la fortuna, si i º la ve.... » Bart. Ma:ì colm pass
ºli d'ºl - lo d lo c. lI l a zato a rompere in questo lamento. » (il.... Si V )
ll 11 e - I | Il ri - Ci10 ruppe la più Sfornata tempesta... » I3: it..... ll
si l il Iss....... si ricco d'a ll sor, enti e pio a 'le. verno rompe, i cli è
noli ha pºi il l si 3 l rt. Al romper de' primi alberi 13: e () li liseri e
vili e le colle vele, il re i riposare, per lo irill (o di veli! rompete l il
sit I'' | il ti» li: il tragi, l)a 1! (Convit.« IP:lrla il santo I)otlo e della
penitenza, l silligli: il 7: che rcrmpono in mare. 5 (), IPass. A
11aloghi al I o mi per e silciello, solo i lil (ii: l'olio di chi ce li ºssidi
I l -, di risi) di cui i ne sfr millili e le alli: il ri: (ii Ili. l'uol li |
redica o di persona e val lira hi:il di ogni vizi e delillo, si bilo il l'il':
rollo palla e se l'I l ºrº al l (t poi i lil si al I olla e. A vizio di
lussuria fui si rotta, (ll iil I I: i (il bi' -ilm o ill che e' il ci li
lo | 1:1,.. ); I l ' e li o di po; con roito parlare disse a I io -, i di
loro chi sono pi posti a go. erno dei legni. li enz. !, si parti:: rotta
». a MIozy Iºirellz. In t....ti, i a crive a rotta. si 1, ero i rossi V
lillili ». CCS. Note al verbo Rompere , 4ſ) Quando il discorso
non è di na Il giro e si vuol sare la so irriglianza del mal frigio si dice l o
nº perc in m al '.Sapere Nola il sale dei seguenli esempi, e osserva come
sia usato a inves ce di conosce e, cioè il lal luogo e follia che penna volgare
inon sapere di lole la conosce e lo elli in etile per saper lare, saper
trovare,...... lill il sels l o spiacevoli e cagionato da checches si se pºi li
rion Nat per lu nº, se per male, saper meglio, peggio e o il il I -
sapeva ed il luogo della donna, e la t o!: liss. 13,. V sapete bene
il legnaiuolo, Il tale era l'area, dove noi I Ille- i le lel lmondo ». ...
si il gialli avi, le tl - e i llino da ni:aggiori miracoli, che lima losse, per
ine sapevano bene la sua infermità di prima, e tutta la gas. s tripli di gelle (i
val.i (o si º li elit: rl, impero che sapeva l'animo Stio (a V alcºl.I ll (lº
vi o li sapendo la mala volontà di Alberto, (ii:alml). l'er certi ti metti da
campi che a gli sapea molto bene ». Balt. Non sapea aiIro bene o vantaggio che
lolli li Ino; i do ». Cosa ri. b) l urono oli ri quanti seppe ingegno e
amore ». I o.Sappi s'ella:): voi a 1 e e ingegliati di rilene) e la n. 13oce.
Se e- l si, val lsi ve lel via, se noi sappiamo, di riaverlo ». l 3oce. \ li i:
it: l. Il tº sappiate come stà ». I3.V e li li io e sappi se con dolci parole
il piloi recare al piacer mio a. l 31 \ lorni il meglio che sapevamo l?o
l?art. a 'l'empi rirs delle cose che sanno buono alla bocca » (che
piacciono, il 1 ml, rano i gusto, vanno i versi, i l:llelli, l'iol'. a
Nell'all pero di chitidere o si arta la io, per riporlo, mi sapeva male e che
una storia cosi bella dove - se l'Iliialle'e lllt la via sconoscilla ».
Manzoni.Note al verbo Sapere 5 (1 – Lascio i 111 di: super gi atolo.... e
noi ve lº sappiamo grado quanto Dio vel dica... Fierenz. --,saper di q. c. –.....
In li li perciò che li lo sappiamo « d'armi, sono punto rimane selli. Il
prolili id arri, eggiar per poco. I3art. –, ed al ricli si generalmente noti ed
all che usati. Sc usare Scusare ad alcuno checchessia significa lui e per.....
rale rgli checcles sia. Scusa i si da un incarico. di un onore è l'alleli
nen dei ledeschi, dispen strNene, declinarlo. gli Scusava altresi
tavolino da scrivere, (es. I) Io g! scusò .... ll Il gi! io lli: It i li
(. Il lun atto di III: rivºglio - a 11 in Ita. ll Ior- e la vi a a la
fortezza degli altri due, gli val-e, gli compe: so. I3: rt.:I III l st 1:1 -
lli -, e o l il l: N velli re º il l il lii lutti, vo: ebbro
piuttosto scusarsi. I), l:iz..... e vi va parla gli uli (a: di: 1 e se ne scuso
I, pe... li: l ' li enza. Iº e prima lo volle as lta: e cli... (-.
Sp e dire (Spacciare) Dicesi | III o spedire che spacciati e
negozi, alla ri e val - igarli, dar fine e in prestezza, dar loro crimine od
eseguirne lo ecc. I 'tillo e l'altro sti, per sbrigare. libera e mandati
in orina, distrug gere: li la lida che spacciare in tal senso è piu forte ed
incli e violente ed espresssivo talora più di spedil e.spot ist e il ses, i ve:
id I e, esilare presto, agevolmente non E spedirsi, all'incolillo, il
senso di Irellarsi, sbrogliarsi, sarà tal \ l igliore di spacciati si.Sp li e
lº si usi il ho io l in rial c. 1 | li la relole spacciare; sicci lire -
Il s s', si e' li i I ispedire erti legozi. lle gli erano assai l | 3: i
t () s Vli - s III Ill: ll spacciare l'Imundò Lui l (- l a \ si
essendo espediti, e partir dovendosi, Messer (I espedita; e le so, i1 il
- ! i, i l 3, lº 1, si l SI II il 1 e ia li e si inseparabili, li ! Si va
per ispedirsene lo sv. Il relit tº ai assa la primo all'ultimo, N es 1 - oi i:
Il mat. Seg Il. \ llllllll cosa, cioè alla dol. il pot, i ni spedire e mi
spedirò brevissima e la pill dolce dell'I latina, tanto i vol a 1 e e V al cliI.....
In li spedito e "ri i colli li sa e la col vento in poppa, o ll
Illl), \ si vºli l e spedito in nel rito l'llo delle fatiche, V sgombro,
libero, franco di \ si lss 1 e 2 ti el: - S, (Spacciato se ge il tº l l )
rls, l il s ol'l'eva.. » I): I V. spacciarsi la qua le briga. o liocc. E dello
spacciatamente se a divise o tra loro. » l'ierenz. l est.l. I li: il li li di
analoghi, con lo spaccia i nuove, ſandonie, chiac li c', ': spot cicli ll mi
lit l. la sci: lil el l Spetcciarsi lºt'....... si li util Napoli, il
rils......... Stu ci ia re Stu ci I co N sl 1 la sl, slultati
e di che ce li essa, il checchessia, le studia e clicci li essa, i cºsse V so,
il lendervi con solle Ilic, pigli, il si al cloro c.a e convolſolo per lo
fa rig. I titti i panni i ' iosso gli stracciò: e sì a que sto fatto si
studiava che pull e una volta, dalla prima innanzi, non gli pote, Bionde'lo,
dire una pa! o 1, mi doll::l lavo ler, li è qll sto fa -se o. I3ore. No:i
lasciò il II la 11: i si studiava, - - ll il ei lidi i maggiori bo-coni ».
Pass. Forto studiare il l re. ll - ll -si l... I3 e “ Va (lo zel: i vezzosa li
studi in ben parere, 1 A v. lI I ſi per il Ver nonni e pregio di ie lezzi, -se
la gli ali a nſi an:ata: sper a chiati le molti mieli i pieni d'alloni: vi ss
v.e Il campo - I: il c hene studiaio I l i il to - - (il v; l'. No ! I V il r!
- a te, ma studiate il passo, I): Il fe Analogo a questo studiati e e il
- si liv sl ulio le s - le I sei pi Sta per cultura, affezione,
indistria, premi di li solleci il ne. I bassi, si per 'o litig, e, oli!
studio, si ri-sezza dello el'r: i clivelli e le lissil II, e odori | ero III !E
fi1g e 11 lo og Ili studio di V: la s i Z: st: si e n. (il V: Il l.lº ! ) ll è
lo studio il "l: V (", 11 l 'I:I - tll (le, 'il rolls il tt (line
avea t riati il vo! I Si r I e II, l'i: 1. ll I-tri: l'si, lo si ll -
l3llo lo studio Vill. I l l'illll! ». lPl', el'. lºrosſo si fa tl o studio di
vita perfetta e I l lito, veline ogni l in questa «:i va ilzi 11(lo..... r. C
-a l'I.Questi pie: i l dicazione.... crebbe r 'lii lo studio della vir' il n.
Bart. Ma per le egli i il la ſi va in ai li sºlo - e io, conferi la corsa e l e
s ii: i re, i quali i:ilm ira o di ſalito studio di perlezione, ne lo scoll
fortd) ». (es: l'i.(ollsidera, a studiosamente III: le V irti - -in a livelli e
in larni il | il il 'Si a..... i. i: l st il n; i ri'. Il te:i, ed
il 1 st ): -, il 1 l l il 1 a e santi invidia, dall'uno il riprende i: - il:
zi, d ' 'ta, l o: la mi i suoi lidine di tie-fo, ed la carta li seguita l'o si
sfu diava ». (a val. 1 bello slurli. in re o si riali, per ni.
Slare di sl italio è ſl se elilli, il V,le. - I li - ci del liti.......Term e
re (Attero ere) Se lº ritieni disco rere il conto e l'onde, che
allo stringere va poi I che non per altro è così se non per l is si, il re sul
lo alcuni esempi i più notevoli fra i molti i 'i ll il 1 di II lo nºi e vi gali
ci o di operato e di varie significazioni - Il l l: i clivel st Iori e cosi
lilzi ille. N gli ese, il clie sogliolo: lº I. I so di lenere per
legge e, ritenere, in porta e portare, occupare,: lire, ci si r, si ri:ll.I
terrebbe - - l:lza non l'attelluasse U al tutto ! -s....., l 3 l:\ e V: l
l'ill: il la terrebbe llll esel - i l): I V.I le llll:lollo solo ne teneva
mille di l.... Il il l lei sul i... (ii: Inl). stava di.....)I i s tengcno, le:
l li vuol divenir beato mo Bo, ritengono, insegnano). -, s.............
-: teneva i li, i liatura di quelli non si tor Ita 1 - lasse la lollo le arli
». l)av. (portava, il l, l. S S.,' ' A ripagne che tengono gran i - i loTe', se
-: i e letto a filo il lo ». l ', SS. ) l\l I l emete li - i l: l 3oce. Te', si.
'ls ll' Illol te lº guarda Ito rov 1, appena gli amici ten riero I l l'... I tl
V. º li I nel si e' isl e le st. a rl - la si river pillole di se ecc. E
nctendosene tenere, subita il file con le braccia aperte gli corse. N
potendosene tenere, il dolla Il lo se li gliese losse o forestiera. » Il
lo il vide: o, ſemnersi, o Nºvell anl. I si tennero, si llll'olio in
Inghilterra.» Bocc. (non sl arrestarono li: l.S - e li l silio, e si tiene e
per il cosi è adulatore di sè ss., V º l'eli,3º di Tenersi, allen ci si il...
attaccato, legato, olbligato il per l'e,.. al c. aver fode, esser a
L'eredità s'aiteneva i mie, i lire pi stretto parente, Ambra. « I'('la, cals! e
1, V s'a tiene il..., l 3a lr. Ere le d'Il 1o, la lo; i t'atticºne quasi nulla
Attenendosene S il li, gellolt Ztl....). Si vl it -:: l si. « E
pure con esse si forte o d si gran colpo quell'albero e con tenersi a tante
sarte, ll l'Int irli E' pi 1, la volta gl si caricano sopra bufere di vi
1!...., l?art SS6, ſ" I e Irla Iliere: i l: NEIt (SCI(), IP ()I? I \
I.N | | | V I \, e si lill. l'ingresso, non sto con l'altro 'co'. i
ſicali e le per rielar l' (Illa lo uscio ſi fù III' i l nut o? l. (.. Il
lilli lo il 1 ll 1 i gli:iltri i l ll il l Se Ml 17 Zeo vo) esse venire,
a lui g a Iri Iri: i porta gli -se tenuta. S'i ll. Lo Ialo a Illore delle
cose. Il 1 la tiene la intrata della pelli tºllzil. » l3elti. Simile:
TENEI? FA \ El.I. \ per i sloti e di pali la I e cco MI, l' 13e! oli e
veri e I l Is rezIo coi Sere.. (ennegli ſavella illlino a V (“Il l'Ill III 1:1.
» I3 r. l'ISN EIRE. VI I I NIEI E I. \ IPI: All.SS \ e simili per N
S. I l ct i lui, mi e' lere in esecuzione, al lendere la cosa pi o mi
essa. E co-i v. illy i lo; p - attenuiC S: MI i beni vi prego le vi
ricordi il l: III e l attenermi la promessa. I. l'ENEI E I) \ N VI
CI N ) per stare per alcuno, a lei il c ecc.. e anche l'ENI.IRE A I) \ I CI N.
per esse gli diroto, allo zio ma lo e' ra dicendo. Chi stupis e, li gºlia. In
sella ma li la e per tenere da chi vin cesse. n I):l V. a 'I'll.t: 'ls V -,
cini | Cnea C 9 l l'uno, V ed I ad un'altra donna tenere i s il 1 l
(''le. » I 3:. ch, coll'altro, l 3. III, i ql el l.... I | Il t.
Il I | NIEIR (IREI)| NZ V, Sl (il t El () il mat cosa, poi oss. (la
e il secreto di ser lui i c. 1 li tr\la V e V,i In 1 in la di tenerlomi
credenza. » Bocc. Se lo ci º lº si le ti li tenessi credenza, io ti direi un
pensiero che l lo II v.... 3. Il 1 s ii il va onle lo so tener segreto? »
Boce. l'ENEIR E I) I. I) El. per are le qualità di..... \li e l - -
Fiesole ab in ritiro, E tiene ancor del mcnte del macigno, I si fi; a per tuo
ben far nemico, o I ): l ll ta”. Tenendo egli del semplice e molto spesso
atto e piano de Laudesi.» 3 m. I Per si s ZZ I l: l'ill orrore che
tiene insieme del ri tirato e del venerando, (il ri. | | N EI ) \
VI, l N () | N \ (() SA, lu' i lat, i guardarla ('() )llº dolla, procu i
ctta la ecc. Tengo da te lite o lei lo 'I EN EIR (i It VN I \ \l I
(il I \ I loss leben. I anche di grand -- TENEIR SI (i N ()| I \ S() | | | V. e
sillili. il il l'ono a spendere, tenendo gran il l'I) leggiando....
» - z: il l ll dissima famiglia...... ontinua in lite corle, di mando ed
I 3 ). Illelle e il laie, e tutti insieme li Ilenò se il gºl, l 'e ivi teneva
signoria sopra di loro....» | | (ºl (': l/. I EN EIt All NI E q c. S.Si
Til lo) ll till al pl. I Tienlo ben mente. Clie di tu di lui? » IPass,
l'ENEIRE \ Vl Vlt | El I () per i cºſtiere alla pi ora. Se o elillirill I - o
d'a i to, lo Il varellol danaio, perciocchè I lill I l: e le terrebbe a
nnartello, o lº s. Silll I | \ / solisti, cli, li i rilio a ppa: eliza di
vero, e poi lo reggono al martello. I renzo Vledici, I | N | | | |
V Iº Alì ()],l. il grand slmo lolor punto, ve gelid si l ubare a costui, ed ora
te nersi a parole. » I3ore. SS8).TENEIRSI A POC ) CIIE o li.... per
mancati e poco, a un polo che..... l il pcco mi tengo e il 11 si l V: l...
l 3a rt. a poco si terrebbe di fargli sp a r i: esla dal busto. » I)av. e Tull
lossi il giil l a poco si tenne che lol li la ndasse ill I)io. » I3ti l.Qll
('sli l' 1 l V il ll per lei l'8olizi a poco si tenne che non rompesse i trezzo
le parole in bocca al re. » 13ari. e a po22 si tenne ll Il 'l g.. lIl l: ss e
ll l: 1. ll lentº. » I3a l.\ III:il t 'ito si tenne, li ll i no! I lºo. po o II
lancò che). e non so a quello che io mi tengo che io li sego le reni. o loce.
S89) Liis lo i titoli lelier: teme i campo disp. Il re, e nel parlamento;
lemer cuslità: l 'ner con lo. le ne I e di metri les li tr. di matri simil N..
ed all 'i lllolli le sollo I: fissilli ed il 1 l 'g: i 'li e le
Isilli, Note al verbo Tenere S85 - Si inile ſi ſti, slo, le
nei c. ss it ella di Illi, Irla il clii: lento a dirvi. Ieri lo li | | | | | |
|.. l..., ecc. I r; I li prelie. l 'il pollai, li li sl i ti ci l e. Non voglio
sollelizia I cle sia l al dlel', Il si ſti e mi ero lei libri di il. SS5º
- Tè per lieni vasi spesso it is lil III e il liclio e classiche. Si ginifica:
prendi prende le simile il lencz dei francesi. SS6 Vlialogo è il modo:
esser tenuto ad alcuno, per essergli obbli galo ecc. e di clic i sell e vi sat)
) le nu lo. I3 cc. SS - E' lei il ra cosa che poi mi cºn le len ci ai
miei le. Tener men le è la cli il lool e, ii l'l'ic loli -i. I li N le lui li I
Na'im. (sil I lili. SSS -- Simile l'alli, lene e a piuolo e la spella
lunganielle, ed a li che tener a bala, cioè il... I per il lig, dal pascoli
loil, lo parole (t' '. ('. S80 – I radici: lo si si il... o da qual
cosa i, sia | ralleli. Il. obblig: il, che il... E' il tenersi cl Ilia
cos: ad un allla come sopra. Si si | or al l 'e ll il ', il l 'I l l e', tipº
partºnº re, spettare, riguardare, con c'e' li l ', mi lui, l ' i', con il l
ecc. (i II l la collo e il lido: Nella lira e bri It i 'i: occo rit... »
Fie: enze. 892) e la \ e l'e lloln Inai in quelle cose che a lui non l occano.,
all el l Z S9.3le leggi il mio esse: oliill ill, e l: tl e oli collºelntill
lento di coloro, a cui toccano.... l. I 3 ),Qi lel il li illli le l mondo si
spenga di fall le, si lle l. ll i non ne tocchi una.. l o. - TI (ccchera il va!
ii, li ho perduto non hai. » Bocc. Eliorniti che li toccano il III | orsoli 1.
Giul, che non riguarda lo) ()iles o ti togli il tº it e toccò l'animo dello
alate.» Bocc. Nill riso si v l.., liti ma les!: il tocca, niun giuoco. » Bembo.
rili on le li rilate e tocche s on III te. l) avE pur i s l it toccavano i
soliti dieci assi per un danario il giorno. » ve....... l):ì V. \ i le li
si – li -se esser tocca. » rubata) BUcc. Nola al re niti ie e ci si
parlicola i del verbo loccare e suoi deri \ ai li: l occo, locco line (C
VIRE I;l SSE, 13 VS N \ I l e simili, cioè ricererle, guadagnarsele. S!)
Si occo l: ve li e la sto male. » l'a!. l.llig. º l:Il quale, il V e ilo dal
canto leg 'i Vitellesi una buona piccata toccato, l'Is - il l: i ti,, V al
cell.I l toccarne il 1, lº strappatella di fullle, e fa - e peggio il loro a. m
I.: si Stavano olle ſelleri li non toccar qualche tentennatº. » Lase. | ()((V
| | | | |, I ()| S(). i tcccatogli il polso, i' 1, V o li s. Il: le... »
l'8art g l Il losſ o, egli non si risemi occandogli il polso e il settimº il lo
trovandogli, tutti per costante ell ss (lilor | o » l 30''. I N A 13ESTI
\ perchè cammini, \ lid: V a ill: zi toccando l'asinello., V S. (, l.l'ARE
AL TOCCO cioè cedere a chi tocchi Sºſ, « E' facevano al tocco Per chi avea
a morir prima di loro. » Buonerotti. DARE UN TOCCO SOPRA UN ARGOMENTO
dare un cenno e passa oltre). I N A TOCCATINA I)I..Rizzasi in più con
gran prosopopea, Ed una toccatina di cappello.» Lippi. l'() ((C) I
)I.I.I.A (..AN II º VN V. Che li cºlli pa 11: l'o, un toc co. »
Vill l: I I'()((AIRE I N I VV ()|? (). « Ne i pittori le sºno
ritoccare il lavoro a fresco, quando è sec o. » Bor. glini. Note al
verbo Toccare 892 – Si dico anche oggi, e col e gil: il forli la e
sigilili: mi locci, gli toccò di redere ecc. ecc. 893 – Simile il modo
volgare: tocca a me, locca e le ecc. No a dop pio significato della
maniera: tocca e al alcuno a la r che che sia. Vale cioè allo apparle nel si a
lui il lati lo Quel che loc a cara allora a lare a ('alone nel Senato, e di che
veniva pro « cisamente incaricato, si era la reiazione dell'operato da lui in
Africa..... » Salvini, che essergli forza il farlo. Se così ſia toccheran ni a
star e le Mlach..306. « Trovall a domi in prigione de l'Il cili, mi toccò a
navigare sul quo e sſo Irla l'e. Magal. Va l'. () per il. 894 – Si
costruisce non solo col caso olli | Io o l: l'ivo di chi le riceve - – toccare
tal alcu no basl 1 i le ec. li l: i col l'ello e loInilia livo, cioè ad Iso e
va' l' oli verbo neutro assolulo (Conf. Parte 2, Cap. 2 Serie 2 loccati e
alcuno delle busse, simile all'esempio di sopra: l occati sconſille crc. - -: e
dicesi anche elillicarnelle toccarne, se 17 il ro. (ili esempi che allego sono
citati anche dal (il era l'elilli. 895 -- Si ſa gillando uno o più dita,
e secondo, il convegno Se pari o dispari, contando a chi lo cehi.Togliere
(Torre) Il sil prillo e volgare si gli ſcalo è ſuello di pigliare, le rar
via. Ma guardi colli e le e vago I al I silli: i polli ai classici, e notevole
l'uso il liche il lal senso. Trovasi poi anche il lill glisi sa che pare
significhi l'opposto li loglie i ri la I e lo gli hecclessia, e li on è altro,
a mio il vviso, ci Il loglie i re Isiliv, cioè la re che al rilolga
ecc. Ollil tit, il... V e le cºlle il lempo m'è tolto; lo illa!)i 1orse
non li lall, ll: il ch'io vi soddisfa la l 3 Sº)Ilena i logli i dosso Iliel
poi, l'esercito, il l aggiunse a Marsiglia, togliendogli il tempo da...., (amb.No
orre alcuno. » l)ante. (le il ſierº del li i tolse. » l): ll e. «... che pole! (ll
gli abbia N ' i torrà si endere questa roccia.» lº: i ll tºEl e o pit and: I mi
tolse il rio, e lì in mi impedi, mi vietò Ma lui li do, io mi tolsi di soi o al
letto... I levenz. 900 Togliersi dal sonno e dal letto, e lº renz.per lo
miglior loro e Illrolio, lo zali a tormisi d'in su le spalle. » Fier. E per io
hº il solo la so sl: i o non li aveva tolto, che egli non con - scesse, llle
slo sllo e Irl, l e ss. r. ll rd venienza, si comio savio, a millno il palesava,
13o 90 |.... Irla I e il iv si dissº: l) il nullle toi tu ricordanza per no al
Sere? Io boto a l)i che mi vien voglia di dirti un gran se - gozzole ». IB ).e
tolta buona licenza, se n. a do. Fier senza la li complimenti, si prese a
liberta...Se vogliamo tor via che gente tillova i sopravvºlga reputo op portino
di mill' arci li lill, (and l: le altrove. B 90?) Itender enn, Ianto che app,
ma il potea o, chio, torre. » l)ari e 903 e dal a rito il questa l'alti e
toglien l'anda e la de e ratle. » I)ante. si toglievano gli uni agli
altri quel piccolo soccorso che loro polevano di re i silli, o l?: il 1. 00....
o ad Illbra li do il vose o ai proprio, o:i sperandovi con rili pro averi, o
togliendovi il modo di fare un'alimenda onorevole. » (iilllmer. mise o el ºnn i
molato Cirio: le pe: dè la sua liſl la lag iata, senza altro averle tolto, che
alcun “ In ci si fa la guisa i. e genia, poi, o dav:ì il i la llli gl
bacio. » l?occ. (cioè dato)« perchè or che difender non ti potrai conven per
certo clie così morta a e Irle tu se', io alcun bacio ti tolga. I 3... io ti
dia, Ili venga a Ito di darſi). 905) Nola alla ora le bolle illalli, l ':
TOGLIERE () TOlt It E | I. \ la checchessia, cioè preferire, con len larsi
di....., e Tiberio tolse a comparire in le; so I, a ! !', e o, e di
ndere.... » I) i V. « Vinco io le battaglie pil pericolo e pil dire e per
la giustizi:i tol « gono di morire. » I3: rt. a MI:ì io sono illttavia il
di Ir i l:I l orrei di bel patto a portare a i loro libri. » (es. ll i.
si ripuli e ebbe o beati sº I ssa r, slie, l 1 l'ido io torrei di bel paſſo,
d'esser qual s'e di loro il pil abietto e pov... » (a r. a Togliendo anzi
per la sempre tra i - llai, e li rili: r per quali mille. » I30, c.
TOGLIERE A far che che sia, cioè cominciare, intraprendere. « l Il
cavalie e la donna idò e ella ne togliesse a fare un'altro: rispo e º che nºi
le era preso si inen, l ui, ch', l: sl d let se li Ial lo...., Sacch. a E debbono
esser da ci o e i lini, l III lo igani e di quei film ha tolto a liiigar II le.
(recl, liz I e V, l: il lil V III in: l di alle 11 e o (a ro. a ciascuno tolse
a studiare l sprint re il e la parte del suo in e gigio. » (iiub.N il so, III:
Cºstro l?ier, Ill r l)i I l st: In: lov i lilla Inalarl a collin, Ch'io ho
tolto V ri-lotele a lodare, e l'8 l Il. r. 1 Il.Questo sci, o dello Sf i villa
ha telto a voler vincere d'astuzia le volpi. » Cecch. 'I'()| RSI | )'I N
A (()S \ T IRSI N V C s V, I) \ I PENSIEIRO.... rim (I morsi. Nn c / le re
90(5, Si tolse del tilt to di comparire i. a Cosi i miei avversari
si terranno giù dal pensiero di più rispondermi e e dalla speranza di vincere.
» (le-ari.T()| | |? I | )I VITA -- 'I'() IR I)| | | | | | | V | | | | | | | | |
| | | VI () NI)() ll ('ciulo l'o, a ()li re a cento inili, creatur il
mare si redo per cerlo. sser stati di a vita tolti, o lo. a Acciocchè una
medesimi la ola togliesse di terra i dile amalli I ed il lor e figliuolo. » I30.
Vle o immaginati di voi s' ingerla a formi del mondo.» Label. « vera niente io
Illi fa i in V a Il, se i di terra mol tolgo. I 3. T()RSI I)
AVANTI. a l?oichè gli si fu tolto davanti, pieno di trial tal to n ebbe
con gli altri a parole III olto disco lice.... » l?art. l' IRIRE I V F VME – I
V SET E ToItNE UNA SATOLIA (907. lei li l o, le i vi ve l e li la volta
con esso te o, pur per veder fare il forli Ille: Irla il l' e tormene una
satolla. » I3occ. Note al verbo (T cogliere, S!)!) - Nola la
lesia inti i ra: ii lempo m'è lollo: togliere il tempo (tel alle 11 il
lui.... 4)()() Tor I e, Torst, li dot... sigli ſi scostarsi dilungarsi
levarsi. 901 - VI li ra e il lic.. bella tanto, la quale torna al dire:
non gli a reci ſolo l'uso dell'intelle lo si che egli non conoscesse....,
od all' di s ti riglialle. !) º I 'io lo l via, ma il varo, vedere pren
loro modo e rut, ci si lal si ch. 903 - ci è ricco gel sole, i VV e li '.
90, cioè si prestavano. !)(lo - l li libilarle? Parla di lilla slla alla
la, ma non amalo, la Il le liti l'a si l): il re. !)()(i lº pro isalire
le ictu) gelo in lei l'edeschi. Simile il modo: p. I giù smettere Pon gli i
ſervenli amori, lascia i pensieri in atti I3 cc. 007 - Si riii: una
corpaccia la la ne, prenderne una buona si ll: l. l 'iel el Z. U
sare l sai e ad un luogo, ed anche usati e con alcuno, usare insieme'.
Rollo nraniero buonissime, di frequentissimo uso nei migliori libri di nostra
lingua. e sarebbe gran pc calo non farne conto e non volerne più usare, checchè
ne dica il l'on il laser, il quale assel is e che non sono della lin gua
parlata ecc. ecc. Significano i requentarlo, praticarvi, bazzicare, es ser
solito a l ora i si, al csson e', o l e molare e Pilegen; l mgang mil Jº il,
and pilºgan e. Notevole anche il modo: esse usato, esse uso di fare, cioè
aver l'a bil udine, esser solilo, non essere usatlo di checchessia, e
simili. (), a avvenne, che usando questa donna alla chiesa maggiore.... »
l'80ct'. a S'uscì di casa costei, e venne dove la usavano gli altri mercadanti.
» Bocc.« Le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e
usavagli. » Bocc.« ma pure accontatosi con una povera fon; Ili i clie molto
nella casa usava, non potendola ad altro in li!: la 1; i ''i corruppe.... »
Bocc. «.... io cercherei qui sta po- - ssi i li !... ciov e ne filmi, nè ruine
di piove me li potassolio tv utº assortº iacircncelli, e l'el che rei che vi
ſul - -. l'::::) ): l ': - - « In quel tempo usavano relia coi ti atia
li., Fioretti. « non colli e g ill', esse I, vi vi foc3e usato da molti anni.,
l 3' r. (ſ « Si (lio (le a Cl essi i gi ad usare « con coloro che ri !!i
e !,; - i dile tt - « Vallo. » PO (('.«.... il quale il più del ' t com........
i usava. » Bocc. « Quanto più uso con voi. lii i l'.« Questi due giovani s II:
usava: 2 insieme e pe tiello che ino « strassono, così - al vario, o pi iri
li.... Ave id si « adunque quesi a pl (III essi il litº, e l'insieme conti:
uamente usando. » Bart. « senza che, con le era usata di fare, li l --:
lì la lite. » Bo. a º miglii, l'i oli 1 e (l'1 I l tº Sa: i erati 0..
« In quella cav, i 1, dove di piangersi e dolersi era usa, si ra ornò » Bocr'.
«Noi siano molto usati di far ria cr:::º, i s; » I30. « Della quº: l'
orizi in e non era usato i (- a e que.li o n t e li ti o 1: i e i piu «
di tali servigi non usati. » l': i Uscire (915) (illal'da b l'1!si,
e i ti: i usci) e di che che sia: ed aliche uscii e s e 7 il l '. Uscir
di mendicume – - Usai: cºi gaſ to selvatico –- Uscir de' Cenci – Uscir del
manico (916) S « Con la doſe - ll: il il l:. i usci de panni ve « dovili
-si. I 2 c. « Se io uscirò di mia natura. l re li li alcuno, sianni qui e
perdonato ». Da V.e dilungandosi di veder costei olla gli usci dell'animo ».
Bocc. - E benchè quelle bastona: in avessero fatto uscir di passo, come a
quegli che i trial, la rile: e li lti la illo, vi invea fatto il callo ». Fier.
e Mla usciamo di Papa Urisi, io e All III: a un parti a clie mi diceste.» Tel'.l
lo i tir i pi s v - e, si usci di lui.» (par issi, an dl -- elle.. cs:i l'1..
Questa lilla s'incon, in Il 1 lo ci Vi l ao e quando l'Aprile, ma in « Aprile
finl- ed esce. » (i o d.Via ve: o l' rola v... esº, ere li | ra! ti ». Cosari.
e uscito poi della furia...., t, i fillo. Nola alle ol a l: Il cosi la
gºl l ': l S(| | | | | N (VN V (i N V (ii: l: l. l S(I | Rl, V | 3 V | |
V (V e si irrill a Il [il 1 nº.. ! !::: sa: uscire non a bat e taglia,
lo; i titi i ti i ):, e filiali nell' l'all ss:: I SCII? E al
alcuno (N I \ N VII I. \ NIE, CON IVAI313UFFI, (()N I \I IPI si, il i. a
Ella m'usci con tºn;, rºm r Gb: i to adesso ). BOCC. Note al verbo
Uscire 915 – Collſ. I liuscire. 916 – disine Iere i cos vi: Irasandare i
termini del proprio cº Silllll ((. t ('. N/ e clere E' elegante l'uso del
vello redere per gliardale, in luire, esaminare, scaldaglia e, investigal e, (s.srl....
llle: « Pre il lo non dove ero li ' t.. corsi stili alimente credere,
senza « vederne altro. 13, l l lle, l'indagi, li º ) «.... di che l'altra
parte, che per avventura aveva più ragion che danaro, « fieramente sdegnata,
volle vedarla a punta d'armi, e farsi da se giustizia « con le sue mani ».
I3art. « Vedere il vero e il falso l ' pt: 11 i ti: i3a t. «
Avvisato di vedere de' fatti dell'i: II.. itti « e.... ». Bari.«.... Vola e
Inill il 1 e a veder de' fatti dell'a inima sua e le - - - « in
altra religione pil di gºla o li. I |. « e vedi con lui insieme i fatti
nostri ). I. « Vedi modo, e si ppi se con lo! I le, pli i a º il pi
Inio». BOCC. « Tosto pone la querela; propone di rili o le " I to I.
vegga, l a. « mansi a furia i padr: per gl a Il cas.:: i I), i. « S'egli
è pur cosi, vuolsi veder via - 1 i sai io li lo.» I3 917. Fra i molti
altri usi di questo verlo. I l I e voi li ricorderò: AVER VIST.A con ulla
rislut (t l'ºut, li lli il 1 l 3 ). FAR VISTA I AI R LI V ISTI, I A [. \ EI ) (I
) - I ) \ | R| V I STA – I)ARE A VEDERE I Vedi sopra l)arr, Fare Note al
verbo Vedere 917 – Notale queste maniere, realer modo a ria se....:
re ler l fatti dell'anima: senza reale, ne all ro; reale, il re o, il falso,
vederla a punta d'armi di r i co. Volere Si usa a) per convenire,
dore, si in vari modi, il più cºll'allisso ed impersonalmente, sì al singolare
che il plurale -: b per essere per segui re una cosa, mancar poco che....: (per
opinati '. a rl'isti e' Noterai da ultimo il modo voler bene. Il quale si
adopera a siglliſi care tanto amare germ ha ben che sta lenº, o cosa simile.
922. « S'egli è pur così, vuolsi veder via se noi ºppºlinº (i li: i Veio.
I 3 (. l « E' opera si grande e malagevole che di io si vuole
chiedere consiglio, º Fior,« Andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare
dal santo Padre che..., « ma ciò non si vuole con altri ragionare ». Bocc.«Se
I)i() mi salvi, di così fatte femmine non si vorrebbe aver misericordia». Rocc.
(923). « Elle si vorrebbon vive vive mettel llel fuoco ». BOCC. « Al combattere
si vucI l en uscir spedito, ma nel ritorno delle fatiche, a qual conforto più
onesto che la moglie? » Dav.« Comlare, egli non si vuol dire». Bccc. nº n
convien che si dica). « Questi lombardi cani non ci si vogliono più sostenere »
Bocc. (non con « vien, noi dobbiamo sostenerli.« Il beneficio si vuol fare con
faccia l'ela, non vi lana, nè dispettosa... ». IDa V.a.... e che insegnando
egli la verita, e la da chiunque si porga, vuol a prendersi e profittarne e si
vuol prendere Bart.a colme.... così l'animo quando è in lotta o o infetta, e di
focose libidini arde e languisce, con altre tali rimedi ferro e fuoco si vuole
attutare ». Segn. « Per 'rattat de Tai rl'iti usciti d'Arezzo volle ossel
tradito e tolto ai « Fiorentini il castello di Larel no. Vill, cioè fu per
essere, a un pelo cho....).« Pietro, veggendosi quo la via impedita, per la
quale sola si credeva « potere al suo desio pervenire, volte morir di dolore ».
Doce. (In fondi: le fu sì dolente che per poco ci me lova la vita). « Gli volle
dire che..... –- In:a.... ». Fiel'. « Pitagora ed altri vollero che esse
tutte procedessero dalle stelle ». Sacc. (a V Vista l'olio, ills e gla l'o; 1
). « Pa: ente nè attrico lascia o s'avea che ben gli volesse ».
Doce. « Vi vo' bene, perchè vo cli e il lla ln rinto Siele ». Bocc.
« V cali io voglio tutto il mio bene ». I3o. « Tra lol' 11oli Ill lin: i
lite o di ſe' liza. VI:ì d'accordo volevansi un ben « matto ». Malma lì
i. « Con le pugna ſul to il viso le ruppe, nè gli lasciò in capº un ca a
pollo e le ben gli volesse » l Note al verbo Volere 922 –-.
\nche il lo rill degli inglesi la usi pressoche eguali, oltre a molti altri che
il nostro colei e non ha, fra i quali singola rissimo è quello di far l'ufficio
di ausilia e alla formazione del tempo futuro di ogni altro i b – I rill come,
oppure I shall come – secondo cli l' –.923 – Come il verbo volere sia per
lorere, così pare che anche il verbo dovere abbia alcune volle senso di
colºre.« Richiese i chierici di là en! l'o che ad Abraaln (loressero dale « il
ballesimo ». I30cc,« e con molta riverenza mandò lºro galido la Madre sita che
le « dovesse piacere di veri e il tie l logo di ve egli era o. Ca valca.Trovo
inolta analogia dell'uli ell'altro, di testi verbi, ado perali in questa
follia, e il nigen dei tedeschi ed anche col to may degli inglesi, i quali veri
si costruiscono in guisa che non sapresti se meglio radurli rolere o dove
e.CAPITOLO II. Uso va a rio di alcune altre voci Olli i Verli di
illzi l'ecilali, si o alcune altre voci (animo, argomen lo, talalosso, lui
nolo, colpo, con lo iori und, l'onlc, latica, latto, mano, netto, pello, pºi i
lio, pati lo stomaco, cerso.... il cui uso frequente e vario è par li i lili di
elogi rii si rili il. Si lornali o con esse di molte e belle ma nici e e le
viene al discorso quel gri lo sapore, quel colorito, quella pu I A /a (li - il
cºllo e il la al telistica del linguaggio antico e classico. \len Ire le
palli elle e le voci in generale della Parte I. di questo Di i 'llo io, li li
sono che si ni vaghi, e adoperano più che altro all'assetto tegli in mi collosi
e non li alla si irl Il ct del lisco so, i vocaboli di que sla l'arte, ed il l
cie: la p. l rile, sºlo per sè, e precipuamente, for me cloculi e, con
l'icienti di lingua. Da quelle le compagini e la curva, da [lles e il salgle e
la polpa. Arm irro co (illarla come e in tranſ e guisa ne usano i
buoni scrittori. Suona press'a poco quando disposizione d'animo, condizione,
slalo di essere mo rale, e quando intenzione 926, voglia, mi a. lalento,
inclinazione e simili. Son, poi nolev li i modi: a re e, anda) l'animo a...;
patir l'animo; essere, anal 1 e all'animo, la stati l'inimo: nelle e animo,
acconciarsi nel l'animo r. acconcia e Cap. pl cc: dole ne all'animo; dire
l'animo ad uno di....: rivolger per l'utnino; ecc. già d'e è di 16 a li,
i veri l piu animo che a servo non s'apparteneva, l lo la villa della se: vi in
lizio il... » l 3o.... e se tu non li li cuell'animo che e tue parole
dimostrano non mi pas er di vana speranza ». l o. se dicessimo per
correzione e non per animo di disonorarlo ». Mae Struzzo. « Son
testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che teneva « di farvi
grande.» Caro.« Con animo di ienersi le liti e li ſale: l it il venisse miglior
« fortuna ». Gialnl). « Il valente uomo ſe e 1 og: i...., che giurerebbe
Con animo di ' on oss. l: r. cosa:. « secondº, che lle.i'animo gli caºgai.
º...... parlit - i li fellone aniins r i pieno di mal i alCºllt ();. «
Così slibiti i la forza di « fargli Inllta: animo ». I. « IParii-si a
dillolti e i S::i,... gra:idissimo animo, se « via gli durasse, e I - 1,; s, di
fare a Il « (ora non Ini: - se. I3 ). « Ed avendo l'animo al di v gli 1
il gione, ed « Ogni giustizia dal lilla delle i i ti. li li lo il suo lellsiel
di « Spose.» IBO.« Non gli va l'animo ad 1 [. a dre. » l' Issa V. « Consigliata
a mari a 1 si ebbe l'animo a at o...ite di De « Voin, ma tols e Filippi,
figlillo., l: (: V., lº: V.« Tu badi ad l? A lizi ho sempre l'animo a casi
vostri, e sempre « mai ruguino cose... » Anibl. « Luigi non avea l'animo ch: a
li, l i il i -. » (es. « Se pure questo vi è all'animo, i d a li.. r?S.
Cesari. « Ed a Ile liento. Il lei lo va all'animo (Ill si g ) della prima
novella.» Cesari. « Egli che sapeva, che io ero felimini, perchè per
moglie mi prendeva, « se le femmine contro all'animo gli erano.?, lº. «
Se vi basta l'animo di ſei rail. l 'in...... Il 1 li li. ) !!) (.:ll' ). « Non
gli bastando pºi l'animo di 1 i si Il dll -- e ad « atto talora....» l'itel ei
17.« E Irli basta l'animo di A ti..... l ie. liz. « Vi basta l'animo di I l Il
« atterrirvi?» Sog n.« E mi basta l'animo di 1 V il 1 ll - 1/.l il i 1. »
Fiel'('ll Z. « A noi non dice l'animo di pa..... i da!. di ti liti libri e si
lolloni.» Cesari.a se avrete farne del'a paroli di Vill: il lidi: ) di potere,
in que a sta Quaresima, ancor piac º v', in se i mi dà l'animo ». Segn.« Ma vi
dà l'animo in Illi t Impo si lill, i. e 'I ! clie, è peggio si illl' « bolento
e sì tetro, quale si è l'ultimo della Vila, apparecchia i vi con Csame a
distinto a tal confessione....?» Se n.« nè di fare morire alcuno dei suoi lion
gli pati mai l'animo ». DaV.Il Ina le è ce ne ſiu cic ai l'anim 2. o C s.
Part. Qì la - i i, ' ' nette 1 - 3::inno:: i ri. » I3(11v. Cell Qll'il.
ll - oscia chè così e Irli se rintuzzato l'attinº 5 si'C is r r;o.....
9.30 « Qlla lido, lili si rivolge per 3 a: rap ità... » Fierenz. a rivoltandomi
per l'animo i: i uli. o l'ierenz Note alla voce Animo 92C, Simile
al n. inl degl ii i: la mind lo buy one. – IIa e yon di minal lo ti il 2 v 92i
– cioè secondo le g, i l va. W i, es il m su Mulh ucur. 92S -- FsNel ct ll a 1,
il ss. cc: i andar all'animo è sil lillio i: sè i ct g ci li chè a grado l'era,
di lui facesse ndr ) e a sangue quand'el li a noi ci ss a sangue, io la voglio
per disp. ll si o apacissimi di calun liare i lolloni º il lor casi di
reisi, Giub., andare («Se l [llesl e l'agl il sol li a Il slo, si troll
ii ranno ». I3uonerotti (('('. 929 - - Sinili: Sich gel i due n; sici: u
n t then: cs dal in brigen: se latire l'orl.... Vlt i ti li I l eguali sono le
maniere: (la re', di e l'utilimio, il cui oi, i n i cldi il cuore di Venire a
il meno con si p del si li ti I. S gli. « E vi dà il cuore di las, la veli slal
e il l IP. Il gol l il lill gamelle? » Segn.); pali e l' animo, sentirsela. Il
teleti si co. e la (ſuale – inten zi Il senza l'agi o vosli o n li li allilo di
poter condurre » (tiro a Se io non la riveggo i n n't li do di descrivere.»
Caro, S affidano di poter brava e lilli e di vincerla colla provvi dellza.
(iilll)..N 'isi singolare trasformia, i tre graduazione delicatissima" di
significati: Chi dice mai basta l'otti in indica con ciò e di polere e di
volere: chi dice non mi basta l'animo indica non già di non volere ma di lì in
pole Vli dà l'animo, il cuore', suona a un di presso: il cºllº il ri: della, mi
sento inclinato, avrei voglia, sarei vago ecc. l indoº l. Iuantunque suppo sla,
dall'idea di potere; non mi dà l'animo, torna a: non mi sento punto inclinato,
sento, provo i tignanza, avversione a fa re, a dire ecc. Che se questi ri:
'lalanza venisse da senti mento di delicata e ſuità o di colli issione, o di
simile affet to e non per pura avversioni alla cosa stessa da fare, da di ro
ecc., allora esprimerolla assai meglio, che non farei con l'una o l'altra di
delle frasi, dicendo: non mi soffre l'animo, il cuòre (« Ad Adamo non patì il
cuore di contristar la suadonna » Ces. – «nè di far in rii e alcuno dei suoi
non gli pali mai l'animo ). Dav. – A on mi basta l'animo esprime adun que
impotenza: non mi dà l' animo ripiglianza in generale; non mi solire il cuoi e
lip glianza ri e del iva da un particolar Sentimento.930 – Itintuzzare è lett.
rivolgere a pil: Isi, ripiegare il filo – stumpi m(tellºn, e il di la l lla in ſol:i,
l in lui zzati l'anima, ci è di venire avverso. Ilijuſſi e l'animo è il 'ril e
addirittura, Argorn e nto « Argomento è voce che ha molte
significazioni, e tra esse quella « di istrumento d'invenzione, di modo,
d'auto, di provvedimento e si « mili ». Pedi 931, « Qllivi: i foli era
chi con i (Ilia 1 l di l:1, argomento, le sn la r. a l'ile f. Ze l iv (): --. »
I3....« I medici con grandiss mi argomenti e con presti aiutandolo, appena a
dopo alquan ) di tempo il poter no di nervi gºla: ire ». B e fa la l la fra il
l. 1, e gi. I l 'gli il i vi i suoi altri argomenti fºnt li fa re, Illas gli y
olesse... - III: I rila vita e il sentirne il o l'eV 0 0 l'e.... » I3 ('.«....
a zi, o che il natur:) del III:I e no! p. Iss e, o le la ig it anza de'
Inedicanº i non conosco -se di clie si in vesse, e poi consigli il debito
« argomento non vi prende- se non - li te pi h I gilarivano, i pizi.... a Bocc.
o presi e li argomenti per 13 « con quali argomenti di fila li II lit: i sl il...?
l): V. « Gridò: fa ſi che le giºrno, chi ci li' Ecco l'angel di Dio!
piega le na ri! ()Inai vedrai di si fatti uſi illi, V (li che sºlº gna gli
argemcnti umi ini, Sì che remo non vi lol li è nll: o Velo, chi le ali slle tra
liti sl lo: alli. » I)alit. « E d'onde debbono prendere cagi no e
argomento di non pill l urt, ed eglino più per callo.» l'assav. «.... il
quale fermamen e ''avrebl ero il riso, se un argomento non fosso « stato,
il quale il March se subit Ilmente prese..... » l. ll Il Illotivo, llli
appicco.)Note alla voce Argomento 931 – « Le malattie delle femmine,
prosegue il Redi, di molti argo menti della fisica son bisognevoli. – Per lo
che i medici han potuto dar generalmente nome d'argomento a tutte quante le
loro medicine. – Può dul que esse avvenuto che essendo il serviziale il
più frequente di tutti i medicamenti, sia rimasto a esso serviziale il noir e
di argomento. Può anche essere che sia slalo chiamato ci go onlo perchè il
serviziale è un aiuto che per poterlo usa e vi è bisogno d'un argomento, cioè
d'un istrumento, quale appai,lo il cannone dei serviziati». Aci
osso (A ci cossa re) Guarda come si unisca a molte idee e ne renda
più evidente l'ordine dell'azione verso chicchessia o che cle sia s inili
all'hin, her, hiniiber, hine in ecc. dei tedeschi. « Escono i cani adosso
al poverello ». I)ante, « Ella m'uscì con un gran rabulff o adosso. »
Boce. « Entra il l)iavolo adosso ad alcuni, e per la lingua loro predice
le cose « ch'egli sa.» Passa V. 933) « fa che tll gli metti gli ul gli
ioni adossº, sì che tu lo scuoi ». I)ante. « Oll - io veggo porre mano
adosso a tua persona senza riverenza, cer ta Inente il III io dole, le cºlore -
col piera.... » (a Valca. « Non pensando che, se fosse chi adosso o
indosso gliene ponesse, un « asino ne porterebbe 'roppo piu che alcuna di
loro.» Doce. 1934) « por gli occhi a dosso ». 13 i c. « Stammi
adosso (amore e lpoler ch'ha 'n voi raccolto.» Petrarca. (935) « Recarsi
sopra di sè, e no.n appoggiarsi adosso altrui.» Casa. a 'I'll rarogli gli
occhi, e a impeto gli corsono adosso colle pietre.» Cavalca. « No.l,
altrimenti che ad un c. n 1 l estiere tutti qui,i della contrada « abbajano
adosso.» B, c. « Avrebbe avuto mal giuoco a darmi adosso mentre i padri
mi levano « a cielo.» Giub.Gridare adosso ad uno Vil. di Cristo) – darla adosso
– Gridar la croce adosso a uno – Dandir la croce adosso a uno (nodo vivo, cioè
dirne il miglior male possibile, perseguitare. Formare, lare altrui un processo
adosso. (Bocc.) « Addossandosi a lei s'ella s'arresta. I)an e. « A Celso
adossava gli el'l'oli alf rili. » I)a Val)Z. Note alla voce
Adosso 933 – Così dicesi: avere il diavolo adosso Passav), andare,
correre adosso ad alcuno. – «Gli corsono adosso con le pietre. » Ca
Valca. 934 – Parla di soverchi ornamenti delle femmine. 935 – Stare
adosso, in generale significa insistere, importunare. E a ri ci co
(E a n ci i re) Un pajo di esempi, che ti anni niscano del valore ed uso
legittimo di questa voce. « Mi rallegro che abbiate ricuperato il bando
di casa vostra.» (decreto, pubblicità, ecc.). Caro« E per bando il popolo
ammoni, non queste esequie come l'altre del « divino Giulio scompigliassero ».
l)av.« fece ordinare bando la testa sopra chi fosse trovato reo di tanta bar «
bara (l'Uldeltà.» I3art.« v'avea colà strettissimo divieto e bando la testa o
la prigione in vita, a a....» Bart.« Diede bando di male amministrata
repubblica a....» DaV. (940 i liò i S 1: a li i vºli lº s...... II. l. 1 la lo
bandire per coià ir, lo, e al passato i tiri l o il si.... » B irl i: e-
si io ev, e l.llis i in itine del fra tello la bardi, e l l i. E 'lo, li
- a, noi lo handiamo a ti: l ':17 Bandire la croca adesso ad uno v
addS80. Note alla voce Bando () () I )al band, gli che che
sia al cicli uo, è condannarlo per giu dizio, caccia l da un lu go e porlo a
morte se vi ritorna. Testa (capo) I sei i modi anche oggi con il
missili:i e \ lgari ed accenno ai me ll, lsali (lal V. lgo Far capo ad
uno:) I lil I e i i ti to o: io » – Far capo in un luogo ai da quivi, º l'in
visi, fa: mia ss 1 – Mctter capo di un ſi li le: 1) Inn l a t: o ti li(illi
lava i tl, la la il li, e I ll (ill:belli la faceva capo a lui. » Giov. V lll.I
fr: ti.... v. lllero a l'i: l e, suggellº). dºtti, e fecer capo agli anziani
del popolo., (i. Vi!!.Così fa cia il l dl e della famiglia, distingua le sue
cose, e tengale a i l II odo che a lui sclo faccia n capo, ed a lui i sien,
ovdi l'ate....» l?andolfini, E l d -omi che quando il Sig 1 e era l, ella
città, continuamente si a torºla in allergo il più delle volte a lima ig e qu'
a era grande all'e « grezza e consolazione a tutti i suoi divoti, ch. vi
facevano capo.» Cavalca. « E i... Firenze facevano e ai le dette fontane ad uno
grande palagio, a che si cimiamava Termine, Caput aquae. » G. V.« Quelli, che
per con rada non usata camminano, qualora essi a parte « venuti dove parimenti
molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da « mettersi, stanno sul piè dui
bit si, e sospesi.» B(Imbo. « Per lo fiulrle del Nilo, e li fa i c' a l)
I lili i: l in Egil [o, e mette capo « nel nostro mare. » (i. Vill. Fare
di suo capo º 1 a slo, - sulo mi do. - - Dir.... far.... di miº, tuo, suo capo
il 1 l il V, Iz« NCE, sapendo far d suo capo. In Illini i sa del mio, il lo.,
A.le. « Ma questa cosa I)inni li li on li fece di suo capo, IIIa i- I is - e,
i.i: la zi « al suo padre, e il suo p li dlel l i l: nza. » V it. Plth.«
Affel'Int) non di mio capo, III.) di s.it: te de lla ll rati « ma d'alculli (le
Teologi, li la vostra le lezza è lº l'aria delle cose celesti. »
Riel'el)Z. Farsi da capo. « Qui si dimostra che il ift: - si e' qua
« di riconfessarsi da capo. « Me-sala, qui si da capo rifai! csi, disse: "
I)av. l la ci sonº e lenti a Tirare a capo – Venire a capo
ondulr a fi; e, v ir, illa e il si le.. « Tiriamo crmai a capo Gueata tela, o
lº« Se io ve le vo! re, io non ne verrei a capo in parecchi « Iniglia.»
I3o e'. « Volendo e pil fla III It, i no - e e, o ve le, sa o di troppº
fatica, « e nº !) st 11 venire a capo. F: (iio: l: li. « Iº gli 11 Il si
verrebbe a capo il 1 le tl1te le co. (..» La l). Ccrrer per lo capo a
llar pe: la fa ta sia Entrar nel capo il lilaginarsi, darsi ad intendere, sli,
la rsi a credere,. E qll si o libi o Ini corsero mille altre o per lo
capo. Amle[.. a (i li entrò nel capo, !, V: seve, lie - -; il V t's - o - I lie
a famente vivere nella lod povertà o I3o. Farci il capo - fare tanto di
capo V. Verli, Fare (ip. I pala l'. I – Venire in Capo arra (!. re, sll len e,
illt (ve: i re.“ Sicchè lene Inostrò e trovò vi o illel elle V | olio li aveva
s pitt, a cioè che in b ºve l'ira di Dio gli verrebbe in capo., Cav: a. «
Mi lide ) d. l''i vos: a In te, e farò li ffe e sche, n. di voi, qui nn
lo a quello che ell: V. I vi verrà in capo. » l' issava il 1.A capo erto,
a capo chino – Andar a capo chino, ecc. ecc. Si usa tanto letteralmente
che metaforicamente, cioè a indicare dipinta mente la franchezza, la baldanza o
la umiliazione di alcuno. Ricordo da ultimo alcuni del ti proverbiali: Cosa
fatta capo ha (Dante l loc. G. Vill.), Scambiare il capo pel rivagno, pigliare
una cosa per un altra, Mangiare col capo nel sacco vivere senza darsi pensiero,
o briga di cosa, alcuna). Note alla voce Testa 941 – Di sua testa
non pare il medesimo. Significa: giusta il suo proprio intendimento, senza
altrui aiuto o consiglio.« Diedegli certe scritture di sua testa compilate ».
M. Vill. « Io non ardirei rispondere di mia testa a sì grave quistio (ne ».
Dav.Non è da credere che scrivesse questo particolare di sua a testa o
Fierenz. A proposito di Ics'a lon sala inutile far osservare alcuni usi
di que sta voce al cui luogo non ſarebbe capo. Sta a per persona: « Si levò una
tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la galea) percosse, nè ne
scampò lesta ». Iº c.; b per l'estremità della lunghezza di qua lunque si
voglia cosa, con le: l'esta del ponte, della camera, della tavola, della tela e
simili: (Egli ha allo in lesla d'una sua gran pergola....» Caro; e per
intelletto ingegno: o l'ira u no al suo tempo ripulato astuto e di buona testa.
M. Vill. di buon capo farebbe ridere). Dicesi finalmente: senza testa non
senza capo: Gridare a testa (ad alta voce); Gridare in testa altrui garrirlo:
fan e all' ui un gran rumore in testa (Doce); far lesla (fermarsi, resistere,
difendersi); tener testa, rifar testa ». G. Vill. (v. I3attaglia,
Prontuario). Cornto Sono noti e dell'uso i modi: Conto aperto (od
acceso), conto spento, conto corrente, conto a parte, a buon conto, aver a
conto una cosa, ricevere a conto, lar i conti con alcuno, la r conto di che che
sia (farne stima, averlo in pregio, farne assegnamento, far capitale),
domandarconto di una cosa, render conto, dar conto d'alcuna cosa (darne avviso,
notizia, e anche render ragione dell'operato, arere in buon conto (in buon
concetto), avere chi che sia o che che sia in conto di....., tener conto di
checchessia, per averne cui i: « Non gli restarono altri ninnici che i suoi
figliuoli ecc. da tenerne conto Sogli. Si r., ed anche per orenderne memoria,
in Letraclit zieh en, il V e il considerazione: « senza tenere altrimenti conto
della sua obbliga la fede. (iiallo. ecc. ecc. Di molti altri usi di
questa voce niente volgari o meno comuni oggidì piaceni menzionare i seguenti:
Persona, uomo di conto ioè di stima, di 1 pillazione. « davagli in commende i
conveni a uomini di conto. » Dav. « In verità che io non sapeva di essere un
personaggio di tal contu, « che potessi turbare i sonni e stancar l'1 pelllia
di un ministro.» Giul). Far conto che.... ), pensatsi, in Imagina si, sal
ersi, supporsi, darauf gefasst sein).« Si addestrino a vincere il demonio in
altrui trionfandolo in loro stessi, « e faccian conto che i pericoli passati
son minori di quelli che sopravver « rannO.» Bari.« Facciam conto, che in campo
alla pastura Un oro, sia costui, o un a cavallo.» Malrn.« I)unque dovrò si
armene tutto l'inverno tra questi geli, e durare sì « lunga fatica?.... Fa tuo
conto. » (iozzi.« Le sar i rillo a dll nelll.', ripiglia via i ragazzi, i
lidele? Fa tuo conto di a ceva il padre, le sono appunto candele.,
(iozzi. Metter conto, tornar conto es - or utio, tornar bene, zutreffen).
« A Gel'Irla Ilico mise conto voltare.» I): I V. « Non perchè alla repubblica
mettesse conto patire mali cittadini.» Dav. « In ragioli di Stato, il conto lo
l iornar IIIa i -, li ti si fa con un solo »I)a V. Levare i conti.
º nel cominciare a levare i conti che avea con Dio, cavò un lento sc « spiro.»
Bart.Fortuna liscio gli esempi nei quali questa voce è adoperata a significare
ora condizione, stato, essere a Ahi quanto è misera la fortuna delle dollll....
lº.. col l'a tt con intento indeterminato, caso, avventura e lasciaio ai re a
beneficio i fortuna ». Fierenz.), e quando ven tu rot, ct r r nini e il I,
buono ed è talora anche l'opposto cioè disgrazia, av rom in n le calli ro ecc.
e le n lo [ili alcuni di un uso men comune, ci è il sig li tre pi elle, lui
asco di noti e, mare l'ortunoso e simili. Si crt ti ma i ve: lt, A sì
forte, e in petuoso, che - 1: Vili.l'ill st, s, il 1 l e gran fortuna di
pioggia gli sorprese.» (i. Viil.a \ Ife, in lio, io l a cos. Il l tempestosa
fortuna esser na º |:) » l. e Ond ei pi, e ne rive in fortuna, l): nte. I.:
fcrtuna - i lob pople:ì. » B art. li ria: e ci I l lo rempe fortuna, si or endi
colpi la batte (na V ('..... I 3: l ' 1.e li i- e l' In ill, sl -, mi ata la
nipes: elle qualtro di e quattro molli corsero perdutº a fortuna, senz' ' 'o
miglior governo che....» Bart. N: \ e li coi reva a fortuna il t:: il e o
IBari, 950) \ ndo si seni fortuneggiando con avvenimenti or prosperi or a V V e
'si. I 3a 1 t.I questo li lo si elli, la va a il 1 l iltà fortuneggiando.» G.
Vil. I bella, li in azione lei - i to Iri Il re, quando più fortuneggia, per «
alleggi: l' a la rca. » (oll. l'al'. Note alla voce Fortuna
!),() N Iala questa frase: correre a Fortuna correre perduto a for i una, l he
la sc itelle lo i rineggiare che ha un uso e si niſi il lassi e giale, ci è ali
birrasca, avventurarsi agli accidenti forlilli si del mare e li i lamente,
essere tra civili empeste.Faccia (Fronte) Adduco esempi di faccia o
fronte in senso analogo ai derivati slac Ciato e sfrontato. I.i soli
chiarissimili ed il e lell'uso. « Pure di dal e il ci II la l1 lilli e li
S.,... ll, l el taccia. « Con qual faccia, s a ci: il I II, - l. Il lidi
e « la fede?» (il lido (iiudl ('. « Adunque con (.. I faccia « add
Llcile? ». (iil I l. a Ol' e il 1 - le fronte il il 1: ' ', i -........
« Poi che l'uoli o si º le vi! ll 1 o, fa callo º iro iile, i - - - a ratamente
a ogni In. » (IV al a 95 « Hai | ll ll lla fronte cosi incallita, i lle
', il l i « di doverti call Il bial'e il el Vis? S, - il. .... l «
Con faccia tosta - e 17 i pi Va: ll 11, Il). 9, è « In prima si coniII e II in
o Ill o. I l tanto che i « manifeslainen e li faccia, e li ri.. « Quel
che tu in, l): a l ha fa coia, (i, li i ll v o Lasca. Rilne. 9) i. « UOII10
Senza faccia - Il v.i.Vede e 'a lliere: i iacul, e « rere Iſlale., Fl'. (1 o
l'il. « Don Roi Igo 11, l avrà faccia l: Note alla voce Faccia
Fronte 951 – Cioè diventa sfortunato, si ucciulo.... l on li ha poi mol
[i al li Ilsi e lo; i s'eri le sco perla, cioè aver bilona fali i tºni i l I (n
le; Mostrare la fronte (slare al posto la r II on le pp rsi: a prima onl,
ecc. 952 – Un ragazzo ha faccia tosta, lº li ha ſron le incalli
lat. 953 – Far faccia vale prender il II e, a lei il pil i Far crlr facce
di olio in Toscana per la ri. ligure, e poi, i a dover dire o far cose. Il li
li llo ci livelli rili il l ' il. 954 – ci è chi noli la senso di ver:
liti e di 1 ss ('. 955 – non si ardirà a far....... 16Fatica
(Faticare) Ricordo i modi poc'anzi addoti: senza una fatica al mondo,
alle mag gio) i folliche del mondo, di tr fatica, prender latica intorno ad una
cosa, a la lira il V V el l con ſali, i pºli, a gre, ai) alicarsi una cosa
(cioè alla lira si per i lilisla la ed i gi o alcuni esempi di un altro uso men
nol e mieille comune agli sci Il ri di oggi di cioè della voce fatica il
sigilili lo li li a raglio, per il latino sostenuto o lato, e dell'analogo la
licati e il no, una cosa, ciò è l raglia, lo, allige) lo tempestarlo alal, V e
voll e, i l ligar. E I: la turiſti e !). ll la ed ass: i n, e in riini
della persona, per la fatica il Irla l
pa evano le sue fattezze bel e is si lite, l ',,,,, - (il'er le. In le, i ai
altro pensare che di lui, e ogni altra cosi le v 1 - a eva grandissima fatica e
per dil 1 lite si l V a oli, il 1 l quali, essendo cia si -, i faticarono la
nave, dove la donna era, e' marinariLa loro si el e, e faticatº o ezia radio
gli ali inni de savi. » Amm. Ant. l ' Illal (iiii, e ora il mare, ora la terra,
cra il cielo di paura fatica Ill lo II e il I l fatigat.» S. Agost. C.
l). PRT atto Mi acio, i nodi dell'iso, che li li è fallo mio: si
fallo (di tal fatta di tal maniera: li fallo e Te! ivan n[ 9:50): in fallo, in
fatti: fatto sta che.....: in sul fallo in orielli-: iallo l'arme: uomo Vallo,
cavallo jallo, il lilla, biale. o si lili, latte e 9 l. e piacenti porre alcuni
esempi di un riso assai ſi ſui lil e il loro i cl siri e non comunemenie
osservato oggidi. (ilar la II Il nle iel, l a che va a mente, si adoperi que
sta voce alto il significa e il negozio, faccenda, affare, interesse, e ora
torerno della p rs not n 1 micr, ii, ' i cliessia e Nolerai le frasi: dire
ſare, esse e checchessia di lall prici, le falli suoi (cioè di me, di lui ecc):
andatr pei falli sui ri; a 1 e i lalli su i non potrer suo fallo (non mo strar
che si faccia a posſa essere fatto mio, fallo suo (cosa che appartie ne a
me....: disporre ordinati e i lorº li suoi: entra e nei fatti altrui ecc.
Masopratutto porrai mente al vario uso del nodo gran fatto: non essere gran
fatto che....; parere gran fallo che...... essere clicchessia o chec chessia un
gran fatto ecc. « Noi abbiamo de' fatti suoi pessimo parli o alle milani.
