Grice ed Alberti – della thoscana senz’autore -- filosofia ligure
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo. Grice: “I like [Leon Battista] Alberti; of course he is from Genova –
Liguaria being the heart of my Italy, or the Italy of my heart!” – Grice: “I
like Alberti’s ramblings on love to his lawyer friend – a full page without a
p.s. – and it’s none of the Kantian conversational maxims or Ovidian tactics,
but just a prohibition to mingle with the ladies!” -- Italian philosopher, on ‘aesthetics.’ Cf.
Grice on sensation. Grice: “No one can fail to be enchanted by Lusini’s great
likeness of Alberti at the loggiato of the uffizi! Ah, if we had the same at
Oxford!” -- Genova-born essential Italian philosopherGrice, “I love his “De
statua”it’s more philosophical anthropology than aesthetics!” «Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse
abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta,
erudito, filosofo e letterato» (Francesco de Sanctis, Storia della
letteratura italiana). Filosofo. Una delle figure artistiche più poliedriche
del Rinascimento. Il suo primo nome si trova spesso, soprattutto in testi stranieri,
come Leone. Alberti fa parte della seconda generazione di umanisti
(quella successiva a Vergerio, Bruni, Bracciolini, Francesco Barbaro), di cui
fu una figura emblematica per il suo interesse nelle più varie
discipline. Un suo costante interesse era la ricerca delle regole,
teoriche o pratiche, in grado di guidare il lavoro degli artisti. Nelle sue
opere menzionò alcuni canoni, ad esempio: nel "De statua" espose le
proporzioni del corpo umano, nel "De pictura" fornì la prima
definizione della prospettiva scientifica e infine nel "De re
aedificatoria" (opera cui lavorò fino alla morte, nel 1472), descrisse
tutta la casistica relativa all'architettura moderna, sottolineando
l'importanza del progetto e le diverse tipologie di edifici a seconda della
loro funzione. Tale opera lo renderà immortale nei secoli e motivo di studio a
livello internazionale da artisti come Eugène Viollet-le-Duc e John Ruskin.
Come architetto, Alberti viene considerato, accanto a Brunelleschi, il
fondatore dell'architettura rinascimentale. L'aspetto innovativo delle
sue proposte, soprattutto sia in ambito architettonico che umanistico,
consisteva nella rielaborazione moderna dell'antico, cercato come modello da
emulare e non semplicemente da replicare. La classe sociale a cui Alberti
faceva riferimento è comunque un'aristocrazia e alta "borghesia"
illuminata. Egli lavorò per committenti quali i Gonzaga a Mantova e (per la
tribuna della SS. Annunziata) a Firenze, i Malatesta a Rimini, i Rucellai a
Firenze. Presunto autoritratto su placchetta, (Parigi, Cabinet des
Medailles). Leon Battista nacque a Genova, figlio di Lorenzo Alberti, di una
ricca famiglia di mercanti e banchieri fiorentini banditi dalla città toscana a
partire dal 1388 per motivi politici, e da Bianca Fieschi, appartenente ad una
delle più nobili casate genovesi. I primi studi furono di tipo
letterario, dapprima a Venezia e poi a Padova, alla scuola dell'umanista
Gasparino Barzizza, dove apprese il latino e forse anche il greco. Si trasferì
poi a Bologna dove studiò diritto, coltivando parallelamente il suo amore per
molte altre discipline artistiche quali la musica, la pittura, la scultura, la
matematica, la grammatica e la letteratura in generale. Si dedicò all'attività
letteraria sin da giovane: a Bologna, infatti, già intorno ai vent'anni scrisse
una commedia autobiografica in latino, la Philodoxeos fabula. Compose in latino
il Momus, un originalissimo e avvincente romanzo mitologico, e le
Intercoenales; in volgare, compose un'importante serie di dialoghi (De familia,
Theogenius, Profugiorum ab ærumna libri, Cena familiaris, De iciarchia, dai
titoli rigorosamente in latino) e alcuni scritti amatori, tra cui la Deiphira,
ove raccoglie i precetti utili a fuggire da un amore mal iniziato. Dopo
la morte del padre, avvenuta nel 1421, l'Alberti trascorse alcuni anni di
difficoltà, entrando in forte contrasto con i parenti che non volevano
riconoscere i suoi diritti ereditari né favorire i suoi studi. In questi anni
coltivò soprattutto gli studi scientifici, astronomici e matematici. Sembra si
sia tuttavia concretamente laureato in diritto nel 1428 a Bologna, o forse a
Ferrara, nonostante le difficoltà economiche e di salute. Tra Padova e Bologna
intrecciò amicizie con molti importanti intellettuali, come Paolo Dal Pozzo
Toscanelli, Tommaso Parentuccelli, futuro papa Nicolò V e probabilmente Niccolò
Cusano. Per gli anni 1428-1431 poco si sa, benché debba escludersi che si
sia recato a Firenze dopo il ritiro del bandi contro gli Alberti, nel 1428, e
sia del pari assai poco probabile che al seguito del cardinal Albergati abbia
viaggiato in Francia e nel Nord Europa. A Roma Nel 1431 diventò
segretario del patriarca di Grado e, trasferitosi a Roma con questi, nel 1432
fu nominato abbreviatore apostolico (il cui ruolo consisteva per l'appunto nel
redigere i brevi apostolici). Così entrò nel prestigioso ambiente umanistico
della curia di papa Eugenio IV, che lo nominò (1432) titolare della pieve di
San Martino a Gangalandi a Lastra a Signa, nei pressi di Firenze, beneficio di
cui godette fino alla morte. Vivendo prevalentemente a Roma ma
spostandosi per periodi anche lunghi e per varie incombenze a Ferrara, Bologna,
Venezia, Firenze, Mantova, Rimini e Napoli. Le prime opere letterarie Tra
il 1433 e il 1434, scrisse in pochi mesi i primi tre libri de Familia, un
dialogo in volgare completato con un quarto libro nel 1437. Il dialogo è
ambientato a Padova, nel 1421; vi partecipano vari componenti della famiglia
Alberti, personaggi realmente esistiti, scontrandosi su due visioni diverse: da
un lato c'è la mentalità moderna e borghese e dall'altro la tradizione,
aristocratica e legata al passato. L'analisi che il libro offre è una visione
dei principali aspetti e istituzioni della vita sociale dell'epoca, quali il
matrimonio, la famiglia, l'educazione, la gestione economica, l'amicizia e in
genere i rapporti sociali: l'Alberti esprime qui un punto di vista
"filosofico" pienamente umanistico, che ricorre in tutte le sue opere
di carattere morale e che consiste nella convinzione che gli uomini siano
responsabili della propria sorte e che la virtù sia insita nell'uomo e debba
essere realizzata attraverso l'operosità, la volontà e la ragione. A
Firenze Statua di Leon Battista Alberti, piazza degli Uffizi a Firenze. Alberti
visse prevalentemente a Firenze e Ferrara, al seguito della curia papale che
fra l'altro partecipò al Concilio, ossia alle sedute ferrarese e fiorentina del
concilio ecumenico (1438-39) che dovevano riappacificare la chiesa latina e le
chiese cristiano-orientali, in particolare quella greca. In questo
periodo l'Alberti assimila parte della cultura fiorentina, cercando (invero con
moderato successo) d'inserirsi nell'ambiente intellettuale e artistico della
città; sono verosimilmente gli anni in cui nascono i suoi interessi artistici,
che si traducono da subito nella duplice redazione (latina e volgare) del De
pictura (1435-36). Nel prologo della versione in volgare, dedica l'opera a
Brunelleschi e menziona anche i grandi innovatori delle arti del tempo:
Donatello, Masaccio (morto già nel 1428) e i Della Robbia. Intorno al
1443, al seguito del pontefice Eugenio IV lasciò Firenze, ma con la città
continuò ad avere intensi rapporti legati anche ai cantieri dei suoi
progetti. De pictura Magnifying glass icon mgx2.svg De pictura. Del 1435-1436 è il De pictura,
scritto verosimilmente dapprima in latino e tradotto poi in volgare; se la
redazione latina, senza ombra di dubbio la più importante e ricca, sarà
dedicata al Gonzaga marchese di Mantova, per quella volgare l'Alberti redasse
una dedica al Brunelleschi che, trasmessa da un solo codice strettamente legato
al laboratorio personale dell'Alberti, forse non fu mai inviata. Il De pictura
rappresenta la prima trattazione di una disciplina artistica non intesa solo
come tecnica manuale, ma anche come ricerca intellettuale e culturale, e
sarebbe difficile immaginarla fuori dallo straordinario contesto fiorentino e
scritta da un autore diverso dall'Alberti, grande intellettuale umanista e
artista egli stesso, anche se la sua attività nel campo delle arti
figurative—attestata (benché in modi non lusinghieri) già dal Vasari—dovette
essere ridotta. Il trattato è organizzato in tre "libri". Il primo
contiene la più antica trattazione della prospettiva. Nel secondo libro l'Alberti
tratta di “circoscrizione, composizione, e ricezione dei lumi”, cioè dei tre
principi che regolano l'arte pittorica: la circumscriptio consiste nel
tracciare il contorno dei corpi; la compositio è il disegno delle linee che
uniscono i contorni dei corpi e perciò la disposizione narrativa della scena
pittorica, la cui importanza è qui espressa per la prima volta con piena
lucidità intellettuale; la receptio luminum tratta dei colori e della luce. Il
terzo libro è relativo alla figura del pittore di cui si rivendica il ruolo di
vero artista e non, semplicemente, di artigiano. Con questo trattato Alberti
influenzerà non solo il Rinascimento ma tutto quanto si sarebbe detto sulla
pittura sino ai nostri giorni. La questione del volgare Pur scrivendo
numerosi testi in latino, lingua alla quale riconosceva il valore culturale e
le specifiche qualità espressive, l'Alberti fu un fervente sostenitore del
volgare. La duplice redazione in latino e in volgare del De pictura manifesta
il suo interesse per il dibattito allora in corso tra gli umanisti sulla
possibilità di usare il volgare nella trattazione di ogni materia. In un
dibattito avvenuto a Firenze tra gli umanisti della curia, Flavio Biondo aveva
affermato la diretta discendenza del volgare dal latino e l'Alberti, ne dimostra
genialmente la tesi componendo la prima grammatica del volgare (1437-41), e ne
riprende gli argomenti difendendo l'uso del volgare nella dedicatoria del libro
III de Familia a Francesco d'Altobianco Alberti (1435-39 circa). Da qui
deriva la significativa esperienza del Certame coronario, una gara di poesia
sul tema dell'amicizia, organizzata a Firenze nell'ottobre 1441 dall'Alberti
con il più o meno tacito concorso di Piero de' Medici, una gara che doveva
servire all'affermazione del volgare, soprattutto in poesia, e alla quale va
associata la composizione dei sedici Esametri sull'amicizia da parte
dell'AlbertiEsametri ora pubblicati fra le sue Rime, innovative tanto nello
stile quanto nella metrica, che costituiscono uno dei primissimi tentativi di
adattare i metri greco-latini alla poesia volgare (metrica «barbara»).
Nonostante ciò, l'Alberti continuò a scrivere naturalmente in latino, come fece
per gli Apologi centum, una sorta di breviario della sua filosofia di vita,
composti intorno al 1437. Ritorno a Roma Chiusosi il concilio a Firenze, ritornò
con la curia papale a Roma. continuando a ricoprire il ruolo di abbreviatore
apostolico per ben 34 anni, fino al 1464, quando il collegio degli abbreviatori
fu soppresso. Durante la permanenza a Roma ebbe modo di coltivare i propri
interessi propriamente architettonici, che lo indussero a proseguire lo studio
delle rovine della Roma classica, come dimostra la stessa Descriptio urbis
Romae, risalente al 1450 circa, in cui l'Alberti tentò con successo, per la
prima volta nella storia, una ricostruzione della topografia di Roma antica,
mediante un sistema di coordinate polari e radiali che permettono di
ricostruire il disegno da lui tracciato. I suoi interessi archeologici lo
portarono anche a tentare il recupero delle navi romane affondate nel lago di
Nemi. Questi interessi per l'architettura che diventeranno prevalenti
negli ultimi due decenni della sua vita, non impedirono una ricchissima
produzione letteraria. Tra il 1443 e la morte compone una delle sue opere più
interessanti, il Momus, un romanzo satirico in lingua latina, che tratta in
maniera abbastanza amara e disincantata della società umana e degli stessi
esseri umani. Dopo l'elezione di Niccolò V, l'Alberti, come antico
conoscente, entrò nella cerchia ristretta del papa, dal quale ricevette anche
la carica di priore di Borgo San Lorenzo. Tuttavia i rapporti con il papa sono
considerati piuttosto controversi dagli storici, sia per quel che riguarda gli
aspetti politici che per l'adesione o la collaborazione dell'Alberti al vasto
programma di rinnovamento urbano voluto da Niccolò V. Forse venne impiegato
durante il restauro del palazzo papale e dell'acquedotto romano e della fontana
dell'Acqua Vergine, disegnata in maniera semplice e lineare, creando la base
sulla quale, in età Barocca, sarebbe stata costruita la Fontana di Trevi.
Intorno al 1450 Alberti cominciò ad occuparsi più attivamente di architettura
con numerosi progetti da eseguire fuori Roma, a Firenze, Rimini e Mantova,
città in cui si recò varie volte durante gli ultimi decenni della sua
vita. In tal modo dopo la metà del secolo l'Alberti fu la figura-guida
dell'architettura. Questo riconosciuto primato rende anche difficile
distinguere, nella sua opera, l'attività di progettazione dalle tante
consulenze e dall'influenza più o meno diretta che dovette avere, per esempio,
sulle opere promosse a Roma, sotto Niccolò V, come il restauro di Santa Maria
Maggiore e Santo Stefano Rotondo o come la costruzione di Palazzo Venezia, il
rinnovamento della basilica di San Pietro, del Borgo e del Campidoglio.
Potrebbe forse essere stato il consulente che indica alcune linee-guida o, ma
ben più difficilmente, aver avuto un ruolo anche meno indiretto. Sicuramente il
prestigio della sua opera e del suo pensiero teorico condizionarono
direttamente l'opera di progettisti come Francesco del Borgo e Bernardo
Rossellino, influenzando anche Giuliano da Sangallo. Morì a Roma, all'età
di 68 anni. Il De re aedificatoria Frontespizio Matteo de'
Pasti, Medaglia di Leon Battista Alberti. Magnifying glass icon mgx2.svg De re aedificatoria. Le sue riflessioni
teoriche trovarono espressione nel De re aedificatoria, un trattato di
architettura in latino, scritto prevalentemente a Roma, cui l'Alberti lavorò
fino alla morte e che è rivolto anche al pubblico colto di educazione
umanistica. Il trattato fu concepito sul modello del De architectura di
Vitruvio. L'opera, considerata il trattato architettonico più significativo
della cultura umanistica, è divisa anch'essa in dieci libri: nei primi tre si
parla della scelta del terreno, dei materiali da utilizzare e delle fondazioni
(potrebbero corrispondere alla categoria vitruviana della firmitas); i libri IV
e V si soffermano sui vari tipi di edifici in relazione alla loro funzione
(utilitas); il libro VI tratta la bellezza architettonica (venustas), intesa
come un'armonia esprimibile matematicamente grazie alla scienza delle
proporzioni, con l'aggiunta di una trattazione sulle macchine per costruire; i
libri VII, VIII e IX parlano della costruzione dei fabbricati, suddividendoli
in chiese, edifici pubblici ed edifici privati; il libro X tratta
dell'idraulica. Nel trattato si trova anche uno studio basato sulle
misurazioni dei monumenti antichi per proporre nuovi tipi di edifici moderni
ispirati all'antico, fra i quali le prigioni, che cercò di rendere più umane,
gli ospedali e altri luoghi di pubblica utilità. Il trattato fu stampato
a Firenze nel 1485, con una prefazione del Poliziano a Lorenzo il Magnifico, e
poi a Parigi e a Strasburgo. Venne in seguito tradotto in varie lingue e
diventò ben presto imprescindibile nella cultura architettonica moderna e
contemporanea. Nel De re aedificatoria, l'Alberti affronta anche il tema
delle architetture difensive e intuisce come le armi da fuoco rivoluzioneranno
l'aspetto delle fortificazioni. Per aumentare l'efficacia difensiva indica che
le difese dovrebbero essere "costruite lungo linee irregolari, come i
denti di una sega" anticipando così i principi della fortificazione alla
moderna. L'attività come architetto a Firenze A Firenze lavorò come
architetto soprattutto per Giovanni Rucellai, ricchissimo mercante e mecenate,
intimo amico suo e della sua famiglia. Le opere fiorentine saranno le sole
dell'Alberti a essere compiute prima della sua morte. Palazzo
Rucellai Facciata di palazzo Rucellai. Forse sin dal 1439-1442 gli venne
commissionata la costruzione del palazzo della famiglia Rucellai, da ricavarsi
da una serie di case-torri acquistate da Giovanni Rucellai in via della Vigna
Nuova. Il suo intervento si concentrò sulla facciata, posta su un basamento che
imita l'opus reticulatum romano, realizzata tra il 1450 e il 1460. È formata da
tre piani sovrapposti, separati orizzontalmente da cornici marcapiano e ritmati
verticalmente da lesene di ordine diverso; la sovrapposizione degli ordini è di
origine classica come nel Colosseo o nel Teatro di Marcello, ed è quella
teorizzata da Vitruvio: al piano terreno lesene doriche, ioniche al piano
nobile e corinzie al secondo. Esse inquadrano porzioni di muro bugnato a conci
levigati, in cui si aprono finestre in forma di bifora nel piano nobile e nel
secondo piano. Le lesene decrescono progressivamente verso i piani superiori,
in modo da creare nell'osservatore l'illusione che il palazzo sia più alto di
quanto non sia in realtà. Al di sopra di un forte cornicione aggettante si
trova un attico, caratteristicamente arretrato rispetto al piano della
facciata. Il palazzo creò un modello per tutte le successive dimore signorili
del Rinascimento, venendo addirittura citato pedissequamente da Bernardo
Rossellino, suo collaboratore, per il suo palazzo Piccolomini a Pienza (post
1459). Attribuita all'Alberti è anche l'antistante Loggia Rucellai, o per
lo meno il suo disegno. Loggia e palazzo andavano così costituendo una sorta di
piazzetta celebrante la casata, che viene riconosciuta come uno dei primi
interventi urbanistici rinascimentali. Facciata di Santa Maria
Novella Facciata di Santa Maria Novella, Firenze. Su commissione del
Rucellai, progettò anche il completamento della facciata della basilica di
Santa Maria Novella, rimasta incompiuta nel 1365 al primo ordine di arcatelle,
caratterizzate dall'alternarsi di fasce di marmo bianco e di marmo verde,
secondo la secolare tradizione fiorentina. I lavori iniziarono intorno al 1457.
Si presentava il problema di integrare, in un disegno generale e
classicheggiante, i nuovi interventi con gli elementi esistenti di epoca
precedente: in basso vi erano gli avelli inquadrati da archi a sesto acuto e i
portali laterali, sempre a sesto acuto, mentre nella parte superiore era già
aperto il rosone, seppur spoglio di ogni decorazione. Alberti inserì al centro
della facciata inferiore un di
proporzioni classiche, inquadrato da semicolonne, in cui inserì incrostazioni
in marmo rosso per rompere la bicromia. Per terminare la fascia inferiore pose
una serie di archetti a tutto sesto a conclusione delle lesene. Poiché la parte
superiore della facciata risultava arretrata rispetto al basamento (un tema
molto comune nell'architettura albertiana, derivata dai monumenti della
romanità) inserì una fascia di separazione a tarsie marmoree che recano una
teoria di vele gonfie al vento, l'insegna personale di Giovanni Rucellai; il
livello superiore, scandito da un secondo ordine di lesene che non hanno
corrispondenza in quella inferiore, sorregge un timpano triangolare. Ai lati,
due doppie volute raccordano l'ordine inferiore, più largo, all'ordine
superiore più alto e stretto, conferendo alla facciata un moto ascendente
conforme alle proporzioni; non mascherano come spesso si è detto erroneamente
gli spioventi laterali che risultano più bassi, come si evince osservando la
facciata dal lato posteriore. La composizione con incrostazioni a tarsia
marmorea ispirate al romanico fiorentino, necessaria in questo caso per
armonizzare le nuove parti al già costruito, rimase una costante nelle opere
fiorentine dell'Alberti. Secondo Rudolf Wittkower: "L'intero
edificio sta rispetto alle sue parti principali nel rapporto di uno a due, vale
a dire nella relazione musicale dell'ottava, e questa proporzione si ripete nel
rapporto tra la larghezza del piano superiore e quella dell'inferiore". La
facciata si inscrive infatti in un quadrato avente per lato la base della
facciata stessa. Dividendo in quattro tale quadrato, si ottengono quattro
quadrati minori; la zona inferiore ha una superficie equivalente a due
quadrati, quella superiore a un quadrato. Altri rapporti si possono trovare
nella facciata tanto da realizzare una perfetta proporzione. Secondo Franco
Borsi: "L'esigenza teorica dell'Alberti di mantenere in tutto l'edificio
la medesima proporzione è qui stata osservata ed è appunto la stretta
applicazione di una serie continua di rapporti che denuncia il carattere non
medievale di questa facciata pseudo-protorinascimentale e ne fa il primo grande
esempio di eurythmia classica del Rinascimento". Altre opere
Il tempietto del Santo Sepolcro. Attribuito all'Alberti è il progetto
dell'abside della pieve di San Martino a Gangalandi presso Lastra a Signa.
L'Alberti fu rettore di San Martino dal 1432 fino alla sua morte. La chiesa, di
origine medievale, ha il suo punto focale nell'abside, chiusa in alto da un
arco a tutto sesto con decorazione a motivi di candelabro e con lesene in
pietra serena sorreggenti un architrave che reca un'iscrizione a lettere
capitali dorate, ornata alle due estremità dalle arme degli Alberti. L'abside è
ricordata incepta et quasi perfecta nel testamento di Leon Battista Alberti, e
fu infatti terminata dopo la sua morte, tra il 1472 e il 1478. Del 1467 è
un'altra opera per i Rucellai, il tempietto del Santo Sepolcro nella chiesa di
San Pancrazio a Firenze, costruito secondo un parallelepipedo spartito da
paraste corinzie. La decorazione è a tarsie marmoree, con figure geometriche in
rapporto aureo; le decorazioni geometriche, come per la facciata di Santa Maria
Novella, secondo l'Alberti inducono a meditare sui misteri della fede.
Ferrara Il campanile del duomo di Ferrara. L'Alberti fu a Ferrara a varie
riprese, e sicuramente tra il 1438 e il 1439, stringendo amicizie alla corte
estense. Vi ritorna nel 1441 e forse nel 1443, chiamato a giudicare la gara per
un monumento equestre a Niccolò III d'Este. In tale occasione forse dette
indicazioni per il rinnovo della facciata del Palazzo Municipale, allora
residenza degli Estensi. A lui è stato attribuito da insigni storici
dell'arte, ma esclusivamente su basi stilistiche, anche l'incompleto campanile
del duomo, dai volumi nitidi e dalla bicromia di marmi rosa e bianchi.
Rimini Tempio Malatestiano, Rimini. Nel 1450 l'Alberti venne chiamato a
Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta per trasformare la chiesa di San
Francesco in un tempio in onore e gloria sua e della sua famiglia. Alla morte
del signore (1468) il tempio fu lasciato incompiuto mancando della parte
superiore della facciata, della fiancata sinistra e della tribuna. Conosciamo
il progetto albertiano attraverso una medaglia incisa da Matteo de' Pasti,
l'architetto a cui erano stati affidati gli ampliamenti interni della chiesa e
in generale tutto il cantiere. Tempio malatestiano sulla medaglia
di Matteo de' Pasti. L'Alberti ideò un involucro marmoreo che lasciasse intatto
l'edificio preesistente. L'opera prevedeva in facciata una tripartizione con
archi scanditi da semicolonne corinzie, mentre nella parte superiore era
previsto una specie di frontone con arco al centro affiancato da paraste e
forse due volute curve. Punto focale era il
centrale, con timpano triangolare e riccamente ornato da lastre marmoree
policrome nello stile della Roma imperiale. Ai lati due archi minori avrebbero
dovuto inquadrare i sepolcri di Sigismondo e della moglie Isotta, ma furono poi
tamponati. Le fiancate invece sono composte da una sequenza di archi su
pilastri, ispirati alla serialità degli acquedotti romani, destid accogliere i
sarcofagi dei più alti dignitari di corte. Fianchi e facciata sono unificati da
un alto zoccolo che isola la costruzione dallo spazio circostante. Ricorre la
ghirlanda circolare, emblema dei Malatesta, qui usata come oculo. Interessante
è notare come Alberti traesse spunto dall'architettura classica, ma affidandosi
a spunti locali, come l'arco di Augusto, il cui modulo è triplicato in
facciata. Una particolarità di questo intervento è che il rivestimento non
tiene conto delle precedenti aperture gotiche: infatti, il passo delle
arcate laterali non è lo stesso delle finestre ogivali, che risultano
posizionate in maniera sempre diversa. Del resto Alberti scrive a Matteo de'
Pasti che «queste larghezze et altezze delle Chappelle mi perturbano».
Per l'abside era prevista una grande rotonda coperta da cupola emisferica
simile a quella del Pantheon. Se completata, la navata avrebbe allora assunto
un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare e sarebbe stata
molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio, anche in rapporto
allo skyline cittadino. Mantova Chiesa di San Sebastiano,
Mantova. Basilica di Sant'Andrea, Mantova. Nel 1459 Alberti fu chiamato a
Mantova da Ludovico III Gonzaga, nell'ambito dei progetti di abbellimento
cittadino per il Concilio di Mantova. San Sebastiano Il primo intervento
mantovano riguardò la chiesa di San Sebastiano, cappella privata dei Gonzaga,
iniziata nel 1460. L'edificio fece da fondamento per le riflessioni
rinascimentali sugli edifici a croce greca: è infatti diviso in due piani, uno
dei quali interrato, con tre bracci absidati attorno ad un corpo cubico con
volta a crociera; il braccio anteriore è preceduto da un portico, oggi con
cinque aperture. La parte superiore della facciata, spartita da lesene di
ordine gigante, è originale del progetto albertiano e ricorda un'elaborazione
del tempio classico, con architrave spezzata, timpano e un arco siriaco, a
testimonianza dell'estrema libertà con cui l'architetto disponeva gli elementi.
Forse l'ispirazione fu un'opera tardo-antica, come l'arco di Orange. I due
scaloni di collegamento che permettono l'accesso al portico non fanno parte del
progetto originario, ma furono aggiunte posteriori. Sant'Andrea Il secondo
intervento, sempre su commissione dei Gonzaga, fu la basilica di Sant'Andrea,
eretta in sostituzione di un precedente sacrario in cui si venerava una
reliquia del sangue di Cristo. L'Alberti creò il suo progetto «... più capace
più eterno più degno più lieto...» ispirandosi al modello del tempio etrusco
ripreso da Vitruvio e contrapponendosi al precedente progetto di Antonio
Manetti. Innanzitutto mutò l'orientamento della chiesa allineandola all'asse
viario che collegava Palazzo Ducale al Tè. La chiesa a croce latina,
iniziata nel 1472, è a navata unica coperta a botte con lacunari, con cappelle
laterali a base rettangolare con la funzione di reggere e scaricare le spinte
della volta, inquadrate negli ingressi da un arco a tutto sesto, inquadrato da
un lesene architravate. Il tema è ripreso dall'arco trionfale classico ad un
solo fornice come l'arco di Traiano ad Ancona. La grande volta della navata e
quelle del transetto e degli atri d'ingresso si ispiravano a modelli romani,
come la Basilica di Massenzio. Per caratterizzare l'importante posizione
urbana, venne data particolare importanza alla facciata, dove ritorna il tema
dell'arco: l'alta apertura centrale è affiancata da setti murari, con archetti
sovrapposti tra lesene corinzie sopra i due portali laterali. Il tutto,
coronato da un timpano triangolare a cui si sovrappone, per non lasciare
scoperta l'altezza della volta, un nuovo arco. Questa soluzione, che enfatizza
la solennità dell'arco di trionfo e il suo moto ascensionale, permetteva anche
l'illuminazione della navata. Sotto l'arco venne a formarsi uno spesso atrio,
diventato il punto di filtraggio tra interno ed esterno. La facciata è
inscrivibile in un quadrato e tutte le misure della navata, sia in pianta che
in alzato, si conformano ad un preciso modulo metrico. La tribuna e la cupola
(comunque prevista da Alberti) vennero completate nei secoli
successivi, secondo un disegno estraneo all'Alberti. I caratteri
dell'architettura albertiana Le opere più mature di Alberti evidenziano una
forte evoluzione verso un classicismo consapevole e maturo in cui, dallo studio
dei monumenti antichi romani, l'Alberti ricavò un senso delle masse murarie ben
diverso dalla semplicità dello stile brunelleschiano. I modi originali
albertiani precorsero l'arte del Bramante. I caratteri innovativi di Alberti
furono: La colonna deve sostenere la trabeazione e deve essere usata come
ornamento per le fabbriche; l'arco deve essere costruito sopra i
pilastri. Il De statua Il trattato, scritto in latino, è relativo alla
teoria della scultura e risale al1450 circa. Nel De statua, l'Alberti rielaborò
profondamente le concezioni e le teorie relative alla scultura tenendo conto
delle innovazioni artistiche del Rinascimento, attingendo anche ad una
rilettura critica delle fonti classiche e riconoscendo, tra i primi dignità
intellettuale alla scultura, prima di allora sempre condizionata dal
pregiudizio verso un'attività tanto manuale. Nel trattato che si compone
di 19 capitoli, l'Alberti parte, sulla scorta di Plinio, dalla definizione
dell'arte plastica tridimensionale distinguendo la scultura o per via di porre
o per via di levare, dividendola secondo la tecnica utilizzata: togliere
e aggiungere: sculture con materie molli, terra e cera eseguita dai
"modellatori" levare: scultura in pietra, eseguita dagli
"scultori" Tale distinzione fu determinante nella concezione
artistica di molti scultori come Michelangelo e non era mai stata espressa con
tanta chiarezza. Il definitor, lo strumento inventato da Leon
Battista Alberti. Relativamente al metodo da utilizzare per raggiungere il fine
ultimo della scultura che è l'imitazione della natura, l'Alberti
distingue: la dimensio (misura) che definisce le proporzioni generali
dell'oggetto rappresentato mediante l’exempeda, una riga diritta modulare atta
a rilevare le lunghezze e squadre mobili a forma di compassi (normae), con cui
misurare spessori, distanze e diametri. la finitio, definizione individuale dei
particolari e dei movimenti dell'oggetto rappresentato, per la quale Alberti suggerisce
uno strumento da lui ideato: il definitor o finitorium, un disco circolare cui
è fissata un'asta graduata rotante, da cui pende un filo a piombo. Con esso si
può determinare qualsiasi punto sul modello mediante una combinazione di
coordinate polari e assiali, rendendo possibile un trasferimento meccanico dal
modello alla scultura. Alberti sembra anticipare i temi relativi alla
raffigurazione 'scientifica' della figura umana che è uno dei temi che percorre
la cultura figurativa rinascimentale. e addirittura aspetti
dell'industrializzazione e addirittura della digitalizzazione, visto che il
definitor trasformava i punti rilevati sul modello in dati alfanumerici.
L'opera fu tradotta in volgare nel 1568 da Cosimo Bartoli. Il testo latino
originale fu stampato solo alla fine del XIX secolo, mentre solo recentemente
sono state pubblicate traduzioni moderne. I sistemi di definizione meccanica
dei volumi proposti dall'Alberti, appassionarono Leonardo che approntò, come si
può rilevare dai suoi disegni, dei sistemi alternativi, sviluppati a partire
dal trattato albertiano e utilizzò le "Tabulae dimensionum hominis"
del "De statua" per realizzare il celeberrimo "Uomo
vitruviano". Il Crittografo Alberti fu inoltre un geniale
crittografo e inventò un metodo per generare messaggi criptati con l'aiuto di
un apparecchio, il disco cifrante. Sua fu infatti l'idea di passare da una
crittografia con tecnica "monoalfabetica" (Cifrario di Cesare) ad una
con tecnica "polialfabetica", codificata teoricamente parecchi anni
dopo da Blaise de Vigenère. In The Codebreakers. The Story of Secret Writing,
lo storico della crittologia David Kahn attribuisce all'Alberti il titolo di
Father of Western Cryptology (Padre della crittologia occidentale). Kahn
ribadisce questa definizione, sottolineando le ragioni che la giustificano,
nella prefazione all'edizione italiana del testo albertiano: «Questo volume
elegante e sottile riproduce il testo più importante di tutta la storia della
crittologia; un primato che il De cifris di Leon Battista Alberti ben si merita
per i tre temi cruciali che tratta: l'invenzione della sostituzione
polialfabetica, l'uso della crittanalisi, la descrizione di un codice
sopracifrato.» Tra le altre attività di Alberti ci fu anche la musica,
per la quale fu considerato uno dei primi organisti della sua epoca. Disegnò
anche delle mappe e collaborò con il grande cartografo Paolo Toscanelli.
De iciarchia Iciarco e Iciarchia sono due termini usati dall'Alberti nel
dialogo De iciarchia composto nel 1470 circa, pochi anni prima della sua morte
(avvenuta nel 1472) e ambientato nella Firenze medicea di quegli anni. Le due
parole sono di origine greca ("Pogniàngli nome tolto da' Greci, iciarco:
vuol dire supremo omo e primario principe della famiglia sua", libro III),
e sono formate da oîkos o oikía "casa, famiglia" e arkhós "capo
supremo, principe, principio". Il nome stesso di iciarco vuole
esprimere quello che secondo il parere dell'autore è il governante ideale:
colui che sia come un padre di famiglia nei confronti dello Stato. Secondo le
parole dell'Alberti, "il suo compito sarà (...) provedere alla salute,
quiete, e onestamento di tutta la famiglia, fare sì che amando e benificando è
suoi, tutti amino lui, e tutti lo reputino e osservino come padre"
(ivi). Questo ruolo di "padre di famiglia" del governante
ideale era finalizzato, nella sua visione politica, ad una stabilità, in
definitiva "conservatrice", che permetterebbe di governare senza
discordie che, dilaniando lo Stato, nuocerebbero a tutto il corpo sociale ("Inoltre
la prima cura sua sarà che la famiglia sia senza niuna discordia unitissima. Non
esser unita la famiglia circa le cose (...) che giovano, nuoce sopra modo
molto., ivi). Il termine iciarco, nato coll'Alberti e strettamente legato
alla sua visione "paternalistica" del governo dello Stato, non ebbe
comunque alcun seguito e non risulta che sia mai più stato impiegato nel
lessico politico. Opere: “Apologi centum”; “Cena familiaris”; “De amore”; “De equo
animante (Il cavallo vivo); “De Iciarchia”; “De componendis cifris”; “Deiphira”;
“De picture”; “Porcaria coniuratio”; “De re aedificatoria”; “De statua”;
“Descriptio urbis Romae”; “Ecatomphile”; “Elementa picturae”; “Epistola
consolatoria”; “Grammatica della lingua toscana” (meglio nota come Grammatichetta
vaticana); “Intercoenales”; “De familia libri IV”; “Ex ludis rerum
mathematicorum”; “Momus”; “Philodoxeos fabula”; “Profugiorum ab ærumna libri
III”; “Sentenze pitagoriche”; “Sophrona”; “Theogenius Villa” -- Opere
architettoniche Palazzo Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Loggia
Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Facciata di Santa Maria Novella, Firenze,
Santa Maria Novella Abside di San Martino, 1472-1478, Lastra a Signa, Pieve di
San Martino a Gangalandi Tempietto del Santo Sepolcro, Firenze, Chiesa di San
Pancrazio Tempio Malatestiano (incompiuto), iniziato nel 1450 circa, Rimini,
Tempio Malatestiano Chiesa di San Sebastiano, 1460 circa, Mantova, Chiesa di
San Sebastiano Basilica di Sant'Andrea, 1472-1732, Mantova, Basilica di
Sant'Andrea (Mantova) Palazzo Romei, Vibo Valentia Manoscritti Liber de iure,
scriptus Bononiae anno 1437, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo
manoscritti, Trivia senatoria, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo
manoscritti. Cecil Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki, L.B. Alberti, De pictura, C. Grayson,
Laterza, 1980: versione on line Copia archiviata, su liberliber. Christoph L.
Frommel, Architettura e committenza da Alberti a Bramante, Olschki, 2006, Bernardo Rucellai, De bello italico,
Donatella Coppini, Firenze University Press, De re Aedificatoria In tale occasione manifestò il suo interesse
per la morfologia e l'allevamento dei cavalli con il breve trattato De equo
animante dedicato a Leonello d'Este. De Vecchi-Cerchiari, cit.95.
De Vecchi-Cerchiari, cit.104 Rudolf Wittkower, op. cit. 1993 Rudolf Wittkower,op. cit. 1993 Leon
Battista Alberti, De statua, M. Collareta, 1998
Mario Carpo, L'architettura dell'età della stampa: oralità, scrittura,
libro stampato e riproduzione meccanica dell'immagine nella storia delle teorie
architettoniche, 1998. Simon Singh,
Codici e Segreti45 David Kahn, The Codebreakers, Scribner. Il nome deriva dal
fatto che il libello, di appena 16 carte, è conservato in una copia del 1508 in
un codice in ottavo della Biblioteca vaticana. Lo scritto non ha epigrafe,
pertanto il titolo è stato assegnato in seguito: fu riscoperto infatti nel 1850
e dato alle stampe solo nel 1908.
viviamolacalabria.blogspot.com, viviamolacalabria.blogspot.com//09/esempio-tangibile-di-palazzo-nobiliare.html?m=1.
Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Argentorati, excudebat M. Iacobus
Cammerlander Moguntinus, 1541. Leon
Battista Alberti, De re aedificatoria, Florentiae, accuratissime impressum
opera magistri Nicolai Laurentii Alamani. Leon Battista Alberti, Opere volgari.
1, Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere volgari. 2,
Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere volgari. 4,
Firenze, Tipografia Galileiana, 1847. Leon Battista Alberti, Opere volgari. 5,
Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere, Florentiae, J. C.
Sansoni, Leon Battista Alberti, Trattati d'arte, Bari, Laterza, Leon Battista Alberti, Ippolito e Leonora,
Firenze, Bartolomeo de' Libri, prima. Leon Battista Alberti, Ecatonfilea,
Stampata in Venesia, per Bernardino da Cremona, Leon Battista Alberti, Deifira,
Padova, Lorenzo Canozio, Leon Battista Alberti, Teogenio, Milano, Leonard
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Contarino, Leon Battista Alberti moralista, presentazione di Francesco Tateo,
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Filosofia e teoria dell'arte, introduzione di Dino Formaggio, Guerini, Milano
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Siekiera, linguistica albertiana,
Firenze, Edizioni Polistampa, 2004 (Edizione Nazionale delle Opere di Leon
Battista Alberti, Serie «Strumenti», 2); FrancescoFiore: La Roma di Leon
Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell'antico
nella città del Quattrocento, Skira, Milano, Leon Battista Alberti architetto,
Giorgio Grassi e Luciano Patetta, testi di Giorgio Grassi et alii, Banca CR,
Firenze; Restaurare Leon Battista Alberti: il caso di Palazzo Rucellai,
Simonetta Bracciali, presentazione di Antonio Paolucci, Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, Stefano Borsi, Leon Battista Alberti e Napoli, Polistampa,
Firenze, Gabriele Morolli, Leon Battista Alberti. Firenze e la Toscana,
Maschietto Editore, Firenze, 2006. F. Canali, "Leon Battista Alberti
"Camaleonta" e l'idea del Tempio Malatestiano dalla Storiografia al
Restauro, in Il Tempio della Meraviglia, F. Canali, C. Muscolino, Firenze, F. Canali,
La facciata del Tempio Malatestiano, in Il Tempio della Meraviglia, F. Canali,
C. Muscolino, Firenze, 2007. V. C. Galati, "Ossa" e
"illigamenta" nel De Re aedificatoria. Caratteri costruttivi e
ipotesi strutturali nella lettura della tecnologia antiquaria del cantiere del
Tempio Malatestiano, in Il Tempio della Meraviglia, F. Canali, C. Muscolino,
Firenze, 2007 “Il mito dell’Egitto in Alberti”, in Leon Battista Alberti teorico delle arti e
gli impegni civili del “De re aedificatoria”, Atti dei Convegni internazionali
di studi del Comitato Nazionale per le celebrazioni albertiane, Mantova, Arturo
Calzona, Francesco Paolo Fiore, Alberto Tenenti, Cesare Vasoli, Firenze, Olschki,
Alberti e la cultura del Quattrocento, Atti del Convegno internazionale di
Studi, (Firenze, Palazzo Vecchio, Salone dei Dugento, 16-17-18 dicembre 2004),
R. Cardini e M. Regoliosi, Firenze, Edizioni Polistampa, Brunelleschi, Alberti
e oltre, F. Canali, «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», F. Canali, R Tracce albertiane nella Romagna
umanistica tra Rimini e Faenza, in Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali,
«Bollettino della Società di Studi Fiorentini», 16-17, 2008. V. C. Galati,
Riflessioni sulla Reggia di Castelnuovo a Napoli: morfologie architettoniche e
tecniche costruttive. Un univoco cantiere antiquario tra Donatello e Leon
Battista Alberti?, in Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali, «Bollettino
della Società di Studi Fiorentini», 1F. Canali, V. C. Galati, Leon Battista
Alberti, gli 'Albertiani' e la Puglia umanistica, in Brunelleschi, Alberti e
oltre, F. Canali, «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», G. Morolli,
Alberti: la triiplice luce della pulcritudo, in Brunelleschi, Alberti e oltre,
F. Canali, «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», G. Morolli, Pienza e
Alberti, in Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali, «Bollettino della Società
di Studi Fiorentini», Christoph Luitpold Frommel, Alberti e la porta trionfale
di Castel Nuovo a Napoli, in «Annali di architettura» n° 20, Vicenza leggere l'articolo;
Massimo Bulgarelli, Leon Battista Alberti,Architettura e storia, Electa, Milano
2008; Caterina Marrone, I segni dell'inganno. Semiotica della crittografia,
Stampa Alternativa &a mp;Graffiti, Viterbo; Pierluigi Panza, “Animalia: La
zoologia nel De Re Aedificatoria", Convegno Facoltà di Architettura
Civile, Milano, in Albertiana, S. Borsi, Leon Battista Alberti e Napoli,
Firenze,. V. Galati, Il Torrione quattrocentesco di Bitonto dalla committenza
di Giovanni Ventimiglia e Marino Curiale; dagli adeguamenti ai dettami del De
Re aedificatoria di Leon Battista Alberti alle proposte di Francesco di Giorgio
Martini in Defensive Architecture of the Mediterranean XV to XVIII centuries,
G. Verdiani,, Firenze,, III. V. Galati, Tipologie di Saloni per le udienze nel
Quattrocento tra Ferrara e Mantova. Oeci, Basiliche, Curie e "Logge
all'antica" tra Vitruvio e Leon Battista Alberti nel "Salone dei Mesi
di Schifanoia a Ferrara e nella "Camera Picta" di Palazzo Ducale a
Mantova, in Per amor di Classicismo, F. Canali «Bollettino della Società di
Studi Fiorentini», S. Borsi, Leon Battista, Firenze,. Roberto Rossellini gli ha
dedicato un film- documentario per la TV nintitolato "L'età di Cosimo dei
Medici" (88'). Architettura
rinascimentale Rinascimento fiorentino Rinascimento riminese Rinascimento
mantovano Medaglia di Leon Battista Alberti.TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Leon Battista Alberti, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Leon Battista Alberti, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Leon
Battista Alberti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Leon Battista Alberti, su MacTutor, University of
St Andrews, Scotland. Opere di Leon
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di Leon Battista Alberti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Leon
Battista Alberti,. su Leon Battista Alberti, su Les Archives de littérature du
Moyen Âge. Leon Battista Alberti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. La aggiornata degli studi albertiani dal 1995 in
poi, e le informazioni più recenti sulla ricerca albertiana, su
alberti.wordpress.com. Il sito della Société Internationale Leon Battista
Alberti, su silba-online.eu. Biografia breve, su imss.fi. Fondazione Centro
Studi Leon Battista AlbertiMantova, su fondazioneleonbattistaalberti. Momus,
(testo in latino, Roma 1520), facsimile, progetto Europeana agent/base/ Identitieslccn. Que' che
affermano la lingua latina non essere stata comune a tutti e' populi latini, ma
solo propria di certi dotti scolastici, come oggi la vediamo in pochi, credo
deporranno quello errore vedendo questo nostro opuscolo, in quale io raccolsi
l'uso della lingua nostra in brevissime annotazioni. Qual cosa simile fecero
gl'ingegni grandi e studiosi presso a' Greci prima e po' presso de e' Latini, e
chiamornoqueste simili ammonizioni, atte a scrivere e favellare senza
corruttela, suo nome, grammatica. Questa arte, quale ella sia in la lingua nostra,
leggetemi e intenderetela. I. Ordine delle lettere. i r
t d b v n u m p q g c e o a x z l s f ç ch
gh concordanze II. Vocali. Ogni parola e dizione
toscana finisce in vocale. Solo alcuni articoli de' nomiin l e alcune
preposizioni finiscono in d, n, r. Le cose in molta parte hanno in lingua
toscana que' medesimi nomi che in latino. Non hanno e' Toscani fra e'
nomi altro che masculino e femminino. E' neutrilatini si fanno masculini.
Pigliasi in ogni nome latino lo ablativo singulare, e questo s'usa in ogni
casosingulare, così al masculino come al femminino. A e' nomi masculini
l'ultima vocale si converte in i, e questo s'usa in tutti e' casi
plurali. A e' nomi femminini l'ultima vocale si converte in e, e questo
s'usa in ogni caso plurale per e' femminini. Alcuni nomi femminini in
plurale non fanno in e: come, la mano fa le mani. E ogni nome femminino,
quale in singulare finisca in e, fa in plurale in i: come la orazione, le
orazioni; stagione, stagioni; confusioni, e simili. E' casi de' nomi si
notano co' suoi articoli, dei quali sono vari e' masculini da e'
femminini. Item e' masculini, che cominciano da consonante, hanno certi
articoli non fatti come quando e' cominciano da vocale. Item e' nomi
propri sono vari dagli appellativi. Masculini che cominciano da
consonante hanno articoli simili a questo: 1. SINGULARE. EL
cielo DEL cielo AL cielo EL cielo O cielo DAL cielo. 2. PLURALE.
E' cieli DE' cieli A' cieli E' cieli O cieli DA' cieli. Masculini,
che cominciano da vocale, fanno in singulare simile a questo: 3.
SINGULARE. LO orizzonte DELLO orizonte ALLO orizonte LO orizonte O
orizonte DALLO orizonte. PLURALE. GLI orizonti DEGLI orizonti
AGLI orizonti GLI orizonti O orizonti DAGLI orizonti. E' nomi masculini
che cominciano da s preposta a una consonante hanno articoli simili a quei che
cominciano da vocale, e dicesi: LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e simile.
Questi vedesti che sono vari da quei di sopra nel singulare, el primo articoloe
anche el quarto; ma nel plurale variorono tutti gli articoli. Nomi propri
masculini non hanno el primo articolo, né anche el quarto, e fanno simili a
questi: Propri masculini, che cominciano da consonante, in singulare
fanno così: Cesare DI Cesare A Cesare Cesare O Cesare DA Cesare.
Nomi propri, che cominciano da vocale, nulla variano da' consonanti, eccetto
che al terzo vi si aggiugne d, e dicesi: Agrippa DI Agrippa AD Agrippa,
ecc. In plurale non s'adoperano e' nomi propri, e se pur s'adoperassero,
tutti fanno come appellativi. E' nomi femminini, o propri o appellativi,
o in vocale o in consonante che e' cominciano, tutti fanno simile a
questo: rdanze 5. SINGULARE. LA stella DELLA stella ALLA
stella LA stella O stella DALLA stella. LA aura DELLA aura ALLA aura LA
aura O aura DALLA aura. PLURALE. LE stelle DELLE stelle ALLE
stelle LE stelle O stelle DALLE stelle. LE aure DELLE aure ALLE aure LE
aure O aure DALLE aure. E' nomi delle terre s'usano come propri, e
dicesi: Roma superò Cartagine. E simili a' nomi propri s'usano e' nomi
de' numeri: uno, due, tre, e cento e mille, e simili; e dicesi: tre persone,
uno Dio, nove cieli, e simili. E quei nomi che si referiscono a' numeri
non determinati come ogni, ciascuno, qualunque, niuno, e simili, e come tutti,
parecchi, pochi, molti, e simili, tutti si pronunziano simili a e' nomi propri
senza primo e quartoarticolo. E' nomi che importano seco interrogazione
come chi e che e quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi
interrogatori, come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e'
propri nomi, pur senza primo e quarto articolo, e dicesi: Io sono tale
quale voresti essere tu; e amai tale che odiava me. Chi s'usa circa
alle persone, e dicesi: Chi scrisse? Che significa quanto presso a e'
Latini Qui e Quid. Significando Quid, s'usa circa alle cose, e dicesi: Che
leggi? Significando Qui, s'usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che
scrissi. Chi di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo
sono, sei, è, serve al masculino e al femminino, e dicesi: Chi sarà tua
sposa? Chi fu el maestro? Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone
e pospone. Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e' Latini
Quid e Quantum e Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti costa?
Che, posposto al verbo, significa quanto apresso e' Latini Ut e Quod, come
dicendo: I' voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai. E' nomi,
quando e' dimostrano cosa non certa e diterminata, si pronunziano senza primo e
quarto articolo, come dicendo: Io sono studioso. Invidia lo move. Tu mi
porti amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata, allora
si pronunzianocoll'articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto.
E' nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo
sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu
fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, elprimo, el
secondo, ecc. Uno, due, tre, e simili, quando e' significano ordine, vi
si pone l'articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l'uno. Il dua è numero
paro, ecc. Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s'usa
come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio. Gli articoli hanno
molta convenienza co' pronomi, e ancora e' pronomihanno grande similitudine con
questi nomi relativi qui recitati. Adonquesuggiungeremogli. De' pronomi,
e' primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui. Mutasi
l'ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella, essa. Solo
io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino. E' plurali di
questi primitivi pronomi sono vari, e anche e' singulari. Declinansi
così: Io e i': di me: a me e mi: me e mi: da me. Noi: di noi: a noi
e ci: noi e ci: da noi. Tu: di te: a te e ti: te e ti: o tu: da te.
Voi: di voi: a voi e vi: voi e vi: o voi: da voi. Esso ed e': di se e si:
se e si: da se; ed Egli. Non troverrai in tutta la lingua toscana casi
mutati in voce altrove che in questi tre pronomi: io, tu, esso. Gli altri
primitivi se declinano così: Questo: di questo: a questo: questo: da
questo. Quello: di quello: a quello: quello: da quello. Muta o in i
e arai el plurale, e dirai: Questi: di questi: a questi: questi: da
questi. E il somigliante fa quelli. E così sarà costui e lui e
colui, simili a quegli in singulare; ma in pluralecostui fa costoro, lui fa
loro, colui fa coloro, di coloro, a coloro, coloro, da coloro. Questo e
quello mutano o in a e fassi el femminino singulare, e dicesi:questa e quella;
e fassi il suo plurale: queste, di quelle, a quelle. Lui, costui, colui,
mutano u in e e fassi el singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di
colei, ecc. In plurale hanno quella voce che e' masculini, cioè: loro, coloro,
costoro, di costoro, a costoro, ecc. Vedesti come, simile a' nomi propri,
questi pronomi primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A
questa similitudine fanno e' pronomi derivativi, quando e' sono subiunti a e'
propri nomi. Ma quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co' suoi
articoli. Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così: El
mio, del mio, ecc., e plurale: e' miei, de' miei, ecc. El nostro, del
nostro, ecc. E plurale: e' nostri, de' nostri, ecc. El tuo. Plurale: e'
tuoi. El vostro. Plurale: e' vostri. El suo. E pluraliter: e' suoi,
ecc. Mutasi, come a e' nomi, l'ultima in a, e fassi el singulare
femminino: qual a, converso in e, fassi el plurale, e dicesi: mia e mie;
vostra, vostre; sua e sue. In uso s'adropano questi pronomi non tutti a
un modo. E' derivativi, giunti a questi nomi, padre, madre, fratello,
zio, e simili, si pronunziano senza articolo, e dicesi: mio padre, nostra
madre, e tuo zio, ecc. Mi e me, ti e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono
dativi insieme e accusativi, come di sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo
uso che, preposti al verbo, si dice mi, ti, ci, ecc.; come qui: e' mi chiama;
e' ti vuole; que' vi chieggono; io mi sto; e' si crede. Posposti al
verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro pronome o nome, si dirà come qui: io
amo te, e voglio voi. Si al verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o
pronome si dirà: -i, come qui: aspettaci, restaci, scrivetemi. Lui e
colui dimostrano persone, come dicendo: lui andò, colei venne. Questo e
quello serve a ogni dimostrazione, e dicesi: Questo essercitopredò quella
provincia, e: Questo Scipione superò quello Annibale. E' ed el, lo e la,
le e gli, quali, giunti a' nomi, sono articoli, quando si giungono a e' verbi,
diventano pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la
amai; Tu le biasimi: Chi gli vuole? Ma di questi, egli ed e' hanno
significato singulare e plurale; e, prepostialla consonante, diremo e', come
qui: e' fa bene; e' sono. E, preposti alla vocale, si giugne e' e gli, e
dicesi: egli andò; egli udivano. E quando segue loro s preposta a una
consonante, ancora diremo: egli spiega; egli stavano. Potrei in questi
pronomi essere prolisso, investigando più cose quali s'osservano, simili a
queste: Vi preposto a' presenti singulari indicativi, d'una sillaba, si
scrive in la prima e terza persona per due v, e simile in la seconda persona
presenteimperativa, come stavvi e vavvi; e ne' verbi, d'una e di più sillabe,
la prima singulare indicativa del futuro, come amerovvi, leggerovvi, darotti,
adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose più particulari
diremoaltrove. III. Seguitano e’ verbi. Non ha la lingua
toscana verbi passivi, in voce; ma, per esprimere elpassivo, compone con questo
verbo sono, sei, è, el participio preteritopassivo tolto da e' Latini, in
questo modo: Io sono amato; Tu sei pregiato; Colei è odiata. E simile, si
giugne a tutti e' numeri e tempi e modi di questo verbo. Adonque lo porremo qui
distinto. 1. INDICATIVO. Sono, sei, è. Plurale: siamo, sete,
sono. Ero, eri, era. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate,
erano. Fui, fusti, fu. Plurale: fumo, fusti, furono. Ero,
eri, era stato. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano stati.
Sarò, sarai, sarà. Plurale: saremo, sarete, saranno. Hanno e' Toscani, in
voce, uno preterito quasi testé, quale, in questo verbo, si dice così:
Sono, sei, è stato. Plurale: siamo, sete, sono stati. E dicesi: Ieri fui
ad Ostia; oggi sono stato a Tibuli. ndere i link alle concordanze 2.
IMPERATIVO. Sie tu, sia lui. Plurale: siamo, siate, siano.
Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc. 3. OTTATIVO. Dio ch
'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero. Dio
ch'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati. Dio ch'io
fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati. Dio
ch'io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate, siano. 4. SUBIENTIVO.
Bench'io, tu, lui sia. Plurale: siamo, siate, siano. Bench'io
fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero. Bench'io
sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati. Bench'io fussi,
fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati. Bench'io
sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo, sarete, saranno stati. E usasi
tutto l'indicativo di questo e d'ogni altro verbo, quasi come subientivo,
prepostovi qualche una di queste dizioni: se, quando, benché, e simili. E
dicesi: bench'io fui; se e' sono; quando e' saranno. 5. INFINITO.
Essere, essere stato. 6. GERUNDIO. Essendo 7.
PARTICIPIO. Essente Dirassi adonque, per dimostrare el
passivo: Io sono stato amato; fui pregiato; e sarò lodato; tu sei
reverito. Hanno e' Toscani certo modo subientivo, in voce, non notato da
e' Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei, saresti,
sarebbe. Plurale: saremo, saresti, sarebbero. E dirassi così: Stu fussi
dotto, saresti pregiato. Se fussero amatori dellapatria, e' sarebbero più
felici. IV. Seguitano e’ verbi attivi. Le coniugazioni
de' verbi attivi in lingua toscana si formano dal gerundio latino, levatone le
ultime tre lettere ndo, e quel che resta si fa terza persona singulare
indicativa e presente. Ecco l'essemplo: amandolevane ndo, resta ama; scrivendo
resta scrive. Sono adonque due coniugazioni: una che finisce in a,
l'altra finisce in e. Alla coniugazione in a, quello a si muta in o, e
fassi la prima personasingulare indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi
la seconda; e così si forma tutto il verbo, come vedrai la similitudine qui, in
questo esposto: 1. INDICATIVO. Amo, ami, ama. Plurale:
amiamo, amate, amano. Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate,
amavano. Amai, amasti, amò. Plurale: amamo, amasti, amarono.
Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato. Amerò,
amerai, amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno. In questa lingua ogni
verbo finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione
prima, finisce ancora in o la terza singulare indicativadel preterito. Ma
ècci differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del presente
lo fa o breve. 2. IMPERATIVO. Ama tu, ami lui. Plurale:
amiamo, amate, amino. Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo,
ecc. 3. OTTATIVO. Dio ch'io amassi, tu amassi, lui amasse.
Plurale: Dio che noi amassimo, voi amassi, loro amassero. Dio ch'io
abbia, tu abbi, lui abbia amato. Plurale: Dio che noi abbiamo, abbiate, abbino
amato. Dio ch'io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che
noi avessimo, avessi, avessero amato. Dio ch'io, tu, lui ami. Plurale:
amiamo, amiate, amino. 4. SUBIENTIVO. Bench'io, tu, lui ami.
Plurale: amiamo, amiate, amino. Bench'io, tu amassi, lui amasse.
Plurale: amassimo, amassi, amassero. Bench'io abbia, abbi, abbia amato.
Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato. Bench'io avessi, tu avessi, lui
avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero amato. Bench'io arò,
arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno amato. 5. ASSERTIVO.
Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale: ameremo, ameresti, amerebbero.
6. INFINITO. Amare, avere amato. 7. GERUNDIO. Amando.
8. PARTICIPIO. Amante. Vedi come a e' tempi testé perfetti e
al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per questo si composero
simile a' verbi passivi: el suo participio co' tempi e voci di questo verbo ho,
hai, ha. Qual verbo, benché e' sia della coniugazione in a, pur non
sequita la regola esimilitudine degli altri, però che egli è verbo d'una
sillaba, e così tutti e'monosillabi sono anormali. Né troverrai in tutta
la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei: Do; Fo; Ho; Vo; Sto;
Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti. Ma, per esser breve, notiamo
che e' sono insieme dissimili ne e' preteritiperfetti indicativi, e ne'
singulari degli imperativi, e nel singulare del futuroottativo, ne' quali e'
fanno così: DO: diedi, desti, dette. Plurale: demo, desti, dettero.
FO: feci, facesti, fece. Plurale: facemo, facesti, fecero. HO: ebbi,
avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti, ebbero. VO: andai, andasti, andò.
Plurale: andamo, andasti, andarono. STO: stetti, stesti, stette. Plurale:
stemo, stesti, stettero. TRO: tretti, traesti, trette. Plurale: traemo,
traesti, trettero. In tutti e' verbi, come fa la seconda persona
singulare del preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti, desti,
leggesti. DO: da tu, dia lui. FO: fa tu, faccia lui. HO: abbi
tu, abbia lui. VO: va tu, vada lui. STO: sta tu, stia lui.
TRO: tra tu, tria lui. DO: Dio ch'io dia, tu dia, lui dia. FO:
faccia, facci, faccia. HO: abbia, abbi, abbia. VO: vada, vadi,
vada. STO: stia, stii, stia. TRO: tragga, tragghi, tragga. V.
Seguita la coniugazione in e. Questa si forma simile alla
coniugazione in a. Mutasi quello e in o, e fassi la prima presente indicativa.
Mutasi in i, e fassi la seconda, come qui: leggente e scrivente, levatone nte,
resta legge, scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia
dalla coniugazione in ain que' luoghi dove variano e' monosillabi. Ma questa
coniugazione in e varia in più modi, benché comune faccia e' preteriti perfetti
indicativiin -ssi, per due s, come: leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que'
verbi che finiscono in -sco fanno e' preteriti in -ii per due i, come esco,
uscii;ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per più suavità, nella
linguatoscana non si pronunziano due iunte vocali. Da questi verbi si
eccettuano cresco ed e' suoi compositi, rincresco, accresco, e simili, quali
finiscono, a' preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi, rincrebbi. Item,
nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que' verbi che finiscono in mo fanno e'
preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che finiscono in do fanno e'
preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo, sparsi; eccetto vedo fa
vidi; odo, udi'; cado, caddi; godo, godei e godetti. E quegli che finiscono in
ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi; rispondo, risposi; eccetto
vendo fa vendei e vendetti. Sonci di queste regole forse altre eccezioni,
ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui diletterà
ornare la patrianostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi. Dicemo de'
preteriti, resta a dire degli altri. 1. IMPERATIVO. Leggi tu,
legga colui. 2. OTTATIVO. Futuro singulare: Dio ch'io scriva,
tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti. Verbi impersonali si formano
della terza persona del verbo attivo in tutti e' modi e tempi, giuntovi si,
come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole trasporlo innanzi al
verbo, giuntovi e', e dicesi: e' si legge; e' si corre; e massime nell'ottativo
e subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e' s'ami; quando e' si
leggera', e simile. VI. Seguitano le preposizioni. Di queste
alcune non caggiono in composizione, e sono queste: oltre, sino, dietro, doppo,
presso, verso, 'nanzi, fuori, circa. Preposizioni che caggiono in composizione
e ancora s'adoperano seiunte, sono di una sillaba o di più. D'una sillaba
sono queste: DE: de' nostri; detrattori. AD: ad altri;
admiratori. CON: con certi; conservatori. PER: per tutti;
pertinace. DI: di tanti; diminuti. IN: in casa; importati.
Di, preposto allo infinito, ha significato quasi come a' Latini ut. E dicono:
Io mi sforzo d'essere amato. Quelle de più sillabe sono queste:
SOTTO sottoposto SOPRA sopraposto e dicesi ENTRO
entromesso CONTRO contraposto Preposizioni quali s'adoperano solo
in composizione: Re, sub, ob, se, am, tras, ab, dis, ex, pre, circum;
onde si dice: trasposi e circumspetto. VII. Seguitano gli avverbi.
Per e' tempi, si dice: oggi, testé, ora, ieri, crai, tardi, omai, già,
allora, prima, poi, mai, sempre, presto, subito. Per e' luoghi, si dice:
costì, colà, altrove, indi, entro, fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci,
e ivi e vi. Onde si dice: Io voglio starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e
io vi starò, pro ivi. Pelle cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno.
Negando, si dice: nulla, no, niente, né. Affirmando, si dice: sì, anzi,
certo, alla fe'. Domandando, si dice: perché, onde, quando, come,
quanto. Dubitando: forse. Narrando, si dice: insieme, pari, come,
quasi, così, bene, male, peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto.
Usa la lingua toscana questi avverbi, in luogo di nomi, giuntovi l'articolo, e
dice: el bene, del bene, ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e
dicono: el leggere, del leggere. Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti
insieme, solo in principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno
articolo, e dicesi: el tuo buono amare mi piace. Item, a similitudine
della lingua gallica, piglia el Toscano e' nomisingulari femminini adiettivi e
aggiungevi -mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente,
magramente. VIII. Interiezioni. Sono queste: hen, hei, ha, o,
hau, ma, do. IX. Coniunzioni. Sono queste: mentre, perché,
senza, se, però, benché, certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi
(sic). E congiunge; né disiunge; o divide; senza si lega solo a' nomi e
agli infiniti. E dicesi: senza più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né
lei siano indotti; o piaccia o dispiaccia questa mia invenzione. E questo
ne ha vario significato e vario uso. Se si prepone simplice a' nomi, a' verbi,
a' pronomi, significa negazione, come qui: né tu né io meritiamo invidia. E
significa in; ma, aggiuntovi l, serve a' singularimasculini e femminini; e
senza l, serve a' plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri
plurali, masculini e femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla
consonante, pur si dice: nello spazzo, nelle camere, ne' letti, nello essercito
di Dario, negli orti. E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome,
significa di qui, di questo, di quello, secondo che l'altre dizioni vi si
adatteranno, come chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene. E questo ne,
posposto al verbo, sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e
più, o significa interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo
l'indicativo monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza
persona, per due n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne
io? va' ne tu? vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e
dicesi: vanne, danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui,
traggane. E questi monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si
scrive per due n, e dicono: fonne, vonne, honne. Se sarà el verbo di più
sillabe, la interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e'
tempi, eccetto la affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come
dicendo: portera' ne tu? porteronne. E questo sino qui detto s'intenda per e'
singulari, però che a' plurali siscrive quello ne sempre per uno n, come
andiamone. Non mi stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci
intendere e' principi d'investigare lo avanzo. E' vizi del favellare in
ogni lingua sono o quando s'introducono alle cose nuovi nomi, o quando gli
usitati si adoperano male. Adoperanosimale, discordando persone e tempi, come
chi dicesse: tu ieri andaremoalla mercati. E adoperanosi male usandogli in
altro significato alieno, come chi dice: processione pro possessione.