» Borr. « Ed in questa guisa Bruno e Dil falli la II o, « traevano de'
fatti di Calandrino il III - « E se non era il g... l in 1:1 lit, il 1 l
i de' fatti - Il l III !! a dire.» Berni. « Mossi a col il pass oli del
fatto suo.... l « Come se egli - lo so, o de' fatti ric stri - I ' ': l.
i l - li i ll it, l.E mangiato, e bevuto, s'and: i pe' fatti loro,
B « Egli sarebbe necessario che ti l. Ia la ss da il: cosa, e l: sto s « è, che
se nessuno ſi domanda ss e di cosa, l..., o la r. - del fatto iuo..., a
che tu per niente non rispoli il -si -
l: i si v; st: (ii « non li vede l'e (11, Il li Ildil e. ll tº 1 -
in 1 l 'i a ir pel « fatto ſuo. » Fiert':1z. « Non lili da r no], e, a pe fati
i tuoi. VI 'In. « Chi fa i fatti suoi non si ill, i ti:I l 11, l s. «
Perseguitava una val Int. a quia li i - « giungerli, on.le la line - li
illa non ve li: l rime tii a fatti suoi, l a - a comandò ad illlo scarafaggi l..
Flei ei 12. « Senza che paresse lor fatto, li colli, i cono a lorº, i
lit: qi, lu - « qll Csto Sllo Illari) o. » Fiere:la. « Se ne sta ritorna,
che non par suo fatto. Vi rili. « Dice le cose, che non par suo fatto. I3
i « Renzo al suo posto, senza che paresse suso fatto la il clo « Inessun
altro.» Manzolli. « Il padre si lamenta del ſigilli lo, e si rie e di pin
egli il a fatto suo., Cavalca.« Un solo anno stette e visse in questa º o,
linellza ed avendo tutti i « suoi fatti di votamente disposti, con grande part
se ne andò i (iesi (ri « sto.» Cavalca.« Ed (rrdilla () in Egitto (ng li suo
fatto, - i: il l... » I3.. « ID'ulna in altra parol. I entrammo ne' fatti dell':«....
e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani adosso, per i « ch'egli ti
darebbe il mal di ed avresti guasti i fatti miei. Bo, c.« Troppo ci è da lungi
a fatti miei, ma se più presso ci fosse, bon tia dico che io vi verrei una
volta con esso teco pur per vedere a fare il tomo a quei linac lei ogni e lo limºne
una satolla o, Bocc. « Non sarà gran fatto ch'egli getti qualche bottone,
col qual io discopra il suo pens. ro.» Flei e la.- - - - - e 11: -: la gran
fatto. ll al ti: o ce le cincischi.» Da Van. e le per esse -il), A di I'll imo,
non sarà forse gran fatto li a l loba l l ulmanità.» Segn..... pe. indos I di
-s non è gran fatto, che per livore o innato vi doig: vedere in alti io, li
noli e conceduto acquistare a voi. Segn.« Pare a voi di tre gran fatie, l: i
Cielo a voi debba costare qualche leggie di s. l ' It, i lil II l S.
In cli I), o vi debba º si º gran fatto oll i- ato, per un ossequio che
piu proi, il merile poi il re - l ni:il lil:i. Se n.e 11 il bis – il l gran ta!
to: Vi l e a, per lº....» Bart. « Nè avi il gran fatto: ' ', p s a h si rai slm
litato dal pic a col le li,, l ': l /Ed il la 1/ gran fatto in là, ella arrivò
ad una a certa ri; l:1. o lº. I fior enti i: il: i a fiorini d'oro,
senza a quelli li vi ii fit is ºn grati fa 11 o.» (i. V ill.(gras, a to - I l
ini l e.» I3o. E I. e illliamolata di me cli, ti pal ei gran tetto, lº il l: i
1.1. I vig, l.()il -, vi i: 1 -... sse, e cado: le gran tolli, i loro i
no, mºltº gra.: 1a!! 3. (A, i tl ad. grandi e sanliº. Note alla voce
Fatto !)(,() si,s, li oi i pi si nºi il cli: li presente, sui biſamente,
in mantinente si rii di 1, il calde nori o nella piana el' i l. l'Iron,
pi si..... e di fatto, e senza alcun soggiorno tutti fu I no il pic i fi.
Mi Vili. - (i \nche allo per cosa falla. I rili, in pposizione a dello, è
s illli bocc. di I lilli. - Che mille volte al ſal'o il lir vien meno. Dalle. «
I fatti son maschi e le li role so' felimininº o ProV. ital.N/l a n co E'
Voce Ilsalissimi, si, i 11. I pelle molle Il lamiere, gran parte volgi il s -
che ad al lI'e lillgue 961, si go, il 1 - I l guidi, quelle tavia sulla lingua
del p '. (il 1. leggiadria od eccellenza di senſi nellº si i... a no, la tale
solo per certa analogia ila mano, avuto cioè riguardo ai vari lilli i ti che
iene la mano, a quello che li, al per: per a signi cioè che Ilon V elig l
srli. I -, - i.. l'l'ono ll ( ficare potere, forza azione au il pri, tra i là
di o l'uori lilli, soc corso, aiulo, banda, lutto ecc. « Acciocche a mano
di si', il ri non vertisse. I3o ('. « Venendo a mano il it - - il II, le
V elite e l'i « Stiano.» Vit. SS. I': l. « Molti dei quali lug - I l a
mano de' nemici « uſ. Inini II lontani pervennero. «I terno forte di II
lilli i r... i t. 1, i ir: imam l lilllico. » l?et l'. « La republic tilt
i, in mano. Dav. « La saliti del V sl l fi I l l i nº lla ntitº i l l3 ('.
« E quale le an a -, i la mano a prestalica, io l'auto « rità dei prelati della
sim mila (li a. il 1 l: Ali - oli?» PasSV. « Fare i voti in mano di....,
l 3:1 i t. Cºs « Manda il la lizi una marmo l.. « I entulli, Vlt
telli, l.li ra: no ci º randi. I: l.. « far guardare a mano di soldati.
I « rifiorir la calunnia coi li la mano ri: di doppiezza. » Giub. «
Carlo con potente mano v V on gi al quantità di gente a rinata. « nè
Inolo poi con piccola mano di armati V, il 1, a S. Iplone.... a lºoce.
(Lett.) « Sopra i detti fili si da lol: ill. it e s'ilm « ponga
grossa i lile l'a lt 1:: e io i Irella mano « di terra, che s'è la [a di
sotto. 13 Inv. (e'!. () i « Andando egli per di la, molta mano l'Il III liri de
la ri; in Iglia l'incon « trarono.» Benibo. « ma.... fu loro adosso
subitnmento una mano di ribaldi....» l?art.di lini.... l) o lo veggia, e porgami
la sua rºmano, - 1, li, i - ca. » V il SS. IPad. I is: i o, che tenevano
mano al fatto, t e del mondo.» Bocc. 965) \ qi te li-, e tenienc mano molti
baroni del Regno.» G. Vill. !. (ii i e Isolmi e le Gesù mise mano & i
serrano ine li piu se e, più per ſette che mai avesse I t. l. ti l a,
fere cenno ch'esse (le pie i ! !, l i º S rimise mano e disse que le parole che
- il pi su ro, e colli e gli entrò l. Ili, soggiunse e di Sese). VI:
messo matto in Alberto da Siena seguirò di dire di lui ll o lº I l ott...
m Se ntano in altre novelle., Bocc. 966). i:ili º di.oli perdere lo stato suo,
mise mano, l s... Il miº l 'ils li a l e E da', e, Vit. S. Giov. Batta. I
ss; Il li i lill I, il I.. ll mi venne a mano, l'infrascritta cosa.» Vit. SS I.(olis
derare oltre. ll he primi i gli venisse a mano.» Bocc. (967) li li avendo il
pri' il o la ello a mano lavorava con guinzagli di I l (-: i ri.() la d [.li mi
viene ai le mani al lli i giovanetta, che mi piaccia...» Bocc. I li pervenuta
gli fosse. I 3, > cade per mano, la gio ma no di cambi.» I3occ. lt 'e llla
l' e il I dil e che li cation [ra mano.» Ces. rss e il dover lol dire,
con lo costoſi alle mani Era il pi vo! Il no del mondo, e le più nuove
novelle avea per le mani, o lº e'.l'o-se va le e lo ill, e pretºre dei sogni i
qua l abbiamo fra le mani.» l', - li ttiallo). Se \ (i, e li gli ha fra mano ».
l) il tam. \ Inzi mi prego il cast lo l l se io m'avessi a cuno alle mani, e i
la S. » l'8 eNoi abbiamo die ia | i sit i | -sino l'irtito alle mani.» Bocc. (:
e quelli, che lo li pi Ili, d minare hanno alle mani.» Galat. S. ll p il
sier in o o d'i: lur e o amichevolmente o levargli la mano, a e li, lo ſi l e,
i sºli, Ina grado. » Nell. I. A. Com. (968)C 'i ll nini innamorati bisogna lar
come coi polledri: con essi ci v(( la briglia, frusta e fil d'erba; o: i rile,
i li, o a casfig rli, a lusingarli; « altrimenti, se ci piglian la
rinano la si o ti noi quel che ben ioro torna.» Nelli. I. A. COnl. (( ((
(( (t « Non so...., nè a quale di i i il 1 l si ri le! V il gelo I.lligi
dovesse ceder la mano. » (es. « Boezio pruova, che l'll in pole, il
II ci ha peggio, che l'uomo di bassa mano. » (il V: il l.« Se tll II letti ll !
!: i lil:) il il l il bassa mano l. I (', o lì (vl) è mai per roba, che ella vi
p. i, t: a Ilio., (io l. Spor. « Anzi prova il va il V 'o sſ 1: laici e colle
persone di bassa mano. Ci s.« Non sieno di vite i ro? (d alta, Ina -
Ierio di vi... i mezza rilano. l' « Ull chiassº lillo assai fuor di mano.
l t. « Torrestela voi fuor di mano i ve lo i si V elido; lo più vili. »
Pandorlf. « Luogo molto solingo e fuor di mano. I3) c. « E quello con lui
fa la ciurma ebbero a man salva. 13o c. sicuramente,
impuneInel1te). (( (t (I « Senza che al lillo, Iri: i i, ga e
1 di Col - sari sopravvenne, la Ilta e tu ti a man salva - I pl - e el andò
via.» l?oce. « E perchè tante diligenze? 11 i poteri e gli averlo a man
salva ovunque volesse?.» Segn. parla del fratricidio di Cal no. « Vedendo
il caso Ill ! I limiti e li -. V - il era vinta della mano Nerone era spacciat.
» I)av.« Tutti studiava lisi di Ig Il: i rl I se non vincerli della mano. »
Cesari. « e il buon Gesù Maestro utili per il pa le, e ilppelo, e così
bene disse tulle le tavole, e lo ile dall'una mano e dall'altra a coloro che
gli erano più presso. » (.. V: il 1. 9ti!) « Va', gli disse dalla mano
dritta d ' s dica, ed egii andò dalla mano sinistra. Iº, re « Così
tornava per 'o cerchio t. 4 r. Da ogni mano, all'apposito punto.» Dante
Inf. 7, 32 970) « Così duo spirti, l'uno all'allro chili, «
Ragionava ll di Intº ivi a man dritta « Poi fer li visi, per dirmi,
supini.» Dante. l'urg. 14.'(o)upds popuSIs Inb) ooogI v'o.IlIO Qpunu II “lumi
ollop paol pp “u Au ICICIe II º oul o uutlop tº | I nuovi ed estro el l -
Il -IV » - 'lue AoN « ossip o:ppp) Non ſi pl), li our il pl), l' op.elp
outdooo!!) Iosso l\ » sslo I sl. Il l is o ollo llo, li eICI o zUIo, Iolel «
OI.).otº. I | ottili Il 1 ls 5 -opupuotu o “ollo)lo. o) n. il film l u n
t al I ti Ip (in on ott oss, il o »: IIus o otodlam oliil Ip le oumi in l 'oupu
Inl. -0p3 uol.IIUISIS plssol.o.ool. III our li lp i pp o II. In po 'pso.o) on
li tod o p oumul lo), ti: opoit | o olistino ti il litis oi ri: - red o o
Tupou Ituo) e olltils o u? o una o lo)). Il 2n ils.... N (pupoIV) optio.
Il sip I n. p oso.Iotti: o s -oI) Ip Isopu ellu.Il 'tele i cd in 51 | tell, il
lil III o II l ' op opulooos II oz.Io un Ip Ipniri, il ti mid o Iod: II o II:
il onpoque ouuoi luis oumu lp tou, l oum il trito.I lollflot ſpum il:
uoſol) l) lt 1) II l lº fu i pup II t, l. 1, l ' ul, N li pill) I -.0 l 'll 30
l) il pul) lt.)() () 'l l: il 2 l. N S I. W N il p pli) II cºl l ’s ..o):
I.).o: ls o “al IpUIoA Ip o Ille.it | | | | | | te, Ip o netto e l our, il tool,
pi). IOI QuoopUIo,oos Isso od li elil I un ul. l I, pp.I: ) « oupul pl oood un
lap. tifi oil o sotto ll op. pddos uoi o! Io e,op is, l lo -ſim:(usu ) «
oum il plm lui o il ulson lì Ip o] Iod o [op e ti º lo utI UIou ott.Ia:S
Ip oso - It?, Ilo) dolo) olim il mo) molti i pl. ): l o il lo ſi un lp: i -lad
pl app:(Utlopl) oum lti li lui il 'lo. I pps: s i lo) -ulo plm luput ollo. Il N:ol
n. ll o in lui lo pu Inl si.lol::: - -souloootlo otIIIss.Io.A.Iod o letti i l
o, on i lou, il miti il: msoo mun oumu to. I p.), o), mi: ps spel up it I pi:
oss. I lupu ol o toam:o)pſi.o) ll put, l.. ):p) spel il lunni, l -IIu.IoqII o
Insn pſ up) o umi p), p: s e -ed IuI I] Iolod lp output pluti il 1 ol ss (I
-od) oumtl ul.lo, m: In Ir) our li mi i nomi o l oil..I l 5, so uotp o[.Inq
UIoN ) Tn1) o un mit ti, i no 1 o s - Ied II5o au » – ollu. I Il o v. Id e il
pil un omone: i -oq IIosnI.I n el IIIquº plssolo.,ol.) un omi piu pitono i p i
ns o ai -nole uzUIos) olon lupul p: olio: rºns e o os “Il p. I ºIIe aolo)
oum.olm,p ou put il o al piu. l) o is i a i ) I ll,, 1 ) N N, i:
ls, - TeInzza) ' uo) lupu opm o.lu,,, losso: ss s IlTOUI e ouput ul oumu
lp o Ioi o is I, opIV -- o, epi in pu Intro3 o otto Inpulition i volti, oros Ip
II o un p on pu p. “mIIadno nun III olio novo Iorio ſi o IIIod s our in un ou
put np “oumtl p on pnti p: Io I Il tº - il vi:.) e p), il -issmu.out o
Issoptions o I, Ill.) o 5 - -1)ll,9lll:(o)uo III el.oIII).In n our li in e ss «
ouml5 ml o unl ſi u mu.l IV fi, l ' li' in :(IoI, I « IoIIIn IIfop oi 15 º
oliº olpoul “olzIpn15 solo emb lp e los I, -on T ): opcIt II e a 1. o un triplº:
It: [.Ied ſoup oi lotte o lesn po o li li so I I I s | | | | Oue
IAI eooA e le emoN !): ſi - (i I:)(i967 – Questo venire
a mano o alle mani significa capitare, occor rerº, scontrarsi, non renire in
potere come negli esempi del primo gruppo. 968 – Lerare la mano ad alcuno
significa sottrarsi all'obbedienza, usurparne l'autorità, comandare in sua
vece. (Gherardini). In senso analogo dicesi pigliar la mano, cioè non curar più
il fl'eno, ed anche guadagna la mano. 969 – Nola singolare costruzione, l
970 - Ci è tanto da destra che da sinistra. Dicesi anche (v. ap l'ºssº e
con egual sigili caſo, ad ogni mano, a mano de Sl r(t, a mano sinistra. N
etto E' un agge livº e significa pulito, se ilza macchia o lordura ed
anche buono, senza risio o magagna, leale, schietto. E però dicesi: coscenza
nella. « () dignitosa coscienza, e nella Colle l'è picciol fallo amaro Inol'so!
» I alle º I l'allava con nella coscienza ogni negoziuccio ». Fr. Giord.; di
mºlta rila a liv. M.: animo nello, ed intero ». M. V. ecc. Ma si usa altresì a
modo di avverbio, e talora anche sostantivamente. Si notino tra l'altro, le
forme seguenti: Averla netta, andarne netto, passarla metta. « Non ebbono
netta del tutto l'avventurosa vi torla.» M. Vil. « Niuno ne andò così netto che
non piangesse qualcuno.» Dav. Uscirne netto opp. uscirne al pullo, in do
toscano – Farla netta 980) « Io mi credeva d'averla fatta netta di que la vesſa,
e aveva la se... » Fiel'enz. Coglierla netta. « Io non vo' che la
colghino così netta », Ambr. Giuocar netto (cioè con lealta, senza frode, ed
anche andar call'o, e simili) – Mettere in netto 981, --- Tagliar di netto,
portar, gittar, saltar, far chec chessia di netto i cioè con precisi rie,
interamente affatto, in un tratto), « E con -sa sospintolsi d'addosso, di netto
col capo innanzi il gettò ». Bocc.« E rimessa la briglia al suo giannetto, Come
un pardo, saltovvi su di « netto ». Malm.« Senza certa violenza pare non si
possano recidere di netto certe grandi | « quistioni ». Tomm. Il netto di
una cosa il chiaro, il fatto preciso). Note alla voce Netto 980 –
Significa in generale fare un male con garbo senza farsi scor gere. l)icesi anche
larla pulita, farle pulite. 981 – Meglio il modo lo scano: mettere al
pulito. Fetto L'uso della voce petto nel traslato non è oggidì sì
noto e comune che non sia profittevole proporne lo studio con alcuni esempi. E'
dizione eletta e si adopera a denotare l'interno dell'animo, la regione del
cuore, la stanza degli affetti e dei l ensieri, ed anche l'intero uomo, la sua
persona, la sua corporatura quasi fortezza e baluardo del suo essere. «
Camminando adunque l'abate al quale nulove cose si volgean per lo « petto del veduto
Alessandro ». I3o.« Non altrimenti che un giovanetto, quelle nel maturo petto
ricevo te ». 20 cc.« ()nde dì e notte si rinversa Il gran desio, per isfogare l
petto, Che for a Ina tien del variato aspetto ». lPetr.« Era con sì fatto
spavento questa tribulazione entrata ne' petti degli « uomini, e delle donne,
che l'un fratello l'altro abbandonava ». Bocc. «....benchè tu non se' savio nè
fosti da quell'ora in quà, che tu ti la « Sciasti nel petto entrare il maligno
spirito della gelosia ». Bocc. « Ogni indugio, ogni vità disgombri il vostro
petto ». Fier. « E troppo mi dispiacciono alcuni mari'i, che si consigliano
colle mo « gli, nè sanno serbarsi nel petto alcun secreto ». Pandolf.« Ma pria
vorrei, che mettessi ad effetto Quella impresa per me, che, « come sai, Per
comandarti In'ho serbata in petto ». Bern. Orl. (985) « Se le prime
novelle li petti delle vaghe donne avean contristati, questa « ultima di Dioneo
le fece le tarili o ridere.... che » Boce, « Le miserie degli infelici
anni) l'i raccontate non che a Voi, donne, Ina « a me hanno già contristati gli
occhi e 'i petto ». Bocc. « Agli occhi miei ricominciò diletlo Tosto ch'i
uscii fuor dell'aura morta Che In'avea contristati gli occhi e 'l petto
». I)ante (986). ma i loro petti empire di far là da poter disputare del
bene... ». Da V. « Come innesterebbe principi di legge in petti che.....? »
Bart. «... e luogo prestarvi da potere la sapienza dei vostri petti, e la
dottrina « e l'eloquenza diffondere ». D: V. « Arnol di I) io, che avvampagli
dentro al petto ». Seg Il. Avvampare il petto d'indignazi (rnº ». Seg Il. «
Ammollire gl'iniqui petti ». Barl. « E voi Cristian I ll, Il avete petto (la la
re un'egual protesta in 'Ocſe all « cora più scellerate, piu sozze, piu abbori
inevoli? » Segn. º...... allora sì che Dio non potè contenere l'ira nel
petto.... ». Ces. « Ma son del cerchio, ove son gli occhi casti Di Marzia
tua, che n Vista ancor ti prega, O santo petto, che per tua la tegni ».
I)ante. Si notino da ultimo lo seguenti li laniere, Stare a petto. «
Stettono arringati l'una schiera a petto all'altra buona pezza ». G. Vill. «
facilissimo a risentirsi di ogni emulo, che pretenda di stargli a petto ».
Segn.« scusandosi col dire che non aveva gente di stargli a petto ».
GiaInb. Pigliare a petto checchessia (cioè impegnarsi in checchessia con
prelnura) – Mettere a petto confron a re A petto dirimpetto, a paragone, a com
parazione di). « ed avevanvi fatto a petto il Castello del Montale ». G. Vill.
« Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino, a « petto a
costui o. Boec. « Nè..... ma Volse a petto a lui se Inlorare un oro ». l)a V. «
Ma tutte l'allegrezze furono nulla a petto a quando vide la fanciulla » Bocc.«
Tutte le pene di questo mondo sono niente a petto che loro (i demoni) a vedere
». Vit. S. Girol. trad. a petto a questa cosa: vedere i demoni).Note alla voce
Petto 985 – Il tedesco nel parlar famigliare adopera anch'esso la nostra
voce petto e dice: Ich habe in petto ect. per esprimere anch'e gli che si serve
in pello o in animo di far checchessia. 986 – Nola eglalissima dizione di
I)anle e I3occaccio: Contristare gli occhi e 'l petto. Fartito
(sost) Il significato dell'uso, secondo il quale cioè ques'a voce è sulla
boc ca di tutti, è quello di palle, frazione ed anche di occasione parlandosi
di matrimonio o cosa simile. Ma è il sala da buoni scrittori anche diver
samente, a conserlo ci è di altre voci e ad esprimere molte altre idee, e
piacemi di allegarne alcuni esempi non avendole queste forme, secondo pare a
ine, il volgare linguaggio, e al che chi sa di lettere, non essendone per
avventura ben sicuro, leggi e vedrai come alcune volte questa voce partito ha
senso di modo, guisa, el al re di patto condizione, conven sione, accordo,
stato, disposizione d'animo, e lalora denota risoluzione, determinazione, tal
altra termine, pericolo, cimento ecc. ecc. e biasimarongii forte ciò, che
egli voleva fare; e d'altra parte fecero a dire a Giglinozzo Saullo, che a niun
partito attendesse alle parole di Pie o tro, perciocchè sel facesse, ma per
amico, nè per paren e l'avrebbe ». Boce. a Parendogli in ogni altra cosa
si del tutto esser divisato, che esser da « lei riconosciuta a niun partito
credeva. Doce. « Ma il mulo ora da questa parte della via, ed 'a da
quella attraver « sandosi, e lalvolta indietro tornando, per niun partito
passar volea.» Bocc. “.. ma egli a niun partito s'indusse a compiacerne
io ». Bart. (990) « In verita, madol, na, di vol in'incresce, che io vi
veggio a questo partito a perder l'anima ». Boce. 991; a Noi abbiamo da
fatti suoi pessimo partito alle mani ». Bocc. a....chè in verità vi dico
che se ll dio mi mettesse al partito, piuttosto « elegger l la povera Ionica di
Paolo e ' Ineriti suoi, che le porpore del re co' « redini suoi ». Cavalca (cioè
mi desse la facolta di eleggere tra due cose l'uma). « Di S.Gregorio si
legge, che posto al partito per un piccolo suo pec « cato, quale voleva
innanzi, o essere sempre infermo o in avversità, o « stare tre dì in
purgatorio, elesse piuttosto d'ossere sempre infermo ». Ca Valca. « E
così tra l sì, e 'l no vinse il partito, che non gliel darebbe ». Nov. anl. «
Ma a cagi n che di questo li stro partito n li l'Inter venisse scandalo e
alcuno, egli sarebbe liere - il 1 he tu ti guardassi da una cosa, che...» Fie renZ.«
Laonde egli si delllier, il tutto e pi UI | o di pigliarvi su qualche «
partito; ed ebbe: p ir, e con lIn – Imbe, o h el a dottore in legge.» Fierenz.
« Ma dei piu cattivi parti bisogna pigliare il migliore ». Fierenz. « S'avvisò
di voler prima vedere e li tosse, e p i prender partito ». Borr. « E pc:nsando
seco lei in lo, prese per partito di volere quesì a morte ». Bocc.« Prese per
partito di voler e in tempo e -se e appresso ad Alfonso Re « d'Ispagna ». Bocc.
99?« E sentivasi si forte il lo!..e, l'e..a sl Imav i pure lnorile, e non sa
peva la Maddalena che partito pigliarsi ». (..aval a. a Adunque a cosi
fatto partito il folle amore di Rest Ignolie e l'ira della Nilletta, se collº
llls - el'o e il 1 ll 1 ll l n. 13 -. (( « Ora approssima in dosi Impo
cle (i e su lov, a noi in e per la salute Il Ost l'ºl, e....... gli Srl ii) e F
vedeva l'1-1: mal partito, per blè 'll tta la « gente credeva a llli..... (il 1
l. ſt a.... dell'anno li. ll irl I e I e - il li fili l'a ll III
lo.. lle al partito a m'ha recata che | Il lill V li ». l 3 993 º..... ed
essi tutti e tre a Firenze, il veli lo dirilenti, il to a qual partito gli a
avesse lo sconcio spendere altra vi lta recati, non ostante che in famiglia a
tutti venuti fossero piu le mai tralocchevolmente spendevano. » Bocc. «
Per io chè se io veli di al II li volessi, riglli ridando a che partito tll po
a nesti l'anima Inia, la tua loli lili basterebbe ». Bo. Si irolillo da
Illino lº ſi rime: Mettere il partito (904) « Pilato termè, ma pur, vola i dol
liberare, lo ritenne, e fece mettere il par e tito cui eglino volessero
liberare in quella l'asqua, o (i sti o 13:ll'abba ch'era « ladro ».
Cavalca. Andare a partito Mandare a partito Mettere il cervello a
partito. « E poi quel, che per i consiglio si vince - e, andava a partito ai
consiglio « delle capitudini dell'alli maggiori ». G. Vill.« Con codesto tuo
discorso tu II li hai messo il cervello a partito ». Fièrenz. « Coss oro han
messomi il cervello a partito ». Amh. - - -Note alla voce Partito 990 – A
miun partito, per nium pa tito è modo avverbiale di frequen tissimo uso, e vale
in niun modo, per niun verso, a niun pat lo, keinesu egs, un keinem
Preis. 991 – cioè: con questa maniera di agire, su questa ria, a tal
termine, Slºtto, disposizione d'animo, e simili. Parla di una che si con fessa
e non è punto disposta a cessare i peccati. º2 - Nolale queste maniere:
prendere partito, pigliarvi su qualche partito, prendere per partito. Coif.
Verbo Prendere par. 1. Capitolo precedente. Simile quello del proverbio: «Preso
il par tito cessato l'aſalino, Palafſ – a partito preso è forma av Verbiale e
vale analogamello, le maniere sudelte, pensata mente, dele, minalamente. « Per
cogliere i nostri a partito pre No, e a V alllaggio loro o, M. V ill. 993
- Era inferna. 994 – Non mi pare al lutto sino in dell'altro: mettere,
mandare a partito, cioè porre in deliberazione, Fºarte Voglionsi
notare di questa voce i nodi seguenti: Salutare, dire, fare da parte
di..., per parte di.... (995) « Con lieto Vir-o salutatigli, lo ro a loro
disposizione fe” malli Testa, e pre « gogli per parte di tutti che.... »
Bocc. « Signore, io mando a V. M. il signor Amalrile Rucella, perchè le
faccia a reverenza da parte mia ». C sn. « V. S. gli dica da parte mia,
che se non si fa forza, diventerà ipondria e co ». Red. lett. Dalla parte
di.... - - Dalla parte mia, sua... v:ale dal conto mio, dal inio lato. Sono
frasi quasi di modestia, o almeno di riserva. Tom.). a Egli era dalla sua
parte presſo i d V i), ch'ella irli comandasse ». I3', cº.« Perchè noi dalla
parte nostra saremo sempre e pronti e presti». Cas. lett. Lasciar da
parte – Porre da parte « Si pone o si mette da parte per ripor itare, per
serbare, per discernere, Tomm., ed anche per non farne conto, non farne cap ale.
« Ma lasciando questo da parte se io ci elº -si...... » H (-Illb. 996 «
Lasciando l' altre ragioni da parte una - la basti per tutte. Borgh. Tosr. A
questo do.. I nn l r noi, posti da parte tu! l i t. In di 1, st i. Va:
lli. Trar da parte a pmi te – Ghia mar da parte – Star da parte in disp:te
– Tener, fare a parte, Star da parte vale non confondersi con
altri. Tirar a parte è alline a lirar in disparte. Si dirà: tener
conto a parte, far cucina a parte ecc. e non altrimenti. a Tratto Pirro
da parte, quinto seppe il mie li, l'. IIIb:is glata gli fece di l a Slla donna
». Bo, « Chiamate i altre (lo! llle da una par c... »l 3o. « Quello
che già è passato si sta da parte tra le cose sicure ». Varchi. a Tris -
stando i in dispart..... o I Piety'. a Cl teneva il flz, li i parte, I3
r. ll ! Il. Prendere pigliare, terra re in buona, in mala parte ecc. I) e
lui lo:li e 1: lt i tºv - '' i, ve: t 'i nt i presi in mala parte, e non in
buon grado, dl-so un inti, li' gli gli porgeva colla le stri, l'a.tro
colla a sinistra prendeva gli o. Salv. Note alla voce Parte
995 – «Diremo: fategli una visita da parte mia, meglio che a nome mio.»
Tommaseo.906 – E' inaliera simile all'altra: lasciar sta i c. V. Verloo Lasciare
« Lasciar da parte è più scelto di lasciar da banda. Tolim.Storna c co E'
voce usatissima anche nel famigliare linguaggio, e tanto nel pro prio che nel
traslato, cioè per indignazione, commozione e simili. Ricordo alcuni modi
e l'asterà: Dare di stomaco il cibo recello, i militarlo Fare, dire....
con istomaco. « Onde i veri padri con grande stormaco ricorrono al senato ».
I)av. « (..he da Ine si noill Illi, noi con istomaco o. Call. Fare
stomaco, venire a stomaco, avere a stomaco. « I no stile da fare si omaco a
tutti gli animi i livn contornati ». Giuber, 1. « Non si lesse il testamento,
per le al popolo non facesse stonaco l'in a giuria e l'odio dell'aver i là (p -
o al ligliuolo il figliastro ». I) a V. « La sofisteria, e l'incivili a li
quest'uomo è venuta a stomaco alla gente ». Caro.Fare sopra stomaco a male in
cor) – Esser contra stomaco (contra voglia).« Io vi dò questa commissione in al
volentieri perchè so che v'è contra « stomaco, come a me » (in o. n il vi v 1 a
Versl.a Tengan per me e do i miuse, conte di Virgilio, tra quelle sagre om «
bre e fontane, fuori di solle il l cul e e mi sta di far cose tutto di contra
sto « maco, libero da ci rte lla e va ill: e Irla ». I), i Vanz.« Mi lascio
trasporta a questa a Iv: us inza, ancora che gli voglia « Inale e lo faccia
sopra stomaco ». (il NA erso Tutti sanno che ci sa è il re so in
poesia, il verso sciolto ecc., il verso degli uccelli Gli uccelli, su per gli
verdi rami cantandº piacevoli versi, ne davano agli orecchi testimonianza,
l'occ. « E gli augelli incominciar lor rersi.» Pelr.: ed è altresi comune ad
ogni penna l'uso vario sia del la preposizione verso, verso di..... l' 'No ! ).....
che del sostant. verso per banda o palle. « Questa è la cagione che ſa
che gli scrittori d'agricoltura concedono che per un verso le piante si pongono
più presso che per altro.» Vatt, Colt). E così va intesa la forma pure
dell'uso: pigliare una cosa per suo trerso.Verso per riga, linea, l'ha tra
l'altri il Caro. « Scrivetemi solo un rerso clie le V, slle cose valli lelle.
Ma ciò non è tullo. La v e rcrso, ed è quella delle forme qui appres so, si
adopera alcol a a sigllil: l'e: manici di modo, ria modus, ratio). Per
Cgni verso –- Per mium verso - andare per un medesimo, per un altro verso. \
niIn: ' di e tre i ri. 11,1 per cgn, mai verso. Iº lº I. (.: s. Ne pilò per
verso alcun l era -i a el re li oi i to; a sfa l I mali. Varell. El'col.Andando
la cosa Itta via per un medesimo verso gli Is g: va pe: lo; za li: rtir di
lllel il 1 g... FI el'eliz. - e (II), si vi: il 1 l' II it: i 1, se vanno
verso. (ia!. Si-t. l'er 1:1 r.- 'i.. v verso i cui il non vi fu mai ». I 3 l':
1. () rl. Trovar verso, () ribe, II; s -. 1 (orv... - se i trovai 9 verSc
1Z. I 11:). mi ri. ll It - ir: - si rl:. Mutar verso. « I l in un li versa i
Z. Andare a verei andargli al versc. Q). l io.... ci segui i
aridare ai versi, - l'ill Il '11 l..... ll:: V.i i-silli i tii: il il 1 che lor
non vannº a ver, i il lo « S: si orz: v. li:: Isili andarle ai versa, e !:
I)1s, il l. - ir.Di alcune parole ad uso e valore di voci e parti del periodo
collegative e talora anche integrative. E e n e – NA1 a 1 e al 13
EN E. lasci º si va il riavvi i bio: giustamente, acconcia nºn le, con la
mente, l'ulo non le, sicuramente e ecc., ed anche le no le Irasi: ben bene, il
no per bene di garbo, la coro fallo per bene, or bene, bene sta, condurre a
bene a lilot line ecc..., e mi piace di offrir li al II li esempi in cui bene e
la cosa piu o meno riempiliva che l'ene il s. la sicci esce lo si e o, e tiene
alcuni poco del tedesco li li l. (5(i Ma egli Iul bene, qui intlin
[ue s elevatissili, proporzionato alla lama e Vita di Ill il s'e ll 11 l' e st.
l l ): l 11/.Nel l bene i l.. a l In, io che | o-s, ! ». ! 3:1 t.MI,a con i ti
I t'l spes-, a lirato? o, disse S 1 (i appelletto, contesto e vi dico io bene,
che io lo tiroll o spesso la II l3, r.a Egli e qua un trialv lo uomo, le trili
i l: - l alo a l sa º il ben cento lior ºli d'olo a. lº. Ma se vi pi e, io o le
insegnero bene tutta n. Boc. Voi - i pete bene il legnaiuolo, dirimpelto, al
quale era l'area.» Bocr'. \ te sta ora dal ni ben da 11 g 1:1 re, ed io a te
ben da bere». I 3 r. º lll gli da ra. Il mito lei e la la l la.Si le, e visti
di tratta e lui - tra i 1. I l incn ill - I l n; l)av: 'lz. Bene i ll vel, che....
l o.Bene e vero, di vo tra Irle, se lº tibel i lido li nº i lorº liti o, ben è
vero a che quella grandine di coli e lini e di li tir e il 1 o nlinua cosi alla
distesa I r lil, a l'opie 1. ManzBene e il vel... he il l e le::i riti - nte
d'Illi: lo za sull e iol e, e la a !:ilta, il ri il 1 e 1 il 1 l. I lirt 'nzi
e, il vetl, i ver li ille, di lora a ple a rlo., (art.e e appresso gli dimorava
una serpa, la quale bene spesso gli divorava i figliuoli poichè erano
grandicelli ». Fi. I ciz.a vomita lo slla - Il perba lº stermini: i i ben il V
e V el - i:n corso a lanciato senza un l I l tar di II lezzo ». (es.b.
M.Al.E. – Tulli sanno che male è predi alo di tutto ciò che è coll trari, il
bilono e al bene: in ſei mili, pena, Iorli, il, inisſallo, danno di sgrazia,
lenſazi ne dolorosa e c... Si li e al ra e volgarissime le frasi: a rer a male,
a malati e di male, a re e il malanno e l'uscio adosso (lina di sgrazia dopo
l'all ecc. ecc. Via li li so. I rile dei moderni o volgari scril lo i c li si a
la vo male, Isi Ina in ſilella forma, vuoi di aggettivo, vuoi di avverbio, che
nei seguirli i esempi. Leggili, rileggili e fa di sentir - lie la forza e il l
non so clie di vago e per gl II, che è il lilà di così d'arti l'isl ic. (li el
II zi, le elegi Ssic li. a... st V: l III mal conceito fuoco. I 3. «....:).
Il coll mal viso - Il l I am li ri- -e. l. «.... il rinai.. Se; (iappa letto i
lic - i pm rai 1, si, l ma le agiato el' 1 (-a del II lo; lidº, o. I 3 ).maie
agiato l' –, li la a gil: i il.. 11, l Inl, o male agiato esse, e male,
pe. lli, a - io, e -::: a male i:n bocca si, vitili era, o e, l 3:1. I 1
A. « c' 11 se l' ', male: l e \ Il..li, lili i lo nia?.... (, l. Il n.
volt': li la III, i mal piglio, l.ll è lie: \ e le colli e iº sº io -, il V
rºtale lili, i.. » I el'eºlz.Il ragi la I (l ai: le maie a lo)ia si convenesse.
l...chi v e iilipov rito: chi vi: ini: i il a, l.. i: ti: ti l i male arrivati
)). I.a do III', nd Indo pier lorº i val, l l', l ' I mal degno n. 1 ss, loſ
nig ill: I li.Voi sie (o grilli vecchio (pole le male durar fatica, l ', di
liri a III nte, l'8 ('. e I, il III lo zi le: i riz liz li mai -; l I
e a:I III lil (i: /:1 e n. la t al I ): v. lll. “..... rip, ta io a lor
lui gli le male accozzate i - V a essere male in essere di d. Il l ri, li -: li
i l ':.. l 3. l l'I..... poi ho li ſu Io!Io avanti pre o di mal talento i lo! «
parole molto lis o eo. 13ar [.. e.... tutto pe o, se male a me non ne pare.. l
3 l. e Onde pa, che male si a latino al vstro lº so, si fa i lma iº e d'ill «
si fa ». Si li.a e finalmente la gatta gli pose la io a lica a iº --, e non lo
's io i ri vare alla male abbandonata e sta ». (i 22. Vi esort era il 10
al 1- e' di vi con più 1 ri') o quando ancor vi conosca a l male in gambe ». Si.
n. 8s. (S: - I:ile i siti: il ma! - be il s.. i: e i nº, lo re I ma
le:nctiuisi o V i S:s lº i l: i Note alle voci Bene - Male
(iſ, 1, di bello - con i | II e, e lipiello di forza, è noto e volgi si li esel
i pi e me ne passo: l' ' belle sei il le li i l l'illmo all'allro ». 13 cc (li
l: ss e le liti in tv l' e la lle legare in anella e... I V l'elol) cli, l V !
ss. 13 o.Noi la frase: esse i lr me (ni le li alcuno: le pallel'elmo al i pi lo
lingua (i, II, i posſo in li si ma le ali a 1, del 13a l' oli, del Gozzi,
e di tali li: ll is, del 13occaccio, e come i g, e l' ai c. Il riso le li
ell'avili, la V eliti el'Iluissero sponta e dalla lingia e dalla per le lo; e
inalier e del glorioso tre i º (S Sla i bene, male in gambe è I l
is li fissili ira, ma l'ho volli a poi le pol chè si vegga quali male si ali
ngano certi autori di gi il nome, i rial: ci si ali i lalora certe frasi, l li
trial lo scadille, snoss, alli e, siccome appunto il male il disco so, e il li
s'avv goli che pur vivono nella lin gli col nulle. N/I a i l
'avverini, ma, el: vale più che il latino unque n. e li il cli, sia con il il
S. liv e il l li, lui li i maestri di lin gli IPI Il v'ha del con la I - i: il
13 irl li, esempi, e non |. lli al clic so, ci li e la leg ai la lil loro e la
non si sia rolla o. lº si rip; il lilli. I il silio il I ti: le e, già
gran lenipo, stral ci gidi (lelilli- e mai a V cl sels, l'in alcun len o, e
d'in nessun empo; e lei l'uno o dell'all ', cliave e indizio non solo I! I lil
si le lilla legil'i; il cos! i le Alti i basta ad ill riderlo il si mai e
cºsì dicasi delle molle \ lo io e con i renda e allo studioso l. il
li igil: clic ci velisso Inai si lill egli allori fonti e mae l | |
–– 281 – stri di lingili ilaiii. Il II ci del e di averne senza più
conseguito il 1 ello scultri, i si p.. si, Direttorio, al quale più che
le definizio i l sl 1: i il [.. assioli, lei relalvi e semi pi Ne li Ilo (ſi
alcºli - anche di qlles la mi ai -, i lili li diranno in Irla: 'e vi gie li ti
li l.. i li' ci li - Illia di II li ignaro delle classiche venisſà, lo si pel
lo i c' rss, i indi, sia cli e Villga in al cºn l 'mi pi.... ll il 'Nsui
le nip. S roll e li ll (). o per arren lui ci. i ! iº i l i cli, si mi, ti se
il l i. intellsivo della s. ssi ma mi tiro i si, a Pe! l III list,
1 l g io, i tic, l l. si mai nascesse.. I 3, i. C. ll pill IIIa li e p.
mai drappi ! -- dialli, IB,. m Coln in 1 il i i il mai !:
esse MI, sl l'a ll il Ver mai. I 3,.. “..... i isl - se mai i
piaccia, ti con i le itto i pal.11 st: Il lit -.... più che mai i - a che
VoIIIeri le spalle, a II. 13o..E se egli avvi e che ti mai vi Il « che..... »
I30. e I)isse Fer Ildo: () li mai. ll Ill 2 a I)i - se il III lil SI, li Idilio
V il. () Il l - - I l S I a mai, io sarò il III: gli 'Iri It, il l in I l.. 13,....
l'av: elie | r in 1 e 3 - 1 r. ll più - che mai lº. E venivasi li rila lirlo !
! oppo, i ve lº ſi tº e ! - ll gian: mai:, a connesse, e piang nel loi i riti,
sop.......... e sop a che n 1 - i poli ebbe dire. Cavill. a... ma per
certo i test i lia la sez/ i l che tu ci farai mai».. a Questo e i pili allo Stato
li Itc 'igi ssi mai e lº I l. le quali fili o no e primi clie -, e le sei mai:
l ill). Fl: assalti i al IIIa la..., l mai, i [.ra ti:lel cliore ». (iiil III l.
e.... ed oli voi fel ci, il litori - e il -1 V, il lill a fa rii mai santi!.
Sºgli. a Ed è possibil. che mai gli 11-:. «.. quali lo In'a ci r., ma
andr: il 1:: i pi che mai. - 1. « Mla l: Ve: i ti ti, i lil il gºl ! I mai e
Cmpre. « Se i II a i º I)isse Nicostra [o: Maisi, i pizi - li lo i
vi " lº i l II 30 U. a credeva, º ile - egli dieci anni Sempre mai ! ll -,
a che ella mai:i cosi fatti novello: l il. a Corne, disse Terondo, dunque
so io, io in l? Diss il 1 Mai31. I 3 pt i'. derili ti far sempre
mai il i. I lil -Note alla voce IM ai 70 - Vive nei diale l'i: Come mai?;
è afflillo come mai, ecc. (li si voglia di si ill di gr. ss, ognun sel
sa, ma gli esempi più che le parole i cli, tris li rello so e vero
significato della voce lia, a |iliale og i è sl Irola o la le adolierala,
che pur talvolta non sè ne abºsi o ti liori si lasci li il 1 orla non
disdirebbe. \li i e,: i fia l' -. / lia la tll ci ! ll li Ill'ai». l 3oni
e.. I voi, il te: i ia questo ). l 'lei'.- - - - - | li i - li i si ve l fia il
presente º il tilli: i I !: )st l': l 'li l'tl S... - 1:11 -
I ll v;t, fin l v.. l 3o.. le fia, 13. Qui i fia ir: le l Sel lembre.
Caro. l fia..... I v.I! ! -, l ia suggel che ogni uomo sganni ». Ces. Dante) \
i li - lo ill go fia llº:i li fesl:i., (iianl). ll (: | | | l fia l e l'1 a 1
a: perchè - º la piovana -.. n Il re deila t rra ». l)av. !, lil: il -......
p le i, illi, e alle fia di loro, se l' - I no ll v i l il 1 li i:''i. I
l ' l : i .... le St i t, i s. i mi vo'il a sito dispe to
lanni di chi fia la colpa? » Se ll. V et cine e gli oli Illi i: l i
tº vi N ſia mai vero, il l. Si i pil I: I: 1' i rp - a io i
vi prosperare? a non ºn l fia mai vero. » Segl). sul gio: li l' osti i
Ira d rupi scoscesi, che fia iera ſºnº la nºn la l e in cima a titlei
precipizii, a tracciare sì belle prede. Segni. non oltri, he pli il...
ma hi l - ve..a sino alla fine, quegli fia salvo ». Salviºli.N/1 e rc e
Non in senso di mercede, che se l'ha pur questo, ma in quello più co Illume e
assai in list, il pp i classi, d'aiuto, di soccorsº, di grazia, di cor lesia,
di merito, di pietà, misericordia, compassione ecc. vuolsi qui si diata la voce
nei cº. I il quale non solo forma alla francese merci, o all'in glese mºrcy,
111 i clide e ci III, Illasi ad III in do si governa che nell'una e nell'all la
lingua I e Iris a ragion d'esempio; merci, a la merci de.... se ne tre il la
III er i cie..: grand mri ci 1)ieu merci; o quest'altro: for mercy salvº': al
lli e nºi ci o, e si o le medesime, cl e le Isale comune menſe dei nostri
classici. Eccone alcuni esempi. 4. a Marfe, lºro gridava mercè per Dio; e
quanto poteva sa - il1stava: ma... ». HOC ('.“..... II e io ll li ll 'oi, i
vostra mercè. lI loro de ll ' 'e volevate ». I30 ('..... di e il Si r. le gran
mercè, e che... ». Bocr'. ()r ecco clle veli le (esil, e Lazzaro, gli andò
incontro, e lil - sl tutto in to i ra, e ba io i sºli i pit li, dicendo e grida
i lo: gli Into e, mercede a te ril: e º si ro, cli(ti - e' leg lì: i di V (I
lil alla casa dei servi Illo I., (a Valca 6; a Voi la vostra mercè a vel e il '
Il lili Vito ed io voglio oliora i vori. o I3 r. I Io pe ril o, il torn all i
vostra mercè., Borr. I 1 Dic mercè, e la vostra, io li io, che io il - i lel',
i vi....: la II o II a dosi a el l te, noi li per iniet e si i l i mercè di
Dio, Irla consapevole della slia i degnita. » lº i rt.a.... io lli soli,
condotto per tl, to il viaggio senza slo e felice le te. mercè del passo, dei
sussidii, ecc. e, Caro.a E be: hi, quelle bastonato i fili o non Ini avessero
fallo liscir di a passo, con quegli che oramai, la mercè di quel fanciullo, vi
aveva fatto il callo. o Fierenz.« Non vi par che sarebbero stati auda i, presi
Intuosi, protervi, e in dºg li a di quel perdono, che ri verono mercè la loro
prontezza? Segiº.Questo e imbiò la in Egit o II il Vlosè di I l e --as-In, il
divoto Illo « ma o, mercè di una sola predica dell'Ill lerno da lui -:llitti,
Il lillitllll Ille « per accidente.» Sogli. a e gran mercè vostra che peggio
non abbia fa ſto. » Bo. Chiede il 1o mercè a l)io per lo merito del pr omesso
liberatore. Ces.Note alla voce Mercè sserverai bella elissi, quand della
preposizione per e quando del verbo essere – virtù del resto e proprietà non
esclusiva della V e nel cº, li la collllllle all ora ad altre, v. gl'.
grazia, ne il o, col 1, sia e c. buona grazia costra: e tru vo, grazia d'Id
duo, che io mi sono conserva lo ſtian lo più posso... » Pandolf.: merito
l'assicIllita dei vostri stildi, ecc. ecc. – Conf. Elissi – IP: I l e l.N erai
lili ancora come la c ligi inzione, notissima, merce chè, non è che un composto
di mercè e di che. « Non pote lono essere preferiti, me cechº I ddio non si
lascia adescar da doni. Seg.iti – Mercè a, ed anche nei cede a, è modo di
ringraziare proprio del la litiglia italia, la.) - I fissi del segna as del non
le I)i, dipendente da mercè (tut I simile al francese I)i i merci. La qual
omissione però i li ha pºi il luogo quando il no di l)io si posponga a mercè:
Itri lire le velini dore ne è l'Iddio e di questa gentil don li scali Io sono.
I3, c. I li li ho bisogno di sue cose, rei li la mercè di Ilio, e il l marito
mio, io ho tante borse, e alle cillole, ch'io V e l'alloghel ei elillo ».
l?occ. Fºurnto E sl il. e lui le avverlio viene la voce punto assai
volte º: ri: i vi il ci ills e. I e - n 11 lissili, lira gli eserº i pi
li animi niscano quando e come me gli Ils: il tre, si ch il per i clo, lerivi
grazia e buon sapore di eleganza. I pil con i col sos intivo soli: essere in
punto in assello, in accon io il precipilo, in istalo. grado e nelle re in
punto (cioè all'ordine: nellere al punto aizzare, cimentare con il lesia,
l'uomro perchè fac cia.... in buon punto opportunali e le at buon punto: al mal
punto; dare nel punto: di punto in bianco all'improvviso: di lui lo punto ecc.
ecc. I vverbio ci fornisce: a ln di che legano con maggior intelnsilà, li
r es.: punto, punto; nè punlo nè poco; punto nulla e qui tiene alquan Io del
point dei francesi); b) un certo grazioso riempitivo che torna ad a lui un lo;
un nonnulla ecc. ecc.... Le previsioni siano in punto a lor tempo.» Ci
sa, Piuttosto tre cavalli buoni, grassi e in punto, che qui il tro affannati e
a Inale forniti.» IPandolf.« Navi lornite di tutto punto, o Si Lerdonali.
« In mal punto si ori emino il mare ondoso.» Menzini. “ Dunque, ripiglio
I rail all' inte (i riso, messo cosi al punto.» Mla zoni, « Cosi già in
punto d'ogni cosa bisognevol a qil passaggio, prima di « Inettersi in mare, il
dl IIIessa.» Bal'.. « Alcuni di essi, parte torchi di mia e, pari opp.
e-si da, e ritiche, ſu « l'oil in punto di lasciarvi la vita. 13a I. ....
coli 11el (i imporre si sl: e- si va in te sul punto da i
convenevole. ... e stalli, il ciò tintº sul punto della Cavaileria che....,
9, i 3 art..... affinche', dove gli ne venisse Euan putil o al n o in strasse.
o Bºri. º volea dire, secondo - i no 11 i 1,,, li: soli iti e litta a ce ngiura
« era in punto. l)av.« Cento e piu loliiiiii li quel lite, li i luro, i ti o al
lav.o, e, Inque « di le filsle e il Cat Ir furc no in punio di navigare i
IlilitIero, o l a v. e Miille navi, lurono las, i voli lº stalli 1 e ! il....
in punto.» I)ava inz. le Illali e se li ril s gloiro, altri li a gr. -
era punto di rievolezza. Boce. « Punto Inoll I Il l: II le gital (ial s.
i «Qllegii che hº illio con il prat: 11 le li: Il to punto nè fiore. SI).
Se n. l'ist. « Punto del mcndo il 11 poi ea posare il ll. Il li otto. o I
i I ti. « All re ragioni di non punto men grave il il 1, lizi.»
l?art. a e lei si riglia e li rvirill d. I 1111, si lire, i 1. I tigli:
il re - se le punto « nulla sentisse del bar -o il 1 e il 1 olii Illesi,
l 'empio., 13 art. a che punto ch'un tral, li. I o v sta a igi si trova
in l.1 o ſu il lie la lite « in boc. a. » Cal') « Moltº è la
plance..... ll 1 11:1 punto di ieri interni o... l ' i -. « S Voi mi volete
punto di bene, il 1 e il v; 1..... B... Sc Il legna illolo e punto abile. I...
Il D... - il l.« Con l'e rabbuia punto, lo sl 1 l o il il i li. « Ma no: percio
che ino:o -aio i lil i: li, sa p.ti, i 3 malteschi, le « pronti il d
urlneggia 1 e l - la li: i « a finire lº ll'Illia delle illa', o li co.. e.,
li;..... si l.l.i.« loli sara forse gl.lli la o, ll il Il l il 'cloro. Cili
punta 1 I li le « d'umanità.» Seg ll.a El io 1 orno a dirvi co; i pl º tes, e
del Si io che li punto confida « ll (ille Sile forza dov l'à (il dere. » Stg,
()gni donna che punto bella 1 -se vol 1. l) I V. E nn la di ea. ch'e g: ai le
pericolo a.i II, II, scprasſare punto nella « immaginazione, qua l.do gli vi..
li. a Ine: te l zza d'ill felillila, a pe: occhiº soprastandovi punte ri le
volle a l livi rie, ch'ezi, i lio un'anima « molto in onda in castità, le ril
ma ne per os - l II l i lilla.» (1 Valia. a (iò sarebbe, da re a discutere la
Legge di crisi la ni a Sriali lasci dolo a e a Cicondono a quaii, ve ella pa in
punti necevole al lo le pillol!: o a degi strati, agevolmen e riuscirà
d'indurre il (.ali - a Irla a disdire al Vil a lela la grazia e col finarlo
fuor del Giappone, a Bart.Note alla voce Punto i – Punlo, nullat,
un non nulla, niente, sono talvolta perfetti si li lilli, e di till inedesillo,
IIS, e ci si rilai ille. Conſ. Parle I. Cap. 3.7S Sinile: vesti di punto. I
rili o di lui lo punto; armato (º ('tº.79 -– Nola il modo: stare sul pil n lo
le l con rene role, dell'onorevole, della cui l'alleria ecc.St – ci è punto
punto, li ill.; II l Il significato di punto, niente, un non nulla ecc. Il 1 si
il 1, il ppo gli antichi, e ha sli la nota frase di Danie: Peli a orinai per le
s'hai jior d'in gegno, Qual lo divenni! SIII le litel del Manzoni: Ma di che i
julo gli p lesse esser il Ila o al l: che già brillo ricorre Va al fiasco per
l'Irnell e i il cerv ello, il tale circostanza, chi la lio di se uno lo dica. E
i lichi il sito quale intensivo di non: « I giovani e maggiori e le I compagni
di Celso, non si s not guti o no ! io e, anzi li i più i dirali contro la
plebe....» l.iv. M. \nche il mica dei Lombardi vuol essere qui menzio Ita' che
li li è poi la lil I lilli: rido che li in fosse già sulle I rili e al recello..
V | lale l'ill, rispose: Signor mio non so gli nè mica, li è voi a che li li:
ogni le, alzi vi dimenale ben si, che...... l occ. e Vale le ali le illla nica,
un miccino, Il lanlio, l'idea, nè pun lo nè poco - a I greci panegirici ti
l'ora li li el'alio mica una pill', i vi -a lode ed inutile!....... Sal
Villi.SI – Tra di lei quel rialleschi: pl o lili il menar le mani.
(schlagfertig, Tutto l'referisco qui le lole Iorme avverbiali:
lull'uno, lullo da vero, al lullo, innanzi tullo, lui lo di, dai, per lullo, tu
ll'ora ecc. ecc. il tui tut lo, aggettivo o sostantivo che si voglia, è il
variabile e sempre di un ge nere e numero, e piaceni allegare esempi di un
lullo avvel bio e pur de cliliabile o si scel libile di genere e lllllllel'.
Aggiunge energia, e vale interamente, oli minaliente ecc. ma non sì identici,
che sostille dosi questo a quelli non ne soffra lalora il tornio e sconcio ne
venga non meno alla Irase che al periodo. Tiene alquanto del toul dei Francesi,
come che troppo diverso, che non è il francese, sia il governo ed uso del
nostro lullo, e ben più vago. Polmi mente sopra lill t virlù sintetica dei
modi: tull'orecchi: l’ullo gambe; tutto leggi: lullostoria; tutto musica ecc. e
par che si dica: a tutta forza e vigore, non alllo illeso che... immerso in...,
non d'altro occupato che..., anima e colpo abbandonato a... ecc. ecc.
(85) « Io conosco assai apertamente niun altra cosa che tutta buona dir
po e t. 1 -i (li Illirlti li(Il 1 s'è l'Illi di costoro.» I3oce.a Qllel. e gge
le fila li il carro di tl’amon[ana gla l'olava, e l'allo tutto e loost let Ii
di Illo: Illoli, di frascilli....» I 30 cc.a delibera o li tollla! si ill It
llia, tutto solotto si mise ll call Illillo. » l 3o '. « Il fallig', io trovò
la gent. l giovane tutta [imida star las Stil. » I3(º. « Senza - I tal l' -, e
sollecitata da suo, cosi tutta vaga cominciò a a parla ! e.. I3).I)imo a lido
il giov: in tutto solº nella. orle del suo palagio, una ſe II lillell'i.. i l
lo lill sill: l., IB ). Tuito a piè fa - i loro il colli l o ! il 1 do
disse.... » l 3. o i lut. In te la II: sua la Ilte ne ſei a spiare. (trovo che
Verºl Incli e I giova e il 11 l'a trii n, dormiva tutto solo., 86 Bocc. il qua
e es-endo tutto leggi e tutto antichita... » Bari.....i-1 l'1 lis, (llella e la
i i, il ll 1tl i) la l la ll illli, s v l'Ve i gli ill le liri, tutto e
il o li in soli ordia. Dal t. Chiamò Mosè, e qui si tutto dolente del suo
fallire: Su diss'egli ch'io Il il 'l' Illi)., Se. ll.Io dovrei di file stamane
esor farvi con grand'ardore ad essere tutti zelo; l sl? SC:: 1.\l di Iliori
tuttº animo, tutti ardire, tutti baldanza, ma nel di dentro roll ovall-i o
l'abb 1::. » Sºgli.a MI, oli qua e. l e Iron al ro sonº parimer: e. ch'a ffelli
di un animo a tutt'orrore il quale per la 'pa già stimasi dato in preda a tutte
le più ſiel e ! Il re.» Sºgli. Note alla voce Tutto S, I ),
ſu Io ci ligi Illzioli e il vv e glachi, ben cºlli, solo o elemento di all i
spressione col lutto che, con tutto, tutto che, indeclinabi io o il rialliera
di agge livo con lullo che mi sia le amico; con I tilt a lui costi (t a mi ci
si darà ragione di parlarne più a V: Illi.Anche del modo elettico: tutto
quanto, tutti quanti, e dell'altro con il missili o: lutti e due, lu lli e l re
avremo occasione di ragio irare ad altro proposito. 86 -- Agiungi a
questi esempi del Boccaccio, le frasi anche oggi in Irs lop late al rilie volte
dai 'le si esso I;occaccio: esser tullo i, in Il lavoro: vino da bersi a lui lo
pasto: essere i ullo della pr i soli i perdillo e rall rallo, e simili.U n
tratto – Urna volta Non credo alla liri erra' o asserendo esser oggi
smessi, scordati e per | oro discº li si illi i lodi: un trillo, una volta in
quella forma e valore cli negli esempi il si a i cii noi 'Iali a volersi
prendere un tratto nel sigliific l una sola, e una colla spacciarlo per quel
che su na sareb be sl la hit si e da il crescerne buona mente di chi sell liss
si p vi 1, il i l di liligº la, e non ne vedesse più là. I modi una
colla, un l al lo le, i cser I i l n al di l l sch si: si h mail al n. Non mi
'mal her, guck 'mal hin, n un link in all '. (r.I e II si li primi o li allo;
anzi !: allo, d'un tratto, dare il tratto; dare i tratti di olz en Zi pensare
un irrillo ecc. ecc. Si, non spettan quì, -, li o lo così in di grosso
l'ein Ilù ſiti il presº il nosli a cui la li li igl lill ('. N la
non l gni un tratto.» Sacch. i u;3a volta li. ri che tu n'a Vesti. » l80cc.: i
i Vo: 'rei una volta con esso i lì: lº; o li. » E ('. N un tratto a voi..... I
3, c.I un iratº o. Vol. sse il Vesl il il re. » Fiere Z. il lb t i d si facesse
un tratto l'l V v tl le l V, e, le in: Va l'allino un tratto « non ci si va a
il t.a E 11 i mill ! - ! i l l anno grazia e mer º o un tratto dal funesto
letargo, il chav si g la lolla, i vv i, illuminato gli o chi? lla loro
mente....» Barbieri. a cede per or. Fa1, del late che si sveg Note
alla voce Un tratto - Una volta S; - - e pensò un suo nuovo l rallo
da lei il re la sua costanza» (I30cc. 3art. (es. cioè cercò un altro tell
alivo, astuzia ecc. (Conſ. (.., p. 1. verbo Dare.Forte Forte è sos la
livo, agg IIIA ed avverbio. Oltre all'appellarsi forte un luogo qualunque for
Il calo, di esi, e bene: il forte di una persona la capaci i maggiore della si
essi, il Joi Ie di In'opera, di un componi niente, di un impresa, di II live in
Illo, di checchessia, cioè il fiore, il lierlo, il III rl, ecc.. Il l io le lel
(li 'al si e del lill loversi dei soldati ». (esilli, ecc. Foi (e, e chi liol -,
è predica al l esi di persona o cosa che ha lº rlezzal, gaglia. I clia, si l //,
illle Isili, ecc.E fin III al I cºlli e Iri del I i l ero e se il III lilo. Ma
non si gra dilo e si cornuti oggi li è il forte avverbio, assai li ute le sulla
penna dei classici, in sºlis cioè di assai, lici a menſe, gaglia, la mente,
profonda nel te'. role'n la mente, ln tºni sui mi cºn te, tal alla rocr', e
clillo alle alicola ve. inenza d'animo, che lalillo anzi non lo disgrazi, 1: Il
che sa per gli buono, e gridi all'anticaglia, se ad altri anche oggi piacesse
mai di usarle. Per chè non ſi sia grave assaporarlo lic pochi esempi, fra i
moltissimi, che IIIi a º plesso, r le id, lilei e il III al II a Telli, ci se,
ed azioni il lamelle si convenga.a essendo assa i giova rie, e lelli, e lo I. I
lei s'innamorò si forte e il Podesta del paese, che pill ſita le piu la non
vedev., 88 Bocr'. e Avell (lo V (lll v. " (il V (, l: i re, is l'all: lui
(º littº « piacendogli, forte desiderava di aver, ma pur non s'att | I vi
li do e Irl:ì ll l: l ' (). » I3 ). a e saputosi il fat o forte fu biasimato.»
Bocc. E biasimarongli ferte o li' gli voleva fare. » I3 Cornº che ci si liri o
altro dormisse forte, ci illli cli. l 'i lei la stato era, a 11 mln (lo
l'1Iliv:ì a 11 ol': 1. o lºa I ca li presa forte la giov i tre li ſi ill: lli.
Bo. e....o vede; dol dormir ſorte, di li rsa gli rasse (Illa: li egli avea. »
I3o r. a \ ndl e il rio, go!) risponde dogli il la illl'o, cominciò più forte a
chia a mare. » I3C).commendolia forte, tanto nel suo desio a cellulºil (lo-i,
(Illanto da più a i rovava essere la reilla che la sti i passatº - il la.... o
I30. a I)i Alessand o si meravigliò forte, e illibitò noi foss....» Bocc.
E avendo la barba grande, o, ieri, e il vita, gli par si forte esser bello e
piacevole ch'egli s': 1. Vis:I.... » I30.e.... e quando ella a ridiva per via
si forte le veniva del cencio che allro llo t r ore il III Ilso l1 Il ſºl,
Va.... » I3..a.... i quali dubitavan forte non S (ii i ppel º lo gº
ingannasse.» I3 c. « Questa parola parve forte contraria alla donna, a quello a
clie di ve a lil e intende va. » Pocº. a.... e perchè mio marito non ci
sia di che forſe mi grava, io ti saprò a b(an.... » I20 ('. a.... per le
quali - oso, messer o prete ne 'nvaghi si forte... l'occ a Forte nel cuor noi
la pietà compunsi.» Dittani.a.... ma poichè si vide ferito invili si forte.»
Bart. «... Allora come a cose di sapore che pare a loro aver forte
dell'agro....» Bart, Note alla voce Forte NN Il Cavalca idoi era
anche l'avverbio fortemente e significa il gra su per la livº di illi: azione.