Introduconsi nuovi nomio in tutto alieni e incogniti o in qualunque parte
mutati. Alieni sono in Toscana più nomi barberi, lasciativi da gente
Germana, quale più tempo militò in Italia, come elm, vulasc, sacoman, bandier,
e simili. In qualche parte mutati saranno quando alle dizionis'aggiungerà o
minuirà qualche lettera, come chi dicesse: paire pro patre, e maire pro matre.
E mutati saranno come chi dicesse: replubicapro republica, e occusfato pro
offuscato; e quando si ponesse una lettera per un'altra, come chi dicesse:
aldisco pro ardisco, inimisi pro inimici. Molto studia la lingua toscana
d'essere breve ed espedita, e per questo scorre non raro in qualche nuova
figura, qual sente di vizio. Ma questivizi in alcune dizioni e prolazioni
rendono la lingua più atta, come chi, diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime
l'ultima vocale, e dice papi, e Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde
s'usa che a tutti gl'infiniti, quando loro segue alcuno pronome in i, allora si
gettal'ultima vocale e dicesi: farti, amarvi, starci, ecc. E, mutando
lettere, dicono mie pro mio e mia, chieggo pro chiedo,paio pro paro, inchiuso
pro incluso, chiave pro clave. E, aggiugnendo, dice vuole pro vole, scuola pro
scola, cielo pro celo. E, in tuttotroncando le dizioni, dice vi pro quivi, e
similiter, stievi pro stia ivi. Si questo nostro opuscolo sarà tanto
grato a chi mi leggerà, quanto fu laborioso a me el congettarlo, certo mi
diletterà averlo promulgato, tanto quanto mi dilettava investigare e raccorre
queste cose, a mio iudizio, degne e da pregiarle. Laudo Dio che in la
nostra lingua abbiamo omai e' primi principi: di quello ch'io al tutto mi
disfidava potere assequire. Cittadini miei, pregovi, se presso di voi
hanno luogo le mie fatighe, abbiate a grado questo animo mio, cupido di onorare
la patria nostra. E insieme, piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in
parte alcuna ci vedete errore. Que’ che affermano la lingua latina non
essere stata comune a tutti e’ populi latini, ma solo propria di certi dotti
scolastici, come oggi la vediamo in pochi, credo deporranno quello errore
vedendo questo nostro opuscolo, in quale io raccolsi l’uso della lingua nostra
in brevissime annotazioni. Qual cosa simile fecero gl’ingegni grandi e studiosi
presso a’ Greci prima e po’ presso de e’ Latini, e chiamorno queste simili
ammonizioni, atte a scrivere e favellare senza corruttela, suo nome,
grammatica. Questa arte, quale ella sia in la lingua nostra, leggetemi e
intenderetela. Ordine delle lettere I r t d b v n u m p q g c e o a x
z l s f ç ch gh Vocali a ę ẻ i o ô u ę è é ę Coniunctio ể Verbum ẻ
Articulus el ghiro girò al çio el zembo. e volse pôrci a’ porci quèllo chẻ ể pẻlla
pelle. [p. facsimile1] Tavv. 1-2. Roma, Bibl. Vaticana, Cod. Vat.
Reginense Lat. 1370, «Della thoscana senza auttore», cc 1r-v (cfr. p.
361) [p. 178] Ogni parola e dizione toscana finisce in vocale. Solo
alcuni articoli de’ nomi in l e alcune preposizioni finiscono in d, n, r.
Le cose in molta parte hanno in lingua toscana que’ medesimi nomi che in
latino. Non hanno e’ Toscani fra e’ nomi altro che masculino e femminino.
E’ neutri latini si fanno masculini. Pigliasi in ogni nome latino lo
ablativo singulare, e questo s’usa in ogni caso singulare, così al masculino
come al femminino. A e’ nomi masculini l’ultima vocale si converte in i,
e questo s’usa in tutti e’ casi plurali. A e’ nomi femminini l’ultima
vocale si converte in e, e questo s’usa in ogni caso plurale per e’
femminini. Alcuni nomi femminini in plurale non fanno in e: come, la mano
fa le mani. E ogni nome femminino, quale in singulare finisca in e, fa in
plurale in i: come la orazione, le orazioni; stagione, stagioni; confusioni, e
simili. E’ casi de’ nomi si notano co’ suoi articoli, dei quali sono vari
e’ masculini da e’ femminini. Item e’ masculini, che cominciano da consonante,
hanno certi articoli non fatti come quando e’ cominciano da vocale. Item
e’ nomi propri sono vari dagli appellativi. Masculini che cominciano da
consonante hanno articoli simili a questo: singulare
EL cielo DEL cielo AL cielo EL cielo O cieloDAL cielo Plurale
E’ cieli DE’ cieli A’ cieli E’ cieli O cieli DA’ cieli. Masculini, che
cominciano da vocale, fanno in singulare simile a questo: [p. 179]
Singulare LO orizzonte DELLO orizonte ALLO orizonteLO orizonte O orizonte
DALLO orizonte Plurale GLI orizonti DEGLI orizonti
AGLI orizontiGLI orizonti ⟨O orizonti⟩ DAGLI orizonti.
E’ nomi masculini che cominciano da s preposta a una consonante hanno articoli
simili a quei che cominciano da vocale, e dicesi: LO spedo, LO stocco, GLI
spedi, e simile. Questi vedesti che sono vari da quei di sopra nel
singulare, el primo articolo e anche el quarto; ma nel plurale variorono tutti
gli articoli. Nomi propri masculini non hanno el primo articolo, né anche
el quarto, e fanno simili a questi: Propri masculini, che cominciano da
consonante, in singulare fanno così: Cesare DI Cesare A Cesare Cesare O CesareDA Cesare.
Nomi propri, che cominciano da vocale, nulla variano da’ consonanti, eccetto
che al terzo vi si aggiugne d, e dicesi: Agrippa DI Agrippa AD Agrippa,
ecc. In plurale non s’adoperano e’ nomi propri, e se pur s’adoperassero, tutti
fanno come appellativi. E’ nomi femminini, o propri o appellativi, o in
vocale o in consonante che e’ cominciano, tutti fanno simile a questo:
Singulare LA stella DELLA stella ALLA stella LA stellaO stella
DALLA stella. LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O auraDALLA aura. [p.
180] Plurale LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O
stelleDALLE stelle. LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aureDALLE aure. E’
nomi delle terre s’usano come propri, e dicesi: Roma superò Cartagine. E
simili a’ nomi propri s’usano e’ nomi de’ numeri: uno, due, tre, e cento e
mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e simili. E
quei nomi che si referiscono a’ numeri non determinati come ogni, ciascuno,
qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi, molti, e simili,
tutti si pronunziano simili a e’ nomi propri senza primo e quarto
articolo. E’ nomi che importano seco interrogazione come chi e che e
quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori,
come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e’ propri nomi,
pur senza primo e quarto articolo, e dicesi: Io sono tale quale voresti
essere tu; e amai tale che odiava me. Chi s’usa circa alle persone, e
dicesi: Chi scrisse? Che significa quanto presso a e’ Latini Qui e Quid.
Significando Quid, s’usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi? Significando
Qui, s’usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che scrissi. Chi
di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo sono, sei, è,
serve al masculino e al femminino, e dicesi: Chi sarà tua sposa? Chi fu el
maestro? Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone e pospone.
Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e’ Latini Quid e Quantum e
Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti costa? Che,
posposto al verbo, significa quanto apresso e’ Latini Ut e Quod, come dicendo:
I’ voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai. E’ nomi, quando e’
dimostrano cosa non certa e diterminata, [p. 181]si pronunziano senza primo e
quarto articolo, come dicendo: Io sono studioso. Invidia lo move. Tu mi porti
amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata, allora si pronunziano
coll’articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto. E’ nomi simili
a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo sono, sei, è,
non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu fusti terzo e io
secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, el primo, el secondo,
ecc. Uno, due, tre, e simili, quando e’ significano ordine, vi si pone
l’articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l’uno. Il dua è numero paro,
ecc. Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s’usa come
proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio. Gli articoli hanno molta
convenienza co’ pronomi, e ancora e’ pronomi hanno grande similitudine con
questi nomi relativi zs qui recitati. Adonque suggiungeremogli. De’
pronomi, e’ primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui.
Mutasi l’ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella,
essa. Solo io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino. E’
plurali di questi primitivi pronomi sono vari, e anche e’ singulari. Declinansi
così: Io e i’: di me: a me e mi: me e mi: dame. Noi: di noi: a noi e ci:
noi e ci: da noi. Tu: di te: ⟨a te⟩ e ti: te e ti: o tu: da te. Voi: di voi:
a voi e vi: ⟨voi e
vi⟩: o
voi: da voi. Esso ed e’: di se e si: se e si: da se; ed Egli. Non
troverrai in tutta la lingua toscana casi mutati in voce altrove che in questi
tre pronomi: io, tu, esso. Gli altri primitivi se declinano così:
Questo: di questo: a questo: questo: da questo. Quello: di quello: a quello:
quello: da quello. Muta o in i e arai el plurale, e dirai:
Questi: di questi: a questi: questi: da questi. [p. 182] E il
somigliante fa quelli E così sarà costui e lui e colui, simili a quegli
in singulare; ma in plurale costui fa costoro, lui fa loro, colui fa coloro, di
coloro, a coloro, coloro, da coloro. Questo e quello mutano o in a e
fassi el femminino singulare, e dicesi: questa e quella; e fassi il suo
plurale: queste, di quelle, a quelle. Lui, costui, colui, mutano u in e e
fassi el singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di colei, ecc. In
plurale hanno quella voce che e’ masculini, cioè: loro, coloro, costoro, di
costoro, a costoro, ecc. Vedesti come, simile a’ nomi propri, questi
pronomi primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A questa
similitudine fanno e’ pronomi derivativi, quando e’ sono subiunti a e’ propri
nomi. Ma quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co’ suoi
articoli. Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così: El
mio, del mio, ecc., e plurale: e’ miei, de’ miei,ecc. El nostro, del nostro,
ecc. E plurale: e’ nostri, de’ nostri, ecc. El tuo. Plurale: e’ tuoi. El
vostro. Plurale: e’ vostri. El suo. E pluraliter: e’ suoi, ecc. Mutasi,
come a e’ nomi, l’ultima in a, e fassi el singulare femminino: qual a, converso
in e, fassi el plurale, e dicesi: mia e mie; vostra, vostre; sua e sue.
In uso s’adropano questi pronomi non tutti a un modo. E’ derivativi,
giunti a questi nomi, padre, madre, fratello, zio, e simili, si pronunziano
senza articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre, e tuo zio, ecc. Mi e
me, ti e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono dativi insieme e accusativi, come
di sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo uso che, preposti al verbo, si
dice mi, ti, ci, ecc.; come qui: e’ mi chiama; e’ ti vuole; que’ vi chieggono;
io mi sto; e’ si crede. Posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi
altro pronome o nome, si dirà come qui: io amo te, e voglio voi. [p. 183]
Si al verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o pronome, si dirà: -i, come
qui: aspettaci, restaci, scrivetemi. Lui e colui dimostrano persone, come
dicendo: lui andò, colei venne. Questo e quello serve a ogni
dimostrazione, e dicesi: Questo essercito predò quella provincia, e: Questo
Scipione superò quello Annibale. E’ ed el, lo e la, le e gli, quali,
giunti a’ nomi, sono articoli, quando si giungono a e’ verbi, diventano
·pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le
biasimi; Chi gli vuole? Ma di questi, egli ed e’ hanno significato singulare
e plurale; e, preposti alla consonante, diremo e’, come qui: e’ fa bene; e’
corsono. E, preposti alla vocale, si giugne e’ e gli, e dicesi: egli andò; egli
udivano. E quando ⟨segue⟩ loro s preposta a una consonante, ancora
diremo: egli spiega; egli stavano. Potrei in questi pronomi essere
prolisso, investigando più cose quali s’osservano, simili a queste: Vi
preposto a’ presenti singulari indicativi, d’una sillaba, si scrive in la prima
e terza persona per due v, e simile in la seconda persona presente imperativa,
come stavvi e vavvi; e ne’ verbi, d’una e di più sillabe, la prima singulare
indicativa del futuro, come amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e
simile. Ma forse di queste cose più particulari diremo altrove.
Sequitano e’ Verbi Non ha la lingua toscana verbi passivi, in
voce; ma, per esprimere el passivo, compone con questo verbo sono, sei, è, el
participio preterito passivo tolto da e’ Latini, in questo modo: Io sono amato;
Tu sei pregiato; Colei è odiata. E simile, si giugne a tutti e’ numeri e tempi
e modi di questo verbo. Adonque lo porremo qui distinto. [p. 184]
Indicativo Sono, sei, è. Plurale: siamo, sete, sono. Ero,
eri, era. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano. Fui, fusti,
fu. Plurale: fumo, fusti, furono. Ero, eri, era stato. Plurale: eravamo e
savamo, eravate e savate, erano stati. Sarò, sarai, sarà. Plurale:
saremo, sarete, saranno. Hanno e’ Toscani, in voce, uno preterito quasi
testé, quale, in questo verbo, si dice cosi: Sono, sei, è stato. Plurale:
siamo, sete, sono stati. E dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a
Tibuli. Imperativo Sie tu, sia lui. Plurale: siamo,
siate, siano. Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc.
Ottativo Dio ch’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo,
fussi, fussero. Dio ch’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate,
siano stati. Dio ch’io fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi,
fussero stati. Dio ch’io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate,
siano. Subientivo Bench’io, tu, lui sia. Plurale:
siamo, siate, siano. Bench’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale:
fussimo, fussi, fussero. Bench’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo,
siate, siano stati. [p. 185] Bench’io fussi, fussi, fusse stato. Plurale:
fussimo, fussi, fussero stati. Bench’io sarò, sarai, sarà stato. Plurale:
saremo, sarete, saranno stati. E usasi tutto l’indicativo di questo e
d’ogni altro verbo, quasi s come subientivo, prepostovi qualche una di queste
dizioni: se, quando, benché, e simili. E dicesi: bench’io fui; se e’ sono;
quando e’ saranno. Infinito Essere, essere stato
Gerundio Essendo Participio
Essente Dirassi adonque, per dimostrare el passivo: Io sono stato
amato; fui pregiato; e sarò lodato; tu sei reverito. Hanno e’ Toscani
certo modo subientivo, in voce, non notato da e’ Latini; e parmi da nominarlo
asseverativo, come questo: Sarei, saresti, sarebbe. Plurale: saremo, saresti,
sarebbero. E dirassi così: Stu fussi dotto, saresti pregiato. Se fussero
amatori della patria, e’ sarebbero più felici. Sequitano e’ verbi
attivi Le coniugazioni de’ verbi attivi in lingua toscana si
formano dal gerundio latino, levatone le ultime tre ·lettere ndo, e quel che
resta si fa terza persona singulare indicativa e presente. Ecco l’essemplo:
amando, levane ndo, resta ama; scrivendo, resta scrive. [p. 186] Sono
adonque due coniugazioni: una che finisce in a, l’altra finisce in e.
Alla coniugazione in a, quello a si muta in o, e fassi la prima persona
singulare indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi la seconda; e così si
forma tutto il verbo, come vedrai la similitudine qui, in questo esposto:
Indicativo Amo, ami, ama. Plurale: amiamo, amate, amano.
Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate, amavano. ⟨Amai, amasti, amò. Plurale: amamo, amasti,
amarono⟩.
Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato. Amerò, amerai,
amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno. In questa lingua ogni verbo
finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione prima,
finisce ancora in o la terza singulare indicativa del preterito. Ma ècci
differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del presente
lo fa o breve. Imperativo Ama tu, ami lui. Plurale: amiamo,
amate, amino. Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo, ecc.
Ottativo Dio ch’io amassi, tu amassi, lui amasse. Plurale: Dio che noi
amassimo, voi amassi, loro amassero. Dio ch’io abbia, tu abbi, lui abbia
amato. Plurale: Dio che noiu abbiamo, abbiate, abbino amato. Dio ch’io avessi,
tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che noi avessimo, avessi, avessero
amato. Dio ch’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino. [p.
187] Subientivo Bench’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo,
amiate, amino. Bench’io, tu amassi, lui amasse. Plurale: amassimo, amassi,
⟨amasse⟩ro. Bench’io abbia, abbi, abbia
amato. Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato. Bench’io avessi, tu
avessi, lui avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero amato.
Bench’io arò, arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno amato.
Assertivo Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale: ameremo, ameresti,
amerebbero. Infinito amare, avere amato. Gerundio
Amando. Indicativo Amante. Vedi come a e’ tempi testé
perfetti e al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per questo si composero
simile a’ verbi passivi: el suo participio co’ tempi e voci di questo verbo ho,
hai, ha. Qual verbo, benché e’ sia della coniugazione in a, pur non
sequita la regola e similitudine degli altri, però che egli è verbo d’una
sillaba, e così tutti e’ monosillabi sono anormali. [p. 188] Né troverrai
in tutta la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei: Do; Fo; Ho;
Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti. Ma, per esser breve,
notiamo che e’ sono insieme dissimili ne e’ preteriti perfetti indicativi, e
ne’ singulari degli imperativi, e nel singulare del futuro ottativo, ne’ quali
e’ fanno così: Do: diedi, desti, dette. Plurale: demo, desti,
dettero. Fo: feci, facesti, fece. Plurale: facemo, facesti, fecero.
Ho: ebbi, avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti, ebbero. Vo: andai,
andasti, andò. Plurale: andamo, andasti, andarono. Sto: stetti, stesti,
stette. Plurale: stemo, stesti, stettero. Tro: tretti, traesti, trette.
Plurale: traemo, traesti, trettero. In tutti e’ verbi, come fa la seconda
persona singulare del preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti,
desti, leggesti. Do: da tu, dia lui. Fo: fa tu, faccia lui.
Ho: abbi tu, abbia lui. Vo: va tu, vada lui. Sto: sta tu, stia lui.
Tro: tra tu, tria lui. Do: Dio ch’io dia, tu dia, lui dia.
Fo: faccia, facci, faccia. Ho: abbia, abbi, abbia. Vo: vada, vadi,
vada. Sto: stia, stii, stia. Tro: tragga, tragghi, tragga.
Sequita la coniugazione in e. Questa si forma simile alla
coniugazione in a. Mutasi quello e in o, e fassi la prima presente indicativa.
Mutasi in i, e fassi la [p. 189]seconda, come qui: leggente e scrivente,
levatone nte, resta legge, scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò,
ecc. Solo varia dalla coniugazione in a in que’ luoghi dove variano e’
monosillabi. Ma questa coniugazione in evaria in più modi, benché comune faccia
e’ preteriti perfetti indicativi in -ssi, per due s, come: leggo, lessi;
scrivo, scrissi. Ma que’ verbi che finiscono in -scofanno e’ preteriti in -ii
per due i, come esco, uscii; ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per
più suavità, nella lingua toscana non si pronunziano due iunte vocali. Da
questi verbi si eccettuano cresco ed e’ suoi compositi, rincresco, accresco, e
simili, quali finiscono, a’ preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi,
rincrebbi. Item, nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que’ verbi che
finiscono in mo fanno e’ preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che
finiscono in dofanno e’ preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo,
sparsi; eccetto vedo fa vidi; odo, udi’; cado, caddi; godo, godei e godetti. E
quegli che finiscono in ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi;
rispondo, risposi; eccetto vendo fa vendei e vendetti. Sonci di queste
regole forse altre eccezioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa.
Chi che sia, a cui diletterà ornare la patria nostra, aggiugnerà qui quello che
ci manchi. Dicemo de’ preteriti, resta a dire degli altri.
Imperativo Leggi tu, legga colui. Ottativo Futuro singulare:
Dio ch’io scriva, tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti. Verbi impersonali
si formano della terza persona del verbo attivo in tutti e’ modi e tempi,
giuntavi si, come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole trasporlo
innanzi al verbo, giuntovi e’, e dicesi: e’ si legge; e’ si corre; e massime
nell’ottativo e [p. 190]subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e’
s’ami; quando e’ si leggerà, e simile. sequitano le preposizioni
Di queste alcune non caggiono in composizione, e sono queste: oltre,
sino, dietro, doppo, presso, verso, ’nanzi, fuori, circa. Preposizioni
che caggiono in composizione e ancora s’adoperano seiunte, sono di una sillaba
o di più. D’una sillaba sono queste: De: de’ nostri; detrattori.
Ad: ad altri; admiratori. Con: con certi; conservatori. Per: per tutti; pertinace.
Di: di tanti; diminuti. In: in casa; importati. Di, preposto allo infinito, ha
significato quasi come a’ Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d’essere
amato. Quelle de più sillabe sono queste: Sotto sottoposto Sopra sopraposto
e dicesi Entro entromesso Contro contraposto
Preposizioni quali s’adoperano solo in composizione: Re, sub, ob, se, am, tras,
ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e circumspetto.
Sequitano gli avverbi Per e’ tempi, si dice: oggi, testé, ora,
ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai, sempre, presto, subito.
[p. 191] Per e’ luoghi, si dice: costì, colà, altrove, indi, entro,
fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi. Onde si dice: Io voglio
starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò, pro ivi. Pelle
cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno. Negando, si dice: nulla,
no, niente, né. Affirmando, si dice: sì, anzi, certo, alla fe’.
Domandando, si dice: perché, onde, quando, come, quanto. Dubitando:
forse. Narrando, si dice: insieme, pari, come, quasi, così, bene, male,
peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto. Usa la lingua toscana
questi avverbi, in luogo di nomi, giuntavi l’articolo, e dice: el bene, del bene,
ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e dicono: el leggere, del
leggere. Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti insieme, solo in
principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno articolo, e
dicesi: el tuo buono amare mi piace. Item, a similitudine della lingua
gallica, piglia el Toscano e’ nomi singulari femminini adiettivi e aggiungevi
-mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente, magramente. Interiezioni
Sono queste: hen, hei, ha, o, hau, ma, do. Coniunzioni
Sono queste: mentre, perché, senza, se, però, benché, certo, adonque,
ancora, ma, come, e, né, o, segi (sic). E congiunge; né disiunge; o
divide; senza si lega solo a’ nomi e agli infiniti. E dicesi: senza più
scrivere; tu e io studieremo; che né lui né lei siano indotti; o piaccia o
dispiaccia questa mia invenzione. E questo ne ha vario significato e
vario uso. Se si prepone simplice a’ nomi, a’ verbi, a’ pronomi, significa
negazione, come [p. 192]qui: né tu né io meritiamo invidia. E significa in; ma,
aggiuntovi t, serve a’ singulari masculini e femminini; e senza l, serve a’
plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri plurali, masculini e
femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla consonante, pur si dice:
nello spazzo, nelle camere, ne’ letti, nello essercito di Dario, negli
orti. E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome, significa di
qui, di questo, di quello, secondo che l’altre dizioni vi si adatteranno, come
chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene. E questo ne, posposto al verbo,
sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e più, o significa
interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo l’indicativo
monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza persona, per due
n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne io? va’ ne tu?
vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e dicesi: vanne,
danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi
monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si scrive per due n, e
dicono: fonne, vonne, honne. Se sarà el verbo di più sillabe, la
interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e’ tempi, eccetto la
affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come dicendo: portera’ ne
tu? porteronne. E questo sino qui detto s’intenda per e’ singulari, però che a’
plurali si scrive quello ne sempre per uno n, come andiamone. Non mi
stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci intendere e’ principi
d’investigare lo avanzo. E’ vizi del favellare in ogni lingua sono o
quando s’introducono alle cose nuovi nomi,o quando gli usitati si adoperano
male. Adoperanosi male, discordando persone e tempi, come chi dicesse: tu
ieri andaremo alla mercati. E adoperanosi male usandogli in altro significato
alieno, come chi dice: processione pro possessione. Introduconsi nuovi
nomi o in tutto alieni e incogniti o in qualunque parte mutati. Alieni
sono in Toscana più nomi barberi, lasciativi da gente Germana, quale più tempo
militò in Italia, come elm, vulasc, [p. 193]sacoman, bandier, e simili. In
qualche parte mutati saranno quando alle dizioni s’aggiungerà o minuirà qualche
lettera, come chi dicesse: paire pro patre, e maire pro matre. E mutati saranno
come chi dicesse: replubica pro republica, e occusfato pro offuscato; e quando
si ponesse una lettera per un’altra, come chi dicesse: aldisco pro ardisco,
inimisi, pro inimici. Molto studia la lingua toscana d’essere breve ed
espedita, e per questo scorre non raro in qualche nuova figura, qual sente di
vizio. Ma questi vizi in alcune dizioni e prolazioni rendono la lingua più
atta, come chi, diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime l’ultima vocale,
e dice papi, e Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde s’usa che a tutti
gl’infiniti, quando loro segue alcuno pronome in i, allora si getta l’ultima
vocale e dicesi: farti, amarvi, starei, ecc. E, mutando lettere, dicono
mie pro mio e mia, chieggo pro chiedo, paio pro paro, inchiuso pro incluso,
chiave pro clave. E, aggiugnendo, dice vuolepro vole, scuola pro scola, cielo
pro celo. E, in tutto troncando le dizioni, dice vi pro quivi, e
similiter, stievi pro stia ivi. Si questo questo nostro opuscolo sarà
tanto grato a chi mi leggerà, quanto fu laborioso a me el congettarlo, certo mi
diletterà averlo promulgato, tanto quanto mi dilettava investigare e raccorre
queste cose, a mio iudizio, degne e da pregiarle. Laudo Dio che in la
nostra lingua abbiamo omai e’ primi principi: di quello ch’io al tutto mi
disfidava potere assequire. Cittadini miei, pregavi, se presso di voi
hanno luogo le mie fatighe, abbiate a grado questo animo mio, cupido di onorare
la patria nostra. E insieme, piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in
parte alcuna ci vedete errore. Della Thoscana senza auttore; cc. 55r-94v:
Ant. Galateus de Sìtu Iapigiae; cc. 95r-104v: Ant. Turcheti Oratio; cc.
105r-108v: Iusti Baldini [Oratio]; cc. 109r-113v: una rassegna delle regioni di
Roma antica, attribuita a Paulus Victor. Per la descrizione e la storia del
codice vedi l’ed. del 1964, pp. xi-xviii, cit. qui sotto. [p. 362]
Firenze Biblioteca Riccardiana 2. Cod. Moreni 2. Cod. cart. sec. XV, contenente
tre opere dell’Alberti precedute da un foglio di guardia in pergamena, ora num.
I, al cui verso:figura l’abbozzo autografo dell’Ordine delle Lettere,
corrispondente con alcune varianti all’inizio della grammatica nel cod.
Vaticano. Per la descrizione del cod. vedi vol. II, pp. 405 sgg. della presente
edizione e cfr. C. Colombo, L. B. Alberti e la prima grammatica italiana, in
«Studi Linguistici Italiani)), III, 1962, pp. I76-87, e la nostra ed. cit. qui
sotto, pp. vi-viii. edizioni 1. C. Trabalza, Storia della
grammatica italiana, Firenze, 1908, pp. 531-48. 2. L. B. Alberti, La
prima grammatica della lingua volgare, a cura di C. Grayson, Bologna,
Commissione per i Testi di Lingua, 1964. B) LA PRESENTE EDIZIONE Il
testo della presente edizione è in sostanza quello medesimo da noi pubblicato
nel 1964. Ci siamo limitati a correggere alcune sviste ed errori tipografici e
ad introdurre qualche lieve emendamento in seguito alle osservazioni fatte in
recensioni a quella edizione del 1964, tra cui l’attento esame
particolareggiato di Ghino Ghinassi in «Lingua Nostra», XXVI, pp. 31-32. Quanto
scrivemmo allora intorno alla data del cod. Vaticano andrebbe ora qualificato
seguendo il giudizio del compianto Roberto Weiss, cioè che si tratta di copia
fatta più tardi di un manoscritto, ora perduto, copiato nel 15081. Tale
precisazione però non incide sulla costituzione del testo né cambia i criteri
adottati nella presentazione della grammatica quale figura nel cod. Vaticano. A
parte qualche correzione e integrazione, di cui diamo ragione nell’apparato,
abbiamo [p. 363]seguito fedelmente il manoscritto, ritoccando soltanto la
grafia nei casi seguenti: distinguendo u da v, togliendo e aggiungendo h
secondo i casi, livellando in doppia qualche scempia inerte smentita da doppia
corretta (e viceversa). Abbiamo pure rammodernato la punteggiatura irregolare
del codice, e modificato gli accenti salvo nello specchio delle Vocali, dove è
indispensabile rispettare l’originale. Riguardo a questo specchio, perché il
lettore possa apprezzare pienamente le varianti col frammento del cod. Mor. 2,
riproduciamo a p. sg. il facsimile dell’Ordine delle lettere pella lingua
toschana, che dovette rappresentare una prima stesura dell’inizio della
grammatica quale appare nel cod. Vaticano2. La scoperta di questo
frammento autografo, aggiunta alle prove interne, soprattutto di carattere
linguistico, da noi esposte minutamente nella edizione citata, hanno reso
oramai certa l’attribuzione di questa grammatica all’Alberti. Non occorre qui
insistere su un problema già risolto definitivamente; basti rimandare per ogni
ulteriore informazione alla introduzione a quella edizione. Né avremmo altri
elementi da aggiungere alla ipotesi ivi formulata che l’Alberti abbia steso
questa grammatica durante il quinto decennio del sec. XV, o comunque non più
tardi del nov. 1454, data in cui scrivendo a Matteo de’ Pasti (vedi pp. 291
sgg. di questo volume) adoperò lo spirito aspro greco per distinguere è verbo
da earticolo, proprio come nella grammatica. Per l’importanza di questa
innovazione e per la piena illustrazione del testo della grammatica, si veda
l’edizione citata. L’opera è priva di titolo nei codici. Le diamo qui quello di
Grammatica della lingua toscana, fondandoci suglì accenni interni, nel 1°
paragrafo per la «grammatica» e passim per la «lingua toscana». C)
APPARATO CRITICO p. 177. 14. Alla forma particolare del g per significare
il suono gutturale sostituiamo, sull’analogia di ch, gh(cfr. facsimile Cod.
Mor. 2) rg. Cod. giro giro alcio(ma cfr. Cod. Mor. 2). p. 179. 6. Il copista
avrà saltato per sbaglio il vocativo. p. 180. 25. Cod. sono e sei e serve. [p.
364] firenze, Bibl. Riccardiana, Cod. Moreni 2. Foglio grammaticale
autografo di L. B. Alberti (cfr. p. 177-78). [p. 365] p. 181. 15. Cod.
similitudini com 25-26. L'analogia delle altre serie consiglia le integrazioni.
p. 183. 2. Cod. aspettoci, che potrebbe anche correggersi in aspettati (come
propone il Ghinassi) 16. Accogliamo l'integrazione già proposta dal Trabalza,
op. cit., p. 540 19. Cod. quasi s'osservano30. Cod. si giugni. p. 184. 18. Cod.
fussimo fussir fussero stati. p. 183. 3. Cod. saremo, sarete, sareste stati 6.
Cod. questi. p. 186. 9. Cod. amàvamo, con l'accento sulla terzultima, dopo aver
cancel- lato l'accento sulla penultima (sono d'accordo ora col Ghinassi che
sarebbe difficile sostenere che l'accento sulla terzultima risalga senza dubbio
all'originale) 10. Introduco le forme del preterito, sal- tato dal copista (ma
se ne parla subito dopo alle r. 16-17) 28. Cod. Dio ch'io ami tu lui ami (cfr.
187, 3). p. 187. 11. Cod. amerai. p. 188. 2. Nel marg. del cod. il copista ha
scritto So, per indicare l'omissione di questo verbo nella serie di verbi
monosillabi 4. Cod. notamo, che non può valere come perfetto qui, e perciò va
corretto in notiamo 26. Cod. tragga traggi tragga. p. 189 7-8. Cod. anigittisco
anigittii 19. Cod. forsi. p. 190. s. Cod. sine 23. Cod. quale. p. 191. 3. Cod.
verrovi (ma sarebbe contro la regola già stabilita a p. 183) 6. Cod.
affirimando 24. Cod. ne osegi, da cui si deve staccar l’o per quel che si dice
subito appresso, lasciando un segi problematico (forse errore di trascrizione
per e.g. o per etc.?). p. 192 s. Cod. camemere 10. Cod. preposto, ma, come
osserva il Ghinassi, deve essere un errore 17. Cod. lezione incerta tra siane,
diane 36. Cod. Vulase saceman; correggiamo il primo in vulasc per conformità
con la serie di 'nomi barberi' tutti terminanti in consonante, senza però
poterne spiegare il significato; il secondo (p. 193, I) in sacoman anziché
supporre una forma sachemanaltrimenti non attestata. p. 193. 11. La lezione
papi è chiara nel cod. ma difficile a spiegare (si è pensato a pabbio, papeo,
papiro). ↑ Vedi «Italian Studies», XX, 1965, pp. 109-10. ↑ Per la discussione e
illustrazione del foglio autografo del cod. Mor. 2 vedi l’art. cit. sopra di C.
Colombo. InFirenze,tragliuomini di studio,educati cioèaglistudi
umani,sidistinseroaquestopropositogl'ingegniliberida ogni abito di
pedantería,che non s'erano allontantanati con superbo fastidio dalla fonte di
quelle vene, soprattutto gli artisti e gliuomini d'azione.E tra questi,chi
meglio conobbe ilvalore di questo luminoso mezzo che il suo popolo gli offriva,
e insieme intravide il lavoro che la mente e la volontà fanno nella formazione
e nell'uso della parola, fu l'antico grande cittadino nato in esilio,
l'umanista architetto, l'abbreviatore · moralista della famiglia, il
raccoglitore e innovatore della ·F. TORBACA,Rimatori napoletani del secolo X V,in
Discus sioni e ricerche letterarie, Livorno, Vigo,1888,pagg.166 e 135
eseguenti. 217 tradizione formatasi a Santa Maria
Novella?,cioè Leon Bat: tista Alberti. Egli primo, o più preparato e franco di
tutti, si mosse a difesa del « volgare idioma »,che sentiva « degno d'onore »
con « vere ragioni », « in diverse maniere » pro vando 2: e una di queste
maniere fu probabilmente quella di far riconoscere nella lingua che per lui era
paterna, l'ordine grammaticale; che cioè l'uso di quella lingua è ordinato e
legittimo non meno del latino,e che si può raccogliere in « ammonizioni atte a
scrivere e favellare senza corruttela »; che insomma in quest'uso comune e
stabile sono applicate leggi di ragione. Intendo che probabilmente a lui si
devono quei Primi principij della grammatica o della lingua toscana, cioè quel
geniale « saggio... d'una grammatica dell'uso vivo di Firenze 3 » che i Medici
conservarono a noi, e che ora Le prime linee del suo trattato della Famiglia
l'Alberti le tolse dall'opuscolo di Giovanni Dominici a Bartolomea Obizzi negli
Alberti,noto col titolo Regola del governo di cura famigliare. V.lo nell'ediz.
SALVI, Firenze, Garinei, 1860. 2 Queste parole sono di Michele del Giogante.V.
FR.FLAMINI, La lirica toscana del Rinasciniento anteriore ai tempi del Magni.
fico,Pisa,Nistri,1891,pagg.8-9.Cfr.O. Bacci,op.cit.,pag.86.
*L.MORANDI.LorenzoilMagnifico,Leonardoda Vincie la prima grammatica
italiana;Leonardo eiprimi vocabolari:ricerche: Città di
Castello,Lapi,1900,pag.146. Ma cfr.F. SENSI,Ancora di L. Alberti grammatico, in
Rendiconti del R. Ist. lombardo, Serie II,vol.XLII (1909).L'opuscolo è
pubblicato in appendice alla Storia della grammatica italiana di C. TRABALZA,Milano,
Hoepli, 1908. Propongo qui l'opinione che mi par più probabile,anche dopo che
il Morandi ha difeso la sua nell'articolo Per Leonardo da Vinci e per la «
Gramatica di Lorenzo de' Medici », nella Nuova Antologia 1° ottobre 1909. Il
titolo,che la copia vaticana dell'opu. scolo ha,non esemplato dall'originale,e
nel foglio di guardia da altra mano che quella dell’amanuense segnato,DELLA
THOSCANA SENZA AUTTORE,mi pare si possa desumere qual era nella mente di questo
autore dal ringraziamento finale (c.16a):«LaudoDio che in la nostra lingua
habbiamo homai e' primi principij; di 218 1 dimostra in chi
l'ha dato l'antico cittadino italiano e il filo logo moderno. Così Leon
Battista dette primo alla patria sua,fuori della quale era nato, la corona
della lingua: e da lui n'ereditò la difesa ilgiovanetto figlio di Piero dei
Medici (cioè del fautore di lui in quest'opera) e di Lucrezia Tornabuoni: il
quale, seguendo il suo genio nativo,che lo conduceva all'acquisto della
grandezza, cercò esser popolare 1 »; e de'suoi grandi intendimenti,e delle cure
che gl'imponeva ilprincipato nella sua città, voluto e mantenuto ad ogni costo,
non credeva nu trito », « aggiungendosi... prospero successo ed augumento al
fiorentino imperio 2 » si estendesse e diventasse comune ad altre città e
province, come Roma avea fatto della quello ch'io al tutto m i disfidaua potere
assequire ». Ch'egli poi le ammonitioni » di quest' a arte » anche « in la
lingua nostra » chiamasse «suo nome,Grammatica » lo dice espressamente nel
proemio; e quest'esempio ci dà facoltà d'argomentare per a n a logia, che anche
l'Alberti indicando un suo lavoro con le parole De litteris atque coeteris
principiis grammaticae abbia potuto intendere aquesta arte... in la lingua
nostra ».Del resto, una annotazione assaisimileadaltradellaGrammatichetta,traquelle
del Colocci, nel vatic.4817 (c.68a;sotto iltitolo aLingue de variiBarbari »),mi
fa supporre ch'egli conoscesse quell'opuscolo,
perluiprezioso,cheeranellaLibreriadeMedici «senzaauttore»; egli che,in
Roma,quella libreria frequentava, come prova, se non altro,l'indicazione che
sitrova nell'altrosuo ms.,ilvat.3217 (c. 329 b): a Bapta Alberto in libreria de
medici de Rythmis ». A proposito della quale opera,altrove (4817,c.139),dice
che stima facesse dell'autore: «Leon Alberto huomo alli tempi nostri di
dottrina et d'ingegno a nullo inferiore ». Questo sia detto col rispetto dovuto
all'autorità di Luigi Morandi, nel comune amore del vero. 1 GINO CAPPONI,
Storia della repubblica fiorentina, Firenze, Barbèra,1875,t.II,pag.191. Cfr.0.
BACCI,Op.cit.,pag.69. 2 Commento del Mco L. DE M. sopra alcuni de'suoi sonetti,
nelle sue Opere,Firenze,Molini,1825,vol.IV. ultima questa, che la lingua «
nella quale era nato e 219 220 latina. Allo stesso modo poi
il figliuolo suo Giovanni, che venne veramente, come allora si diceva, a capo
delle cose del mondo col nome di Leon X, voleva tenuta in onore diffusa la
lingua latina serbata nella ecclesiastica e allora restaurata secondo
l'esemplare augustèo 1: inter caeteras curas, quas in hac humanarum rerum
curatione divinitus nobis concessa, subimus, non in postremis hanc quoque
habendam ducimus, ut latina lingua nostro Pontificatu dicatur facta auctior.
Così dunque Lorenzo raccolse l'eredità dell'antica lingua fiorentina da Leon
Battista e dagli altri generosi custodi e difensori di essa della generazione
anteriore, e ne fece la lingua dotta della sua corte popolana, uno strumento di
regno. Quanto il suo esempio fosse efficace sui prìncipi con temporanei, lo
dice un cortigiano della generazione a lui se guente,Vincenzo Colli oda
ColledettoilCalmeta,chedisegnò e difese l'ideale della lingua cortigiana: « La
vulgar poesia et arte oratoria, dal Petrarca e Boccaccio in qua quasi adulte.
rata, prima da Laurentio Medice e suoi coetanei, poi m e diante la emulatione
di questa et altre singularissime donne di nostra etade, su la pristina
dignitade essere ritornata se comprehende2».E
questadonnaeraBeatriced’Este,lagio vane sposa di Ludovico il Moro, e le
principali tra le altre erano la sorella maggiore di lei sposa del marchese
Francesco Gonzaga,Isabella,ed Elisabetta Gonzaga sposa di Guidubaldo da
Montefeltro duca d'Urbino. Breve a Franc.De Rosis scritto dal Sadoleto,citato
dal PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del M. evo,vol. IV,p. Nella Vita di Serafino
Aquilano in fronte alle Rime di lui, ediz.cit., (Leon X
),trad.Mercati,Roma,Lefebvre,1908,pag.410. I e 1 pag.11.. Keywords: della
thoscana senza autore id ny LEONARDO Alberti, no LEONE Alberti. Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Alberti,"
per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51616912104/in/photolist-2mUWr2e-2mUuQG8-2mTDBnW-2mTzuqN-2mTBDZh-2mT17bU-2mSMKfP-2mRyRFD-2mQPiYS-2mQH692-2mQkxxa-2mPTwCM-2mPMBQM-2mPAuFE-2mN36eA-2mMZakg-2mN3BKY-2mMR3uj-2mMNk8z-2mLKtaD-2mLGX8g-2mKCQBD-2mKMsLp-2mPqEYR-2mKGTYe-2mKT4G5-2mKBG8V-2mKyxbn-2mKbtnq-2mKfd8P-2mJ3q6x-2mGT6p1-2mFWw3T-2mDdaEq-2mDaWHG-2mDdaac-2mDaXWZ-Bmcr3X-BvUfSB-BYzvBt-u8e6xs-nTuR51-o8NiFL-o95idg-nBMfBK
Grice ed Albertini
– la confederazione di Romolo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo.
Grice: “H. L. A. Hart calls Albertini a Proudhonian!” -- Grice: “I like
Albertini; like me, he has dedicated his life to ‘fides,’ or ‘una federazione
di due,’ “a garden of Eden just meant for two” – fiducia, fedes – what Remo
asked from Romolo, but failed!” Filosofo. Insegna a Pavia. Sostene un progetto di unione
federalista per l'Europa alla guida del Movimento Federalista Europeo e della
Unione dei Federalisti Europei. Adiere al Movimento federalista europeo. Di idee
liberali, lascia tuttavia il Partito Liberale dopo la decisione di quest'ultimo
di appoggiare la monarchia nel referendum. Dopo la laurea in filosofia divenne
docente di Storia contemporanea, Dottrina dello Stato, Scienza della Politica e
Filosofia della politica a Pavia. In seguito alla sconfitta sul progetto di
Esercito Europeo, la CED, e alle dimissioni di Spinelli, lo sostitue alla guida
del Movimento Federalista Europeo. A Milano con un gruppo di militanti del Movimento
federalista europeo fonda Il Federalista che si occupa del dibattito sui temi
di fondo del federalismo. Diresse il Mfe
italiano. Presidente dell'Unione dei Federalisti Europei. È poi rimasto come
figura di riferimento e d'indirizzo all'interno del Mfe. A livello teorico, fin
dalle pagine taglienti e polemiche su Lo Stato nazionale, sostene, sulla scia
di Einaudi, che a furia di voler custodire una sterile sovranità, lo stato
italiano e ridotto a "polvere senza sostanza". Da lì l'esigenza di
guardare all'unificazione europea come alla medicina d'urto indispensabile. Maestro
di federalismo, articolo di Arturo Colombo, Corriere della Sera, Archivio storico. Lo Stato nazionale, La politica, Giuffré, Il
federalismo e lo stato federale, Giuffré, Che cos'è il federalismo,
L'integrazione europea, Proudhon, Vallecchi, Tutti gli scritti, Nicoletta
Mosconi, Il Mulino, Movimento Federalista Europeo Unione dei Federalisti
Europei Centro studi sul federalismo:
perspectives on federalism, su on-federalism.eu. Il Federalista: "Mario
Albertini teorico e militante" di Nicoletta Mosconi su thefederalist.eu.
Centro studi sul federalismo: Opere di Mario Albertini, su csfederalismo. youtube:
1985 Mario Albertini commenta la manifestazione federalista di Piazza Duomo, su
youtube.com. V D M Logo MFE.svg Federalismo europeo Flag of Europe.svg. E’ per
me un grande onore essere stato invitato a fare una relazione a questo convegno
per ricordare Mario Albertini, un uomo che ha fatto tanto per noi federalisti,
per l’Europa e per l’umanità intera. Questo onore è particolarmente
significativo per me perché egli, come Altiero Spinelli, ha fatto del pensiero
della scuola inglese degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, insieme a
quello dei Padri fondatori americani, la base del suo pensiero federalista.
Albertini spiegò che mentre il pensiero fondato sulla fonte inglese ha dato una
risposta alla domanda “perché creare la Federazione europea?”, quello fondato
sulla fonte americana ha dato una risposta alla domanda “come crearla?”[1].
Quanto alla domanda “quale forma di federazione?”, la risposta, per Albertini
come per gli inglesi, era contenuta nella Costituzione degli Stati Uniti
d’America. Il problema che oggi voglio affrontare riguarda il modo in cui
il pensiero di Albertini ha sviluppato queste due tradizioni federaliste. In
generale si può dire che egli è stato il massimo esponente del pensiero
hamiltoniano della seconda metà del Novecento, oltre che il creatore della
scuola federalista italiana. Egli è stato non solo un esponente, ma anche un
innovatore, spesso illuminando il pensiero di altre scuole, in altri casi
differenziandosi con contributi originali. Quale forma di
federazione. Per Albertini, come per Spinelli e per la scuola inglese, la
questione centrale era la trasformazione di Stati a sovranità assoluta in Stati
federati in uno Stato federale. Per loro il federalismo di Althusius o di
Proudhon – considerato da Albertini come “una tecnica… per il decentramento del
potere politico”[2] – non era di grande rilievo. Albertini sosteneva che
Proudhon “era rimasto, quanto alla concezione dello Stato, un anarchico”,
benché egli lo abbia definito anche un “grande presbite” che “ha previsto quale
sarebbe stato il limite tragico della democrazia nazionale qualora non avesse
trovato i suoi correttivi nella democrazia locale e nella democrazia europea”.
Albertini affermava inoltre che il federalismo richiede “la creazione di orbite
di governo democratico locale ad ogni livello di manifestazione concreta delle
relazioni umane”[3]. Ma egli concentrò il suo pensiero sulla creazione di una
federazione tra Stati sovrani, essenziale per garantire la pace fra loro.
Mentre gli scrittori della scuola inglese si erano attenuti ad un’esposizione
classica della forma di una tale federazione, Albertini ne fece la migliore
rielaborazione della seconda metà del Novecento[4]. Sia la scuola inglese, sia
Albertini, condividevano la preferenza per il sistema europeo basato su un
esecutivo parlamentare piuttosto che quello presidenziale americano, pur
accettando per il resto gli elementi principali della Costituzione americana.
Albertini riteneva cioè più valido un “governo responsabile di fronte al
Parlamento europeo… come istanza di controllo democratico dell’attività
dell’Unione”[5]. Egli arricchì il pensiero federalista anche con la sua
analisi della relazione tra nazione e Stato[6]. Secondo lui, lo Stato
nazionale, con il suo dispotismo, danneggia la vita dei cittadini, ponendo
restrizioni allo sviluppo economico e provocando la guerra[7]. I suoi limiti si
manifestano anche nella “contraddizione tra l’affermazione della democrazia nel
quadro nazionale e la sua negazione nel quadro internazionale”, che pregiudica
anche l’affermazione del liberalismo e del socialismo a livello nazionale[8].
Lo Stato nazionale dovrebbe essere sostituito con uno Stato federale
plurinazionale; la Federazione europea sarebbe “un popolo di nazioni, un popolo
federale”, e non “un popolo nazionale”; il federalismo prevede una struttura di
Stati democratici plurinazionali fino al livello mondiale[9]. Il pensiero della
scuola inglese su questo tema non era diverso, ma l’analisi di Albertini è più
approfondita. Negli anni Trenta, la scuola inglese indicò nel federalismo
la soluzione alproblema della guerra. Dal punto di vista logico, l'obiettivo
finale non può che essere una federazione mondiale, ma essa è realizzabile solo
nel lungo periodo. Parecchi, quindi, sostenevano la proposta di Clarence Streit
per una federazione di quindici democrazie, Stati Uniti inclusi, per impedire
una guerra provocata dall’Asse. Ma l’America isolazionista non era disponibile
e nel 1939 i leader della scuola inglese si indirizzarono verso l’ipotesi di
una federazione delle democrazie europee, in attesa dell’adesione degli Stati
allora fascisti dopo il loro ritorno alla democrazia. Questo fu
naturalmente il punto di partenza per Albertini che, dopo il rifiuto del Regno
Unito di partecipare alla Comunità europea, prefigurò, per cominciare, “una
Federazione europea comprendente almeno i sei paesi che hanno preso la testa
del processo di unificazione”, e poi la sua “estensione graduale a tutta
l’Europa”[10]. Quando il Regno Unito entrò nella Comunità, egli aggiunse che
“bisogna attendere che l’adesione alla Comunità dia i suoi frutti”[11].
Attendiamo ancora questi frutti – e speriamo bene! Kenneth Wheare
indicava “la somiglianza di istituzioni politiche” fra gli Stati membri come
una condizione della formazione di una federazione[12]. Albertini fu più preciso,
affermando che era necessaria, sia nella federazione che negli Stati membri,
“l’attribuzione della sovranità al popolo nel quadro del regime
rappresentativo, con la possibilità di sdoppiare la rappresentanza mediante la
doppia cittadinanza di ogni elettore”[13]. Questa condizione è divenuta
particolarmente rilevante per quanto riguarda le nuove democrazie candidate
all’adesione all’Unione, e rimane un problema cruciale per la creazione di una
federazione mondiale. Perché la federazione. Nel 1937 Lionel
Robbins pubblicò il libro Economic Planning and International Order,
analizzando le ragioni per le quali il quadro di una federazione internazionale
era essenziale per il buon governo di un’economia internazionale. Nel 1939, in
The Economic Causes of War, egli spiegò perché la causa della guerra non fosse
il capitalismo, bensì la sovranità nazionale, e concluse con un appello
appassionato per una Federazione europea[14]. Albertini ha ricordato che questi
libri furono le più importanti fonti federalistiche per Spinelli, quando era al
confino sull’isola di Ventotene[15]. Per la scuola inglese del
dopoguerra, come per Robbins nel1939, la pace era lo scopo del federalismo. La
pace era il “valore centrale” e “l’obiettivo supremo” del federalismo anche per
Albertini[16], la complessità del cui pensiero era talvolta nascosta dalla
semplicità delle sue formulazioni. Egli ha ricalcato il pensiero di Lord
Lothian definendo la pace non come “il semplice fatto che la guerra non è in
atto”, ma come “l’organizzazione di potere che trasforma i rapporti di forza
fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri”[17]. A partire dal 1981,
Albertini riconobbe che “con la lotta per l’unificazione europea si sono
ottenute le prime forme di politica europea e la fine della rivalità militare
fra i vecchi Stati nazionali dell’Europa occidentale”[18]. Cioè, per quanto
riguarda i rapporti reciproci fra questi ultimi, l’obiettivo della pace era già
stato raggiunto, mentre per alcuni Stati dell’Europa orientale, e soprattutto
per il mondo intero, esso rimaneva l’obiettivo supremo. Per i cittadini
dell’attuale Unione, dunque, altri obiettivi sono diventati più importanti.
Albertini ha citato dal Manifesto di Ventotene l’affermazione che la questione
di chi controlla la pianificazione economica è la “questione centrale”[19] (lo
stesso quesito che Robbins aveva proposto nel 1937), ma ha anche individuato
altri valori essenziali del federalismo contemporaneo: la sicurezza
ecologica[20], il rifiuto dell’egemonia (vedi le preoccupazioni di Carlo
Cattaneo e dei Padri fondatori americani)[21] e la democrazia negli Stati
nazionali, che la loro interdipendenza sta indebolendo sempre più[22]. Mi pare
che questi costituiscano gli elementi per spiegare i valori federalisti ai
cittadini dell’Unione europea di oggi. Per quanto riguarda alcuni Stati
dell’Europa centrale e orientale, invece, e soprattutto per il federalismo
mondiale, la pace rimane l’obiettivo di maggiore rilievo. La
Federazione mondiale. Nel suo libro The Price of Peace, pubblicato nel 1945,
William Beveridge spiegò che la sovranità nazionale è la causa della guerra, e
la rinuncia ad essa in una federazione mondiale il metodo per abolirla[23].
Benché egli riconoscesse che questo obiettivo era lontano e che nel frattempo
solo una confederazione sarebbe stata realizzabile, questo libro mi fece
avvicinare al federalismo come risposta alla terribile esperienza della guerra.
Dopo Hiroshima e Nagasaki, la federazione mondiale sembrava una necessità
urgente a milioni di persone, di cui circa mezzo milione comprò Anatomy of
Peace di Emery Reves[24]. Nacquero movimenti per la federazione mondiale,
soprattutto nei paesi anglosassoni e in Giappone, leader politici come
l’ex-primo ministro Clement Attlee ne diventarono sostenitori, e si sviluppò
una letteratura mondialista. Ma il clima della Guerra fredda scoraggiò la
maggior parte di coloro che caldeggiavano quell’obiettivo e il pensiero
federalistico quasi lo abbandonò. Albertini fu un’eccezione. Egli era più
coerente, più tenace, più risoluto di altri nel confrontarsi con i fatti del
potere e con le sue conseguenze. Per lui, “il rischio della distruzione del
genere umano” legato alla bomba atomica era “assolutamente inaccettabile”[25].
Ma egli riconobbe, come Beveridge, che le condizioni per creare la Federazione
mondiale non erano presenti e che la lotta per un’Assemblea costituente,
fondamentale per la sua dottrina per quanto riguarda la Federazione europea,
non era ancora praticabile. La sua strategia per il federalismo mondiale era
dunque simile a quella dei federalisti anglosassoni: “il rafforzamento
dell’ONU”, insieme ad altri “obiettivi intermedi” nel “processo di superamento
degli Stati nazionali esclusivi”, processo che aveva “già raggiunto uno stadio
molto avanzato” nella Comunità europea[26]. Tipica del suo pensiero
federalistico era l’enfasi sui militanti federalisti, sulla necessità “di
costruire… un’avanguardia politica mondiale” per la creazione di una
Federazione mondiale[27]. Come creare la Federazione.
Albertini e la scuola inglese erano generalmente d’accordo sulla forma e sul
perché della Federazione. Ma le loro idee erano diverse sul come crearla.
Gli inglesi cercavano di influenzare il loro governo, negli anni Trenta e
Quaranta, perché adottasse una politica federalista per dare l’avvio ad una
federazione, e in seguito per costruire elementi pre-federali nelle istituzioni
e nelle competenze della Comunità. I principi fondamentali di Albertini erano
invece l’Assemblea costituente e il fatto che i federalisti dovevano rimanere estranei
alla lotta per il potere nazionale. Spinelli ha scritto che nel periodo
che va dal 1947 al 1954, egli aveva “lavorato sull’ipotesi che i principali
ministri moderati si sarebbero accinti alla costruzione federale”[28]: un
metodo assai simile a quello dei federalisti inglesi. Poi, dopo il fallimento,
nel 1954, del progetto per una Comunità politica europea, egli avviò il
Congresso del popolo europeo e lanciò la campagna per dar vita a un’Assemblea
costituente attraverso “una protesta popolare crescente… diretta contro la
legittimità stessa degli Stati nazionali”[29]. Quando diventò evidente a
Spinelli che la campagna non aveva il successo da lui sperato, concepì la
proposta che i federalisti acquisissero il potere in un numero crescente di
municipi importanti, come base per una successiva campagna. Albertini non
poteva accettare questa idea, che contraddiceva tutti i fondamentali principi
federalisti, e il Movimento federalista europeo fu d’accordo con lui. Spinelli,
infastidito, scrisse nel suo diario che per Albertini, “tentare di preparare
l’evento (della lotta finale) era sporco opportunismo, occorreva preparare sé
stessi all’evento”[30]. Spinelli era un politico geniale, capace di concepire e
condurre campagne d’azione culminate nello straordinario successo della sua
ultima battaglia, quella per il Progetto di Trattato per l’Unione europea al
Parlamento europeo. Ma egli non restava all’interno di regole stabilite, e la
sua tendenza ad iniziare successivi “nuovi corsi” e a impostare nuove strategie
presentava troppe difficoltà per un Movimento come il MFE. Albertini era
assolutamente convinto che bisogna rispettare certi principi fondamentali, che
egli seguiva con una coerenza e una tenacia eccezionali. Queste caratteristiche
furono cruciali per la sua posizione nella storia del pensiero federalistico,
mettendolo in grado non solo di sviluppare la propria opera intellettuale, ma
anche di fondare la scuola italiana del federalismo hamiltoniano. Una
differenza fra Albertini e gli inglesi era legata alla sua concezione del
pensiero storico, basata sul metodo weberiano secondo il quale, nelle sue
parole, “non ci sono conoscenze storiche senza quadri teorici di riferimento
specifico per ordinare i fatti e completarne il significato (‘tipi ideali’)”,
anche se “l’elaborazione teorica deve esser condotta solo sino al punto nel
quale essa rende possibile la conoscenza storica e non oltre, perché al di là
di questo punto essa si convertirebbe nella pretesa di sostituire la conoscenza
storica… con la conoscenza teorica”[31]. Alla tradizione empirica inglese non
manca la capacità di sviluppare teorie. L’evoluzione darwiniana e il
liberalismo sono testimonianze di questo. Ma mi pare che nella tradizione
weberiana lo sviluppo della teoria precede il suo adattamento ai fatti, e forse
questo approccio fu una causa delle differenze fra Albertini e gli
inglesi. Lo sviluppo della Comunità europea e del pensiero di
Albertini. Benché gli inglesi abbiano sviluppato la loro democrazia
attraverso un processo riformista, senza un’Assemblea costituente, l’idea di
una tale Assemblea era ritenuta accettabile da molti. Nel 1948, Mackay, un
importante federalista membro del Parlamento inglese, ottenne il sostegno di un
terzo dei membri del Parlamento per una risoluzione che chiedeva un’Assemblea
costituente europea[32]. Ma mentre per gli inglesi un processo riformista, a
iniziare dalla CECA, sarebbe stato utile, il punto di partenza per Albertini,
nel 1961, era soltanto “il conferimento del potere costituente al popolo
europeo… o tutto o niente”; bisognava rifiutare “pseudostazioni intermedie…
sino a che non si riusciva ad ottenere tutto il potere (ossia quello
costituente)”; la soluzione della Comunità “ispirata dal cosiddetto
‘funzionalismo’ (la geniale idea di fare l’Europa a pezzettini…) era sbagliata”
e le Comunità economiche erano “parole vuote”[33]. Ma da buon weberiano egli
era disposto ad adattare la teoria ai fatti, e nel 1965 scrisse che la CECA
aveva stabilito una “unità di fatto… così solida da poter sorreggere l’inizio di
un processo vero e proprio di integrazione economica”, la quale “fu un fatto
capitale per la vita dell’Europa”[34]. E un anno dopo scrisse che
“l’integrazione europea è il processo di superamento della contraddizione tra
la dimensione dei problemi e quella degli Stati nazionali”, cioè “i fatti
dell’integrazione europea” minano i poteri nazionali esclusivi, “creando nel
contempo, con l’unità di fatto, un potere europeo di fatto”, che i federalisti
possono sfruttare politicamente[35]. Nello stesso saggio egli individuò il
trasferimento del controllo dell’esercito, della moneta e di parte delle
entrate dai governi nazionali a un governo europeo come elementi cruciali del
trasferimento della sovranità[36]; e nel 1971, considerando la prospettiva
delle elezioni dirette del Parlamento europeo, egli scrisse che una tale
situazione “può essere considerata pre-costituzionale perché dove si manifesta
l’intervento diretto dei partiti e dei cittadini si manifesta anche la tendenza
alla formazione di un assetto costituzionale”[37]. E’ interessante, perfino
commovente, osservare come, mentre gli inglesi, nella loro situazione diversa,
trascuravano l’idea della Costituente, Albertini stava modificando la sua
teoria alla luce dei fatti, cioè del successo crescente della Comunità europea.
Questo lo ha condotto verso un contributo molto importante al pensiero
federalistico: una sintesi dell’approccio di Spinelli e di quello di
Monnet. Verso una sintesi di spinellismo e monnetismo. Le
sue idee sulla moneta forniscono un altro esempio dello sviluppo del suo
pensiero. Nel 1968 egli scrisse che “non c’è mercato comune senza moneta
comune, e moneta comune senza governo comune, dunque il punto di partenza è il
governo comune”[38]. Ma quattro anni più tardi egli affermò che l’Unione
monetaria avrebbe potuto “spingere le forze politiche su un piano inclinato”
perché, impegnando qualcuno per qualcosa che implica il potere politico, può
accadere che finisca “per trovarsi, suo malgrado, nella necessità di crearlo”.
Sul terreno monetario, sarebbero stati possibili “dei passi avanti di natura
istituzionale, tangibile, europea, ad esempio nella direzione indicata da
Triffin”, cioè un sistema europeo di riserve, che sarebbe stato scambiato dalla
classe politica “per una tappa sulla via della creazione di una moneta
europea”; e si poteva prevedere, dunque, “un punto scivoloso verso una
situazione che si potrebbe chiamare di ‘Costituente strisciante’ “[39].
Albertini stava “preparando l’evento”, anche se non nel modo approvato da Spinelli,
il cui progetto era allora diverso e che scrisse nel suo diario che Albertini
aveva ridotto il MFE in “sciocchi seguaci di Werner”[40], nel cui Rapporto
erano indicate le tappe verso l’Unione economico-monetaria. Ma la
riconciliazione fra i due non era lontana, grazie alle imminenti elezioni
dirette del Parlamento europeo e al grande Progetto di Trattato per l’Unione
europea elaborato da Spinelli. Già nel 1973 Albertini, nella sua analisi
dell’Unione monetaria, aveva individuato le elezioni dirette come punto
decisivo “perché riguarda la fonte stessa della formazione della volontà
pubblica democratica”[41]. Le elezioni del Parlamento europeo sarebbero state
una delle chiavi, dunque, insieme alla moneta e all’esercito, per il
trasferimento della sovranità. Nel 1976, il Consiglio europeo decise le
elezioni e Spinelli si imbarcò nel suo quinto e ultimo nuovo corso[42].
Albertini osservò che era “iniziata la fase politica – per definizione
costituente – del processo di integrazione europea”, e concluse che la Comunità
sarebbe stata la base della Federazione europea, attraverso “singoli atti
costituenti che rafforzano il grado costituente del processo rendendo possibili
ulteriori atti costituenti e così via”, e che “solo con una prima forma di
Stato europeo (da istituire con un atto costituente ad hoc) si può avviare il
processo di formazione dello Stato europeo per così dire definitivo”: cioè
bisogna accettare “il paradosso di ‘fare uno Stato per fare lo Stato’”. Egli
rese esplicito il ruolo della Comunità in questo processo, nella “costruzione
graduale, e via via pari al grado di unione raggiunto, di un apparato politico
e amministrativo europeo”: un processo che “si può in teoria considerare finito
solo quando lo Stato iniziale europeo (con sovranità monetaria, ma non in
materia di difesa), si sia trasformato nello Stato europeo definitivo, con
tutte le competenze necessarie per l’azione di un governo federale
normale”[43]. Il cammino weberiano di Albertini conduceva, dunque, verso
una sintesi feconda fra lo spinellismo e il monnetismo attraverso “l’idea di
sfruttare le possibilità del funzionalismo per giungere al costituzionalismo”,
perché “l’unificazione europea è un processo di integrazione… strettamente
collegato con un processo di costruzione degli elementi istituzionali a volta a
volta indispensabili…”[44]. Egli era pronto per spiegare in termini teorici
l’ultima opera di Spinelli, cioè il Progetto di Trattato per l’Unione europea
del Parlamento europeo. Dal progetto di Trattato alla Convenzione
di Laeken. Albertini riteneva che il progetto fosse realistico, perché
proponeva “il minimo istituzionale indispensabile per fondare le decisioni
europee sul consenso dei cittadini”. Il “pregio maggiore del progetto” stava
nel fatto che “affidava al Parlamento a) il potere legislativo”, detto oggi
codecisione, in modo che “l’attuale Consiglio dei Ministri… per questo
rispetto, funzionerebbe come un Senato federale”, e “b) il potere che risulta
dal controllo parlamentare della Commissione, che comincerebbe ad assumere la
forma di un governo europeo”. Il progetto era “ragionevole”, perché “solo
quando l’Unione avrà dimostrato di saper funzionare bene, sarà possibile
disporre della grande maggioranza necessaria per attribuire all’Unione la
sovranità anche in materia di politica estera e di difesa”[45]. Esso conteneva,
dunque, l’idea accennata prima di “fare uno Stato per fare lo Stato”. Il
genio politico di Spinelli, manifestato nel progetto di Trattato, non solo ha
favorito la riconciliazione fra lui e Albertini, ma ha anche portato a un esito
concreto un elemento molto importante del pensiero federalistico di Albertini,
cioè la relazione fra l’azione politica e la filosofia di Monnet e di Spinelli.