« E in questo tempo slalido ci si, e I Zzaro, in je' m ) ſorte nºn le; [ueste
due suore MI; il l: e Mlal a jo) le men le l'ut, al ramo, perch'egli era così
buono e perchè sapevano che Gesù mollo l'amava». Troppo () lesta
voce li rila alla memoria la pacifica contesa ch'io ebbi, or è già l'anno, e
l'ol Si fra ello intollio al cone letteral li e si, e l el'e pi le del sacro
leso: Mei ces tua magna gli is. Noli è il l al nimis che del basi qui li
adurre, sentenziava egli. (º lesto mi mis è Il lal V e// li Ill 'e lle lol la
ad un massimo grado slip I lal V, che la llli gli i alla lia li li ha. A li io,
che quali (lo si ll alla di vedere il V el a pillºla di Iagione, la voglio
sempre spuntare nè nulla a Ilorilà si li li porti li al ere. Ials, falsissimo
replicai. La lingua ila lialia l'ha sì bello e ſol le clic li il so se all ra
lingua possa mai fornircene il III colale. Ed è appli l'e lliv le le italiano
dello stesso minis, trop po onde forma si Vil: il cli Illi: i l: il V (e un
così fatto superlativo. ln pero lì è la voce li oppo sulla pena al
classici non significa soltanto il lellera' e minimis Ilia il minis all
resì lollo, assai – del citato luogo S9, a ch'io perciò li l'avviso non potersi
meglio tradurre che colla Iorma troppo più grande, che ecc. Al Boccaccio e ai
suoi valenti inni la Iori, andava all'animo assai la fºrma comparativa, la
quale poi tor la mercè della V e troppo ad un massimo grado di comparazione,
dirò così. superlativa. Leggi e dilnini s'io mal in'a ppoliga a
\-l-ai volte già ne potete aver veduli i dico de li re di scacchi troppo « più
cari che io non sono » Boce.« più assi li ve n'erano e troppo più belle che
queste non sono.» Boce,"IIa colui è troppo più malvaggio che non
t'avvisi.» Bocc. « Non pensaldo che, los- e chi addosso o indo-c o glieli
e polie-se, ull a: illo ne porterebbe troppo più che alculla di lei., 90,
Bo e. « IlliSe lIlano ad una Vlt. troppo più dura e rigida della menata
pre Sente.» E0cc. « E se Inoll ('lle di tult i ll li lo o viene
citi l aprillo, iroppo sarebbe più piacevole il pianto loro. Bocc.
e Vi tl o V () la II, e tali ltto, le V a - troppo più cle tll la la
spesa. » Borg. Egli e' troppo più malvaggio e h - li ll s'a vvisa. » I 30 cc. E
Annibale l il troppo più accei io a l.Allti e, lle a suoi Cartaginesi Stato il
n era. E assai lostri con il i adill I si lio gla di troppo più splendida fama
stati al presso le nazio; li esl 1 in nee e le app lºsso ioi. » I3, c. «.... a
Badagi, che da troppo più erano in forze, numero e ardimento; Ina il Saverio la
cesso ogni per i lio. » I 3. l'i. «.... ed era la piu bella lei mi a, le
si rov a -- I l II onl, silvo la Vergine Maria, la quale era troppo più
bella di lei senza niuna compara zione, pill e cori raimlt ita'. » Cav al
1. e.... il giova il tilt o il 'li i lil III e col il III (-s Si l' 11 le alle
sºle Iila li; e lo II, li e il V e --, pill lo i soglio d'es s-it rs', mila
anzi eg i pl egava lui a lioli a biorrirlo nè rifiut l 'lo, per occhè era
troppo maggior pecca (cre che forse egli mcn credeva. I3: i rt. 91, e Ma to li
1:1 tii, Signori, I il III, che troppo ancor più alto con via li le Val SI. o
Segli. III' troppo altro gi ill ols e le:lo I, a.... livi- i lo., (- a
li. a dimosti o che troppo più che alle pratiche e negoziati.... era da
repliare alle orazioni lºr Ille-to elietto da il latte a l)io. » (s. a N
in sol: III e il I e tornò i llo II lo nel primo lato, lil:i, a V Valit: - º in
Indolo di troppo più doni, lo sll blin lo... (e il li. Note alla
voce Troppo 8) –. Troppo, il re al significato di soverchiamente, vale
anche mol lo, e questo significato s'incontra spessissimo ne buoni autori. (orlicelli.90
– Parla dei soverchi ol'nalienti delle felillirile del suo tempo, 91 – L'ho
preso questo esempio un po' più da lontano che non biso gliasso al fallo
nostro, come ho alſo gia più oltre volle assai, e ſarò sempre che ti potrà
tornare non solo in utile ma ed in piace re. Qui, a cagion d'esempio, oltre a
quello onde questo luogo vuol essere esempio, hassi al resì a gustare e quel
non che...., ma anzi, e quel non –- non credera (di cui al Cap. 2 Part. I.).Là
ºggi si griderebbe l'affellazione, oh! oh! egli è il purista dàgli la bili e
colali all'e ciance, chi alla Boccaccio e alla l)ante insegnasse mai rile
all'oro, il cloro e all'onde sia lic volmente da premettere il correla livº li
Illillo si voglia far emergere l'idea di colà, appunto colà, pro prio lino a
quel luogo ecc. l'icinsi clicccè si vogliano a me non dà l'animo di
partirmi da una sºlola iroppo più aulorevole e veneranda che la moderna a pezza
non è li potrai li li essere. l Irisi: più là che bello: più la v. g. che
l bruzzi ecc. ti mostrano corti e si governi, secondo sellire e sapore
classico, il comparativo del l'avverbi di luogo, di slalo e di invio: là e quà.
Non gia: più in là, più in quà. I ro: piu in là di ecc. Irra: pii là che
ecc. e in brieve grida lidosi a luogo, la logo, là pervennero ove il corp,
di S. Ai 1 Igo el:a i -1o. 13,. (º A t'll il li ai lo cli, avanti ora di
Inangiare pervenne là dove l il bio: e el in. a i là onde r, il o se al
povero non ritornasse.» l'80cc. E Il lesto letto, in Il l to a l...... - 11/a
lista le colà pervenne ove Sep a leilltil a la la loli tra lº '.e coli lei il
sieri e niti 11 o il 1: vi o, e presero il rallini in verso Alagna, là e dove
l'ietl o aveva certi anni, dei quali es - o mi l o si confidava.» Bocc. Vli
rispingeva là dove il sol ti º lì l'ite.Chi (Illin l e gli scelse la ll mi e
pianti, cotal si rilla ue subitamenſ e là onde l:i svolso. » I ): ll I e.lº fa
l l'ill lento ordina ono ins II, con le elle dovessero uscire fuori anzi di, e
a: la l e a Irio: il Calvario, là dov'era il mio lillimento. » Cavalca. vuolsi
cosi colà dove si pllo: e (io e le si vllo, e... » l)ante.a li de ella de sl 1
i lo, l III ell lo l'esser fedita; ma e ricordandº - i là dove era, tutti i lis.
ss 1-1, tel o del luogo, di quel tal Illuogo). 13, Di lei sil, la norò sì
Iorſe che più quà nè più là non ve! va.» Boce, e l' (Ill: ll e II lig.i: ci li
h? Maso is º I la elle pill dl millanta, che tutta e lotte tali a. l) is - e
Cai: noi il 1: I)lln Ills dee e ssel e più là che Abruzzi. Si - lo, ine,
rispose M -, si e avei ('. » lº. « avea preso -i alto grado di perfezion, he
non si potea più là. o Cesari. e V vº: lo pl o ede: p in là, ci sia i cose, i
veri:a il vedute che...» (.esi...... ll 1 più là li oli lo i possibile a
ridare. » (...Quello Il Boccaccio, il Passavi, il. il Pil dl Iſi, il (il
Vilca, ed il valentissimo Dal loli, il mila i d. l II mila serie di ira ori e
discepoli della scuola tallica, Ilsa l'olio assai, e i le stra, il guidi
e poco grato al viziato nostro ore o il prosione dimostrativo quello posto
a glisi di 11 Il ro, ci si d. it -igi, i lic la lino Illul lI d l
Di esempi ve li ha a bizelle. Ne a I ero al ini e piaceri di aggiunge e d
in quello, in quella, pari alle lorni e avverl: i: in quel menti o, nel menti
e, in quel momento ecc. e si dis: quello li n. - - id. v..... vi i e
quello li vi - e' ii 1 e l'Il l il e io vi - ll 1, v.... I3.-: Itt - il 1 se. l
' a 1 il 1. l it; l quello tl a Valli I e (lo V ess, lil ('.: l o.lutti; - i
fri lis. quello li da N i e:: si iro l'1 -, -1.. » 3 ).l'In/ li lis- I - - I,
quel ch'io? » I3. I -, quello le 1, III -- il l sa io vi li essi. o lº '. i 1:1
! I, ve l i. -i potrei lo Viºla e quello che noi a id:assino ſ: o ll il. » I 30
t. ... e io! I si, a quell cche io mi tengo l i le sc (l ' e 'li.» I3. 92.
o Seguiti rolio, il sil, no, i ti l'e. sse) l da l. (III l 'o più a ll'Iva n,
piu lui iro il lit. 2' l'1 e va e le, i di 1 e ven re a quello, al quale
dopo lo I - ra l III antila li -si, er., FIl colo. Itispos, il III ), gua a
lile. ll III i lII il 1 o quello clic pil III e il bis: - rizi - - I..A questo
II e les, il II, II - Il to si It, l e il q"1ello che è det o a lI - l...
l'a - sav 1:1ti.I, -era ril II- I 1 -i di quello che: ' ' Vt a la l.... »
Fioretti. E p. lito, ve li quello che i li' Inita col suo compagno
» 'i e il v. I:: v. i: quello che i lr che, è.... » (,s In
quella cli..., l. E le IRillall stro, col il l e, c in quella. I 3.. QII,
il q: le! Io o clic si s la fa in quella a Che il 1 l vi le Cllº gir 1 m
-:1, III: qlla - là saltelli, a Vil'i, lo Mill it: il ri. f: l'.. it: l'.. l):
"ll. « In quel che si appiattò IIIi-ºr li denti« E quel di ace, il 1 o a
b) allo a ll'ano e Pol sen portar quelle membra dolenti. I pante.
93) e con [aii ingegni...., che il ponte sarebbe mancato a lui sotto i
piedi « In quello clie e gli pas.. a.. Ces. Note alla voce Quello
!)2 () i la fa da relativo e ville: qual cosa: non so a quale cosa io mi le fa,
o che è lo stesso, non sò qual cosa mai ini | l'attenga | lo li li lo se gli I
e rolli (' Ill. V el'b, le nuºre. 93 – lº è) ssere che colesto in quel
vaglia non in quel momento, ma nell'uno di quei due che col revano, il quale
per istracco s'ap cli i non le segli le relil (Inl verbo le nei cº.
U Corn Co (li li li si l - valol e del sostali livo il rio? Che ha a far
lui l eleganza? I tagione e Il li se no e loli più là. Eppure alche uomo
è al V re sulla penna a classici che alcune volte, più che il l a essa pul e al
grato velluto, al tornio e saper della II se. (lsserva quanto è vago quell'uomo
in senso di un e ualunque uomo, di chicchessia, e in luogo della particella a
verbo su. VIa avverli a ricola sul gills o governo, costruzione. lº.....
ll III li ucnnc lo i ri: i V li l: e cl’egli non voglia “..... pl
il l n t il to in ebbe con gli all i pm role irollo (lis once, e il l d'uomo. l
3 l i.e si e il II ll e uomo in:li in quel e cose che a lui l 7(t, lo uamo il l
im. it - l'alcuna persona clie ne fa cesse e sei a -- quello le Luigi per
il mio e di I)io. Cesa l'i. « E nel vero l' 1, a: per lo I e uom dice he
io lº blo essere a Imo:tº giudiruto. io no! oli in Is I niti i r. 13.“
Fra sè Inedesimo disse: ve mente è (Iliºli così magnifico comio uom «
dice ». Bocc. “ Non è rosa piu naturali ai li! I v.le e giusti e li Illel
piacere e le « uomo sente dall'esse; ama o la si oi ratelli. 94;
Cesari. Note alla voce Uomo 94 – Che cosa è l'ou dei fr: il
cesi - e li li Il collll al ci di home? (il man dei [ d sch è altra cosa li ler
Alain n il trio? (ili inglesi poi dicon, they, I he people say ([. he loria al
nostro: la gelle dice ecc. Fers o n a L' Iso odier 1 esſi voce è il
rilalissili, e non si ado pera in milli a 'I ro -iglili clie di II lil il
genere, o, a dirla coi fi losofi, d'essere si issisi e e rigi nev, le, ma si l
rispello alla sua sussi s ente individi la fila, e lo scili del l s e ido, di s
la essenza o la lira. Il male di elog: I: / Is e virili si che a ra vale colpo,
e poi il ras e li li | Il l: il no irla eziandi tii animale, l o al significa I
" Il li h Ss 1, c. ed il li inalmente ha senso di ver: i, n. ss II, il li
do le app i ll'all cesi l'aurun, per Non ti c'. )sservill e gli sla i li
a presto. I )elle frasi cl in 1: la III | I molte re persona crescere di
corpora Ira: fare di e in persona di... () le lil del a | Iel primo superbo in
persona di lulli gli allri, Isti: prolcl:: 1)i, isli in corde lilo e Passav.:
far la persona di.... li l: lle spielen, sostenere la parte. «I di quie Por ogi
si che ſce, a chi l il suo personaggio nella gloriosa e parsa la valli al I e I
r!. 9, la la persona adosso ad alcuno, soperchiarlo 96: mettere in persona di
alcuno qualche cosa v. g. una r lidi:i, costi i lirl li di essi, 97 e.. ci sarà
poi la cril sio: e li i la rli id al l silo. Iº, i cºl logli -s e
II l bel fante della persona. l a IP o cle ella era lei a del c 'po, i giovane:
11 ol, issai, e destra a e atante della persona ». 13,.... te, i bil 1 E
le iclè ella fosse contraffatta della persona.» B ita', e.... essere tutto
della persona perduto e rattratto.» loce, l'1 va: la lo- i mal disposto della
persona, e le, la inelite lion molto sallo.» (11:llillo,\bbiati i cavalli i ve
li lilli- al grande colpo, cioè persona.» V ol-: i rizzº / l':lli li.il se - ll
o chi a losso, e con grandissima af lº ziº e la persona di lui, e i silo i siti
mi onsiderand d'o culto alliore t. vt', ll tell it | º li li: ss e.. l 31,,la
li e ti e i, till ia persona piglia e va i, senza lasciarle in capo -, i
periti, o oss - so, li i n e -se. I 3,..ed i a º s', 1 e la piu role belle e ri
che al dosso a l'una e ine, i viri della persona - i pareva che la giovanetta,
la qll ', a pl p - o li -: i B, l stat 'i: si val.etta....) S
-- ti:. ss e i stesse persona, il 1 - si l qll il il 1 1 1 o cava tv:ai.
i cºllo persona se n'av v (lº - e lº t. Io li n..... I, l l la ventura
lestè, che non è pcrscina. 13 \ i i vi li Ilia i persona.» l'8oce.
Io e li (s'o, che tu non facci liliale le a lui ne a persona.» e al ll un
altro Fio: etli. I la ll l'a cos l: e questo si è, - - al lil. I - - -
che se nessuno ti doni i -- 'I gira li cost, che lui per niente non ri spondes;
a pcrscita, tra seri li essi vista di n. 1 l ele: è e noi li udire.» l3.
I | p. g v, se i persona come fosse ivi, edl li non v il giov, il sillo º l'io
etli. Ed ho da mio at oli ed za, lº io lºn la possa dare a perscrma.» l'1 r,
Ili.li i per ſuo - o il 1: ini: 1. ll il a persona del In illo., Bocc. « E ' il
l - tira perso ia mi li, e ! i Zzo perdonato. » l 3o. I; rulli, a non salirà
persona se: it 11 Note alla voce Persona ), simili ma in tal
caso spogliandosi il principiº la lºrsonº di principe, e mescolandosi
egualmente coi titºli di sè, gºl l-l il tilar la gi al lezza, piglia un'altra
grandezza, Castigl. Corle- giallo. «Mi pareva appunto di scherzare ſuttavia fra
le conver sazioni soli e di Brusseles, e l'avia di far la persona di cor legiano
il luogo di quella che mi conviene fare ora di viaggia lo l'eo. I3C Ill.
96 - Lo stesso che la re l'uomo adulosso al altrui, cioè cercar d'aſfe l'irl,
col le minacce. E volendosene al non so che esecuzione il lido ſilio a S.
Giovanni a Irovar mio fratello, e gli bastò l'animo di ſoli gli persona
addosso, Illando egli meritava d'esserne casi i g: l '. (a l..il Diil
(iherardini. Voci e maniere. - 9' - l'orili, il francese sui la le te e
il gosl o volgare in testa d'al clino. (ili rilizio l'Abbadie per me lei
le in persona d'un al ll o, Calo. S e lºro orie di terza persona
d'arri lo i lilli neri e genitºri, che si riferisce | |
sempre al soggello del verbo, adoperandi si lui e lei negli altri casi. II o
Irascritto di peso la definizione che ne da la Crusca, e basterà. Come
piacesse p i al Boccacci re di all i trolli. In colal sè in In lo
assolti, o e coll'i: definii, l gicli e Illasi si ºss, V edilo, di con Io
e mille che ve li ha, in ſilesti p. chi esempi. a Per un cali o
ambasciatori gli signifi ) sè i ssº; il l ogni sll ' Illall « dal Il (). » I30.“
'ostili... dir. se, sè con gli li ri ins me essere in questa opinione.» Iyoce.
s “ Gli altri llitti, che alle tavole e rallo, illli I sienne dissero, sè elier
a quello che da Nico, uccio era sta lo risp sto). Bo.Aiess. Il dr ) gli 'e il
dè grazie del cori l to, i sè a l og: li sll, collandin - In li o di -se esser
presto. Boce.e loro, che di queste co-a lui il rili, or -: van,, strillse a
confes º - ll sè i sien: con Folco esser il la mo: del a Maddale, la colpevoli.
» I3o. “.... - e pel I i ll e le slla pit l il lill e liceva Ilo, sè aver a
Vli, o e da lei, non essere incor, di tanto tempi gri, il 1, che | i leta
potesse es e Stºre la crea llra. o loce. Questi e Quegli Si
che lo scrittore il derll, lo usa, e l'uno e l'all ', posto assoluta nell le in
senso di costui e colui. Ma non la iſo a colifortarli all'uso quanto a
mostrarlene sil vero uso e legittimo piacermi riferirne qui alcuni esempi.oru I
ond II o luotiIoluogtro vito ottimisti es lllo ollo ofunifiiu o pil minl -la.os
mlnuto un olo luou l. In ott Insi non lº oALI sold o! Il lo Ieoo.A II I tuºi-Io
v o ottussIssotti Ip ons e 1.Il 'lo s: l'impolli o lo I II Is v.ll st..ol. Il
“odſuo ul lui opeo li o outpur, ep li out optio o lo vº oppull o! Iº lº
up.uºni; ios uº.In ln. ezzotti Ip e I potti o.I | Il los. I volo “ol I pm Ilio.
I l'i: i) a luito o illu po olso outlolzilotti o esonl lo v Iloil Ip los
il I _ e ne» \:sºlº. I « opinpu u Aupututuop ou. 115amb Ip ): IR il
p to eve) op e idos il ci lop o oulo “ollomb o.: ), ond is oli otti. I l III II
e III Is l'otti o solll V Aussu. I « usolt [..) Eleti o o si ) Il “1159mio l
'esoi II) l'Ilop º oluto tuupu euro. oI tod el IIes tddl - riti ei lod otto Iss
o IIIo lº I so.I ) e il V Il 5 UI,i. S ): IIoII. 113enb Ip o Io, lui il di lui
se li ti os o II. o Il s o II is º III o II, 1132mb VIII A 1) « ott zu.Il 113
onb I 'll A ). l is tº lo 118omb e p. Io ſº i Is I V | o v N.« o in IRII ol o)
toni tu III o l on tº il 118anº il - IV l. 1: I 'l: i sanò “I I V
r) « e ſu di ni: I.I I I I Il 11;anb N N I I V l t, vi | l 'ItI A o « Us
II. t: l ' I l. ) A l: II. 18anb º il l il l: li I “I: I l l i n. I I I..I ) \
I? i.) I vi: - st, l III! - - I II -Issluti Inl o II oul o 1139mb p I ogI
sl II-nd in euro a Ion A ott fops i samb 13 anò lIl ll o III ), i. I | III F
III l st ) ) somb o-s II s l. I olti (I e ssa: Il sanò olII trOI s sono o sanò
uºi In I tºl In A III o Noll - sanò o il III: -nIossº o ollo.I costi. Il
cºlson l olloni (i i l Is soulotte etti ln)soo “lm)o. Ind Itoli o in º.oo.A o
allo l o oum. Il I I I I I I I I | 11: Il i li osso il s II II l s
ri: o II. ii l' oil. ss I.) o VI i.I o III II. I | anbuntuoo ºpttodsI.I
15 o infossils o Iod opilenlo “Il q o se ti o in ouaq els ſolluſosutti -
o Ielofuſs illionh outoo soo o illel e il pr i ] N sempre e come gli
talenta, mercè che il saperne usare a dovere è già in dizio di buon gusto, e
mostra altitudine al concepire classico, e indi lo scrivere che altri fa vago
ed ornato.Ma usarne debitamente, e voglio di e il m a casaccio, storpiandone il
senso, o il maniere e concelli orestieri che ne l comportano. Perchè dirò
della voce guari – che vale molto, assai ! III o l'opposto del francese ſuºre o
fuºri's e il di il colllllllissimi i: non ha guarì, a significare non º gran
tempo, ed è sempre precedIIIa da particella negativa - quello che di ogni
altra onde presi a rallare, che cioè il verº mezzo, il più efficace, il piu'
sicuro, di rendersene veramente padroni, è quello di leggerne e rilegge le slli
di saniell e i molli e sei ripi, e le belle maniere di uri si fa l guai. e cosi
conseguirne un rello sentire, e riconoscervelo sì come palle del disco so non
decol a lira soltanto ma ed in regrativa altresì. a.... nè stette guari
che addormi itato ill. » Bocc. 6 nè stette guari che si vider i frutti il rie-
dei loro allorazzo. » Bari. inè vi stette guari ch'egli vi le as-: i la dis, sl,
' t ) l'11 l: Il Cil l' « piglia con assai a.legra fa e a.» I ierenz..... non
istette guari a tornare. » Fie: e ilz. e...., il quale non istette guari che i
rap issò mori; o lo e.... ed essendosene entrati in cani ra, non istette guari
che il Zeppa ornò, il (Illale con le a loli n. 1 - ell: l.... » I30.ti e
credendola acqua da bere, a li ce:i postal:usi, tutta la bevve: nè a
stette guari, che il lì gl al S. ll:lo il prese e Ills- I l ltdori nell' ato.»
I30' ('. a... ll è il ro i ti elideva, che da llli (ssere richiesta: il che non
guari « stette che avvenire; ed irisieli le fil rollo ed il ti: i Volta e l all
'a.» I30 ('. «.... di paese non guari al suo lo litri:). » I3:1
l'I. a Ella non fu guari con Gualtieri di mcrata, che la ingr i vidò, ed
al tempo « I rarº ori. » Bocc. « Il quale non durò guari che, lavorando
la povere, a costili venne un « sollllo sllbito e fiero llella testa. » I 3,
c. e Si mi isero in via nè guari più d'un miglio ſull'olio al 1 la i
clie....» Bart. e.... novella non guari meno di pericoli in se.. ll I e
nel II e che la narrata e di I.allretti. » I30. « Dopo non guari di
spazio,.... » Fier. «.... nè guari tempo passò.... » I3. a Fermila lire
e, se tul il terrai guari in bocca, e gli ti gli asterà quelli che : oli
dallalo. o 6, Bocc. « Essendo essi non guari sopra Majolica, seni l'ono, la
nave sdrucire. » lo c.Note alla voce Guari (- Nola II sto In lo
leggiadro del I occaccio e suoi valenti imi il li: non isl le quali i clie....
per dire: non andò a lungo; non l' Iss po; e indi a I l in iſo, ecc. iti
- l' illo dei litri casi nei quali la voce guari non è a governo di ll () ll t
) Il t '. N/1 c r ) ci ci li del non lo al mondo aggiunto ad altra
voce qualsiasi, non le " "lilli ºli il III si p. I livi, è a nella
livo e intensivo della stessa, " Sºlº sºlº sºpra all'allo, incomparabile,
qual che si voglia minimo,; il t N.Nll) l ('C'. \li gli esempi soli si
chiari ed i maestri di ogni età si autorevoli che rebbe superi il rallenervici
a lungo, e discorrerne più che tanto. ºsserva l'ºl di II lire qualche cosa, a
come l'occaccio, per esprimere il mirino, ed anche a singolarità e superiorità
assoluta di oggetto o sa (ITalsiasi id per asse con più forza e più garbo che
non farebbe un illi a V cc, la II lillici a: con persona.... del mondo, e come
quel gran il lacsl lo i pera di lingua, che è l'eloquenlissimo 13artoli quasi
lette l'alleli e lo imitasse: lo come a 13 ccaccio, a Fiorenzuola, per tacere
di il ri molli, si possero i loro i nodi superalivi: punto del mondo, senza una
la licet (tl mondo, alla maggior ottico del mondo, e va dicendo – il lilali
alla lelleria dal Villellissillo (esal I. Senl e al lillo del l rall cese
non le, in: le moins du monde, e simili. Ala non sarelli, sì vigliacchi di
gridare per i lesi o al gallicismo: o lon dovremmo dire più lº slo cle
toscanismi si illi, i nodi di I.inguadoca che i li oscilli si rass lirigliani?
a.... e 1 litto in se ined sillo si rodea, lo l tell lo del barattiero cosa del
mondo l'all ('., l 3o t.a.... perchè Ferondo se stesso e la su i donna cominciò
a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.... l 3, c.E quantunque in
contrario avesse della vita di lei il dito buccinare, per cosa del mondo lol
Vole: i creilere. » l3.benchè i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a
palagio.» I3'll [.« Cominciò ad avere di lui il più bel tempo del mondo con sue
novelle.» 3 ('.« Costei è una bella giovane, ed è qui, che niuna persona
del mondo il « Sa.» I30 (('.a Io gli ho ragionato di voi e vuolvi il meglio del
mondo.» Dart. a Alla maggior fatica del mondo, l'otta la calca là
pervennero dove...» Dori'. a Punto del mondo non potea posare nè di, li è noli
e.» Fior«.... perciocchè io ebbi già un Ilio virillo, che al maggior torto del
mondo, non facea al ro che batter la moglie, sì che.....a presero il volo e le
l: Inen:I rollo senza una fatica al mondo.» Fier. a se li Inangio senza una
discrezione al limondo, o Fier, » I30 ('. a gente che vuol conseguir
la salute senza pigliarsi però un incomodo ill Inoli dC). » Seg Il. «
Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, si rabbuffato e lnal con
o com'era. » Fier. « Lo spirito di l)io il Irava si fortemente in quei
pii affetti, e con ſale unzione il saziava di sè, che alla maggior fatica del
mondo egli potea scol pir le parole e venirne al filo., Cesari. ſr
L'Opinione giornale, con la stessa serenita olimpica con cui sentenzia che il
quart'alto della Cecilia è il pitt bel quar alto del teatro moderno, senza un
riguardo al mondo a Cluel poveri drali li i clia il: i no I re a 1 | i soli,
SIIIeltisce a Ilo izia. » Il Fanfulla del 1875. !)!) Note alla voce
Mondo 99 – Leggeva allora il Fanfulla, solo per amor della lingua di quel
giornale, che è buona, non bastarda come quella di molli al ri. | N T E R
M E Z Z O l)ETTI Sl:NTENZIE - - Bene è vero che così lo studio di cer ti
detti e sentenze come anche la Retorica sono ben altra cosa delle intrinseche
dovizie, degli scandagli linguistici di questa nuova palestra, ma avuto
riguardo all'assetto singolarissimo di alcuni effati che, stu diando negli
autori classici, più mi ferirono, e che non sono così ge nerici e acconci ad
ogni linguaggio, come sono ad esempio le così dette figure retoriche, che non siano
anche particolarità italiana e inerenti al carattere e alla natura della lingua
italiana, non mi pare iuor di luogo di compiere l'opera e mettere qui alcuni di
questi modi che, se con metafora, hanno anche nome di gerghi e proverbi.
l t. N. 1 l il miº cl. ii e il ct mi al buio. l ' e' l lo sa il n 1 uct I
tuolo li l'. I l ' il mio cºnci li elolco'. Iº - appropria lo a uno che
iene del semi I lice. l'ut I lo i colle si sle la Nesla, allico sll
lllllelo la misura. Slc re e il m li se li diglllllare, Vlcºl l'1
si in capo l'alcolaio gli ribizzare, fantasticare. l'atl e il III milita
in all 'cati si im sul qual mquam – darsi aria d'im li. l. I cºllo l'e'
in sul quat mi qua mi - col ridicola gl avità. Spacciati e il quinque mi
voler farsi lenere il gran fallo, \ 'il tr le cellula ne alla les la
Scilli si allera o da qualche impressio il 1, di dispei lo d'ali re ecc.
li mpri e la scopa l si a Vila disonesla. lo son litigliato a questa
misura Ambra - esser fatto così, di que s Iella la luna. lisse'r la Ilio
lo bene o male, l'irla pºi punta di lo) chella con grande
affelazione, l'aitre e gracchiare come i cani e ranocchi alla luna. Giub.
– gri di I e il Vallo. Trorarsi nelle secche a gola. Caro - esser
povero. Mºller l'ali - a Tre Iarsi.Alzar le corna – il super bile. Restare
sull'a mm allona lo – l'Illia nel poveri. - Stare in Apolline – Irlangiare
lautamente inodo di lire del valo da una stanza dedicata ad Apolline in
cirl Lllo lillº laceva la illissili le celle. Mangiare a ballisca i put -
maligiare i piedi, il II elli. Esser al coniile mini – il punto d. Il 1 l le. l
scire il jislolo da dosso tl i no 13 i. logiici si da il lalso sci
spetto, cessare di ang. Isi il gli ill li li il l i gilli il I, si spelli gri
si ecc. E nodo basso. (i li fanno afa i beccalichi e gli pizzo no i li, i
i lati in to fai il l ll - calo, il fastidioso delle cose pit s ti Isile.
\ on Nat per cli Nº – Il ciglio del volgari esser li li (li si. Esser
nell'ol o di gola –- riccone, ricco di rili. Esser innanzi con uno --
essergli il gri 7, i vi Vlesser Al dighieri fu gi al ci ladino e molto innanzi
con il tessel (i: Viscolli Saccl. e Fui figlill il di illi: i giallole e
gelilli. I l lale e' il molto in mani si coll’ili per il I e. (a V. Torsi
giù dal pensiero di fare... (o mi mettersi a... lasciò il cilli ri ma mi
'lendosi di I Dio e alla sua provvi le 12:1..... Civ. ('ori e re boll len
clo e II lilo cli, le legi, i l. ri ci, i Nº but I lemulo. I)av. Sillili: ballo
e il gri sil. lo, il lersela. Esser in pie' e plando (alba era in piè
lenne la col ſole. l)av. 1 rer l'alli più grandi clel nido illa / I s; l'
Iss: li si illa col Cli/i 'le il cili si riac | Ie. l'ut I e il loro o di
ll (mc (l ci lidi ri. il II e il I l: cos: 1. (iel I al I e il m (t mica,
clic'I l o lut No il re i v. l il li Is I l iss. aggi. Il gel (lalli al clarin.
Mellere il pel bianco –- e il III la mia vi: il l' ii a V messo il pel bianco.
13arl. Pagare di moneta senza comio spacciar Iole. I, Ils, I)alle e
il 1 l e I3 ccaccio rili lo II e la loro e i lli li li Il selli Vallo si
illl'allino che spesso ne fa les r, il III: Iggio elica li col l mali e il del
sl1, clile. Tener a piuolo (inf. tenere. l otre all rili il lettino
ſalgli il lates l' 1 all ss. Promelter Itoma e Toma – più di ciò che si
può ottenei e la mit le tel'. è luogo almeno. 1 mln usdtrº uno
indovinarlo, conoscerlo per quel che è. Fotr uno scilo m (l parlare a
lungo per indurre alcun a la c o non ſi l'e. Scoprir paese. Ma il 1/.
veli al chiaro di talche cosa. ('a calcare la capra in rerso il climo. I3
cc. Irovarsi in pericolo di i l'l': l ', l ' ('. I malati sºnº col
cºlei ci ſoio. I3 cc, palli fischiandosele.– fog -- 'l): - ol,l DS. l.los
1)llop ).Im. I “ollllooo oscio o il telos Oosol limp o idol pl Ivan,
'oooº I 'º elodlid oolIdillos Ip: l'ol e ope, too util plo) lo m olmpoli low up
Au - In) on upl ls not o lo l cofi, li o plo) ul. D o plot lo. ol soli. ll u n
t pel lº lodo ! Il.I |llº, letto.Ils lod o luo5t. Il to All I lod ollo
Ato. ll still s'o.Il... [Illel ore -II All.) Iloio; il 2.It I.) II.Il lod
o letto iu'. Ooli llli lo l opoli ll o, p. 1,:los.lop 5 º ) - ol. I ti ll)
1)(l. p) ll. 1) / S (p lo ) Spp uo.Iopul) olp lo) lo! I top oſ) p I loI – l.ool
o l. Il ll o l.oo, o o l o I: 0.I |llº, olt IIS - olto, o l. Ill) ll ſi o p. ll
l l ll olios o I Il d lºs o I o II ): ossopu o il n. 1: s ).Ill).Iod o
O)tºllo..)Il 0 [.lli | Il so,oll) ol, o ol. l p ou puo ul l tool pd l olltilt
il.lol - D) ll plcl. ) ol I.... ll N o Illy) li ll lo) lo IV lUI.).llº A (OIis
Ol.top Is p Il l: sl) Ios il l o Il 7,top II (ls -l.I O ).IopUIodsl. I lli
Iloit...... Ip (o.lios III. Il l.Il vi:.). I.).I.).) olt: Il II “olon.A ottenb
Oulla pu o.llp o Il sºl l: Il 15 IS ) pl I.), m il plli) opos I DIS
o]llottle Illllio II o III o III: VI.Il Dl I.), p il 1. ll I – Dll.).))) ll
plli) ledttii: s.l Il pl.. p il plp pso.o ol.) i pm b l l), I l'Iss) I
|.).)ol|.) In I e o luouletin).Iodi III oli ell. Ilos ll mi pm ossopp o Ispº)
ll o p.l.loS pNN Il l)llo li lop il pil ll I Dsl (). I plo l pm N ))) I m, 0. I
opomp l.) o, op o un ddl n. 1 p.).)o l “od.Ion Il solº tu e otto Issolo. Il le
i ti ).Il 1. l is lº) io. I p. 1) I p.ll.I. elu.II).I e o Ioli: mlpo il pil 1)
l.I lo.tpllo3m ) ) ). ell.In letti e sulle op ten. lº ziios l: 1: lsi I l:, I 5
o II. I | | | | | | Isenb oso.) ol lº)lo.I e rozzo.Id | V: o il II o I pil V ol
I., p. 1) 1) ll il d.ll' I pl uopo, il plss..... ) I pu to.I o | Ioli -o
AIIo,oul IIIfo e opotuli o luo.Id lo ve lo io l I l spl I lil Los ei
leitilissi: prºo Impoutuo o senb epito o on I e II li.tel li olo il 1 l.... ll
o.lo) lo IV popd ns addez ellop step (lo). )))) il dl Nill o 1 pllo.). l e \ vi
s o I e II º I - ºlns Il pl ſild ou. m. p I Isti, d (Ioli.I l o Io te stili npd
a IA QIo III “o.I lº IIaq lp Isl: le... ! I pun'I plio il pls ns il loI 'Ioi l
occod ll o no) in olon. I loro l out o n pm olto toll I pm.op..) un supp
loſioli os– uodlo)s upſilo N uomo io) ) – pnbon, p. ll lº un il dl pliol - - u,
li updsfiniid uop lo) un molosſ) olci - lon) li supi il oi p. ll ' ºllº IV op)
o il lou pm b.o) l i plso. I p.olpo i pl o od uto) ll oi pl). ſuo tolto a sp IV
pun uoldo II - orodns ll Po o in l ' loI lod oliſmo lo pnh.o o lo) lo
IVmlnpoolpo Intti epp An – mumpm10 in p.l lod ()) lo Il ll ).I.) p.l.' I
oITuttI III ottonlaAu ozuos o InluoAAu In II.Iossº a Ip – mlmſ illolo, il sºlº
! "l.l (uoſ Dil pup)s.to.A up loſium IV) - m) lolloq Dl pudos
ollo,lto. ll to, l' (uobollſ lnplV sul u Il uoqnm.L uo uo) p.t lo 0 olp
csmp 10 nml 0 1GI) – Dl-lod D p.). oil o oufi pspl ol implodsy tuorlos
dou).top!) tunc MoogI uo(I) – 0dnl ll plp.tmnſ ul paoood pl oam (I o.It: Iso –
onbop onp m. i tm)S vo) lo I l Iolu.lnu 'ltoſi lotti lob.to IV) –
o.pso.to pºllo,l o I.) olli), D.) Dlfium IV oiltiºp o eso(Is Uztlos o.IO.I.Io o
oli; io -tu! oil.olenb tºp Islu.loqll – mſn.o pllop ollo. ll tod ouapssmd
o outlos. l mld (lm):) A o Iedd e osi lo I o lui ottio 5.It: III los IIIl
regolº (Ideos e un “o5 old I un o.In.Ao.I | – plo) o ſi o l.olmnb tod ll
sn plo/v. ſi pl tm no. L i lums millim. ſi otto op Is tr.lo.) Iº puoti in
ſqu;Il pells optIo:o.Io s.It:puntuonº.oe.I o II.) o sol) I d o III. I tessed
Iod o. Il -opze.Ilslp lod Isoo Ilopulº)) eai luus lop o Id e out s Iseill):
1.I.ood I.If I “esInI?lo Id utin lp e.I srl III o II: I –.ooo I o in l
uld lp olio lpold l I m/) p.1:).ooo! I ouolfim. plums lp o un atollm:I'ouoizu:
un lp Is.Il luod – ottenso) osta Iop – oli luod und ll amfium IV ro5.Ioi
ole; o Inº Ilop osuos ll lpitI i lo! lo Io lop olzl.it: A1: os Izi Il sod o Iop
e Iru.lo Iui ol. -It! - l oro,oo! I II e il III | Io e Aol 5 o [ tt. Ieri lo
tel o - o.topro. of I lu um, -ol!) S ll plc) ſi mºllop plumnl muon pun uo.
luput al lm Il m lou ſi )lo I l soIAtop lollipº I o il lossl.AA) - Iſſ.Il lº
oil.oul e In.).ooo,oº o].Io.. n...Iosso titill l'Ilodes - ppo. pl uali olo,amp
ll o, op todps – outp) todms 'oliloti in lito – o.Il D opup.oul.Ilm mosul pl
oulo. o impul loInbul “os III e IIIs a 5II o Im)um. pl/m opII, sotto lo v o 5 e
I º plo) tnam.L - I topi.oon o o oddº. Io ottes.I:II.Ipaduti.Iopulo. In “of.In
loIII: Ip o Ill.ols Ozzotti II (IIII!) “o.It:) (p lo) um. m / mons ml opuo.oos
ouons ll lao.Il II5 (lo olim on.ipenlis e III.Id nei rioti o Iſo.).on Ip e li s
III3o Iod. I -Io(ſti IIA o noso etI - plo) una pl ons pl opuo.o, is ouons ll o
un pm im o il (InIr) e ions IoIIII.oti Iq.lodins l oil.i ſi lod pu nu aºasi il
Iollos ICI Iso:) o o Io od oris III olio.Ar - o unopm ofli ſi lod i puo IV i
trie.Io Ifr I 5o. elos-.InI e o.non ſi ton eso.Il l'Iionſ la vi: - l I.),ol.)
o, 1 m.)lum il tonº to, l' I.).Il V e lipo.oo ll ſi opt odm ou up il lun.olui !:..Ip
Ions Is II-latile.Il l I op e III ed otti).I ve IIoII o II o o olni sotto, oi i
s.I. I o I.Ialoni ti:III a oIodde.Il l oilo o Ie.Il sotit.Iod » – i loro lºſ
oliodm ouum lui.nu. I ouolfin.I n.Il.Iod o orifi-osICI o II love II li Io I o o
lo IosnoLI a Io ns i 5o II.) eso.o Ip ol.I.) Io RI... ] I III o Ip Iso.
Il n o In.oso) opo III I – oliſm) l p los lop. () il 0.1 O) ſpi o N. I.IRSI Ind
e J a o o-neidsip o II lºso. lei in oso III IoAn – onl.).oo tollou o ond pum o.
p. lug oosn IIIIIIo I. - a.Teit v -o oltratuo.IoluI e III o IIIIp mld a
IIIqm IositiI nid IzIA Iop o In mezIo opleIII “Iuotze.IouI.Iotti
IlunoIptII Ipo IV » – ddl I on.o o mlfm) o lo pnfull pun a.taa V – III.Io:I –
RIssoII o oli I.) e ossopp ouogo mi fi li “ou upd ll tml ſip.I Izzotti In
olnsuod Io Am mzttas nsa.IdIIII In e Is.Inpſ IIn – noo! I rollo osul ruos polmſ
ul tolla IV IIIo o Iop o Iaisund IsInp nziros editrua o estInIII Iulo Ip
-– o opms lou odm o lo o imbum IVIpa e ansa – poi gere occasione – ansa lett. è
maniglia, nel figurato appicco, pretesto. Arei mantello a ogni
acqua – esser pronto al bene e al male, accu In dal si a togli 'osta.
Arriluppar l rasche e riole – inventa e se lalse. Mentre il rasli ello -
predare, saccheggiare. Gianl). Super di barcamenare – essere ac orto e destro
nel condurre i negozi. Mangiare a bertolotto - senza darsi briga o pensiero di
dover poi pagare. Il langiare a lla ecc.I?accoglie e i biocc. - ascoltare gli
all rili discorsi per poi rappol largli - da bloccolo, particella di lana
spiccata dal vello. iellar la broda adosso ad uno – Il colpa l'e. lºom per la
cuccu ma li portuliare, alloial e. l?idere agli angeli - l idel e per chè i
dolo gii all'1. l?idere sol lo rºm li o le ba)) sori dere di nascosº o con
gioia li ali ziosa di cosa che ad all ', oli sia pia ere nè oliole e che
palesa la tollell (le l'el)))e. l'issi pissi ciò al lavato i pissi pissi
d' A Iglisla. l)av. v Vo I rinata dallo sl repllo che l'anno e labbra di chi
lavella piano perchè: il l 'i ll ll sell la. l)a V. ('olo il c un disegno
ed egli lon dal lido si sta al lina o indugio ai colorire il disegno suo.
(ilan, b.: effel! lla e ſulello che si era progettato. (''rcati e ai
ſalula di ſalula V g. della verilà lorse da Fallen, piega – scandagliare,
investigail e, indagare. (''rc at ) e della Notn il dl rivolse ogni diligenza
sua e dei medici suoi di cercati e della sanità ». l al. l'utre un laccio
ſolise di 'as dei l si compulo all'ingrosso, slagliare il ci lil, al
tribuire al lavoreccio, un valore così in massa senza calcolare per la inintità
a ragion di elipo e ti tanti è, fai tutto un moni.lasciar alcuno sul latº
metico v. g. di andar cercando... I3oce. I)ire a sor do.... ma se li la cavi di
dosso io non li con i radico. Non disse a sordo, che di subito codesto povero
gli cavò la tunica di «dosso ». Fiorelll. Prendere, pigliare, cercar
lingua di...... Qllesli andò e cercando lins gua di lui nella cillà....... »
Bari. « Poscia mandalo da ogni parte a prender lingua del vero ». I3arl.Fare
del buon compagno - fare bus na compagnia. IIo l'alto tanto del buon compagno,
che ini gli ho guadagna i fulli o. CaroFa alti ui tornar sulla testa la loro la
mei e le Isar I. - farla paga ('il l'il.Guardare, ridere sollecchi – di
soppiatſo, alla sfuggita ecc. (V on der Stºile (tm) schielem Valo sbirciaro
).Scaponire - vincere l'altrui ostinazione. Dal pronominale incaponir si,
osſimarsi in mºdo duro e goffo.Sgarare – le I. vincer la gara è affine a
scaponire, nella frase sgarare un ragazzo, vincere cioè a forza un suo
capriccio. Non lo scam biare con sgarrare. (V. Errare - Pronſ). Sentire del
guercio, sentir di scomo –- V. Sentire.'A1'CI 't Old nu duu! OIoolpI.1 'BI
(los!p [u optioutod) w' los to Ossip o 'ozzl?IOdoºl H » - UZZou Ip u!A Q.
o 110u 'ou JIt', o outu, o – los o ossm () ' 'I.).»r's P.) 12“IU10! (l)ou?uu0s
O! (Iool2CI It: 'U.111]utoA tº II u – 1)oot.) m.)so nu m d.tv.).0n1; ) 'o
IOIl.A IS JAOI) vr] [toUUlt'.lo(III uu?put! - 1) tilll!), m.) 1)/.).t.) 1.to.)S
'ou01Zu? Iop1st 10.) t'ZUIJS - 0.o0.1.).) op iſ.).Jo V '. D.)« » v, IBloJJIds
'd III) tºp tºt! Is to t's Is oilo o] |n) up - opont) tot 1 m/oy.).yoſis '001
un) nu 1 op 11.)sm -- Izzo.I III III Isr).»! 0.10||otils!D - - loud, op -
Ool/l), los o//mſ lp orum.omputorit ºp ty.)s ) 'old UU10 |su (I - Oulu pm
! tto.1 dl 11) 1.).), do. t/S : 9IUA 'old U]SI115513.1 al.IU! 15u11:55 U.u
oIJ U uit: Ids -- O.tn)so.)./l 1 v.10.1/12/ 'o1.IU UIoo tº los.IUUI5 Upt?Inn -
DSO.) Dun gs.tv.)./of/ '.I)! I 'Or]UJUI - putd] !! ) () [qtis 'out I tºp ! 11.1
| 11: o.11: oo. I - Out of tºub 12 1//s,ºf mun t mel 'OssOpt: " ) 1 ]sorbt
u| | | |5.11:J 'ou!]1: | | | |11. | |lt: o.11:D - OUIL1. »It! |'t! ONN op D !
uit 1)(l ! ) to/ju1.1/S 0.1 n itt l!, 01.)sn,l D.1/ ).to/jult/N 'ZL11? IV
't PZ -11,0.1.11.). O ! | 150 l 1! ) | | | | | | | | | | | | |ollo Z) |O 14 l
12t II 1.1) | 115. | | | | | | | | | |s. Lopo V | 911 01.10.11: | |Ilso 'Oum
lll lll Cºlo/s.) 'tt |! o III) lous Is, 111.) 'out? Ao A1 o II.)
o.lolpIto.) - 1:] oII. 12u011 | 0.11.11: o III 1.) [1: " 1:ssop:(te
) 0111) til lll (7/0)N.) til ll 1.)," ) Boſn.I 1: ).to | | III II) (silos
II! 0.) -)))N ll o.1 l/1) 1:|ON |l 12% | | |1.1 ||1: o.IJ.Al? | | |) -
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'ſ al l ' ().II.'s 11.11 » II tºt 11op (9.11p 1112111 ºp tot 12 (11: 111 ºp: 1:
Ao. Ip 1 o/m.to it, fi /.nl ). 1) 1.).)nds II,7 o | » -10 A ollllll tern Ill
Vios tº \"An IIFo, t] too.” Ip 0115os! | 1 o Amº o.112.1 solid 1: Aolo.A »
UIou oq.todns o]tiotulp.In 112u trio otl) 115 pal n i1.10 | '',,IL1 | 1: is
110II 1: Is -sor op Kotlon III o In Lied rºtti III?looſ) 11:d 11: Oslo.'s!) |.
o IoTIII | |sol Istolov rºzilos Is Irºn LICIs op: \ » - t/m 1.) nofi
ol)ns in/s o In tomtof jod o I nl.) mods ', ' II, rs.It?,II). » 12ZI I. »s 't
II II !! A visso, 1110.) ost).), 'I l ºp 11 f: [1: I. st: 1) u! iſ.) p/lp
non I.nl ), 11 pun inlosm'I fjm/nl)S nu out. Inm noſ.nl / lo,n Z – 0,7 ml
min 1) 10 l/10/0) dºn)' dat dpild tal 'nfin. 1.)s omp o omſifi.nl, un 1m
/ 'l.In: 4 | 't OLIII » -oji I n Ilsnq oilo oIodus onnºl oil tot 1 ol ozilot
lop oIsº IIImºl orn: \ oIlonb Ip » nºu, IJ.).on III u?I nl)n1 m.tto) m
osso1)oni o IptºcI ('lul'S II rtloulon.In IIIIIssIntlood » Ip 1: 1.) tºol IJ0
te]II nrub II (),). ) IIIoI5n.I opIes lp '127 IOJ lenb IIO.) I() » 'I InfoS 't
Olso] -ord ooit Is pito) m 1a io)jou oIdus oI - o - o Ioll nſ|(In: - 10.1 lol
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Illaptto.) olttotill litio. I tºp - lo sl m puo.).opſ o un m oldm.o.).l ma l
(IIII!)o.Ioppi lp elli. A olo.A: o od il plli ll o).olo, lo o ollo. Il rolli Ip
oieA Iosso - tel.In I: o lui o li tºp - O.It:) o un.olm p o lui olfi ll o.tolo
V so ) (put.to, ll p.ll.osn ottetto) otI. Il tal. Il tº I otto. Isl: Ill o. I
Is - bol oIloo tepul: Il 0.1 [ulos lui, o tu As o le volp lº lll.lo.llol).ll.)N
) quel!)..I RUIos Ilºp ou lost. prº.soood o oloA | otteAopuol o le los ti
otitº.All. Iuºl, vi: II.os I e zz -UIG.Ii eulº tuo.I tº I o II.it I col
eztloloIA:l 55o o II. I ll pp l Il pm.os. I tolti “ouolzuºu e un ostello e
Aoi.Iod otto sou.lº 1: tos Il 15o lo os oil. I l -Uuoso Iliou ol! UIoS oleo,
ill. Il II si ulltiltos o il tri.I potti il 15 III e III. ll: as op.Iool.I tioN
o Ido. Ito. Ip oi lotti:p o.I I I I II, I l o I, lun. 'N Al (I It:p los Iop
751.I. ile lugds up o A.Ied il 5 pp.to, plus p.).oo. pl o ibIII p opup Is e III
Is o o..ot: -) e,l o.IeIddo,os Iod II ll losso - foltº.I s o II il 1 olt: \ l:
p.lo. Iº | 12.I | | | | Il trooo.I] e [op o A n.) Il teo.oul º u.).ooo, pp.to,
ºlns ul p.). o, pl o il S “.),oo! | Iliº AI.Iolo. I Is tº I., l:.........“olons
n olons o I veti olioti opzitelli. Io li oi oil I II Is oillo. Io vi: pt. Il'eAlls
(ossoI) ollo il Il po o l?.I s S olo ns m, lo s. l'Aopo.I.) Is o [.) o[[onl) Ip
(I. 1.I luo. Iº o II la V A: l I. A 1:(l.) lp Qss pd o ICI: onb.me l o lo us.
Il No SN1). I -.). Il re I Il lp 1, 1, do il I so ). l. (l -oud ul o e lied
n.Io Illn e o intito. Il viso | | | | ol i do tal ul A l:(:s-oo e o.Iluo.o
tutti i lopuloid lp muli, uo. Il pi is ulloII I llllº solo.Id I o Is.Imp.Io.. e
o III o VII. il 1) il fi. ll o il l eso.o e o Ao.ol. oil. I l o A Il 5 o il -
vi III i -tito) Ip o Iniel Ip miss, loolII. Il. Is.I tºp IO.), lº ol n.),
uo, pl) lim) I l / es.) Il fo: III | o elle ol; poi li osto. Noi i pl in
I o.lui iuta il tºp.Io vu: toll o l..).l. o loo.l.) I l I o II
lotti o I e II li. mld II l.lo I i v. ri II: I pn: I I I I I Il il tul.). Il vl'Ifo
II: ool.IntIo5 outot a o,opo – olº.Iotti: lui o Iosso pri uop uo, o, pil
ll.. l oliºfolli: lo ol o elusi o II (1 ptt pil “eIollo.II on.A mlnq –
oſinod III e II o riſpºl u ntlmi il miº ll, i NN, i ll l all I toulos
popu o top li V – pu u m. pl tolo. Il ml), l ' Ill) Il ll I m sl IV
(uopolosa oa si ſomus.o!) I. (I pillso i tm l lo o psso l'on. 'I l I.)
ſuoqmaſoo run II tap ) foll pdl – ma lo u VI top / SI. IN DCI - -und ll
mys unb: osodsII el'uoloA elis e o Infioso e vo vop Is otto. Il 5 l.lo il
po “Ipnos Ip op IISIui Iod olose oilo elodi:).II In lui: oddo l II ale.II Ionb
e olinqII 'u ottIssluſo un ollo II ), - o lund ll o Ippo) ln () arou alloo
olmuuaſi l' opumnh (n.IlIn Iin Io o olibri.nlm.nl) nso.) oa pl pp m II ro.Ino o
non limp out il l pts No I.).ool. o.tplli o .IoI I II.).I l? \.I - «I –
pose II III opud Ip – otInoso) opoIV – ouol)fillo.mſ ul ott 1 V p
impos 'vllob.ll, il ll Dul Ssn il lolill L uo(I) o lo pſipd D.lluo
o.topm,tollmut pulu. ll.) looo.) o lito.t.too losso noti i plimd lp opuol losso
lou I milſild l) il dſ II o Il pl) il 5 il ril oi lotti lop plAtº t.I
sotu ! ! Io l: - olso.it) o toplſ llli uou opolds llo.ool o lo opm ſi pull Dl
Ippll llſ lou o tolto. llo.ool o lo upo ) Izzo!) o tool -ms ll o oli uos
lp di qll ollllll lp od too ul pllio, ll plotto, un uld lp l loll (I lo
Spºl uo il lun. I tu n = bupl os I loli fini M to(I, 'odulo. ls oillſ plm o lo
pnbop,l lod o lo tol ma o um,l lo! I lons,oo Ilſi o llllllls,o. lllullS
lo! I Dl.ol)lli p.t.to) m opp.lli ons ll li o l.) e olsn ſi pl, m. l opm. I m/s
opuolod l 1 ) Iollfill, l.lo. I l II), noſ) | I l N.1 o V, D.ln / uo, plm tl
pl.).om.) m. n.) Duom:I o l.los D. l Il p.) od tuoi olto i ton.) A eCI ) un
lato i po.t o, ul, olpm Is u. I (- Il n.ll l uo il lo)) SNI)| Dp Isl 1
I.)lli S I lil souloI Nm \\ - l 10 pl pluſ ml luo).om.I.L) - di pls lospl oa mi
ps lou l I,) lo Iel lli),l o l.lo.) o I molfin. pl Dz.iol pl o il to, Atº
(l o utild lo, “ollo) Il D.l ol li Out o l)ssol l)lloli o topi). l) o. pplli)
0.ool.) ll opo, l I, A 'CI olfils to.) o I.) olod il l lulti ou up I l) li p.to
il filºl!)o lotto) oil. Il 1 | Iloil polo lui) li o) p.) Il to il l.s lou lons
ll pot l oi l I, ) ufos ll put o lon. ll piu ! I, 'oli.I e le lotti e liti tetti
o I. pl ſi fiou.tp.) mlfi fio) sof l I, oliuls l.ol pol I ssop osso lo po. I
u.osso M oum. ll u lp o o upd lllllll pol lt lo l mm.it/ ol). 1. ll l / D
I SI onl:) Nm p... W i tons ) un I.iol 1 m. pl/mq uoq loss o o d Il 5 o
II o II.oni, ons lop Ile ond o Intini - l I..)oufi mi spºt pms pl).op i pl Qnd
un ufi () epº.I s I.).ol. II. o II. olio Alio. es. otI.), tºnfi le id o
Ie Ip e lo IIIIIII.I Iloil III o o lu mſ plº (lm ollo, lo pſ lou l I, puo il m
ollo il pilo.) p.). Dallon, o l.) Ollon h o, o la toil o lom p ll ſi o I.)
ollonh lp pp roll l I.) m.).oo) ll ſi o lo onl) ps ls uoi p.).) o il o l uop pl
pil in o I. ll I “) lugl o I][..losO Ip III) -nlillotti e Iluotti lep mln
out e tio.Ipel otrosso Joid lp o.I 'elopſ o 5o lp “m.i.a) oa l uop l.luc[.Ieq i
lutti lop e tituli lod o.Iugl - p.t.to) O.I luop mld oluti.Ioli onp sulllo alle
ol) optio.) ng » - o Imu o. I top m.llo) 0.I luo(I rooogI « allo Iod olionl
uonq un lui li ott o) ups m oampum ossOd lo IIOII otlo olopo.A o II.) » – oln.)
O.Iones li oli ed i pilo.Id – Olups o o ampu V roo nelll.) lens e lº slº.), i
ti so I ep III lº Ions I l I sè.A o II o I z-utellIA In p oil.oun po 'oion
lode. In lons illie od o Iupire ole.A o n.oI) Il n.roluntII I II..ms o epilo.o!
A nſiti nunoIl lod p) Il p o V ».).oogI pl/lo. m l), m)pum OUI.) oll) Ollion |
In AO.I] () otI.).oo!.).Iod » – p) ll. m o impuyChi ha terra ha guerra. Giamb.
Volpe recchia non teme laccio. Fier. A buon intenditor poche parole – dal
latino intelligenti pauca. Così le intelligenze equilibrate e l'ele. Ma il
tedesco pedante: Gelehrten ist gul predigen. L'inglese fa lo spiritoso: rith a
clerer one word. Al fran cese è troppo una parola: è un home d'esprit un lemi
mot. Indi l'indole (ielle nazioni.Inran si pesca se l'ago non ha esca –, W e
nicht gut schmierl, faehrt nich l ſul\ on è il più bel messo che se stesso.
Selbst isl del Mann. \ iun bene senza pene. A cine Freud oline Leid).l'aga ben
chi paga lo slo - VV e rasch giebl, giebl doppellº. \ on scherzare collo so se
non ruoi essere morso. 'Mil grossen 11erren isl nich l ſul lv il Ncl en essen.()
gni santo ruol la sua candela. Ehi e le m Eh re gebili rl). l dl ct sino al
tiro but N lom tl i ro au) cinem gl o ben I lotz gehört e in I rober A e ill)i
quel che non li cale non di nè ben nè male. W as ist nicht ucciss, match t mich
nich I heiss. Il ledesco è limigliore dell'iltiliano.Più ricino è il mio dente
che nessun parente, leder ist sich sclbst der \ aechsle Nell'italiano, senti
l'uomo coscienle della individualità del Sll 'S.Stº l'.Dopo il bere ognun lice
il suo parere. Del V e in lisl die Zunge). Pal ere e non essere si è come lila)
e e non tessere.Chi di galla nasce, so ci piglia. Dic Ralze latess das Mausen
nicht'. (cqua che la cerni mºna. (com). Menare Stille VV asser sind tie'ſ. () /
mi legno ha il suo latº lo ogni ctgio ha il suo disagio. ('hi dell'altrui
prende le sue liber là rende, ('hi ha dentro fiele non può spillar miele. Dopo
il con len lo riene il lor men lo. ('hi parla semina, chi lace, accoglie
vergogna! snellere questa sen lenza che è losſ 'a e ricullissima, e si
sliluirvi la ledesca, malerialissima: Redeli isl Silber, Schweigheli isl (i old.l
grande molle gi andi lan le ne (i rosse i bel erſo dern grosse Mittel). ('ol
mollo non sta bene, col poco si sostiene. Mi riclem hatell man (tl N, mi il
trºnig kon mi l man (tus).Morla la bestia, morto il veleno. Todle II und beiszt
nicht mehr). E' meglio esser capo di gallo che coda di leone.Non si può cantare
e portar la croce Gule Mirne zum bisen Spiel mi (tch e nº.Shºm (tco digiuno non
spregia cibo alcuno. Il un ger ist der beste Koch. Giuoco che li oppo dura, di
ren la seccatura.('hi li oppo l'assottiglia, la scarezza. Ill: uscha, i machl
schartig). Chi è bella in rista spesso dentro è Irisla. Fier (Der schinste
(piel li atl oil einem VV trim.La donna è come una castagna ch'è bella di fuori
e ha dentro la ma il magnat. l oce. I quali ino a quattrino si fa il fiorino.Le
fave nel nolaccio, il gran nel polveraccio. Dav. Chi è reo e buono è lenulo può
fare il male e non è credulo. Bocc. ('hi ha allar con Tosco non ruol esser
losco. Bocc.Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli strangulioni. Docc.
strangulione lett. è angina, infiammazione delle tonsili. Chi lava la testa
all'asino perde il ranno ed il sapone. Ciaballin rimanli al cuoio Schuster
bleil bei deinen Leislen). Mal fan coloro che voglion far l'altrui mestiere.
Fier. Qual guaina, tal coltello. Qual asino dà in parete, al licere – a chi ſe
la fa, fagliele, o se ſu non puoi, tienloli a mente linchè lui possa, acciocchè
qual asino dà in a parete la ricerca n. 13oce. Secondo la misura che lati,
misura lo sarai. Paga e di tal nome la quali furono le derra le vendulº. Q ual
proposta tal risposta. l?ender pan per focaccia - (i leiches mit (, leichem
rergellºn. Chi la la, l'aspetti. Chi altri tribola, sè non posa. Chi offende
s'offende. 1?l'overbi bellissimi, il [ichi e dell'Ilsci, «che, dice il Meini,
giovel'ob be rallimentar sempre, e più a chil' igne ha più lunghe». A
confortator non duole il capo–e dal confortare all'operare è gran (le diffel'eliza
edistanza, e dove l'uno è molto agevole, l'allro è somma Inoli o malagevolo).
Bocc. La determinazione suprema
della voce, «la
favella, cioè la
pronuncia articolata della
dialettica psichica» ('),
è il vero
fondamento dello scibile
(*), perchè concreta
sensibilmente lo sdoppiarsi
del pensiero: è «la formula e insieme lo strumento più eminente
della manifestazione spirituale»
(*). Sebbenené la favela, né la
facoltà di acquistarla siano necessariamente richieste per determinarela
posizione dell'uomo nella natura (•) il sorgere del linguaggio, è, come il
pudore, sintomo della spiritualità che nasce e si afferma. Lo studio della
linguistica che sembrerebbe poter procedere sopra un terreno libero da
qualsivoglia passione( [Introduzione alla coltura generale, pag. 141. ][Op.
cit., pag. 144. ]Prolegomeni I, pag. 367. (*) Introduzione alla Coltura
generale, pag. 121. (*) Massime e Dialoghi^ Fasc. 86, pag. 8. (•) Prolegomeni
I, pag. 368. 390 1^0 Spirito oggetiivo]
sione partigiana, invece cammina sotto vane bandiere teologiche, o in
balla del liberalismo
naturalistico o finalmente asseconda le simpatie e avversioni etniche.
«Come ogni popolo crede ed ha creduto sempre di essere il primo popolo della
terra, cosi crede ed ha creduto sempre di possedere la più perfetta di tutte le
lingue» (') opinione che naturalmente osta ad un bilanciodel contributo che
ogni idioma portò all'educazione dello spirito umano. Il problema dell'origine
delle lingue, cosi come fu posto per tanto
tempo, è assurdo, giacché «presuppone
prenato alla lingua il
pensiero, il quale mediante
essa debba riferirne l’origine. L'unica ricerca genetica che, fuori del dominio
speculativo, possa condurre a
utile risultato, è la
determinazione di un
periodo riconoscibile nelle vicende storiche, dal quale si siano
sviluppate le attuali forme linguistiche. Considerando il rapporto tra l'idea e
le primissime radici designative si capisce che detto rapporto non è idealmente
definibile, perchè è meramente naturale: è una ragione psichica immediata come
quella per la quale il riso è foneticamente altro dal lamento e significa
diversa condizione dell'anima. Ma l'idea progressivamente si emancipa dalle
forme materiali e radicali: giacché agevolmente si capisce come una radice
viva, ossia espressiva di un solo concetto determinato,patisca in questa
determinazione un impedimento alla sua dialettica e storica evoluzione; anzi,
la (*) Considerazioni ecc., pag. 12. Lo
spirito oggettivo 391 radice e l'idea si legano reciprocamente, e così l'una e
l'altra sono arrestate nel loro metamorfico svolgimento. Si
può dire che
il pensiero di
un popolo tanto
più li- beramente si svolge nella storia quanto meno
sia spiritualmente legato dalle radici vive della propria lingua, e che
reciprocamente l'inerzia dialettica conserva le radici vive come
l'attività le corrompe e spegne (').
Molta importanza ha lo studio delle lingue per la istruzione e l'educazione del
pensiero: l'uomo è tante volte uomo quante lingue conosce, giacché tale studio concerne vari modi
che rispondono ai
vari gradi del pensiero (*). Infatti
l'idioma accennò progressivamente a) a dare le forme
sensibili, 3) le intellettive, e) le concettuali(*). Quanto più il pensiero si
avvia all'espressione rigorosamente logica tanto più si libera dalle esigenze
tutte formali della lingua. «Giovanetto, sperimentai che dalla lingua è
occasionato il pensiero; più
tardi capii che la
lingua è mezzo
necessario alla sua formulazione; finalmente
concepii che la
vera forma intrinseca del pensiero non può essere
manifestata da questo
mezzo estrinseco, che
è la lingua»
(*). Il che
significa che essa, giunta
che sia di
fronte alla speculazione pura, o per dir meglio, al
sistema contemplative si esautora da sé medesima, riconoscendosi insufficiente
a esprimerlo concretamente: anzi, «la lingua
(*) Idee radicali delle discipline matematiche ed empirico-induttive.
Fasc. I e 2. (^) Introduzione alla
coltura generale, pag. 121. (*) Prolegomeni, pag. 368. (*) Massime e Dialoghi^
Fase. 18, pag. 18. 392 Lo spirito oggettivo volgare, per l’uso pratico della
vita, vuol essere studiata assai differentemente che la letteraria e la
filosofica, perocché lo scopo delle varie forme linguistiche non è menomamente
identico» C)«Anche la semplice nozione storica di un paese è assai collegata
colla conoscenza del suo idioma speciale. Narrando di un viaggio fatto
dall'eroe di uno de' suoi tanti romanzi, il Ceretti dice: «Il mio protagonista
studia vasi sopratutto di famigliarizzarsi coi
singoli idiomche erano
svariatissimi e giudicava che la nozione à\ un certo paese supponesse quella
del minuto popolo, epperciò una pratica dell'idioma locale» (*). E vedemmo che
così si comportò nei suoi viaggi egli stesso. Quanto alla
questione circa la
preminenzadel toscano sugli altri dialetti nella nostra lingua
letteraria, ecco le osservazioni, che noi riferiamo qui non perchè ci paiano
originali, ma per dimostrare, una volta di più, quale sicurezza di sguardo
avesse il Ceretti in ogni questione, che si affacciasse al suo intelletto: «La
lingua italiana possiede, come tutte le altre, il suo proprio genio
caratteristico, per il quale non può essere confusa con veruna delle lingue
romaniche. I suoi dialetti, moltissimi e svariatissimi, si distinguono fra loro
singolarmente per il loro specifico carattere, ma nessuno potrebbe sospettarli
dialetti d'una lingua altrimenti che l'italiana: questo avviene eperchè fra
tante differenze essi posseggono un caratter comune(') Memorie postunte,
Fasc.13, pag. 6. (') Itinerario di un inqualificabile, Fasc., i, pag. 14. Lo
Spirito oggettivo 393 grammaticale e lessicale; e l'unità dello spirito
italiano, nonostante le sue profonde differenze, è improntata in questo
generalissimo tipo comune dei dialetti.