E’ tragico che Spinelli sia morto credendo che il progetto fosse fallito perché
l’Atto unico era un “topolino morto”. Albertini è invece sopravvissuto finché
si sono manifestate conseguenze veramente significative. In un documento
pubblicato sull’Unità europea del dicembre 1990, egli ha potuto affermare che,
“salvo catastrofi”, il potere di fare la politica monetaria sarebbe stato
trasferito al livello europeo, e che dunque bisognava adeguare il meccanismo
decisionale, “facendo funzionare la Comunità come una federazione nella sfera
dove un potere europeo, in prospettiva, c’è già (quello economico-monetario con
le sue implicazioni internazionali); e come una confederazione nella sfera
nella quale un potere di questo genere non c’è e non ci sarà per un tempo
indefinito (difesa)”. Il “Trattato-costituzione” del Parlamento – prosegue il
documento – porterà ad una “evoluzione naturale delle istituzioni (il Consiglio
europeo come presidente collegiale della Comunità o Unione, il Consiglio dei
Ministri come Camera degli Stati, la Commissione come governo responsabile di
fronte al Parlamento europeo, il Parlamento europeo come istanza di controllo
democratico dell’attività dell’Unione e come detentore, insieme al Consiglio,
del potere legislativo)”[46]. Si può registrare un progresso
significativo di questa “evoluzione naturale” negli anni Novanta. Il voto a
maggioranza qualificata è già applicabile nel Consiglio all’80% degli atti
legislativi; il Parlamento ha un diritto di codecisione per più della metà
degli atti legislativi e per il bilancio; la responsabilità della Commissione
di fronte al Parlamento è stata clamorosamente dimostrata. La Comunità non
funziona ancora “come una federazione nella sfera dove un potere europeo c’è
già”, cioè in quella economica e monetaria; ma la Convenzione di Laeken apre la
porta al compimento del processo. La questione non è più se ci sarà un
documento chiamato costituzione. Questo ora appare accettabile, oltre che per
gli altri governi, anche per quello britannico. La questione cruciale è se le
istituzioni saranno veramente federali, completando l’evoluzione prevista da
Albertini, compresa la codecisione e il voto a maggioranza per tutte le
decisioni legislative, insieme alla piena responsabilità della Commissione come
governo di fronte al Parlamento. La lotta federalista non è divenuta meno
ardua, perché i sostenitori della dottrina intergovernativa includono, a quanto
pare, non solo i governi britannico, danese e svedese, ma anche quello
francese, e persino quello italiano. Bisogna persuadere i cittadini, le classi
politiche, e infine i governi, che una costituzione basata sul principio della
cooperazione intergovernativa sarebbe sia inefficace che antidemocratica.
Grazie all’opera di Spinelli e di Albertini, e ai contributi di tanti altri, il
MFE è senz’altro pronto a far fronte a questa sfida, in particolare per quanto
riguarda i cittadini, la classe politica e soprattutto il governo
italiano. Albertini e la sua collocazione nella storia del
pensiero federalistico. Spero di avere dato qualche indicazione del
ricco, ampio, profondo e colto contributo di Mario Albertini al pensiero
federalista della sua epoca. Forse è stata la scelta soggettiva di un
federalista britannico l’aver sottolineato l’importanza particolare, per la
storia di questo pensiero, della sintesi fatta da Albertini degli approcci dei
due geniali federalisti della seconda metà del Novecento: Jean Monnet e Altiero
Spinelli. Oltre che con le sue opere, egli ha dato un contributo al
pensiero federalista come fondatore della scuola moderna italiana. Al tempo
stesso, dopo che Spinelli ha fondato, ispirato e guidato il MFE con un carisma
eccezionale, Albertini ha creato e sostenuto il Movimento che è stato capace di
organizzare la grande manifestazione di Milano, con la partecipazione di circa
mezzo milione di persone, nel giugno del 1984, per chiedere al Consiglio
europeo di sostenere il Progetto di Trattato di Spinelli; e, cinque anni dopo,
di ottenere il consenso dell’88% dei votanti nel referendum italiano su un
mandato costituente per il Parlamento europeo. Come e perché un solo uomo ha
fatto tutte queste cose diverse? Forse l’impressione di un osservatore esterno
potrebbe interessarvi. Albertini nei suoi scritti ha messo in evidenza
sia la ragione, sia la volontà[47]. Egli era orientato da entrambe e operava
sulla base di entrambe, con enfasi sulla ragione per la sua opera
intellettuale, e sulla volontà come Presidente del Movimento; e metteva
entrambe al servizio della sua fede profonda nel federalismo come priorità
essenziale per il benessere e per la sopravvivenza stessa del genere umano.
Egli espresse questo atteggiamento in un modo non molto conosciuto fuori del
MFE, sottolineando che servono “delle persone che fanno della contraddizione
tra i fatti e i valori una questione personale”, in un contesto nel quale “il
distacco tra ciò che è, e ciò che deve essere, è enorme”[48]. Albertini
dedicò la sua vita all’impegno per risolvere questa contraddizione e aveva la
capacità di persuadere altri a fare lo stesso. Egli era un oratore ispirato e,
benché i suoi scritti fossero talvolta complicati, era anche capace di
formulare concetti in modo semplice e appassionato, come quando ha scritto che
“la federazione… ha realizzato istituzioni molto sagge, capaci di trasmettere a
molte generazioni una forte esperienza di diversità nell’unità, di libertà, di
pace”; che “soltanto la politica e solo nel massimo della sua espressione, può
risolvere i problemi delle relazioni internazionali”; e inoltre che serve
l’avanguardia mondiale “per il grande compito mondiale della costruzione della
pace”[49]. La sua capacità di ispirare gli altri era basata sulla sua
fede nel valore di ciascuno, nella fiducia che ogni persona avesse sia la
capacità che la responsabilità di dare il proprio contributo[50]. Le sue idee
sugli apporti di diverse persone e organizzazioni sono state una parte del suo
contributo al pensiero federalista. C’era posto per quelli che accettavano
passivamente il federalismo e per i leader occasionali. Ma la sua predilezione
era per il nucleo duro dei militanti, la cui opera in particolare era basata
sulla percezione della contraddizione tra fatti e valori. Egli trasmise un
messaggio speciale agli intellettuali, ai quali ricordò la necessità dell’
“uscita nel campo aperto degli uomini di cultura per completare la politica
come arte del possibile – la politica in senso stretto – con la politica in
senso largo, cioè l’arte di far diventare possibile ciò che non lo è
ancora”[51]. Per questi – per voi – l’enfasi era sulla volontà come sulla
ragione. Nel maggio del 1956 Spinelli scrisse nel suo diario: “Ho
lanciato ad Albertini l’idea di costituire un ‘ordine federalista europeo’. Che
sia questa una buona idea?”[52]. Spinelli era un grande innovatore, con
notevole capacità di intuizione. Albertini aveva le caratteristiche per
realizzare quell’idea: sincerità, integrità, coraggio, coerenza, devozione. Mi
pare che egli abbia davvero creato una specie di ordine federalista. La
sua opera era un processo continuo di costruzione; e ora voi, i suoi colleghi e
amici, avete la responsabilità di proseguirla senza di lui, considerandolo non
come un monumento di erudizione e di impegno eccezionale ma come una tradizione
vivente che voi dovete continuare a sviluppare. Quanto a me, benché non
sia d’accordo con tutte le sue idee, ho un tale apprezzamento per la sua opera
e una tale convinzione della sua importanza che sto lavorando, con l’aiuto
dell’Istituto Altiero Spinelli, su un’antologia in lingua inglese dei suoi
saggi, perché queste idee siano meglio conosciute dal pubblico dei lettori che
leggono, non l’italiano, ma la lingua che Albertini designò, nel primo numero
del Federalistapubblicato anche in inglese, come la lingua universale
necessaria nella sfera politica[53]. Spero che questa antologia non solo sarà
utile per i federalisti non italiani, ma favorirà anche un giusto
riconoscimento del contributo di Albertini nella storia del pensiero
federalista[54]. E’ con grande piacere, in conclusione, che esprimo la
mia ammirazione e gratitudine per la vita di Mario Albertini, e per la sua
devozione esemplare alla nostra causa suprema del federalismo. Nelle parole
incomparabili di Shakespeare: “He was a man, take him for all in all, (we)
shall not look upon his like again”. * Si tratta
dell’intervento al convegno di studi organizzato l’8 aprile 2002 dalle Università
di Milano e di Pavia e dal Movimento federalista europeo sulla figura di
studioso e di militante di Mario Albertini a cinque anni dalla sua
scomparsa. [1] Cfr. Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere
costituente (1986), in Nazionalismo e Federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999,
pp. 302, 304. (Molti degli scritti di Albertini sono stati ripubblicati, con
l’indicazione delle rispettive fonti, in due antologie: Nazionalismo e
Federalismo e Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, da cui sono
state tratte le citazioni. Si è posta tra parentesi, dopo il titolo, la data
del saggio originale per aiutare i lettori a valutare il contesto e tracciare
cronologicamente lo sviluppo del suo pensiero). [2] Mario Albertini, Il
Risorgimento e l’unità europea (1961), in Lo Stato nazionale, Bologna, Il
Mulino, 1997, p. 184. [3] Mario Albertini, La Federazione (1963) e Le
radici storiche e culturali del federalismo europeo(1973), in Nazionalismo e
Federalismo, cit., pp. 99, 114, 128. [4] Mario Albertini, La Federazione,
ibidem. [5] Mario Albertini, Moneta europea e unione politica (1990), in
Id., Una rivoluzione pacifica. Dalle Nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino,
1999, p. 323. [6] Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino,
1997, ristampa delle edizioni precedenti del 1960 e del 1980. [7] Mario
Albertini, La nazione, il feticcio ideologico del nostro tempo (1960), in Id.,
Nazionalismo e Federalismo, cit., p. 22. [8] Mario Albertini, Le radici
storiche (1973), op. cit., pp. 126-7; Id., L’integrazione europea, elementi per
un inquadramento storico (1965), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit.,
p. 235; Id., Qu’est-ce que le fédéralisme? Recueil des textes choisis et
annotés, Parigi, Société Européenne d’Etudes et d’Informations, 1963, p.
32. [9] Mario Albertini, Per un uso controllato della terminologia
nazionale e supernazionale (1961), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op.
cit., p. 30. [10] Mario Albertini, La strategia della lotta per l’Europa
(1966), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p. 59. [11] Mario
Albertini, Il problema monetario e il problema politico europeo (1973), in Id.,
Una rivoluzione pacifica, op. cit., p. 185. [12] Kenneth C. Wheare,
Federal Government, Londra, Oxford University Press, 1951 (prima edizione
1946), p. 37; in italiano in Kenneth C. Wheare, Del governo federale, Bologna,
Il Mulino, 1997, p. 92. [13] Mario Albertini, L’unificazione europea e il
potere costituente (1986), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p.
296. [14] Lionel Robbins, Economic Planning and International Order,
Londra, Macmillan, 1937, e Id., The Economic Causes of War, Londra, Jonathan
Cape, 1939; alcuni capitoli di ambedue in italiano in Lionel Robbins, Il
federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino,
1985. [15] Cfr. Mario Albertini, L’unificazione europea(1986), op. cit.,
p. 302. Cfr. anche John Pinder (a cura di), Altiero Spinelli and the British
Federalists: Writings by Beveridge, Robbins and Spinelli 1937-1943, Londra, Federal
Trust, 1998, p. 46. [16] Mario Albertini, Qu’est-ce que le fédéralisme?
(1963), op. cit., p. 32; Id., Cultura della pace e cultura della guerra (1984),
in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 151. [17] Mario
Albertini, Le radici storiche (1984), op. cit., p. 114; Lord Lothian, Pacifism
is not Enough (1935), ristampato in John Pinder e Andrea Bosco (a cura di),
Pacifism is not Enough: Collected Lectures and Speeches of Lord Lothian(Philip
Kerr), Londra, Lothian Foundation Press, 1990, p. 221. In italiano: Lord
Lothian, Il pacifismo non basta, Bologna, Il Mulino, 1986. [18] Mario
Albetini, La pace come obiettivo supremo della lotta politica (1981), in Id.
Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 185. [19] Mario Albertini,
L’unificazione europea(1986), op. cit., p. 304. [20] Mario Albertini,
Cultura della pace e cultura della guerra (1984), op. cit., p. 161. [21]
Mario Albertini, Le radici storiche (1973), op. cit., p. 140. [22] Mario
Albertini, La strategia (1966), op. cit., pp. 63-4. [23]William
Beveridge, The Price of Peace, Londra, Pilot Press, 1945. [24]Emery
Reves, The Anatomy of Peace, New York, Harper, 1945; in italiano: Anatomia
della pace, Bologna, Il Mulino, 1990. [25] Mario Albertini, La pace come
obiettivo supremo (1981), op. cit., p. 184. [26] Mario Albertini, Verso
un governo mondiale(1984), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., pp.
203-4. [27] Mario Albertini, Verso un governo mondiale, op. cit., p.
207. [28] Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. La goccia
e la roccia, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 18.
[29] Loc. cit. [30] Altiero Spinelli, Diario europeo, I, 1948-1969, a
cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 417. [31] Mario
Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente (1986), op. cit., pp.
293-4. [32] Cfr. John Pinder, “Manifesta la verità ai potenti”: i
federalisti britannici e l’establishment, in AA.VV., I movimenti per l’unità
europea 1945-1954, a cura di Sergio Pistone, Milano, Jaca Book, 1992, p.
125. [33] Mario Albertini, Quattro banalità e una conclusione sul Vertice
europeo (1961), in Id., Nazionalismo e federalismo, op. cit., pp. 226, 228,
229, 232 n. 7. [34] Mario Albertini, L’integrazione europea(1965), op.
cit., pp. 249-50. [35] Mario Albertini, La strategia (1966), op. cit.,
pp. 69, 71. [36] Ibidem, pp. 66-7. [37] Mario Albertini, Il
Parlamento europeo. Profilo storico, giuridico e politico (1971), in Id., Una
rivoluzione pacifica, op. cit., p. 216. [38] Mario Albertini, L’aspetto
di potere della programmazione europea (1968), Id., in Nazionalismo e
Federalismo, op. cit., p. 262. [39] Mario Albertini, Il problema
monetario(1973), op. cit., pp. 184, 187, 191. [40] Altiero Spinelli,
Diario europeo, III, 1976-1986, p. 186. [41] Mario Albertini, Il problema
monetario(1973), op. cit., p. 192. [42] Altiero Spinelli, La goccia e la
roccia, op. cit., p. 18. [43] Mario Albertini, Elezione europea, governo
europeo e Stato europeo (1976), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., pp.
223, 225, 226. [44] Mario Albertini, L’Europa sulla soglia dell’unione
(1985), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., pp. 274, 276. [45]
Ibidem, pp. 283-5. [46] Moneta europea e unione politica. Un documento
del Presidente Albertini in vista del Consiglio europeo di dicembre, in L’Unità
europea, n. 202 (dicembre 1990), p. 20. [47] Per esempio in Mario
Albertini, Verso un governo mondiale (1984), op. cit., p. 205. [48] Mario
Albertini, La strategia (1966), op. cit., p. 72; Id., Le radici storiche (1973),
op. cit., p. 136. [49] Mario Albertini, La federazione (1963), op. cit.,
p. 100; Id., L’integrazione europea (1965), op. cit., p. 252; Id., Verso un
governo mondiale(1984), op. cit., p. 207. [50] Mario Albertini, La
strategia (1966), op. cit., p. 59. [51] Mario Albertini, Il Parlamento
europeo(1971), op. cit., p. 204. [52] Altiero Spinelli, Diario europeo,
I, 1948-1969, op. cit., p. 297. [53] Mario Albertini, un governo
mondiale(1984), op. cit., p. 202. [54] Non ho menzionato finora nessuno
fra i federalisti italiani viventi, perché non sarebbe giusto individuare
alcuni fra i tanti che hanno fatto cose importanti per il federalismo
contemporaneo. Ma in questo contesto sarebbe del tutto ingiusto non menzionare
il mio debito nei confronti di un federalista della nuova generazione che ha
avanzato la proposta dell’antologia, per cui ha fatto una selezione di saggi
(materiale eccellente anche per la preparazione di questo mio articolo), cioè
Roberto Castaldi, che ha preso questa iniziativa quando studiava per la sua
tesi di master sull’opera di Albertini all’Università di Reading. Mario Albertini.
Albertini. Keywords: la confederazione di Romolo, federale, italia federale,
politica federalista, filosofia federalista, stato italiano, gli stati uniti
d’America sono una repubblica federale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Albertini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51794905915/in/dateposted-public/
Grice ed Alderotti –
filosofia italiana – filosofia toscan – filosofia fiorentina Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice:
“I like Alderotti; but then his favourite treatise was Aristotle’s little thing
to his son, Niccomaco – which Hardie instilled on me like a leech!” “Alderotti
was what we would call a Florentine-Bologne-oriented Aristotelian; he thought,
with Aristotle, that the heart trumps the head -- Grice: “What I like most about lderotti is his
archiginnasio – no such thing at Oxford! So, as Speranza says in “Colloquenza
all’archiginnasio,” Alderotti knew what he was doing, even if his pupils did
not!”Scienziato e filosofo erudito, scrisse per l'amico e protettore Donati,
uno dei primi testi di medicina in lingua volgare, il Della conservazione della
salute. Il più conosciuto medico del Medioevo, tanto da meritarsi una citazione
nel XII canto del Paradiso – v. 83 -- di Dante, insegna a Bologna, applicando,
durante le sue lezioni di medicina, un innovativo metodo scolastico. Iniziava
la lezione con una lectio o expositio di un passo tratto da un testo autorevole
(di Ippocrate, Galeno, ecc.). Procede poi per quaestiones con riferimento alle
quattro cause aristoteliche. La causa materiale (la materia della trattazione),
la causa formale (la sua forma espositiva), la causa efficiente (l'autore
dell'opera), lacausa finale (il fine o
lo scopo dell'argomento prescelto). A questo punto il maestro formula una serie
di dubia, cui facevano seguito i momenti euristici della disputatio ed, infine,
della solutio. Alighieri lo cita in modo dispregiativo nel Convivio (I, x 10):
“Temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido
fatto parere, come fece quelli che transmuta lo latino de l'etica ciò e
Alderotti ipocratista provide. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere. Tra i primi volgarizzatori
toscani è maestro Taddeo, il famoso medico fiorentino, pubblico professore di
medicina nell'Università di Bologna, uno dei personaggi più notevoli del suo
tempo; egli è pure il primo traduttore italico della morale a Nicomaco, che
volgarizzata entra oramai a far parte della cultura generale. Di traduzioni
della Nicoma chea,c'eran ledue greco-latinedell'Ethica uetus edell'Ethi ca
noua,frammentarie,e quella del liber Ethicorum com pletaletterale;ma
ilvolgarizzatorenon poteacertamente servirsi di un testo incompleto o di
traduzioni letterali che avrebbero evidentemente lasciato Aristotele
oscurissimo nel volgare come lo era nell'originale greco e nelle traduzioni
latine. C'erano le traduzioni arabe: quella del commentario di Averroe; ma come
si sarebbe potuto presentare per la
primavoltaa'laici,incapacidicomprendereunvastosi stema filosofico, Aristotele
con tutto il bagaglio delle sue dottrine logiche e metafisiche che servono di
base all'Etica? Restava il compendio alessandrino-arabo, e questo difatti
ammesso alla facile diffusione del volgare divenne il testo morale aristotelico
di moda più recente (1). Al principio della seconda metà del decimoterzo secolo
maestro Taddeo ridusse in volgare toscano ilcompendio ales sandrino-arabo della
morale a Nicomaco; poco più tardi (1)Ho in un lavoro precedente trattato
dell'Etica volgare e fran cese; a quel lavoro modesto richiamo il lettore il
quale, trattandosi di una questione già molto controversa,voglia con sicurezza
accogliere le nostre conclusioni; giacchè ora alle conclusioni sono costretto
dalle necessità e dall'economia dell'argomento. (C. MARCHESI, Il Compendio
volgare dell'Etica Aristotelica e le fonti del VI libro del Tresor in Giorn.
Stor.della lett.it.,vol.XLII,pp.1-74). 116 IL COMPENDIO ALESSANDRINO
-ARABO IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO 117 Brunetto Latini, nella
seconda parte del Tresor accolse il volgare di Taddeo,modificato secondo il
testo originale la tino ch'ei conobbe e a cui portò contributo di novissime m e
ditazioni. Sicché tra i due compendi è una notevole diffe renza: una differenza
che va tutta a favore di ser Bru netto il quale ebbe il vantaggio di lavorar
dopo in un secolo in cui, per quella energia naturale delle letterature
novelle, si progrediva assai rapidamente nel gusto e nella cultura. La
traduzione di Taddeo in gran parte fedele al conte nuto, nella forma è condotta
con una notevole indipendenza rispetto alla frase latina, e non di rado si vede
la sicurezza ch'è nell'intendimento del traduttore e la buona conoscenza
ch'egli ha del linguaggio filosofico: spesso compendia lam a teria, d'altra
parte allarga tante volte la frase o ilconcetto e diluisce nel volgare il testo
latino per bisogno di ripeti zioni e di esempi o di ampliamenti, servendosi,
come fa in principio,di qualche altro rifacimento,e aggiungendo dichia razioni
proprie. Taddeo non è un traduttore letterale che si preoccupi dalla frase e
voglia mantenersi fedele alla pa- ! rola o al tenore dell'esposizione; egli è
solo un interprete occupato del contenuto che pur vuole spesso acconciare dal
lato espositivo nella maniera più rispondente,secondo lui,a'bisogni della
chiarezza e della semplicità. General mente palesa una certa libertà nel
compendiare e nel ren dere il concetto con espressioni diverse dall'originale,come
quando per es.traduce uita scientiae et sapientiae con uita contemplatiua;
delle parti più confuse e difficili a inten dersi fa una parafrasi invertendo
anche l'ordine delle idee e disponendole in maniera più agevole per la
intelligenza finale, seguito in questo naturalmente da Brunetto. Ecco un
esempio: 118 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO Rerum quedam sunt co
gniteapudnosetquedam sunt cognite apud natu ram.Oportet ergo ut a m a tor
scientie ciuilis promtus sit ad res eximias et sciat opiniones rectas. Opinio
nes autem recte sunt ut in arte ciuili incipiatur a re bus apud nos cognitis,et
in consuetudinibus pulcris et honestis facta sit assuetu do,principium enim
estet inceptio a qua res est. Ex manifesto existente suffi cienter quia res
est,non indigeturpropterquid res est. Indiget autem homo ad promtitudinem
habita tionis veritatis rerum bo narum aut aptitudine bone instrumentalitatis
ex qua sciat uerum,aut forma per quam accipiantur princi piarerumabeofacile.Qui
za. uero neutram babuerit h a rum aptitudinum audiat sermonem Homeri (corr.
Hesiodi)poete ubi dicit: quidem bonus est,hicau tem aptus ut bonus fiat.
Qualche volta invece il concetto è più largamente defi nito per l'aggiunta di
qualche breve dichiarazione che serve a chiarirne il contenuto e a precisarlo
di più rispetto alle considerazioni precedenti; cosi il testo dice che l'uomo
ri fugge dai luoghi solitarî o deserti o ermi,e Taddeo aggiunge: «perchè l'uomo
naturalmente ama compagnia »; altrove è detto che beatitudine è cosa completa
che non abbisogna Sono cose lequali sono manifeste alla natura,e sono
cose lequalisonomani feste a noi; onde in questa scienza si dee cominciare
dalle cose lequali sono manifeste a noi.L'uomoloqua lesideestudiarein questa
scienza ed apprendere, si dee ausare nelle cose buone e giuste e oneste; onde
gli conviene avere l'a nima sua natural mente disposta a quella scienza: m a
quello uomo che non hae neuna di queste cose,è inu tile a questa scien
Iliachosesquisont connues å nature et sont choses qui sont conneues à nos; par
quoinosdevonsence ste science commen cier as choses qui sont conneues à nos,car
qui se vuet estudier å savoir ceste science, il doit user des choses
justes,droites et bon nes et honestes,où il li covient avoir l'ame natu raument
ordenée à ceste science: mais cil qui n'a ne l'un ne l'autre regarde à
cequeHomerusdist: Se li premiers est bons,liautresestap pareilliezàestrebons:
mais qui de soi ne set neant, et qui n'aprent de ce que hom li en
seigne,ilestdoutout mescheanz. IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO 119
d'altra cosa; e Taddeo chiarisce « di fuori da sè,. Altre aggiunte, come quelle
di aggettivi, tendono solo ad accre scere l'efficacia del concetto; d'altra
parte ilvolgarizzatore coordina spesso le frasi sciolte e le considerazioni staccate
dell'originale latino nella continuata semplicità di un solo periodo. Brunetto
riempie le lacune: molte espressioni trascu rate da Taddeo o tralasciate a
dirittura per difficoltà d'in tendimento sono supplite nel Tresor; per es. il
testo fa una triplice divisione delle arti: « quedam habent se habitu dine
generum et quedam habitudine specierum et quedam habitudine
individuorum»:Taddeo omette quest'ultima ca tegoria delle arti,notando solo le
generali e le particolari; Brunetto, traducendo anche con finezza letterale ed
etimo logica,completa «et aucunes sont sanz deuision ».Altrove sono interi
brani del tutto omessi nel volgare che Brunetto restituisce alla esposizione
del compendio aristotelico. Dia mone un esempio. Arsciuilisnonpertinet La
scienza da La science de cité go pueronequeprosecuto- reggerelacittade
ridesideriiatqueuicto- non conviene a fantneàhomequivueille rie,eoquodamboigna-
garzonenèauo mais Taddeo non vide nel compendio alessandrino il legame tra le
due considerazioni,e omise l'ultima;difatti il com pendiatore o il traduttore
latino butta giù una frase fuor di senso che non ha rapporto alcuno con
l'originale; Aristotele dice:«non è acconcio l'uditore giovane perchè
èinesperto delle azioni che riguardano la vita, e i discorsi della nostra
verner ne afiert pas à en 1 risuntrerum seculi, mocheseguitile
cequeanduisontnonsa neque proficit ipsis. Non son ensuirre sa volonté, por tem.
que ilse torne me, enim intenuit ars ista scientiam sed conuersio. nem hominis
ad bonita- suevolontadi,pe- chant des choses dou sie rò che non cle: car ceste
ars ne qui savi nelle cose del ert pas la science de l'o secolo. à bonté.
120 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO scienza da queste si tolgono e
intorno a queste si aggirano (οι λόγοι δ'εκ τούτων και περί τούτων). Non pero
tutte lelacune sono supplite da Brunetto: la omissione di qualche concetto
importante nel volgare e nel francese, è giustificata dal fatto ch'esso si
trova altre volte particolarmente espresso e dalla facilità di richiamarlo alla
mente nei luoghi ov'esso è ripetuto; cosi avviene per il principio più volte
enunciato della eccellenza del bene voluto per sé, rispetto al bene voluto per
altro. Brunetto elimina pure qualche ridondanza del volgare; cosi « ars
directiua ciuitatum, che Taddeo traduce «l'arte civile la quale insegna reggere
la cittade » 1 è resa nel Tresor « l'art qui enseigne la cité à governer »;
altre volte invece la espressione è più estesa in Brunetto, come quando traduce
con «principaus et dame et soverai n e » il semplice « princeps » riferito
all'arte civile, mentre più sicuro intendimento dell'espressione: dice il testo
che la beatitudine, come l'uomo che dorme, non manifesta al cuna virtù quando
l'uomo la possiede in abito e non in atto, e Brunetto aggiunge « ce est à dire
quant il porroit bienfaireetilnelefaitmie»;epocoprimaalladefini zione della
potenza razionale ch'è più degna quando si è in atto, aggiunge « chè il bene
non è bene se non è fatto (car se il ne le fait, il n'est mie bons)».Talune espressioni
proprie del traduttore francese vanno oltre i bisogni della chiarezza e la
necessità dell'intendimento; laddove il testo latino dice del bene dell'anima
ch'è il più degno di tutti, Brunetto inserendo il concetto della divinità mette
di suo la ragione « car ci est li biens de Dieu », evidentemente per il bisogno
di ribadire il principio che pone in dio il sommo bene e di asservire il
trattato aristotelico alle idea il volgare dice solo « principale e
sovrana ». L'aggiunta * comunemente è fatta per maggiore precisione e per
un IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO 121 c o n « colui che sta nel
travito »; il francese si riconduce all'esatta interpretazione « li sages cham
pions et fors ». Nello sfrondare le ridondanze del volgare e nel ridurre la
materia alle proporzioni dell'originale la tino,Brunetto non sempre riesce a
cogliere l'esatto inten dimento della parola, e riducendo smarrisce l'idea che
vi èracchiusa;ilt.ha«quemadmodum peritiagonistaeatque « robusti coronantur
quidem et accipiunt palmam apud actum agonisetuictorie»;Taddeo
traduceaėsomigliantedi quello che sta nel travito a combattere; chè solamente
quelli che combatte et vince, quelli å la corona della vittoria », e fa vera
illustrazione della frase finale «e se alcuno uomo sia più forte di colui che
vince, non à perciò la corona, perch'egli sia più forte, s'egli non combatte,
avvegna che egli abbia la potenzia di vincere >; Brunetto si ferma alla
prima parte « si comme li sages champions et fors qui se
combatetvaintemportelacoronedevictoire trascurando il significato particolare
dell’apud che qui sta per post. Pure nellaintelligenza della parola
latinailtestofran cese è generalmente più fine del volgare (1), nel quale tal
volta si trova sconvolto l'ordine delle frasi e delle idee, (1)Un esempio:t.difficile:Tadd.impossibile,Brunet.dure
chose; t. in omnibus artificibus, T. nelle cose artificiali, B. choses de
mestier et de art. lità contemporanee della fede. Generalmente Brunetto
ha m a g g i o r i r i g u a r d i p e r il t e s t o, p e r c i ò c h e r i g
u a r d a i c o n cetti semplici e le singole espressioni. Cosi egli corregge
la frase talvolta malamente resa o ingiustamente compendiata e confusa da
Taddeo. Questi si restringe talora a molto s e m plice espressione, impropria,
che mal si adatta al concetto latino,come quando traduce « periti agonistae
atque ro busti > 122 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO per
deviazione dal retto intendimento del latino. Riporto un brano. Brun.car il
estdure chose que Taddeo traduce la seconda parte del periodo: ut pote. come se
fosse esplicazione del concetto già espresso: opera decora exerceat; Brunetto
la riferisce invece al precedente: absque materia.Nel volgare
italicoetalvoltaanche,inma niera alquanto diversa, nel francese l'espressione
latina è modificataquando apparisca troppo cruda.Infinedel compen dio
aristotelico si parla di uomini che non si possono correg gere con parole, per
cui occorre « assiduatio uerberum t a m quam in bestia »;Taddeo traduce
vagamente «pena »; Brunetto è più civile ancora « menaces de torment ». Il
volgarizzatore francese tende spesso,più che il medico fio |rentino, a
modificare quelle che a lui sembrano asperità di giudizio o durezze
d'espressione. Così,nello stesso brano, de'delinquenti per natura,di coloro che
non possono cor reggersi con parole nė percastighi,diceilt.«tollendisunt de
medio»,eTaddeoletteralmente«sondatorredimezzo »; Brunetto è meno severo «tel
home doivent estre chastié si que il ne demourent avec autres gens ». È un
riscontro ca suale; ma sinotiad ogni modo come l'urbanità dell'espres sione
francese e la temperanza cortese di giudizio pare si accordi coi principî
positivi di un diritto criminale molto recente ! E Brunetto si accorda talvolta
con Taddeo nel m o T. difficile est enim Tadd. perciò che non homini ut
opera decora è possibile all'uomo exerceat absque mate ch'egli faccia belle o
riautpotequodha pereech'egliabbia beatpartemcompeten arte la quale si con tem
rerum bone uite pertinentiumetcopiam eabbondanzad'amici familieetparentumet
ediparenti,eprospe prosperitatemfortune. rità di ventura sanza venga a buona
vita, li beni di fuori. ne... 5 1 l'on face b e lesoevres,seiln'ia gran part
des choses avenables à bono vie et habondance d'avoir etd'amisetdeparenz, et
prosperité de fortu IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO 123 dificare
le opinioni del testo, come quando fieri amendue della loro vita comunale,
rinnegano il detto d'Aristotele che l'ottimo governo sia nel principato,
affermando migliore il governo delle comunità. Un'osservazione finale. Brunetto
qualche volta fa dei tagli al testo latino e al volgare, sopprimendone talune
espressioninonperamoredibrevità,ma evidentemente perch'ei si rifiuta di
accoglierne il giudizio. Ciò risulta chiaro dalla costanza con cui
l'espressione è soppressa ogni qualvolta si presenti nell'intendimento voluto
dal l'autore. Una prova: al principio del II° libro (cap. VII ediz. Gaiter) il
compendio latino e con esso Taddeo fa una duplice divisione della virtù:virtù
intellettuale,come sa pienza scienza e prudenza,e virtù morale come castità lar
ghezza umiltà; e poi lo esempio « quando noi volemo lodare un uomo di virtude
intellettuale diciamo:questo è un savio uomo intendevile e sottile:quando
volemo lodare un altro uomo di virtude morale, diciamo: questo è un casto uomo
umile e largo » (1). Nell'uno e nell'altro caso Brunetto sop prime a dirittura
l'espressione che racchiude il concetto della umiltà. La prima volta dice della
virtù morale,ch'essa è « chastée et largesce »e soggiunge un po'infastiditoe
non curante del testo « et autres choses semblables »; nella se conda parte
dice semplicemente « ce est uns hom chastes et larges ».Ed è curioso e notevole
documento questo d’uno tra ipiù illustri rappresentanti del laicato dotto del
tem po, uomo di parte e d'azione tenace e bellicosa e guelfo ardente,che si
rifiuta cosi chiaramente di accogliere l'umiltà tra le virtù morali,
ribellandosi al giudizio che uomo umile ė uomo virtuoso. C'è qui l'alto sentire
del laico e lo spi (1) « ex parte moralium largum uel castum uel humilem.uel m
o destum eum appellamus ». 124 IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO
ritosdegnosoelaboriacavallerescadeltempo,chesian nidava bensi nella fierezza
solitaria e nella severa integritå dell'uom casto, o sorrideva nel magnifico
gesto signorile d e l l ' u o m l a r g o e c o r t e s e, m a n o n si a c c o
n c i a v a a i n d o s s a r e il saio dell'umile curvato. Quale dei due
traduttori abbia merito maggiore non possiam dire. Taddeo ha il merito
dellapriorità;ma egli compendia troppo, abbrevia, toglie parte di considera
zioni e di esempi al testo latino; Brunetto che lavorò a p presso a lui è più
fine e completo, e poi anche il fran cese si prestava allora assai meglio del
volgare italico. Taddeo molte volte amplia o riduce la materia, Brunetto
traduce con maggiore fedeltà sia nell'evitare le ripetizioni inutili del
volgare sia nel colmarne le lacune rispetto all'ori ginale latino, le cui
espressioni segue con attenzione e riproduce spesso con esattezza.Siamo nel
periododeicom pendi e dell'enciclopedia. Un compendio fatto è fatica ri
sparmiata al maestro che deve dire le «chose universali ». Brunetto,che aveva
intelligenza fine,trasse il compendio italico alla lingua di Francia e
l'incluse nell'opera sua e ne colmò le lacune e ne affinò i contorni e lo
ripuli di fronte al testo latino da cui egli pompeggiandosi dicea di aver
tratto la parte morale del Tresor. E non fa cenno di T a d deo: egli accoglie,
corregge, assimila; d'altra parte è tutta una letteratura e una divulgazione
anonima quella che dal l'ultimomedioevovaaltrecento,eidirittidi proprietà
letteraria non sono ancor sorti. C'è però da osservare che nel ritocco della
materia volgare Brunetto non va oltre qualche singola espressione o frase,
trascurata o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad acconciare
la materia nel contenuto ideale,per ilmodo con cui le idee furono esposte nel
volgare o compendiate o disposte o in IL COMPENDIO ALESSANDRINO
-ARABO 125 terpretate.Questo dunque testimonia onorevolmente che Tad deo era
allora ritenuto autorevole intenditore del trattato ari stotelico anche da un
uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande discepolo di
costui non appa risse ugualmente felice dicitore del volgare.Tuttavia le m o
dificazioni introdotte da Taddeo e assai più ancora da Bru netto non sono tali
da farci notare la presenza di nuovi elementi etici o l'azione modificatrice
diretta del tradut tore spinto da una evoluta coscienza sociale del tempo.Gli
scrittori del medio evo accolgono e credono; sono ansiosi di notizie come sono
pieni di fede. Si accetta tutto, il vero e il falso, anzi più il falso che il
vero; a Taddeo che scrive un sonetto sulla pietra filosofale (1) risponde
Brunetto che r a g i o n a s u l l e v i r t ù d e l l e p i e t r e. È a n c o
r a i n t a t t o il m o r t o e d i ficio secolare della fede, che più tardi
la critica del quat trocento ridurrà nei frantumi donde sorgerà la nuova co
scienza degli individui e delle genti.
(1)MAGLIABECH.XVI,7,75;cartac.sec.XV.«Carmina magistri Tadei de florentia super
scientiam lapidis philosophorum ex Alberto Magno edita feliciter. «Soluete
icorpi inaqua a tuti dico |Voi che in tendete di far sol et luna |Delle duo
aque poi prendete l'una |Qual più vi piace e fate quel chio dico |Datella a ber
a quel uostro inimico | Senza manzare i dicho cosa alguna |Morto larete e
riuerso in bruna | Dentro dal cuore del lion Anticho |Poi su li fate la sua
sepoltura |Si e in tal modo che tuto si sfacia |La polpa e lossa o tuta sua
giuntu ra|La pietraareteedapoiquestosifacia(sic)|Deterraaquaetdaqua terra fare
|Così la pietra uuol multiplicare |E qual intendera ben sto sonetto |Sera
signor de quel a chi e suzetto ». Il compendio alessandrino-arabo prestó
dunque la ma-: teria etica aristotelica al volgare d'Italia e di Francia; e la
morale a Nicomaco potè cosi divenire libro di attualità adoperato e sfruttato,
nella valutazione dei principi etici e nella decisione delle finalità umane,
dai nuovi scrittori vol gari: tra questi ė Dante Alighieri,a cui Taddeo dié
motivo di presentare in più nobil veste il volgar di Toscana (1), e
Brunetto Latini avea ad ora ad ora insegnato « c o m e l ' u o m s'eterna ». IL
COMPENDIO VOLGARE LE FONTI DEL VI LIBRO DEL " TRESOR, Il presente lavoro
fa parte di un altro più esteso e completo sui rifacimenti aristotelici latini
e volgari, il quale spero verrà presto a portare un contributo,non privo
d'interesse,alla storia ell'aristotelismo nella pre-rinascita e a colmare
qualche lacuna la conoscenza del movimento intellettuale che fu prima del
quattrocento:giacchè ne'volgarizzamenti e ne'rifacimenti sta i cultura del
trecento; seguendo il volgarizzarsi e il diffondersi della cultura medievale e
classica, specialmente, noi troveremo i sentiero ascoso che va da Dante teologo
al Petrarca filologo. Ma ora ho fatto opera molto modesta; trattando solo le
spi. ese questioni critiche agitate intorno al compendio volgare ell'Etica, ho
inteso risolvere taluni dubbî,lungamente mante nūti, ed eliminare molti errori.
Il lettore, che attende forse uno studio riassuntivo sulla influenza della
morale aristotelica, comprenderà come questo sia possibile solo alla fine
dell'opera, quando le ricerche già fatte e i risultati ottenuti ci metteranno
in grado di poter volgere uno sguardo sicuro e sereno su quel grande campo dove
la tradizione aristotelica alligno rigogliosa e tenace ramificandosi e
abbarbicandosi per una serie copiosis. sima di rampolli viziosi e
invadenti. DELL'ETICA ARISTOTELICA C. MARCHESI. 1 E 2 C.
MARCHESI Il compendio volgare dell'Elica nicomachea fu per la prima volta
impresso a Lione (1568)a cura dell'editore Jean de Tournes, su di un
manoscritto appartenente a Jacopo Corbinelli (1).Do menico Maria Manni stimo
inutile, per le moltissime mende, la edizione francese,condotta inoltre su un
solo manoscritto,e ristampò il trattato aristotelico valendosi principalmente
di due codici Laurenziani,il 19 e il 23 del plut.XLII (2).L'ultima ediz.del
1844 fu condotta da Fr. Berlan su un cod.del sec.XIV e in base a un esemplare
dell'ediz. lionese emendato e comple tato da Apostolo Zeno su un ms.del 1410
(3). Com'è noto,ilcompendio volgare dell'Elica aristotelica è quello stesso che
forma il VI libro del Tresor volgarizzato, se condo la comune opinione, da Bono
Giamboni; pero si trova anche in tutte le edizioni del Tesoro
volgare:Treviso,Gerardo Flandrino(de Lisa),1474;Venezia,Fratelli da
Sabbio,1528;Ve. nezia,Marchio Sessa,1533;Venezia,1839acuradiLuigiCarrer il
quale nel libro VI seguì anche le due edizioni, Lionese e del Manni;Bologna,
1878,ed.da Luigi Gaiter il quale si valse di tutte le stampe
precedenti,de'mss.del Tesoro e di raffronti continui col testo francese. Eppure
di questo compendio manca una stampa che ne ripro duca fedelmente e criticamente
la lezione;giacchè a tutti gli editori dell'Elica,che eseguirono le loro stampe
sulle precedenti o solo col sussidio di qualche ms.,sfuggi quella rigogliosa co
munione di codici, che abbiam potuto noi esaminare, da' quali (1) L'Etica
d'Aristotile ridotta in compendio da ser Brunetto Latini et altre tradutioni et
scritti di quei tempi. Con alcuni dotti Avvertimenti
intornoallalingua,Lione,Giov.deTornes,1568. (2) L'Etica d'Aristotile e la
Rettorica di M. Tullio aggiuntovi il libro de' Costumi di Catone, Firenze,
1734. Dall'edizione lionese trasse la parte riguardante le quattro virtù un tal
Luigi Ruozi che la pubblicò modifican dola nell'ortografia e nella lezione:
Trattato delle quattro virtù cardinali compendiate da serBrunettoLatini sopra
l'Eticad'Aristotile,Verona, 1837,pp.16. (3) Elica d'Aristotile compendiata da
ser Brunetto Latini e due leggende di autore anonimo,Venezia,1844.
--- IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 3 sarà possibile,
con un esame complessivo, trarre nella sua veste primitiva l'antico
volgarizzamento toscano; d'altra parte gli editori più recenti del Tesoro nel
curare la lezione del VI libro, ritenendolo, com'era naturale,volgarizzamento
dal francese, come tutti gli altri libri, credettero opportuno acconciarne la
lezione anche inbase al testo francese,alterandone laveste ori ginaria e
originale. Intorno a questo antico e primo compendio volgare dell'Etica si è
agitata una lunga e spinosa questione. Esso fin dalle prime stampe porta il
nome di Brunotto Latini, e il fatto stesso poi che si trova inserito nel testo
volgare del Tresor, di cui costi tuisce appunto la materia del VI libro,non ha
mai fatto dubitare ai critici e agli editori ch'esso non si debba considerare
come una parte del Tesoro e quindi,come tutti gli altri libri, volga rizzamento
di Bono Giamboni.Solo il Mabillon,ritenendo che Brunetto stesso avesse
volgarizzato il suo Tresor, credeva che ciò fosse pure avvenuto dell'Etica (1).
Il primo dubbio intorno al traduttore del compendio francese in toscano fu
mosso dal Manni, indotto da una nota del Salviati il quale « trovò in fronte «
a un particolar testo dell'Etica: Qui comenza l'Elica di Ari. « stolile
volgarizzata per maestro Taddeo medico e philosopho «dignissimo».Ad ogni modo
egli si acqueta volentieri all'au. torità della Crusca che cita il Tesoro «
tutto » stampato per traduzione di Bono Giamboni (2).Altri che vennero dopo
nota rono che qualcuno dei mss. dell'Etica indicava un maestro Taddeo come il
volgarizzatore dell'opera; difatti il Lami ritiene che ilvero traduttore sia
Taddeo (3),e ilMebus,seguito dal Maffei(4),sostieneche la versione di
Taddeo,fatta probabil mente assai prima,venisse più tardi inserita nel Tesoro
volga. rizzato,in tuttiglialtri libri,da Bono Giamboni (5).Lo Chabaille,
(1)Museum Italicum,Paris,1687-89,vol.I,P. I,p.169. (2)Op.cit.,pp.xisgg.
(3)Novelle letterarie,Firenze,1748,p.303. (4) Storia della lett. ital., 3a
ediz., Firenze, 1853, 1, p. 35. (5)VitaAmbrosii Traversarii,p.CLVIII.
che curò la edizione critica francese del Tresor, dalla perfetta
somiglianza ch'è tra l'Elica e il vi libro del Tesoro, deduce che Brunetto
avesse tradotto Aristotile in italiano prima ancora di voltarlo in francese, e
che quindi il compendio volgare del l'Etica dev'essere a lui attribuito (1).Il
Paitoni,che scrisse sopra tale argomento un lungo articolo, finisce col non
sapere da che parte decidersi (2).Giov.Battista Zannoni ha spinto in vece la
questione molto avanti,servendosi di un passo del Conrito di Dante
(Tratt.I,cap.10),dove è fatto cenno di un volgarizzamento dal latino dell'Etica
per opera di Maestro Taddeo,ilcui volgare Dante chiama «laido».Lo Zannoni ri
tiene « che Brunetto voltasse in francese il volgare di Taddeo « e che il
Giamboni a questo desse luogo nella sua versione «delTesoro»(3).QuestacongetturaèancheaccoltadalPuc
cinotti,ch'è stato il più accanito difensore di Taddeo (4).Il Sundby combatte
tutte le opinioni precedenti:quella delloCha. baille e dello Zannoni,opponendo
loro le parole stesse di Bru netto che,nella sua introduzione, assevera di aver
tradotto dal latino in francese,de latin en romans;quella del Mehus, citando il
passo di Dante il quale parla evidentemente di una traduzione dal latino. Egli
reputa diversa da quella che abbiamo la traduzione di Taddeo,dicui sifacenno
nel Convito;afferma recisamente che Brunetto ha tradotto Aristotile dal latino
in francese e che il testo italiano dell'Etica è opera di Bono Giam
boni(5).IlGaiter,ch'è ilpiùrecenteeditoredelTesoro,se guendo,come
pare,lacongettura dello Chabaille,confonde la (1)Lilivresdou
TresorparBrunettoLatini,Paris,1863,Introd.,p.xv. (2) Biblioteca degli autori
antichi greci e latini volgarizzati, Venezia, 1766, vol.I,pp.103-29. (3) Il
Tesoretto e il Favolello di ser Brunetto Latini, Firenze, 1824,Pre
fazione,pp.XXXV sgg. (4)Storia della medicina,Firenze,1870,vol.I. 4 C.
MARCHESI (5) Della vita e delle opere di Brunetto Latini, Firenze,1884,pp.139
sgg. La stessa opinione del Sundby aveva esposta prima V. Nannucci,Manuale,
Firenze, 1858, vol. II, p. 383. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 5 Nicomachea con ilLibro de'Vizi e delle Virtù e con il VI libro
del Tesoro, il quale « fu prima compilato e poscia dall'autore «annestato nella
maggior parte del Tesoretto»(1);e altrove ricorda una nota del Sorio che
attribuiva a Brunetto Latini il volgarizzamento dell'Elica d'Aristotile (2);
del resto non fa cenno dellaquestione.IlCecioni,perultimo,trattando delSecretum
Secretorum, in una breve digressione sull'Elica volgare, dopo avere riassunto
tutte le opinioni,assicura che Taddeo deve averne fatto una traduzione, poichè
altrimenti sarebbe inesplicabile il motivo per cui parecchi codici di
rispettabile antichità attribui. sconolatraduzioneaTaddeo;ma
delrestoaffermachelaque. stione circa il volgarizzamento dell'Etica, che noi
possediamo, rimane indecisa nè si potrà forse in alcun modo risolvere (3). Cosi
scetticamente si chiude la questione, irresoluta. Dopo l'esame dei codici
dell'Elica volgare e latina e del Te soro, non è più lecito dubitare di poter
decidere la questione in modo definitivo, e a definirla concorrono parecchi
dati positivi e sicuri; il primo, di capitale importanza: la tradizione m a n o
scritta. Il compendio volgare della Nicomachea ci ha una ben larga ed evidente
tradizione isolata.Nelle biblioteche di Firenze,ove il latino del testo
aristotelico ebbe per la prima volta veste vol gare e popolare conoscenza, ben
ventidue codici ci attestano della larga diffusione che il volgarizzamento ebbe
come opera a sė, indipendente da altre opere più larghe che la integrassero. A'codici
fiorentinisiaggiungonoaltrichehopotutoesaminare: due Ambrosiani,tre
Marciani,uno della Nazionale di Napoli,uno della Comunale di Nicosia. Pochi
altri mss.dell'Elica si trovano sparsi per le biblioteche d'Italia, ma da
ragguagli cortesi che ho potuto avere di essi, è lecito dedurre come tutti
quanti ade riscano per contenuto e per lezione al nucleo centrale e fonda
mentale dei mss.fiorentini. (1)Ediz.cit.del Tesoro,Prefaz.,p.xv.
(2)Ivi,p.XLII. (3) Propugnatore, 1889, p.72. Tutti icodici
presentano una redazione unica del volgarizza- mento,che è quella stessa della
edizione Manni, con la quale ho fattolacollazione(App.I).Le varianti
frequentinellalezione,le inversioni,le omissioni reciproche,gli scambi,le
lacune del testo a stampa sopra tutto, si debbono, oltre che alla bontà
maggiore o minore del modello, a sbagli de' trascrittori, e non valgono dinanzi
alla somiglianza e conformità dell'assieme.Molte lacune e accorciamenti si
possono attribuire soltanto a sbada taggine de'copisti per le gravi difettosità
che ne vengono al senso,e sono indubbiamente prodotte dalleespressioni
consimili cheapocadistanza han prodottolafacileomissione:giacchè il copista
credendo di proseguire saltava d'un tratto il brano. Accanto alle lacune (1),
che dànno qualche volta luogo a strane combinazioni d'idee,va notato un buon
numero di ampliamenti, di cui taluni sono ripetizioni di luoghi
antecedenti.Qualche volta le parole si trovano collocate in maniera diversa nel
periodo o sostituite con altre e mutate con lo scopo di abbreviare o modifi c a
r e il c o s t r u t t o (2 ); l e m o l t e d i f f e r e n z e o r t o g r a
f i c h e v a n n o r i f e r i t e al tempo della trascrizione. Fra i codici
che più si accostano al testoastampa vanno notati 6.c.g.h.4.2.m.p.e
specialmente d ed e,iquali hanno pure comuni con il testo Manni molte
particolarità ortografiche.Le maggiori divergenze presentano i codd.7 e 1;in
quest'ultimo è notevole un'aggiunta al libro sesto (3). Nel cod. V la lezione
presenta spiccate differenze, (1) È da osservare come nel secondo libro (cap.IX
del Tesoro)occorrano tre parole greche trascritte con caratteri
latini:19)apeyrocalia (5. x.8. m.p.) oapeiorocalia(4.y.)edanche
apeyrochilia(6)eapherocalia(g):in pa recchi codici tale parola è mancante
perchè manca il brano che la contiene; 29)eutrapeles(x.y.4.m.p.)o
eutrapelos(2.6.7.d.e.f.g.h.)ed anche eutrapelo (6) ed eutrapeleos (8); 3o
recoples (y.x.5. 7. 8. c.d.f.h.4. 2. p.) orechoples(e.g.)ed anche
recupes(6)erecopls(2).Inqualchecodice, come nel cod.1, il copista salta il
passo dove avrebbe dovuto introdurre le parole greche. (2 ) C o m e s i n o t a
a n c h e p a r t i c o l a r m e n t e n e l l ' A m b r. C. 2 1, i n f., c h
' è u n a trascrizione umanistica della seconda metà del '400,
(3)Manni,p.39;Gaiter,p.115:«in questo cambio era grande brigaet 6 C.
MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA specialmente
nella seconda metà,dalla lezione comune,e risente dell'influenza dell'opera
francese di Brunetto e dell'azione diretta modificatrice del trascrittore:
l'influenza del francese in questo c o d i c e, c o m e n e l l ' A m b r o s.
c. 2 1 i n f., c i è a t t e s t a t a i n d u b b i a m e n t e dal fatto
ch'essi vanno oltre il limite solito dell'Elica e prose guono con le stesse
parole, intorno alla differenza tra la retorica e la scienza di fare le leggi,
le quali chiudono il VI.libro del Tresor; ma possiam dire che per quanto la
lezione di V sia in molti punti alterata,non presenta tuttavia una redazione
diversa dalla comune dei mss.e delle stampe del Manni e del Gaiter, alla quale
ultima specialmente aderisce verso la fine.Dall'esame critico della lezione
risulta una somiglianza intima tra icodd.1 e 7; tenendo poi conto delle
particolarità più comuni, possiamo stabilirediversi gruppi di codici:a)1.a.y.5.6.7.8.x.r.
9.checidannolapiùautorevolelezione;b)g.C.d.e.f.N.r. 2.s.;c)4.m.p. Come s'è
detto, il compendio volgare dell'Etica si trova pure inserito nel
volgarizzamento del Tresor, di cui forma la prima metà della seconda parte, o
meglio il VI libro, secondo la indi. cazione comune.Dei venti codici del Tesoro
da me esaminati, dodici solamente contengono il trattato aristotelico: gli
altri sono mutili (App. II). La lezione dell'Etica ne' codici del Tesoro,
tranne le solite Jivergenze omai notate come comuni in questa redazione del
l'Etica volgare,è da collegarsi alla stessa famiglia dei codici isolati e
de'testi a stampa.C'è da notare nel complesso un numero
maggioredivarianti,omissioni,aggiunte,frequentissimi sbagli di trascrizione e
qualche breve interpolazione del copista «pero fue trouata una
cosac'aguagliasse etquestacosasièildanaio. « percio che l'opera di colui che fa
la chasa si aghuaglia ad opere di colui « che fae i calzari col danaio; chè per
lo danaio puote l'uomo donare et « prendere le grandi cose e picciole, per cio
che 'ldanaio è uno strumento «perloquale
ilgiudicepuotefaregiustizia,perocheeldanaioèleggie «senz'anima.ma
ilgiudiceèleggiech'àanimaetdiogloriososièleggie « uniuersale d'ongni cosa
», stesso,che sidistingue subito permancanza di riscontroinaltri
codici.Oltrere P,che servirono di base allastampa fiorentina, uno de'codici più
fedeli all'ediz.del Manni è l'Ambros.G. 75 Sup.e Z,dove pur si trova una grande
confusione causata dallo spostamento di varie parti.Tra icodd.più scorretti dal
lato ortografico e P. In base alle particolarità più comuni icodd.del Tesoro si
possonodividere ne'seguenti gruppi:19)d.v.1. 2°)n. λ.π.φ.3ο)λ.μ.γ.Ρ.Ζ.ε.Ambr.
Riassumendo,possiam dire: la lezione del testo aristotelico volgare appare
generalmente, ne'codd.dell'Etica e del Tesoro, fluttuante,poco sicura.Ma
lesolite differenze nella espressione, nella struttura del periodo, le
frequenti omissioni e aggiunte di parola,gli spostamenti e le lacune,comuni
alla maggior parte dei codici,riguardano più d'ogni cosa la bontà della
copia,la correttezza del modello copiato, la esperienza o la libertà del
l'amanuense, ma non compromettono in alcun modo l'unità del volgarizzamento. La
materia dell'Etica si trova nella maggior parte dei codici ugualmente
distribuita.Una grave inversione presentano 1. d.
e.s.;inessiiltestodap.6Manni[Gaiter25:compimentoe forma di uirtu ] va d'un
tratto a p. 18 (Gaiter 57: ciascuno huomo che ingiusto et reo sie] e seguita
sino a p.21 (Gait.66: E pero è bestial cosa seguir troppo la dilettazione del
tatto] donde torna indietroap.9 [Gait.34:La potenzia uae'innanzi all'acto] e
prosegue sino a p. 18 [Gait. 57: dee l'uomo essere punilo];quindi
tornadinuovoap.6 (Gait.25:beatitudoècosa ferma et stabile] seguitando sino alla
fine del primo libro [p.8 M., 31 G.: Questièun casto huomo, humile et largo).È
determi nato cosi uno scambio reciproco, nel principio, de'libri secondo e
terzo. 'T 8 G. MARCHESI Un'altra inversione è nei codd.del Tesoro a.T. X.
u.In essi iltestodell'Eticadallafinedelcap.XXIX (pp.M.35,G.101: l'uomo si uiene
a fine con grande sottilglianza de li suoi in
tendimentinelecoselequalisonbuonema questasottilglianza e cerlezza e sauere
ragion diuina e le dilettationi che l'uomo IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 9 elegge per gratia d'altro.son queste ricchezza
etc.... Jez.u] corred'untrattoalcap.XXXVIII (pp.M.41,G.121]eprosegue sino al
primo periodo del cap.XXXIX (pp.M. 43,G. 125:per a u e r e l u n g a m e n t e
u i n t i li d e s i d e r i d e l l a c a r n e. L o m a g n a n i m o serue
bene.....u]; quindi ritorna al cap.XXXIV (pp.M. 37, G.110)evasinoalcap.XXXVIII
(pp.M.41,G.120:inman. giare e in bere e in luxuria e tutle dilectationi
corporali ne la misura delle quali l'uomo elegge per se medesimo.et quando ella
e rea si detta callidita. ne le cose ree si come incanta menti.....u];dopo itre
primi periodi del cap.XXXVIII torna cosi nuovamente al cap.XXIX (pp.M. 35,G.
101). La stessa i n v e r s i o n e n e l l ' o r d i n e d e l l a m a t e r i
a h a il m s. V i s i a n i. I codici dell'Etica,in gran parte,presentano la
solita divisione della materia in dodici libri,che non di rado è limitata alla
semplice indicazione numerica,senza alcun accenno all'argo m e n t o s v o l t
o (h. 4. ); i n p a r e c c h i c o d i c i (y. c. e. h. 4. m. r.) l a materia
oltre che in libri è divisa in tanti capitoletti; in altri (5. 6. I. v.)
soltanto in rubriche le quali sono qualche volta costituite dalle stesse parole
del testo,come in 5 e 6.Altri co. dici mancano di qualunque divisione sia in
libri che in rubriche (p.8.Amb.166).L'Ambr.C.21inf.,delsec.XV,presentala
partizione comune fino al decimo libro;la materia degli ultimi due è divisa in
tre capitoli (c.53':tracta di la beatitudine la quale puo hauere in questo
mondo: Di po la uirtu diciamo di
labeatitudine;c.57"tractachesel'huomohabuonanatura la ha da dio: sonno
huomini che sonno buoni per pauura; c.57'diGouernamento
dilacittade:lonobilehuomoetbuono regitore di la citta fa nobili et buoni cittadini).
In d in luogo di libri è detto fioretti, e cosi pure al principio di v:
Fioretti dell'Elicha d Aristotile del primo libro. . Dei codici del
Tesoro,taluni (e,u,n) non danno alcuna in dicazione sul modo con cui la materia
è distribuita;altri (a,a) hanno un elenco delle rubriche posto in principio
alla seconda parte dell'opera, vale a dire il VI libro; in 8 è un rubricario
generale posto in principio del Tesoro; le rubriche di t fanno !
parte del testo,e una divisione in capitoli si trova in r (De leuilenominale
deletrepotenziedel'anima Come lobene si diuide de la polenzia dell'anima de la
uerlude intellec tuale |di che l'omo desidera tre cose |de le uerlude che ssono
inabito comesitroualauerlude comel'omopuofarebene e male d e le tre isposizioni
in operatione de le cose che conuienefareperforzaetc.).Induecodici(Z
eAmb.)tutta la materia del VI libro è divisa in cinque capitoli: 1°) « Incipit
«libro d'eticha Aristotile; 2) Secondo capitolo d'elicha Ari
«stotile:sonooperationi lequali homo fa;39)Terzocapilolo « d'eticha: due sono
le specie d'amista; 4 ) Quarto capitolo de « eticha: la dilectatione è nata e
notricata; 5°) Quinto capitolo « de etica: Dopo le uirtù diciamo oggimai della
beatitudine ».Altri codici presentano la divisione per libri o per rubriche che
si trova nelle stampe. Riferiamo il titolo originario dei dodici libri
dell’Etica, traen dolo da'codici più antichi ed autorevoli, del sec.XIV: «
Prologo « sopra l'etica d'Aristotile Qui si finisce il prologo di questo «
libro d'Aristotile. Qui appresso si comincia il primo libro e « tracta in
questo primo libro della felicitade: le uite nominate ve famose.IQui comincia
ilsecondo libro dell'Etica d'Aristo « tile e comincia a diterminare delle
uirtudi e primieramente « mostra che ongni uirtu che noi abbiamo è per
costumanza « d'opere:Concio siacosa che siano due uirtudi.|Qui comincia « il
terzo libro dell'etica e tratta dell'operazioni le quali sono « uolontarie e
che non sono uolontarie: Sono operazioni le quali « l'uomo fae sanza sua
uolontade |Qui comincia il quarto libro « dell'etica d'Aristotile ove si
ditermina di quella uertude la « quale è detta uertude della liberalitade:Larghezza
è mezzo in « dare e in riceuere pecunia |Qui comincia il quinto libro del «
l'etica e determina della giustizia la quale è uerti che dee « essere
nell'operatione delli huomini: Iustizia si è abilo lau « d e u o l e | Q u i c
o m i n c i a il s e s t o l i b r o d e l l ' E t i c a e c o m i n c i a a d
e « terminare delle uertudi intellettuali per ciò che infino a quie
«ellisiaediterminatodelleuirtudimorali:Due sonolespezie 10 C.
MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 11 « delle
uirtudi |Qui si comincia il settimo libro dell'etica del « s o m m o filosofo
Aristotile e ditermina della uertude la quale è « detta uertude della
contenenza: Li uizii de costumi molto « reil Qui comincia l'ottavo libro
dell'etica d'Aristotile nel quale «ditermina dell'amistade la quale è cosa
necessaria all'uomo: « Amistade si è una delle uertudi dell'uomo IQui comincia
il « nono libro dell'etica d'Aristotile il quale ditermina della pro «prietade
dell'amistade: Lo conueneuole agualliamento si « aguallia le spezie Qui comincia
il decimo libro dell'etica « d'Aristotile nel quale tratta della dilettazione e
della felicitade « per ciò che pare che queste due cose si sieno fine de la
dilet. « tazione et dice qui che la dilectazione si è fine dell'operazione
«virtuosa:La diletlazionesiènataenotricata|Quicomincia « l'undecimo libro
dell'etica d'Aristotile nel quale ditermina della « beatitudine la quale puote
l'uomo auere in questa uita. Et dice « qui che la beatitudine è cosa perfecta:
Dopo le uirtudi di. « c i a m o o g g i m a i | Q u i c o m i n c i a il d o d
e c i m o l i b r o d e l l ' E t i c a. E t « determina come l'uomo il quale à
buona natura si l'ae dalla « grazia di dio, et questi cotali sono disposti ad
acquistare uer. « tudi: Sono uomini che sono buoni per natura ». Del rubricario
più comune diamo per saggio quello del primo
libro:«Perqualescienziașireggelacittade delleuiteet « quale è laudabile |di due
modi di bene che è beatitudine «dellepotentienaturalidell'anima
demeritidelleoperationi aditrespeziedelbene Comes'acquistaetconserualabeati. «
tudine |Onde uiene la beatitudine e di che à bisognio chi « non puote auere la
beatitudine per che /che cose sono aspre « a sofferire |come ae similitudine
l'uomo felice con dio onde « procede felicitade |in che comunica l'uomo colle
piante et colle «bestieetincheno dell'animacom'aecontrarimouimenti « della
uertu intellettuale e della morale ».Nel codice Marciano
II,141,lamateriaèdiversamente distribuitaindodici«parti»; la prima non è
indicata,poi «della forteça: Diciamo omai di « ciascuno habito della
liberalità: largheça è meço in dare « del conuersare: dopo questo dobbiamo dire
di quelle cose «dellagiustitia:Justiciasièhabilolaudabile
dellointellecto « dell'anima: Due sono le specie delle uirtudi |de tre uitii
primi: «Vilii e costumi molto rei|dell'amistade:Amistade e una «delle uirtude
dell'uomo e d'iddio |dello aguagliamento della
«amistade:Loconueneuoleadguagliamento delladilectatione: « La
dilectationesiènata enutricala |della beatitudine:Quando «noiauemodeterminato delcorreggimentodeVitii.depaura.