Oggidì da letterati si disputa seriamente se il solo toscano sia il tipo
classico della lingua italiana, ovvero se il genio della nostra lingua, essendo sparso in vari dialetti, si debba
ecletticamente approfittare di tutti. Esporrò brevemente la mia opinione. Il
toscano è senza dubbio il più ricco, il più venusto e sopratutto, diremo, il
più prettamente italiano dei dialetti parlati nella penisola, e perciò esso è
senza dubbio il repertorio più copioso e più italiano; ma non si deve
dimenticare che la lingua parlata in Toscana, quanto-sivoglia buona, è pur
sempre un dialetto, epperciò non può essere una lingua letteraria sufficiente:
nessun popolo scrive come parla; le lingue parlate nascono e crescono nel popolo,
e contengono le mere idee del popolo; la letteraria e la scientifica sviluppano
il materiale linguistico della parlata giusta le esigenze progressive delle
lettere e delle scienze. Ora questo materiale della lingua parlata sarà tanto
più sufficiente quanto più ampiamente sarà desunto da tutti i dialetti
italiani: ognuno di essi possiede certe locuzioni così proprie all'idea, quali
non sono specificamente possedute da verun altro. Di queste precellenze
particolari la lingua delle lettere e della scienza deve liberamente
approfittare e non immiserirsi nell'idioma locale d'una provincia. Seguitiamo
il buon esempio del grande Alighieri,che, quantunque toscano, esordì
a scrivere la sua Commedia non nell'idioma toscano, ma in una lingua
veramente italiana. 394 ^ Spirito oggettivo.Molte forme grammaticali e lessiche
sono riducibili allo spirito generale della lingua italiana, talune non lo
sono: il buon criterio del letterato deve scernere quelle da queste, e, se
l'idea esige neologismi, li deve creare conformemente al genio della lingua, e
omogeneamente ai materiali idiomaticamente o letterariamente prestabiliti
nella lingua italiana.
Coll'idioma esclusivamente
toscano s'immiserisce non
solo la lingua,
ma con- seguentemente anche l'idea,
la quale trascende
le limitazionilocali e
popolari» (*). Luigi Cerebotani.
Keywords: implicature, la lingua e lo spirito d’Italia, Hegel, il Tedesco e lo
spirito della Germania. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerebotani” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688374272/in/photolist-2mKwqSL
Grice e Ceretti – PASŒLOGICES SPECIMEN -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Intra). Filosofo. Grice: “I love Ceretti; and I wish
Strawson would, too! Ceretti distinguishes three stages in the development of a
communication system. The first is very primitive, obviously, and avoids the
reference to ‘io’ and ‘tu’ as metaphysical – ‘hic’ and ‘nunc’ will do. The
second stage he says may be all that some societies need – ‘green’ for this plant
– The third stage involves the general concept of ‘plant’ and this is where a
soul-endowed entity (animal) can refer to a plant or to an animal like himself
or his companion – at this last stage, Ceretti speaks of ‘soul’ (anima), and
the affectations of the mind being what is communicated – if that’s not Griceian,
I do not know what is!” -- I suoi genitori, Pietro e da Caterina Rabbaglietti,
di condizioni agiate, lo affidarono all'insegnamento privato di ecclesiastici e
successivamente ai docenti del seminario di Arona dove si distinse per il suo
carattere refrattario ai vecchi metodi didattici e ribelle alle rigide regole
di disciplina. Quasi al termine degli studi si appassiona all'approfondimento
della lingua latina e alla composizione di poesie che lo fecero conoscere come
poeta a braccio. Frequenta come alunno esterno un collegio di gesuiti a Novara
dove risulta primo in retorica tanto che il suo maestro lo spinse a comporre la
tragedia “Il duca di Guisa” sulla base della Storia delle guerre civili di Francia
di Davila. Soggiorna successivamente a Firenze dove ebbe modo di frequentare i
membri del gabinetto Vieusseux.
Dedicatosi agli studi scientifici e storico-filologici e soprattutto a
quelli filosofici, scrisse il poemetto incompiuto Eleonora da Toledo dove dà
prova di penetrazione psicologica dei personaggi e di abile descrizione
ambientale. Nello stesso periodo compose poesia a contenuto filosofico, il
romanzo “Ultime lettere di un profugo” sul modello foscoliano, e infine le
riflessioni “Pellegrinaggio in Italia”, nate a seguito di numerosi viaggi
avventurosi per l'Europa in compagnia di zingari e vagabondi, che gli permisero
di apprendere diverse lingue. Opere queste che mostrano la singolarità del suo
mondo spirituale profondamente diverso e in contrasto con quello degli
altri. Soggiorna nella villetta "La
Chaumière", presso Chambéry, dove lavora alla “Pellegrinaggio in Italia” dato
alla stampe a Intra con lo pseudonimo di Alessandro Goreni. Trasferitosi alle
Cascine a Firenze, pubblica “La idea circa la genesi e la natura della Forza”.
Adere all'hegelismo, di cui tenta una revisione in senso soggettivistico in una
grande opera in latino, “Pasaelogices Specimen”, che non riscosse alcun
successo di pubblico. Decide quindi non pubblicare più nulla. Tuttavia continua
a comporre una grande varietà di saggi filosofici. Si dedica esclusivamente
alle meditazioni filosofiche espresse in numerose opere tra le quali i “Sogni e
favole” (Torino), le Grullerie poetiche (Torino) e le Massime e dialoghi
(Torino). La sua opera è stata pressoché
sconosciuta. Solo Gentile gli ha assegnato un ruolo di rilievo in “Le origini
della filosofia contemporanea in Italia” (‘Ceretti e la corruzione dell'hegelismo’).
A lui oggi viene riconosciuta una certa influenza sul pensiero filosofico della
scuola torinese. e sulla formazione della filosofia di Martinetti. A lui è
dedicata la Biblioteca di Verbania. Dizionario Biografico degli Italianim Piero
Martinetti Pietro Ceretti. “La natura logica di tutte le cose” e pubblicata
presso la POMBA di Torino. Gentile. Cfr. G. Colombo, La filosofia come soteriologia,
Milano, Vigorelli. Dizionario biografico
degli italiani, Opera Omnia D'Ercole, 15
voll., Torino, Vittore Alemanni, Ceretti. L'uomo, il poeta, il filosofo,
Hoepli, Pasquale D'Ercole, La filosofia della natura di Pietro Ceretti, POMBA, Giuseppe
Colombo, La filosofia come soteriologia, Vita e Pensiero, Fiorenzo Ferrari, Il
filosofo di Intra. L'idealismo di Ceretti, in Verbanus, Vigorelli, Martinetti.
La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Milano, Bruno Mondadori. L'uomo vuol essere considerato come l’ultimo frutto, ossia
il massimo sviluppo psichico dell'animalità. Questo massimo sviluppo presuppone
necessariamente i prossimi animali dello sviluppo minore, e cosi via
discorrendo. L'uomo vuol essere, inoltre, considerato come il frutto più
recente dell'albero zoologico. E qui nasce oggidi rispetto all’uomo una
contestazione circa la sua produzione immediata o derivata da’ più prossimi
animali inferiori. Questa contestazione non può ammettersi dalla speculazione,
e neppure dalle discipline naturali empirico-induttive; ma la si agita sopra un
terreno affatto estraneo a quello della speculazione, e della scibilità
empirico-induttiva, fomentata da ogni sorta di passioni, partigiana di
religiosità, di moralità, e così via. È assurdo supporre che una specie si tramuti
in una nuova specie come tale; perocchè le specie sono mere distinzioni
teoriche del nostro intelletto. La natura, come disse un sommo naturalista, non
facit saltum; e conseguentemente la distinzione caratteristica che costituisce
le specie “Homo sapiens” non risulta se non in quanto si prendono in
considerazione termini sufficientemente lontani e si trascurano i termini
intermedii. Infatti, se noi consideriamo gli animali superiori dell'albero
zoologico, nei quali le differenze ci sono più sensibilmente manifeste,
troveremo che le specie si suddividono in razze differenti fra loro sotto varii
rapporti, e che le razze si suddividono in varietà differenti, e che dette
varietà si suddividono in varii individui pur differenti fra loro. Inoltre,
troveremo che queste differenze sono a noi tanto più evidentemente manifeste
quanto più si salga alto nell'albero zoologico, ed a noi più vicina sia la
specie che si prende a considerare. La vera trasformazione della specie perciò
non si deve investigare nelle specie come tali, ma piuttosto nei minimi termini
della specie, ossia nella variazione individuale del specimen. Questa
variazione, tuttochè lentissima, modifica col volgere dei secoli le specie,
così come la conchiglia microscopica, variando la propria natura, varia il
terreno che ne risulta. Gli agenti che effettuano la suddetta progressiva variazione
sono di tre ordini, vale a dire: planetarii, psichici, e spirituali. Questi
agenti sono progressivamente tanto più efficaci quanto più si concretano nella
efficacia spirituale. L’agenti del primo ordine planetario modifica
semplicemente il corpo e l’organismo, e indirettamente, ma assai lentamente, la
facoltà istintuale. E un agente puramente planetarii, p. es., la natura del
suolo e dell'aria, ossia generalmente il clima, la condizione geografica e
topografica, e cosi via. L’agente planetario si possono chiamare elementare,
perocchè opera su tutta l'animalità senza distinzione veruna, e sono
presupposti dagli altri agenti succennati. Si può dire in tesi generale che gli
animali inferiori non subiscono modificazione se non lentissima, e molte specie
degli animali inferiori si sono spente, appunto perchè non hanno potuto subire
le modificazioni necessitate dalle progressive variazioni dell'aria e del suolo.
L’istinto delle specie animali inferiori e rigido e difficilmente modificabile,
appunto perchè e un istinti poco variato, che non puo neutralizzarsi fra se in
una ricca varietà di modificazione. L’agente del secondo ordine e psichico (e
no ‘psicologico’ ma veramente psichico), epperciò più intimo nell’organismo,
ossia più essenziale. Un agente psichico modifica l'animale nella sua intima facoltà,
ossia una attitudine, assai più facilmente e più profondamente che non gli agenti
naturali succennali. Questo secondo agente e nella sua essenzialità un maggiore
sviluppo del primo agente naturale plantario, epperciò si manifesta nella
generazione susseguente come una profonda modificazione dell’organismo e
dell’sstintualità. Questa modificazione non e più mera variazione giusta una
astratta affinità, per le quale, p. es., una facoltà diventa minore di altra
facoltà, vale a dire, si manifesta come una pura variazione quantitativa
dell’istintualità. E una modificazione profonda che diventa la proprietà
caratteristica dell'animale (un tigre che tigrizza) e qualche volta e affatto
estranea e contra-dittoria o opposta, o contraria, alla facoltà della
generazione pre-esistente. Allora si dice che una nuove specie (Homo sapiens) e
venuta all'esistenza, e la vecchia si e spenta. La facoltà psichica si modifica
sulla base di un istinto più svariato, il quale si neutralizza appunto fra loro
tanto più facilmente quanto più svariati. L’istinto dell’animali inferiore e
tanto più fermo e rigido quanto meno
molteplice e svariato. Questa modificazione causata da un fattore psichico
modifica il sistema anatomico e fisiologico, perocchè non e possibile una
modificazione psichica sulla base d'una invariabilità anatomico-fisiologica. E
una modificazione profonde, la quale, se qualche volta poco modifica l'ordine
anatomico-fisiologico sensibilmente manifesto, e però effettuata piuttosto
nell’elementi anatomico, nel così detto ordine istologico. La modificazione psichica
non spetta, come quelle generali, ad una specie o ad una razza, ma sono più
profonde modificazioni dell’organismo e della corrispettiva istintualità. Essa
rifletta piuttosto la mera individualità animale, epperciò e variabile
indefinitamente. La condizione causale di questa modificazione e data dalla
ciscostanza nella quale versa un certo individuo animale. Cosi non è solo la
varia natura geografica e topografica del suolo e dell'aria in che vive, ma anche
i varii vegetabili e animali con che vive; perocchè dette varia condizione e
sufficiente a modificare l'anima (la psiche) dell'animale. Le delle varia
circostanza costringe un certo individuo a esercitare preferibilmente una certa
facoltà psichica, e per conseguenza a svilupparle preferibilmente. Data la ricca
molteplicità e varietà della facoltà istintuale proprie della specie di “Homo
sapiens”, questa facoltà variamente si combina e si neutralizza. L’istinto cosi
neutralizzato, ossia radicalmente variato, si trasmette alla generazione
veniente; e cosi le condizioni succennate, variando l’atttudini dell’anima
individuale, preparano il terreno alla più ricca e più profonda azione del fattore
veramente spirituale. Il fattore spirituale modifica quell’attitudine che
appartene non alla specie, ma all'individuo animale, ed e un fattore che non
più modifica l'anima senziente, ma lo spirito (animus, psiche, sofflo) ideante
dell’animale. Tuttochè questo fattore, nel su concreto sviluppo, appartene allo
spirito umano, pure gli animali superiori (p. es., una scimia antropomorfa)
possegge un certo quale esercizio equivoco e parziale del suddetto fattore.
Cosi la scimia impara dalla propria osservazione, epperciò gl’individui più
vecchi sono assai più scaltri e periti dei più giovani. È questa la ragione per
la quale l’animale non solamente si aggrega ma si organizza gerarchicamente
giusta un certi statuto di un sentimento comune. È importante che un individuo
animale possa profittare della proprie osservazione; perocchè dello profitto
provoca una maggiore perizia pratica, la quale dal più vecchio è partecipata al
più giovane e trasmessa alla generazione vegnente come una dialettica della
categoria istintuale che più tardi si sviluppe in una vera mentalità. La
categoria spirituale (spiritus, animus) funziona qui come sviluppata categoria
psichica (psiche), epperciò la lingua, il linguaggio e la communicazione, nel
suo amplo uso, vera sintesi e genesi manifesta della categoria spirituale,
arriva all’esistenza come linguaggio no planetario o naturale, ma puramente
psichico; o come linguaggio equivoco o misto, ossia psichico-spirituale; o come
linguaggio assolutamente o puramente spirituale o oggettivato (communicazione
proposizionale – la logica di tutte e cose). Qui non occorre accennare al terzo
ed ultimo stadio, ossia al linguaggio puramente o assolutamente spirituale,
proprietà *esclusiva* (alla Grice) dell'uomo o Homo sapiens sapiens, ma
solamente al primo stadio (psichico) e al secondo stadio (misto) del linguaggio
che nasce e si sviluppa nell’animalità sub-umana, pre-razionale. Il fattore
caratteristico di questa crisi, ossia lo sviluppo dell’anima senziente inter-soggetiva
nella spiritualità pensante proposizionale, è manifesto piuttosto dal
linguaggio ‘muto’ o il gesto di una emozione del corpo e principalmente di
quell’emozione della fisio-nomia. Quest’emozione formula un sistema
comunicativo, in quantochè manifesta una definita emozione intima con una certa
categoria, che, non essendo destinate alla mera soprevivenza o conservazione
dello specimen o della specie, non si puo chiamare semplicemente psichica,
ovverosia istintuale. L’animale sub-umano, p. es., lussureggia per una mera
sensualità erotica – omo-erotica, come Socrate ed Alcibiade --, la quale non
può essere destinata in verun modo alla propagazione della specie dei Grecci!
Così pure due specimen giovani di animale giocano (la lotta greco-romana) colla
vivacità propria dell’età loro, la qualcosa può giovare, ma indirettamente,
all’educazione e destrezza corporale dell’individualità. Così il padre non solo
alimenta il suo figlio, ma l’educa e disciplina ad una pratica operazione
requisita dalla propria specie, locchè dimostra che l’ingenita istintualità non
puo bastare, ed abbisogna dell’ammaestramento dell’osservazione data a lui che
ha già vissuto praticamente nella vita. Il linguaggio misto, o equivoco, ossia
psichico-spirituale, è quel tale sistema di comunicazione che non consta semplicemente
di questo o quello gesto, il quale segna non solo una definita emozione
dell’animo, ma una certa anfi-bologica determinazione della ‘mente’ (mentatio,
mentare, mentire). Così, per es., il cane, alla presentazione d'una cosa che
altre volte fu nocivo, puo involuntariamente fuggire guaiolando. Il gesto segna
naturalmente la paura. Qui certo v’ha una psichica emozione provocata da una
simile cosa, ma quest’emozione del cane dev'essere legata alla *memoria* della *sensazione*
originaria, la quale memoria appunto costituisce una determinazione *equivoca*,
mista, psichica o mentale-spirituale. L’animale superiore possesse una facoltà che
incluse un svariatissimo repertorio di questo o quello segno o gesto, mediante
una modulazione combinatorial di questa equivoca determinazione. Quando l’animale
arriva definitivamente alla soggettivazione della propria coscienza, ossia al
suo “lo” distinto categoricamente dal “non-lo” (cfr. Grice, “Privazione e negazione),
entra categoricamente nella coscienza spirituale – del spirito oggetivo. Questo
passaggio costituisce la creazione o mutazione o trasmutazione o
trassustanzazione (metaeousia) dell’uomo, Homo sapiens sapiens, e solamente
questo passaggio colla propria manifestazione può segnare un soggetto umano che
puo attuare in inter-soggetivita con un altro soggeto umano. Qui l’”umanismo” si
manifesta categoricamente nel proprio caratteristico (la definita soggettivazione
del ‘ego’ come ‘ego’ e del ‘tu’ come ‘tu’), e si manifesta colla parola (parabola)
non certo col documento anatomico-fisiologico, che non puo bastare se non a
certa ampla generalità della distinzione o del genus animale. Prima di entrare
a caratterizzare questa crisi importantissima, ossia lo sviluppo dell’anima
nello spirito, dobbiamo assumere la speculazione retro-spettiva della coscienza
da un ordine uranico nel ordine planetario e nel ordine vegeto-animale. In un
ordine uranico, la coscienza procede verso un’individuazione dalla nebulosa al
cometa, al sole ed al pianeta. Il solo caratteristico essenziale dell'umanismo,
assai più caratteristico di quell’antichissima vaga definizione dell'uomo ragionevole,
animale rationale homo est, è senza dubbio la soggettivazione, e la manifestazione
di questa soggettivazione è fatta con l’inezzo spiritualmente formolato. Conformemente
a ciò, più innanzi, l’uomo (Homo sapiens sapiens) è designato anzi definito
come coscienza inter-soggettivata. Quest’individuazione, qualunque la si voglia
supporre, non può essere una soggettivazione; perocchè l'individuo (Erberto) non
si distingue dalla specie (Homo sapiens sapiens), e le varie specie dei corpi
celesti si confondono colle varie età di un solo individuo. Cosi pure,
speculando in un ordine generalissimo, una specie animale e una età
dell’animalità. Nella specie animale piu infima, l'individuo si distingue dalla
specie (una rosa piu bella dall’altra). Nella specie animale superiore, non solo lo specimen si distingue dalla
specie, ma anche il soggetto dallo specimen ė progressivamente distinto. Cosi,
p. es., il corpo di un animale consta d'innumerevoli individualità viventi aggregate
ed organizzate fra loro, le quali, svolgendosi dall’una in altra fase, costituiscono
l’organo (dell’organismo), l’apparecchio, e la funzione vitale dell’animale. Ma
la coscienza resuntiva di questo individuo vivente è nell’organismo
dell’animale concreto, e non negli animalcoli gregarii che lo costituiscono. L'animale
resuntivo della propria soggettività costituisce lo svolgimento del senso del
pensiero. Qui dobbiamo definire la distinzione del senso e del pensiero. Il
senso non può supporsi astratto dalla coscienza; perocchè in questo caso sarebbe
un senso che non sente (il senso non sente, l’animale sente), ma può supporsi
astratto dalla *co-scienza* del senso; perocchè la co-scienza e il senso
funzionano indistintamente. Finchè la co-scienza non si distingue categoricamente
dal proprio oggetto. E una co-scienza identica alla sua forma esteriore, la
quale è una sensibile esistenza. Quando però la co-scienza si distingue
categoricamente dal proprio oggetto, allora dice: “Io sono e l'oggetto è” – “Io
sono quello che sono, e l’oggetto quello che è, cioè l’ “lo” e il “non-lo” (p.
es., il tu) *siamo* due termini distinti in relazione d’intersoggetivita.
Quest’idea fondamentale che si percepisce un “lo” (pirothood) è la
soggettività; ossia, la nascita dello spirito. Nascita dello spirito e nascita
del pensiero, facendo consistere la spiritualità specialmente in questo. A conferma
di ciò, si noti, primamente, che in questo paragrafo ei vuole fare appunto la
distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel susseguente paragrafo,
parlando dei momenti dello spirito, vi accoglie il principio sensitivo non come
pura e semplice *sensazione*, ma come *sentimento*. Sulla predetta distinzione,
del resto, ritorno nei paragrafi susseguenti. Lo spirito consta di tre fasi: il
sentimento (aisthetikon), l’intelletto (noetikon) ed il concetto – il A e B –
concetto soggetto, concetto predicato). Lo spirito nel sentimento è uno spirito
immediato che poco si distingue dall’anima senziente. Ma quest’anima senziente
appartiene allo spirito, perocchè si *percepisce* soggetto (un ‘lo’). Il sentimento
consta di tre termini: l’attenzione (la risposta ad un stimolo), la memoria (il
riflesso condizionato), e l’imaginazione (la risposta ipotetica o
condizionale). La funzione più o meno complessa di questi tre termini crea la *soggettività*,
che lentamente si svolge dal sensibile nel cogitabile (co-gitatum, cogito; ergo
sum). L’attenzione deve funzionare nello spirito esordiente, e cosi lo spirito
deve *sentire* *che* il senso della natura – ossia, l’istinto -- più non gli basta.
Questo sentimento dell’insufficienza del proprio istinto l’avverte *che* necessita
osservare ed imparare la pratica della vita. E la prima funzione della
mentalità. Epperciò la lingua ariana conserva più la traccia della parentela
del concetto di “manere” e “mens” -- quasichè pensare e fermarsi, ossia il
soggeto ferma l’attenzione sopra un oggetto – che puo essere un altro soggetto
--, siano due operazioni molto affini. Veramente, tuttochè sommamente
dissomiglino queste operazioni, nella loro sensibile inanifestazione esteriore
s’identificano in un fatto comune, quello dell’arrestarsi – la risposta ad un
stimolo. La co-scienza che fissa l’attenzione sopra un oggetto (che puo essere
un altro soggetto), cerca nell’oggetto qualcosa *oltre* il sensibile immediato,
quando esso oggetto non sia la funzione di una mera sensazione immanente, ma la
funzione di una sensazione trascendente. Una seconda funzione del sentimento è
la memoria. Mediante la memoria, una sensazione o attenzione presente si può
risuscitare quando non sia più presente. La co-scienza attentiva all'oggetto
studia un oggetto esteriore ed abbisogna della presenza di esso oggetto per
osservarlo. Ma la memoria contiene e conserva in sè stessa l’oggetto osservato
(che puo essere il ‘lo’ – l’identita personale come memoria), epperciò si
costituisce in-dipendente dalla presenza del medesimo oggetto. Una terza
funzione del sentimento è la imaginazione. L'imaginazione non solo conserva l’oggetto
osservato, ma *crea* l'oggetto possibile che non ha osservato. Questa funzione
emancipa o libera la co-scienza, non solo, come la memoria, dalla presenza
dell’oggetto (s’ricorda o imagina un oggetto assente), ma anche dalla sensibile
esteriore realtà del medesimo oggetto, epperciò l’imaginazione può liberamente crearsi
una propria oggettività, alla Meinong. Questa facoltà crea non solo l’oggetto
composto (compesso combinato) di due oggetti (obble 1 e obble 2) osservati,
ossia non crea solo la mera composizione, addizione o combinazione, ma puo
creare un oggetto che non consta di questo o quello elemento osservato, ma un
oggetto radicalmente imaginario (un circolo quadrato, un numero imaginario),
tuttochè le semplici categorie dello spirito e della natura debbano
necessariamente fornire all’imaginazione se stesse per possibilitare questa
creazione imaginativa o predittiva. Il passaggio dalla coscienza senziente alla
cogitante, ossia dalla bestia all’uomo, è pure una progressiva distinzione
della co-scienza in soggettiva ed intersoggetiva. Qui la distinzione de
soggetivita e intersoggetivita è una mera distinzione generale dell'”io” dal
“non-io” (il ‘tu’). L’ “io” si suppone vivente e pensante *altro* dal non-io
(il tu, in combinazione, il noi), in sè stesso parimenti vivente e pensante. La
natura si rivela come un *popolo*, popolazione, aggreggato, organismo sociale,
di piroti viventi e di pensanti, non si suppone ancora l'altro dal vivente-pensante,
ossia il non-vivente e il non-pensante. Si suppone semplicemente l’altro dal
moio lo vivente e pensante. Perciò la natura uranica, la terrestre,
stochiologica e minerale, la vegetabile o l’animale si suppone distinta dal mio
io, non però distinta dall’io generalmente parlando, ossia si suppone possedere
un loro io analogo a quello della mia co-scienza. Esaminate la radice, ossia
gli antichissimi elementi della comunicazione e troverete ogni dove segnata
l'universa natura (physis) come vivente e pensante analogicamente alla mia co-scienza.
Non vi troverete mai la natura morta colla sua forza cieca, governata da necessità
parimenti cieca, vale a dire, la natura della riflessione. Il sentimento
esplicito dalla mia co-scienza soggettiva può essere comunicato dall'uno all'altro
individuo. È questa comunicazione (o conversazione, nel senso biblico) la prima
proprietà per cui una idea cogitabile è distinta da una mera sensazione per
definizione non-condivisibile. Nessun sistema di comunicazione puo fornire una
sensazione, se questa non sia stata data dal senso (il ‘dato del senso) come
tale – nihil est in communicatione quo prius non fuerit in sensu). Potrò, p.
es., parlare in qualsivoglia modo di un oggetti visibile. Ma un cieco nato non
puo mai ne sentire ne comprendere che sia la visibilità. Se un soggetto abbia
un tempo posseduta la facoltà visiva puo, parlando di un oggetto veduto,
richiamarli alla memoria quasi visibilmente presente, ma non puo mai fare che
tale visione sostituisca la concreta visibile realtà colla semplice
imaginazione. La prima conseguenza della co-scienza senziente che si sviluppa nella
cogitante è che, siccome l’idea o concetto come tale, ossia nella forma della co-scienza
cogitante, può essere *trasmessa* (il trasmesso) dal l'uno soggeto all'altro
soggetto, non può essere trasmesso il senso come tale, ossia nella forma della
co-scienza senziente. Cosi un soggetto è abilitato a sapere quello che non
egli, ma l’altro soggetto ha percepito col senso (“Una serpe!”), oppure quello
che egli in altro tempo ha percepito col senso, oppure indurre un’idea da
quello che presentemente percepisce col senso. Cosi, p. es., la pecora condotta
al macello *vede* macellare la sua simile e fortunatamente non solo *non* induce
che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce che questa presente
operazione segna un'uccisione; perocchè non possiede l'idea o il concetto della
morte. Cosi il soggetto pensante o intellettivo può sapere quello che il
senziente non può sapere, e questo sapere nasce dalla facoltà cogitativa o
concettuale, per la quale da una sensazione si astrae un’idea generale o un
concetto. Cosi, per es., il soggetto pensante vive nel passato colla memoria, e
nell'avvenire (possibile o reale) coll'imaginazione; il soggetto senziente, o
bestia, vive astrattamente nella sua sensazione presente. In virtù della
sensazione che non può essere indotta in un’idea, egli non possiede, come il
pensante, la distinzione di una natura predominante ed insubordinabile al
soggetto e di una natura subordinabile e passibile del soggetto. Quest’idea
prototipa della forza è un’idea cardinale dello spirito, è stata il primo germe
del sacro. Osservate il sacro e lo troverete Dio, non perchè sommamente ragionevole,
ma perchè onnipotente. Nella religione spiritualmente più adulta rimane
tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto che quella della ragionevolezza, l’attributo
eminentissimo del sacro. Mediante questa passibilità il soggetto può sapere la
prima volta di essere nato, di essere stato lattante, di essere stato partorito,
e cosi pure può sapere che OGNI soggetto, nessuno eccettuato, non vissi oltre
una certa mnassima età, ma morirono in quella o prima di quella.
Conseguentemente egli sa *che* il soggetto non solo nasce (si genera) e muore
(corruption), ma può nascere in varie condizioni e morire in qualsivoglia momento
della sua vita. La nozione della nascita e della morte del soggetto è un
fenomeno della co-scienza realizzato la prima volta che la co-scienza senzienle
si svolge nella pensante; perciò sapientemente nella “Genesi” è detto che l’uomo
(Adamo) prima di peccare, ossia di gustare il frutto del bene e del male, non moriva,
ed avendolo gustato dovrà morire. Veramente la co-scienza senziente non può
sapere di nascere e di morire; perocchè questo sapere non si sa se non sia una
nozione *trasmessa* (il trasmesso) da un soggeto ad altro soggetto, ovvero
un'idea indotta dal fatto costante della morte. Questa crisi della co-scienza,
ci manifesta che la co-scienza, dalla sensazione svolgendosi nella mentalità,
procede in un sistema di distinzioni ideali o possibile o concettuali e
astratte che non sono possibili nella mera sensazione. La mentalità, che nasce
dalla sensazione, è prototipicamente *imitatrice* o inconica della sensazione, e
porta seco nel suo sviluppo la *forma logica* della sensazione stessa, che progressivamente
si trasforma in quella del pensiero. La mentalità è prototipicamente sentiment e
funziona in tre caratteristiche funzioni -- attenzione, memoria, ed imaginazione.
Da queste tre prototipiche funzioni del sentimento nascono tre forme
rudimentali della mentalità. La mentalità non più vive nell’immediata
sensazione ma crea il conflato temporaneo, e vive nella retrospettiva del
passato, e nella prospettiva dell'avvenire. Questo conflato temporaneo
possibilita un'esistenza ideale oltre l’immediato sensibile presente, e conseguentemente
un'idealità inducibile dall'osservazione. Da quest’osservazione nasce una
seconda idea elementare della mentalità, cioè d'una forza naturale che domina
la nostra, e d'una forza subordinabile alla nostra. Di qui la mentalità si
esercita per subordinare le forze predominanti, e da questa generale
osservazione si percepisce come un fatto costante che l’uomo nasce e muore, e
finalmente che *io*, come uomo, ma no come persona, sono nato e devo morire.
L'idea della morte come necessità, tuttochè sembri un’idea comunissima, è lungi
dall'essere tale. La co-scienza primitiva, come quella di certi selvaggi oggidi
viventi, percepisce la morte come un fatto costante. Ma, come la riſlessione,
non arguisce punto che questo fatto, tuttochè costante, sia necessario.
Suppongono questi selvaggi che la natura umana o sovrumana abbia sempre ucciso
l’uomo. Ma suppongono parimenti che quest'uccisione non sia una necessità, ma
una sfortunata accidentalità. La co-scienza che dalla sensazione si svolge
nella mentalità si sistematizza in un sentimento pressochè comune alla umanità.
Il soggetto possiede la sua propria determinazione individuale. Ma proprie determinazioni
non affettano un sistema generale della co-scienza umana, che perciò ſu
chiamato senso comune. Mentre questo sistema generale della co-scienza è pienamente
uniforme al senso comune, il soggetto è un soggetto comune e spiritualmente
normale. Ma quando questo sistema si aliena dal senso comune in on sistema
d'idealità più misteriosa, e trascende con un giudizio prestigioso i giudizi
comuni degli uomini, allora si dice, che questo soggetto è inspirato, ossia
profetico, taumaturgico, e così via. Generalmente parlando, questa co-scienza
trascendente subordina la comune, come provano i varii sacerdoti della
primitiva religiosità romana ed etrusca.
Quando il soggetto si aliena dal senso comune senza trascendere in un'idealità
prestigiosa, ed esercita una pratica contradittoria o contraria o opposta a sè
stessa, ovvero incompatibile colle esigenze generali della pratica oggettività,
allora si dice che il soggetto è spiritualmente ammalato, ovverosia demente.
L'alienazione vuol essere accuratamente distinta, se cioè sia alienazione dal
mero senso comune (in questo senso si può dire, che tutti gli uomini grandi
furono alienati), ovvero se sia una alienazione dalle generali esigenze
pratiche dell'oggettività naturale e spirituale (in questo senso gli alienati
sono coloro che comunemente si chiamano pazzi). La co-scienza trascendentale,
ossia la co-scienza dominata dall'idealismo, co-scienza essenzialmente poetica,
è il polo opposto della co-scienza dominata dalla sensazione, co-scienza essenzialmente
prosaica. A quella si devono tutte le organizza zioni primitive dell'umanità, a
questa si deve preferibilmente la tecnica industrialità e la mercatura
primitiva. Vedremo più oltre, che la Coscienza umana progredisce sulla base di
quest'opposizione archetipica della sua storia. La funzione più essenziale e
più generale della mentalità è la comunicazione (il trasmesso). Il primo stadio
del trasmesso è l'uso di una radice designativa – de-segna – segna. Qui io non
segno che una presentazione o un modo di una presentazione, e sempre si riduce
alle semplici categorie dello spazio e del tempo. Il pronome personali non fu
primitivamente io e tu, e così via, categorie troppo metafisiche, per servire a
questo primo stadio della lingua, ma, “qui”, “là” (Bradley, this, that, and
th’other, thatness, thisness), ecc., categorie dello spazio. Un sistema di
comunicazione che consta di radici semplicemente per la che io de-segno non può
soddisfare alle esigenze più generali della mentalità, epperciò da questo primo
stadio si sviluppa, per l'implicita esigenza della mentalità, il secondo stadio.
Il secondo stadio consta della combinazione di una radice con la che de-segno
con una radice pre-dicativa, ma tuttavia legate a una sensibile determinazione;
cosi, p. es., per designare un oggetto, si sceglie l'attributo sensibile più
esplicito in quel l'oggetto, p.es., il verde per designar la pianta, il bianco
per designer la neve. Quest’attributo sensibile, sendo necessariamente variabile
o contingente nell'oggetto, non può costituire una specie. In questo secondo
stadio si trovano molte lingue dei selvaggi o barbari, i quali scelgono un
attributo sensibile dell'oggetto per designarlo, e conseguentemente non possono
arrivare a formolare le specie o il genus o l’universale, ma semplicemente
oggetti in certe sensibili condizioni. Il terzo stadio usa la categoria propria
della mentalità esplicita, la categoria metafisica, per designare l'oggelto;
come, p. es., define la pianta non l'individuo verde, ma l’individuo polare, i
cui poli cospirano alla luce ed all'acqua. Questa proprietà generica comprende
ogni pianta; perocchè la detta polarità è l'attributo cogitabile generale della
pianta. Il gesto è posseduto da ogni animale come inezzo psichico di movimenti
o di formalità; ma il gesto che caratterizza la soggettività è appunto il
trasmesso psichico che si svolse nella spirituale. La prima radice segna una
mera affezioni dell'anima e più tardi si svolse in un segnato meta-forico, per
rispondere all'esigenze della progressiva mentalità. Il rapporto fra il canale
fisico *espresso* dall'anima e l'anima esprimente (segnante) è quello stesso
rapporto, ma più complesso, per il quale un animale segna con un certo definite
gesto certa definite affezione della sua anima. L'uomo, sviluppando in sè
stesso la propria mentalità e l’inezzo per segnarla, si conobbe come specie
comune. Il primo sistema di comunicazione quasi naturale deve essere stato
pressochè identico in ogni umano, come ogni pecora bela, ogni cani abbaia ed
urla. Dovette essere un inezzo nato con lui e trasmesso senza il minimo bisogno
di convenzionalismo e di pratica convivenza per essere capita. La
communicazione è stata realmente uno degli argomenti più favoriti e più frequentemente
trattati dal filosofo, il quale la conosceva, ed a fondo, in molte forme
antiche ed in un numero ancora maggiore di forme moderne. Egli ne ha trattato,
infatti, in molte sue opere. Ne ha accennato nel primo volume della sua grande
opera, cioè Saggio circa la ragione
logica di tutte le cose “Prolegomeni,, Torino, pag. 43 e ss. (confr. anche ibid.,
pag. 291 e susseguenti). Ne ha accennato anche nelle seguenti opere già
pubblicale in Torino, e cioè nella Proposta di riforma sociale, pag. 26 e seg.;
nella Introduzione alla cultura generale (facente parte del predetto vol.),
pag. 120 e seguenti. Ne parla poi in parecchie altre opere ancora inedite.
L'uomo che possedette questo sistema di communicazione visse nelle foreste in una
aggregazione o società piuttosto fortuita, poco dissimili da quelle dei
quadrumani, ma si armò per esercire la caccia e la pesca. La sua nudità lo
facea più fragile degli altri animali, epperciò ha dovuto sopperire a questa
nudità e debolezza colle armi artificiali, e sopratutto colla propria
scaltrezza. Questo primo stato dell'uomo vuol essere qui accennato come quello
dell'astratta soggettività abbandonata a sè stessa; perocchè l'uomo, cacciatore
o vivente dei prodotti naturali della terra e del mare, può vivere solitario.
Le aggregazioni o società di questi uomini sono mera accidentalità non necessità
dello stato proprio. In questo primo stato la soggettività nascente è caratteristicamente
manifestata dalla perversione di certi istinti essenzialissimi alla
conservazione del soggetto e della specie. Così, p. es., nessuna specie animale
s'alimenta del proprio simile, ma certi selvaggi mangiano indifferentemente i
loro nemici, amici, consanguinei, figliuoli, ed alimentano le donne, affinchè
ingrassino e siano buone a essere mangiate quando partoriscono più figliuoli da
mangiare. Quest’enorme perversione d’un istinto cosi radicale (l’affezione alla
progenitura) segna quanto sia profonda la crisi che svolge l'istintualità nella
mentalità. Sono certo che la quasi totalità de’ filosofi non sarà d'accordo su
questo puntoe riterrà l’associazione umana come una necessità e non già come
un'accidentalità. Ma l'autore, per la vita solitaria e un po' misantropica da
lui fatta, è stato come involontariamente tirato a generalizzare questo suo
particolare carattere. E una mentalita che si manifesta come un'orribile
perversione dell'istinto, ma è una mentalità volente, non un mero modo
d'ingenita istintualità. Questo titolo è quello, che nonostante la massima
perversione, può nobilitare l’uomo antropofago sopra la bestia istintualmente
tutrice della prole. Cosi pure, relativamente al soggetto individuo, l'uomo selvaggio
o barbaro in procinto di essere cattivato dai suoi nemici, può suicidarsi, la
bestia non mai (penguino?). L'istinto della propria conservazione individuale è
un istinto comune a tutti i viventi nella natura, come pure quello della
conservazione della propria specie non offre eccezione veruna nel regno della
natura. Le sole eccezioni a questo fenomeno generalissimo della vita si trovano
fra gli animali pensanti come il penguino. Tuttochè qui dobbiamo parlare del soggetto
della natura, astratto da qualsivoglia organizzazione necessitata dalla sua
condizione, abbiamo parlato di tre stadii caratteristici della comunicazione,
come quella che può essere comunicata da soggetto a soggett, senza convenzione,
indipendentemente dall'organizzazione sociale fra soggetti o dalla nessuna
organizzazione. La comunicazione appartiene cosi al soggetto solitario (il
Deutero-Esperanto di Grice ch’inventa al bagno) come al soggetto socievole, e
generalmente al soggetto solitario che profitta segnatamente delle occasioni
dell’amore. L’uomo solitario pratica qualche volta questo rapporto colla
femmina come un mero rapporto erotico occasionale. Abbandona la femmina alle
conseguenze della fecondità, non conosce i suoi figliuoli che sono allattati,
nudriti ed educati dalla madre. Ma la comunicazione, che persuase la copula
dell'amore, è la medesima colla quale la madre educa i suoi figliuoli. Cosi la
comunicazione può dirsi radicalmente una creazione della specie ed assume
dignità ed ha il suo svolgimento nella storia universa della spiritualità. Si
può dire in tesi generale che la comunicazione genera la storia nella sua più
semplice elementarità; e dallo svolgimento della lingua si conosce lo svolgimento
dell'umana mentalità e conseguentemente, delle gesta che ne sono conseguite. Nel 1884 mi furono mandati a casa, in Torino,
dal benemerito libraio Loescher tre grossissimi volumi intitolati Paselogices
Spe cimen Theoo editum. Intri, etc. Un filosofo di nome Teofilo Eleutero era a
tutti ignoto; e non fu poca la mia mera viglia nel vedere come un'opera
filosofica così voluminosa, scritta e stampata in latino, avesse potuto
sfuggirmi; giacchè, come adesso ancora nella mia tarda età, specialmente allora
ho sempre seguito con vivo interesse il movimento filosofico. La curiosità
quindi di sapere chi egli fosse, e qual valore avesse, mi fe' tosto gittare gli
occhi sul primo volume che portava la designazione di Prolegomena, e che, come
subito vidi, era una Introduzione, o Propedeutica che voglia dirsi, a tutta
l'opera. La mia meraviglia crebbe dopo la lettura delle prime pagine del
volume, tanto più che ad essa si congiunse il sentimento del l'ammirazione:
sentimento che col proseguimento della lettura di venne un vero entusiasmo. Io
mi trovava dinanzi ad un hegeliano, e, per giunta, un hegeliano di alto ingegno
e di larghi propo siti: i quali propositi erano nientemeno che quelli di una
Riforma dell'hegelianismo mediante principii dell'hegelianismo stesso.
Comunicai la mia impressione e il mio entusiasmo al signor Loescher, il quale
m'informò che l'autore dell'opera era un intrese, di nome Pietro Ceretti, dalla
cui figlia aveva ricevuto l'esemplare dell'opera che mandò a me per prenderne
conoscenza. L'impres sione e l'entusiamo potettero ancora, per mezzo della
figlia, essere comunicati al filosofo, che era già assai infermo e che poco di
poi morì della malattia che da parecchi anni lo travagliava, la paralisi
progressiva. Io continuai, naturalmente, a leggere e stu diare la preziosa
opera, ed è di essa che accennerò maggiormente in questo ricordo del filosofo,
essendo essa indubbiamente il maggior titolo del valore e della posizione
filosofica del medesimo. Senonchè, a render meno incompiuto il ricordo, mi si
conceda che rilevi alcuni altri particolari della sua complessa personalità.
Per cio che concerne biografia e bibliografia mi limiterò alle poche notizie
seguenti. Assolti bene o male, anzi piuttosto male che bene, i primi elementi della
sua istruzione, comincia a trarre qualche profitto in un collegio di gesuiti a
Novara. È una singolare circostanza questa, che un uomo che ebbe sempre uno
spirito non solo diverso, ma anche opposto a quello de' gesuiti, avesse proprio
da questi avuto il primo impulso e il primo profitto agli studi Ma un profitto
maggiore e un vero inizio di studi serii sono da lui fatti a Firenze, ove si
reca subito dopo, mettendosi in relazione cogli uomini del famoso Gabinetto Viessieux
e consacrandosi tutto agli studî' di lingue, lettere e scienze. Quanto a
lingue, tra il tempo che e a Firenze e gli anni che immediatamente seguirono,
ne apprese parecchie tra antiche e moderne, allo scopo non solo di legger la
filosofia negli idiomi originali, ma anche di viaggiare, per prender diretta
notizia di uomini e cose. Infatti, comincia subito a viaggiare percorrendo in
lungo e in largo non solo l'Italia, ma anche la Svizzera, la Francia, la
Germania, l'Olanda e l'Inghilterra. Gli studî che fa nella prima giovinezza si
allargano e diveneno più intensi, quando dopo i viaggi si ritira nella nativa
Intra, nella quale accanto agli studi comincia anche a scrivere opere di vario
genere, segnatamente filosofiche. Nella sua carriera di filosofo passa per
varie fasi, che io (nella mia opera intitolata Notizia degli scritti e del
pensiero filosofico di Ceretti) designo e describo come fase poetica, fase
filosofica in genere ed hegeliana in ispecie, fase di transizione, fase
utopistica e riformativa della società civile, e fase ultima del pensiero
cerettiano, la quale è quella del cosìdetto sistema contemplativo. Ad ognuna di
queste fasi corrispondono opere, e non poche, che si muovono nell’orbita del
pensiero cerettiano gradatamente svolgentesi ed esprimentesi in essa. Le quali
opere, se si considera il complesso di esse tutte, costituiscono una massa
addirittura ingente, che versa su tutte le parti dello scibile. E, infatti, un filosofo
universale. Tanto per dare una idea della predetta massa di saggi, ricordo innanzi
tutto quelli che si riferiscono alla fase poetica, la quale gli scalda tanto la
mente ed il cuore, che gli fe ' dire: Cari poeti, voi dell'alma mia foste il
primo verissimo Messia. Ad essa appartengono le opere poetiche di genere romantico:
Eleonora di Toledo; il Prometeo; il Pellegrinaggio in Italia; le Poesie liriche:
inoltre, queste altre di genere giocoso, satirico e filosofico e scritte anche
in tempo posteriore alla giovinezza: le Avventure di Cecchino, e le Grullerie
poetiche. A queste opere scritte in versi se ne potrebbe aggiungere un'altra
scritta in prosa e pur facente parte di questa prima fase, cioè quella
intitolata Ultime Lettere d'un profugo e costituente un romanzo sul genere del
Werther di Goethe e del Jacopo Ortis di Foscolo. Questa prima fase nella quale
la sua mente è ancora incomposta ed in via di formazione – è caratterizzata
dall'aspirazione di lui ad incarnare in sè stesso i pensieri e i sentimenti de'
grandi uomini del suo tempo e di quello che immediatamente lo precede
(Cenobium). Il che egli stesso riepiloga ed esprime dicendo. In giovinezza io
fui innamorato e delirante alla Werther, patriota furibondo alla Jacopo Ortis,
stravagante alla Byron, dolorante alla Leopardi, misantropico alla Rousseau,
satanico alla Voltaire, ateo materialista alla La Mettrie, e finalmente
miserabile alla mia propria maniera. Alla seconda fase, che contiene la sua
filosofia più eminente e più compiuta, appartiene -- oltre ad un primo abbozzo
di opera intitolata Idea circa la genesi e la natura della forza — la grande
opera latina predetta “Pasælogices Specimen”. La filosofia di questa fase ha il
fondo hegeliano, ma però da lui riformato. Le ultime fasi costituiscono poi una
ulteriore deviazione tanto dal pensiero hegeliano in genere, quanto
dall'istesso pensiero hegeliano da lui riformato ed esposto in que st'ultima.
Come prima deviazione e ad un tempo come transizione alle fasi susseguenti si
possono considerare la “Sinossi del l'Enciclopedia speculative”, le “Considerazioni
sul sistema della natura e dello spirito; l'Insegnamento filosofico: le quali saggi
hanno ancora spiccatamente il carattere di filosofia teoretica ed
enciclopedica. La nota principale della suddetta deviazione è che al logo
assoluto, il quale nella grande opera latina diviene il principio cerettiano
riformativo dell'Idea hegeliana, viene più de terminatamente e accentuatamente
sostituito il principio della coscienza assoluta, Coscienza, che, a dir vero, e
già apparsa nella stessa opera latina. Quale ulteriore deviazione, ma
specificamente appartenenti alla fase utopistica riformativa della società
civile, si ricordano le opere intitolate “Sogni e favole” e “Proposta di una
riforma civile”. Oltre ad esse, vanno ricordate anche queste altre, le quali
però sono scritte in forma di romanzi, cioè, i Viaggi utopistici;
l'Inconcludente; Don Simplicio; Don Gregorio; il Protagonista, e qualche altra.
La deviazione massima è in quegli altri saggi, che rappresentano più
spiccatamente l'ultima fase, nella quale perviene ad una specie di
subbiettivismo nullistico, da lui designato, come è detto, col nome di sistema
contemplativo. I pensieri di quest'ultima fase appaiono in parecchi altri
scritti dell'ultimo tempo di sua vita, come per esempio, per nominarne alcuni,
nella Vita di Caramella e nelle Memorie postume. Ma gli scritti mentovati delle
diverse fasi, benchè già numerosi, non costituiscono neppur gli scritti tutti
del filosofo d'Intra, essendovene una quantità ancora notevole, che possono
esser nominati scritti varii ed ai quali appartengono: Biografie, Autobiografie
(tra queste, notevolissima, La mia Celebrità), Commedie, Novelle morali, ecc. e
persino un Trattato d'Astronomia e un Trattato di Medicina. Come vede il
lettore, quella che io chiamava una ingente massa di scritti, e versante sulla
universalità dello scibile, non è una denominazione esagerata, ma interamente
reale. E ciò basti a dare una idea sommaria degli scritti del filosofo intrese.
Per cio che concerne il filosofo propriamente detto, va considerato rispetto al
corso della filosofia in genere ed al periodo filosofico idealistico tedesco in
ispecie, nel qual periodo si riattacca alla maggiore manifestazione speculativa
del medesimo, che è la hegeliana. Si apparecchiò a pigliare il suo posto in
quest'ultima, con uno studio e conoscenza non comune, primamente delle varie
discipline dello scibile, sopratutto di quelle concernenti la Storia universale
e le Scienze positive e naturali d'ogni specie; secondamente, di quelle
attinenti alla filosofia propriamente detta. Rispetto a quest'ultima, è
veramente ammirabile l'opera del nostro filosofo, che – dopo i suoi profondi
studi sui filosofi delle diverse età (non esclusa quella stessa della filosofia
indiana ) e in genere ne' testi originali de' medesimi ne ha dato un saggio
notevolissimo egli stesso nel primo volume della sua opera latina, cioè ne' mentovati
Prolegomeni. Ma nella Storia della filosofia uno de' periodi che più studia e
conosciuto è il predetto periodo filosofico tedesco sì ne' filosofi massimi di
essa, come Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, si ne' secondarii e pur importanti
del medesimo, come Herbart, Schopenhauer ed altri. In questo periodo e naturale
che quello che massimamente attraesse e legasse il suo spirito fosse Giorgio
Hegel, siccome quello che compendia in sè, primamente la Storia filosofica
generale e, in secondo luogo, lo stesso speciale periodo tedesco. Hegel, in
fatti, è da lui considerato come quello che ha raggiunta la più alta forma di
speculazione nella scienza filosofica, sopratutto nella disciplina logica.
Considerando il filosofo tedesco in tal modo, è naturale che nel complesso ne
accogliesse le idee e si riattaccasse a lui. Senonchè, pur accogliendole, non
le riteneva scevre di vizii o errori che voglian dirsi. In conseguenza di ciò
si propose da una parte, di additare questi vizii, dall'altra, di correggerli.
E la correzione, che costituiva per lui una riformazione dell'hegelianismo, non
è poi altro che la filosofia cerettiana stessa, quale è concepita ed esposta nella
predetta grande opera latina. Ciò posto, seguiamo ora tal pensiero filosofico
cerettiano ne suoi tratti fondamentali. Primamente, accogliendo l'hegelianismo
come la predetta suprema manifestazione della coscienza filosofica, ei
l'accoglie nel general fondo e pensiero del medesimo, fondo e pensiere, che
vengono da lui riassunti ne' seguenti principii generali. Primo, L'assoluto è
l'Idea. Secondo, l'Idea concreta è lo spirito. Terzo, l'essenza concreta ed
assoluta dello Spirito è l'Idea logica. Inoltre, l'evoluzione dialettica del
l'Idea, nella quale evoluzione consiste il processo metodico di quest'ultima,
avviene e deve avvenire secondo la Nozione, ossia secondo il Concetto, come
dice Hegel (dem Begriffe nach). Rispetto a tali principii designati come hegeliani
non che come veri e inoppugnabili, e quindi da lui stesso accolti, va però
osservato, che di essi non può essere ritenuto come schiettamente e veramente
hegeliano il terzo; giacchè, secondo Hegel, l'essenza concreta ed assoluta
dello Spirito non è l'Idea logica. Questa è per Hegel l’Idea pura e semplice
soltanto, e però immediata ed astratta, non ancora dialetticamente esplicata e,
mediante l'esplicazione, fatta concreta. L'essenza assoluta e concreta dello
Spirito è per lui invece l’Idea che da puramente e semplicemente logica (da
Idea logica ) si è estrinsecata nella Natura (cioè si è fatta Idea naturale o
Natura), e, attraverso di questa, è giunta a coscienza di sè, ossia è divenuta
spirituale, o, che vale lo stesso, è divenuta Spirito. In altri termini,
l'essenza concreta assoluta dello spirito è la coscienza dell'idea, ovvero è l'idea
conscia di sé, mentre l'idea logica hegeliana è ancora inconscia. Per cio che
concerne i mancamenti e vizii della dottrina hegeliana, essi, secondo il
Ceretti concernono l'evoluzione dialettica dell’idea, o, che vale lo stesso,
concernono l'idea nel suo processo (esplicazione) dialettico. Un primo vizio
generale in tale evoluzione è per lui quello che nella logica hegeliana
concerne il prius e il risultato dell'idea. Notoriamente per Hegel, benchè l'idea
sia, da una parte, il principio universale assoluto, e, dall'altra il principio
iniziale dell'evoluzione dialettica assoluta, principio iniziale che farebbe
come il prius ideale dialettico, pur non di meno pel filosofo tedesco il vero prius
dell'idea non è questo iniziale, ma quello finale a cui l'idea perviene come risultato
del processo dialettico, risultato finale che è propriamente lo spirito, ossia
l'idea pervenuta a coscienza di sè. È per questo che Hegel sostiene che il vero
prius non è l'idea logica, ossia l'idea pura ed estratta, ma lo spirito, che è
l'idea che col processo dialettico si è fatta veramente reale e concreta. Or
questo prius che Hegel pensa e pone come vero è invece dal Ceretti ritenuto
falso, perchè pensato ed ottenuto secondo un procedimento dialettico
prestigioso e sconforme al vero ordine logico, che deve avere e seguire il logo
(logo che, come tosto si vedrà, è il principio specifico assoluto cerettiano
sostituito all’idea hegeliana). Accanto a questo vizio generale, trova e addita
vizii particolari affettanti l'idea come logica naturale e spirituale. I vizii
spettanti all'idea logica e al corrispondente processo dialettico sono tre. Il
primo vizio è che nell'esplicazione dialettica dell'idea logica la genesi di
questa sia una genesi della nozione dalla non-nozione. Il secondo vizio è che
l'esplicazione dialettica dell'idea logica è piuttosto un'astratta esplicazione
delle categorie, anzichè un concreto un rimmanente processo di esplicazione ed IMPLICAZIONE.
Il terzo vizio è che il processo dialettico dell'idea logica hegeliana è
piuttosto un logo astratto astrattamente esplicantesi e riassumentesi insultato,
anzichè la sanzione (o affermazione) di sè stesso nella concreta immanente ed
assoluta verificazione della propria posizione, dialettica e riassunzione. Il
primo de' tre vizii indicati, riproducendo il mentovato general vizio del prius,
ei lo determina meglio designandolo come processo inconscio dell'idea logica,
processo che Hegel pensa appunto come inconscio ed il Ceretti pensa e vuole
invece come conscio. E può dirsi che su tal coscienza dell'idea logica poggia
il punto cardinale della differenza dell'idea hegeliana dal logo cerettiano.
Quanto al vizio concernente l'idea naturale, esso è in grosso quello stesso
dell'astrattezza, testè rilevato, o, che vale lo stesso, della non raggiunta
realtà dell'idea nel farsi naturale. Infatti, l'idea logica, estrinsecandosi e
divenendo natura, rimane in quello stato astratto e puramente e semplicemente
ideale che ha come idea logica, e non giunge a veramente naturarsi, com'ei dice,
cioè a farsi vera realtà naturale. E finalmente, quanto allo spirito, od idea
hegeliana spirituale, il filosofo intrese vi trova il vizio di quella stessa
prestigiosità speculativa (speculativa prestigiositas), che ha trovata e
rilevata per la logica. Ed osserva, per giunta, che il general vizio innanzi
mentovato dell'idea hegeliana, che cioè essa sia un risultato, diviene più
specifico nello spirito, in quanto questo, concepito da Hegel come l'idea che
dal suo esser-altro (cioè dalla sua esistenza naturale ) ritorna a sè stessa,
ha appunto il carattere speciale di essere un risultato e non una realtà, a dir
cosi, originaria. Accanto ai predetti vizii fondamentali concernenti l'idea
nelle sue varie forme, logica, naturale e spirituale, ne rileva alcuni altri
secondarii; ma noi, limitandoci alla indicazione de ' fondamentali, passiamo ad
indicare le corrispondenti emendazioni di essi. Preposto che all’idea hegeliana
egli in genere sostituisce il logo, principio universale ed assoluto anch'esso,
la prima generale emendazione, concernente il prius ed il risultato dell'idea
innanzi esposti, è fatta dal Ceretti nel senso che il logo è oiginariamente
conscio e non già tale per risultato. Rispetto ai tre vizii dell'idea logica
propone come emendazione (Mi piace di riferire colle stesse parole latine del
Ceretti il predetto triplice vizio. Hegelianæ logicæ tractationis
defectuositas, in exitu prolegome norum designata, est primo, quatenus notionis
a non-notione progenesis; secundo, quatenus categoriarum abstracta explicativ,
potiusquam concreta explicationis et IMPLICATIONIS immanens contraprocessu osilas;
tertio, quatenus abstractus er plicativce dialectica LOGUS in abstracta
resumptione, potiusquam in concreta positionis, dialectica et remsumptionis
immanente absoluta verificatione suun ipsum sanciens. Pasael. Spec. vol. II, p.
6. CENOBIUM, Vol. III, Anno II) e però riformazione, che il primo venga
emendato mediante il principio della generale coscienza logica della nozione od
idea hegeliana: il che importa che il logo sia una nozione (idea) che si genera
dalla nozione stessa e non già dalla non-nozione (nozione inconscia). La
emendazione di questo primo vizio coincide in grosso anche colla generale
emendazione predetta del prius e del risultato. La emendazione del secondo
vizio è dal nostro filosofo ottenuta col propugnare ed effettuare che la genesi
delle categorie logiche non avvenga secondo un processo astratto di sola
esplicazione, ma secondo un processo concreto di esplicazione ED IMPLICAZIONE insieme:
nel qual processo concreto i momenti astratti di esplicazione si negano come
astrattamente tali ed affermano perciò la loro unità. Il terzo finalmente viene
emendato, pensando e determinando il logo assoluto in guisa che esso non
rimanga un momento astratto di riassunzione (risultato), ma che divenga
assoluta ed immanente affermazione (sanzione) di tutto il corso esplicativo,
costituendo così un processo e contro-processo, in cui ogni momento è unità
dell'astratto e del concreto. Quanto ai vizi relativi all'idea naturale
hegeliana, la emendazione (stata già implicitamente accennata nella critica
fatta di essi ) consiste in quella che il Ceretti appella la NATURAZIONE del logo.
E cioè, mentre Hegel concepisce la natura siccome l'idea ritornante a sè stessa
dal suo esser-altro (dalla sua esternazione ed alterazione), il Ceretti invece
pensa che la natura non è sol tanto ciò, ma è e dev'essere reale naturazione
del logo, ossia reale incarnazione ed obbiettivazione del medesimo. E da
ultimo, quanto all'emendazione del vizio dell'idea spirituale, essa nel complesso
è quella già rilevata nella critica fatta del vizio, e consiste nel concepir la
medesima, ossia lo spirito, siccome logo originariamente conscio e non
divenente tale per risultato d'un processo. Le predette generali e fondamentali
emendazioni, accanto ad altre subordinate e secondarie, son quelle che nella
esposizione ed esecuzione delle idee filosofiche costituiscono la filosofia
cerettiana riformativa della hegeliana, e filosofia riformativa che forma il
contenuto della più volte mentovata grande opera del Ceretti, intitolata “Saggio
di Panlogica.” Questo Saggio è un'opera veramente colossale ed è l'enciclopedia
filosofica cerettiana, modellata sulla nota corrispondente Enciclopedia
hegeliana (Encyclopädie der philosophischen duissen schaften) in tre volumi. Concepì
la propria enciclopedia vasto disegno da assolversi in otto volume. Il primo (i
prolegomeni) come propedeutica a tutta l'opera, propedeutica che ad un tempo
contenesse in germe il pensiere della stessa Enciclopedia. Il secondo contenente
(col nome di “ESO-LOGIA”) l'esposizione della logica e metafisica. Il terzo, il
quarto, ed il una con un quinto (col nome di ‘ESSO-LOGIA’) costituenti la
trattazione ed esposizione della filosofia della natura nelle sue tre parti
della Meccanica, della Fisica e della Biologia (od Organica). Il sesto, il
settimo e l'ottavo (col nome di “SINAUTOLOGIA”) designati a trattare la filosofia
dello spirito, distinta anch'essa in tre parti denomi nate Antropologia,
Antropo-pedeutica ed Antropo-sofia. Di questa vasta concezione ed esecuzione il
principio fondamentale ed assoluto è il Logo, che il lettore vede essere in
fondo alla Esologia, Essologia e Sinautologia: Logo che, come si è detto, in
Ceretti piglia il posto e la generale significazione del l'idea di Hegel. Il logo
Cerettiano, come quest'ultima, è l'universa ed assoluta realtà, e realtà con
preminente carattere ideale, comprendente in sè la realtà logica, la naturale e
la spirituale. Per tal carattere anche la filosofia cerettiana è idealismo;
tanto più veramente assoluto, in quanto, non meno e forse ancor più
dell'hegeliano, abbraccia in sè in complessiva unità tutte le forme di
Idealismo apparse nel corso storico della filosofia, si in generale le
antecedenti all'Idealismo tedesco, si in modo più speciale quelle di
quest'ultimo, cioè gli Idealismi subbiettivi Kantiano e Fichtiano, l'Idealismo
obbiettivo Schellinghiano, non che lo stesso Idealismo assoluto Hegeliano.
Questo carattere di universalità ed assolutezza dell'Idealismo cerettiano è una
delle cose più spiccanti, più notevoli ed anche più rilevate dell'Enciclopedia
filosofica del filosofo intrese. Quanto al principio assoluto del Logo, va
parimenti rilevato, che, per la natura conscia del medesimo innanzi additata,
esso vien dal Ceretti designato anche come puramente e semplicemente coscienza:
per modo che coscienza e logo ricorrono quasi pro miscuamente nell’enciclopedia
cerettiana ed anche in altre opere posteriori) come espressive e determinative
del principio assoluto. È bene, inoltre, rilevare che tal principio assoluto e
dal nostro filosofo anche puramente e semplicemente detto l'assoluto, il quale
corrisponde in tutto e per tutto al logo e alla coscienza consi derati come
assoluti. Ciò fa intendere come pel Ceretti l'elemento conscio costituisce il
carattere essenziale del suo principio assoluto, ossia del suo Logo in tutto il
suo ambito, mentre per Hegel l'elemento conscio è caratteristico e specifico
dello spirito propriamente detto, ossia dell'idea giunta a coscienza di sé. Ciò
farà, d'altra parte, pari menti intendere come il filosofo intrese ponga come
riformativa dell'hegelianismo la proposizione: L'assoluto è la coscienza. Per
cio che concerne la designazione del principio assoluto, rilevo ancora che, ad
esprimere il predetto principio assoluto, egli adopera tante altre volte anche
le parole idea, nozione, persin Pensiere, come Hegel. Ma, se le espressioni son
varie, il senso e valore fondamentale del suo principio è quello del logo
pensato come Logo conscio o coscienza assoluta. Conformemente a ciò (e in
grosso conformemente all'hegelianismo) il Logo vien pensato nella sua IN-TRINSECA
natura e nel suo processo dialettico. Nella sua natura il Logo vien considerato
in tre diverse forme di esistenza, cioè: quale è IN sè, quale è PER sè, e quale
è IN sè E PER sè. La considerazione del Logo IN sè stesso costituisce la
predetta “ESO-LOGIA”, da sis, és, dentro e logos, ossia la dottrina
logico-metafisica del logo. Quella del Logo FUORI DI sè costituisce la “ESSO-LOGIA” (da few, fuori,
in latino, “Exologia”), ossia la dottrina filosofica della Natura. Quella del
Logo IN sè E PER sė, o come il Ceretti la dice, del Logo IN sè e SON sè,
costituisce la “SIN-AUTO-LOGIA”, da “syn” e “autos”, con stesso ), ossia la
dottrina dello spirito. Degno di rilievo è inoltre che il logo IN sè è il logo
nella sua subbiettività. Il logo FUORI DI sè è il logo nella sua obbiettività.
Il logo IN sè e sè e il logo nella unità della sua subbiettività e della sua obbiettività,
ossia è il logo subbiettivo-obiettivo, che è poi il logo assoluto. È bene
parimenti rilevare che come il logo è per eccellenza il logo conscio, il quale
è poi lo spirito o la coscienza, così si designano egualmente lo spirito e la coscienza
nella loro subbiettività, nella loro obbiettività, e nell'unità della subbiettività
e dell'obbiettività. Il predetto triplice modo di essere della natura del logo
soggiace ad un processo esplicativo, che costituisce il processo dialettico,
appellato anche metodo dialettico. Questo processo metodico ha, tanto per Hegel
quanto per Ceretti, tre momenti anch'esso. Questi momenti, che il filosofo
tedesco appella comunemente dell'IN sè, del PER sè e dell'IN sè e del PER sè,
dando loro il valore e significato di momento immediato o intellettivo (della
speculazione dell'idea ), di momento mediato o razionale negativo, e di momento
immediato e mediato insieme, o razionale positivo, vengono invece dal Ceretti
appellati (nel complesso però con valore e significato simili a quelli di
Hegel) momenti della posizione (thesis, positio), ri-flessione e con-cezione.
La posizione, come la parola stessa indica, ha il valore e significato di
quella che comunemente (in Fichte, Schelling ed Hegel), ricorre come “tesi”, mentre
la ri-flessione ha significato e valore di contraddizione (opposizione, ob-positio,
contra-posizione, antitesi ) e la concezione significato e valore di
conciliazione (com-posizione, sintesi) degli opposti, sintesi della tesi e
dall'antitesi. La triplicità delle forme di esistenza del logo (quelle di Eso-Logo,
posizione; Esso-Logo; contra-posizione; e Sinauto-Logo, com-posizione, con le
corrispondenti dottrine di Esologia, Essologia e Sinantologia, costituisce per
Ceretti i tre Cicli di quest'ultimo. Cicli che, mentre son tre, pur ne costitui
solo sotto triplice forma: costituiscono cioè il logo assoluto uni-trino. Un
altro punto pur degno di rilievo e caratteristico è il modo come determina la
considerazione filosofica o speculativa de tre cicli. La considerazione del
primo, ossia dell'Esologia (posizione) per lui il pensiero del Pensiero (“cogitatio
cogitationis”, l’implicazione o impiegazione dell’impiegazione) quella del
scono un ma secondo o dell'Essologia è il Pensiero del Pensato (“cogitatio cogitatis”
– implicazione dell’implicato, o impiegazione dell’impiegato, e quella del
terzo, o della Sinautologia, è il Pensiero del Pensante (“cogitatio cogitantis,”
implicazione dell’implicante, impiegazione dell’impiegante). Anche
nell'hegelianismo il Pensiero assoluto è identificato col l'idea assoluta, in
quella guisa che il Ceretti identifica parimenti il Pensiero assoluto col Logo
assoluto. Però nella espressione e determinazione cerettiana la cosa ha un
significato più specifico, e propriamente questo, che cioè l'Esologia (posizione)
è la considerazione del Pensiero in sè stesso, del pensiero puro hegeliano e
potrei anche soggiungere, della ragion pura kantiana. L’Essologia (contra-posizione,
impiegato) è la considerazione del Pensiero del Pensato, cioè del Pensiero non
più in sè, puro ed astratto, del Pensiero estrinsecato (fatto per sè),
obbiettivato. La Sinautologia (com-posizione) la considerazione del Pensiero
del Pensante (impiegante: implicazione come relazione tra il implicante e
l’implicato) cioè del pensiero come esistente ed esercitantesi nel subbietto
pensante. Potrei dire che la predetta triplice considerazione è quella del
Pensiero puro e semplice, quella del Pensiero come obbietto di sè medesimo (estrinsecatosi
fuori di sè nella natura), e quella del pensiero astratto ed operante come
proprio subbietto (nella coscienza del pensiero stesso o nello Spirito ). Dopo
le antecedenti generalità, passiamo a considerare parte per parte il logo nelle
sue tre forme di esistenza nella logico metafisica (Esogia, posizione), nella
naturale (Essologia, contra-posizione) e nella spirituale (Sinautologia,
composizione). La dottrina logico-metafisica, conformemente alla hegeliana, è
pur distinta in tre parti che anche per lui, come per Hegel, son quelle
dell'Essere, dell’Essenza e del Concetto: solo che queste nel filosofo tedesco
si susseguono nel modo indicato e nel filosofo intrese mutan posto, diventando
primo il Concetto, secondo l'Essere e terzo l’Essenza. Questo mutamento diposto
nella serie porta poi naturalmente con sè un corrispondente mutamento nel
processo dialettico. Le dottrine di queste tre parti così spostate hanno in
Ceretti i nomi speciali di “PRO-LOGIA” (concetto); “DIA-LOGIA” (essere); e “AUTO-LOGIA”
(essenza). La PRO-LOGIA con sidera il Logo esologico (ESO-LOGO) o
logico-metafisico, nella astratta identità del Pensiero (impiegazione). La
DIA-LOGIA (CONTRA-POSIZIONE) considera il logo nella differenza (IMPIEGATO) di
esso. La AUTO-LOGIA (COM-POSIZIONE) considera il logo nella unità sintetica (IMPIEGANTE)
dell'identità E della differenza del Pensiero stesso. Non credo che il nostro
filosofo abbia avuto giusta ragione d'invertire l'ordine de' tre principii
fondamentali predetti. Ma, checchè sia di ciò, è bene di allegare la ragione
dell'invertimento da lui ritenuto razionale e necessario. La quale, a suo
credere, è che per il logo conscio, o che vale lo stesso, per la Coscienza il
primo (prius) PRO-LOGICO (cioè il primo con cui deve cominciar la logica) non
dev'essere nè indeterminato, come sono l'essere di Hegel e di Rosmini-Serbati,
nè determinato (impiegato), come sono l'Io di Fichte e la predetta Ragione di
Schelling, ma dev'essere lo stesso prius, nel quale sieno implicitamente
contenute tanto la indeterminazione quanto la determinazione. E un sì fatto prius
è la PRO-POSIZIONE, che è il primo ed iniziale momento della sua Pro-logia, il
quale è più primitivo e più semplice del giudizio (A e B) che ne costituisce il
secondo, al quale poi segue il terzo unitivo de' due primi, che è il Sillogismo
(CONIUNCTIO, CO-RAZIONALE). Quanto alla natura de suddetti momenti della Pro-logia,
la Pro-posizione è la immediata ed indistinta coscienza logica, la quale,
appunto per la sua indistinzione, non è nè subbiettiva nè obbiettiva. Il
Giudizio (la proposizione pensata) invece è la coscienza logica, che dalla
indistinzione od indifferenza si esplica e passa nella subbiettività ed
obbiettività di sè medesima. E da ultimo il Sillogismo (coniuctio,
co-razionale) è la subbiettività della coscienza logica, la cui attività
consiste nell'esplicare se stessa, esplicazione di sè stessa, che in fondo è
poi una obbiettivazione della subbiettività. Dato tal concetto generale de'
momenti della pro-logia, il nostro autore passa a considerare e determinar
ciascuno in se medesimo, ed inoltre secondo il predetto processo metodico
tricotomico della Posizione (Proposizione, impiegazione), della Riflessione (contra-posizione,
impiegato) e della Concezione (com-posizione, impiegante). Conformemente a ciò,
distingue la Pro-posizione in “posta”, ri-flessa e concepita; e in posto,
riflesso e concepito, distingue e determina parimenti sì il giudizio (proposizione
pensato) che il Sillogismo (impiegante, composizione). La trattazione ed
esposizione di ciò è amplissima, specialmente quella del Sillogismo; ed è non
solo amplissima, ma anche note volissima per le molteplici determinazioni
logiche ed ontologiche non che illustrazioni ed applicazioni d'ogni genere alle
diverse parti dello scibile e della stessa realtà. La trattazione è di tanto
interesse che è degnissima di esser presa da ognuno in considerazione anche
oggi alla distanza di una sessantina d'anni, dacchè fu pensata ed esposta. Non
potendo entrare nelle particolarità a far intendere il pensiero cerettiano sì
nella concezione de' momenti della predetta pro-logia sì nel passaggio da
questa alla Dia-logia, allegherò un luogo nel quale l'autore lo ri-epiloga, e
che è questo. Il pensiero pro-logico, uscito e passato dalla sua generalità
formale (cioè, dalla pro-posizione) colla particolarità formale della sua
generalità (cioè, col giudizio, impiegato) nell'unità formale della sua
generalità e della sua particolarità (cioè, nel sillogismo, la com-posizione,
impiegante), si concepisce come sistema metodico della RAZIONALITà, ossia come
forma assoluta delle forme. La forma sillogistica delle forme pensabili insegna
che il pensiero è essenzialmente il sistema di sè, e non v'è sistema all'in
fuori del sistema del pensiero, poichè l'altro del pensiero non può essere
fatto (posto) da altro che dal pensiero. Inoltre, insegna che il sistema
assoluto del pensiero è il sillogismo giudicativo della proposizione, perciò l'assoluto
non può esser concepito altrimenti. Cosi a pag. 125 della Ragione Logica di
tutte le cose, vol. II. Esologia, nella versione dal latino (Torino, Baldini)) che
nella forma sillogistica. Questa concezione porta con sè la necessità logica di
sè, poichè è la nozione della nozione. Il sillogismo assoluto, come pro-logico,
non è più che la formalità (la forma assoluta del logo, la quale invoca
l'essenzialità assoluta di sè da esplicare in sè da sè stesso. Quindi il
sillogismo passa dalla sua subbiettività assoluta ad esplicare la sua
obbiettività IMPLICITA assoluta. Questa obbiettività è la verità della
subbiettività sillogistica assoluta. Ciò posto, quella che ora effettua il
passaggio e progresso dalla forma e dalla subbiettività del Pensiero alla
essenzialità ed obbiettività del medesimo è la Dia-logia, che per eccellenza è
la dottrina delle categorie logiche del Pensiero. Corrispondendo la dottrina
dialogica cerettiana alle dottrine logiche hegeliane dell'Essere e dell'Essenza
prese insieme, ne segue che le categorie, onde qui è parola, sono in grosso
quelle che ricorrono nelle predette due dottrine hegeliane. Quanto al concetto
della categoria e alla funzione logica della categorizzazione, sono importanti
queste parole del filosofo intrese. La categoria (predicamento) è propriamente
la predicazione del Pensiere fondata dallo stesso pensiere come necessaria; e
la categorizzazione del Pensiere è l'atto più nobile della speculazione
filosofica e la più alta concezione dal Pensiere umano. Nè meno importanti in
proposito sono gli additamenti che fa intorno alla evoluzione storica delle
categorie presso i diversi filosofi e corrispondenti scuole che spiccano
intorno ad esse. Per cio che concerne le categorie trattate e sviluppate nella
Dialogia, le fondamentali son quelle dell'Essere, dell’Essenza, e del
l'Esistenza, come costituenti la triplicità dialogica per eccellenza; e da
queste fondamentali se ne sviluppano altre costituenti momenti subordinati, ma
non meno importanti. L'Essere, infatti, è da prima il Logo generale ed
indeterminato (est logus conscentiæ generalis), ma esso si particolarizza e de
termina in sè medesimo in ulteriori principii categorici. Per esempio, si
distingue e particolarizza come QUALITATIVO, QUANTITATIVO, E MODALE, sorgendo
così LE TRE CATEGORIE DELLA QUALITà, della QUANTITà e della MODALITà (misura).
Ed inoltre l'Essere nella sua stessa generità (innanzi alla predetta
particolarizzazione dunque) è essere (pro-posizione), non-essere (opposizione o
contraposizione) e divenire (composizione): (esse, non-esse, latino FIERI,
perduto nel volgare). Come, d'altra parte, le TRE CATEGORIE della QUALITà, QUANTITà
e MODALITà alla lor volta si distinguono e particolarizzano in altre. Chi
conosce la logica di Hegel vede subito nelle predette categorie cerettiane la
simiglianza con le corrispondenti hegeliane. Ed è forse questa la parte, nella
quale si tiene più da vicino a quello, mentre in altre parti vi sono non poche
dissimiglianze. Nel predetto citato volume della Esologia, pag. 132. 4ecc.
Dall'essere il processo dia-logico conduce alla seconda categoria fondamentale
predetta, cioè alla Essenza la quale non è altro che la particolarizzazione
dello stesso Essere (Esse suam absolutam particolaritatem adeptum est
Essentia). Ciò che si è detto avvenire per la categoria fondamentale del l'essere
avviene anche per l’essenza, che cioè anche questa, alla sua volta
distinguendosi e particolarizzandosi in sè medesima, ne produce di ulteriori,
come quelle del fondamento, della sostanza, della materia, ecc. E quanto alla
terza categoria fondamentale, cioè l'esistenza, essa è l'unità dell'essere e
dell'essenza (INSISTENZA, ESISTENZA, CONSISTENZA). Ognuno nella “Ex-istentia” riconosce
l'Esse come particolarizzato. Ma d'altra parte, nella particolarizzazione
dell'Essere si specifica e manifesta anche l'elemento dell'Essenza, per forma
che l'esistenza risulta siccome una manifestazione dell'essenza (“EX-SISTENTIA
est essentia manifesta ). E da ultimo l'Esistenza (E-SISTENZA, EX-SISTENZA) dà
anch'essa origine ad altre categorie subordinate, come realtà, necessità, La
terza parte della Logica (o della Eso-logia ) cerettiana, cioè l'Auto-logia, si
fonda, sviluppa e sistematizza in tre categorie fondamentali, che son quelle di
Sapere, Volere, Agire (Scire, Velle, Agere ), le quali sono in corrispondenza
di quelle che ricorrono nella terza parte della Logica hegeliana, e che sono l'idea
del conoscere (die idee des erkennens ), l'idea del bene (die idee des guten) e
l'idea assoluta (die absolute idee). Va però osservato che il volere e l'agire
che in Hegel si congiungono nell’idea del bene, e costituiscono l’idea pratica,
in Ceretti appariscono, al contrario, come momenti e categorie distinte. Questa
terza parte della Logica del Ceretti è una delle più belle e ad un tempo una di
quelle in cui il Ceretti è come più originale e più indipendente da Hegel. Il
modo come vede la distinzione, la relazione e la unificazione del sapere, del
Volere e dell'Agire è qualche cosa di profondo, di stupendo e di vero, e lo si
vede più chiaramente e più determinatamente di quel che possa vedersi nel, pure
grandissimo, filosofo tedesco. Ciò viene dal perchè i tre momenti, che in Hegel
sono come ancora implicati e inviluppati, in Ceretti ricorrono come più
sviluppati e ad un tempo più sistemati. Il pensiero cerettiano dell'auto-logia
è (secondo che lo espressi nella mia Notizia degli scritti del pensiere
filosofico del Ceretti) che l'assoluto è la coscienza logica che si
sistematizza in se stessa, per quindi sistemarsi fuori di sè allo scopo finale
di sistemarsi in sè e per sè come assoluta unità di sè stessa. L'Auto-logia costituisce
un sillogismo assoluto (cioè una connessa triplicità assoluta), i cui termini
sono i predetti di Sapere, Volere, Agire. Nella Coscienza assoluta il Sapere è
l'essere del Volere. Nel Volere c'è, infatti, esterîorazione del Saputo. Il
volere è l'essenza del Sapere. L’agire è l'esistenza del Volere. Tutti e tre
insieme costituiscono l'unitrinità della Coscienza. Anche le tre predette
categorie si distinguono e particolarizzano in altre. Il Sapere si svolge ne '
momenti subordinati (i quali son tre sotto-categorie anch'essi) la prima
sottocategoria di sapere immediato, la seconda sottocategoria di sapere mediato,
e la terza sottocategoria di sapere assoluto. Il Volere si distingue e
particolarizza alla sua volta nelle tre forme sottocategoriche. Prima
sottocategoria del Volere subbiettivo. Seconda categoria del volere obbiettivo.
Terza categoria del volere assoluto. La categoria auto-logica dell’Agire si
particolarizza nelle sue corrispondenti tre sottocategorie. Prima
sottocategoria di “agire attuoso”, aagire come atto puro e semplice. Una
seconda sottocategoria come Agire volonteroso. Terza sottocategoria come Agire
concettuale. ). (Queste tre azioni (o funzioni) categoriche dell’Agire le
designa come Agere actum, Agere voluntatem e Agere notionem). Questo è in breve
il concetto e disegno della prima parte della grande opera enciclopedica del
nostro filosofo. La seconda parte, quella del Logo FUORI sè (EXO-LOGO,
esso-logo) o del Logo nella sua obbiettivazione, cioè la Filosofia della
Natura, ha avuta una estesissima trattazione; e trattazione in cui il nostro
filosofo si mostra non poco originale ed indipendente rispetto alla
corrispondente parte della Enciclopedia hegeliana. Essa è PER NOI ITALIANI
TANTO più importante, in quanto non vi è in Italia, neppure presso i nostri
filosofi maggiori moderni, una sola opera che, prima di questa del Ceretti,
meriti il nome di filosofia della Natura nel senso ampio, vero e moderno della
parola. Io ho scritto su questa parte della grande opera cerettiana tre lunghissime
Introduzioni ai tre volumi che vi si riferiscono, le quali, riunite insieme e
pubblicate sotto il titolo di “Filosofia della Natura” formano un'opera di ben
487 pagine; e in questa ho ampiamente chiarita e dimostrata la verità di tutto
ciò. Quanto al cenno che posso farne qui, specialmente a cagione della vastità
di trattazione che ha nel Ceretti, esso non può consistere in altro se non
nella pura e semplice indicazione del disegno, della materia e dell'andamento
della trattazione stessa. Premessa la determinazione della posizione e del
concetto della filosofia della Natura nel Sistema pan-logico, passa alla
considerazione di un punto importantissimo, quello cioè della evoluzione
storica della concezione filosofica della natura, evoluzione che, secondo lui,
passa per tre gradi e corrispondenti forme della coscienza filosofica, la forma
estetico-teologica (o sentimentale) la forma empirico -matematica (o
intellettiva e riflessiva ) e la forma speculativa propriamente detta (o
concetturale). E fa in propo sito una stupenda rassegna storica di queste
forme, giungendo all'ultima, ossia alla hegeliana, alla quale egli si
riattacca, ulteriormente sviluppandola e riformandola in ciò che ha di
difettivo. Procede quindi alla partizione della Filosofia della Natura,
dividendola come abbiam detto in Meccanica, Fisica e Biologia, conformemente
alla Natura distinta in sè stessa in meccanica, fisica, e biotica (vivente). Carattere
costitutivo della Natura meccanica è la QUANTITà, della fisica la qualità, e della
vivente l'UNITà (composizione) della quantità e della qualità, la quale unità è
poi la MODALITà o la misura della medesima. Quanto all'unità inscindibile delle
tre parti distinte e de' corrispondenti tre' caratteri della natura, sono
notevoli e riassuntive queste parole del filosofo intrese. Cioè: Il meccanismo
é ove è la fisica (la natura fisica), e la fisica é ove è il meccanismo; e se
vi sono il meccanismo e la fisica, vi è anche la natura vivente. Ad intendere
meglio il rapporto ed il corrispondente concetto filosofico delle predette tre
parti e de' tre predetti corrispondenti caratteri, arreca un esempio
illustrativo, che è bene di riprodurre anche qui. Il meccanismo suppone
necessariamente l'esteriorità reciproca dei suoi termini. Quando questa
esteriorità, passata nella sua interiorità, nella sua unità inseparabile,
trascenda sé a sè esteriore, non versa più in un piano o campo meccanico, il
quale ammetta per sè alcuna intrinsecazione qualitativa della esteriorità
meccanica, ma versa propriamente nella natura fisica del meccanismo (in
mechanismi physi), la quale è la à passatQUANTITa nella sua QUALITà che deve
esplicarsi. Così, ad esempio, in qualunque modo supponiamo il ferro, diviso,
figurato, posto in movimento, ecc., esso non cessa di essere ferro. E quando
per azioni esterne, come ad esempio, per l'ossidazione, cessi di essere ferro,
non consideriamo tali azioni come meccaniche, perchè due modi della materia
(l'ossigeno e il ferro) sono divenuti un solo modo (neutrale), il quale non
ammette più alcuna co-alteriorità esterna di fattori (essenzialissima al
meccanismo, ma è in sè l'unità qualificata de' quanti, la natura fisica del
meccanismo. La quale unità è poi LA VITA, ossia, quel principio grazie al quale
l'alteriorità meccanica si neutralizza fisicamente, e la neutralità fisica si
alteriora (si fa altra ) meccanicamente: il che, in quanto è nella circoscrizione
essologica (naturale), è la vita. Ciò posto, concependo la natura meccanica o
il meccanismo come il sistema della quantità, passa alla reale considerazione e
corrispondente sistemazione filosofica di tutti i principii (detti anche
categorie naturali) della medesima come spazio, tempo, moto, ecc. Conformemente
a ciò, concependo la natura fisica parimenti come il sistema della qualità,
svolge i principii o categorie naturali di essa, come etere (o materia eterea),
luce calore, magnetismo, elettricità ecc. E s'intende che ciò che è detto della
natura meccanica e della fisica, va detto anche della NATURA VIVENTE, della
quale, come unità concreta delle due antecedenti, si vvolgono, determinano e
sistematizzano i corrispondenti principii e momenti. Questi principii, coi
relativi sistemi vitali, sono nella loro generalità e progressività evolutiva
la vita cosmica od URANICA, la vita geologica e la vita fito-zoologica. Per
questa intende la predetta reciproca esteriorità de' termini. La vastità di
conoscenza delle discipline naturali non che la forza speculativa ch'ei mostra
nell'intenderne e collocarne i principii nel suo vasto disegno del sistema
panto-logico sono tali da fare del Ceretti una delle menti filosofiche più
vaste e più profonde del nostro paese. Col terzo volume della Filosofia della
Natura, che è il quinto della grande opera pan-logica, questa rimase interrotta;
però se rimase interrotta, la iattura non è stata nè intera nè irreparabile.
Giacchè i cenni e relativi concetti riformativi anche della terza parte del
sistema pan-logico già delineati primamente ne' Prolegomeni, poscia qua e là
considerati negli stessi quattro susseguenti volumi, son tali e tanti da
potersi fare un concetto chiaro e de terminato anche di esso. Ma, per giunta ed
ulteriore integrazione di questa, lascia due saggi che concernono proprio
questa terza parte, cioè le due già mentovate intitolate, l'una, Considerazioni
sopra il sistema generale dello spirito ecc. (Torino), l'altra, Sinossi del
l'enciclopedia speculativa (Torino). Un brevissimo cenno anche di questa terza
parte è il seguente. Quanto al concetto, obbietto e partizione di essa,
rappresen tando la prima parte la subbiettività del logo o della coscienza
assoluta, e la seconda la obbiettività, questa terza rappresenta l'assoluta
unità delle medesime: assoluta unità, che vien cosi ad essere la Coscienza
subbiettiva obbiettivata e ad un tempo la Coscienza obbiettiva subbiettivata.
Or questa Coscienza risultata tale è ciò che il Ceretti (conformemente ad
Hegel) appella comune mente anche spirito, il quale è appunto l'obbietto di
questa parte da lui denominata sin-auto-logia. Intanto, siccome lo Spirito,
benchè già sorgente nella stessa animalità, pur non giunge alla sua reale
manifestazione, esistenza e verità se non nella umanità, così divien questa lo
speciale obbietto della sin-auto-logia. La quale perciò è dal nostro filosofo,
designata come speculante l'Uomo, primamente nella Subbiettività secondamente
nella Obbiettività, e in terzo luogo nella Assolutezza del medesimo:
Assolutezza, che è l'unità della Subbiettività e dell'Obbiettività. Di questa
triplice considerazione, o meglio speculazione, la prima costituisce ciò che
egli chiama l'Antropo-logia, la seconda l'Antropo-pedeutica, la terza,
l'Antropo-sofia. I lettori che conoscono la dottrina hegeliana vedranno tosto
la simiglianza della dottrina cerettiana colla dottrina hegeliana dello
Spirito, distinta in quella di Spirito subbiettivo, spirito obbiettivo e
Spirito assoluto. Senonché, se c'è simiglianza nella generale concezione, c'è
anche una notevole differenza nella portico. L'uomo è la concreta verità dello
Spirito (Homo est spiritus concreta veritas). lare trattazione della medesima.
Per dire ancora qualche cosa della concezione e partizione cerettiana della
predetta Sin-auto-logia rilevo che l'Antropo-logia considera l'Uomo come
Subbietto generale. E come tal Subbietto consiste dell'elemento fisico o
corporeo e dell'elemento meta-fisico ossia animico, così essa è primamente
Psico-fisio-logia. Indi considera nel generale subbietto umano l'elemento, dirò
così specificamente umano, ossia la mente, ed è Noo-logia; in terzo luogo, la
mente, o l'attività teoretica, si realizza come attività pratica e allora
l’Antropo-logia nel suo terzo momento è Prasseo-logia o dottrina del l'azione
spirituale. La Psico-fisio-logia, la Noo-logia e la Prasseo-logia hanno alla
lor volta principii, ossia momenti subordinati, e vengono anche questi
considerati, accolti e sistemati nella Antropo-logia L'Antropo-pedeutica,
all'opposto della Antro-pologia che consi sidera l'Uomo subbiettivo, considera
l'Uomo obbiettivo, ossia l'uomo nella obbiettivazione della propria
subbiettività: la quale obbiettivazione costituisce, primamente, la dialettica
mondiale umana e produce ciocchè si appella la storia; è in secondo luogo il logo
sistematico della dialettica obbiettiva, che in senso lato è ciocchè si appella
la didattica; e in terzo luogo è la stessa obbiettività sistemata nel Subbietto,
che è quella che si designa col nome di DIRITTO. Che anche queste tre parti dell'Antropo-pedeutica
(Storia, Didattica, Diritto), si sviluppino, particolarizzino e sistematizzino
in ulteriori sfere, attività, principii, ecc., lo s'intende da sè. E cosi viene
assolta anche questa parte della Sinautologia. E finalmente vien considerata e
trattata l'ultima sfera di questa, cioè l'Antropo-sofia, la quale ha che fare
coll'uomo considerato nella sua assolutezza, ovvero nella sua Coscienza
assoluta, e com prende la sua attività artistica, religiosa e filosofica.
L'Arte è la contemplazione e produzione del bello, del buono e del vero
mediante l'ispirazione estetica: la Religione e l'apprensione, rivelazione e
culto del divino, e tramezza la manifestazione estetica e la concezione
filosofica; la FILO-SOFIA sviluppa la immediata apprensione religiosa nella
mediata concezione del pensiero assoluto. La triplice ed assoluta attività
dello spirito, artistica, religiosa e filosofica costituisce l'ultimo e supremo
sillogismo del Logo assoluto o della Coscienza assoluta, e con esso si chiude
il Sistema pan-logico. Tale è in nuce il vasto pensiere filosofico cerettiano e
la vasta esecuzione del medesimo. Per ciò che è riferito in queste poche pagine
rimando il lettore ai miei molteplici lavori intorno al Ceretti, specialmente
alla Notizia degli scritti e del pensiere filosofico non che alla Filosofia
della Natura » del medesimo. E soggiungo e annunzio qui volentieri che intorno
a quest'uomo, che ha occupato due decenni di studi della mia vita, son presso a
finire l'ultima mia opera: opera che consiste in una estesa e particolareggiata
esposizione di tutto intero il suo sistema panlogico, compresa la sinautologia.
Ho forse speso intorno a lui più tempo di quel che conveniva per i miei propri
studî e lavori. Ma non me nepento, non solo perchè è stato di giovamento a
questi stessi, ma specialmente perchè ho contribuito a far conoscere un uomo,
che fa onore grandissimo alla filosofia in genere e alla filosofia italiana in
ispecie. Grazie!‘ — Diamo a giustificazione un elenco, che pur non si può
dire ancora com- pleto, delle opere postum e di Pietro Ceretti:
18l3-4fi. Traduzioni varie dal latino, francese, tedesco, inglese.
(Virgilio, Orazio, Lamartine, Kozbue, Schiller, Shakespeare, Byron e
Thompson). Orig. Leonora di Toledo. Poemetto in tre canti, versi sciolti
con liriche intercalate, varie liriche. * 1847. Tltime
lettere di un Profugo. Romanzo in prosa, t volume. ld.
Pellegrinaggio in Italia. Canti 6 (ottava rima). 1 volume (edito). .
1848. Poesie Uriche. 1 volume (edito) con alcune liriche scritte ne]
1815. ) ld. Prometeo. Poema, 17 cauli (versi sciolti). -2 volumi.
X(, 4^ \l 8-t9— TkL Storia del diritto Canonico. I volume. }f
5^^858— o9. Avventure di Cecchino. Poema in ottava rima, cauti 22. "2
volumi. jjL 31H 560-62. Miscellanee filosofiche. 1 volume. 1 ld.
Scienze naturali e considerazioni storiche. 1 volume. — |d. - C
"'""'H11 /'--"J'iri-* :i volumi (editi), 3- alùi
(inedili). #» f}J865>-76. Sogni e Favole (umorismo trascendente), i
volumi. 1870. Apocalypsis (misticismo allegòrico) greco con
versione latina (imita- zione del greco e latino della Chiesa primitiva).
Opuscolo. • i- e/- 1870-81. Grullerie Poetiche (umorismo parodiaco) 4
volumi. A}-ii 1871-84. Massime e Dialoghi. 4 volumi. 1875. I
Conferenti. Commedia nebulosa in 3 atti. I volume. 1876. Ormuzd.
Dramma mistico in 3 alti. 1 volume. _ l>l Synùp s i dell'
Enciclopédia Siwr.idatirn - I viiliimi', ~ i~. noiTSffnpltcìo.
homaiizo. 2 volumi. ld. Idee radicali delle discipline finite e
delle matematiche empirico-indut- tive. 1 volume. i 1877. 7/
Cavalier (riovannino. Romanzo. 1 volume. " ld. Manuale di medicina
pratica. 1 fascicolo. 1878. L'Inconcludente. Romanzo. 2
volumi. * ld. Lo Zio Giuseppe. Commedia. 1 fascicolo. Él*nJ
■^'J~.fc 1878, Considerazioni sopra il anatema generale dello spirito entro i
limiti ' della riflessione. — Considerazion i circa il
sustema della natura entro i limiti della rifles- sione. 1 v olume
(edito). f — Id. Viaggi utopistici. 1 volume. _ ld. Il
Protagonista. 1 volume. _ Id. Proposta di una riforma sociale. 1
volume. , Id. Considerazioni generali circa la caratteristica
spiritualità dell'Italia. 1 fascicolo. T(e 1879.
Insegnamento filosofico. 1 volume. v — ld. Gregorio. Romanzo. 1
volume. ld. Novellette morali. 1 volume. , v 1880.
Itinerario d'un Inqualificabile. 1 volume. J .\; _ 1881. Trattato
di Astronomia. 1 fascicolo. Id. Introduzione alla coltura generale.
I volume. _ Id. La Divina Commedia. 1 volume. ^ "~
Id. Vita di Giustino Caramella scritta da se stesso. 1 volume. Id.
Vita di due Comici. 1 volume, ld. Vita di Virginia Bonaventura. 1
volume, i * 1882. Sonnambulo. 1 volume. A ld La
mia celebrità. I volume.. Td! Inventario delle mie
vicissitudini mondane. 1 volume. 1883. Memorie Posthume. I volume.
//- 1883-84. Stramberie philosophiche. 1 volume La pubblicazione, che si inizia
con questo primo volume, è un monumento che una figlia pia innalza alla
memoria di un amatissimo padre, non per adempiere ad una espressa o
tacita di lui volontà, ma piuttosto in contrasto a questa, e perchè
gli studiosi conoscano, almeno dopo la di lui morte, la profondità
del sapere che egli aveva potuto condensare nella propria mente, e le
diuturne e dotte speculazioni da lui compiute nella sua non lunga
vita. E affinchè niuna meraviglia possa solére .dalla
pubblicazione stessa, e dalle opere che ne sono l'oggetto, in quanto che
e l'una, e le altre, si differenziano alquanto dal comune, parve
opportuno e conveniente di premettere una breve notizia, che dica al
lettore chi sia stalo, e come abbia vissuto fautore, e con quali
intendi- menti, e con quali criteri si diano alla luce i suoi scritti,
che egli non ha creduto di diffondere. Pietro Ceretti ebbe i
suoi natali nell'agosto dell'anno 1823 in Intra, la città più popolosa
tra quelle che si adagiano sulle ame- nissime rive del Lago Maggiore, e
meritamente celebrata per le sue potenti industrie, dal cav. Pietro e da
Caterina Rabbaglietli. Il padre suo, uomo di chiaro ingegno, lutto
compreso della necessità dell'istruzione e della educazione, prerogativa
abba- VI OPERE POSTUME DI PIETRO CERETTI stanza
mia in quei tempi, e fervei ile pi opugualure di ugni istitu- zione, che
avesse per iscopo di promuovere quelle due fonti di civile e materiale
benessere (I), provvide tosto a coltivare la mente del figliuolo;
seguendo però l'inveterala consuetudine avita, dapprima l'affidò alle
cure di questo e quell'abate, che non riu- scirono ad illuminare gran che
il di lui intelletto irrequieto, come egli slesso ha poi umoristicamente
narralo in interessantissime pagine sulla sua prima gioventù ; di poi lo
allogò nel seminario di Arona e nel \\. Collegio di Novara.
Ma il giovanetto, vivace di animo, e la mente precocemente inlesa
ad altri ideali, poco o nulla approdilo di quei primi sludi; e liberatosi
alfine dalle pastoie degli insegnanti e del vivere col- legiale, tolse a
maestro se medesimo, sorretto solo dalla Terrea tenacità del suo volere,
e dall'imperioso ed irresistibile bisogno di sapere. In breve, il diremo
con frase che nel caso nostro non è punlo rellorica, diede fondo
all'universo scibile; apprese a parlare ben selle delle moderne lingue, e
delle morie, al Ialino insegnatogli dai precettori , aggiunse profonde
cognizioni del greco, dell'ebraico e del sanscrito. A
diciolto anni si recò a Firenze, dove soggiornò qualche anno, stringendo
amicizia coi primari ingegni di quel lempo, specie con Gino Capponi, con
G. H. Niccolini, e con quella chiara pleiade di letlerati, che
frequentarono il Gabinetto del Vieusseux. Più lardi, desioso di vedere
paesi e persone, e fidente nel suo temperamento robusto e nella florida
salute, si diede a lunghi e singolari viaggi. Percorse in
vero, più volle, e quasi sempre a piedi, l'Italia peninsulare, la
Sicilia, la Germania, la Francia, l'Inghilterra, in cui fece lunga dimora,
e la Spagna. Ed era tanlo in lui il desi- ci) 1 suoi concittadini
venerano ancora in lui il fondatore di un Asilo infan- tile, die è Ira i
pili antichi, eil b modello a Inlla Italia, e lo zelante Sovra
Jtiteiifh'iitf, per più di 'ìi) unni, delle scuole elementari riviene.
NOTIZIA SOPRA L'AUTORE VII derio di penetrare nei più
ascosi recessi e della natura, e del- l'animo umano, che attraversò i più
malagevoli passaggi dei Pirenei, accompagnandosi colle frotte di zingari
e malviventi, clie abbondavano in quei paraggi. Nulla lasciò
in quelle sue peregrinazioni di intentato, o ine- splorato, che potesse
servirgli nello studio dei suoi simili, e delle abitudini e costumi dei
diversi ordini sociali; e dalle più alle società, dai primari alberghi, scese
alle più umili taverne, mesco- landosi colle infime classi, per indagarne
i sentimenti e le tendenze. Dopo siffatto giro per l'Europa ritornò
in patria, ove si com- pose nella pace famigliare, e si diede tutto a
viaggi di altro genere, vogliamo dire a spedizioni lunghe e laboriose nel
campo immenso del sapere, leggendo, e più meditando, le opere dei
massimi filosofi e pensatori d'Italia, di Germania e di Francia, ed
arricchendo la mente di un incommensurabile tesoro di cogni- zioni, di
osservazioni e di pensieri È notabile questo periodo della sua
vita, in cui il nostro Autore condensò, per cosi dire, tutta l'umana
sapienza nel suo intelletto; chè dopo d'allora, e in ispecie negli ultimi
anni del viver suo, nei quali fu pur massima la fecondità dello
scrivere, ben poco lesse, ed anzi si può asserire che più non
consultasse nel dettare libro alcuno, ma lutto quanto gli occorresse,
evocasse dalla sua tenacissima memoria, dallo sterminalo
accumulamento di cognizioni, che aveva in mente (I).
(1) Leniti e progressiva paralisi lo aveva quasi immobilizzato ; egli
doveva ricorrere quindi all'alimi aiuto per ugni «no movimento, e i suoi
Lunigliari asseriscono che da anni ed anni non ebbe mai ad ordinare di
recargli libro alcuno da consultale, mentre dettava continuamente per
molte ore del giorno. Era d'al- tronde ima delle massime da lui
predicate, che l'ingegno vero approfitta poco del materiale altrui, bensì
moltissimo dell'abitudine del coiu-etttrantento e della riflessione; e
solpva dirr fhp gran parte delle sue cognizioni non le (Tivca acqui-
state eolla lettura, ma colla meditazione e quasi per una catena di
messori' derivazioni. Infatti la maggior quantità dui suoi scritti data
dall'epoca che cessò di leggere. Vili OPERE POSTUME DI
PIETRO CERETTI Nel 1854 mandò ai torcili un primo saggio del buu
ingegno, un'opera letteraria, intitolata: II Pellegrinaggio in Italia di
Ales- sandro Goreni, poema in ottava rima, ove con poesia profonda-
mente inlima, sostanzialmente nuova ed originale, diede sfogo ai molti
pensieri ed affetti, di cui aveva ripieno l'animo. E poco dopo
pubblicò, coll'allro pseudonimo di Tkeophilo Eleutero, un secondo e ben
diverso saggio della profondità del suo sapere, e dell'acume del suo
intelletto, mandando alla luce Ire grossi volumi di un'opera filosofica,
che intitolò: Pasaelogices Specimen (I), e fece stampare in latino;
lavoro che per modestia volle fosse edito in pochi esemplari, ma che in
Germania diede argomento a serie critiche nella Rivista filosofica
Zcitschrift (Halle) ed in altri periodici scientifici (II).
Ma qui pur troppo s'arrestano i lavori edili del nostro Au- tore;
chè all'infuori di qualche scritto di minore importanza, apparso su
giornali locali, nulla ei più permise che si desse alle slampe di quanto
andava e andò scrivendo fino alle sue ultime ore. Racchiudendosi
modestamente, e un poco anche egoistica- mente, nelle soddisfazioni
intime delle sue elucubrazioni, più non volle che alle sue gioie mentali,
alle sue indagini filosofiche, ai suoi profondi ed originali pensieri
partecipassero i lettori; e studiò e scrisse per sè solo, per esercizio e
ginnastica della sua (I) Pasaelogices specimen, Tiikophilo Eleittro
editimi. Voltimeli pr imitili — Proì egomena. Volumen
secundum — Esologia. Volume» tertium — Natura Medianica — Intra,
MDCCCLXIV — MDCC11LXV1-VII. — Torino e Firenze, lilucria di Ermanno
Loeschef. — Ve ne sonu altri due volumi inedili. (II) Ecco
come ne parlò, fra gli altri, il Foglio Centrale Letterario di Lipsia in
un lungo articolo sull'opera slessa, di cui noi riportiamo solo un brano:
* E sorto un anonimo italiano; egli parla nella lingua ecumenica del
pas- sato il suo è un lavoro, che ò il risultato di un'escogitazione
indefessa di tanti anni, forse di tutta la sua vita (con
un'estensione di due mila pagine), e che tratta di tutte le cose del
Cielo e della Terra, e per di più della logica dello Spirito assoluto; è
una continuazione della speculazione di Hegel, dalla quale perù vuole
assolutamente distinguere la propria dottrina . NOTIZIA
SOPRA L'AUTORE IX inenLe elevatissima, del poderoso suo intelletto,
per appagare la sua smania del vero. Meditava e scriveva, al
pari di Vincenzo Gioberti, dodici e più ore al giorno. I suoi
concittadini il ritrovavano spesso solitario per le campagne e i dolci
declivi delle amene montagne che stanno a cavaliere d'Intra, sotto al
vitale raggio del sole, o seduto alle ombre amiclie dei l'aggi e dei
castani, colle lasche zeppe di libri, sempre speculando ed annotando
colla matita sopra la carta i suoi pensieri. Al pari dei peripatetici si
dilettava di filosofare camminando nell'aer puro, nella serena festività
della natura, alla luce gaia del sole, o nella tepida ed affascinante
quiete dei boschi. Dal ponderoso lavorio mentale del
filosofare egli trovava sol- lievo nelle arti belle e nelle belle
lettere; ed allora dettava quelle innumerevoli poesie, che stanno
raccolte sotto il caratteristico titolo di Grullerie Poetiche, e nelle
quali con vena originalissima, non leziosa o ricercatrice di supposti e
romantici ideali, e con spirito satirico il più fine, spesse volte non
facilmente apprezza- bile, egli fìssa l'impressione del momento, o deride
le costumanze strane delle mode, o celebra i fasti cittadini, che
giungono col rumore dell'eco all'orecchio suo, lontano ornai dal
consorzio umano, e non abituato che alle voci dei suoi inlimi; ed
allora traeva dal prediletto flauto dolci suoni, o sull'arpa antica
tradu- ceva la soave ispirazione dell'animo suo, o sul pianoforte
combi- nava le armonie musicali, consuonanti colle armonie delle
idee sue, della natura, e della verità, che a lui si disvelavano
nelle profonde sue speculazioni. Cosi visse Pietro Ceretti,
tanto grande per intelletto, quanto semplice di modi e di costumi.
L'altezza della sua mente pareg- giava la nobiltà affettuosa del suo
cuore. Austero per indole, tollerante delle fatiche, intrepido nei
pericoli, alieno dagli agi, benché a lui permessi dai beni della fortuna,
schivo del mondano X OPERE POSTUME DI PIETRO CERETTI
frastuono (non desiderò die una cosa: vivere sconosciuto), chiuse
in petto un'anima temprala a rettitudine, a purezza quasi primi- tiva,
che lo rese incapace di odio e di avversioni contro chic- chessia, e di
qualunque simulazione o maldicenza. Naturale, aborrente da leziosaggini,
si riprodusse, quasi in specchio fedele, nel suo stile semplice e rigido,
tendente ad essere chiaro più che seducente. Affabile, unitissimo, nel
conversare parve un fanciullo; lo si sarebbe detto, anche per la modestia
del vestire e del vivere, un uomo taglialo alia grossa, e di rozzi sensi
; ed invece di quanto allo sentire, di quanta soavità d'animo era egli
dotato! Un cullo affettuoso ei professò per la consorte, troppo presto
rapitagli ; un'inarrivabile tenerezza per l'unica sua figlia, che ne
consolò la precoce inferma vecchiaia. Colpito invero a
cinquantanni da lento, ma inesorabile morbo, che gli impedi l'uso delle
gambe, per quasi due lustri non si mosse dalle sue stanze, che volle in
uno spazioso lenimento, sul- l'alto della città, affine di poter
distendere lo sguardo vivo e sereno sul più ampio tratto possibile di
quella natura, in cui egli aveva tanto liberamente voluto vivere fino
allora. Il suo tempera- mento, pur tanto desioso di moto e di novità, si
compose con ammiranda rassegnazione alla quiete, a spaziare in pochi
metri quadrali di superficie. Con una forza d'animo, che solo può
ve- nire o da angelico spirito, o dal conforto della filosofia,
sopportò i dolori fisici e morali della lunga infermità; e mai un
lamento, mai un lagno uscì dalla bocca sua, neppur quando venne da
ultimo costretto al letto, e vi rimase fermo per gli ultimi diciotlo mesi
di vita. Che anzi consolava e ravvivava lo spirito afflitto della
figliuola; e l'andava preparando con filosofici pensieri alla sua
dipartila da questo mondo, che con spirito antiveggente e quasi
profetico, calcolò prossima di mesi e di giorni (I). (1) Era solito
di dire: morire non è, ni un bene, uè un mule, mn soltanto na- turai rosa
come il nascere. Siate perciò calmi come sono io. NOTIZIA
SOPRA L'AUTORE XI ] patimenti fisici non gli tolsero, estrema
consolazione della travagliosa vita, la lucidità e la fecondità del
pensiero; e continuò le sue meditazioni e i suoi sludi lavoriti, dettando
incessante- mente alla diligente sua lettrice. Fin negli estremi momenti,
al- lorché l'ansia affannosa del respiro rese inintelligibili i
suoi accenti, tentò più volte di esporre l'ultimo suo pensiero sull'opera
che aveva in corso. Tale in breve la vita del nostro Autore, nella
quale tu non trovi da celebrare avventure o fatti straordinari, poiché fu
tutta dedicata, e modestamente dedicala, ad una faticosa, ma
tranquilla e serena lotta mentale, ad umbratili sludi, ad inlime
soddisfa- zioni, originate dalla scoperta di nuovi veri, al cullo delle
arti belle e delle scienze; ma per compenso in essa ti si rivela un
inimitabile esempio di indefesso amore del sapere, di privale eminentissime
virtù, di sublime rassegnazione ai mali fisici. É in memoria
adunque di quell'affettuoso padre, di quell'alta e modestissima
intelligenza, di quello squisito animo, che la figlia sua, signora Argia
Franzosim Ceretti, intraprende la pubbli- cazione delle numerose opere
filosofiche, scientifiche e letterarie, che egli ha lasciato manoscritte
ed inedite. L'abbiamo già detto, e convien ripeterlo, con questo nè
inter- preta un desiderio del padre, nè fa un pietoso sfregio alla
volontà di lui. Imperocché, come egli non ha pensalo a proibirlo,
cosi non ha imposto nè esplicitamente, né implicitamente, per una
postuma vanità, che le sue opere vedessero la luce. Egli non bramò mai in
vila sua di curarne la stampa; lo sperimento fallo del Pellegrinaggio in
Italia e dello Specimen Pasaelogices gli aveva provalo quante noie e
quanti fastidi arreca il sorvegliare l'edizione di poderosi manoscritti;
e, ciò che a lui maggiormente dispiacque, gli aveva rubato soverchiamente
di quel tempo, che egli ebbe sempre prezioso. Andò d'altronde convinto
che i suoi concetti si discostassero tanto dal modo volgare di pensare,
da sembrare XII OPERE POSTUME DI PIETRO CERETTI
meri paradossi (1); e più volle invero nelle opere sue ripete
essere a lui consentila la maggior libertà di pensare e di scrivere,
ap- punto perchè non teme di disgustare i suoi non-lettori.
Questo però non è il parere di chi attende alla presente pub-
blicazione; è vero che negli scrini, che vedranno la luce, vi è una
originalità di pensiero, la quale può parer strana ai poco colti, ed
impressionare anche i doni; ma è vero altresì che, anzi che provocare
censure, vi è piuttosto a credere che gli stessi de- steranno
l'ammirazione per la novità, la potenza, l'altezza dei concetti che vi si
affermano dal nostro filosofo ; è piuttosto a sperare che i lettori
andranno lieti di poter rinvenire, in tanta serie di scrittori o plagiari
o volgari, una intelligenza, che esprime idee tutte proprie, e forti, e
vere, meritevoli insomma della più grande considerazione. La
quale originalità, che è riproduzione fedele del carattere dell'Autore,
fu con suprema e scrupolosa cura conservata intatta. Più che ad
adornargli la veste in modo, che gli accaparrasse a primo acchito la
simpatia, più che a fornirlo di allettatici attrat- tive, si è mirato a
presentarlo al pubblico nella fedele e polente impronta del suo genio.
Sicché, ad onla che sarebbe tornato fa- cile di rimediare ad alcune mende
del suo stile, piuttosto ten- dente a chiarezza che ad eleganza, e di ammodernare
la sua specialissima ortografia, nulla si volle sostanzialmente
immutare, e gli scritti si pubblicano quali si trovarono dettali, ad
eccezione di qualche correzione di forma, necessaria e solila di farsi
anche dagli autori stessi, allorché i loro manoscritti stanno per
essere consegnali al tipografo. Un'altra dichiarazione
occorre porre avanli ; ed è che la pub- blicazione viene cominciala colle
due opere conlciiute nel presente (I) Epli stesso, parlando rìrlle
sue open 1 , così si esprime: / miei scritti potrebbero aen&rare a
molti ti» ainmaxsn ili rontrailiziotii, o anche l'eccesso della
trivialità. NOTIZIA SOPRA L'AUTORE XIII volume,
pel solo motivo che esse sono quelle che, fra le poche potute finora
disaminare, parvero a preferenza scritte in modo piano, ordinato e quasi
melodico, e perciò facile ad essere com- preso dall'universalità dei
lettori ; e quelle altresì, che, trattando di una materia generale, si
prestano a fare in modo riassuntivo rilevare quale fosse la mente
dell'Autore e quali le sue dottrine, quali le sue idee su gran parte
delle cose umane. Nell'una invero si discorre dello spirito umano, e si
descrivono e criticano i vari sistemi, che si vennero formando dalla sua
nozione ; nell'altra si tratta di tutti i principi cardinali, dei quali è
la natura costrutta, e si analizzano coi criteri forniti
dall'intelligenza riflessa. Ben si sarebbe potuto seguire o un
ordine cronologico, man- dando alle stampe le opere nella stessa successione
nella quale l'Autore le scrisse, oppure un ordine razionale,
prefiggendosi un punto di partenza, come dal generale al particolare, o
dalle opere letterarie alle filosofiche, e cosi via. Ma da un
lato l'ordine cronologico non ha alcuna base in ragione, dipendendo da pura
casualità materiale che un'opera sia stata scritta prima dell'altra;
dall'altro il razionale, che certo sarebbe stato più logico e
preferibile, richiedeva per essere at- tuato una previa disamina, anche
solo sommaria, delle opere tutte, che si hanno manoscritte; il che
avrebbe cagionato un in- gente lavorio da compiersi, per l'unicità dei
criteri, da una sola persona, e di conseguenza avrebbe ritardato chissà
di quanto tempo l'inizio di questa pubblicazione, che considerazioni morali
di non minor peso delle razionali consigliavano di intraprendere tosto
(I). (1) Diamo a giustificazione un elenco, che pur non si può dire
ancora com- pleto, delle opere postum e di Pietro Ceretti:
18l3-4fi. Traduzioni varie dal latino, francese, tedesco, inglese.
(Virgilio, Orazio, Lamartine, Kozbue, Schiller, Shakespeare, Byron e
Thompson). Orig. Leonora di Toledo. Poemetto in tre canti, versi sciolti
con liriche intercalate, varie liriche. XIV OPERE
POSTUME DI PIETRO CERETTI Tale in succinto lo scopo cui mira, il
modo in cui vien falla, e la ragione per cui si inlraprende in una guisa
piullosto che nell'altra, l'edizione delle Opere postume di Pietro
Ceretti. Le quali ben si prevede non abbiano a riscuotere popolari
ap- plausi, altrettanto fragorosi quanto facili e poco duraturi ; ma
si spera in compenso che abbiano a fermare l'attenzione dei lettori
colti, studiosi, meditativi. Noi neppure ci allentiamo di darne un
riassunto analitico, o di sintetizzare il sistema filosofico dello
scrittore, o di esporre quali furono i suoi ideali, e con quali mezzi
assorse alle cognizioni del buono, del bello, del giusto; poiché,
oltrecchè, non essendoci bastato il tempo a leggere i molti manoscritli
da lui lasciati, da- remmo giudizio incompleto ed immaturo, preferiamo
che su di essi si esprima liberamente la pubblica critica.
Per Colei poi, che promuove questa pubblicazione, sarà in
— * 1847. Tltime lettere di un Profugo. Romanzo in prosa, t volume.
ld. Pellegrinaggio in Italia. Canti 6 (ottava rima). 1 volume
(edito). . 1848. Poesie Uriche. 1 volume (edito) con alcune liriche
scritte ne] 1815. ) ld. Prometeo. Poema, 17 cauli (versi sciolti). -2
volumi. X(, 4^ \l 8-t9— TkL Storia del diritto Canonico. I volume.
}f 5^^858— o9. Avventure di Cecchino. Poema in ottava rima, cauti 22.
"2 volumi. jjL 31H 560-62. Miscellanee filosofiche. 1 volume.
1 ld. Scienze naturali e considerazioni storiche. 1 volume. — |d. -
C "'""'H11 /'--"J'iri-* :i volumi (editi), 3- alùi
(inedili). #» f}J865>-76. Sogni e Favole (umorismo trascendente), i
volumi. 1870. Apocalypsis (misticismo allegòrico) greco con
versione latina (imita- zione del greco e latino della Chiesa primitiva).
Opuscolo. • i- e/- 1870-81. Grullerie Poetiche (umorismo parodiaco) 4
volumi. A}-ii 1871-84. Massime e Dialoghi. 4 volumi. 1875. I
Conferenti. Commedia nebulosa in 3 atti. I volume. 1876. Ormuzd.
Dramma mistico in 3 alti. 1 volume. _ l>l Synùp s i dell'
Enciclopédia Siwr.idatirn - I viiliimi', ~ i~. noiTSffnpltcìo.
homaiizo. 2 volumi. ld. Idee radicali delle discipline finite e
delle matematiche empirico-indut- tive. 1 volume. i 1877. 7/
Cavalier (riovannino. Romanzo. 1 volume. " ld. Manuale di medicina
pratica. 1 fascicolo. 1878. L'Inconcludente. Romanzo. 2
volumi. * ld. Lo Zio Giuseppe. Commedia. 1 fascicolo.
NOTIZIA SOPRA L'AUTORE XV ogni caso di sufficiente conforto l'aver
dimostrato con essa come il padre suo, nella sua apparente inoperosità,
abbia invece com- piuto un lavoro immenso, quasi incredibile potersi
compiere da una mente umana in sessantanni di vita; come, tuttoché da
oltre ventanni se ne stesse segregato dal mondo, tanto che lo si
ri- tenne sdegnoso dell'umano consorzio, egli abbia seguilo e
ritenuto con diligenza, memoria, affetto ed acume sorprendenti tutto
il corso dei moderni avvenimenti, e si sia interessato alle vicende
anche più minute della vita umana, la quale egli, trattosene fuori,
contemplò e giudicò dall'alto e spassionatamente; ed infine con quanta
forza d'animo e vigoria di mente abbia, anche ammala to, continualo
l'aspra, diuturna e faticosa ricerca della verità e della luce
spirituale. Che se poi le opere sue potranno servire ad accrescere
le cognizioni odierne, e disvelare nuovi orizzonti, a precisare
sistemi Él*nJ ■^'J~.fc 1878, Considerazioni sopra il anatema
generale dello spirito entro i limiti ' della riflessione. —
Considerazion i circa il sustema della natura entro i limiti della
rifles- sione. 1 v olume (edito). f — Id. Viaggi utopistici.
1 volume. _ ld. Il Protagonista. 1 volume. _ Id.
Proposta di una riforma sociale. 1 volume. , Id. Considerazioni
generali circa la caratteristica spiritualità dell'Italia. 1
fascicolo. T(e 1879. Insegnamento filosofico. 1 volume.
v — ld. Gregorio. Romanzo. 1 volume. ld. Novellette morali. 1
volume. , v 1880. Itinerario d'un Inqualificabile. 1 volume.
J .\; _ 1881. Trattato di Astronomia. 1 fascicolo. Id.
Introduzione alla coltura generale. I volume. _ Id. La Divina
Commedia. 1 volume. ^ "~ Id. Vita di Giustino Caramella
scritta da se stesso. 1 volume. Id. Vita di due Comici. 1
volume, ld. Vita di Virginia Bonaventura. 1 volume, i *
1882. Sonnambulo. 1 volume. A ld La mia celebrità. I volume..
Td! Inventario delle mie vicissitudini mondane. 1 volume.
1883. Memorie Posthume. I volume. //- 1883-84. Stramberie philosophiche.
1 volume. XVI OPERE POSTUME DI PIETRO CERETTI
filosofici e speculativi oggidì ancora incerti ed indefiniti, essa avrà
nei contempo raggiunto un altro intento, quello cioè di far contribuire
all'aumento del patrimonio intellettuale scritti che erano dal loro
Autore destinati a rimanere sepolti. E ciò la con- forterà maggiormente
nell'adempimento dell'intrapreso assunto, che è per lei il più sacro e il
più caro dei doveri. L'arte della parola è per noi assai più spirituale che non
le arti del disegno e della musica. La medesima contiene idee de-
finite come nell'arte del disegno, e medesimamente una succes- sione
temporanea come nella musica-, ma queste idee definite non sono più
astrattamente naturali come nell'arte del disegno (appari- zione), nèuna
successione temporanea di spirituali emozioni, corno nella musica, ma
piuttosto idee concrete (physir.fte e metaphysiche) colle loro
successicni definite di idee pensale non astrattamente sentite.
Si crede comunemente che l'arte della parola sia la vera re-
sumzione del disegno e della musica; certamente essa può espri- mere idee
proprie, quali non potrebbero essere espresse da vermi disegno e da veruna
musica, ma questa proprietà non costituisce una vera preminenza nel
significato che a lei comunemente si attribuisce. L'arte poetica riassume
in se stessa ed esprime a proprio modo certe idee, quali non potrebbero
essere espresse da quelle altre due arti, ma non potrebbe in verun modo
essere so- stituita alle prefate singole arti. La stessa può esprimere
una suc- cessione di pensieri, ma non una successione temporanea di
emo- zioni spirituali col prestigio proprio della musica; così pure
può esprimere definite rappresentazioni come le arti del disegno,
ma non può presentarle immediatamente e sensibilmente, al pari di
quella, la quale ripete il suo prestigio appunto da questa imme- diala
sensibile rappresentazione. Cosi generalmente parlando l'arie
poetica da una parte può essere considerala come resumliva unità delle
idee divorziale nella musica e nel disegno, dall'altra però può essere
considerala come il germe inesplicito delle suddette arti, che
esplicandosi nelle loro astrazioni generano il disegno e la musica.
Infatti se l'arte poetica da una parte accompagna il massimo
svolgimento della civiltà, dall'altra parte è stata un'arte assai
primitiva e forse cosi primitiva come il disegno ed assai più che la
musica; le idee l'arte della parola
contenute in queste possono considerarsi come generate da una
astrazione ideale, che costituisce le suddette arti. L'arte della
parola si divide in tre periodi capitali: 1) L'arte poetica come esiste
nella letteratura propriamente delta; 2) L'arte
prosaica, come esiste nelle discipline finite empi-
rico-matematiche; 3) L'arte speculativa, come esiste in tulle le
cosi delle p/iilosophie, non arrivale alla necessità logica del pensiero,
cp- pcrciò a quelle philosophie che devono persuadere o dimostrare
in qualche modo la propria verità. Questi tre periodi costituiscono
la concreta arie della parola, ossia quella che si svolge come
manifestazione della Coscienza pensante. Noi tratteremo brevemente, ma
categoricamente questi tre periodi della parola, che realmente sono anche
i periodi dello spirilo parlante, prima del quale è l'esistenza meramente
psychica e istintiva delle bestie, e oltre il quale il pensiero va in un
altro systema che non è più quello che possa interessare lo spirilo
slesso. Intendiamo arte della parola quell'arte che si svolge nel
pen- siero concreto, epperciò si manifesta sotto le forme concrete
del medesimo, non in qualche sua astrazione, come quelle del
disegno e della musica, le quali si manifestano nell'astratta forma del
senso intimo o del senso esteriore. Denominiamo arte della parola
quella che si svolge mediante una lingua letteraria, non quell'idioma
po- polare che nasce e si sviluppa islinlivamenle nel popolo, ed appar-
tiene alla natura piuttosto che allo spirilo pensante. Quest'arte
fu considerala astrattamente come lingua eslhelica, ovvero poesia; ma
essa prosegue il suo svolgimento anche nella lingua prosaica (come nelle
discipline finite), e nella lingua spe- culativa, ossia in quella che si
chiama comunemente phìlosophia. Questo svolgimento appartiene all'arie
della parola, e comprende lo spirilo assoluto (lo spirilo, non la
Coscienza assoluta). ZNello spirilo giova osservare che le categorie
devono essere gerarchica- mente coordinate, e non si potrebbe concepire
un'esistenza spi- rituale che non possedesse vizi e virtù, buono e male,
e cosi via. 121.» OPERE POSTUME ni PIETRO CERETTI
Perciò abbiamo dello che quella pura speculazione (dai theolo-
ganli meritamente chiamata abuso della speculazione) non appar- tiene
allo spirito come tale, ma piuttosto è l'atto caratteristico, col quale
lo spirito si svolge dal pensiero in altro systema. Questa speculazione
pura è manifesta dalla parola, ma è il suo esilo finale, epperciò nella
parola che va via dallo spirilo. Così pure quel pen- siero che nasce e si
svolge istintivamente nel popolo non appar- tiene all'arte in discorso,
ma piuttosto alla natura creatrice. L'arte della parola suppone uno
spirito positivamente formu- lalo e muore colla morie dello slesso,
epperciò la medesima appartiene essenzialmente allo spirilo, non
generalmente alla Coscienza. Lo spirilo nasce dal non spirilo e muore nel
non spi- rilo, ossia è un momento storico nello svolgimento della Coscienza
; epperciò consideriamo come un prodotto della natura (ossia di un
systema non ancora positivamente spirituale) quella lingua e quel
pensiero che nasce e si svolge istintivamente nel popolo. È una lingua
psychica, che progressivamente e lentamente si svolge in una spirituale;
perciò troviamo nelle lingue esordienti la parola determinala col
semplice elemento delle intonazioni, ed inoltre che le nostre idee
metaphysiche ebbero tutte nelle lingue primitive un significalo di
phenomeno sensibile, e anche oggidì si trovano negli uomini naturali
lingue che possono significare individui, non generi e specie,
caratteristico di quelle spirituali. Nell'infimo popolo le idee
metaphysiche sono ancora mollo equi- voche; cosi per es. suppongono lo
spirito non solo in un tempo ed in un luogo (vale a dire nella natura),
ma anche con un pos- sesso caratteristico del pensiero humano ; questo
non può risul- tare che da uno spirilo in una forma necessariamente
humana. Così quest'arie della parola comprende la totalità dello
spi- rito (Coscienza pensante), ma esclude ogni altro systema della
Coscienza, che non sia quello dello spirilo. È questa la ragione per la
quale coll'arle medesima una verità si deve persuadere o dimostrare; e quelle
verità logicamente necessarie, che riescono indifferenti a qualunque
negazione o affermazione o dubitazione, vale a dire si confermano con
qualunque determinazione del pensiero, non appartengono allo spirito, ma
sono l'alto caratle- i/arte poetica
1-27 rìstico per il quale la Coscienza si svolge dallo
spirilo in un altro syslema. Perciò nell'arie della parola non
comprendiamo la spe- culazione pura nelle sue verità logicamente
necessarie. Lo spirilo è contenuto entro i limili della Coscienza
pensante; olire questi limiti non è spirito veruno, ma semplicemente
un qualche altro syslema della Coscienza slessa. Perciò l'arie
della parola è quella che si svolge 1) Colle categorie del
sentimento, verbigrazia colla per- suasione, colla fede, coli' ispirazione,
e cosi via; 2) Colle categorie dell' intelletto, verbigrazia colla
dimo- strazione assiomatica o empirica ; 3) Colle categorie
di una facoltà concettiva infantile, ver- bigrazia con quelle forme
equivoche della pìdlosophia comune. Una speculazione pura, che
introduca le verità logicamente necessarie (le quali differiscono
essenzialmente dalle verità sue- cennate), è il risultalo d'una facoltà
concettiva adulta, la quale conduce la Coscienza fuori dallo spirilo in
un systema più horno- geneo, perocché quello non potrebbe vivere con
siffatte verità. XXV. 1/ arte
poetica. L'arte poetica è l'esordio dell'arte della parola,
e lo spirilo poetò assai prima di parlare prosaicamente, perchè la
poesia appartiene al sentimento ed all'imaginazione, e la prosa
all'in- tellettualità riflessa. Si dice che gli uomini
primitivi sono essenzialmente poeti, ed il loro linguaggio non esprime
mai un' idea esalta, ma una forma piuttosto oscillante nel sentimento e
nell'imaginazione. È vero che gli stessi parlavano un linguaggio non
menomamente formulato dalla riflessione, ma semplicemente dal sentimento
c dall'imaginazione, che sono però ben altro da quell'intimità
melaphysica che noi possediamo, ed è piuttosto il risultalo del-
l'opposizione d'una mente prosaica con una mente poetica. La loro l'orma
poetica era tuttavia profondamente immersa in un 128
OPERE POSTTJMB ni PIETRO CERETTI elemento
immediatamente sensibile, che noi potremmo difficil- mente imaginare. È
questa la somma difficoltà che noi proviamo nel concepire chiaramente le
antichissime forme della poesia, come per es. quella dei Vedi ed anche
della nostra Bibbia. Originariamente si scrisse ogni cosa in una
lingua poetica, se qualche volta non rigorosamente metrica, almeno tale
da suo- nare all'orecchio con una qualche misura. Troviamo per es.
i salmi della nostra Bibbia scritti in una forma non esattamente
metrica, ma nullameno misurala. E ciò accadde perocché il pen- siero era
allora essenzialmente poetico; Hegel notò mollo assen- natamente che il
primo prosatore nel lernpo fu Aristotele, si scris- sero bensì prima di
lui molli pensieri in una lingua perfettamente non metrica, ma essi,
nonostante quest'apparenza prosaica, etano tuttavia poetici; per es. gli
scritti di Platone sono più poetici che prosaici. Gli argomenti, che
oggidì consideriamo come necessa- riamente prosaici, erano trattali in
poesia. Così presso gì' indiani troviamo arylhmetiche, astronomie,
vocabolari etc. distesi in una lingua metrica , e si può dire
generalmente che i primi popoli civili non sapevano pensare e parlare se
non poeticamente. Al- cuni popoli, come gli as ia tici, ve rsano tuttavia
in ques t'elemento poetico che loro impossibilitò una sto ria.
La poesia, come esordio dell'arte della parola, si distingue in tre
momenti : 1) È poesia epica, ossia immersa in un elemento
ogget- tivo, in un'unità religiosa o elhnica ; 2) Poesia
li/rica, ossia la soggellività che nasce e si svolge da questa
generalità; 3) La drammatica, ossia la poesia che oppone i vari
sen- timenti e le varie convinzioni, giusta le varie soggellività e
le varie oggettività cosliluile. La poesia didattica
veramente non è poesia, ma piuttosto una riflessione legala nelle forme
poetiche e misurale; è piuttosto una vera dissonanza della riflessione
colla sua forma, vale a dire, con una forma che non è quella propria di
lei, essenzialmente prosaica. Generalmente parlando è poesia la
forma del pensiero poetico, il quale perciò reclama tale forma; e sluona
lanlo una forma l'arte POE l ICA metrica
con un pensiero prosaico, quanto un pensiero poetico con una prosa
libera, vale a dire, colla forma della riflessione; il lin- guaggi o ed
il pe nsiero devono con sonare in una sola forma, non in d ue diverse e
contra rie. Chiamo poesia epica quell'essenzialità ideale
generalmente immersa in qualche astrazione objettiva di costituzione
religiosa o di nazionalità, non quell'astratto formalismo di un'epopea o
di p una lyrica. Cosi per es. gli inni di Pyndaro e quelli di Tirteo J*
"*^* appartengono all'epica, pero cché i lo ro soggetti non sono con
- y^'^ wfs» ' centrati nella loro propria soggettività^ ma piuttosto
immersi i n y* un'obiettiva astrazione religiosa e nazionale. Possiamo dire
clic all'epopea appartengono tutte le co mposizioni in
ossequio d'una qualche costituzione religiosa, o d'una qualche
nazionalità.. Cosi per es. il Malia- bahrata è una splendida epopea,
tuttoché non contenga veruna idealità nazionale, il Shah-Nameh dei
persiani lo è pure, tuttoché differisca essenzialmente dal Maha-bahrata.
La Theogonia di llesiodo è pure un'epopea religiosa, e così la
Divina Commedia dell'Alighieri, ed il Paradiso perduto di Milton.
Le epopee prettamente nazionali sono Vlliade d'IIomero, YHeneide di
Virgilio, i Lusiadi di Camoens, e altre simili composizioni.
Generalmente nell'epopea si realizza una somma grandiosità poetica
, ma l'uomo sj^om nare, per cosi dire, ne l l'unità religiosa o nazional
e, a c e lebrare le _ quali è destinato . All'epopea appartengono
pure certe formule satyriche, come per es. il Don Quijolte di Cervantes,
e la Verdine d'Orleans s critta da Voltaire, le quali veramente non sono
destinale a celebrare il sentimento religioso e l'heroismo nazionale, ma
il loro argomento, tuttoché salyrico, è pur sempre religioso e nazionale.
Si deve avvertire che l'epopea appartiene sempre ad u n'astrazione
objet- liva di costituzione religiosa o nazionale, ma differisce
somma- mente per i vari gradi della civiltà, nella quale è
nata. Il secondo momento della poesia è la lyrica
propriamente detta. Chiamiamo lyrica quella poesia del soggetto raccolto
in se stesso, o per lo meno, nella sua vita privata. Gli
asiatici generalmente sono troppo immersi nell'objellivilà costituita
religiosa o politica per conoscere una vera lyrica; si 9 — uebetti,
Canaidcr. sul list, rftiier. JeUu spirilo. I:MI
oim:iu5 postumi-: ni hktro ceretti può diro che essa
nacque la prima volla in Grecia ed in Roma quando il soggetto principiava
a sentire l'insufficienza di una costituzione oggettiva ed i bisogni
della sua propria soggettività. Cosi non quelle forme che si chiamano
comunemente lyriche, come le Odi di Pyndaro, gl'inni religiosi eie, appartengono
a una vera lyrica, ma piuttosto quelle dedicate alla soggettività ; per
es. appartiene alla vera lyrica l'antica poesia di Museo litolata
Eri e Leandr o, le erotiche di Anacreonle, alcune di Horazio, come
anche quelle di Catullo nei suoi rapporti colla Jjilage scherzosa.
Oggidi la poesia lyrica è tuttavia persìstente, ma l'epica è
perfettamente abolita/yA questo genere, come nell' epopea, può
appartenere una poesia piuttosto umoristica, ironica e parodiaca,
perocché la lyrica non è menomamente vincolata alla serietà, ma
semplicemente alla soggettivazione. Il soggetto può poetare delle varie
cose seriamente o ironicamente, purché in essa varia o saly- rica
composizione lasci trapelare una qualche propria convinzione. La transizione
da questo genere alla drammatica è caratte- rizzala da una poesia
alquanto equivoca, nella quale il soggetto tratta le varie cose
ironicamente, parodiacamente eie, ma non lascia trapelare veruna propria
convinzione, così che le delle poesie non contengono un'idea conclusionale;
sono astrattamente negative e non affermano cosa veruna. Queste poesie si
realizzano in un lempo mollo civile, e sostanzialmente vogliono dire che
il poeta rimane semplicemente spettatore , non attore delle cose
ironicamente ricordate. Comunemente si chiamano queste mani- feslazioni
quelle di un genio spossato e di una certa decadenza della civiltà; la
storia, come abbiamo detto, per proseguire la sua vita ha bisogno di
principii serii; la forma dei principii può variarsi quanto si vuole, ma
è necessario che la si fissi, vale a dire, che si fìssi un qualche
systema nel quale si svolga la storia stessa. Ecco la ragione per la
quale una rilassatezza di principii è sempre giudicata un syntomo di
.slorica decadenza; non si avverte però che la rilassatezza di principii
conosciuti è sem pre la nascila vigoros a di principii nuovi e
sconosciuti. Il terzo momento della poesia abbiamo detto è la
dramma tica. Qui sono anlagoni o più soggetti di principii contrari, che
si con- l'arte poetica I :l tendono Ira loro, e
appurilo in questa conlesa le antagonc con- vinzioni si neutralizzano,
vale a dire, risulta la loro reciproca insufficienza. L' un soggetto
contende centra l' altro soggetto ^ avversario, e cosi amendue difendono
la pr o pria convinzione, * ' Ques ta difesa si effettua mediante le
ragioni che tornano favore - voli a esse convinzioni, m a, siccome esse
sono due o giù con- tr arie, ciascheduna difendendo se stessa combatte la
propria avversaria. Non è certo una parte che preferisce un
negativo un positivo ( la quale preferenza sarebbe assurda) , ma
amendue ^che preferiscono un po sitivo a un negativo, cosi che in
ultima analysi amendue vogliono la stessa idea, ossia che il
positivo pre- ( domini sul neg ativo. C o ntestano semplicemente se
questo sia il (positivo e quello il negativo, o viceversa, epperciò
disputan o, circa una cosa phenomenale, non circa un oggetto o un'
idea concreta. Tulli i soggetti reclamano il positivo ed avversano
il negativo (sono due termini dell'opposizione), ma tale soggetto
vuole a come un positivo, ed avversa b come un negativo ; tal alito
soggetto vuole ed avversa inversamente. Giova osservare che l chiamandosi
a positivo e b negativo, quando siano invertiti si de- vono chiamare inversamente:
a, che phenomenalmentc hora funziona come positivo ed hora come negativo,
è un mero giuoco di parole; perocché sono appunto quei rapporti
essenziali che sono stali mutali i quali cosliluiscono l'oggetto. Cosi la
contesa della drammatica, esaminala con un logico criticismo
perderebbe ogni drammatico interesse, perocché non è contesa seria,
ma semplicemente logomachia. Nella drammatica però queste
idee si contendono profonda- mente involute nella for ma de jjsent imenlo
e_d eH'imaginazione , e appunto da questa profonda involuzione risulla
ogni drammatico prestigio. A vero dire in essa non si contendono mai le
idee pura- mente riflesse, ma piullosto quelle che possono grandeggiare
nel conflato del sentimento e dell'imaginazione. Infatti un
interesse drammatico non si potrebbe conseguire colla fredda e prosaica f
v< -7— ^ t.'R'i dimostrazione di un theorema matematico; questo vuol
dire, m * m .% mm *40~—X*l L che l e verità della riflessione non sono le
verità^ del sentimento, K> H — cr- u l'una è impolentissima a
surrogare il posto dell'altra. Cosi pure T-.— CU tir* ±a ru-HU*^ *
E" — p+ifcjJU— r~ — -f^ 132 OPERE POSTUME DI PIETRO
CERETTI una bella verità poetica, come sarebbe il conflato di
un'azione lieroica, non potrebbe interessare menomamente un
Iheorema malliemiitico e non potrebbe sostituirsi come
dimostrazione. La drammatica non insegna solamente che ogni ordine
dello spirilo ha le proprie verità, e la verità di un ordine non
può JCT*»**^**» essere q ue |] a di un altro, ma insegna altresì che
certe convin-4 »>u^»*w^l« tìom sono così profondamente radicate
nel soggetto, che non f si lasciano sradicare da veruna eloquenza.
Non consideriamo in * quest'ordine i soggetti che persistono nelle
proprie convinzioni ^semplicemente perchè non le capiscono, nè possono
capire altre Sconvinzioni contrarie; que sj/opposizione non è spirit
uale, e può \ compararsi a quella della forza bruta la qual e dice;
parlate come volet e, via i o faccio co sì. I varii soggetti nella
drammatica pos- seggono le proprie convinzioni e le oppongono alle
contrarie; da quest'opposizione risulla una reciproca soppressione di
verità, ossia la prova drammatica (nel sentimento e
nell'imaginazione) che tali non sono verità, ma gravi errori. Da questa
reciproca soppressione di verità astratte risulla una verità
neutralizzala ed assai più concreta, che se non persuade i contendenti
della scena persuade l'uditorio. Ma un'arle_(ìnissim a di far
prevalere nella dispula una prò- i pria idea preconcetta è quella che,
nonostante la manifestazione di tulle le ragioni favorevoli a una certa
idea, lascia fortemente trasparire il lato debole della medesima.
L'avversario traila questo lato debole con molla generosità, ma appunto con
quesla gene- rosità vince una causa che si 6 mostrata troppo impotente.
I personaggi delle scene molto incivilite non si trattano con
colle- riche invettive, ma piuttosto colla massima cortesia; è il
diplo- matico che accarezzando il proprio avversario gentilmente lo
strozza. L'arte soprafma non è quella di combattere viltoriosa- mente le
ragio ni dell'avversario , ma piuttosto di cond urre passo passo
l'avversario al proprio traviamento , cos icché sembri cadere per_un suo
proprio fallo, vale a dire, comballa contro se sless o. Era questa l'arie
finissima d'un antico philosopho, il quale non contrariava mai le ragioni
dell'avversario, ma lo raggirava cosi che in ultima analysi questi
contrariava se slesso. • ' l'arte prosaica
Q uesta drammatica nasce da una profonda riflessio ne, ma può
vestire forme del sentimento e dell'imaginazione, e risulia assai più
polente di quella nata da una mera imaginazione e da un mero sentimento.
Credete voi che Dante, Shakespeare e Goethe fossero semplicemente poeti inspirali,
piuttosto che rob usti pen - satori ? Se fossero slati semplicemente
poeti non avrebbero potuto imaginare le composizioni così pregne di
pensieri profondi, lo non dico_clie i profondi pensatori, se si dedicano
all'arte poetica , debbano riuscire necessariamente drammaturgi, ma dico
sempli- cemente che questa forma si presta maggiorm en te ad un larg
o svolgimento dell'idea . Goethe fu certamente un profondo pen-
satore e nullameno trattò non solo la drammatica , ma anche Pepopea , la
lyrica e d il ro manz o. Questo vuol dire, che il pen- siero, il quale
abbia subito un largo svolgimento, a qualunque forma si dedichi,
partorisce capolavori. XXVI. L'arte prosaica.
Varie prosaica è un secondo periodo nell'arie della parola, il
quale differisce essenzialmente dal primo periodo, ossia dal- l'arte
poetica, perocché quella si volge al sentimento ed all'ima--. . ^
ginazione, ma quesla si volge più particolarmente alla ri/h'ssint>i'.
Quest'arte si distingue pure essenzialmente da qualsivoglia
philosophica eloquenza, perocché quella è dimostrativa o persua- siva
secondo l'opportunità e comprende la totalità dello spirilo; quesla è
astrattamente prosaica e dimostrativa, epperció non può mai riuscire come
philosophia, nè acquistare un drammatico inte- resse. Essa è destinala a
creare piuttosto quelle tali verità che si chiamano scientifiche, non a
creare veruna concreta verilà dello spirito. L'arte prosaica
esordisce come un mero opinalismo c nasce dire ttamente dalla
religiosità; i primi medici per es., i primi astronomi, ed i primi
chimici furono semplicemente sacerdoti, e possedevano non una nozione di
siffatte cose, ma semplicemente 134 OPERE POSTUME DI PIETRO
CERETTI un'inlima convinzione od un fallo esteriore Le discipline
Lulle, che bora versano nella riilessione, originariamente versavano
in una mera convinzione religiosa di un fallo intimo o esteriore.
Perciò noi vediamo che esse originariamente erano semplici pro- fessioni,
o più propriamente, semplici operazioni sacerdotali, le quali riposavano
sopra una fede dogmatica, non sopra veruna empirica od assiomatica
dimostrazione. Tulli sanno che la prima medicina fu nei tempii, e che la
malattia originariamente si con- siderava come uno spirito maligno che
invadesse l'ammalalo, vale a dire, gli ammalali erano considerali come
ossessi; tulli sanno che originariamente si curava con semplici pratiche
religiose, il cui risultalo era dovuto alla fede. La reclamazione
dell'intelligenza riflessa non era nata, epperciò una simile medicina non
conte- neva veruna nozione analomica e physiologica, ma riposava
sem- plicemente sulla pubblica credenza e sulla pubblica ignoranza.
Nella civile babilonia gli ammalali si sponevano pubicamente affinchè ciascheduno
dicesse il proprio parere circa la loro ma- lattia ed i medicamenti
requisiti. Il sacerdote, come religioso, doveva sempre curare con
medicamenti prestabiliti e s'egli for- viasse dalla cura prestabilita era
castigalo colla morie, precisa- mente come un herelico il quale non
riconoscesse cerle verità della fede. Allora non si conosceva cosa veruna
e non era naia veruna facoltà di dubilare, perocché tale facoltà
appartiene al criticismo della riflessione. Tutto era fede e religiosa
con- vinzione, la quale conseguentemente escludeva ogni possibile
incertezza; si trattavano le cose mediche press' a poco come noi
trattiamo le verità logicamente necessarie le quali non si pos- sono in
verun modo dubitare, ossia non si possono dubitare cogitabilmenle.
Non dico che quelle verità primitive somigliassero a quelle
essenzialmente indubitabili delle mathematiche pure, perocché queste
reclamano una dimoslrazione e non sono indubitabili che in questa loro
mathematica dimostrazione. La riflessione neona- ]&nét ìfent* scenle
, che conduce progressivamente il secondo momenlo del- l'arie prosaica,
fu una semplice dimostrazione non intellettuale , come noi la
consideriamo, ma una dimostrazione graphica per la L'ARTE
l'ROSAlCA 13,") quale ceni phenomeni complessi si riducevano a
presentazioni più semplici, dalla cui unità risultavano i delti phenomeni
complessi. Così fu originalmente la dimostrazione mathematica, e noi
sap- piamo che una geometria graphica precedette per molli secoli
mia geometria analylica, e le stesse potenze uno, due eie, che hora si
considerano nella loro algebrica generalità, originaria- mente si
consideravano come linee, super fìci, e così via. Le dimostrazioni
mathematiche, come un risultalo della semplice riflessione, non sono
anche oggidì concepite dai molli nella loro vera essenzialità. Cosi per
es. gli uomini comuni considerano una dimostrazione graphica come
equivalente ad una puramente in- tellettuale; giova osservare che la
dimostrazione graphica è un fatto sensibile, e si riferisce ad un dato
problema presentabile sensibilmente, ma la dimostrazione intellettuale si
riferisce a un fallo cogitabile, la quale riesce sempre irrefragabile
anche per quelle cose che non si possono presentare sensibilmente, purché
siano ridutlibili ad una tale equazione. L'arte prosaica consiste
nel trovare questa dimostrazione, e nel fare che una verità non sia più
semplicemente soggettiva. Le verità apodittiche si distinguono dalle
verità del primo momento appunto perchè queste sono varie nei varii
soggetti (varii soggetti posseggono varie convinzioni), ma quelle sono
identiche in tulli i soggetti. Un soggetto può possedere una fede ed un
altro sog- getto può possederne una contraria, ma nessuno potrà
pensare che un theorema geometrico di Pithagora per es., non sia
neces- sariamente vero, perocché nessun soggetto può dubitare che a =
a, identità alla quale, come alla propria radice, si riducono lulle
le verità mathematiche. Vi è una terza forma dell'arte prosaica,
che è pure una forma apodilhica, ma differisce essenzialmente dalla
dimostrazione ma- thematica, perocché quella è semplicemente un mezzo a
cono- scere qualche verità naturale o spirituale, questa non è
sempli- cemente un mezzo, ma è immanente al proprio scopo. Qui non si
tratta più di conseguire uno scopo con un mezzo adeguato, ma si traila di
conoscere una verità che ha in se stessa il proprio prin- cipio, mezzo e
scopo. L'osservazione esplora ciò clic sia il sog- 136 OPERE
POSTUME DI PIETRO CERETTI getlo in se stesso, e suppone che la
verità di esso sia in lui recon- dita e mediante l'osservazione si possa
conoscere quello che e. Le mathematiche pure contengono verità puramente
intellettuali, epperciò verità irrefragabili e necessarie; ma come tali
non pos- sono contenere verun scopo naturale o spirituale; debbono
assu- mere un elemento empirico, epperciò un'essenzialità
contingente. Le verità empiriche differiscono essenzialmente dalle
mathema- tiche, perocché quelle sono irrefragabili e necessarie, ma queste
essenzialmente controvertibili ; perciò nelle cose mathematiche non si
può avere una propria opinione, e si tratta solamente di sapere se questa
sia o non sia una verità mathematica, ossia una verità mathematicamente
dimostrata; nelle cose empiriche tutto è conlroverlibile, epperciò i
varii soggetti possono possedere varie opinioni e varie convinzioni, ma
queste verità controvertibili pos- sono contenere una natuca concreta o
uno spirilo concreto. L'osservazione insegna esattamente quello che
sia ogni ordine finito, epperciò insegna che ogni ordine empirico versa
in una necessaria contingenza. Presumere di conoscere qualcosa
defini- tamente coll'osservazione è una presunzione puerile,
perocché tanto l'oggetto dell'osservazione, quanto l'osservazione stessa
ver- sano in una necessaria contingenza. Ogni ordine finito
appartiene alle discipline empirico-induttive o alle discipline
mathematiche empirico-induttive; perciò i cultori di queste discipline
finite dicono, non vi è verità assoluta, ma ogni verità è
necessaria- mente relativa. Questo è vero, perocché nelle discipline
finite non si può trattare se non la verità relativa, e quella verità
assoluta che possibilità la relazione non appartiene a delle discipline.
Però nelle medesime tutte le verità relative non sono identiche, ed
esse si coordinano gerarchicamente secondo il grado di relazione.
Cosi per es. nelle cose spirituali si distinguono verità puramente
soggettive dalle nazionali, e le nazionali dalle verità humanilarie, e le
humanilarie dalle mondiali. Una verità positiva nell'ordine finito
si chiama quella che possiede rapporti più generali, cosi che possa
essere poco affiena dall'opinalilà soggettiva. Così per es. che i gravi
cadano colle leggi di Galileo è una verità empirica, ma essa è cosi
generale e l'arte speculativa 137
cosi costante sul nostro globo, che non può essere affetta
da veruna opinalilà soggettiva. La medesima è una verità puramente
empirica, perocché se una pietra non cadesse nello spazio libero sulla
terra non si troverebbe una ragione contraria assolutamente necessitala
da opporre al suddetto phenomeno; la pietra deve cadere nello spazio
perocché è sempre caduta; è un documento costante dell'osservazione; ecco
lutto; e questo lutto non si può trascendere in verun modo
dall'intelligenza riflessa senza cadere in gratuite supposizioni. La
riflessione non può opporre per es. che siccome il centro e la peripheria
si suppongono necessaria- mente, cosi il corpo deve necessariamente procedere
dal centro alla peripheria, e viceversa per conseguire un'esistenza
esteriore. Questa cosa si capisce chiaramente dicendo, che una
materia centrale è necessariamente una materia caduta, ed una
peripheria è necessariamente una materia spostata dal suo centro; cosi
una materia è pure un'oscillazione necessaria fra il centro e la
peri- pheria, perocché la non si può supporre occupare due luoghi
nello spazio. Qui non si traila empiricamente di provare che generalmente
la materia debba essere attratta e respinta dal centro alla peripheria e
viceversa, ma semplicemente di provare che questa tale materia hora e qui
sia attratta o respinta, piut- tosto che altrimenti. Perciò
l'osservazione non tratta le verità generali, ma sem- plicemente quelle nel
tempo e nello spazio; ed i cultori delle discipline finite dicono
saggiamente, che tutte le verità sono rela- tive; s'intende che tulle le
verità finite sono lali.(/J XXVII. L'arte speculativa.
L'arie prosaica è necessariamente un'arte che tratta il finito, ed
è prosaica perchè appartiene alla riflessione. L'arte specula- tiva non è
più tale, perocché si propone di conoscere non le verità relative e
finite, ma le verità generali, madri dì ogni ordine finito. Quest' arie differisce
essenzialmente lanlo dalla 1 i s U'ERE POSTUME DI PIETRO
CERETTI poetica quanto dalla prosaica, perocché aspira alla
nozione, e ad una nozione indipendente da ogni empirica autorità;
sendo tale, la non si può chiamare un' arte aslrallamente prosaica
nè astrattamente poetica, perocché contiene il suo argomento con-
creto, di cui la prosa e la poesia sono astratte manifestazioni. Cosi lo
spirilo generalmente parlando non è poetico astrattamente, perchè anche
prosaico, e non è prosaico aslrallamente perchè anche poetico.
Nell'eloquenza philosophica qualche volta si vuole persuadere (cioè
parlare all'imaginazione e al sentimento, come la poesia); qualche volta
però si vuole dimostrare (cioè parlare alla riflessione, come la
didattica finita); in concreto però lo spi- rilo vuol insinuare la
verità, non imporla se sotlo una forma poetica o prosaica; vuole
insinuare una verità concreta di cui la forma poetica e la prosaica sono
forme astraile; lo spirilo vuol trasfondere lo spirilo, il quale è
semplicemente l'attitudine a costituirsi poetico o prosaico.
Quest'arte speculativa per conseguire il proprio scopo si svolse
caratteristicamente per tre momenti, che sono quelli della philo- sophia
comunemente della. Cosi prima è una s peculazione im- mersa in un
elemento poetico o religioso (come per es. l' ispira- * zione e la fede).
Poscia è una speculazione immersa in una dimostrazione mathematica o
empirica , cioè una verità generale diesi vuol conseguire col melhodo
delle verità finite. Finalmente è una speculazione scettica che si
rillettc in se stessa, e conchiude che l'inlellellualilà riflessa è
incompetente a conoscere l'assoluto. La philosophia più o meno
popolarizzata nei vari paesi civili dell'Europa, appartiene sempre al
primo momento, vale a dire, è un sentimento od un'imaginazione più o meno
philosophalc ; non si aspira categoricamente alla nozione, ma
semplicemente a persuadere una certa verità generale. Questa persuasione
non può riposarsi se non in una fede nella cosa o nel dichiarante la
cosa. Perciò si fa sempre appello o a un senso comune (come la
scuola scozzese), o a una verità rivelata (come generalmente tutte le
Iheo- sophie, comprese anche quelle che si dicono speculative), o
final- mente a una ragione esplicita colla forza dell'eloquenza, vale
a dire, a una ragione diretta al sentimento. La philosophia co-
i/arie speculativa 1*1 mune
della gente non può essere se non una philosophia più o meno poetica, religiosa
o irreligiosa; checché ne sia, le sue ra- gioni non sono mai dirette a
costituire la nozione, ma semplice- mente a commuovere il sentimento , o
_provocare l'imaginazione: perciò quest'eloquenza philosophica non si può
chiamare poetica nè prosaica, ma semplicemente un'arte speculativa che
persuade o commuove secondo le varie circostanze. É la sola
possibile philosophia che si possa popolarizzare, perocché il sentimento
e l' imaginazione nella gente comune possono essere mediocremente
espliciti, ma la riflessione è sempre notevolmente debole. In questo
primo momento si dice, per es., che la philosophia dev'essere nazionale,
ovvero deve servire la Chiesa , ovvero lo Stato, ovvero la civiltà, e
così via; si vuol fare della philosophia una disciplina finita con uno
scopo finito. E veramente questa manifestazione equivoca della mente
humana non potrebbe tra- scendere a una pura speculazione, e d'altronde
non potrebbe co- stituirsi una technica chiaramente professionale. Perciò
quando? udiamo che una persona ci risponde che il suo studio sono le)
mathematiche, la chimica, eie, sappiamo positivamente quelli* ch'essa
dice, ma se udiamo che la della persona si dedica alla) philosophia,
rimaniamo piuttosto perplessi. Si é talmente gene-( r atizzato questo
nome, che horamai non si sa più cosa si vogli a dire ,, quando lo si
pronuncia . Tra una philosophia dell'ordine succcnnalo, ed una
philosophia come speculazione pura corre una differenza molto maggiore
che non fra la botanica e la giu- risprudenza. Un secondo
momento dell'arte speculativa è quello che, ab- bandonando il campo della
fede, si dedica alla dimostrazione mathematica o empirica, vale a dire, a
una philosophia che vuol conseguire la propria verità col methodo d'una
disciplina finita. Cosi, per es., Spinoza trattò la sua etilica con un
methodo rigo- rosamente geometrico (proposizione, dimostrazione,
corollario). Nel secolo passato questa manìa d' imitare i malhemalici fu
mollo generale nei philosophi ; non avvertivano che le mathematiche
sono rigorosamente esatte, perocché versano in un'aslratla iden- tità,
vale a dire, si riducono alla loro assiomatica identità a = a,
OPERE POSTUME DI PIETRO CERETTI locchè non potrebbe
realizzarsi circa veruno scibile concreto, pe- rocché esso scibile
concreto deve contenere le categorie radicali di qualsivoglia realtà,
cioè la qualità e la quantità. Le mathema- tiche sono appunto esalte
perchè contengono una sola categoria (la quantità), e le loro verità non
sono mai il rapporto di una all'altra categoria (il quale rapporto costituisce
l'essenza di qual- sivoglia verità); questa sola categoria è appunto
incontroverlihile, perocché si riferisce semplicemente a se stessa;
perciò si è dello che i theoremi malhemalici sono giusti, ma non sono
veri, ap- punto perchè non contengono la totale essenza di quella che
noi chiamiamo verità, o, per lo meno, le verità mathematiche hanno
un significalo altro da quello delle altre discipline. Cosi trattando
mathemalicamenle le materie philosophichesi sono dovute ridurre a
un'astratta identità affinchè riuscissero incontrovertibili come le
mathematiche. Spinoza, per es., poneva la massima cardinale che due cose
diverse non possono avere un rapporto fra loro, perocché nella comunanza
di esso rapporto elleno sarebbero iden- tiche; di qui conchiuse una
sostanza universale identica a se slessa, la quale si manifesta nelle sue
varie attribuzioni come la spaziosità, la temporaneità, eie. ;
considerava la Coscienza come una mera attribuzione di essa sostan za.
Non avvertiva 1° che nulla può essere reale se non sia Coscienza e p perc
iò la Coscienza n on è un attributo ma la sostanza stess a di ogni cosa:
9° che ja mede sim a non è u j^ realtà, ma piuttosto i nfinita
attitudine a realizz arsi^ epperciò non si può chiamare nè universale, nè
particolare, nè identica, nè differente; ri on si può predicarla in verun
modo finito. - -- ■ -• Vi ha pure un'altra forma della
dimostrazione, che assai dif- ferisce dalla mathematica. E la prova
empirica, della quale ab- biamo più sopra riferito il caratteristico
essenziale. Nulla di più ovvio che ascoltare cosi sconsideratamenle dai
philosophanli che la philosophia dev'essere utilitaria, e riposare sopra
i documenti positivi dell'osservazione. Questa proposizione presuppone una
perfettissima ignoranza delle verità puramente philosophiche. Basta
osservare che la philosophia, sendo il termine più generale della
scibilità, non può essere subordinala a uno scopo altro da
l'arte speculativa 141 se stessa;
esso scopo suppone necessariamente che vi sia qual- cosa più concreto
della philosophia. Solamente con questa sup- posizione si possono
giudicare positive certe verità, alle quali deve servire. .
Il terzo momento dell'eloquenza philosophica è, propriamente
rnm«viAo parlando, un'eloquenza scettic a. Si è scoperto che ogni idea
consta di due termini contrari, ma siccome la riflessione deve necessa-
Se eìticìj riamente affermare o negare, così s i conchiude che nè la ne
iiiL- zione nè l'afferma zione contengono le verit à. È questo lo scelti-
1 --r r ,.- 1 ^ \ cismo finale, al quale arrivò la speculazione greca.
Negli ultimi V tempi della philosophia greca apparvero tre syslemi, i
quali, benché non fossero prettamente sceltici, riuscirono perù
pratica- mente allo scetticismo. Così, per es., lo stoicismo (il quale
non era menomamente scettico, ed affermava che l'universo è il
corpo d'Iddio), conchiudeva che nel mondo non era cosa veruna pre-
azjì^W- r . t- - > .v- V feribile a un' allra, e così la vera beatitudine
dell'uomo saggio , ^ ( non consiste nel conseguire certe cose ch'egli
crede ottime, e f* 1 "* * f /""~ cansare certe altre eh
egli crede grame; m a piuttosto nella piena * " indifferenza ad ogni
cosa monda na. Cosi pure i neoplatonici (i /Um. pO*.l~f3l ìfvy** quali
non erano menomamente scettici, lant'è che proclamavano che l'assoluto è
uno, epperciò non intelligibile, perocché l'intel- ligenza suppone
l'intelligente e l'oggetto dell'intelligenza, altro F.f te & \ dalla
stessa), riuscivano praticamente all'estasi colla quale si ] z *iit'
,\t;c astraevano da ogni senso esteriore. Gl i scettici
propriamente delti e ,, _ ■ j „i : . ■ e- :i r M r,V
poi avendo conosciuto che ogni termine ha il suo contrario, aspi ravano
ad un giusto equilibrio (melriopatfna) dei termini con- [rari,
epperciò conchiudevano doversi speculare continuamente, H»* v "* M t^-'
V*^*i senza pronunciare giudizio veruno. Vapathia o ataraxia
degli stoici, Vestasi dei neoplatonici, la mctriopathia degli sceltici,
enunciano un solo fatto concreto, ossia rijr.fimp fflp ny.il
riffll' i pio Hifr»"™ h iimang n p.nrirqflire l'assolu to. Gli
stoici trovavano quest'incompetenza nell'assoluta unità del- l'universo,
cosicché affermavano che l' intelligenza non .polendo essere se non dualistica,
necessariamente non poteva concepire l'assoluto, il quale è un'unità. I
neoplatonici trovavano quest'in- competenza nell'intelligenza, che
presuppone un oggetto essen- 1 l'i OHSRK POSTUMI? 1)1
l'IKTRO CISKKTT1 zialmcnle altro dall'intelligente. Gli scettici
finalmente trovavano quest'incompetenza nell'assoluta contrarietà delle
idee, dalla quale arguivano l'assoluta incompatibilità di due idee
contrarie. ^w+fs^Jo" - L- — « - Sommariamente si può conchiudere che
il sentimento c la ~t~*f*tz£ i maginazio ne sono^cjjmpe tenti a concepire
Tassoluto^ perocché I ìvA*'tZ~ var j ano ne j var j soggetti; la riflessi
one è pure incompetente a t:|(*M,»*^. concepirlo, perocché deve supporre
il suo oggetto essenzialmente altro da se stessa, e trovando che
ogni termine dell' idea ha il suo contrario, conchiude necessariamente
che una tale idea debba essere un affermativo o un negativo, ma dappoiché
non è astrat- tamente nè l'uno né l'altro, ossia non è un astratto
positivo perché anche un negativo, e non è un astratto negativo
perchè anche un positivo, arguisce che l' intelletto è incompetente
a giudicare. Questo avviene perchè non si conosce quella facoltà,
7" -i— i t^-wr^ÈTche noi chiamiamo facoltà conceltiva , la quale
differisce essen- . elf talmente tanto dal sentimento come dalla
riflessione. Il senli- „tt >ui*. w*ft»*«* - mento affermo
giustamente la propria incompetenza a costituirsi ■- t&wtfc- ccìv^v
p- un assoluto, l' intelligenza a ffermò pure la detta incompelcnza,
perocché capì che l'assolulo deve contenere anche la riflessione,
epperciò la riflessione non può giudicare quello che non può essere un
suo oggetto altro da se stessa. Cosi l'arte della parola,
svolgendosi nel sentimento artistico e nella riflessione scientifica,
arrivò a uno scetticismo philoso- phico, e si giudicò generalmente
incompetente a costituirsi un C v - assoluto. Lo scetticismo è la
necessaria conclusione d'ogni intel- ' lettualilà, che abbia
trasceso il sentimento, e non sappia trascen- dere alla pura
speculazione. Il nostro filosofo si
propone anche la celebre que- stione del
progresso, ossia del cammino della civiltà;
e trova che essa fu evolutivamente
risolta coir una o coll'altra delle
seguenti tre risposte: I.* Il genere
umano invecchia e invecchiando /d-^- giara
(sentenza prediletta dagli antichi, "da
parecchi ot- timi poeti moderni e specialmente
dai teologi ; con essa lo spirito,
scorgendo le migliori cose desiderabili, le
illumina col prestigio della distanza nello
spazio e del tempo). 2.* Il
genere umano scuote le tenebre della
sua ignoranza, ricerca la scienza, con
cui recar rimedio alle sue infermità,
e accrescere i beni, insomma migliora;
(con essa lo spirito sforzatosi di
prendere il governo del mondo, raggiunge
la sua dignità, dalla quale la
mistica antichità lo dichiarò decaduto: ed
è prediletta dai novatori in genere).
3.* L'uomo né peggiora né migliora,
ma svolge in modo la sua
spiritualità, che la prospettiva del suo
processo rimanga duplice, a migliorare per
una parte, a peggiorare per l'altra :
lo spirito è una perpetua com- pensazione
attiva del bene e del male, in
modo che l'uno generi l'altro per
necessità logica (e questa é la
soluzione preferita dal filosofo) (*):
soluzione, come si (') Prolegomeni,
I, pag. 71-75. Lo Spirito oggettivo
389 vede, trascendentale, ma punto
strana perchè «l'esi- genza del trascendentalismo
è propria dell'uomo : esso è
necessario alla spiritualità, cosi come la
respi- razione al corpo umano » (*),
sebbene, sommando le op- posizioni che si
sono mosse alla speculazione, si vede
che tutto lo scibile finito iu
l'avversario d'ogni trascen- dentalismo speculativo
(*). OS La determinazione suprema
della voce, « la favella, cioè la
pronuncia articolata della dialettica psichica
» ('), è il vero fondamento dello
scibile (*), perchè concreta sensibilmente
lo sdoppiarsi del pensiero : è «
la formula e insieme lo strumento più
eminente della manifestazione spirituale »
(*). Sebbene né la favella, né la
facoltà di acquistarla siano necessariamente
richieste per determi- nare la posizione
dell'uomo nella natura (•) il sorgere
del linguaggio, è, come il pudore,
sintomo della spiri- tualità che nasce e
si afferma. Lo studio della
linguistica che sembrerebbe poter procedere
sopra un terreno libero da qualsivoglia
pas- (*j Introduzione alla coltura
generale, pag. 141. O Op. cit.,
pag. 144. (') Prolegomeni I, pag.
367. (*) Introduzione alla Coltura
generale, pag. 121. (*) Massime e
Dialoghi ^ Fase. 86, pag. 8. (•)
Prolegomeni I, pag. 368. 390 1^0
Spirito oggetiivo sione partigiana, invece
cammina sotto vane bandiere teologiche, o
in balla del liberalismo naturalistico o
finalmente asseconda le simpatie e
avversioni etniche. « Come ogni popolo
crede ed ha creduto sempre di essere
il primo popolo della terra, cosi
crede ed ha creduto sempre di
possedere la più perfetta di tutte le
lingue » (') opinione che naturalmente
osta ad un bi- lancio del contributo
che ogni idioma portò all'educa- zione
dello spirito umano. ^11 problema
dell'origine delle lingue, cosi come fu
posto per tanto tempo, è assurdo,
giacché « presuppone prenato alla lingua
il pensiero, il quale mediante essa
debba riferirne Torigine. L'unica ricerca
genetica che, fuori del dominio
speculativo, possa condurre a utile
risultato, è la determinazione di un
periodo riconosci- bile nelle vicende storiche,
dal quale si siano svilup- pate le
attuali forme linguistiche. Considerando il
rapporto tra l'idea e le primissime
radici desi guati ve si capisce che
detto rapporto non è idealmente definibile,
perchè è meramente naturale: è una
ragione psichica immediata come quella per
la quale il riso è foneticamente
altro dal lamento e significa di- versa
condizione dell'anima. Ma l'idea
progressivamente si emancipa dalle forme
materiali e radicali : giacché agevolmente
si capisce come una radice viva,
ossia espressiva di un solo concetto
de- terminato, patisca in questa determinazione
un impedi- mento alla sua dialettica e
storica evoluzione; anzi, la (*)
Considerazioni ecc., pag. 12. Lo
spirito oggettivo 391 radice e l'idea
si legano reciprocamente, e così l'una
e l'altra sono arrestate nel loro
metamorfico svolgimento. Si può dire che
il pensiero di un popolo tanto più
li- beramente si svolge nella storia quanto
meno sia spi- ritualmente legato dalle
radici vive della propria lingua, e
che reciprocamente l'inerzia dialettica conserva
le ra- dici vive come l'attività le
corrompe e spegne ('). Molta
importanza ha lo studio delle lingue
per la istruzione e l'educazione del
pensiero: l'uomo è tante volte uomo
quante lingue conosce, giacché tale studio
concerne vari modi che rispondono ai
vari gradi del pensiero (*). Infatti
l'idioma accennò progressivamente a) a dare
le forme sensibili, 3) le intellettive,
e) le con- cettuali (*). Quanto più
il pensiero si avvia all'espres- sione
rigorosamente logica tanto più si libera
dalle esigenze tutte formali della lingua.
« Giovanetto, spe- rimentai che dalla
lingua è occasionato il pensiero ;
più tardi capii che la lingua è
mezzo necessario alla sua formulazione;
finalmente concepii che la vera forma
in- trinseca del pensiero non può essere
manifestata da questo mezzo estrinseco, che
è la lingua » (*). Il che
significa che essa, giunta che sia di
fronte alla specu- lazione pura, o per
dir meglio, al sistema contempla- tivOy
si esautora da sé medesima, riconoscendosi
insuf- ficiente a esprimerlo concretamente:
anzi, «la lingua (*) Idee
radicali delle discipline matematiche ed empirico-
induttive. Fase. I e 2. (^)
Introduzione alla coltura generale, pag.
121. (*) Prolegomeni, pag. 368.
(*) Massime e Dialoghi^ Fase. 18,
pag. 18. 392 Lo spirito oggettivo
volgare, per Tuso pratico della
vita, vuol essere stu- diata assai
differentemente che la letteraria e la
filosofica, perocché lo scopo delle varie
forme linguistiche non è menomamente
identico » C)« Anche la semplice
nozione storica di un paese è assai
collegata colla conoscenza del suo idioma
speciale. Narrando di un viaggio fatto
dall'eroe di uno de' suoi tanti
romanzi, il Ceretti dice: « Il mio
protagonista stu- dia vasi sopratutto di
famigliarizzarsi coi singoli idiomi che erano
svariatissimi e giudicava che la nozione
à\ un certo paese supponesse quella
del minuto popolo, epperciò una pratica
dell'idioma locale » (*). E vedemmo
che così si comportò nei suoi viaggi
egli stesso. Quanto alla questione
circa la preminenza del to- scano sugli
altri dialetti nella nostra lingua
letteraria, ecco le osservazioni, che noi
riferiamo qui non perchè ci paiano
originali, ma per dimostrare, una volta
di più, quale sicurezza di sguardo
avesse il Ceretti in ogni que- stione,
che si affacciasse al suo intelletto:
« La lingua italiana possiede, come
tutte le altre, il suo proprio genio
caratteristico, per il quale non può
essere confusa con veruna delle lingue
romaniche. I suoi dialetti, moltissimi e
svariatissimi, si distinguono fra loro
singolarmente per il loro specifico
carattere, ma nessuno potrebbe sospettarli
dialetti d'una lingua altrimenti che l' italiana:
questo avviene perchè fra tante differenze
essi posseggono un carattere comune
(') Memorie postunte, Fase. 13, pag.
6. (') Itinerario di un inqualificabile
, Fase, i, pag. 14. Lo Spirito
oggettivo 393 grammaticale e lessicale;
e l'unità dello spirito italiano,
nonostante le sue profonde differenze, è
improntata in questo generalissimo tipo comune
dei dialetti. Oggidì da letterati si
disputa seriamente se il solo toscano
sia il tipo classico della linguai
taliana, ovvero se il genio della
nostra lingua, essendo sparso in vari
dialetti, si debba ecletticamente approfittare
di tutti. Esporrò brevemente la mia
opinione. Il toscano è senza dubbio
il più ricco, il più venusto e
sopratutto, diremo, il più prettamente
italiano dei dia- letti parlati nella
penisola, e perciò esso è senza
dubbio il repertorio più copioso e
più italiano ; ma non si deve
dimenticare che la lingua parlata in
Toscana, quanto- sivoglia buona, è pur
sempre un dialetto, epperciò non può
essere una lingua letteraria sufficiente :
nessun po- polo scrive come parla; le
lingue parlate nascono e crescono nel
popolo, e contengono le mere idee del
popolo; la letteraria e la scientifica
sviluppano il ma- teriale linguistico della
parlata giusta le esigenze pro- gressive
delle lettere e delle scienze. Ora
questo ma- teriale della lingua parlata
sarà tanto più sufficiente quanto più
ampiamente sarà desunto da tutti i
dialetti italiani: ognuno di essi possiede
certe locuzioni così proprie all'idea,
quali non sono specificamente posse- dute
da verun altro. Di queste precellenze
particolari la lingua delle lettere e
della scienza deve liberamente approfittare
e non immiserirsi nell'idioma locale d'una
provincia. Seguitiamo il buon esempio del
grande Ali- ghieri, che, quantunque toscano,
esordì a scrivere la sua Commedia non
nell' idioma toscano, ma in una
lingua veramente italiana. 394 ^
Spirito oggettivo Molte forme grammaticali
e lessiche sono riducibili allo spirito
generale della lingua italiana, talune non
lo sono: il buon criterio del
letterato deve scernere quelle da queste,
e, se l'idea esige neologismi, li deve
creare conformemente al genio della lingua,
e omoge- neamente ai materiali idiomaticamente
o letterariamente prestabiliti nella lingua
italiana. Coll'idioma esclusiva- mente toscano
s'immiserisce non solo la lingua, ma
con- seguentemente anche l'idea, la quale
trascende le limi- tazioni locali e
popolari » (*). Dai Sogni e Favole: Dal
Sogno fiiogoologico. Perfezione ed imperfezione degli enti.
Dalla Favola antropologica. Dialogo tra Fantasia, Lu cifero
ed il filosofo. Dalla Favola antropopedeutica. Dialogo tra Favola
ed Filosofo. La filosofia e la solitudine. Dalla Favola
angelica. La vita del filosofo . . • Dal Sogno utopistico. Dialogo
fra il filosofo ed un ere mita della futura società
riformata. Dal Sogno utopistico. L’educazione in un
ordinamento utopistico della società. Dalla Favola
utopistica. Una gita in aeroplano nella so cietà riformata.
Dalla Favola utopistica. Un « casus belli » nel 1964 Dalla Favola
utopistica. Le condizioni economich della società riformata dell’anno
2000 .... Dalla Favola utopistica. Un disegno di ordinament cittadino
nella società riformata dell’anno 2000 . Dal Sogno assurdo. La società
nel secolo xix e nell’e poca successiva della riforma.
Dalla Favola assurda. L’igiene. Dal Sogno del diluvio
riformatore. Un cataclisma . Dalla Favola di F.rato. Poesia, scienza, s
peculazi one Pag. 21 27
29 52 59 6j 67
75 90 95 102 in
474
Indice Dalla Favola ili Erato. La danza, la mimica, la mu¬
sica, la poesia. Pag. 118- Dalla Favola di Erato. I grandi poeti
sono spiriti con¬ cettivi . «133 Dalla Favola tecnica.
Prolusione agli studi tecnici in una società futura. » 155
Dalla Favola filosofica. Manuale pratico di vita civile . » 182
Dalle Massime e Dialoghi : Reminiscenza.» 205
Espressione della verità ..» 207 —Recondita opera della
filosofia nella storia dell’ uma¬ nità . , • • • » 208 Gli
attori della nostra storia europea. » 209 Gli spiriti forti e la
moralità.» 210 I filosofi nella società degli uomini comuni .... »
210 _ Debolezza delle facoltà mentali. » 211 Celebrità
e saggezza .» 212 I giudizi del mondo. » 212 Apprendere
da sò stesso o dal maestro . ■.» 213 II giornaletto umoristico. »
213 La tirannia della debolezza. » 214 «—4,’apprezzamento
della filosofia del mondo.» 214 Stazioni nell’itinerario degli
studi. » 21 s Dialogo di Patologo e Apatologo.» 21 j
L’uomo piacevole. » 222 Machiavellismo delle sette. »
222 Differenze spirituali. » 223 . Un quinto giudizio
del mondo.» 223 Erutti di una coatta abnegazione.» 224
La celebrità ed il sapere . » 226 Dialogo della Luna e della
'ltrra.» 226 Lagnanze e contentezze inopportune. » 233
L’intrinseco del mondo.» 253 L’ineccepibile probità.»
233 Conosci te stesso. >>234 Il vero sentimento e
la costumanza. » 235
Indice
475 La predica delle tre sorelle . 2 5 5 Metodo per
essere colto e sapiente. » 2 5 S Scopo di un filosofo . " 2
Ì° Catechismo de! medico praticante. ” 2 *7 Documenti
esteriori della soggettività .a 241 L’inettitudine dei filosofi e
dei poeti . » 242 Annunzio librario . * 2 4 2 Dialogo
di un filosofo con un amico. » 2 41 “- Orientazione dello spirito
speculativo ... • • • 246 L’infelicità degli uomini grandi . a
251 1 consigli delle persone . a 251 La setta ..
La personificazione delle maggioranze ... . » 252 1 giudizi
del mondo . * 252 Verità speculativa e verità della riflessione »
253 Sentenziucce . . 2 54 Le ragioni delle sette .
’> 255 Predilezione del sentimento e della riflessione ... »
256 1 libri . " 2 5 fi Le abitudini della vita
pratica e teorica . » 257 Insegnamento delle massime pratiche
mondane . . » 257 L’hegeliana filosofia del diritto . « 258
Trascendentalismo . » 259 La divina provvidenza .>>
266 1 diritti della gente. .... » 266 Astrazioni viste
sotto un solo aspetto .» 267 Ragioni della verbosità . » 267
La solitudine e la città . » 267 Le lodi e i biasimi del
nostro tempo ...... » 272 La morte spirituale . » 273 __
L’inavvertenza . » 291 Politica . » 291 Circa la
musica contemporanea .» 306 I desideri del filosofo . » 319—
L’essenzialità del sistema contemplativo .» 327— Uno
stravagante . » 349— li soldato . . . » 349 Un
rimprovero sconsiderato . » 350
Indice 470 1. 'esigenza dello spirito
.... 11 lavoro del cervello . L’educazione positiva
.... La composizione . I ire periodi della storia umana
Intensità dell’esistenza ed annullamento Insegnamento della lingua
I fondamenti dello scibile finito . . ’ La religiosità dell’Asia.
... La religiosità in Grecia e in Roma . II
Cristianesimo. L’igiene . . . L’ozio .
delle Trascendentalismo, La verità poetica .
La responsabilità . Paradossi .... La professione
. Il regime .... L’educazione del getter
L’essenza e il formalismo dello scibile umano Il bello poetico
. Il deputato BIBLIOGRAFIA I. Nel
Crepuscolo di Milano. Cenno bibliografico
sulla i*^ edizione del Pellegrinaggio.
II. ^e\V Unione di Torino del
21 novembre 1854, n. 356. Cenno
bibliografico, come sopra, del Silorata.
III. Nella Revue franco-italienne di
Parigi. Cenno bibliografico come sopra.
IV. In Philosophische Monatshefte, 1883
(xxii fase). Recensione di Rabus sul
Pasaelogices Specimen. V. In Zeitschrift
fur Philosophie und philosophische Kritik, 1884.
Recensione come sopra. VI. In
Perseveranza del i maggio 1885. Recensione
di E. Antonietti sulle « Considerazioni
sopra il sistema dello Spirito e
della Natura ecc. » (cfr. nell'Elenco
delle opere i nn. 31, 32). VII.
Prefazione di L. De Lorenzi alle
Considera- zioni, (cfr. nell'Elenco delle opere
n. 32). vili. In Gazzetta Letteraria
del 27 giugno 1885. Cenno biografico
di P. D'Ercole. IX. In Filosofia
delle Scuole Italiane, giugno 1885. Notizia
di P. D'Ercole sul Pasaelogices Specimen.
X. NeW Annuario biografico universale,
1885. Arti- colo d'indole generale di L. De
Lorenzi. XI. Notizia degli scritti e
del pensiero filoso- fico di Pietro Ceretti
accompagnata da un cenno autobiografico pel
medesimo (la. mia celebrità) per Pasquale
D'Ercole. Torino, Unione Tip. Editrice,
1886 pagg. CCCCX-189. (Comprende anche i
saggi delle opere di cui ai nn.
7, 17, 20, 25, 49.) Prefazione
de IP Autore XII. In Atti deir
Accademia Reale delle scienze di Torino,
(Classe di scienze morali, storiche e
filosofiche). Adunanza del 21 novembre
1886. XIII. In Nuova Antologia del
i maggio 1887. No- tizia bibliografica del
Prof. Angelo Valdarnini. XIV. In
Zeitschrift filr Philosophie und philosophi- sche
Kritiky Halle, 1886. Notizia bibliografica. XV.
In Rivista Italiana di Filosofia del
1888, voi. I. Notizia bibliografica del Prof.
Felice Tocco. XVI. Introduzione dei
traduttori ai Prolegomeni, (cfr. n.
12). XVII. In Nuova Antologia
del 16 dicembre 1888. Notizia
bibliografica. XVIII. In Letteratura, anno
IV, 1889 n. 19. Notizia del Prof.
Giuseppe Tarozzi e Discorso commemora- tivo
di Pasquale D'Ercole. XIX. In Rivista
Italiana di Filosofia, nov.-dic. 1889.
Recensione di Pasquale D'Ercole. XX.
In Machiavelli, 26 ottobre 1890. Notizia
di T. C. XXI. In Lettere ed
Arti, 20 dicembre 1890. Notizia del
Prof. Augusto Lenzoni. XXII. In
Ateneo Veneto, nov.-dic. 1890. Recensione
di B. F. XXIII. Ift Revue
philosophique de la France et de
UEtranger, n. 8, 1890. Notizia di B.
Perez. XXIV. Introduzione del Prof.
P. D'Ercole alla Si- nossi, (cfr. n.
24). XXV. In Rassegna Nazionale,
1891. Un poeta fi- losofo. Notizia.
XXVI. In Rivista Italiana di
Filosofia, gennaio-feb- braio 1891. Notizia del
Prof. Angelo Valdarnini. XXVII. In
Risveglio educativo, 17 maggio 1891. La
pedagogia di P. Ceretti. Studio del
Prof. Angelo Val- darnini. Prefazione
dell' Autore xxiii XXVIII. In La
Coltura, i6 agosto 1891. La fama
postuma di un Filosofo poeta, del
Prof. G. Zannoni. XXIX. In Voce
del Lxigo Maggiore, agosto 1891. Pietro
Ceretti poeta, di Renato delle Carte
(Prof. Vittore Alemanni). XXX. La
Filosofia della Natura di P. Ceretti
per Pasquale D'Ercole. Torino, Unione tip.
editrice 1891. (È la Introduzione di
cui al n. 14). XXXI. In The
Mind, luglio 1892. Recensione di Alfredo
W. Benn. XXXII. In Zeitschrift fììr
Philosophie nnd philoso- phische Kritik,
Leipzig, voi. 100, (f fascicolo, 1893.
Notizia sulle opere postume, di Conrad
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Pietro Ceretti nella storia della
Pedagogia, di G. Fantuzzi. XXXIV. \xi
Deutsche Litteraturzeitung, 11 nov. 1893.
Notizia sul i"* volume dell'
Essologia, del Prof. Gio- vanni Cesca.
XXXV. In Rivista Italiana di Filosofia,
maggio-giu- gno 1893. Un nuovo Trattato di
Filosofia della Natura del Prof. Angelo Valdarnini.
xxxvi. Nella Storia della Pedagogia
Italiana del Prof. Angelo Valdarnini,
Paravia e C. 1893. Idem nel
Dizionario illustrato di pedagogia del
Martinazzoli e Credaro. - xxxvii.
Nel volume Rumori mondani di Gaetano
Negri, Milano 1894. XXXVIII. Discorso
delComm. Prof. Pasquale D' Er- cole nella
inaugurazione del Monumento a Pietro Ce-
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XXXIX. In Vedetta, n. 30 del 27
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Alemanni. XL. Nel volume Saggi di
Filosofia Teoretica del Prof. Angelo
Valdarnini. Firenze 1895. XXIV Prefazione
dell* Autore XLi. Introduzione del
Prof. Pasquale D' Ercole al 2° voi.
deirEssologia, (cfr. n. 15). XLii. In
Stampa del 2 agosto 1897 ^' 212.
Notizia sul 2" voi. deirEssologia del
Prof. Vittore Alemanni. XLiii. In
Rassegna Nazionale del 16 luglio 1897.
Notizia come sopra del Prof. Vittore
Alemanni. XLiv. In Rivista Italiana
di Filosofia, stX.i,-o\X, 1897. La
Coscienza Fisica, studio del Prof. Vittore
Alemanni. XLV. Nella Storia Compendiata
della Filosofia di Carlo Cantoni, V*
edizione (Milano Hoepli 1897) P^^g- 5^7-
Notizia generale. XLVi. In Rivista
Pedagogica Italiafia, novembre 1897. La filosofia
naturale del Ceretti. Studio del Prof.
An- gelo Valdarnini. XLVii. In Coltura,
agosto 1898. Notizia del Pro- fessore I.
Petrone. XLViii. In Rivista Italiana
di Filosofia, novembre- dicembre 1898. Le
dottrine estetiche di P. Ceretti. Stu- dio
del Prof. Vittore Alemanni (rifatto nel
presente volume). XLIX. In Literarisches
Centralblatt, n. 46, novem- bre 1898. Cenno
sul IV volume: Essologia, sezione II
La Fisica. L. Nella Enciclopedia
universale illustrata, ottobre 1901, Milano,
Vallardi Editore. Cenno sul Ceretti.
LI. In Grundriss der Gcschichte der.
Philosophie, Viertel Theil di Ueberweg-Heinze.
9* edizione, 1902, pag. 548. Notizia
sul Ceretti (del Prof. Luigi Credaro).
Lii. In Rivista Filosofica,
novembre-dicembre 1902, gennaio-febbraio 1903. La
filosofia di P. Ceretti. Studio del
prof. Vittore Alemanni (rifuso nel presente
vo- lume). pietro
ceretti (n. intra), filosofo. implicatio — empiegazzione — ES implicatum — empiegato — EX
implicans — empiegante — SYN L'uomo nella serie zoologica. § 107. L'uomo vuol
essere consideralo come l'ultimo frutto , ossia il massimo sviluppo psichico
dell'animalità. Questo massimo sviluppo presuppone necessariamente i prossimi
animali dello sviluppo minore, e cosi via discorrendo. L'uomo vuol essere,
inoltre, considerato come il frutto più recente dell'albero 200 logico. E qui
nasce oggidi rispetto all'uomo una contestazione circa la sua produzione
immediata o derivata da ' più prossimi animali inferiori. Questa contestazione
non può ammettersi dalla specu lazione, e neppure dalle discipline naturali
empirico - induttive; ma la si agita sopra un terreno affatto estraneo a quello
della speculazione, e della scibilità empirico - induttiva, fomentata da ogni
sorta di passioni , partigiana di religiosità, di moralità, e così via . § 108.
È assurdo supporre che una specie si tramuti in una nuova specie come tale ;
perocchè le specie sono mere distin zioni teoriche del nostro intelletto . La
natura, come disse un sommo naturalista, non facit saltum ; e conseguentemente
le distinzioni caratteristiche, che costituiscono le specie, non risul tano se
non in quanto si prendono in considerazione termini sufficientemente lontani e
si trascurano i termini intermedii . Infatti, se noi consideriamo gli animali
superiori dell'albero zoologico , nei quali le differenze ci sono più
sensibilmente mani feste, troveremo che le specie si suddividono in razze
differenti fra loro sotto varii rapporti , e che le razze si suddividono in
varietà differenti, e che dette varietà si suddividono in varii indi vidui pur
differenti fra loro . Inoltre, troveremo che queste diffe 72 OPERE DI PIETRO
CERETTI renze sono a noi tanto più evidentemente manifeste quanto più si salga
alto nell'albero zoologico, ed a noi più vicina sia la specie che si prende a
considerare. La vera trasformazione della specie perciò non si deve inve
stigare nelle specie come tali , ma piuttosto nei minimi termini della specie ,
ossia nelle variazioni individuali. Quesle variazioni , tuttochè lentissime,
modificano col volgere dei secoli le specie , così come le conchiglie
microscopiche, variando la propria na tura, variano il terreno che ne risulta.
§ 109. Gli agenti che effettuano la suddetta progressiva va riazione sono di
tre ordini , vale a dire : 1 ) agenti planetarii, 2) agenti psichici, 3 )
agenti spirituali. Questi agenti sono pro gressivamente tanto più efficaci
quanto più si concretano nella efficacia spirituale. Gli agenti del primo
ordine modificano semplicemente l'orga nismo, e indirettamente, ma assai
lentamente, le facoltà istintuali. Sono gli agenti puramente planetarii, p . es
. , la natura del suolo e dell'aria , ossia generalmente il clima, le
condizioni geografiche e topografiche, e cosi via . Questi agenti si possono
chiamare elementari; perocchè operano su tulla l'animalità senza distin zione
veruna , e sono presupposti dagli altri agenti succennati. Si può dire in tesi
generale , che gli animali inferiori non subiscono modificazione se non
lentissima , e molte specie degli animali inferiori si sono spente, appunto
perchè non hanno potuto subire le modificazioni necessitate dalle progressive
va riazioni dell'aria e del suolo . Gl’istinti delle specie animali infe riori
sono rigidi e difficilmente modificabili , appunto perchè sono istinti poco
variati , che non possono neutralizzarsi fra loro in una ricca varietà di modificazione.
§ 110. Gli agenti del secondo ordine sono psichici, epperciò più intimi
nell'organismo, ossia più essenziali . Questi agenti psichici modificano
l'animale nelle sue intime facoltà , ossia atti SINOSSI DELL'ENCICLOPEDIA
SPECULATIVA 73 tudini , assai più facilmente e più profondamente che non gli
agenti naturali succennali. Questi secondi agenti sono nella loro essenzialità
un maggiore sviluppo dei primi, epperciò si manife stano nelle generazioni
susseguenti come profonde modificazioni dell'organismo e dell'istinlualità .
Queste modificazioni non sono più mere variazioni giusta una astratta affinità
, per le quali, p. es . , una facoltà diventa minore di altra facoltà, vale a
dire, si manifestano come pure variazioni quantitative dell'istintualità . Sono
modificazioni profonde che diventano la proprietà caratteristica dell'animale e
qualche volta sono affatto estranee e contradittorie alle facoltà delle genera
zioni preesistenti. Allora si dice , che nuove specie sono venute
all'esistenza, e le vecchie si sono spente . § 111. Le facoltà psichiche si
modificano sulla base di istinti più svariati , i quali si neutralizzano
appunto fra loro tanto più facilmente quanto più svariati . Gl'istinti degli
animali inferiori sono tanto più fermi e rigidi , quanto meno molteplici e sva
riati. Queste modificazioni causate da fattori psichici modificano realmente il
sistema anatomico e fisiologico ( perocchè non sa rebbe possibile una
modificazione psichica sulla base d'una inva riabilità anatomico - fisiologica
), ma sono modificazioni profonde , le quali , se qualche volta poco modificano
l'ordine anatomico fisiologico sensibilmente manifesto, sono però effettuate
piuttosto negli elementi anatomici, nel così detto ordine istologico. Le dette
modificazioni psichiche non spettano , come quelle generali, ad una specie o ad
una razza, ma sono più profonde modificazioni dell'organismo e della
corrispettiva istintualità ; esse riflettono piuttosto le mere individualità
animali, epperciò sono variabili indefinitamente . Le condizioni causali di
queste modificazioni sono date dalle varie ciscostanze , nelle quali ver sarono
certi individui animali. Cosi non è solo la varia natura geografica e
topografica del suolo e dell'aria in che vivono, ma 74 OPERE DI PIETRO CERETTI
anche i varii vegetabili e animali con che vivono ; perocchè dette varie
condizioni sono sufficienti a modificare l'anima dell'animale . Le delle varie
circostanze costringono certi individui a eser citare preferibilmente certe
facoltà psichiche, e per conseguenza a svilupparle preferibilmente. Data la
ricca molteplicità e varietà delle facoltà istintuali proprie della specie,
queste facoltà varia mente si combineranno fra loro e si neutralizzeranno.
Gl’istinti cosi neutralizzati, ossia radicalmente variati , si trasmettono alla
generazione veniente ; e cosi le condizioni succennate , variando le altitudini
dell ' anima individuale, preparano il terreno alle più ricche e più profonde
azioni dei fattori veramente spirituali . § 112. I fattori spirituali modificano
quelle attitudini che appartengono non alla specie, ma all'individuo animale, e
sono fattori che non più modificano l'anima senziente , ma lo spirito ideante
dell'animale. Tuttochè questi fattori, nel loro concreto sviluppo, appartengano
meramente allo spirito umano, pure gli animali superiori ( p . es . , le scimie
antropomorfe) posseggono un certo quale esercizio equivoco e parziale dei
suddetti fattori. Cosi la scimia impara dalla propria osservazione , epperciò
gl’indi vidui più vecchi sono assai più scaltri e periti dei più giovani . È
questa la ragione per la quale i suddetli animali non sola mente si aggregano
fra loro, ma si organizzano gerarchicamente giusta certi statuti del loro
sentimento comune. È importante che un individuo animale possa profittare delle
proprie osser vazioni ; perocchè dello profitto provoca una maggiore perizia
pratica, la quale dai più vecchi è partecipata ai più giovani e trasmessa alle
generazioni vegnenti come una dialettica delle categorie istintuali , che più
tardi si svilupperanno in una vera mentalità. Le categorie spirituali
funzionano qui come sviluppate cate gorie psichiche, epperciò il linguaggio ,
nel suo amplo significato , vera sintesi e genesi manifesta delle categorie
spirituali , arriva SINOSSI DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA 75 all'esistenza : 1
) come linguaggio puramente psichico ; 2) come linguaggio equivoco , ossia
psichico -spirituale ; 3) come linguaggio assolutamente spirituale. Qui non
occorre accennare al terzo stadio , ossia al linguaggio spirituale proprietà
esclusiva dell'uomo, ma solamente al primo e secondo stadio del linguaggio che
nasce e si sviluppa nell'animalità subumana. $ 113. Il fattore caratteristico
di questa crisi, ossia lo svi luppo dell'anima senziente nella spiritualità
pensante, è manifesto piuttosto dal linguaggio muto delle emozioni del corpo e
princi palmente di quelle della fisionomia. Quest'emozioni possono for mulare
un vero linguaggio, in quantochè manifestano definite emozioni intime con certe
categorie, che, non essendo destinate alla mera conservazione dell'individuo e
della specie, non si pos sono chiamare semplicemente psichiche, ovverosia
istintuali . L'animale, p . es . , lussureggia per una mera sensualità ero tica
, la quale non può essere destinata in verun modo alla pro pagazione della
specie. Così pure gli animali giovani giocano colla vivacità propria dell'età
loro, la qualcosa può giovare, ma indirettamente, all'educazione e destrezza
corporale dell'indivi dualità . Così i genitori non solo alimentano la loro
prole, ma la educano e disciplinano alle pratiche operazioni requisite dalla
propria specie, locchè significa che l'ingenita istintualità non potrebbe
bastare, ed abbisogna di ammaestramenti delle osser vazioni date a coloro che
hanno già vissuto praticamente nella vita . § 114. Il linguaggio che abbiamo
chiamato equivoco , ossia psichico - spirituale , è quel tale linguaggio
fonetico, che veramente non consta di vocaboli , ma semplicemente di
vociferazioni , le quali significano non solo definite emozioni dell'animo, ma
certe anfibologiche determinazioni della mente. Così , per es . , i cani , alla
presentazione d'un oggetto che altre volte fu loro nocivo , possono fuggire
guaiolando. 76 OPERE DI PIETRO CERETTI Qui certo v'ha una psichica emozione
provocata da un simile oggetto , ma quest'emozione dev'essere legata alla
memoria di una sensazione, la quale memoria appunto costituisce una deter
minazione equivoca , psichica o mentale . Gli animali superiori posseggono una
svariatissima facoltà significativa, mediante una modulazione fonetica, di
queste equivoche determinazioni . § 115. Quando l'animale arriva
definitivamente alla sogget tivazione della propria Coscienza , ossia al suo lo
distinto catego . ricamente dal non- lo , entra categoricamente nella Coscienza
spirituale. Questo passaggio costituisce la creazione dell'Uomo, e solamente
questo passaggio colla propria manifestazione può significare un soggetto umano
. Qui l'umanismo si manifesta cate goricamente nel proprio caratteristico ( la
definita soggelliva zione) ( 1 ) , e si manifesta colla parola non certo coi
documenti anatomico - fisiologici, che non possono bastare se non a certe ample
generalità della distinzione animale. 1 Sguardo retrospettivo sullo sviluppo
della Coscienza naturale. $ 116. Prima di entrare a caratterizzare questa crisi
impor tantissima, ossia lo sviluppo dell'anima nello spirito , dobbiamo
rapidissimamente riassumere la speculazione retrospettiva della Coscienza
dall'ordine uranico nel planetario e vegeto animale. Nell'ordine uranico la
coscienza procede verso un'individuazione dalla nebulosa alle comete, al sole
ed ai pianeti . Quest'individua ( 1 ) Questo punto è espresso molto
determinatamente e chiaramente nel l'altra opera di Ceretti Considerazioni
sopra il sistema generale dello Spirito, 1885 , ove a pag. 3 è detto : "
Il solo caratteristico essenziale dell'umanismo ( assai più caratteristico di
quell'antichissima vaga definizione dell'uomo ragio nevole) è senza dubbio la
soggettivazione, e la manifestazione di questa sogget tivazione è fatta con
parole, con gesti o altri inezzi spiritualmente formolati , Conformemente a
ciò, più innanzi, al $ 133, l'uomo è designato anzi definito come coscienza
soggettivata . SINOSSI DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA 77 zione, qualunque la si
voglia supporre , non può essere una sog gettivazione ; perocchè l'individuo
non si distingue dalla specie , e le varie specie dei corpi celesti si
confondono colle varie età di un solo individuo. Cosi pure , speculando in un
ordine generalis siino, le varie specie vegetabili ed animali sono varie età
della vegetazione e dell'animalità. Ma nelle specie vegetabili l'individuo
principia a distinguersi dalla specie . Nell'ordine animale non solo
l'individuo si distingue dalla specie, ma anche il soggetto dall'individuo ė
progressivamente distinto . Cosi , p . es . , il corpo animale consta
d'innumerevoli individualità viventi aggregate ed organizzate fra loro , le
quali , svolgendosi dall'una in altra fase, costituiscono i varii organi ed
apparecchi e funzioni vitali dell'a nimale. Ma la coscienza resuntiva di questo
individuo vivente è nell'animale concreto non negli animalcoli gregarii che lo
costi tuiscono . L'animale resuntivo della propria soggettività costituisce lo
svolgimento del senso del pensiero . OPERE DI PIETRO CERETTI PARTE
TERZA. Lo Spirito o la Coscienza spirituale . Senso e pensiero e la loro
distinzione. $ 117. Qui dobbiamo caratterizzare definitivamente la distin zione
del senso e del pensiero. Il senso non può supporsi astratto dalla Coscienza ;
perocchè in questo caso sarebbe un senso che non sente, ma può supporsi
astratto dalla Coscienza del senso ; perocchè la Coscienza e il senso possono
funzionare indistinta inente . Finchè la Coscienza non si distingue
categoricamente dal proprio oggetto , è una coscienza identica alla sua forma
esteriore, la quale è una sensibile esistenza. Quando però la Coscienza si
distingue categoricamente dal proprio oggetto, allora dice : Io sono e
l'oggetto è. Io sono quello che sono, e l'oggetto quello che è , cioè l’lo e il
non - lo siamo due termini distinti . Quest'idea fondamentale che si percepisce
un lo è la soggettività ossia la nascita dello spirito ( 1 ) . ( 1 ) Quando
Ceretti dice qui nascita dello spirito, intende dire nascita del pensiero,
facendo consistere la spiritualità specialmente in questo. A con ferma di ciò,
si noti, primamente, che in questo paragrafo ei vuole fare appunto la
distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel susseguente paragrafo,
parlando dei momenti dello spirito , vi accoglie il principio sensitivo non
come pura e semplice sensazione, ma come sentimento. Sulla predetta
distinzione, del resto , ritorna nei paragrafi susseguenti ( 122 e ss . ) .
SINOSSI DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA 79 Le fasi dello spirito. § 118. Lo
spirito consta di tre fasi, il sentimento, l'intel letto ed il concetto . Lo
spirito nel sentimento è uno spirito imme diato, che poco si distingue
dall'anima senziente , ma quest'anima senziente appartiene allo spirito,
perocchè si percepisce soggetto . Il sentimento . $ 119. Qui dobbiamo
brevemente storiare lo spirito nella sua prima fase, ossia nel sentimento . Il
sentimento consta di tre termini: 1 ) l'attenzione, 2 ) la memoria , 3)
l'imaginazione. La funzione più o meno complessa di questi tre termini crea la soggettività
, che lentamente si svolge dal sensibile nel cogitabile. L'attenzione deve
funzionare nello spirito esordiente , e cosi lo spirito deve sentire che il
senso della natura, ossia l'istinto, più non gli basta. Questo sentimento
dell'insufficienza del proprio istinto l'avverte, che necessita osservare ed
imparare le pratiche della vita ; è la prima funzione della mentalità .
Epperciò tutte le lingue ariane conservano più o meno esplicite le traccie
della parentela lessica di maneo e mens, quasichè pensare e fermarsi, ossia
fermare l'attenzione sopra un oggetto , siano due opera zioni molto affini.
Veramente, tuttochè sommamente dissomiglino queste ope razioni, nella loro
sensibile inanifestazione esteriore s'identificano in un fatto comune, quello dell'arrestarsi.
La Coscienza che fissa l'attenzione sopra un oggetto, cerca nell'oggetto
qualcosa oltre il 80 OPERE DI PIETRO CERETTI sensibile immediato, quando esso
oggetto non sia la funzione di una mera sensazione immanente . $ 120. La
seconda funzione caratteristica del sentimento è la memoria . Mediante la
memoria una sensazione presente si può risu scitare quando non sia più
presente. La coscienza attentiva all'oggello studia un oggetto esteriore ed
abbisogna della pre senza di esso oggello per osservarlo. Ma la memoria
contiene e conserva in sè stessa l'oggetto osservalo, epperciò si costituisce
indipendente dalla presenza del medesimo. § 121. La terza funzione
caratteristica del sentimento è la imaginazione. L'imaginazione non solo
conserva l'oggetto osservato, ma crea l'oggetto che non ha osservato. Questa
funzione emancipa la Coscienza, non solo , come la memoria, dalla presenza
dell'og gelto , ma anche dalla sensibile esteriore realtà del medesimo,
epperciò l'imaginazione può liberamente crearsi una propria oggettività .
Questa facoltà crea non solo l'oggetto composto di oggetti osservati, ossia non
crea solo la mera composizione, ma crea gli oggetti che non constano di
elementi osservati , ma oggetti radi calmente imaginari , tuttochè le semplici categorie
dello spirito e della natura debbano necessariamente fornire all'imaginazione
se stesse per possibilitare la creazione . § 122. Il passaggio dalla coscienza
senziente alla cogitante , ossia dalla bestia all'uomo, è pure una progressiva
distinzione della Coscienza in soggettiva ed oggettiva . Qui la detta
distinzione è una mera distinzione generale dell'lo dal non - lo . L'lo si sup
pone vivente e pensante altro dal non- lo, in sè stesso parimenti vivente e
pensante. La natura si rivela come un popolo di viventi e di pensanti , non si
suppone ancora l'altro dal vivente -pensante , ossia il non SINOSSI
DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA 81 vivente e il non -pensante ; si suppone
semplicemente l'altro dal moio lo vivente e pensante. Perciò la natura uranica,
la terrestre, stochiologica e ininerale, la vegetabile e l'animale si
suppongono distinte dal mio lo, non però distinte dall’lo generalmente par
lando, ossia si suppongono possedere un loro lo analogo a quello della
Coscienza umana . Esaminale le radici, ossia gli antichissimi suoni elementari
del linguaggio e troverete ogni dove significata l'universa natura come vivenle
e pensante analogicamente alla Coscienza umana ; non vi troverete mai la natura
morta colle sue forze cieche, go vernale da necessità parimenti cieca , vale a
dire, la natura della riflessione. § 123. Il sentimento esplicito dalla
Coscienza soggettiva può essere comunicato dall'uno all'altro individuo. È
questa comuni cazione la prima proprietà per cui l'idea cogitabile è distinta
dalla mera sensazione. Nessun linguaggio potrà fornire una sensazione, se
questa non sia stala data dal senso come tale . lo potrò, p. es. , parlare in
qualsivoglia modo degli oggetti visibili , ma il cieco nato non potrà mai
comprendere che sia la visibilità. Se un soy getto abbia un tempo posseduta la
facoltà visiva , potrà, parlando degli oggetti veduti , richiamarli alla
memoria quasi visibilmente presente, ma non potrà mai fare che tale visione
sostituisca la concreta visibile realtà colla semplice imaginazione. § 124. La
prima conseguenza della Coscienza senziente che si sviluppa nella cogitante è
che, siccome l'idea come tale , ossia nella forma della Coscienza cogitante,
può essere trasmessa dal l'uno all'altro soggetto, non può essere trasmesso il
senso come tale , ossia nella forma della Coscienza senziente . Cosi il
soggello è abilitato a sapere quello che non egli , ma gli altri hanno
percepito col senso, oppure quello che egli in altro tempo ha per cepito col
senso , oppure indurre un'idea da quello che presen lemente percepisce col
senso . CERETTI. Sinossi, ecc. 6. 82 OPERE DI PIETRO CERETTI Cosi , p . es. ,
la pecora condotta al macello vede macellare la sua simile e non solo non
induce che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce che questa
presente operazione signi fichi un'uccisione ; perocchè non possiede l'idea
della morte . Cosi il soggetto pensante può sapere quello che il senziente non
può sapere, e questo sapere nasce da una facoltà, per la quale da una
sensazione si astrae un'idea. Cosi , per es . , il soggello pensante vive nel
passato colla memoria, e nell'avvenire coll'ima ginazione; il soggetto
senziente vive astrattamente nella sua sen sazione presente. In virtù della
sensazione, che non può essere indotta in un'idea, egli non possiede, come il
pensante , la distin zione di una natura predominante ed insubordinabile al
soggetlo , e di una natura subordinabile e passibile del soggetto . Quest'idea
prototipa della forza è un'idea cardinale dello spi rito, è stata il primo
germe della religiosità. Osservate il Dio di tutti i popoli, e lo troverete Dio
, non perchè sommamente ragio nevole, ma perchè onnipotente. Nelle religioni
spiritualmente più adulte rimane tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto
che quella della ragionevolezza, l'attributo eminentissimo della divinità . $
125. Mediante questa passibilità il soggetto può sapere la prima volta di
essere nato , di essere stato lattante, di essere stalo partorito , e cosi pure
può sapere che tutti i soggetti , nessuno eccettuato, non vissero oltre una
certa inassima età, ma morirono in quella o prima di quella . Conseguentemente
egli sa che il sog getto non solo nasce e nuore, ma può nascere in varie
condizioni , e morire in qualsivoglia momento della sua vita . $ 126. La
nozione della nascita e della morte del soggetto è un fenomeno della Coscienza
realizzato la prima volta che la Coscienza senzienle si svolge nella pensante;
perciò sapiente inente nella genesi è detto che l'uomo prima di peccare, ossia
di gustare il frutto del bene e del male, non inoriva, ed avendolo gustato
dovrà morire . SINOSSI DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA 83 Veramente la Coscienza
senziente non può sapere di nascere e di morire; perocchè questo sapere non si
sa se non sia una nozione trasmessa dall'uno all'altro soggetto , ovvero
un'idea in dotta dal fatto costante della morte. § 127. Ricapitolando, questa
crisi della Coscienza, ci mani festa che la Coscienza , dalla sensazione
svolgendosi nella men talità , procede in un sistema di distinzioni ideali ,
che non sono possibili nella mera sensazione. La mentalità , che nasce dalla
sensazione , è prolotipicamente imitatrice della sensazione, e porta seco nel
suo sviluppo la forma della sensazione stessa , che pro gressivamente si
trasforma in quella del pensiero . La mentalità è prototipicamente sentimento,
e funziona in tre caratteristiche fun zioni cioè : 1 ) come attenzione ; 2)
come memoria; 3 ) come ima ginazione . Da queste tre prototipiche funzioni del
sentimento nascono tre forme rudimentali della mentalità. La mentalità non più
vive nell'immediata sensazione, ma crea il conflato temporaneo e vive nella
retrospettiva del passato e prospettiva dell'avvenire. Questo conflalo
temporaneo possibilita un'esistenza ideale oltre l'imme diato sensibile
presente, e conseguentemente un'idealità induci bile dall'osservazione. Da
quest'osservazione nasce una seconda idea elementare della mentalità, cioè
d'una forza naturale che domina la nostra, e d'una forza subordinabile alla
nostra . Di qui la mentalità si esercita per subordinare le forze predominanti,
e da questa generale osservazione si percepisce come un fatto costante che
l'uomo nasce e muore, e finalmente che io come uomo sono nato e devo morire .
L'idea della morte come necessità, tuttochè sembri un'idea comunissima, è lungi
dall'essere tale . La Coscienza primitiva, come quella di certi selvaggi oggidi
viventi , percepisce la morte come un fatto costante ; ma, come la riſlessione
, non arguisce punto che questo fatto , tuttochè costante , 84 OPERE DI PIETRO
CERETTI sia necessario . Suppongono questi selvaggi che la natura umana o
sovrumana abbia sempre ucciso l'uomo; ma suppongono pari menti che
quest'uccisione non sia una necessità, ma una sforlu nata accidentalità . $
128. La coscienza che dalla sensazione si svolge nella mentalità si
sistematizza in un sentimento pressochè comune alla umanità. Il soggetto
possiede la sua propria determinazione indi viduale ; ma proprie determinazioni
non affettano un sistema generale della Coscienza umana, che perciò ſu chiamato
senso comune. Mentre questo sistema generale della Coscienza è piena mente
uniforme al senso comune, il soggetto è un soggetto comune e spiritualmente
normale. Ma quando questo sistema si aliena dal senso comuue in on sistema
d'idealità più misteriosa, e trascende con un giudizio prestigioso i giudizi
comuni degli uomini, allora si dice, che questo soggetto è inspirato, ossia pro
fetico , laumaturgico, e così via . Generalmente parlando, questa Coscienza
trascendente subor dina la comune, come provano i varii sacerdoti della
primitiva religiosità . Quando il soggetto si aliena dal senso comune senza
trascendere in un'idealità prestigiosa, ed esercita una pratica con tradittoria
a sè stessa, ovvero incompatibile colle esigenze gene rali della pratica oggettività,
allora si dice , che il soggetto è spiritualmente ammalato, ovverosia demente.
L'alienazione vuol essere accuratamente distinta, se cioè sia alienazione dal
mero senso comune ( in questo senso si può dire, che tutti gli uomini grandi
furono alienati), ovvero se sia una alienazione dalle generali esigenze
pratiche dell'oggettività natu rale e spirituale ( in questo senso gli alienati
sono coloro che comunemente si chiamano pazzi ) . $ 129. La Coscienza
trascendentale, ossia la Coscienza domi nata dall'idealismo, Coscienza
essenzialmente poetica , è il polo opposto della Coscienza dominata dalla
sensazione, Coscienza SINOSSI DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA 85 essenzialmente
prosaica . A quella si devono tutte le organizza zioni primitive dell'umanità ,
a questa si deve preferibilmente la tecnica industrialità e la mercatura
primitiva. Vedremo più oltre, che la Coscienza umana progredisce sulla base di
quest'opposizione archetipica della sua storia.Il linguaggio e i suoi stadii. $
130. L'organo più essenziale e più generale della menta lità è la lingua . Il
primo stadio della lingua è l'uso delle radici designative ; qui la lingua non
designa che presentazioni o modi della presen lazione , e sempre si riduce alle
semplici categorie del tempo e dello spazio . I pronomi personali non furono
primitivamente Io, Tu, e così via, categorie troppo metafisiche, per servire a
questo primo stadio della lingua , ma, qui, là, ecc. , categorie dello spazio.
Una lingua che consti di radici semplicemente designative non può soddisfare
alle esigenze più generali della mentalità , epperciò da questo primo stadio si
sviluppa, per l'implicita esigenza della mentalità, il secondo stadio. Il
secondo stadio consta di radici predicative, ma tuttavia legate a una sensibile
determinazione; cosi, p . es . , per designare un oggelto , si sceglie
l'attributo sensibile più esplicito in quel l'oggetto, p . es . , il verde per
designar la pianta. Quest'attributo sensibile , sendo necessariamente variabile
o contingente nell'og getto , non può costituire una specie. In questo secondo
stadio si trovano molte lingue dei selvaggi , i quali scelgono un attributo
sensibile dell'oggetto per designarlo, e conseguentemente non pos sono arrivare
a formolare le specie, ma semplicemente oggetti in certe sensibili condizioni .
Il terzo stadio usa la categoria propria della mentalità espli 86 OPERE DI
PIETRO CERETTI cita , la categoria metafisica, per designare l'oggelto ; come,
p . es . , definirà la pianta non l'individuo verde, ma l'individuo polare, i cui
poli cospirano alla luce ed all'acqua . Questa proprietà gene rica comprende
tutte le piante ; perocchè la detta polarità è l'attributo cogitabile generale
della pianta. La lingua è posseduta da tutti gli animali come lingua psi chica
di movimenti o di formalità ; ma la lingua che caratterizza la soggettività è
appunto la lingua psichica che si svolse nella spirituale. Altrove abbiamo
trattato esplicitamente quest'argo mento ( 1 ) e crediamo superflua una
ripetizione. Qui giova sola mente accennare, che le prime radici della lingua
significarono mere affezioni dell'anima e più tardi si svolsero in significati
metaforici, per rispondere all'esigenze della progressiva mentalità . Il
rapporto fra il suono espresso dall'anima e l'anima espri mente è quello stesso
rapporto , ma più complesso, per il quale determinati animali significano con
certi definiti suoni cerle de finite affezioni dell'anima loro . $ 131. L'uomo,
sviluppando in sè stesso la propria mentalità e l'organo per significarla, si
conobbe come specie comune. La prima lingua quasi naturale deve essere stata
pressochè identica in tutti i soggetti umani, come tutte le pecore belano ,
tutti i cani abbaiano ed urlano. Dovette essere una lingua nata con loro e
trasmessa alle generazioni senza il minimo bisogno di conven zionalismo e di
pratica convivenza per essere capita . ( 1 ) La lingua è stata realmente uno
degli argomenti più favoriti e più frequentemente trattati dal Ceretti, il
quale la conosceva, ed a fondo, in molte forme antiche ed in un numero ancora
maggiore di forme moderne. Egli ne ha trattato, infatti , in molte sue opere.
Ne ha accennato nel primo volume della sua grande opera, cioè Saggio circa la
ragione logica di tutte le cose “ Prolegomeni ,, Torino 1888, pag. 43 e ss. (
confr. anche ibid ., pag. 291 e susseguenti). Ne ha accennato anche nelle
seguenti opere già pubblicale in Torino 1885, e cioè nella Proposta di riforma
sociale, pag. 26 e seg.; nella Introduzione alla cultura generale ( facente
parte del predetto vol . ) , pag. 120 e seguenti. Ne parla poi in parecchie
altre opere ancora inedite .Stato primitivo dell'uomo. $ 132. L'uomo che
possedetle questa lingua visse nelle foreste in aggregazioni o società
piuttosto fortuite, poco dissimili da quelle dei quadrumani , ma si armò per esercire
la caccia e la pesca. La sua nudità lo facea più fragile degli altri animali,
epperciò ha dovuto sopperire a questa nudità e debolezza colle armi
artificiali, e sopratutto colla propria scaltrezza . Questo primo stato
dell'uomo vuol essere qui accennato come quello dell'astratta soggettività
abbandonata a sè stessa ; perocchè l'uomo , cacciatore o vivente dei prodotti
naturali della terra e del mare, può vivere solitario. Le aggregazioni o
società di questi uomini sono mera accidentalità non necessità dello stato pro
prio ( 1 ) . In questo primo stato la soggettività nascente è caratte
risticamente manifestata dalla perversione di certi istinti essenzia lissimi
alla conservazione del soggetto e della specie. Così , p. es . , nessuna specie
animale s'alimenta del proprio simile, ma certi selvaggi mangiano
indifferentemente i loro nemici , amici, con sanguinei, figliuoli, ed
alimentano le donne, affinchè ingrassino e siano buone a essere mangiate quando
partoriscono più figliuoli da mangiare. Quest'enorme perversione d’un istinto
cosi radicale (l'affe zione alla progenitura ) segna quanto sia profonda la
crisi che svolge l'istintualità nella mentalità. È una mentalità che si ma ( 1
) Sono certo che la quasi totalità de' lettori non sarà d'accordo su questo
punto col Cerelti , e riterrà l'associazione umana come una necessità e non già
come un'accidentalità . Ma l'autore, per la vita solitaria e un po'
misantropica da lui fatta, è stato come involontariamente tirato a
generalizzare questo suo particolare carattere. 88 OPERE DI PIETRO CERETTI
nifesta come un'orribile perversione dell'istinto, ma è una men talità volente
, non un mero modo d'ingenita istintualità. Questo titolo è quello, che
nonostante la massima perversione, può no bilitare l'uomo antropofago sopra la
bestia istintualmente tutrice della prole . Cosi pure, relativamente al
soggetto individuo , l'uomo sel vaggio in procinto di essere cattivalo dai suoi
nemici , può suici darsi , la bestia non mai . L'istinto della propria
conservazione individuale è un istinto comune a tutti i viventi nella natura,
come pure quello della conservazione della propria specie non offre eccezione
veruna nel regno della natura . Le sole eccezioni a questo fenomeno
generalissimo della vita si trovano fra gli ani mali pensanti. § 133. Tuttochè
qui dobbiamo parlare del soggetto della natura, astratto da qualsivoglia
organizzazione necessitata dalla sua condizione, abbiamo parlato di tre stadii
caratteristici della lingua, come quella che può essere comunicala da soggetto
a soggetto , indipendentemente dall'organizzazione sociale fra sog getti o
dalla nessuna organizzazione. La lingua appartiene cosi al soggetto solitario
come al sog gelto socievole, e generalmente al soggetto solitario che profitta
segnatamente delle occasioni dell'amore. L'uomo solitario pra tica qualche
volta questo rapporto colla femmina come un mero rapporto erotico, occasionale.
Abbandona la femmina alle conse guenze della fecondità, non conosce i suoi
figliuoli che sono allattati , nudriti ed educati dalla madre . Ma la lingua,
che persuase la copula dell'amore, è la mede sima lingua, colla quale la madre
educa i suoi figliuoli . Cosi la lingua può dirsi radicalmente una creazione
della specie ed assu merà dignità ed avrà il suo svolgimento nella storia
universa della spiritualità. Si può dire in tesi generale, che la lingua genera
la storia nella sua più semplice elementarità; e dallo svolgimento SINOSSI
DELL'ENCICLOPEDIA SPECULATIVA 89 della lingua si conosce lo svolgimento
dell'umana mentalità , e , conseguentemente , delle gesta che ne sono
conseguite . Proseguiamo a speculare circa i fenomeni più radicali della
soggettivitàesologica" Il sillogismo che passa dall'astrazione esologica nella
essologica è il sistema dell'Essere-Essenza-Coscienza (155), che
passa nel sistema del Meccanismo-Chimismo-Vita. L'Essere
esologico è Quantità - Qualità - Modalità,
dall'unità corriflessa delle quali categorie avviene (sorge) l’Essenza.
L'Essere essologico determina la Qualità nell'Alteriorità, la Quantità nella
Esteriorità, la Modalità nell'Apparizione. Quindi l'Alteriorità
diventa Temporalità , l'Esteriorità diventa Spazialità , l’Apparizione diventa
Luce... Esologica
Alessandro Goreni’. Pietro Ceretti. Keywords: communication, convention, homo
sapiens, pirothood, inter-subjective, animality, animalness, soul, psichico,
psychic, psychical versus psychological, progression, pirotological progression,
cenobium, neologismo, panlogica, pantologico, logo, esologo, essologo,
sinautologo, prologo, dialogo, autologo, tre categorie: tesi QUANTITA
(meccanica), anti-tesi, QUALITA (fisica), sin-tesi MODALITA (vita) –
arte/religione/filosofia; storia/didattica/diritto, antropologia,
antropopedeutica, antroposofia, prasseologia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Ceretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773651469/in/dateposted-public/
ŒCeronetti
– la lanterna – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Ceronetti; he is a typicall Italaian philosopher;
that is, a typically anti-Oxonian one; he thinks, like Croce and de Santis did,
that philosophy is an infectious disease that some literary types catch! My
favourite of his tracts is “Diognene’s torch”! Genial!” Per essere io morto
all'Assoluto vivo come un innato parricida tra gente già di padre nata priva; pPer
aver detto all'Inaccessibile addio da un cortiletto senza luce vergogna vorrei
gridarmi ma resto muto. Tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare
di ruota senza carro, e questo ha nome esilio, o anche mondo. Di vasta
erudizione e di sensibilità umanistica, collabora con vari giornali. Tra le sue
opere più significative vanno ricordate le prose di Un viaggio in Italia e
Albergo Italia, due moderne descrizioni, moderne e direi dantesche, da cui vien
fuori tutto l'orrore del disastro italiano, e le raccolte di aforismi e
riflessioni Il silenzio del corpo e Pensieri del tè. Di rilievo la sua attività
di saggista (Marziale, Catullo, Giovenale, Orazio). Diede vita al teatro dei Sensibili,
allestendo in casa spettacoli di marionette. Le sue marionette esordivano su un
piccolo palcoscenico, nel tinello di casa Ceronetti, ad Albano Laziale. Si
consumavano tè, biscottini (i crumiri di Casale) e mele cotte." Nel corso
degli anni vi assisterono personalità quali Montale,Piovene, e Fellini. Con la
rappresentazione de La iena di San Giorgio, I Sensibili divenne pubblico e
itinerante. Œ In Difesa della Luna, e altri argomenti di miseria
terrestre, suo saggio d'esordio critica il programma spaziale da prospettive
originali e poetiche. Il fondo Guido Ceronetti -- "il fondo senza
fondo" -- raccoglie infatti un materiale ricchissimo e vario: opere edite
e inedite, manoscritti, quaderni di poesie e traduzioni, lettere, appunti su svariate
discipline, soggetti cinematografici e radiofonici. Vi si trovano, inoltre,
numerosi disegni di artisti (anche per I Sensibili), opere grafiche, collage e
cartoline. Con queste ultime fu allestita la mostra intitolata Dalla buca del
tempo: la cartolina racconta. Prese posizione a favore dell'eutanasia, con
la poesia La ballata dell'angelo ferito. Beneficiario della legge Bacchelli, in
quanto cittadino che ha illustrato la Patria e versante in condizioni di
necessità economica. Robbe-Grillet, Moravia e Ceronetti al Premio
letterario internazionale Mondello. Palermo Proposto dal controverso critico e
politico Sgarbi come senatore a vita a Napolitano, declina subito
l'invito. Attento alle tematiche ambientali, era noto per essere un acceso
sostenitore del vegetarismo e per una pratica di vita estremamente frugale,
quasi da moderno anacoreta. Solo un vero vegetariano è capace di vedere
le sardine come cadaveri e la loro scatola come una bara di latta. Un
mangiatore di carne (non mi sento di scrivere un carnivoro perché l'uomo non è
un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero di una macelleria avrà la
sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C'è come un velo sulla
retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi di un velo sull'anima, che
gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di
carne o di pesce. Alcuni suoi articoli sull'immigrazione (disse che ha "un
carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di guerra sociale
e religiosa") e il Meridione, pubblicati sui quotidiani La Stampa e Il
Foglio, furono tacciati di razzismo, così come scalpore fecero alcune posizioni
da lui espresse sull'omosessualità maschile, accusate di omofobia. In
precedenza sull'argomento si era attirato gli strali dei cattolici per aver
descritto don Bosco come un omosessuale represso. Intervistato nel per Radio Radicale Come articolista,
principalmente su La Stampa e il Corriere della Sera, si occupava spesso di
letteratura, arte, filosofia, costume e cronaca nera (ad esempio scrivendo sul
caso del delitto di Novi Ligure), analizzando il problema del male nel mondo
odierno in una prospettiva gnostica; al contrario giudicava noiosi i processi
di mafia. Notevoli discussioni suscitò, altresì, un suo intervento giornalistico
a difesa del capitano delle SS Erich Priebke (che visitò in carcere e con cui
ebbe uno scambio epistolare), condannato all'ergastolo per la strage delle
Fosse Ardeatine ma che fu soltanto un mero funzionario esecutore, colpevole
della "miseria di non essere un santo" (parafrasi del saggio di Bloy
La tristezza di non essere santi), e creato Mostro delle Ardeatine, vittima di
una giustizia dell'odio. Allo stesso modo, pur esprimendo sempre la sua
simpatia per gli ebrei e per Israele, per convinzioni personali e la sua
parentela acquisita con Giuliana Tedeschi, definì l'ergastolo inflitto a Hess,
al processo di Norimberga, come un crimine politico. La sua posizione
anticonformista pro-Priebke e pro-Hess fece scandalo essendo l'autore un noto
filosemita, con moglie e suocera (superstite di Auschwitz) ebree nonché
convinto filoisraeliano (scrisse articoli di fuoco contro Khomeini e il
terrorismo palestinese). Nel fu
insignito del premio "Inquieto dell'anno" a Finale Ligure. Ostile
al fascismo nella seconda guerra mondiale e al comunismo poi, ma anche
diffidente delle forme della democrazia, non prese mai parte politica attiva, a
parte un brevissimo periodo in cui ebbe la tessera del Partito Socialista dei
Lavoratori Italiani, fino al, quando intervenne al congresso dei Radicali
Italiani, movimento liberale e libertario, e altre volte ai microfoni di Radio
Radicale (era amico di Marco Pannella), anche se si considerava un
"conservatore" e patriota del Risorgimento (descrisse
l'Italia come «una democrazia strangolata sul nascere da tre poteri con il
verme totalitario, democristiano, comunista e sindacale»). Talvolta fu definito
come un "reazionario postmoderno". «Sono sempre stato anticomunista. Il
Mullah Omar e Osama Bin Laden sono modi dell'antiumano. Dietro di loro...
l'ombra di Lenin, inviato della Tenebra, fondatore imitabile dell'universo
concentrazionario, capostipite novecentesco di malvagie entità che non
finiscono di manifestarsi.» (Ti saluto mio secolo crudele) Nel propose in un articolo su la Repubblica,
ispirandosi al fenomeno delle assistenti sessuali per disabili, l'istituzione
di un "servizio erotico volontario" rivolto agli anziani senza che
dovessero rivolgersi a prostitute, per evitare "la barbarie di una
vecchiaia senza sesso". Fece uso di vari pseudonimi, tra i quali Mehmet
Gayuk, il filosofo ignoto (riferimento a Louis Claude de Saint-Martin, filosofo
così chiamato), Ugone di Certoit (quasi l'anagramma di Guido Ceronetti) e
Geremia Cassandri. Morì nella sua casa di Cetona (SI) dopo un breve
ricovero a causa di broncopolmonite. Come da disposizione testamentaria, dopo
tre giorni e una cerimonia religiosa a Cetona, fu sepolto sulle colline tra
Torino e il Monferrato, in una tomba a terra situata nel cimitero di Andezeno
(Torino), il paese di origine dei genitori. Disposizione da prendere. Non
voglio donne in calzoni ai miei funerali. Cacciatele via. Almeno in questa pur
insignificante occasione, ma per amore, siano insottanate come le ho sognate
sempre, nella vita.» Altre opere: “Difesa della luna e altri argomenti di
miseria terrestre” (Rusconi, Milano); “Aquilegia, illustrazioni di Erica Tedeschi,
Rusconi, Milano, con il titolo Aquilegia. Favola sommersa, Einaudi, Torino); La
carta è stanca” (Adelphi, Milano); La musa ulcerosa: scritti vari e inediti,
Rusconi, Milano); Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina,
Adelphi, Milano); La vita apparente, Adelphi, Milano); Un viaggio in Italia, Einaudi,
Torino); Albergo Italia, Einaudi, Torino); Briciole di colonna. La Stampa,
Torino); Pensieri del tè, Adelphi, Milano); L'occhiale malinconico, Adelphi,
Milano); La pazienza dell'arrostito. Giornali e ricordi, Adelphi, Milano); D.D.
Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Tra pensieri, Adelphi, Milano); Cara
incertezza, Adelphi, Milano); Lo scrittore inesistente, La Stampa, Torino, Briciole
di colonna. Inutilità di scrivere, La Stampa, Torino, La fragilità del pensare.
Antologia filosofica personale Emanuela Muratori, BUR, Milano); La vera storia
di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Einaudi, Torino, N.U.E.D.D. Nuovi
Ultimi Esasperati Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Piccolo inferno torinese,
Einaudi, Torino); Oltre Chiasso. Collaborazioni ai giornali della Svizzera
italiana, Libreria dell'Orso, Pistoia, 2004, La lanterna del filosofo, Adelphi,
Milano); Centoventuno pensieri del Filosofo Ignoto, La Finestra editrice,
Lavis); Insetti senza frontiere, Adelphi, Milano); In un amore felice. Romanzo
in lingua italiana, Adelphi, Milano,, Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e
sopravvivenza del XX secolo, illustrazioni Guido Ceronetti e Laura Fatini,
Einaudi, Torino,, L'occhio del barbagianni, Adelphi, Milano,, Tragico
tascabile, Adelphi, Milano,, Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,, Per
non dimenticare la memoria, Adelphi, Milano,, Regie immaginarie, Einaudi, Torino,
Guido Ceronetti, Poesia Nuovi salmi. Psalterium primum, Pacini Mariotti,
Pisa); La ballata dell'infermiere, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Poesie,
frammenti, poesie separate, Einaudi, Torino, 1968 Premio Viareggio; Opera
Prima; Poesie: Corbo e Fiore, Venezia); Poesie per vivere e per non vivere,
Einaudi, Torino, Storia d'amore ritrovata nella memoria e altri versi,
illustrazioni di Mimmo Paladino, Castiglioni & Corubolo, Verona); Compassioni
e disperazioni. Tutte le poesie, Einaudi, Torino, Disegnare poesia (con Carlo
Cattaneo), San Marco dei Giustiniani, Genova, Scavi e segnali. Poesie inedited,
Alberto Tallone, Alpignano, Andezeno, Alberto Tallone Editore, Alpignano, La
distanza. Poesie, Edizione riveduta e aggiornata dall'Autore, BUR, Milano, Preghiera
degli inclusi, Alberto Tallone Editore, Alpignano, senza data Francobollo,
Alberto Tallone Editore, Alpignano (sotto lo pseudonimo Mehmet Gayuk), Il
gineceo, Alberto Tallone, Alpignano, febbraio 1998; Adelphi, Milano, In
memoriam di Emanuela Muratori, Alberto Tallone, Alpignano, Messia, Tallone,
Alpignano, Adelphi, Milano,, [nella prima parte del libro] Tre ballate recuperate
dalle carte di Lugano, Alberto Tallone, Alpignano, Tre ballate popolari per il
Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano; Pensieri di calma a bordo di
un aereo che sta precipitando, Alberto Tallone, Alpignano; A Roma davanti al
Tulliano Notte del 3 dicembre 63 a. C., Alberto Tallone, Alpignano, Con
l'armata dell'Ebro morire oggi, Alberto Tallone, Alpignano; Invocazione al
Dottor Buddha perché venga e ci salvi, Alberto Tallone, Alpignano; Le ballate
dell'angelo ferito, Il Notes magico, Padova, Poemi del Gineceo, Adelphi,
Milano,, [riedizione de Il gineceo con
inediti e nuova prefazione] Sono fragile sparo poesia, Einaudi, Torino,,
Drammaturgia Furori e poesia della Rivoluzione francese. Carte Segrete, Roma,
Alcuni esperimenti di circo e varietà. Teatro Stabile-Teatro dei
Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Teatro
Stabile-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna
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Fioroni, Becco Giallo, Oderzo, 1988 Viaggia viaggia, Rimbaud!, Il melangolo,
Genova, La iena di San Giorgio. Tragedia per marionette, Alberto Tallone, Einaudi,
Torino); Il volto (Ansiktet), Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore,
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Misteri di Londra e Mystic Luna Park] Rosa Vercesi, un delitto a Torino negli
anni Trenta, Teatro Strehler-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano, Rosa
Vercesi, illustrazioni di Federico Maggioni, Edizioni Corraini, Mantova; Traduzioni
e curatele Marziale, Epigrammi, introduzione di Concetto Marchesi, Einaudi,
Torino, II ed. riveduta, Einaudi, Torino; nuova edizione con un saggio di G.
Ceronetti, Einaudi, Torino; nuova ed. riveduta e nuova prefazione di G.
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Tallone Editore, Alpignano, nuova traduzione; Qohelet. Colui che prende la
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Giovenale, Le Satire, Einaudi, Torino, La Finestra Editrice, Trento, Il Libro
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Editore, Alpignano, Nostradamus: annunciatore nel secolo 16. della Rivoluzione
che durerà dal 1789 al 1999 / profezie estratte dalle Centurie di Michel de
Nostredame, Alpignano, Alberto Tallone Editore, Tango delle capinere, Castiglioni
& Corubolo, Verona. Due versioni inedite da Shakespeare e da Céline, Cursi,
Pisa, Teatro dei sensibili, La rivoluzione sconosciuta. Pensieri in libertà per
ricordare. Una scelta di testi Guido Ceronetti, Tallone, Alpignano, col titolo
La rivoluzione sconosciuta, Adelphi, Milano, raccolta di 44 locandine teatrali
a fogli sciolti dalla mostra-spettacolo di Dogliani] Henry d'Ideville, Oggi,
Alberto Tallone, Alpignano, senza data. Constantinos Kavafis, Poesia, Alberto
Tallone, Alpignano, senza data Georges Séféris, Poesia, Alberto Tallone,
Alpignano, senza data. Sofocle, Edipo Tyrannos. Coro, Edizioni dell'Elefante,
Roma (con Cristina Chaumont) Sura 99. Al Zalzala (Il tremito della terra) dal
Corano, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Il Pater
noster. Matteo 6, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Léon
Bloy, Dagli ebrei la salvezza, con un saggio di G. Ceronetti, traduzione di
Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Piccola Biblioteca n. 330, Adelphi, Milano, Giorni
di Kavafis. Poesie di Constantinos Kavafis, Officina Chimerea, Verona, Messia,
Alberto Tallone Editore, Alpignano; Adelphi, Milano,.nella seconda parte del
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Teatro dei Sensibili, Qiqajon, Magnano, 2003 Tito Lucrezio Caro, I terremoti.
De Rerum Natura. Alberto Tallone, Alpignano, Constantinos Kavafis, Un'ombra
fuggitiva di piacere, Adelphi, Milano, Trafitture di tenerezza. Poesia
tradotta, Einaudi, Torino, François Villon, I rimpianti della bella Elmiera,
Alberto Tallone Editore, Alpignano,. Orazio, Odi. Scelte e tradotte da Guido
Ceronetti, Adelphi, Milano,. Epistolari Guido Ceronetti e Giosetta Fioroni,
Amor di busta, Milano, Archinto, Due cuori una vigna. Lettere ad Arturo
Bersano, Prefazione di Ernesto Ferrero, Padova, Il Notes Magico, Guido
Ceronetti e Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l'abisso. Lettere, Milano, Adelphi,.
Spettacoli del Teatro dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Tragedia per
marionette (allestito in appartamento), prodotto dal Teatro Stabile di Torino,
con Ariella Beddini, Simonetta Benozzo, Paola Roman e Manuela
Tamietti, regia di Egon Paszfory (Guido Ceronetti), scene e costumi di Carlo
Cattaneo Macbeth (spettacolo per marionette allestito in appartamento) Lo
Smemorato di Collegno (anni '70, spettacolo per marionette allestito in
appartamento) Diaboliche imprese, trionfi e cadute dell'ultimo Faust (spettacolo
per marionette allestito in appartamento); Fu interpretato al Festival di
Spoleto da Piera degli Esposti, Paolo Graziosi e Roberto Herlitzka, con la
regia, scene e costumi di Enrico Job I misteri di Londra (allestito in
appartamento); prodotto dal Teatro Stabile di Torino, regia di Manuela
Tamietti, con Patrizia Da Rold (Artemisia), Luca Mauceri (Baruk), Valeria Sacco
(Egeria), Erika Borroz (Remedios) e le marionette del Teatro dei Sensibili.
Furori e poesia della rivoluzione francese. Tragedia per marionette (allestito
in appartamento); al Teatro Flaiano di Roma con i burattini di Maria Signorelli
Omaggio a Luis Buñuel prodotto dal Teatro Stabile di Torino, Mystic Luna Park (prodotto
dal Teatro Stabile di Torino), spettacolo per marionette ideofore con Armida
(Nicoletta Bertorelli), Demetrio (Guido Ceronetti), Irina (Laura Bottacci),
Norma (Paola Roman), Yorick (Ciro Buttari) La rivoluzione sconosciuta,
mostra-spettacolo all'ex-convento dei carmelitani a Dogliani Viaggia
viaggia, Rimbaud! (prodotto dal Teatro Araldo di Torino, in occasione del
centenario della morte di Arthur Rimbaud), regia di Jeremy Cassandri (Guido
Ceronetti) con Melissa (Manuela Tamietti), Norma (Paola Roman), Francisco (Gian
Ruggero Manzoni), Yorik (Ciro Bùttari) e Zelda (Roberta Fornier) Per un pugno
di yogurt, collage di poesie Les papillons névrotiques (al Cafè Procope di
Torino) con la partecipazione di Corallina De Maria La carcassa circense, spettacolo
per marionette, azioni mimiche, cartelli, organo di Barberia con Rosanna
Gentili e Bartolo Incoronato Il volto, dedicato a Ingmar Bergman in occasione
dei suoi ottant'anni Ceronetti Circus ovvero Casse da vivo in esposizione
pubblica, letture di poesia, azioni sceniche mimiche e intermezzi musicali con
Elena Ubertalli e Giorgia Senesi M'illumino di tragico, collage di testi e
pantomime liriche; in tournée anche con il titolo I colori del tragico Rosa
Vercesi (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano), con Paola Roman, Simonetta
Benozzo e Luca Mauceri Una mendicante cieca cantava l'amore (2006, prodotto dal
Piccolo Teatro di Milano) con Cecilia Broggini, Luca Maceri, Elena Ubertali e
Filippo Usellini Siamo fragili, spariamo poesia, collage di testi poetici,
ballate e canzoni Strada Nostro Santuario (prodotto dal Piccolo Teatro di
Milano) filastrocche, canzoni, ballate, azioni mimiche, happening e numeri di
repertorio popolare La pedana impaziente (), repertorio di marionette e azioni
sceniche mimiche Finale di teatro (, al Teatro Gobetti di Torino) con Fabio
Banfo, Luca Mauceri, Valeria Sacco, Eleni Molos, Filippo Usellini Pesciolini
fuor d'acqua (), con Luca Mauceri e Eleni Molos Quando il tiro si alzaIl sangue
d'Europa (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, in occasione del centenario
della prima guerra mondiale) con Eleni Molos, Elisa Bartoli, Filippo Usellini,
Luca Mauceri e Valeria Sacco Non solo Otello (al Teatro della Caduta di Torino)
Novant'anni di solitudine (, a Cetona in occasione dei novant'anni
dell'autore), con Luca Mauceri, Filippo Usellini, Eleni Molos, Valeria Sacco,
Fabio Banfo, Salvatore Ragusa e Elisa Bartoli Ceronettiade. Deliri e visioni di
Guido Ceronetti (, a Cetona in occasione dell'anniversario della nascita
dell'autore), con Luca Mauceri, Eleni Molos, Valeria Sacco, Filippo Usellini
Cataloghi di mostre L'Atelier dei Sensibili a Dogliani, Michela Pasquali,
Dogliani, Biblioteca civica Einaudi, (catalogo della mostra nell'ex Convento
dei Carmelitani a Dogliani). Dalla buca del tempo: la cartolina racconta. I
collages di cartoline d'epoca del Fondo Guido Ceronetti, cura di Diana Rüesch e
Marco Franciolli, Archivi di cultura contemporanea, Museo Cantonale d'Arte
Lugano, Poesia marionette e viaggi di Guido Ceronetti nelle visioni di Carlo
Cattaneo, Paolo Tesi e Maurizio Vivarelli, Comune di Pistoia, Dare gioia è un
mestiere duro: trent'anni più due di Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti,
Andrea Busto e Paola Roman, fotografie di Mario Monge, Marcovaldo, Nella gola
dell'Eone. Ti saluto mio secolo crudele. Immagini del XX secolo. Tutti i
collages di immagini dedicati al ventesimo dell'era da Guido Ceronetti, Il
melangolo, Genova, "Per le strade" di Guido Ceronetti, Omaggio allo
scrittore, Diana Rüesch e Karin Stefanski, Cartevive, Biblioteca cantonale,
Archivio Prezzolini-Fondo Ceronetti, Lugano, Opere audiovisive su Guido
Ceronetti I Misteri di Londra. Tragedia per marionette e attori, regia di
Manuela Tamietti, Teatro Stabile di Torino (riprese videografiche dello
spettacolo, Torino). Sulle rotte del sogno. Parole musiche storie, di Luca
Mauceri (cd e vinile EMA Records, Firenze ). Guido Ceronetti. Il Filosofo
Ignoto, film documentario di Francesco Fogliotti e Enrico Pertichini (Italia'),
prodotto con la collaborazione del Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti e
dei Cinecircoli giovanili socioculturali. Guido Ceronetti nei mass-media Cura
cinque Interviste Impossibili per la seconda rete radiofonica rai, in cui
"intervistò" Attila (Carmelo Bene), Auguste e Louis Lumière (Alfredo
Bianchini e Mario Scaccia), George Stephenson (Mario Scaccia), Jack Lo
Squartatore (Carmelo Bene) e Pellegrino Artusi (Mario Scaccia). Il cantautore
Vinicio Capossela, nella raccolta di brani dal vivo Nel niente sotto il
soleGrand tour, ha inserito come incipit della seconda traccia (Non
trattare)una registrazione di Guido Ceronetti che declama i primi versetti del
Qoelet. Note Ha usato per molti anni un
sigillo con scritto "In esilio": Capossela intervista Ceronetti. 6
febbraio. Morto lo scrittore, in Corriere fiorentino, G. Ceronetti, Tra
pensieri, Adelphi, Milano, p.11 Paolo Di
Stefano, In morte. Raffaele La Capria, Ultimi viaggi nell'Italia perduta,
Mondadori, Milano,. Guido Ceronetti
morto, ripubblichiamo la sua ultima intervista al Fatto: “Sono un patriota
orfano di patria. Italia, regno della menzogna”
Nello Ajello, Ceronetti. Poesia in forma di marionette, La Repubblica, ricerca.repubblica/
repubblica/archivio/ repubblica ceronetti-poesia-in-forma-di-marionette.html Samantha, lo spazio e il signor Freud "Guido Ceronetti. L'inferno del
corpo", in Cioran, Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano, "Oggi una quantità delle mie carte è
partita per Lugano dove tutto entrerà a far partedegli archivi della Biblioteca
Cantonale." Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,«Urlate urlate
urlate urlate. / Non voglio lacrime. Urlate. Idolo e vittima di opachi riti/
Nutrita a forza in corpo che giace / Io Eluana grido per non darvi pace Diciassette
di coma che m'impietra Gli anni di stupro mio che non ha fine. Con Decreto del
Presidente della Repubblica (pubblicato nella G.U.) gli è stato infatti
attribuito un assegno straordinario vitalizio ai sensi della legge, l'aiuto
della legge Bacchellila Repubblica, in Archiviola Repubblica. Edizione,
"Il nostro meridionale è attaccato alla propria famiglia e nient'altro,
qualsiasi abbominio, qualsiasi sfacelo pubblico non arrivino a toccargli la
Famiglia non gli faranno il minimo solletico. Sono popoli incapaci di amare
disinteressatamente qualcosa perché bello, al di sopra dell'utile. La loro vera
patria la loro nostalgia prenoachide è il deserto e faticano da ubriachi a
ritrovarlo". La pazienza dell'arrostito, Adelphi, Milano, (comedonchisciotte. Org forum/
index.php?p=/discussion/ ceronetti-dal-mare-il- pericolo-senza-nome lessiconaturale/
migranti-e-prediche/) (ilfoglio/preservativi/news/il-grande-pan-e-vivo) (ilfoglio/cultura/news/far-torto-o-patirlo) (ilfoglio/ preservativi/news/ deutschland-pressappoco-uber-alle,
Sugli sbarchi in Sicilia l'europeista Ceronetti dice, come altri non
oserebbero, che “hanno ormai un carattere preciso di invasione territoriale,
premessa sicura di guerra sociale e religiosa", Ceronetti, nel dolore si
nasconde una luce) Mario Andrea Rigoni,
Ma non bisogna confondere il nichilismo con il razzismo, Corriere della Sera, Guido
Almansi, Le leggende di Ceronetti, la Repubblica, L'innocente Priebke
L'invasione Africana; “Il male omosessuale” (Ceronetti dixit). Albergo Italia
(Einaudi, Torino), capitolo "Elementi per una anti-agiografia", Uno, cento, mille Ceronetti, Guido Ceronetti,
Priebke. Alcune domande intorno a un ergastolo, la Stampa Pietrangelo Buttafuoco, La pietas di
Ceronetti per Priebke, il Foglio, Sono sempre stato anticomunista, sempre, Forse,
subito dopo la guerra ho avuto una certa simpatia, però non mi sono iscritto al
partito il giorno dopo aver visto La corazzata Potëmkin, come innumerevoli
giovani. Antifascista non è neanche da dire, da quando ci si è risvegliati. Di
quel periodo non ho voglia di parlarne, ero tra i soliti ragazzini stupidoni
che andavano alle adunate, ma non c'è storia di anima o di pensiero o di
famiglia che riguardi il fascismo. I miei non erano fascisti né antifascisti,
erano bravi cittadini come tanti. (Corriere della sera). Si dice il responso
delle urne. Come se un popolo di cretini potesse fornire oracoli (Per le strade
della Vergine) la mia America: “Un
baluardo contro l’ideologia comunista” XIII
Congresso Radicali Italiani ilfoglio/preservativi/
prttttt-in-una-sigla-tutto-pannella- impenitente-ottimista-e-visionario (corriere/
cultura/guido-ceronetti-in-un-amore-felice
Chi era, fustigatore dei vizi degli italiani Riviste/ Su
“Cartevive” omaggio, reazionario postmoderno
CERONETTI: ‘METTIAMO FINE ALLA BARBARIE DELLA VECCHIAIA SENZA SESSO: PER
DISABILI E CARCERATI QUALCOSA SI È MOSSO MA PER I VECCHI MASCHI SI MUOVERÀ MAI
QUALCUNO? LA PROPOSTA: UN SERVIZIO EROTICO VOLONTARIO PER GLI OVER 70! Abiterò
per tre mesi al N. 4 di via Giolitti a Torino, per mettere in scena col Teatro
dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Sulla porta metto quest'altro mio nome:
Geremia Cassandri. La pazienza dell'arrostito. Giornale e ricordi, Milano,
Adelphi, Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterario
viareggiorepaci. I VINCITORI DEL PREMIO “MONSELICE” PER LA TRADUZIONE,
su biblioteca monselice, Alberto Roncaccia, Guido Ceronetti. Critica e
poetica (Bulzoni, Roma) Emil Cioran, Esercizi di ammirazione (Adelphi, Milano, Guido
Ceronetti. L'inferno del corpo) Giosetta Fioroni, Marionettista. Guido Ceronetti
e il Teatro dei Sensibili secondo l'alchimia figurativa (Corraini, Mantova)
Giovanni Marinangeli, Guido Ceronetti. Il veggente di Cetona (Fondazione Alce
Nero, Isola del Piano) Fabrizio Ceccardi, Il Teatro dei Sensibili (Corraini,
Mantova) Andrea De Alberti, Il Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti (Junior,
Bergamo) Marco Albertazzi, Fiorenza Lipparini, La luce nella carne. La poesia
(La Finestra Editrice, Lavis) Masetti, A. Scarsella, M. Vercesi, Pareti di
carta. Scritti su Guido Ceronetti (Tre Lune, Mantova), Ortese, Le piccole
persone (Adelphi, Milano). Lattuada, Frammenti di una luce incontaminata in
Guido Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis,
Emil Cioran Gnosticismo moderno.
Ma io diffido dell'amore universale Guido Ceronetti, la Repubblica,
Archivio. L’ultimo bardo gnostico che cantava il dolore per la bellezza
perduta. Morto il più irregolare degli scrittori italiani. Ernesto Ferrero, La
Stampa, V D M Vincitori del Premio Grinzane Cavour per la narrativa italiana V
D M Vincitori del Premio "Città di Monselice" per la traduzione
letteraria V D M Vincitori del Premio Flaiano per la narrative. "StgvvU
nni EMILIO COSTA
Qti^/^ LA FILOSOFIA GRECA
NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA PKOLUSIONE
A UN CORSO LIBERO D'ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO
nell'università di PARMA LETTA IL XIT DICEMBRE
MDCCCLXXXXI PARMA CASA EDITRICE LUIGI
BATTEI V -^ .y ->v_r^'--^ -.'%/*-''■ •^'"-'"^'-■-^
/-^^ /■ r* >• ,- 1892 ì ^ BIBLIOTECA
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<>r%Y^ LA FILOSOFIA GRECA
NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA Signori, La
mia parola augurale al corso libero d'istituzioni di diritto romano, a
cui oggi m' accingo, consentite che sia, quale il sentimento vivo e
sincero dell'anima la ri- chiede. Sia d' omaggio a' miei Maestri, ai
quali ritomo qui con ossequio immutato; sia di saluto fraterno agli
stu- denti, a cui mi presento, e da cui mi bramo accolto, quale
compagno di studi, fiducioso di trar lena, pel compimento del mio
assunto, più che dall' ingegno troppo scarso ed inesperto, dal loro
consentimento amichevole, dallo scambio fra noi , vivo e continuo, d'
affetto fraterno. Da questo scambio io trarrò buon augurio alla carriera
d'insegnante, verso la quale muovo oggi con trepidanza il primo
passo, e alla quale volsi e volgo ogni mio studio, guardando alla
meta con assiduità ferma di volere: del quale io non certo dovrò dolermi,
se, per debole ingegno o per avversa fortuna, quella dovesse per
avventura sfuggirmi. E però consentite che, muovendo il primo passo per
questa via, io qui ricordi l'assidua e amorosa intelligenza di cure del
Maestro illu- stre che ad essa mi guidava, e di cui ognuno ricorda
e r alta vigoria del pensiero, nutrito da corredo mirabile di
8 LA FILOSOFIA GRECA studi vari e profondi, e
la bontà pura, ideale dell' anima, onde qui, come ovunque, conquise
d'affetto reverente maestri e discepoli. Consentite che a Giuseppe Brini
io mandi un saluto, coU'affetto il più riconoscente e devoto di
discepolo e di fratello. . Invoco ora, o Signori, la vostra
attenzione indulgente sopra un tema, che, per sé, non parmi inopportuno a
trat- tarsi al principio d'un corso d'istituzioni di diritto
romano: se e quanto abbiano avuto d'influenza sulla giurisprudenza
in Roma le scuole filosofiche greche. Perchè, come in tal corso deve
studiarsi per rapidi tratti tutto 1' organamento del diritto privato e i
singoli istituti di esso, così è con- veniente ed opportuno esaminare e
valutare quali elementi sul delinearsi e conformarsi di quelli ebbero
efficacia, e quanto debba attribuirsene a ciascuno. La ricerca può
tal- volta, è vero, rasentare e quasi toccare il campo della storia
del diritto romano, che si volle dalle istituzioni dis- giunta; ma tali
contatti non fa duopo osservare come in punti non pochi e non lievi siano
inevitabili, per quanto si voglia lasciare al corso d' istituzioni il
carattere più prettamente dommatico. Che invero troppo spesso non
può trascurarsi, per lo studio preciso e compiuto degli istituti
all'ultimo momento giustinianeo, uno sguardo alla loro ori- gine e alla
vita secolare che precede quel momento: origine € vita di cui alla
cattedra di storia vuoisi riserbata la ri- cerca più diretta e
diffusa. n tema eh' io prescelgo è arduo ; di più esso entra
buon tratto in un campo che non è il mio , nel quale io m' avanzo
peritoso, con un corredo scarso di studi e invocando l'indulgenza di chi
coltivi di proposito la storia della filo- sofia, e qui segnatamente del
pensatore illustre, che è onore di questa nostra Facoltà giuridica alla
quale presiede (*). AU'arduezza del tema se ne aggiunge la vastità:
talché il (*) Il Prof, Icilio Vanni. ^"^V
NELLA giurisprudenza: ROMANA . 9 tempo riserbato a
discorrerne congiurerà colle deboli forze del disserente a renderne
imperfetta per più lati la tratta- zione; la quale afifaticò in lavori
appositi e in trattati ge- nerali d' antichità e di diritto romano, uno
stuolo nume- roso di scrittori, fra cui non pochi valenti (1), dal
Cujacio in poi, e che fu pur di recente ripresa anche in Italia:
fra altri, da un uomo, il cui nome segna una gloria e un lutto eterno
perle scienze romanistiche: Guido Padelletti (2). . Io non certo presumo
esaurirla, ma solo mi propongo riassumerla per larghi tratti, valendomi e
delle altrui ri- cerche e di quelle ch'io venni compiendo direttamente
sulle fonti, procedendo dunque con modestia d'intenti: d'una cosa
però sopra ogni altra curandomi: di quella serena impar- zialità di
giudizio, che in temi di questo genere, che toc- cano da vicino le varie
credenze filosofiche individuali, è facile troppo lo smarrire. Che invero
non ci mancheranno, nel procedere in questo tema, esempi di aberrazioni
stra- nissime, a cui, privi di quella, uomini, pur valorosi, riu-
scirono. ^ E innanzi tutto vuoisi qui delineare per cenni la
storia delle varie scuole filosofiche che tennero in Roma il campo:
storia per verità ben nota ad ognuno; ma pure non inutile forse a
richiamarsi qui , in brevi tratti , perchè tosto se ne colgano quegli
elementi, che sono essenziali nella trattazione del nostro tema (3). Solo
però dall' epoca di Cicerone tali cenni debbon prender le mosse. Che, se
può accogliersi che coi nomi di Socrate, e in ispecie di Platone e
d'Aristotele, giungesse già prima in Roma una qualche eco delle loro
dot- trine, questa dovè riuscir ben fievole e inefficace, mentre
tanto saldo e fiero durava tuttavia in Roma quello spirito anti-
filosofico, per cui va famoso Catone , e da cui fu destata l'implacabile
ironia di Ennio. Le dottrine filosofiche di Pla- tone e d'Aristotele
penetrano, benché solo frammentaria- mente e indirettamente, coli'
insegnamento di Panezio ; al quale V aver abbracciato lo stoicismo non
tolse di seguirle 10 LA FILOSOFIA GRECA e
propugnarle in taluni punti. Ma 1' efficacia di lui è però come maestro
di stoiche dottrine, nelle quali ebbe disce- poli autorevoli e numerosi,
e fra essi giureconsulti di grido: corrispondendo quelle, pel largo
svolgimento che davano alla morale, con pratici e austeri intenti, .alla
natura del genio romano. Nel quale per contrario mal poteva svilup-
parsi il germe dell' elevato idealismo dei platonici; così come non
poteva averne favore la poca praticità diretta delle dottrine
peripatetiche, già entrate in Soma coi libri di Aristotele arrecativi da
Siila, colla diifusione curatane da Andronico da Eodi e da Tirannione ;
ne molto di più potevano avervi efficacia le dottrine della nuova
accademia, propugnate da Filone di Larisse e da Antioco.
Cicerone, pur abbracciando sostanzialmente lo stoicismo, coglie e
assimila, secondo quella che fu pure la tendenza di Panezio, e rimase tendenza
della filosofia romana in generale, quasi da ogni altra scuola taluni de'
principii che meglio vi corrispondessero al genio romano. Solo combatte
in- vece Tepicureisrao, forte allora, e ancor più poco appresso: il
quale dura buon tratto allato alla scuola stoica, fino a che nel primo
secolo dell' era cristiana, perde ten-eno ri- spetto a questa, che sopra
ogni altra in Roma ha vittoria pressoché incontrastata. E, come Cicerone
assimila principii estranei allo stoicismo, altrettanto ne rigetta ciò
eh' era in questo di troppo rigido, e però praticamente ineffica<^e.
Ptr lui, ad esempio, contrariamente agli stoici, non è immeri-
tevole di pregio il moderato godimento {De sen.^ 14); se il bene morale
sta al disopra d'ogni altro, esso non è tuttavia il solo bene possibile e
apprezzabile ; se è vero che il do- lore dev' essere dal saggio
virilmente tollerato , non è per questo men vero ch'esso sia un male
(Tusc, II, 18; II, 13). Per tal modo, con quest' opera e di
assimilazione e insieme di selezione. Cicerone procaccia il germe delle
dot- trine filosofiche elaborate più tardi. La distinzione dell' a-
nima e del corpo, il concetto sereno della morte come di
NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA 11 *■ ^ — m^ — ■ ■■ ■■^■■■-■■■^■^
-—■,■■- — ■-■■,■ ■ — ■■ -_■ — — ■■ ■ M ■■ .. — --- ■■ Il - l■■^■■ —
Hiiitamento e incominciamento d'una nuova vita, il legame di
origine e finalità comune che unisce tutti gli uomini e che impone a
tutti l'obbligo di fratellevole aiuto, che trovano trattazione più diffusa
negli scritti di Seneca, e poi di Marco Aurelio, son già delineati,
chiaramente in Ci- cerone (cfr. De rep., VI, 17; Ttisc, I, SI; De off.,
Ili, 6; De leg,, I, 23) (1). Dopo Cicerone, frammezzo alle lotte
combattute dagli epicurei, fra i quali risplende il genio sovrano di
Lucrezio, e mentre pure dalle file dei cinici partono le satire aspre ed
argute di Varrone, Q. Sestio prosegue, benché intinto di pitagorismo, le
tradizioni degli stoici: raccolte poi da Fabiano e piti tardi da Attalo,
a cui die' gloria l'esser maestro di Seneca. La tendenza
eclettica, che si ha ognora in tutto questo sviluppo, ci si presenta più
che mai viva e spiccata in Seneca, già inclinevolo al pitagorismo,
ammiratore di Platone, né sdegnoso di citare Demetrio cinico ed
Epicuro. E in punti sostanziali egli dissente dagli stoici.
Signi- ficantissimo é un esempio, che già da altri fu notato e il-
lustrato (6). Per gli stoici non può aversi diversità di natura fra ciò
che chiamasi anima e il corpo. Seneca se- para i due elementi e finisce
per creare una specie di an- tagonismo, che spiega la vita. Il corpo é la
prigione dell' anima, un peso che la rattiene verso la terra.
Finché è unita al corpo, sta come avvinta in ceppi (Ep., 65, 22);
essa, per conservare la sua forza e la sua libertà, lotta di continuo
contro la carne (ibid.). Questa distinzione, così precisa, del corpo e
dell' anima é estranea al vero sistema stoico e Seneca è indotto da
questa a conseguenze che anche più si allontanano dalle dottrine de' suoi
maestri. Secondo essi l'anima muore, dopo che il mondo sarà di-
strutto per mezzo del fuoco. Seneca, esitante su questo punto, dopo aver
detto a Marcia che tutto annienta e strugge la morte ( Com, ad Marc, 19,
5 ), le descrive I' anima del figlio, salente al cielo, a lato di Catone
e dei Scipioni {ibid., 12 Lk FILOSOFIA GRECA
25): e scrive altrove senz'altro esser T anima eterna e im- mortale
(Ep,, 57, 9). Distacco certo notevole, ma nel quale troppo volle vedersi
oltre il vero, col dar vita air omai sfatata leggenda che Seneca si
ascrivesse alle sette cri- stiane (6). Seneca riprende con
nuova energia V indirizzo morale di cui già erano i germi in Cicerone: a
questo solo rivol- gendo ogni suo sforzo. Egli non si cura delle discussioni
teoriche sul massimo bene, non formula dogmi; ma segna le norme morali,
fin pei rapporti più minuti della vita. Dopo Seneca il movimento
filosofico prosegue. E dopo la nube che parve oscurare, sotto i regni di
Vespasiano e di Domiziano, la fortuna dei filosofi, questa rifulge
poco appresso più che mai splendida. Plutarco vien cogliendo nella
morale, anche con più ampia libertà eclettica le regole sostanziali dello
stoicismo, togliendo a questo però la rigi- dità ch'era in Seneca: e
benché inclinando verso il plato- nismo, col far presiedere alla vi' a un
Dio primo, sotto il quale stanno Dei di secondo grado, a cui rimangon
dietro, a lor volta, i genii mediatori, giusta il concetto
platonico, fra Dio e gli umani. E a quello che potè chiamarsi
l'impero dei filosofi, sotto Marco Aurelio, si gittano le basi nel regno
d'Adriano. È a questo tempo che la lotta secolare dell' ellenismo
con- tro il romanesimo finisce colla vittoria completa di quello.
Sì che a Eoma accorrono da ogni parte del mondo greco filosofi e retori,
desiderati ed onorati: e l'ateniese Demo- nace può paragonare Apollonio,
che muove co' suoi disce- poli da Atene alla città eterna, ad un
argonauta, che vola al rapimento del vello d'oro (Luciano, Bem.y 31) (7).
È à quel tempo che la filosofia compie in Koma un passo gigantesco
con Epitteto. Questi prosegue la dottrina stoica, benché con certa
tendenza verso il cinismo: fissandovi es- senzialmente il pensiero
subbiettivo come principio e cri- terio della verità, e però riducendo a
formale il mondo e- Vt NELLA
GIURISPRUDENZA ROMANA 13 steriore. Non dunque dolori, ma fantasie
di dolori; onde la inalterabile fortezza e il disprezzo severo d' ogni
bene u- mano. E il pensiero d' Epitteto, continuato e
propugnato stre- nuamente da Flavio Arriano, germoglia più tardi nel
sereno ingegno di Marco Aurelio, che, elevando come ad eccelso
ideale, il concetto della vita secondo natura, deducendone, come
conseguenze necessarie, le leggi più pure della carità umana, chiude
gloriosamente il ciclo degli stoici in Bonla. Appressa solo qualche
bagliore raro e scarso traluce fra le tenebre che si vengono da ogni lato
addensando. Lo stoi- cismo non fa più un passo. Non vale la filosofia dei
così detti platonici eruditi, già prima coltivata, allato allo
stoi- cismo, da Favorino, da Massimo di Tiro e da Alcinoo, a git-
tare alcun germe fruttifero. E le dottrine troppo idealistiche dei
neoplatonici, formulate con nuovo vigore da Plotino, in sul principio del
terzo secolo, rimangono il culto inefficace di qualche anima
solitaria. Già da questi cenni, benché così rapidi e
incompleti, traluce, o Signori, una singolare coincidenza. I
momenti essenziali per la storia della filosofia in Roma coincidono
coi momenti essenziali per la storia della giurisprudenza. Il genio
eclettico di Cicerone dà in Eoma inizio efficace agli studi della
filosofia, air incirca nel tempo, in cui ( scorse tre generazioni da
quando lo specchio di Gneo Flavio sottraeva l'arte del diritto all'arcano
monopolio pontificale e l'insegnamento tentato dal pontefice plebeo
Coruncanio of- friva i germi, raccolti e rudemente elaborati da Sesto
Elio) Q. Mucio Scevola gitta pure co' suoi 18 libri iuris civilis i
fondamenti sistematici del diritto. E, al principio dell' e- poca
augustea, la filosofia, segnatamente stoica, fiorisce per r insegnamento
di Sestio , al tempo stesso in cui 1' ere- dità gimidica, tramandata
dall' era repubblicana è rac- colta dall' intelletto sovrano di Labeone ,
che inizia per la giurisprudenza 1' età delle sue glorie più fulgide e
insupe- 14 LA FILOSOFIA GRECA rate. Età
che si continua, con isplendore ognor più vivo, fino a Salvie Giuliano,
che colla fissazione deir editto per- petuo, compendia il tesoro
elaborato con continuità mera- vigliosa dal secolo d'Augusto al secolo
d'Adriano; nel quale appunto si vien preparando quello che si disse a
buon dritto rimpero dei filosofi. Questa coincidenza di tempo
non deve indurre in noi nessun preconcetto che valga a sviarci dal sereno
esame del nostro tema. Ma noi dobbiamo tuttavia notarla, perchè
molto soccorso potrà veoin^ene per spiegazioni .e raffronti nel seguito
delle nostre ricerche. Ed entrando omai neir esame del tema,
ricerchiamo se nei principii che regolano i vari istituti e rapporti
v'abbia alcuno degli elementi filosofici , che sommariamente siamo
venuti seguendo. Ne vi spiaccia clie sopra tutto e' intrat- teniamo in
quest' ufficio modesto e paziente di semplice constatazione e che
riserbiamo a più tardi alcune conside- razioni d' ordine generale, che da
questa potranno emer- gere (8). Consideriamo tosto i
requisiti essenziali al soggetto del diritto: V esistenza fisica e i tre
status : essenzialmente lo status di libertà. Fra le regole
spettanti all' esistenza fìsica V influenza degli stoici ci si presenta
spiccata nel concetto teorico di cui è cenno specialmente in un testo
d'Ulpiano, per cui si considera il feto tuttora entro le viscere materne
come parte di queste ( mulieris portio vel viscerum: Ulp., fr. 1 §
1 D. 25, 4 e prima Papiniano, fr. 9 §. 1 D. 35, 2 — homo non recte faisse
dicitur). E però tosto da osser- varsi come questa considerazione
astratta, tolta manife- stamente dagli stoici (Plut., Plac. pML, V, 14,
2: \iripoq eivai Ttig x(X7Tpòq) rimanga in pratica lettera morta.
Perchè, logicamente, dal considerarsi il feto parte delle viscere
materne, verrebbe che, fino al momento del suo stac- carsene e del suo
passaggio ad esistenza di per sé stante, v\
\ NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA 15 esso non
dovesse dar luogo ad alcun apposito rapporto giu- ridico; mentre,
contrariamente, stan di fronte a tal concetto la legge di Numa che
proibisce di seppellire la donna morta incinta, prima di averne estratto
il feto (fr. 2 D. 12, 8), le pene contro il procurato aborto, il divieto
di Adriano di eseguire la sentenza di morte contro la con- dannata
incinta ( fr. 18 D. 1, 5), la tutela al ventre pregnante, risalente fino
a prima delle XII tavole , e la honorum possessio , che a nome di quello
potè chie- dersi; istituti e rapporti intesi tutti alla protezione di
un soggetto di diritti sperato , e dentro altro soggetto. Onde pure
la risposta affermativa alla questione , che tut- tavia parve necessario
propoiTe : se il figlio, nato- dalla madre exsecto venire , abbia diritto
di succedere ad essa (Ulp., fr. 1 §. 5 D. 38, 17 ) e il considerarsi come
un essere già esistente il feto entro lo viscere materne, benché
non ancora a sé stante: ciò secondo la verità eterna e pre- cisa delle cose.
( Cfr. Giul., 37 dig,^ fr. 18 D. 36, 2: Is cui ita legafum est, qìmndoque
liberos habuerit, si prae- gnatc uxore relieta decesserit, intelligitur
expleta conditione dccessisse et legatum valere, si tamcn posthuììius
natus fuerit; Ter. Clem., lib, 11 ad leg. lui. et Pap., fr. 153 D.
50, 16: IntellegendiiS est mortis tempore fuisse qui in utero relictus
est\ Celso, 16 dig.y fr. 187 D. 50, 17; Ulp. 19 ad Sab., fr. 20 D.
36,1). Espressamente si fa risalire ad Ippocrate la regola
che assegna il tempo di 7 mesi, come termine minimo della
gestazione (Ulp., fr. 3 §. 12 D. 38,16; Paolo, fr. 1*2 D. 1, 5): Ma, per
sé, la necessità di segnare un termine mi- nimo, sufficiente di regola
alla gestazione, si affermò per motivi esclusivamente sociali e giuridici,
e ne porse occasione la legge Giulia : e la fissazione di quello ai 7
mesi, giusta la teoria d' Ippocrate, ha un'importanza del tutto
formale. Più importante è per noi l'accoglimento della teoria
di Eraclito e degli stoici, che fissa a 14 anni la pubertà
; 16 LA FILOSOFIA GRECA (Plut.,
Flac, pML, V, 24,1; Macrobio, Somn. Scijp., G; Saturn., VII, 7):
accoglimento che ha una grande impor- tanza pel suo significato
giuridico. Esso invero segna un passo verso quella precisione sicura di
linee, onde il diritto, progredendo, abbisogna, e, anche più, include un
ricono- scimento fine e delicato del diritto al pudore. Che ciò io
avverta qui, anziché più tardi, non maravigli; giacche non posso
veramente propormi un ordine rigoroso, e mi è forza lasciare che il
discorso trascorra a' vari punti, a cui le fonti che man mano si offrono,
gli porgono il destro. Ne che tale felicissima alata della scuola
dei Procu- leiani, nella quale si volle ravvisare più precisa e più
pro- fonda rinfluenza dello stoicismo (9), sia dovuta veramente a
tale influenza, anziché alla considerazione obiettiva, spre- giudicata
delle necessità avanzantesi del diiitto (10), parmi possa sostenersi con
alcun serio argomento. Se influenza vi si ebbe, essa fu tutta nella
fissazione formale del termine al quattordicesimo anno, anziché al
dodicesimo o al quin- dicesimo, come altrimenti avrebbe potuto aversi: ma
roma- namente giuridico fu il senso che fé* avvertire la necessità
di quella regola netta e certa e fé' accoglierla trionfalmente.
Proseguendo in tali traccie formali, l'influenza greca parmi possa
avvertirsi anche nella considerazione del parto trigemino, in caso di
gravidanza della madre (Plut., Pìcce. pML^ V, 10,4), che ha gravi effetti
per l'aspettativa dei diritti spettanti ai possibili nascituri, fino all'
avvenimento del parto, e che nelle fonti ci si presenta risalente a
Sa- bino e a Cassio (Giul., fr. 8 §. 1() 1). 40, 7; Gaio, fr. 7 pr.
D. 34,5; Paolo, fr. 28 §.4 D. 5,1; Id., fr. 3 D. 5,4). Ma ben altra
influenza, sostanziale e diretta, della fi- losofla greca, si sostenne
per un tema, che qui dovrà trat- tenerci alquanto: la schiavitù. È da
tale influenza che si volle determinato l' affermarsi con moto continuo ,
dallo scorcio della repubblica al secolo degli Antonini, di un' in-
tima contraddizione nel concetto di schiavo (11). E s' ad
I i NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA 17
_^ 1 duce la dichiarazione tradizionale dei giuristi di
questo pe- riodo essere la schiavitù contro natura, la protezione
che è accordiata man mano alla vita e air integrità personale dello
schiavo contro le eccessive sevizie dei padroni (Gellio, Noci. Att, V,
14; Eliano, Be an,, VII, 48; Gaio, fr. 1 §. 2 D. 1,6; Ulp., fr. 2 D. eod,
Modestino, fr. 11 §. 2 D. 48,8) al cui arbitrio lo schiavo è sottratto,
per esser sottoposto, in caso ch'egli delinqua, ad appositi
magisti'ati, e a procedimento, non sostanzialmente difforme da
quello che vale pei liberi (Pomp., fr. 15 D. 12,4; Ulp., fr. 12 D.
2,1; fr. 3 §. 1 D. 29,5; Venul., fr. 12 §. 3 D. 48,2), r indipendente
attività patrimoniale che si riconosce agli schiavi col peculio, ( quasi
patrimonium Uberi hominis: Paolo, fr. 47 §. 6 D. 15,1); s' adduce il
favor lihertatis^ che inspira in molteplici casi le larghezze con cui si
risol- vono le dubbie questioni di stato e s' effettuano i giudizi
liberali (Lege Iimia Petronia si dissonantes pares iudicum existant
sententiae prò libertate prommciari iussuni: Ermog., fr. 24 D. 40,1; e.
d' Ant. Pio, presso Paolo, fr. 38 §. 1 D. 42,1; Ulp., fr. 3 §. 1 D.
2,12), s'eseguiscono le ma- nomissioni, ordinate per atto d'ultima
volontà (Giul., fr. 9 §. 1 D. 33,5; fr. 4 pr. D. 40,2; fr. 16 D. 40,4;
fr. 17 §. 3 D. eod.; presso Paolo, fr. 20 §. 3 D. 40,7; Valente,
fr. 87, D. 35,1; Giavoleno, fr. 37 D. 31; Gaio, fr. 88 D. 35,1; S. C.
sotto Adriano, in Scevola, fr. 83 (84)§. 1 D. 28,5; rescr. di M. Aurelio,
in Marciano, fr. 51 pr. D. 28,5, e in Mod., fr. 45 D. 40,4, cost. dello
stesso in Ulp., fr. 2 D. 40,5; Meciano, fr. 32 §. 5 I). 35,2; fr. 35
I). 40,5; Pomp., fr. 4 §. 2 D. 40,4; fr. 5 D. eod.; fr. 20 I).
50,17 ; Marcello, fr. 3 i. f. D. 28,4 ; fr. 34 D. 35,2; Scevola, fr. 48
§. 1 D. 28,6; fr. 29 D. 40,4; presso Mar- ciano, fr. 50 D. 40,5; Papin.,
fr. 23 pr. D. 40,5; Paolo, fr. 28 D. 5,2; fr. 40 §. 1 D. 29,1; fr. 14 pr.
D. 31; fr. 96 §. 1 I). 35,1 ; fr. 33 D. 35,2; fr. 36 pr. D. eod. ;
fr. 10 §. 1 D. 40,4; fr. 179 D. 50,17; Ulp., fr. 711). 29,2;
9 18 LA FILOSOFIA GRECA fr. 29 D.
29,4 ; fr. 1 D. 40,4 ; fr. 24 §. 10 D. 40,5) e in ispecie per
fedecommesso, alla cui esecuzione provveggono già sotto Traiano, e poi
sotto Adriano e Commodo, appositi Senatoconsulti {SS. GC. Bubriano,
Dasumiano^ Artici^ Ulano, Vitrasiano, Iunciano)\ s' adduce V ingenuità
che si vuole accordata al nato dalla schiava, che godette della
libertà fra il momento del concepimento e quello del parto (Marciano, fr.
5 §. 3 D. 1,5), o che, ordinatane la libertà per fedecommesso, non fu
manomessa indebitamente, per mora deirerede (rescr. di Marco Aurelio e
Vero e di Ca- RACALLA in Ulp., fr. 1 §. 1 D. 38,16; Ulp. fr. 1 §. 3
D. 38,17; fr. 2 §. 3 D. eod.; fr. 26 §. 1 D. 40,5; MARcaNO, fr. 53
pr. D. eod.), fosse pure casuale (rescr. di Ant. Pio e di Severo e Carac.
in Ulp., fr. 26 §§. 1,2, 3D. 40,5; MoDEST., fr. 13 D. 40,5); il concetto
che afferma la libertà inalienabile (Costantino, c. 6 C. 4,8) e la regola
che nega comprendersi nell'usufrutto il parto della schiava (Cic,
De fin., I, 4; Gaio, fr. 28 §. 1 D. 22,1: Ulp., fr. 68 pr. D. 7,1).
Fermiamoci su quest'ultimo punto È famosa la disputa, a cui quella
regola die luogo ai tempi di Cicerone, fra Scevola, Manilio e Bruto, ed è
pur notissimo come la propugnasse vittoriosamente quest'ultimo,
adducendo essere assurdo il computare fra i frutti l'uomo, mentre ogni
frutto che rechi la natura è destinato all'uomo. La qual ragione è
riferita da Gaio e da Ulpiano ( Gaio, fr. 28 §. 1 D. 22,1; Ulp., fr. 68
pr. §. 1 D. 7,1), ed è tratta genuinamente dalla teoria stoica, secondo
la quale l'uomo si considera come signore dell'universo (Cic, De
off., I, 7; De nat. Deor., II, 62; De fin., Ili, 20). Ma altrove,
(fr. 27 pr. D. 5,3) Ulpiano stesso adduce a fondamento di questa regola
un motivo tutto economico: non valutarsi come frutto il parto della
schiava, perchè lo scopo econo- mico, pel quale si tengon schiave, non è
quello di procac- ciarsene i parti « non temere ancillae eim rei causa
com- parantur ut pariant » , ossia perchè i parti della schiava non
costituiscono il frutto economicamente normale di essa.
NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA 19 • a^M^»^—— ^^ ■ w^iM ■— ii^.
.1 ■ ■■■ I ■ ■ ■ ■ ■■■■■,■■■ ■ I ■ I ■ tf ■ ■ ■^^^^i^ E due fatti
inducono a ritenere che sia appunto questa la ragion vera che determinò
quella regola : la mancanza, cioè, di un'industria di allevamento di
schiavi e la parifi- cazione del parto della schiava ad ogni altro
frutto, per qualsivoglia rapporto, all' infuori delF usufrutto. Che la
re- gola, determinata da questa ragione economica, si volesse poi
anche giustificare con un concetto preso agli stoici, non può recar
maraviglia, quando si pensi come in altri punti non pochi la vernice
d'una forma filosofica copra un rapporto determinato essenzialmente da
principii tutt' altro che filosofici. E questa nostra
osservazione si riconnette a un altro lato importante del tema: al freno
imposto alle sevizie dei padroni: nel quale volle ravvisarsi pur tanto di
stoica in- fluenza. È essenziale la giustificazione datane da un
noto testo di Gaio: doversi inibire al padrone di far malo uso
delle cose sue, allo stesso modo che ciò si vieta al prodigo {Inst^ I,
53): regola dunque che ci si presenta pure deter- minata non da altro,
che dalla considerazione tutta econo- mica del regolare uso della
proprietà. Ed è parimente una necessità di natura economica,
di raflforzare, cioè, Y attività dello schiavo colla molla del suo
proprio interesse individuale, quella che determina il riconoscimento del
peculio, quale patrimonio di fatto del servo, distinto dal patrimonio del
padrone; la cui funzione ha per ogni lato dell'evoluzione della schiavitù
importanza essenziale. Però codesto elemento economico, che
fu magistralmente seguito dal Pernice nel suo classico libro su Labeone
(12), e che, pei lati che accennammo, resulta da attestazioni pre-
cise delle fonti, non basterebbe a spiegare per sé il ricono- scimento
graduale negli schiavi di altri molteplici diritti e rapporti attinentisi
alla personalità, e l' affermarsi di un vero e proprio sistema giuridico
che per essi si crea, del tutto analogamente al sistema che regola
istituti e rapporti 20 LA FILOSOFIA GRECA
fra liberi. Un altro elemento sostanziale concorre a dar vita e
riconoscimento positivo a quel sistema pei rapporti più svariati. Questo
elemento altro non è che la forza della natura. Forza, che neirantica
convivenza a famiglia regolava nel fatto, quasi inconsciamente, i
rapporti della schiavitù ; ma che, più tardi, «comparsa la prisca
semplice costituzione della familia, ordinate quasi ad esercito,
gerarchicamente, le migliaia di schiavi tratti a Roma dai popoli vinti,
fé' assurgere e fissò a rapporto di diritto quello eh' era dap^
prima mero e tacito fatto: affermando nello schiavo la con- trapposizione
del concetto di uomo, di fronte a quello di res. Gli
attributi nello schiavo di ente intelligente e con- sciente s' impongono
air organismo del diritto, pel quale lo schiavo dovrebbe parificarsi a
una res, ad una merx. Ul- piano, trattando della prestazione dei legati
imposti all' e- rede, e dei casi in cui l' erede può essere ammesso a
pre- stare, invece della res legata, Vaestimatio di essa, distingue
il legato di una res da quello di uno schiavo, valuta i motivi in cui più
probabile in questo può riuscire la pre* stazione dell' aestùnatio, ed
esce coli' affermazione alia est condicio ìiominum alia ceterarum rerum
(Ulp., fr. 71 §. 4 D. 30). Quest'affermazione, o Signori, coglie e
sintetizza l'urto intimo e graduale, di cui la storia della schiavitù in
Eoma porge traccio continue ed eloquenti, e per cui pur riesce infine ad
imporsi nella coscienza giuridica e sociale il riconosci- mento nello
schiavo degli attributi essenziali della personalità umana. Tali,
l'efficacia del patto adietto alla vendita di una schiava di non
prostituirla : efficacia che include il ricono* scimento del diritto
all'onore (decr. di Vespas., presso Mod., fr. 7 pr. D. 37,14; Pomp., fr.
34 pr. D. 21,2; Papin., fr. 6 pr. D. 18,7 ; Paolo, fr. 7 D. 40,8 ; Aless.
Sey., c. 1 C. 4,56); r azione d' ingiurie per offese allo schiavo,
com^ misurata secondo il grado d' onorabilità di questo : ( Ulp.,
fr. 15 §. 44 D. 47,10); 1' ammissibilità di un giiidizio di
4 à NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA 21
K calunnia a cagione dello schiavo, che subì
per fatto altrui ingiusto giudizio (Papin., fr. 9 D. 3,6); la valutazione
della misericordia usata verso di esso, per misurare la responsa-
bilità di chi ebbe a procacciarne la fuga (Ulp., fr. 7 §. 7 D. 4,3) il
riconoscimento della famiglia servile, nella quale con sforzo di finzioni
giuridiche si riesce a dar certa con- figurazione a rapporti
patrimoniali, a somiglianza di quelli che intercedono nella famiglia dei
liberi ( Ulp., fr. 39 \D. 23,3 ; Paolo., fr. 27 D. 16,3), e persino il
riconoscimento nello schiavo di rapporti d'indole religiosa (Labeone,
presso Ulp., fr. 13 §. 22 D. 19,1; Ulp., fr. 2 pr. D. 11,7).
Che pure sulle conquiste compiute dagli schiavi con- tribuiscano
considerazioni d' ordine pubblico e di sicurezza pubblica (13) , son ben
lungi dal negare : non par dubbio, ad esempio, che sia determinata
sopratutto da esse la legge Petronia. !Aia questa pure (appena occorre
avvertirlo) non è che una conseguenza, benché coatta, dell 'affer man
tesi per- sonalità degli schiavi. Ne tuttavia che le stesse
dottrine stoiche, col loro e- levato concetto della personalità umana,
abbian per qualche lato favorita o affrettata quell'evoluzione, non
<\serei negare: (nò può invero trascurarsi il fatto che il momento più
in- tenso di essa cade appunto sotto gli Antonini). Ciò che parrai
invece dover negare si è che quelle dottrine vi ab- biano avuta una
influenza immediata , essenziale ; talché senza di esse si avesse ognora
a disconoscere nello schiavo ogni attributo della personalità.
Su altri istituti e rapporti attinenti alle persone non ci
abbisogna lungo discorso. Non occorre, per verità, confu- tare lo strano
concetto che influenza di stoicismo sia nel- l'attenuamento della patria
potestà, e nella liberazione delle donne dalla tutela agnatizia (14);
fatti determinati entrambi dal trasmutarsi della funzione e natura
politica della fa- milia; trasmutarsi, che pure ci spiega Tavanzantesi
preva- lenza del vincolo di sangue sul rapporto civile d'agnazione;
1 » 22 LA FILOSOFIA
GRECA che ha poi eifetti importanti, in ispecie neir ordine
delle successioni; e pur ci spiega T evoluzione dell' essenza
prisca dell'eredità familiare (comprendente, cioè, il complesso di
di- ritti politici e religiosi inerenti alla domus familiaqtte)
verso r eredità patrimoniale. Concetto , che , accennato in istudi
recenti ed egregi (16), forse non si presenta tuttavia immeritevole di
trattazione nuova ed apposita e d' investi- gazione minuta nelle fonti.
Ne mi fermo su di un punto, sul quale non si peritò d' insistere qualche
sostenitore deir influenza stoica sulla giurisprudenza romana: il
puro ed elevato concetto del matrimonio, tramandatoci dai giu-
reconsulti, e in ispecie esplicantesi nella tarda definizione di
Modestino (16). Basta osservare che quel concetto è in Roma
tradi- zionale, fin dalla sua più antica e genuina costituzione e
che vi si esplica allora dalle stesse forme, con che il ma- trimonio si
compie, e che, inerente dapprima solo al ma- trimonio curri manu, nel
quale è veramente la divini et Immani iuris cornunicatio, esso s'atteggiò
poi, per forza di tradizione sul matrimonio libero, prevalso su quello, e
tra- luce idealmente nei tempi stessi , in cui il matrimonio era di
fatto quale ce lo tratteggiano con foschi colori Giovenale e
Marziale. Occorre qui invece, fra i diritti attinentisi alle
persone, accennare ad alcuni altri, nei quali si ravvisò V
influenza filosofica, e segnatamente dello stoicismo. Che,
per quanto tocca il diritto alla vita, e l'afferma- zione negativa di
questo, i romani non abbiano riguardato con deciso isfavore il suicidio,
come mezzo estremo di sal- vaguardia a mali maggiori; e ciò molto innanzi
al tempo in cui la filosofia greca divenne nota in Roma, resulta
dalla natura del carattere romano e dell' ideale eh' esso prefiggeva alla
vita, dalla stessa aureola di gloria onde fu recinta la memoria di
Lucrezia, di Catone e di Bruto (17). Né dunque può pensarsi ad alcuna
influenza stoica, se ve- NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA
23 ^ - - _ Il I I ' ■■ I I . . -^ ^ diamo i giuristi
non considerar come dannata la memoria del suicida. Ma singolarissima è
poi la specialità contem- plata nel testo che per consueto si adduce. In
esso si ri- feriscono rescritti di Adriano e d'Antonino Pio, i quali,
consi- derando il caso, in cui persona accusata di delitto
capitale, prima d' esser sottoposta al giudizio, ponga fine a' suoi
giorni taedio vifae vel doìoris impatientia, dichiarano non incorsi con
ciò nella confisca i beni di quella. Si ha poi nel caso proposto ad
Adriano che il suicida era accusato d' aver ucciso il figlio; (^ Adriano,
con sentimento delicata- mente umano, dichiara doversi presumere che non
per ti- mor della pena , ma per dolore del figlio perduto, V accu-
sato sia volontariamente uscito di vita ( Marciano, fr. 3 §§. 4-5 D.
48,21); non potendosi ad ogni modo ritenere per se il suicidio deir
accusato equivalente a confessione di reità a condanna : come poi
Papiniano con lucidissima veduta dichiarò e sostenne ( Ibid,, pr. ; cfr.
fr. 29 pr. D. 29,1 ; Paolo, fr. 45 §. 2 D. 49,14 ). Mentre poi è
chiaro che, all' inversa, il suicidio che 1' accusato volle af- frontare
non per altro che per timor della pena e ob con-^ scientiam cnminis, non
salva dalla confisca il patrimonio di lui, che si considera quale dannato
o confesso (Ulp., fr. 6 §. 7 D. 28,3; fr. 11 §. 3 D. 3, 2). Il che
davvero s'intende come logico sviluppo, senza che nulla v'appaia di
influenza o reminiscenza filosofica, se pure essa non voglia ve- dersi
nel ricordo ai filosofi, come a coloro che si uccidono taedio vitae,,.
vel iactationis (fr. 6 §. 7 D. 28,3). E qui pure, a proposito del
diritto naturale alla vita, si avverte il riconoscimento di tal diritto
nello schiavo, là dove è detto da Ulpiano esser lecito etiam scrms
fiatu-* raliter in sunm corpus saevire (Ulp., fr. 9 §. 7 D. 15,1):
di fronte al qual diritto affermato perle schiavo, sta l'ob- bligo in lui
di rifondere col suo peculio al padrone le spese che ha sostenute per
curarlo dalle ferite infertesi tentando d' uccidersi ; talché quel
diritto si riduce praticamente ad una curiosa ed amara irrisione.
24 LA FILOSOFIA GRECA E tocco di un altro fra i
diritti personali: quello alla religiosità, al quale s'attiene lo sfavore
con cui si riguardò dai giuristi, conformemente agli stoici, il
giuramento (Pa- piN., fr. 25 §. 1 D. 13,5; Ulp., fr. 7 §. 16 D.
2,14), e in ispecie la condicio iurisitirmidi, apposta a una libe-
ralità per atto mortis causa ( Labeone, in Giav., fr. 62 pr. D. 29,2 ;
Giuliano, fr. 26 D. 28,7; Marcello, fr. 20 D. 35,1 ; Ulp., fr. 8 §. 5 D.
28,7). Il generale divieto della condicio iurisiurandi è anteriore a
Labeone e poste- riore a Cicerone (18), e coincide per tempo col fiorire
della filosofia stoica. E F opinione ch'esso sia determinato da in-
fluenze di questa parrebbe tanto più attendibile, in quanto siamo qui in
tema di religiosità, dove l'istituzione filosofica ebbe veramente, in sullo
scorcio della repubblica e a' primi tempi dell'impero, efficacia non
lieve e assai diffusa. Se- nonchè non so astenermi dal proporre una mia
modesta osservazione. Lo sfavore pel giuramento non è già soltanto
negli stoici, ma risale fino tra le scuole presocratiche, a quella di
Elea, e al fondatore stesso di essa, a Senocrate, che nel giuramento
ravvisava un riprovevole privilegio per l'empietà (Arisi., Bhet, I, 15)
(19). Forse quello sfavore, che nello spirito greco si manifesta cosi da
antico, era pure in origine nello spirito romano , e durava nel
patrimonio d'idee e di tradizioni, che, specialmente in materia di
reli- gione, i due popoli ritrassero dal ceppo comune? Il che solo
accenno, pur non volendovi troppo insistere, perchè non paia amor di
sistema. E, lasciando omai d' altri rapporti di minore impor-
tanza, pure del tutto formali, come, per ciò che attiensi alla salute, la
definizione del morbo, di habitus cor- poris contra naturam (Sab., fr. 1
§. 9 D. 21,1 e in Gellio, Noci. Att^lY, 2. cfr. fehris: Giul., fr. 60 D.
42,1) evi- dentemente tolta dallo stoicismo; il concetto del
furiosus, che, come privo di mente, stoicamente è detto suus fion
est (Ulp., fr. 7 §. 9 D. 42,4), passiamo senz'altro alle cose e ai
diritti su di esse. NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA 25
La triplico partizione delle cose, che ci riferisce Pom-
ponio nel lib. 30 ad Sah. (fr. 30 D. 41,3): F una com- prendente quod
contìnetur uno spirita, graece yivwjxsvov; l'altra che abbraccia qiiod ex
contingentihus hoc est j)ÌU' rihus interse coherentibus constat, quod
atiVTQjAjjievov, e una terza dei corpora pUira non solata^ ma uni nomini
su- hiecta, resultanti ex disfantibiis, b T applicazione precisa e
genuina della distinzione stoica. Al frammento di Pomponio fauno
riscontro testi di Plutarco, Fraec. coniug., 34 ; di Sesto Empirico, Adi\
Math,, VII, 102; IX, 7S; di Seneca J^at. qiiaest., II, 2 ; Epist., 102,6
; e di Achille Tazio, Isag, in plten. Arati, 14 (20). Che dunque per essa
i giuristi abbiano formalmente attinto dai filosofi non v' ha
dubbio. Il ricordo formale dei filosofi si ha persino nella
esemplificazione consueta nei giuristi delle cose appartenenti a ciascuna
di quelle tre categorie. Ma se ci facciamo a ricercarne le pratiche
applicazioni, tosto ci avvediamo come altri principi, del tutto
indipen- denti da essa, intei-vengano. E, invero, il diverso modo
con cui si ammette il possesso e l'usucapione, segnatamente per le
res comiexae e le universitates ex distantibus: la regola che il possesso
di una res connexa implica il possesso delle cose singole da cui risulta
composta, come parti, non come cose a se stanti, e distinte
individualmente, si spiega col concetto tutto romano del requisito A^'
animus nel possesso. Il quale, dovendosi rivolgere alla res connexa
nella sua essenza, non si concepiva che contemporanea- mente si
rivolgesse alle parti singole di quella; onde ap- punto la
inammissibilità di un contemporaneo possesso del- l' intiero e delle
parti, e la impossibilità di acquistare un diritto sulle parti, in forza
del possesso della res conmxa resultante dalla loro unione. Il che ha
segnatamente ef- fetti importanti per la teoria deirusucapione.
Mentre poi, per quanto tocca in ispecie le regole del possesso e
deirusucapione dei tigna onde resulta composto 26 lA
FILOSOFIA GRECA un edifizio, concorre anche il riguardo tutto
civile che in- spirava la lex (le Ugno iuncto (Venuleio, fr. 8 D.
43,24; GiAVOLENO, fr. 23 pr. D. 41,3; Gaio, fr. 7 §. 11 D. 41,1;
Paolo, fr. 23 §. 7 D. 6,1; Ulp., fr. 7 §. 1 D. 10,4) (21). Meno
ancora può trarsi dalla distinzione fatta dai giu- risti delle cose
corporali e incorporali. Se per questa, fra il concetto dei giuristi e
quello dei filosofi, può esservi so- miglianza, essa è del tutto
apparente. Le cose incorporali dei filosofi, come essenzialmente il tempo
e il vacuo, non hanno nulla di comune colle cose che son chiamate
incor- porali dai giuristi per la loro funzione sociale e
giuridica, e che hanno sempre in sé per contenuto cose corporali, e
ciò secondo un concetto che ci si presenta tradizionale e risalente: in
modo sopra tutto preciso e spiccato nella he- reditas (Pomponio, fr. 37
D. 29,2; fr. 119 D. 50,16; Gaio, Inst, II, 14; fr. 1 §. 1 D. 1,8; Apric,
fr. 208 D. 50,16; Papin., fr. 50 pr. D. 5,3; Ulp., fr. 178 §. 1 D.
50,16; fr. 3 §. 1 D. 37,1; Paolo, fr. 4 D. 5,3): e segnatamente,
con mirabile evidenza, nel concetto e nelle regole delF^^t*- capio prò
herede (Gaio, II, 54). E di questo concetto àeìVheredifas, res
corporaUs, che ha per contenuto normale appunto cose corporali, è
assai notevole come un filosofo stoico parli come di inutile sot-
tigliezza, deridendo i giuristi che raccolsero (Seneca, De h&n. VI,
5): e offrendoci con ciò, come fu avvertito (22), ricordo certo e perenne
della differenza sostanziale che correva, a proposito di quella
partizione, fra il pensiero dei filosofi e quello dei giuristi.
Certo, fra i cor para, la distinzione di quelli che ra- tione vel
anima carente da quelli che careni ratione non anima o di entrambe, è
rivestita di forma stoica : ma è necessario ch'io soggiunga che sotto di
essa sta un con- cetto tanto primitivo, che davvero non occorreva
rivestirlo del lusso d' una veste filosofica ? Un tema, sul
quale insistettero con particolare predi- y
NELLA GIURISPRUDENZA ROMANA 27 ■■ Il
.-.^ M ■ -■■ ■ . .■■■■■■ ■-■ -*- -■---■ ■-— -..Il ■ — ^ — ■■^l■■■■■- ■ »
lezione tutti i sostenitori dell'influenza stoica, è quello che
riguarda, tra i modi d' acquisto della proprietà, la specifi- cazione.
L'opera diretta che qui esercitò, pel riconoscimento del lavoro umano di
fronte alla materia, la scuola dei Pro- culeiaDÌ, porse pure argomento
per ravvisare una partico- lare inclinazione di quella verso lo stoicismo:
in contrap- posto anche qui alla scuola de' Sabioiani (23).
Quasiché, a spiegare il riconoscimento del lavoro umano non dovesse
bastare una considerazione positiva di natura tutta econo- mica: la
normale preminenza di valore della nuova specie sopra la materia prima,
preminenza che doveva imporsi al concetto proculeiano, ognora così acuto
e vivo e libero, di fronte all'ossequio tradizionale della proprietà, che
pur con- tinuava un preminente riguardo al proprietario della
materia. Le fonti, a cui ci si richiama, pel rapporto inverso alla
specificazione, appunto la riduzione della species alla materia,
confortano questo concetto. Si riferiscono invero per consueto due testi
d'Ulpiano, nei quali questi asserisce sembrar scomparsa la cosa, di cui
sia mutata la forma, benché ne duri la materia (fr. 13 §. 1 D. 50,16), e
mu- tata forma prope interemit suhsiantia rei (fr. 10 §. 9 D.
10,4): espressamente ciò giustificandosi da Ulpiano stesso, proprio col
criterio economico qmniam plerumque plus est in manu prctio qtuim in re.
E Paolo soggiunge, adducendo r opinione e di Labeone e di Sabino, che
abest la tabula picta^ quando ne sia rasa la pittura, o il vestito quando
è scucito, perché appunto earuni rerum pretium non in sub- stantia
sed in arte sit positum (Paolo, fr. 14 pr. D. 50,16). E, partendo da tal
concetto, ben s'intende come, all'inversa, si considerasse economicamente
del tutto nuova la cosa for- mata per mezzo del lavoro sopra materia già
esistente, e come Proculo e Nerva potesser dire, secondo quello che
Gaio ricorda, che dopo subita l'opera dello specificatore, essa non
potesse più considerarsi come appartenente al proprietario della materia
(Gaio, fr. 7 §. 7 D. 41,1; cfr. Paolo, fr. 3 §. 21 D. 41,2 (24).
28 LA FILOSOFIA GKKCA Né in tema di materia o
sabstantia e species, per r efrore che intervenga su questa o su quella
nel con- tratto di compra vendita, parmi che molto si possa trarre
dalle fonti, per un'essenziale influenza dello stoicismo. Nel noto passo
d' Ulpiano ( fr. 9 §. 2 D. 18,1 ) si rife- risce come Marcello ritenesse
sussistente la compra vendita, anche quando, per errore, si fosse dato
aceto, invece del vino dedotto in contratto e rame per oro e piombo per
argento; ciò giustificandosi da Marcello stesso colla ragione che
sul corpus intervenne il consenso, ed errore vi fu solo nella
materia. Ulpiano consente per V aceto, perchè qui la so- stanza, r oùjta
(appunto secondo il linguaggio stoico) è quella dedotta in contratto ;
mentre vi ha scambio sostan- ziale di tale oùjt'a nel caso del rame dato
per oro e del piombo per argento. Talché la preoccupazione erronea
che nel concetto di Marcello sembra ingenerare la reminiscenza
stoica, scompare in Ulpiano, che ne prescinde recisamente, applicando nel
modo più concetto le regole sull' eiTore nel- Toggetto del contratto, non
importa poi ch'esso errore verta in corpore o invece in
stibstantia. Lo stesso testo vivissimo d' Alfeno ( fr. 76 D.
5,1) che riproduce, secondo la fisica e degli epicurei (Lucrezio,
Nat. rer. V) e degli stoici (Seneca, Ep. 58 ; Plut. Comm. nat. 39;
Antonino, II, 17; V, 33), la mutazione continua della materia, ricordando
come il corpo formato da questa sia sempre lo stesso, per quanto si
vengano ognora mu- tando via via le particelle che lo compongono, e
applica questo principio air organismo di un jiidicium, che rimane
il medesimo col mutarsi de' suoi membri, ritrae in sostanza un concetto
eh' era genetico in Soma, essenzialmente per la persona giuridica del
populus. E la fisica stoica si ri- duceva dunque solo ad illustrare con
veste scientifica ciò che ben prima s'era nella pratica ravvisato.
Influenza di stoicismo si sostenne in un preteso sfavore alle
usure, che si volle dedun-e da parole di Papiniano che NELLA
GIURISPRUDENZA ROMANA 29 usura non natura pervenif ( fr. 62 pr. D.
6,1 ): quasiché non fosse risalente e tradizionale il concetto che
distiogue dai frutti naturali i frutti civili, e in materia d'usura
non si avesse in Koma, fin da antico, un'assidua, quanto sterile
attività legislativa. Ma basti ornai anche sul tema delle cose,
intorno al quale però non voglio astenermi dall' offrirvi esempio
di taluna di quelle aberrazioni, alle quali accennai essere per-
venuti scrittori egregi, per passione ch'essi posero nell'esame di questo
tema. Scelgo la teoria del Laferrière, secondo la quale la regola che
richiede i due requisiti dell' animus e del corpus^ per l'acquisto del
possesso e della proprietà per occupazione, riuscirebbe determinata dal
concetto fondamen- tale degli stoici, che distingue nell' uomo 1'
elemento spiri- tuale dall' elemento corporeo: come analogapaente
sarebbe determinata da questo la necessità della tradizione pel
tra- sferimento della proprietà (25). E d'altre taccio, già
essendo queste esempio eloquente, come presentantesi sotto un nome
scientificamente onorato e sotto l'insegna gloriosa dell'Istituto di
Francia. Dovrei ora, o Signori, accennarvi a tutto il sistema
romano delle obbligazioni, al mutamento eh' esso più spe- cialmente
subisce dal rigoroso formalesimo, verso 1' appli- cazione più agile e
diretta della volontà; mentre pur tutto il diritto vien ravvivato da
raffronti e adattamenti vitali di elementi nuovi ed estranei coi prischi
ed indigeni, e ri- cordare come questo sia una conseguenza immediata
de' nuovi orizzonti' che omai ha la vita e il commercio di Eoma e
delle influenze straniere così continue e multiformi? E come, a sua
volta, il moto potente e continuo di Koma verso l'universalità, e 1'
alito vivificatore che ne deriva sul diritto, consegua direttamente dalle
nuove condizioni poli- tiche ed economiche? Che questo moto
grandioso e continuo corrispondesse alle dottrine stoiche, per le quali
tutto il mondo è una 30 LA FILOSOFIA GRECA
grande città, non può negarsi. Che per quello riuscisse ad esse più
agevole l'aver diffusione è pur certo. Ne che per tal modo esse abbiano
anche cooperato con quello, talora forse per via inconscia, allo
svolgimento di taluni istituti e l'apporti , come ad esempio della
schiavitù , di rapporti relativi alla religiosità e simili, non vorrei
disdire. Ma chi penserebbe sul serio, solo per un istante, che
il moto di Roma verso V universalità derivi dallo stoicismo, da
alcun'altra delle scuole filosofiche greche ? E che però da filosofie
greche consegua mediatamente tutta la trasfor- mazione del diritto?
Non però se parmi di dover negare ogni influenza es- senziale della
filosofia greca , e in ispecie stoica, sullo svi- luppo della
giurisprudenza romana, air infuori di quelle in- fluenze concomitanti con
altri elementi che teste toccammo, sopra singoli rapporti, e delle
influenze formali che si ven- nero annoverando sin qui , voglio io
disdire 1' efficacia che la conoscenza della filosofia greca ebbe dal
secolo di Cice- rone in poi, sempre formalmente, ma pur in campo più
ge- nerale e importante, nel dar struttura di ars al itis civile, (
« quae rem dissolutam divulsamque conglutinaret et ra- tione quadam
constringeret »: Cic, de orat I, 42) (26): imprimendo con ciò nuova forza
e nuovo sviluppo a facoltà e a tendenze ch'erano in Roma native.
11 che non tolse tuttavia che, ricevuto tale avviamento nella
costruzione logica, la giurisprudenza procedesse poi da sé, indipendente
dalla filosofia, elaborando essenzialmente i rapporti pratici della vita,
aborrente da ideali astrazioni. E dove la reminiscenza filosofica,
cessando d'essere formale intacca la sostanza giuridica, si ha un
fluttuar vago d'idee incerte e confuse, un' indeterminatezza di linee,
che fa e- loquente contrasto colla precisione perfetta, sicura, ond'è
in Roma esempio mirabile tutto l'organismo del diritto. Voi
intendete, o Signori, ch'io accénno al im naturale. Fra il concetto
d'Ulpiano che lo designa emanazione della NELLA
GIURISPRUDENZA ROMANA 31 ragione diffusa neir universo, e quello di
Paolo che vi rav- visa un' ideale tendenza verso V aequwn bonum , o
quello di Gaio che lo riaccosta al ius gentium, quale dettato dalla
universa ratio; fra i più diversi significati ed applicazioni di
naturalis ratio, di naturalis, di ìiaturaìiter, che occorrono nelle
fonti, o connessi ad uno di quei tre concetti, od o- scillanti fra Tuno e
Taltro, o indipendenti da ognuno (27), lo studioso procede incertamente.
Né certo sta a me, ne io presumo di portar giudizio sulle varie
costruzioni che modernamente si tentarono del ifàs naturale, concepito, o
conforme alle dottrine greche e- laborate in Boma dalla filosofia
accademico stoica, come coscienza insita nella umana natura di un diritto
uni- versale, e però del tutto distinto dal ius geniium (28), 0,
invece, obiettivamente, come ordine naturale contrapposto airordine
civile, come dettato dalla ratio (29), o, di nuovo subbiettivamente,
quale concezione dovuta all' idea greca del diritto dettato dalla ragione
naturale a tutto il genere umano, atteggiatasi in Eoma sul ius gentium e
fusasi poi con esso, per esplicarsi poi praticamente n^Waequita^,
che è la forza che s'avanza via via nell'editto pretorio e gra-
datamente vi prevale (30); o invece senz' altro come deri- vazione e
sviluppo dello stesso ius gentium (31). A me basta notare sol
questo: quanto d'indeterminato e d'incerto rimanga tuttavia in ciascuna
di quelle costru- zioni, e come, s' io non erro, non sia riuscito ad
alcuno, benché ingegni forti e coltissimi vi si accingessero (32),
di dimostrare che il concetto vago ed astratto del ius naturOfle
scese ad applicazioni pratiche e concrete. Né certo maggior pregio
di linee precise e spiccate o d' importanza diretta e sostanziale per 1'
organico sviluppo del diritto ci presentano nel titolo de iustitia et
iure le definizioni astratte, tolte a prestito dagli stoici, di
giustizia e di giurisprudenza, e i tre famosi precetti del diritto.
L' artificiosa inutilità di tali concetti, tratti più o meno
! 32 LA FILOSOFIA GRECA fedelmente
dalla filosofìa greca, spicca in guisa vivissima nelle definizioni di
legge ; nelle quali, attraverso a vaghe reminiscenze di Demostene e di
Crisippo, ricompare il con catto, romanamente vero, di coìnmwiìs rei
ptiblicae sponsio. \ La gloria del diritto era dunque riserbata a
Eoma; la quale, per opera secolare ed esclusiva del suo genio, af-
fidava ai venturi, con eccellenza insuperata, le leggi eterne dell'umana
vita giuridica. Se v' ha ricordo, o Signori, che debba infiammare
e scuotere i diretti continuatori del sangue e del pensiero la-
tino, è il ricordo di quella gloria. In questa Università che ha
tradizioni nobili e antiche, proseguite degnamente dal maestro provetto,
cui circonda qui da olti-e cinque lustri reverenza aifettuosa di
discepoli (*), e dall'altro insegnante che coi lavori acuti e geniali,
come coir insegnamento ef- ficace, onora in Italia le discipline romanistiche
(**), quella gloria infiammi e riscuota noi pure, o compagni. E
com'essa ravviva e ravvivei-à ognora in me le deboli forze,
altrettanto sia come fuoco sacro ai vostri giovani e ardimentosi
intel- letti. (*) Il Prof, Achille Cattanei.
(♦*) Il Prof. Silvio P erozzi. NOTE. (1)
Un elenco molto accurato dei lavori appositi scritti sul nostro tema
trovasi nella classica opera deli' Hi ldenb band, Gesch. u. System der
Rechts und Siaatsphilos., Leipzig, 1860, I, §. 141, pag. 593, D. 3. Lo
riporto qui, con alcune aggiunte e avvertenze bibliografiche, che
contrassegno collocandole fra parentesi. Indico con asterisco i la- vori
che non potei procacciarmi: Malquytius, De vera non simnìnL<i
iurisc, phiL, Paris., 1626 [ristampalo nella Triga ìibelL rariss., Halae
Magdeburg, 1727, pagg. 11 e segg.]; Paìjaninus Gaudextius, .2>^
j>/i27o«. ap. Bom. in. et progr. Pisis, 1643, e. 42-3^ pagg. 104-6; |
Buaxdes 7->e, vera non simulata iurisc. phih, Francof. 1626; opuscolo
che noto benché certamente privo di valore, solo per amor di completezza,
e seguendo in ciò V e- sempio dello stesso Hildenbrand, che giustamente
tien conto nel suo elenco anche di lavori senza pregio, come p. e. quelli
compresi nella raccolta dello Slevogt] ; Scuilier, Manud. pliilos.
moraliii ad ver, nec simnl. pini., len., 1696;BonMER, Dephilos, iurisc,
stoica^ Halle, 1701 [ristampato nel volume J)e sectis et philos. iurisc.
opusc.^ coli, recogn. et praef. et elog. Ictor. rem. ac progr. de disp.
fori aiixit Slevootius, lenae, 1724]; Buddeus, De errar, stoic,
negli Anal. Imt. phiL, Hai., 170G; Voss, De falsis Ictor. ratiocin.
ex parte occas. philos. stoicae enntis, Harderov., 1709; Ev. Otto,
De stoica vet. Ictor. philos.: Id , De vera non simulata philosoph.
Ictor. j nel voi. cit. dello Slevogt; Herjng, De stoica velt. Roman,
philos., ibidem; [Kunholt, Semicenturid comparai, verae et simul. iurisc.
phil., Lipsiae, 1718, che trovo citato dall' Eckardt, Herm. duriSj
*Lips., 1750, cap. 4]; Slevogt, De sectis et philosophia Icfo-
3 34 NOTE runif len., 1724; *£ggerde8. De
stole, Ictor. roman. eìusqiie historia et ratioìie, Kostoch, 1727:
Hofscaxn, De diàUctica vett, Ictor., Francof., 1735, ne' suoi Melemata ad
pandectas; Schaumburg, De iurisprud. ceti. Ictor. stoica tractatiis, hoc
est succincta demotutr. iuriscon- sultos roman. non vita solum sed etiam
doc trina stoicam philoso- phiam esse profes>ios, lenae, 1745; *Pauli,
De utilitatibus quas attulit philos. ad iurisprud. ronianani, Lips.,
1753; Meister, De plùìos. Ictor. Roman, stoica in doctrina de corpor.
eorumque par- tibus, Gott., 1756 [e neW Opusc. Syll., I, n, 10];
VanHoogwerf, De car. tur. Boni, partibus stoam redolentibus, Traj ad
Bhen., 1760, e nell'OsLRiCH, Thes. noe. voi. Ili, tom. 2, pagg. 63 e
segg. ; Boers^ De antropoì. Ictor. Roman, quatenus stoica est, Lugd. Bat.
, 1766 [*Terpstra, De philos., cet. iurtsc, Francof., 1767, che trovo
citato dall*HoLT, Hist. tur. rom. lineam., Leod., 1830] *Ortloff,
Ueber den Eiufluss der stoischen Philosophie auf das rom.Recht.,^ìàng.,
1797; *Vax Vollenhoven, De exigua vi quam philosophia graeca habuìt in
effórmanda iurisprudentia romana, Amstelod., 1834; Ea- TJEN, Hat die
stoische Philos. bedeutenden Einfluss auf die rom. juristischen Schriften
gehabt? Kiel, 1839, ristampato nei lahrb. di Sell, in, pagg. 66 e segg.;
[Trevisani, Lo stoicismo coìisìderato in relazione colla gìurisprud.'»
roìnana, nella Gazzetta dei tribunali, VI, 1851, pagg. 821 e segg.; VII,
1852, pagg. 7 e segg. ]; Voigt, lus natur. bon. ti. Aequum, Leipzig,
1856-75, I '^§. 49-51 pagg. 250-66; [Xaferrière, Memoire concernant V
influence du stoicisme sur la doctrine des iurisc. romains, nelle Mevi.
de V Acad. des scienc. mor. et politiques, X, 1860, pagg. 579-685. Fra
noi usciva nel 1876 il lavoro dottissimo del MoRIA^'I, La filosofia del
diritto nel pensiero dei giureconsulti romani, Firenze, 1876. Sono ancora
a no- tarsi, benché tocchino solo punti speciali del tema: Eherton,
sulla terminologia stoica nel dir. romano, nella Quaterly RevieWj III,
n. 9, 1887, di cui dà un sunto G. Pacciiìoxj, néìV Ardi, ginr.,
XXXVTII, fase. 1-2; Lecrivain, Le terme stoicien verecundia dans la
langue des Dig., nella Nouvelle revue hist. de droit frane, et drang.,
XIV, 1890, pagg. 487-9]. Trattano pure del nostro argomento,
benché non di proposito, i seguenti: [Hopperus, lur. civil. lib. sex,
Lovan., 1555, pagg. 554 e segg.] CuiAcio, Observ.y 56,40; Merillio,
Obsero.,\, 8; Turnebo, Advers., Aurei., 1604, Vili, 20, pag. 151;
Lipsius, Manud. ad stoic. philos..^ nelle Opera.^ Antverpiae, 1737, IV,
473; Io., Physiol. stoic., nelle Opera, IV, 542; Kamos, Tribonianus,
Lugd. Bat., 1728, pag. 249 e segg. [Bodeus, Observat. et elem. phil.
instrumentalis, Halae Sax., 1732, cap. II §. 27, pag. 308, cap. IV g. 14,
pag. 470]; Ma- 'Jìp: NOTE 3
SCOTIO, De sectis Sahinian et Proculeian, in iure civili, [
Lipsiae^ 1728], Alld., 1740; Eokhardt, Ilerm. luris, Lips., 1750, e. 4;
Walch, Opp.^ I, p. 237 [Gravina, De ortu et progr, iur. civ., Napoli,
1757, I, 35-6; Brucker, Hist. crii, philos., Lipsiae, 1766, II, pagg. 15
e segg.; G. B. Bon, praef. al Leibnitz, Opusc. ad iur. peri., nel
Leib- NiTZ, Oper«, Genevae, 1768, IV, p. d, pag. 5, n. 1; Eineccio,
Antiq. rom., Venet., 1792, lib. 2 e 3, pagg. 17, 30-1, 191 e segg.] ;
Vico, Scienza nova, cap. 4; *Welcker, Die letzten Grilnde von Recht
Staat u. Stafe, Giessen, 1813, pag. 492, 500, 522, 578; *Id., Uni- versa!
u. Jurist. poh Encyclopadie, Stuttgart, 1829, pagg. 70 e segg., 556 e
segg.; Veder, Hist, phil. jur. ap. veti,, 319; Zimmern, Gesch. des rum.
Privatr. I^ pagg. 23 e segg.; Pcchta, Cursus der Instit, 2 Aufl., pagg.
472 e segg.; Ahrens, Iur. Encyclop., pag. 303, n. 2; 360, n. 1; [Girard,
Hist, du droit rom., Paris Aix, 1841, pagg. 180 e segg.; OzANAM, Il
paganesimo e il cristianesimo nel quinto secolo, trad. Car- raresi,
Firenze, 1857, 1, pagg. 163 e segg.; Voigt, Aeìius und Sabinus- sijst ,
pagg.' 19 e segg.; Ianet, Hist. de la science polit., 2 ed., Paris, 1872,
I, pag. 281 ; Sumner Maine, Ancien droit, .trad. frane , Paris, 1874,
cap. 3 pagg. 51-5, 64, cap. 4, pagg. 70 e sogg. ; Conti, Storia della
fdosofia^ Firenze, 1876, I, pagg. 401 e segg. ; Renan, Marc Aurèle, 2
ed., Paris, 1882, pagg. 22-3 ; Gregorovius, Der Kaiser Hadrian, 2 Aufl.,
Stuttgart, 1884, pagg. 296 e segg.; Hofmann, Der Verfall der rom.
Rechtswiss., nei Krit. stud. im róm. Bechte, Wien, 1885, pag. 9; Ferrini,
Storia delle fonti del dir. rom., Milano, 1885, pagg. 30-1, 100-1 ; Id.,
note al Gluck, trad. italiana, voi. I, pagg. 64-5. ; Krììgeii, Gesch. der
Quell. u. Litteratur des rom. Rechts, Leipzig, 1888, pagg. 45 e segg.,
127 e segg.; Carle, La vita del di- ritto, 2 ed., Torino, 1890, pagg. 153
e segg.]. (2) Padelletti^ Roma nella storta del diritto, neir Arch.
gim\, XII, nota 2 pagg. 210 e segg. (3) Per la storia della
filosofia in Roma, e per ciò che riguarda in ispecie le sue attinenze al
diritto, cfr. principalmente: Hildenbrand, op. cit. I, pagg. 523 e
segg. (4) Cfr. sulla filosofia di Cicerone: Ritter, Hist. de la
philos, trad. frane. Tissot, IV, pagg. 121 e segg.; Hildenbrand, op.
cit., I, pagg. 537 e segg., Branbis, Gesch. der Entiv. der griech.
Philos, Berlin, 1862-4, II, pagg. 249 e segg ; Boissusr, La relig.
romaine d* Auguste aux Antonins, Paris, 1878, I, pagg. 4 e segg.
(5) BoissiER, op. cit., I, pagg. 14 e segg. (6) Leggenda,
alla quale porsero principale argomento i punti di contatto che le
dottrine di Seneca presentano con quelle cristiane, in, ispecie Ruir immortalità
dell' anima, sulla provvidenza, e sui doveri di 3^)
NOTE carità (punti toccati con molta diligenza da Fleury, S. Paul
et Se- nèque, Paris, 1853). Altro argomento estrinseco è la simpatia che
mo- strano per Seneca i Padri della chiesa: Seiuca noster: Tertull.,
De ,an,, 20; Hieron., De vir. ili, 12; Io., Adv. lovin., 1,49; Lxct. ,
Inst. div.y IV, 24. E S. Agostino nota che Seneca non nominò forse i
cri- stiani per non lodarli « cantra suae patriae veterem consuetudine tn
», né riprenderli « cantra propriam forsan volunlatem »: Auc, De
civ. dei, VI, 11. Il tèrzo argomento dell' amicizia di Seneca con S.
Paolo si fondava sopra una grossolana falsificazione delle Kpistolae
Senecae ad Paullum. Ricca è la letteratura riguardante questo
argomento, che ha un'importanza assai notevole pel tema che tocca
direttamente dei rap- porti della morale stoica colla cristiana. Cfr.
principalmente, oltre Topera or accennata del Fleury: Boissier, op. cit.,
II, pagg. 46 e segg., e nella Revue des deux mondes, XCII (1871) pagg.
40-71; Aubkrtjn, Senèque et Si. Paul^ Paris, 1869; Bau», Seneca ti,
Paulus: das VerMltn. des Stoiciwius zum Ghriat. n. den Schrift. Senecas,
neWHe't- delherg. Zeitschr. f. iviss. Theol, I, 1858 p. 161-246; 441-70;
e Abh. zur (reseli, d. alt. PhiL, heratisg. v. Zeller, Leipzig, 1876,
pagg. 377-480; 'Westerburg, Der Ursprung der Saga das Seneca^
christì. gewes. sei, Berlin 1881. Tutto il contrario si sostenne
dall'EcKHARD in un curioso opuscolo, di cui basta riportare il titolo
perchè se ne com- prenda lo scopo: Obserc. sistens L. A, Senecam in
relig. Christian, iniuriosum, mella Misceli. Lipsiens., Lipsiae, 1706-22,
IX, p. 90-107. (7) GuEGOROvius, op. cit j pagg. 315-7; Renan, op.
cit., pag. 35. (8) I rapporti che verrò enumerando furono notati,
quali dall'uno quali dall'altro degli scrittori che s'occuparono del
nostro tema: quali in uno quali in altro senso. Io non ho creduto di
dover per ciascuno di essi avvertire da chi fu notato, da chi omesso.
Saiebbe inutile pel lettore, al quale ciò che preme sopratutto si è di
aver qui, come in un quadro, il risultato complessivo delle questioni:
quadro eh' io mi studiai di delineare colla maggior cura e fedeltà che mi
fu possibile. (9) Otto a Boekelen, op. cit., pagg. 24 e segg. Contrariamente
Eckhard, op. cit.,; Merillio, obs. I, 27 pag. 260. (10) Brini,
Delle due sette dei giureconsulti romani^ Bologna, 1890, pag. 19.
(11) Malquytius, op. cit.y pagg. 54-5; Gibbon, Hist. de la dee. de
Temp. rom., I, pagg. 128-31; Eckhard, op, cit., pag. 245; Laperrière, op.
cit, pagg. 606-7; Renan, op. cit., pag. 605; Wjllelms, Droit pubi, rom.,
5 ed., Paris, 1884, pag. 136. (12) Pernice, M. A. Labeo, Halle,
1873-8, I, pagg. 113 e segg. Cfr. anche Padelletti noWArch. giur., XIF, pag.
213. NOTE 37 (13) PucHTA, Inst. l 212, II, pag.
83. (14) Lafehiuère, op. cit.t pagg. 613 e segg. (15)
Cfr. SciALOJA, nel Bull. deìVist. di dir. rom., 1890, III, pagg. 176-7;
BoNFANTE, L'origine deìVìiereditas e dei legati nel dir. sìACcess.
romano, Del cit. Bullettino, IV, 1891, pagg. 97-144. (16)
Lafeuuièue, op. city pagg. 621-8. (17) Il Trevisani, op. cit.,
nella Gazz. dei 2'rib., VI, 821 e segg. sostiene che i romani ebbero
ognora in gran sfavore il soicidio. Ri- corda che costituiva vizio
redibitorio per lo schiavo il suo tentativo di suicidio, anteriore alla
vendita; ma davvero non occorre osservare come ciò sia spiegato
chiaramente dalla considerazione economica verso il padrone (fr. 1 l 1,
fr. 23 l 3 D. 21,1). E il. tentativo di suicidio punito per rescr. di
Adriano nel soldato, non è spiegato ab- bastanza da considerazioni di
ordine pubblico e dalle necessità della disciplina militare? Cfr. in
questo senso: Ferii ini, Dir. pen. rom., nel 'Tratt. teor. prat. del
Cogliolo, I, 18f^8, pagg. 28-9. (18) Ferrini, Teoria dei leg. e
fedecomm,, Milano, 1889, p. 346-9. T:oiT(xioLi yi] T:XaYYjvat
TrpoxaXijaiTO. Cfr. Keller, Die philos. der Griechen in ihr.
geschichll. En- tivicklung, 4 Aufl., Leipzig, 1876-9, I, pag. 503. (20)
Ravaisson, Mem. sur le stoicisme, nelle Meni, des inst. imper. de France
; Acad. des inscr. et beli, lettr.^ XXI, 1857, pag. 29 ; GorpERT, Ueber
einheitl. zusammeìvgesetz. u. gesammt. Sachen, Halle, 1871, pagg.
7-13. (21) Fu oggetto di dispute gravi il fr. 30 §. 1 D. 41,3: Pomp.,
30 ad Sab.: Labeo lìbris epistularuui ait si is, cui ad tegularum vel
columnarum usucapionem decem dies superessent, in aedifìcium eas
coniecisset, nihilo minus cum usucapturum, si aedifìcium possedisset.
quid ergo in bis quae non quidem implicantur rebus soli, sed mobilia
permanent, ut in anulo gemma? in quo veruni est et aurum et gem- mam
possideri et usucapì, cum utrumque maneat integrum. In esso alcuni
scrittori ravvisarono un' eccezione utilitatis causa alla regola generale
formulata nei testi succitati, per la quale ecce- zione si ammetterebbe
il proseguimento deirusucapione delle tegole e delle colonne, anche pel
tempo in cui perdono la loro individua na- tura, coir entrare a far parte
della res connexa^ edifizio. Così Wind- scheid, Pand , 6 Aufl., I §. 152,
pag. 495, n. 6; Pampaloni, La legge delle XII Tav. de tigno iunclo,
Bologna, 1883, estr. dair^rc^. giur., pag. 162. 38
NOTE ■ — ■- - ■ ^ - ■ ■ ■ ■ — ' — — ■ III II » .— — ■ - ■ ■ ^^
Altri, invece, si sforzò di ricercarvi lo stesso senso dei testi
citati^ col dare al nihilominus il sifirnifìcato di non. Così Kjeiiulf,
Civilr., pagg. 276 e segg ; Uxterholzxkii. Verjà'hrungfilehre hearh. v,
Schirmer, I, 153 »ì segg.; SINTE^'Is, uell' Arcìi, f. civiì, Prax., XX,
pagg. 75 e segg., e System, I, pagg. 449-52. Altri ancora
cercò in vario modo di togliere al testo valore sre- nerale, limitandone
la i)ortata alla specialità in esso contemplata. E però, intese che vi si
trattasse di tegole e di colonne non incorporato ' solidamente
alFedifìzio: (Savigny, Besitz, pag. 269; Randa, Besitz, pag. 429); che la
regola formulata nel testo valesse soltanto pel caso in cui
l'incorporazione delle tegole e delle colonne nell'edifizio avvenisse
quando questo già era compiuto, quando cioè, per tal modo, Teventual^
distacco di esse non urta contro la ratio della legge de tigno iuncta «
ne urbe ruinis deformetur » (Scheurl, Ziir Lelire vom rum. B'e^ sitZf §.
23); oppure valesse solo trattandosi di mobili incorporati al- Tedifizio,
ma non parti essenziali di questo ( Ruggieri, Il possesso^ §. 196).
Sempre in questa tendenza di limitare il valore del testo, negando ad
esso portata generale, altri scrittori intesero restrittiva- mente il
termine dei decem dies, in esso formulato, in applicazione della massima
romana di non tener conto dei minima ( Thibaut nel- YArch, f. civ. Prax.,
VII, pagg. 79 e segg.; Puchta, KÌ, civ. Schrift.^ pagg. 422 e segg.;
Pape, Zeitschr. f. CiviJr. ii, Proc. N. F. XIV, p. 211); spiegarono la
sentenza del testo colla impossibilità dell' ir- surpatio dei materiali
nei 10 giorni mancanti, per la ragione chf , oc- correndo un termine di
almeno 10 giorni dalla editio actionis per giungere alla litis
contestatio^ se si agiva qando mancavano 10 soli giorni ad usucapire, la
ì'ei vindicatio non serviva a rendere innocua r usucapione ( Savigny,
Besitz, pagg. 269 e segg. ; Eisele, lahrh. /I Bogrn., N. F. XIII, pagg.
4*^0 e segg.); o finalmente intesero che nel testo fosse contemplato il
solo caso di unione delle tegole e delle co- lonne ad un edificio
incompiuto e che la legge de tigno iuncto non impedisse di staccamele,
per essere 1' unione recente di 10 giorni (Meischeider, Besitz u.
Besilzschntz, ?. 19). Codeste varie interpretazioni e spiegazioni
sono riassunte dal WiNDSCHEiD, op. cit. 1. cit., c, più complctamento,
dal Pe rozzi, Sui possesso di parti di cosa^ negli Studi giur. e stor.per
VVIII cenfen. delV Università di Bologna, Roma, 1888, pagg. 275 e segg.,
il qualo confuta ciascuna di esse, per giungere alla conclusione che le
tegole e le colonne incorporate all'edifizio sì posseggono e
s'usucapiscono non perse, a parte, ma solo in conseguenza del possesso e
dell'usucapione dell'intero, a differenza della gemma e dell' anello che
si posseggono e s'usucapiscono per se. NOTE 39
^ ■ ■■■ ■ — — n — ■ ■ • ' - ■ ■ ■■ ■ (23) Hering, op, cit,
pag. 411; Eckhaud, op. cit , pag. 260; La- rERiuÈRE, op. cit., pagg.
63-5; Moriani, op. cit., pagg. 54 e segg. (24) Cfr. Trevisani, op.
cit., nella Gazz. dei trib., VII, pag. 7. (25) Laperrière, op.
cit,, pagg. 635 e segg. (26) DiRKSEN, Ueheì' Cicero' s
unlergegangene Schri/t: De iure civili in arte redigendo, nelle philol.
u. Philos. Ahhandl. der k. Aka- demie der Wissensch. zu Berlin, 1842,
pagg. 177 e segg ; Hjljen- BRAND, op. cit., %. 130, pagg. 556 e segg.;
Voigt, Aelivs und Sa- hinussìjst.., pagg- 19 e segg. Si
connette a questa influenza formale d' ordine generale la ri- cerca delle
etimologie, comune ai giuristi, segnatamente dopo Labeone. Qui
Timitazione degli stoici fu riconosciuta quasi da tutti che ebbero ad
occuparsi del nostro tema. Cfr. da ultimo Lersch, Die Sprach- philosoph,
der Alien, parte 3. Senonchè, nonostante gli sforzi di un re- cente
accurato lavoro (Ceci, Le etimologie dei' giureconsulti romani, Torino,
1892 ) persisto nel credere che suU' indole e sul valore delle ricerche
etimologiche dei giuristi rimanga saldo tuttavia il giudizio severo
ch'ebbe a formularne il Pernice, M. A. Laheo, I, pag. 27. (27) Si
veggano i testi raccolti ed elaborati, non occorre dire con quale
diligenza- e acutezza, dal Voigt, Ius. natur, §. 49, I, pagg. 244 e
segg. (28) MoRiANi, op. cit., pagg. 80 e segg. (29)
Ratio derivazione dall'indiano rita e ratum, ordinamento dell'universo e
della natura terrestre, comprese le cose umane. Così Leist, Civ. Stad.,
l, 1854, pag. 33; III, 1859, pagg. 3 e segg.; Ka- turalis ratio und Natur
der Saclie, 1860; Civ. Stud,, IV, 1877, pagg. 1 e segg.; Gracco ital.
Rechtsgesch., Iena, 1884, g. 32, pagg. 199 e seguenti. (30)
SuMNER Maine, Ancien droit, cap. 3, pagg. 45-46, 51-56; Etudes sur Vane,
droit., pagg. 162-3. (31) HiLDENBRAND, op. Cit., §§. 1334, pagg.
566 e segg. (32) Cfr. da ultimo l'acuta ricostruzione del Brini,
Ius naturale, Bologna, 1889. FINE.
X DEL MEDESIMO AUTORE: La
condizione patrimoniale del coniage superstite nel diritto romano
classico^ Bologna, Fava e Gara- gnani, 1889 . . . , . - . . . L. 4
Il diritto privato romano nelle comedie di Plauto j Torino, Fratelli
Bocca, 1890 » 10 Le azioni exercitoria e institoria nel diritto
romano, Parma, Battei, 1892 » 3 l' . Guido
Ceronetti. Keywords: la lanterna, la lantern di Diogene, poesia latina, Catullo,
Marziale, Orazio, Giovenale, il filosofo ignoto, la pazienza del … --. Aforismi.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceronetti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772990016/in/dateposted-public/
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