« della pena: La scienzia delle uirtudi si a questa utilitade ». Ilcompendio
volgare del Trattato Aristotelico,come si può desumere dall'incipit e
dall'esplicit di ogni codice,veniva più comunementeindicatocoltitolodiElhicad'Aristotile,edanche:
Etica del sommo phylosofo Aristotile; molto più raramente: Fioretti dell'Elica
d'Aristotile. Occorre anche talvolta la indi cazione latina: Elhica
Aristotilis, e più sovente quella di Liber E t h i c o r u m. N e ' c o d i c i
d e l T e s o r o il t i t o l o p i ù c o m u n e è p u r e:
l'Etichad'Aristotile,edanche:l'EtichadelgrandesauioAri slotile;in parecchi si
trova l'indicazione latina:Ethica Ari stolilis. Nei codici dell'Etica manca
ogni notizia intorno alle necessità e a'criteri dell'opera.Fa eccezione
ilcod.Marciano II, 134 il quale contiene, solo fra tutti, l'epistola proemiale
del volgarizzatore ad un amico,che a quella fatica del tradurre avevalo
indotto. « Incipit proemium transductoris huius operis « uulgaris.— Più uolte essendo
amicho mio da la tua gintileza « con grande instanzia infestato l'Eticha
Iconomicha et politicha de « Aristotile de lingua latina in parlar (moderno] et
uulgar ti « transducha. La quale richiesta considerando truouo la mala «sua
axeuolezza uincere ogny mia faculta.Et anche hauendo « udito altri circha a
questa opera auere insudato non m'è pa «ruto douerse seguire per fugire la
riprensione de molti.Ma « pure la forza de la tua amicizia è tanta che mi
constringie et «fami intraprendere quello che mi cognosco impossibile.Onde « la
gratia superna inuocho al principio di tale faticha doue « mi mecto seguendo el
uoler tuo iusta mia possa. Et perche el « dire de Aristotile è scropoloso et
stranio molto dal modo del « nostro parlare, pure quanto potro ad esso mi
acostero.Alcuna 12 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA « uolta le sue proprie parole et alcun altra el senso
dimostraro «suzinto,seruando la uerità del testo.Ma auanty che questo « cominci
alquanto della persona et essere suo toccharo ad cio « che le sue opere
pergrate siano da te riceuute ». Il prologo non ci porge alcuna notizia
storica,e del resto sulla sua auten ticità ci lascia grandemente perplessi. Il
fatto che,tra tanti manoscritti dell'Etica, noi lo troviamo solo in questo,abbastanza
tardivo,della fine del sec.XV,può destare grave sospetto,ma non sarebbe ad ogni
modo motivo sufficiente per indurci a rin negarlo senz'altro. Ben altri motivi
non ci permettono di prestar fede all'autenticità del proemio Marciano. In esso
il volgarizza tore dice di aver udito « altri circa a questa opera avere in «
sudato »; l'espressione è molto ambigua; giacchè o si riferisce a precedenti
volgarizzatori,e ciò non è possibile perchè Taddeo
fuilprimoavolgarizzarl'Etica,oatraduttorilatini;ma per quanto sappiam noi in
nessuna delle traduzioni latinedella Ni comachea si leggono accenni alle
difficoltà del traduttore; solo Ermanno ilTedesco,nel prologodellasuaversione
delCommen. tario d'Averroè alla Poetica d'Aristotele,dice della grande dif
ficoltà da lui trovata « propter disconuenientiam modi metrifi «candiingraeco
cum modometrificandiinarabo,etpropter auocabulorumobscuritates»(1);ma
cisembrerebbeaffatto inopportuno scorgere nel prologo alla Poetica di Ermanno
un rapportocolprologoall'EticadiTaddeo.Epoinel1200eneltre. cento è ben
difficile trovare la nota individuale,sopratutto nelle traduzioni; furon più
tardi gli umanisti che alteri del merito proprio rivelarono a quattro venti le
difficoltà del lavoro da essi intrapreso e compiuto; del resto tutta la parte
del pro logo, di cui ora parliamo,si connette con la praemunitio tanto comune
agli scrittori del quattrocento, i quali nell'introduzione alle opere loro ci
ricordano spesso la difficoltà dell'argomento e il timore della critica e la
debolezza dell'ingegno e il riguardo 13 (1) Il prologo è pubblicato dal
Jourdain (Recherches critiques sur l'age et l'origine des traductions,latines
d'Aristote, Paris, 1843, p. 141). amorevole per l'amico che la
vince sulle giuste considerazioni e preoccupazioni dell'autore.È
questo,ripeto,un motivo comune agli umanisti,a'quali l'aveva comunicato lo
spirito retorico delle composizioni proemiali latine. Lo stile poi del proemio
è assai diverso dal volgare di Taddeo, ch'è quale potea rampollare schietto di
mezzo all'efflorescenza letteraria dell'ultimo dugento.Lo stile del prologo
marciano ri. sente molto invece di quel volgare farneticante da scuola e da
sacrestia che pretendea ingentilirsi nel '400 signorilmente, usur pando gli
addobbi lessicali delle forme latine.C'è in fine un ultimo argomento decisivo.
Nel titolo dell'epistola proemiale è adoperata la parola transductoris,e nel
volgare stesso del pro logo si trova adoperato il verbo transducere. Ora nel
sec. XIII e XIV la espressione latina traducere non è ancora passata col s i g
n i f i c a t o m o d e r n o n e l l a t i n o e n e l v o l g a r e; il p r i
m o, c o m e p a r e, ad usare il vocabolo traducere con il significato di
tradurre, fu il Bruni, fin dal 1405; d'allora soltanto s'introdusse nel latino
e quindi nell'italiano (1). Sicchè possiamo affermare che il prologo Marciano è
di avan. zata fattura quattrocentina.Come sia comparso non sappiamo, nè torna
conto indagare e congetturare sulle cause e sulle ori gini di tutte
lescritturecheapparveroingrande numero,affac cendate e moleste,in quel tempo di
continue esercitazioni re toriche e di finzioni letterarie. Stabilita la unità
del volgarizzamento contenuto ne'codd.del l'Eticaedel Tesoro,passiamooramai
allaindicazionedell'autore. De' ventinove codici dell'Elica, da me esaminati,
ventidue sono anonimi;uno,del sec.XIV (5),attribuisce la traduzione a un
maestroGiovanniMin.(2);seicodici(4.y.&.g.m.p.)danno il nome del
volgarizzatore dell'Elica, traslatata in uulgari a magistro Taddeo. (1) Vedi R.
SABBADINI,Del tradurre iclassici antichi in Italia,in Atene e Roma,an.III,no
19-20,col.202. (2)ExplicitethicaAristotilistranslataamgio iohemin.uulgare.deo
gratias. 14 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 15 Dei codici del Tesoro,tre del sec.XIV,oltre la solita attri.
buzione a Brunetto in principio di tutta l'opera, alla fine del sesto libro ci
danno un'indicazione particolare del volgarizzatore, la quale è sfuggita a
tutti gli studiosi del Tesoro ed è di molta importanza per la questione agitata
intorno all'autore del com pendio volgare. Ecco dunque le
soscrizioni.a:Explicit etica Aristotilis a magistro Taddeo in uulgare traslala;
T: Explicit hetica Aristotilis a magistro Taddeo in uolgare trasleclata;
1:Explicit Elicha Aristotilis a magistro Tadeo in uulghari traslatlata. Dalla
tradizione manoscritta si può dunque ricavare: 1o) che ilcompendio volgare
della Nicomachea ebbe una larghissima diffusione come testo particolare,
indipendente da altra opera; 2°)ch'esso,quando non correva anonimo,veniva comunemente
attribuito a maestro Taddeo. Ma da'codici del Tesoro balza fuori un nuovo
cumulo d'in dizi gravi e sicuri, che infirmano seriamente l'unità del vol
garizzamento dell'opera di Brunetto,attribuito sempre con cordemente per intero
a Bono Giamboni: 19) Parecchi codici del sec. XIV danno, come s'è visto, il
nome del volgarizzatore del l'Etica: Maestro Taddeo; la soscrizione finale,
perchè non si possa ritenere aggiunta posteriore,è sempre di mano del copista
che ha trascritto il codice per intero.Questà attribuzione è
l'unicachesitroviintuttoilms.,oltreaquellageneralecon cui va riferito il
complesso dell'opera a Brunetto.Ciò è di spe. ciale importanza per noi:
difatti, giacchè il copista solo per l'Etica sente il bisogno di riferire il
nome del traduttore, vuol dire ch'ei sapeva che solo quella parte del Tesoro
rimaneva estranea al volgarizzamento generale dell'opera, e il volgare di
Taddeo vi si trovava come inserito. In qualche codice anepigr. e mutilo,come
a,l'attribuzione a Taddeo è anzi l'unica indica zione di autore che sitrovi in
tutta l'opera.2 ) Di solitoicodici mutili si fermano prima di giungere all'Elica;
d'altra parte pa recchi mss.del Tesoro si arrestano alla fine del compendio
aristotelico. Ciò dimostra che questo costituiva come un punto di
fermata, era un libro introdotto a parte, si che poteva benis simo arrestare al
libro V l'amanuense che fosse sprovvisto del. l'originale, o determinare una
pausa nella trascrizione,alla fine del libroVI(1).3o)Nel
cod.r,miscellaneo,l'Elica è preceduta dal VII libro del Tesoro: si può notare
dunque il distacco ch'è tra le due parti, non considerate come legate e
dipendenti nella stessa opera.4°)In qualche ms.,come ri,precede una tavola
della materia che giunge sino a tutto il libro V, escludendo la rimanente,
dall'Elica in poi; e ciò dimostra ancora che l'Elica arrestava quasi il corso
regolare dell'opera volgarizzata ed era estraneaalvolgarizzamento del
Tesoro.5°)Un particolare fon damentale:ilcod.d ha questa soscrizione
dell'amanuense,al l'Etica: Ecplicit l'Etica Aristotile in questo tanto che io
noe t r o u a t a; c i ò s i g n i f i c a c h i a r a m e n t e c h e il c o p
i s t a, p e r t r a s c r i v e r e la parte dell'opera che comprendeva il
compendio aristotelico, era obbligato a ricorrere ad un altro testo che non era
quello unico del Tesoro.6°)Ci resta finalmente da osservare che mentre tutti i
codici del Tesoro differiscono quasi sempre e in m a niera notevole nella
lezione, mostrano invece una concordanza molto maggiore nell'Etica; vuol dire
che si tratta di un testo particolarmente prefisso a'trascrittori.Ciò dimostra
ancora la maggiore divulgazione del testodell'Etica lacui lezione più re
golare, rispetto alla lezione caotica del Tesoro, era fissata da una più grande
diffusione delle copie. Concludiamo questa prima parte. Dall'esame dei codici e
della materia manoscritta ci risulta che esisteva nel secolo XIV un compendio
volgare della Nicomachea,attribuito a maestro Taddeo, che noi troviamo anche
inserito integralmente nel Tresor vol garizzato, di cui costituisce il VI
libro. Ma nèicodicidelTesoro,nèquellidell'Eticacidicono da (1 ) Il S o r i o d
a q u e s t o p a r t i c o l a r e, c h ' e g l i o s s e r v ò n e l c o d. A
m b r., t r a s s e argomentoprincipalediattaccoallaautenticitàdelVIIlibrodel
Tesoro.La opinione del Sorio fu combattuta dal Gaiter (Propugnatore,
1874,pp.334 sgg.) con argomenti dubbi ed indecisi: l'uno e l'altro eran difatti
fuor di strada. 16 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 17 che volgarizzó Taddeo.La questione è
importantissima;data la identità tra l'Elica e il volgare del VI libro del
Tresor non resta che una questione di priorità:0 Brunetto si servi di Taddeo, o
Taddeo di Brunetto; vale a dire,o maestro Taddeo volgarizzo il VI libro del
Tresor, il quale ebbe così tradizione e fortuna isolata da tutto il resto del
volgarizzamento, ch'è opera di Bono; o Brunetto si servi per il suo Compendio
francese del volgare di Taddeo,che fu introdotto però intatto nel Tesoro, in
luogo di un volgarizzamento diretto dal francese. Nel Convito di Dante è
unpasso che spinge molto avanti la questione: Tratt.I,cap.10:«La gelosia
dell'amico fa l'uomo «sollecitoalungaprovvedenza:ondepensandocheperlode <
siderio di intendere queste Canzoni alcuno inletterato avrebbe «fatto il
comento latino trasmutare in volgare,e temendo che 'l « volgare non fosse stato
posto per alcuno che l'avesse laido « fatto parere, come fece quelli che
trasmutò il latino del «l'Etica,ciò fu Taddeo Ippocratista,provvididiponere
«lui,fidandomi di me più che d'un altro».IlSundby,che vuole ad ogni costo
ritenere di Bono tutto il volgarizzamento del Tresor,se ne sbriga assai
piacevolmente: « Nel caso adunque « che il passo succitato del Convilo fosse
esatto in tutte le sue « parti, la cosa sarebbe chiarissima: la traduzione di
Taddeo « dovrebbe essere affatto diversa di quella di cui noi ci occu « piamo,e
questa si dovrebbe attribuire a Bono Giamboni » (1). E non ci sarebbe niente da
dire; resterebbe però fin ora da spiegare,se non altro,la tradizione
manoscritta che,laddove non tace,dà il nome del
volgarizzatore:Taddeo,accordandosi col passo di Dante; e d'altra parte non
sarebbe lecito trascurare quegl'indizi che non danno certamente più come sicura
l'unità delvolgarizzamentodiBono.Nedevefareombra l'appellativo di « laido »
dato da Dante al volgare di Taddeo, giacchè per C. MARCHESI. (1 ) O p. c
i t., p. 1 4 2. 2 certo questo non è il modello migliore di prosa
trecentistica, e la opinione del Nannucci (1),di cui si fa forte il Sundby,può
ri tenersi giustificata da un sistema di ammirazione proprio della fede e
dell'entusiasmo delle generazioni passate per tutti i do cumenti letterarî del
nostro trecento. Tutto dunque ci fa credere che il volgarizzatore sia maestro
Taddeo: 1 ) Esiste una sola Etica volgare in tutti i codici; 2 )i codici che
portano il nome del volgarizzatore l'attribuiscono a m a e s t r o T a d d e o;
3 ) l a d i c h i a r a z i o n e e s p l i c i t a d i D a n t e, il q u a l e
ha l'aria di parlarne come dell'unico,comunemente noto,vol. garizzamento
ch'esistesse a suo tempo dell'Etica latina. kesta anche esclusa la prima
congettura,che Taddeo volgarizzasse il francese di Brunetto; Dante ce lo dice
esplicitamente: « colui « che trasmutó lo latino dell'Etica ». Del resto, a
prescinder da altriargomenti principaliedecisivi,ch'esporremosubito,ilcom:
pendio volgare dell'Etica non può ritenersi come volgarizzamento del VI libro
del Tresor per le frequenti differenze, non solo di forma ma di sostanza,che
presenta rispetto al testo francese: e sono omissioni o aggiunte di pensieri,di
esempi,di considera zioni, ampliamenti o riduzioni di concetti: e tutto questo
non può ammettersi nella traduzione di un'opera,a meno che il traduttore non
abbia voluto rimaneggiare per conto suo l'ori ginale. Dunque Taddeo volgarizzò
e compendio da una delle redazioni l a t i n e d e l t e s t o a r i s t o t e
l i c o, l a q u a l e e r a n o t a a l l o r a s o t t o il n o m e di Liber
Ethicorum, nome ch'è anche particolarmente proprio di un'altra redazione latina
della Nicomachea, letterale e molto o s c u r a, c u i il c o m m e n t o t o m
i s t i c o a v e a s p i n t o a l l o r a a l l a m a s s i m a diffusione.
Dal testo tomistico difatti il Sundby (2) fa derivare il compendio francese e
volgare dell'Elica,e pone iraffronti;ve dremo appresso come il critico danese
si sia messo su una falsa (1)Manuale della lett.italiana,vol.I,p.382. IlN.
trova anzi l'Etica «adorna di molta purezza e semplicità di stile». 18 C.
MARCHESI (2) Op. cit., pp. 144 sgg. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 19 strada.Ad ogni modo che Taddeo abbia tradotto direttamente dal
Jatino ci è confermato dal confronto tra l'Etica volgare e il Liber Ethicorum
da cui dipende; se avessimo scarsezza di argomenti o mancanza di prove sicure
potremmo anche valerci delle soscri zioni di taluni codici dell'Etica e del
Tesoro che indicano il nostro volgarizzamento come Elhica Aristotilis e più
spesso Liber Ethi corum,facendoci sospettare lasua provenienza dal testo
latino. Di maestro Taddeo i codici (4. y.) ci dicono soltanto che su «
florentino » e Dante aggiunge ch'ei fu medico, « Ippocratista ». Di un Taddeo,
d'Alderotto, fiorentino, « fisico massimo », scrisse, con la solita
ingenuità,una breve vita Filippo Villani (1),il quale ce lo descrive di parenti
oscuri, poverissimo, dedito ai mestieri più vili, e « col cerebro oppilato e
tenebroso » fino ai trent'anni (2). Passati gli anni trenta « si consumarono
quegli «umori grossi»;Taddeo divenne un altro uomo e rivelòilsuo ingegno
dedicandosi allo studio delle arti liberali,della filosofia e per ultimo della
medicina,che insegnò pubblicamente a Bo logna. Dice il Villani: « Fu costui de'
primi infra' moderni che adimostrò le segretissime cose dell'arti nascoste
sotto i detti « degli autori, e la spinosa terra e inculta solcando all'ottimo
« futuro seme apparecchiò. Questi, sprezzati alcun tempo i so pravvegnenti
guadagni,cupido di gloria e d'onore,si dette a « commentare gli autori di
medicina. Nella qual cosa fu di tanta «autorità,che quello ch'egli scrisse è
tenuto per ordinarie achiose,lequali furono postene'principali libridimedicina.
« E fu in quell'arte di tanta reputazione, quanto nelle civili « leggi fu
Accorso, al quale egli fu contemporaneo ». Il Villani ci riferisce inoltre un
aneddoto molto curioso, riportato poi dal (1) Le Vite d'uomini illustri
Fiorentini,colle annotazioni del co.G. M a z zucbelli,Firenze, 1847,pp.27-28.
(2) Il Biscioni, in una nota sopra Taddeo, inserita nelle Prose di Dante e del
Boccaccio, Firenze, 1723, vuol dimostrare che Taddeo era di famiglia
cittadinesca,che possedeva effetti stabilieche prese per moglie una de'Ri goletti,
il cui padre aveva il titolo di dominus, che in quei tempi si con
cedevasoltantoa cavalieri.Cfr.notadelMazzuchelli,Op.cit.,p.98. 20
C. MARCHESI Negri (1) e dal Fabricio (2), intorno agli eccessivi compensi che
Taddeo « tenuto come un altro Ippocrate da'Signori d'Italia in « fermi » (3),
esigeva per le sue visite giornaliere; e ci narra che chiamato a Roma dal
pontefice,Onorio IV,richiese cento ducati d'oro al giorno; invece,dopo la
guarigione del pontefice, n'ebbe in compenso diecimila (4).Il Villani non ci dà
alcun cenno cronologico;dice solo che fu seppellito a Bologna d'anni
ottanta.Giovanni Villani (Storie, VIII,cap.65),seguito dal Fa. bricio, dal
Poccianti e dal Cinelli, pone l'anno della morte nel 1303;l'Alidosi sostiene
invece che Taddeo morisse nel 1299,il Biscioni nel 1296 (5) e il Negri (6), per
approssimazione, nella fine del sec.XIII.Delle opere di Taddeo ci attesta il
Mazzu chelli (7) ch'esiste una raccolta a stampa col titolo « Expositiones
«inarduumAphorismorumHippocratisvolumen.Indivinum « Prognosticorum Hippocratis
librum. In praeclarum regi. a minis acutorum Hippocratis opus. In subtilissimum
Iohan «nitiiIsagogarum libellumIohan.Bapt.Nicollini Salodiensis
aoperainlucememissae.Venetis,apudLuc.Antonium Iuntam, «1527».Scrisseancheinci.Galeniartemparvam
commen taria, Neapoli, 1522. Il Mazzuchelli, che attribuisce anch'egli a Taddeo
la traduzione in volgare dell'Elica d'Aristotile,aggiunge che nella libreria
dei pp.Minori Osservanti in Cesena si con serva un ms.intitolato Magistri Taddei
Glossae in Galenum, eiusdem Aphorismata.Di maestro Taddeo si conservano in al
cuni codici (8) parecchi trattatelli medicinali e fra questi è par (1)Istoria
degli Scrittori Fiorentini,Ferrara,1722,p.508. (2)Biblioth.latinamediae
etinfimaeaetatis,Patavii,1754,t.VI,p.221. (3)Notissimo anche un distico del
Verino (de illustr.urbis Florent., lib.I)su Taddeo:«Est quoque Thadaei
celeberrima fama,non alter For « sitan in medica reperitur ditior arte ». (4) A
proposito di questo aneddoto vedi la erudita nota del Mazzuchelli,
Op.cit.,pp.98 sgg. (5)Cfr.Mazzuchelli,Op.cit.,pp.99 sgg. (6) Op. cit.,
loc. cit. (7) Op.cit.,p.98. (8)Biblioteca Angelica (Roma),1376 a c.321:
Thaddaei de florentia IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA
21 ticolarmente diffuso un libellus de seruanda sanitate o libellu's
conseruandae sanitatis, dedicato a Corso Donati (1). Fra i m a noscritti che lo
comprendono è di speciale importanza l'Ambro. siano J. 108 sup.,del sec.XIII
(2),per una nota posta in principio, d i m a n o d e l l o s t e s s o c o p i
s t a c h e t r a s c r i s s e t u t t o il c o d i c e: « I s t e « libellus
|scriptus et compositus per probissimum et prudentis « simum uirum dominum
magistrum Taddeum de Flor. doctorem « in arte medicine in ciuitate bononie |
transmissus nobili militi « domino Curso donati de florentia », È notevole
anche il proemio del trattato medicinale:« Quoniam passibilis et mutabilis a
existit humani corporis conditio, complexionem et consisten « tiam quam a
principio sue originis homo habuit non seruando, « necessarium extitit artem et
scientiam inuenire,per quam in « sanitate et natura et corpus hominis
conseruetur, motus igitur « precibus et amore cuiusdam mei amici,multa mihi
dilectionis «teneritate coniuncti nec non pro utilitate aliorum hominum, « more
uiuentium bestiarum ad conseruationem sanitatis et uite « in humanis corporibus
libellum medicinalem inuenire disposui « de libris et dictis philosophorum
breuiter compilatum ». Da queste ultime parole risulta ancor meglio l'identità
ch'è tra l'autore del libellus, studioso sfruttatore e compendiatore di m a
teria filosofica e l'autore del nostro compendio volgare dell'Etica. Il
trattato di Taddeo,molto curioso,contiene quei precetti igienici che
bisognerebbe osservare fin dal principio della giornata in torno alle abluzioni
del capo,all'igiene della bocca,dello stomaco, libellus medicinalis; 1506, c.
46t: Magistri Thaddaei de florentia de r e
giminesanitatis;1489,c.160:Curacrepotorummagni Tadeiabeocom posita.
(1)Riccardiana,1246;Magliabechiana,cl.21,cod.62;141. (2)Membran.a due
colonne;contiene:19) Vegetii de re militari libri; 29) Isiderus de bellis; a
c.31a segue la notissima epistola de cura et modo rei familiaris di Bernardo,al
gratioso militi et felici domino Raimundo domino CastriAmbrosii;a c.32asegue
iltrattatodiTaddeo.Ilcod.consta d i c c. 3 5 n. n u m., l a c. 3 4 * e 3 5 a v
u o t e. Q u e s t o c o d. s i t r o v a l e g a t o a s s i e m e con un
altro membr.dello stesso formato,di cc.19 scritte perdisteso,con tenente i
Saturnali di Macrobio. 22 C. MARCHESI de'cibi,delle bevande,della
digestione,del sonno;sulle condi zioni del corpo umano durante le diverse
stagioni e quindi sulla igiene delle stagioni. Segue a dire della efficacia
terapeutica, molto larga,dialcune pillole,da prendersi avanti o anche dopo
ilcibo,compostedaun«frateRobertodeAlamania»conuna quantità di sostanze vegetali
e aromatiche. La parte trascritta nel cod.Ambros.finisce con la ricetta adatta
«ad faciendum «cristerepropassioneyliaca». QuestoTaddeofamosissimo medicodelsuotempoedanchepoeta(1),autoredicommentari
e di trattati, insegnante l'arte della medicina nell'Accademia di
Bologna,fualtresìquellochetradussedallatinoinvolgare il compendio dell'Etica
aristotelica. E veniamo al VI libro del Tresor. È noto ed è stato detto da
tutti gli editori e gli studiosi del Tresor, ch'esso risulta da m o l teplici e
varie compilazioni fatte in diverso tempo da Brunetto, su scrittori
specialmente latini; poi riassunte e combinate nel compendio enciclopedico
francese del maestro di Dante. Lo C h a baille anzi afferma che Brunetto avea
preludiato alla compila zione del Tresor con opuscoli separati in prosa e in
verso, fra cui l'Elica d'Aristotile,ch'egli dunque suppone,come parecchi
altri,compendiata e volgarizzata da Brunetto Latini,prima della compilazione
del Tresor (2). Ma su ciò non vale la pena discu tere,giacchè sarebbe
combattere contro imulini a vento. (1 ) M a g l i a b e c h., c l. X V I, c o d.
7 5, T a d a e i m a g i s t r i d e F l o r e n t i a C a r m i n a. (2) Op.
cit., Introd., p. vi. Riferiamo un passostesso di
Brunetto:Liv.I,cap.I:«Il « (cist livres) est autressi comme une bresche de miel
cueillie « de diverses flors; car cist livres est compilés seulement de «
mervilleus diz des autors qui devant nostre tens ont traitié « de philosophie,
chascuns selonc ce qu'il en savoit partie; car « toute ne la pueent savoir home
terrien, porce que philosophie « est la racine d'où croissent toutes les
sciences que home peut IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA
23 « savoir ». Egli dunque non dice di essersi limitato a raccogliere e tradurre
scritti latini soltanto; e si deve intendere anche di volgari. Fra questi è il
compendio dell'Etica di maestro Taddeo che Brunetto, valendosi anche di
raffronti continui con il testo latino originale,trasporto nel VI libro del suo
Tresor. Allo Zannoni, il quale riteneva che Taddeo avesse tradotto Aristotile
di latino in italiano e che Brunetto poscia voltasse il testo di Taddeo in
francese (1), il Sundby opponeva le parole di Brunetto, che nel Prologo della
seconda parte (il VI libro del Tesoro volgare)dichiara di tradurre il libro
d'Aristotile de latin en romans (2).Per venire in aiuto di quanto abbiamo
asserito non è necessario ricorrere alla sottile nota del Paitoni (3),ilquale
sosteneva che il volgare italiano si chiamava anche « latino »; giacchè essendosi
Brunetto servito non solo del volgare di Taddeo, ma anche,come vedremo,della
redazione originale latina,anzi avendo acconciato e rifatto in molti punti il
volgare in base al t e s t o l a t i n o, è c h i a r o c o m e a b b i a p o t
u t o d i r e d ' a v e r t r a t t o il s u o compendio dal latino,che del
resto è anche l'originale dell'Etica diTaddeo. E poniamo
lenostreconclusioni.Ilcompendiovolgaredell'Etica è la traduzione che maestro
Taddeo fece di una delle redazioni latine del testoaristotelico,laquale ci è
rimasta.La traduzione è in gran parte fedele al contenuto, nella forma è
condotta al quanto liberamente: spesso il traduttore compendia la materia,
d'altra parte allarga sempre la frase o il concetto e diluisce nel volgare il
testo latino per bisogno di ripetizioni o di esempi o di
ampliamenti,servendosi,come fa in principio,di qualche altro rifacimento o
aggiungendo delle dichiarazioni proprie.Taddeo non è un traduttore letterale
che si preoccupi della frase e voglia mantenersi fedele alla parola o al tenore
dell'esposizione; egli (2) I codici del Tesoro traducono « di latino in uolgare
», ovvero « di « latino in romanzo » o « di gramaticha in uolgare ».
(1)Op.cit.,c.s. (3 ) O p. c i t., c. s. è solo un interprete
occupato del contenuto che pur vuole p a recchie volte acconciare dal lato
espositivo nella maniera più rispondente, secondo lui, a'bisogni della
chiarezza e della s e m plicità.È l'originale una traduzione latina,già
compiuta nel l'anno 1243 o 44 (1), di un compendio alessandrino-arabo della
Nicomachea,elementarissimo,semplice e piano,ridottoa una esposizione
riassuntiva molto breve, e talvolta anche efficace, nonostante l'incertezza e
la poca fedeltà di talune espressioni. Molti luoghi fondamentali, anzi diciam
pure tutte le parti più notevoli per gravità e serietà di enunciati,per
difficoltà di contenuto critico, vengono senz'altro omesse interamente, o ri
dotte alla loro ultima e più semplice espressione. Cosi, per dare qualche
esempio, nel 1° libro è saltato il passo importante al principio del cap.3,in
cui Aristotile nega la possibilità diotte. nere una precisione assoluta nei
giudizi e pone la necessità del giudizio per approssimazione; altra omissione
considerevole è quella della prima metà del cap.4,in cui Aristotile passa alla
definizione del supremo de beni, alla critica del concetto di fe licità, e si
accinge a discutere la dottrina platonica del bene assoluto; è tralasciata pure
tutta la confutazione della dottrina platonica delle idee (cap.VI) e l'astrusa
enunciazione fondamen tale dell'Eudaluovía aristotelica considerata come bene
vero ed assoluto che comprende in sè, unificandoli, tutti gli altri beni
necessari all'autarchia della vita; e della seguente trattazione intorno
a'principii (cap. VII) non è alcun cenno nel compendio. Dei brani accolti
tuttavia è vero e proprio ampliamento. Ad ogni modo il testo si prestava
benissimo all'intelligenza comune per l'intendimento più facile e semplice e la
forma più piana che non l'oscurissimo Liber Ethicorum del commento tomistico.
(1)Questo compendio fu conosciuto prima dal Jourdain (Op.cit.,p.144) in un
codice,no 1771,della Sorbona; e più tardi dal Luquet (Hermann l'Allemand, in
Revue de l'histoire des Religions, Paris, 1901, t.44,p.410) in due mss. della
Biblioteca Nazionale: il n ° 12954, che pone la data della
versionenel1244,eilno16581cheèforselostessovedutodalJourdain. 24 C.
MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 25 Come
compendio poteva anzi dirsi ben riuscito;giacché per ri durre allora in più
brevi proporzioni l'Elica nicomachea, ch'è da per sè una condensazione poderosa
delle norme logiche e de principi esposti nell'Organo, bisognava appunto
sfrondarla di tutti i luoghi più ardui 'a spiegarsi e a comprendersi senza
l'aiuto di richiami e di collegamenti, e semplificarne e chiarirne il contenuto
eliminando la rassegna delle opinioni e la parte critica, sopprimendo le
divisioni minori, togliendo il carico degli argomenti favorevoli o 'contrarî ad
ogni problema e riducendo questo alla sua più semplice ed elementare
espressione.Ilcom pendio arabo latinizzato era dunque il testo etico
aristotelico di moda piùrecente.Essocièrimasto,sottoilnome diLiber Ethico r u m,
i n u n c o d i c e L a u r e n z i a n o, g i à G a d d i a n o (P l u t. 8 9
i n f., 4 1 ) membr.in fol.del sec.XIII,a due colonne,di cc.scr.219,miscell.
enontuttodiunamano;contiene:1)unaCronicadianonimo; 2)laHistoria troiana di
Darete frigio,premessa un'epistola:Cor nelius Nepos Sallustio Crispo suo
salutem; 3) Graphia aureae urbisRomaeseuantiquitatesurbisRomae dianonimo;4)Eu
tropii historia romanae Ciuitatis dilatata a Paullo Diacono: 5) Liber Alexandri
regis; 6) un'epistola di Alessandro ad Aristo tile intorno alle regioni e alle
cose notevoli delle Indie; 7) Liber Sibyllae, di Beda; 8) un'epistola
dell'abate Ioachim; 9) un'ora
zionediSenecaaNerone;10)iLibrideremilitaridiVegezio;
11)ilLiberEthicorum,d'Aristotile:vadac.131ac.142;la materia è distribuita in
ventidue capitoli indicati dalla iniziale colorata;manca
ognialtradivisione.Com.:Incipitliberprimus Ethicorum.R.;allafine:Incipiamus
ergoetdicamus.Explicit prima pars nichomachie Ar.que se habet per modum theo
rice et restat secunda pars que se habet per modum pratice. Et est expleta eius
translatio ex arabico in latinum. Anno incarnationis uerbi M. CC.XLIII.Octaua
die Aprilis. La soscrizione, importantissima per la storia di questa reda
zione,è di mano dello stesso copista,scritta con lo stesso in chiostro e coi
medesimi caratteri di tutto il testo aristotelico. Seguono di mano più recente
e in carattere minuto alcune cita zioni dell'andria e dall'Eunuco
di Terenzio.La lezione dell'Etica verso la fine è molto incerta e in taluni
punti a dirittura insa nabile. Dopo il Liber Elhicorum vengono le orazioni
catilinarie e iltrattato de Senectute,l'orazione di Sallustio contro Cicerone,
l'invettiva di Cicerone contro Sallustio, le orazioni pro Marcello, pro
Ligario,proDeiotaro,ilibride Officiis,iParadoxa,epoi la Catilinaria e il
Giugurtino di Sallustio; seguono, di mano del sec.XIV,alcune bolle di papa
Bonifacio VIII. La versione dell'Etica, compiuta nel 1243, si deve con molta
probabilità attribuire ad Ermanno ilTedesco (Hermannus Alemannus),il quale
trovandosi in quel tempo nella Spagna,a Toledo,aveva due anni prima (nel 1241)
ridotto in latino il commento di Averroè alla Nicomachea,e più tardi nel 1256
compi la versione di altri due testi arabi di Averroè relativi alla poetica e
alla retorica d'Aristotile. La traduzione di Taddeo,che dovette essere di
poco,meno di un ventennio, posteriore, corse ed ebbe fortuna e divulgazione; ce
lo attesta il buon numero di codici, l'uso che ne fece Brunetto, la
dichiarazione di Dante che ne parla come di cosa comune mente nota,egli che
molte espressioni del volgare di Taddeo ricorda nella sua Commedia. Brunetto
Latini più tardi si accinse a svolgere nella parte morale del suo Tresor la
dottrina etica di Aristotile. Egli si servi del volgare di Taddeo,ma prese
anche i n m a n o il t e s t o l a t i n o: c e l o d i m o s t r a n o l e a g
g i u n t e e l e m o dificazioni introdotte, che corrispondono in tutto con il
Liber Ethicorum; qualche altra volta ridusse il volgare di Taddeo e quindi con
esso anche il latino della redazione araba. Nessuno vorrà certo ancora dubitare
che l'Etica di Taddeo sia tratta dal compendio francese di Brunetto,
rivendicando a questo la priorità; giacche,pur volendo saltare sul passo di
Dante, sulla particolare designazione de'codici,sulla tradizione isolata
dell'Elica volgare,rimane sempre una barriera dinanzi a cui bisogna fermarsi:la
materia de'due Compendî.La dipendenza diretta dell'Elica dal testo latino ci è
fra l'altro attestata dalle numerose espressioni latine trasportate di
peso,quando corrispon 26 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 27 dano nel lessico volgare, nel compendio di Taddeo;
mentre Brunetto è costretto tante volte a tradurre dirersamente,m u tando la
dizione, e dall'Elica e dal Liber Ethicorum. D'altra parte poi nell'Etica molte
cose ci sono che mancano nel com pendio franceseeche pur dipendono dal testo
latino.Un'ultima prova: tutti i codici dell'Elica e del Tesoro si chiudono allo
stesso modo, con le stesse parole, e la chiusa non corrisponde al testo
francese. Brunetto va più in là di Taddeo: egli include nel suo compendio tutta
la fine del rifacimento latino. Se si do. vesse considerar l'Etica come un
volgarizzamento del libro VI del Tresor,anzi che come un compendio
indipendente,non si spiegherebbe più quella ostinata lacuna e quella costante
diver genza alla fine. Solo cinque codici dell'Elica, di trascrizione al quanto
tarda, seguono volgarizzando l'opera di Brunetto: i tre c o d i c i M a r c i a
n i e i c o d d. 9 e A m b r o s. C 2 1. i n f., i q u a l i r i v e l a n o
molto chiaramente l'influenza del testo francese. In essi il brano finale è
volgarizzato in modo del tutto differente; ciò è na turale: giacchè nessun
codice dell'Etica e del Tesoro dava quella parte del testo francese, i
trascrittori, che tennero l'occhio al Tresor, dovettero pensare, ciascuno per
conto proprio, a volgarizzarla.Anzi il Marciano II, 134 contiene tutto quanto
ilcompendio di Taddeo,compreso ilbrano finale rias suntivo,che non si trova
invece negli altri codici dell'Etica o del Tesoro iquali proseguono col testo
francese sino alla fine; e questa nel Marc.II,134 ci appare evidentemente come
una sovrapposizione voluta dal trascrittore. Naturalmente tutti i giudizi e i
sospetti di ampliamenti, di aggiunte, di mutamenti arbitrarî del
volgarizzatore, di sbagli continuati degli amanuensi, agitati dagli editori del
Tesoro, ca dono innanzi all'entità e al valore storico diverso dei due com
pendi, volgare e francese. E data la priorità del volgare, cadono anche
meschinamente tutti i tentativi di emendazione apportati dagli editori alla
lezione del VI libro in base al testo francese (1). (1) Nel Propugnatore
(1874, pp. 105 sgg.) il Gaiter, che accudiva allora Quale dei due
traduttori,in fine,abbia merito maggiore non possiam dire.Taddeo ha ilmerito
della priorità;Brunetto che lavoròappresso a lui è più fineecompleto,e poi
anche ilfran cese si prestava allora molto meglio del volgare italico.Taddeo
qualche volta amplia o riduce la materia, Brunetto si richiama al testo.Siamo
nel periodo de compendi e dell'enciclopedia. U n compendio fatto è fatica risparmiata
al maestro che deve dire le«chose universali».Brunetto,che aveva intelligenza
fine, trasse il compendio italico alla lingua di Francia e l'incluse n e l
l'opera sua e ne colmo le lacune e ne affino i contorni e lo ripuli di fronte
al testo latino,da cui egli pompeggiandosi dicea di aver tratto la parte morale
del Tresor. E non fa cenno di Taddeo:
egliaccoglie,corregge,assimila;d'altraparteètuttauna let teratura e una
divulgazione anonima quella che dall'ultimo m e dievo va al trecento,e i
diritti di proprietà letteraria non sonoancor sorti. E poi maestro Taddeo forse
non appariva degno di menzionespecialealmaestrodiDante;echisa,forse,che in
questo non dobbiamo trovare indizio di una lotta accademica, svoltasi di mezzo
al laicato dotto della seconda metà del dugento e nel trecento,negli Studi
pubblici,tra medici inchinevoli alle lettere e letterati avversi a'medici? C'è
però da osservare che nel ritocco della materia volgare,in base al testo
latino, Bru netto non va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata
o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad ac conciare la
materia nel contenuto ideale, per il modo con cui le idee furono rese nel
volgare o compendiate o disposte o interpretate riguardo all'originale
latino.Questo dunque testi monia onorevolmente che Taddeo era allora ritenuto
autorevole 28 C. MARCHESI a preparare,con l'aiuto dei mss.e del testo
francese,la sua edizione del l'operadiBrunetto,inunsaggiodicorrezionialVI
libro,siscagliasempre, con taluni intendimenti spiritosi,contro l'amanuense che
tanto strazio avea fatto del presunto volgare di Bono; e con l'aiuto del testo
francese si affanna a correggere gli sbagli e a colmare le lacune lasciate dai
trascrittori e da Bono stesso. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 29 ed esperto intenditore del trattato aristotelico anche da un
uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande di scepolo di
costui non apparisse ugualmente felice dicitore del volgare. Dunque Brunetto si
valse del volgare di Taddeo (1), ch'ei ri. dusse e acconciò in molti punti in
conformità al testo latino, come si vedrà chiaramente dal confronto che faremo.
Più tardi gli amanuensi del Tesoro,al posto del VI libro,introdussero il
volgare già ben noto dell'Elica, essendo ben chiara e conosciuta la dipendenza
del compendio francese dall'altro volgare.Cosi resta anche spiegato il fatto
che parecchi codici del Tesoro si fermano all'Etica: Il compendio di Taddeo
rimaneva, rispetto al VI libro del Tesoro, originale e fondamentale; in un volgariz
zamento italico dell'opera di Brunetto esso dovea necessariamente e
naturalmente tenere il posto del francese che da esso proveniva. Già anche
loChabaille noto come la seconda parte del Tresor, interamente consacrata alla
morale, offre «plus d'ensemble « et plus d'unitė » (2); ed anche noi durante
l'esame critico dei codici abbiamo potuto osservare come appunto il VI libro
non presenti quella lezione così fluttuante, incerta, caotica degli altri
libri;ciò è ben chiaro:icopisti avevano un testo già da lungo tempo fissato.
Con questo se abbiamo voluto rilevare la differenza che l'Etica offre,
nell'incertezza minore della lezione, rispetto a'libri volga rizzati del
Tesoro,non intendiamo affermare che la lezione del compendio di Taddeo
siacostante e sicura.La mancanza diuna lezione rigorosamente affine nella
maggior parte dei codici si deve al fatto ch'essi servivano non ad uso
letterario, nel qual caso la lezione avrebbe dovuto essere molto più
rigorosa,ma ad uso morale;per cui itrascrittori,quando non erano affatto (1)
Così lo studio accurato della questione e la inconfutabile testimonianza del
documento son venuti a confermare in parte la fortunata ipotesi dello Zannoni.
(2) Op. cit., p. xv. 30 C. MARCHESI Ho già detto che gli amanuensi
introdussero il compendio di Taddeo nel posto del VI libro del Tresor; ho detto
gli amanuensi e non il volgarizzatore, giacchè non mancarono alcuni (non oso
affermare se Bono od altri) i quali vollero volgarizzare tutta l'opera,compreso
il VI libro; ma il nuovo volgare dell'opera francese,di fronte al comunissimo
compendio originale di Taddeo, rimase eclissato e restò soltanto in pochi
codici quattrocentini, che ho potuto rinvenire.I codici sono due,di valore e di
con tenuto diverso. 1°) Magliabechiano 21. 8. 149 cartac.del sec.X V, in 4o,di
cc.53 scritte ed 8 bianche,anepigrafo.Ilcod.contiene l'Etica tratta
evidentemente dal Tresor, giacchè va oltre il limite del compendio di Taddeo, e
comprende la chiusa del libroVI dell'originalefrancese.A c.46'segue,senzaalcuna
par ticolare indicazione, il trattato sulla « doctrina di parlare > ad
Alessandro;infineac.53':ExplicitAristotilisEuthica uul
garisAmen.Lalezionesimantieneperunabuonametàfedele al testo comune dell'Elica;
dal cap.47 (1)sino alla fine presenta una grande ed accentuala differenza e
mostra evidentemente la (1) Secondo la edizione Gaiter.
ignoranti,semplificavano dove e come volevano,buttando giù il periodo anche
ridotto, che sembrasse loro di rendere in ogni modo fedelmente l'idea espressa
dall'autore e di significare lo stesso concetto. Nei codici dell'Etica si
trovano molte espressioni qualche volta incerte, fluttuanti dalla differenza
ortografica al periodo ridotto o allargato o smembrato o dissennato, che ci
testimonia da una parte della negligenza o della caparbietà di trascrittori
ignorantelli,in un tempo in cui tutti quanti tenevano un crogiolo dove
manipolare la pasta morale delle dottrine ari. stoteliche o supposte tali, e
dall'altra parte dello stato de' testi donde copiavano,che,data lagrande
diffusionedell'opera,doveano a forza portare le tracce di
cancellazioni,aggiunte,modifica zioni,lasciatevi dai possessori:filone di muffa
questo che ci fa tante volte scivolare il piede lungo il percorso delle
trascrizioni trecentistiche di autori ritenuti catechisti o morali.
IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 31 L'Etica (ediz.Manni, Li
Tresors. Liv. II, Magliabech. 21. 8. pp.52sgg.).L'uomo part.I,chap.XLI.Li 149.
c.33. ch'è buono si diletta in bons hom se delite en semedesimoabbiendo
soimeisme,pensantas allegrezza delle buone bones choses; autressi
operazioni,eseegliè sedeliteilavecsonami, buonomoltoallegrasi
cuiiltientautressicom conl'amicosuo,loquale mesoimeismes.Maisli
eglitienesiccomeun mauvaishomtozjorsest altrosè;mailreofugge
enpaor,ets'esloignedes dallenobiliebuoneope- bonesoevres;etseilest
razioni,os'eglièmolto moltmalvais,ils'esloi reosifuggedaseme-
gnedesoimeisme;car desimo,peròchequando eglistasolosièripreso da ricordamento
delle maleopere,ch'egliha fatto,enonamanèse, faites,etblasmesacon. nèaltrui,perciòchela
science,etporcehetil natura del bene è tutta mortificatainluinel profondo della
sua ini- quità;nènonsidiletta soiettozhomes;etce avientporcequelara cine de
touz biens est ilnepuetseulsdemorer, sanztristesce,porceque illiremembredesmau
vaisesoevresqueila influenza continuata del testo francese, si che c'è da
pensare a unanuovaredazionesovrapposta.Riportounbranochevalga a far notare
meglio le differenze e le relazioni dell'Etica di Taddeo col testo francese e
il volgare del cod.Magliabechiano. mortefiéeenlui,eten son mal ne se puet de.
tutto el bene è mortifi. pienamente nel male ch'eglifa,perciòchela liter
plainement, car cata in lui.etnel male naturadelmalesi'ltrae toutmaintenantque
il nonsipuòdilettarepie. alcontrariodellasuadi- sedelite,enunechose
namente,percioche lettazione,edèdiviso malfaite,lanaturede
quand'eglisidilettadi insemedesimo,eperciò son mal si l'atrait au
èinperpetuafaticaed contrairedeceluidelit. quellomalesieltrae
angoscia,epienod'ama- Etàcequelimauvais al contrario di quella ritudineedisozzuradi
estpartizensoimeisme, dilettatione.percioche perversità.Adunquea
siconvientqueilsoitl'uomoreoèdiversoet L'uomo ch'è buono si diletta in se
medesimo pensando nelle buone cose, et similmente si diletta coll'amico suo, el
quale egli reputa se medesimo. Ma l'uomo ch'è reo sempre sta in paura et fuggie
dall'o pere buone; et s'egli ė molto reo fuggie da se medesimo et non può stare
solo sanza tristizia, impercioch'egli si ricor da delle sue rie opere, ch'egli
à fatte et ripren delo la coscienza sua. Et perciò vuole male a se medesimo et
ad ogni altro huomo.Et questo èperchèlaradicedi uno male, la natura di
quello cotale uomo nes- en continuel travail de in se medesimo è m e
sunopuoteessereamico, penseretplainsdemolt stierechesiaincontinua per ciò che
l'amico deve insemedesimo,ecompi. ne se laisse cheoir en a lei.Lo cominciamento
lla possa tornare a bene. doit efforcier chamentodellainiquità
lettazione,laquale l'huo piglia accrescimento gars; mais li fermes mo ba nelle
femmine, per usanza di tempo. liensquitozjorsestavec alqualesiuadinanzi
L'officio del confortare l'amistiéetquipointne unodiletteuolesguarda 32
C. MARCHESI sance sensible; et ce confortamento,ma pare cede loconfortamento
poonsnosveoirpar.i. essereetsomigliarsia puoteesseredettaami-
homequiaimeparamors llui;maelcomincia stade per similitudine, une dame,car tout
avant mento dell'amista è di infinoatantoch'ella passeunsdelitablesre
scunouomosideeguar- niuno huomo può essere chosequiàamerface.
amicoaquellotale,per dare ch'egli non caggia in questo pelago d'ini- sere et en
itele male niuna cosa la quale sia quità,anzi si dee isfor- zare di venire a
finedi mecineparcuiilpuisse seria et tale infelicità bontà,perlaqualeabbia
Certes, et en itele mi- cioch'egli non ha in se aventuren'aurailjà
daamare.Ettalemi. ainz se felicitade.Adunquecia. queiln'aenluinule
maliceetdeiniquitéque ch'eglinonsilascica mentononèamistà,ave- l'on ne puet raembre,
dereinquestoistraboc gnachè egli si somigli inordinato! Addunque dilettazione e
allegrezza àbienvenir:donques nonhamairimedioche chascuns se gart que il
chascunsqueilviegne etdellamalicialaquale àlafindebontépar èsanzarimedio|anzisi
dell'amistà si è diletta zionesensibileavutadi- quoiilsepuissedeliter del'uomo
sforzare ac nanzi,si come l'amista mento d'allegrezza colli tel tresbuchement
de suoi amici.Lo conforta. Addunque ciaschuno huomo si de guardare
amertume,etyvresde fatichaetpensieroetsia avere in se cosa da a-
laidesceetdeperversité, pieno di molta amari mare.E questo cotale
etqueilsoitdestortpar tudineetèebbrodisoz hae in se tanta miseria, misere neant
ordenée. zura di peruersita, et che non è rimedio niuno Donc nus ne puet estre
sia distorto per miseria ch'egli possa venire a amisdetelhome,porce en soi
meisme et avec cioch'elli uengha alla d'unafemina,allaquale sonami.Confors
n'est finedellabontaper la v'hadinanzidilettevoli pasamistié,jàsoitce
qualeeglisipossadi guardamenti,eladiletta- que illesembleàestre:
lettareinsemedesimo, zionesièlegamedell'a- mais li commencemens et hauere
compimento mistà,eseguitalainse- d'amistiéestunsdeliz didilettationecolsuo
parabilemente.Ladispo- rasavorez par conois- amico.L'amistà non è sizione dalla
quale pro Gli huomini rei tardo s'accordano nelle oppi nioni: et
sono sanza parte d'amista, et per IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 33 se desevre, ce est deliz. si pertiene a colui ch'à
insegravezzadicostumi ed esercizio di vertude, unità d'opinione e con cordia di
mettere amore, perciò che le discordie dell'openione sono da trarre dalla
nobile con. gregazione,acciòch'ella rimanga unita di pace e in concordia di
volon tade. Quelle cose che danno altrui vera digni. tade da reggere,sisono le
uirtudi e le loro opere e l'unità dell'oppinione; e questo si truova negli
uomini buoni, concios sia ch'egli sono fermi e costanti in fra loro, e nelle
cose di fuori, perciocch'egli uogliono bene continuamente.Ma rade volte
addiviene che gli uomini si accordino in una oppinione,eper cagione di compiere
gli loro desideri si soste: gnano molta briga e molta angoscia e molta fatica,
ma non per ca. gionedivertude,ehanno moltesottilitadiinseper ingannare
colui,con cui hanno a fare, e perciò sempre sono in rissa e in tenzone. C.
MAECHESI. 3.Cil habiz dont pre mierementnaistlicon fors puet estre apelez
amistié par semblant jusqu'à tant que il croist par longuesce de tens. Et li
ofices dou confort affiert au preudome et au ferme que il soit griez en
moralité de sa vie et es proesces et es costumes et toutes ver tuz, et plains
de science et de bone opinion et de concorde, desirrous d'a. mor; por ce
devroient estre ostées toutes des cordes et malvais pen. sers d'entre les
nobles compaignies des homes, si que il puissent vivre en pais et en concorde
de propre volonté,cele chose qui plus aide à maintenir et governer les dignitez
des vertus et ses oevres.Et la con corde des opinions et es bons
homes,porcequ'il sont parmenant dedans soi et es choses dehors; car toutes foiz
jugent et vuelent bien. mentoellegamechenon si parte e sempre con lei et la
dilettazione (sic). L'abito dal quale pro ciede confortamento si può dire
amista per si. militudine infino a tanto ch'elli crescie per lungo temporale.
L'ufficio del confortatore s'appartie ne a buono huomo et al fermo, el quale è
graue di costumi et exercitato nelle uirtu,et essere pie toso di scienza et
auere accontamento d'oppinio. ni, et concordia intro ducta d'amore (sic),per.
ciò che le discordie delle oppinioni sono per disfa re le diuisioni dell'opere
le quali sono nella nobile congregazione in con cordia di uolontà.Quella cosa
la quale aiuta reg. giereladignitàelavirtu et l'opere delle uirtu.et
concordiadelleoppinioni si truoua negli huomini buoni et costanti intra se et
nel desiderio delle cose di fuori, percio che perano bene et uogliono
Limauvaishomepo bene. s'acordent à lor opinion; car il n'ont en amistie
nulepart,etporacom plir lor desirriers suef questi cotali sempre ado
frentilmaintespoines chagionedicompierele etmainttravailconmie
leloroconchupiscienzie poramistié;etsontes eglisostengonomolte
mauvaishommesmain- faticheetmoltitraua tes mauvaises soutil- gli:. per chagione
d'a lancesporengigniercels mista, et molti scaltri quiàelsontàfaire,et
mentietmoltesottilita. porcesontiltouzjors Etsonohuominireiper
enpaineetenangoisse. chagione d'ingannare L'altro codice, che ci presenta una
redazione affatto nuova e dipendente in tutto direttamente dal testo francese,
è il Maglia bechiano II.II.47 (vecch.segn.VIII.1376),cartac.delsec.XV, a due
colonne,di cc.scr.160; con le didascalie in rosso e rozzo disegno a colore
nella prima iniziale e ne'margini della prima pagina.Contiene il Tesoro;precede
un indice della materia:a c.5*:QuestolibrosichiamailTesoroilqualeèchauatoper lo
maestro Burneto Latino di firenze di piu libri di filosofia che sono strati per
li tempi; a c.59a: Qui comincia l'eticha di Aristotille; finisce l'Etica a
c.76*: Qui finisce illibro dell'eticha d'Aristotille. La soscrizione finale a
carta 160 4: Qui finisce il libro del Tesoro che fece il maestro bruneto Latino
di firenze. dio ne sia lodato.La lezione offertaci dal ms.Mgl.è infelicis sima
e costellata di sbagli, di contorcimenti e travisamenti di parola che pare non
si possano attribuire tutti quanti al copista: il volgarizzatore in molti punti
dà a vedere di essere poco felice conoscitore del volgare come poco esatto
intenditore del francese.Molte espressioni francesi o sono adattate malamente
all'idioma italico o lasciate intatte a dirittura e trasportate di peso nel
volgarizzamento. Ma ciò vedrà il lettore nel con fronto che poniamo tra il
testo del Liber Elhicorum e l'Elica di 34 C. MARCHESI coloro ch'anno a
fare con loro.per cio sempre sono in brigha et in a n goscia. IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 35 Taddeo (1) col compendio francese
di Brunetto e il volgare del VI libro del Tresor; confronto da cui balza fuori
un docu mento largo e complesso,vivo e certo della tradizione morale
aristotelica, nel tempo in cui visse e conobbe e compose Dante A lighieri. (1)
Dell'Etica di Taddeo do la lezionecritica,quale risulta da'codici più
autorevoli dell'Etica e del Tesoro,diversa quindi da quella offertaci dalle
stampe che si son succedute fin ora. Liber Ethicorum.
L'Etica d'Aristotile. Omnis ars et omnis incessus et Ogni arte e ogni dottrina
e ogni omnissollicitudouelpropositumet operazioneeognielezionepareado
quelibetactionumetomniselectio mandarealcunbene.Adunquebene ad bonum aliquod
tendere uidetur. dissero li filosofi, che lo bene si è Optime ergo diffinierunt
bonum di. quello lo quale disiderano tutte le centesquodipsumestquodintenditur
cose.Secondodiverseartisonodiversi exmodisomnibus.Suntautemin-
fini;chesonotalifinichesonoope tentaperartesmultasdiuersa.Que-
razioniesonotalifinichenonsono damenimsuntactioipsametetque-
operazioni,maseguitansialleopera damsuntipsumactum.Cumquesint
zioni.Conciosiachosachesianomolte artes ac ipsarum actiones multe,
artiemolteoperazioni,ciascunahae eruntintentaperipsasmulta.Ac
losuofine.Verbigrazia:lamedicina tamenactuminipsisexistitmelius
sihaeunsuofine,cioèfaresanitade, actione.Estigiturintentumperme-
el'artedellacavallerialaqualein dicinamsanitasetperartemregiti-
segnacombattere,sihaunsuofine uamuelredactiuamexercituumuic-
perloqualeellaètrovata,cioèvit toriaetpernauium structiuam naui-
toria,elascienzadifarelenavi,si gatioetperdomusrectiuamdiuitie;
haeunaltrofinecioènavicare;ela etistasuntactahonorabilia.Que-
scienzacheinsegnareggerelacasa damautemartiumhabentsehabi-
suaelafamigliasuahaeunaltro tudinegenerumetquedamhabitu- fine,cioèricchezza.Sonoalquante
dinespecierumetquedamhabitudine artilequalisonogeneraliesono
indiuiduorum.Ideoque quedam ipsa. alquantelequalisonospecialiecon rum sunt sub
aliis, ut sub militari factura frenorum et cetere artium instrumentorum
militarium, et sub tengonsi sottoquelle.Verbigrazia:la scienzadellacavalleria
siègenerale, sotto la quale si contengono altre
arteexercitualicetereomnesbellice scienzeparticolari,siccomeèlascienza
siuelitigatorie.Etsimpliciterhono- difarelifrenieleselleelespadee rabilissimaomniumartiumestcon-
tuttel'altre,lequaliinsegnanofare stitutiuaetinstructiuaceterarum(1).
cose,lequalisonomistieriabatta Etquemadmodum quibusque rebus
glia;equesteartiuniversalisonopiù anaturaproductisestperfectioquam
degneepiùonorevilidiquelle,im. persenaturaintendit,etintellegibi.
perciocchèleparticolarisonfatteper libusestperfectioquamintenditper
l'universali(1).Esiccomenellecose (1) In tutto il principio del compendio di
Taddeo, e quindi anche del testo francese, si sente l'influenza diretta
dell'altra redazione del Liber Ethicorum, che servì di base al commento di S.
Tommaso. Ecco il latino di quest'altra redazione: « Omnis ars et omnis
doctrina, similiter « autem et actus et electio, bonum quoddam appetere
uidentur. Ideo bene enunciauerunt bonum, 36 C. MARCHESI IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 37 beržalglio per suo
adirizamento,tutto Tutte arti e tutte opere e tutte in. Tous ars et
toutes doctrines et tramesse sono per chiedere alcuno
touteseuvresettouztriemenzsont bene.Dunquedissebeneilfilosafo
porquerreaucunbien,donquesdis- chequeglichetuttelecosedeside
trentbienliphilosophequeceque rano è ilbene.Secondo le diuerse
touteschosesdesirrentestlebien. (arti)sonolefinidiverse.Chetalifini
Seloncdiversars,lesfinssont di. sonoopere,talisonoch'esconodel
verses;cartelesfinssonteneuvres, l'opere.Eperciochemoltesonol'arti
ettelessontcelesquel'onensuitpar el'opereciascuna à suo fine.Che medicina ae
una fine cioè a fare lesarsetlesoevres,chascune a sa
santade.Elafinedelabatalgliasi fin;carmedicineaunefin,ceest
ènetoria,el'artedifarenauià àfairesanté;etbatailleasafin,
unaltrofine,cioènauichare.Ela les oevres; et porce que maintes sont
porquoielefutrovée,ceestvictoire; scienzacheinsengnaagouernarea et les ars de
faire neis ont une autre l'uomo sua magione e sua familglia
fin,ceestnagier;etlasciencequi àun'altrafinecioèricchezza.Etsono
enseigneàhomeàgovernersamaison alcuneartichesonogieneralieal
etsamaisnieauneautrefin,ceest cunechesonospezialli,cioèpersua
richesce.Etsontaucunesarsquisont diuisione,eperòsonol'unasottol'al
generaus,etaucunesquisontespe- trasicomelascienzadichaualleria
ciaus,c'estparticuleres,etaucunes ch'ègienerale,edisottoaquella
sontsarzdevision;etporcesont sonopiùaltrescienzepartichullari,
lesunessouzlesautres;sicomme cioèlascienzadifarefrenieselle
estlasciencedechevalerie,quiest espadeetuttel'altrecosecheinse
generaus,etdesozlisontautres gnanoafarecosecheabattalglia
sciencesparticuleres,ceestlascience bisongnano. de faire frains et seles et
espées, et E l'arti universalli sono più dengne toutesautresarsquienseignentà
epiùonoreuolichel'altre,percio fairechosesquiàbataillebesoignent.
chelleparticullarisonotrouatteper Etcistartuniversalesontplusdigne
leuniversali.Ecosìtuttelechose queliautre,porcequelesparticu.
chesonofattepernaturaèunadi leressont troveesparlesuniversales. retana cosa per
a che la natura in Ettoutaussicommeenchosesqui
tendefinalmente.Altresituttelecose sontfaitesparnatureestunedar-
chesonofatteperartièunafinale reinechoseàquoilanatureentent
cosaachesonoordinatetuttelecose finelment,autressieschosesquisont
diquellaarte.Esicomecoluiche faites par art est une finel chose à Li Tresors.
Livre II, Part. I, Magliabech.1.1.47.c.59 sq. chap.III. quoi sont ordenées
trestoutes les trae di sua arte a uno sengnio à uno 38 C. MARCHESI
« quod omnia appetunt. Differentia uero quaedam uidetur finiam. Hi quidem enim
sunt opera «tiones;hiueropraeterhasoperaquaedam.Quorum
autemsuntfinesquidampraeteroperationes, « in his meliora existunt operationibus
opera. Multis autem operationibus entibus et artibus et doctrinis,multi sunt et
fines.Medicinalis quidem enim sanitas,nanifactiue uero nauigatio, •yconomicae
uero diuitiae.Quaecumque autem sunt talium sub una quadam uirtute,quemad «modum
sub equestrifrenifactiuaetquaecumque aliaeequestriuminstrumentorumsunt:haec «
autem et omnis bellica operatio sub militari; secundum eundem itaque modum
aliae sub alteris. • In omnibus itaque architectonicarum fines omnibus sunt
desiderabiliores his quae sunt sub ipsis. « Horum enim gratia et illa
prosequuntur. (1) Quest'esempio, che manca nella nostra redazione latina, è
tratto dal Liber Ethicorum del
commentotomistico:«Igituretaduitamcognitioeiusmagnum habetincrementum,etquemad.
• modum sagittatores signum habentes... » seintellectus,eodem
modorebusef. fattepernaturaèunoultimointen fectisabarteestperfectioquam per
seintenditartificiumhumanum.Hac finalmente,cosìnellecosefatteper
autemperfectioestbonumadquod arteèunointendimentofinale,al intenditur, et est
optimum eorum que queruntur propter ipsum et di quelle arti; siccome l'uomo che
ipsiuscausa.Scientiaigituristiusest saettahalosegnopersuodirizza
scientiadiuinamaximiexistensiuua. mento(1),coşiciascunaartehae menti in
uitaetconuersatione hu. unsuofinaleintendimento,loquale
mana.Habentesigiturintentionem dirizzalesueoperazioni.Adunqua
acpropositumdignum ualdeestut l'artecivile,laqualeinsegnareggere
inueniamusinquisitioneremqueest lacittade,éprincipaleesovranadi
perfectiouoluntatis.Arsigiturdi. tuttealtrearti,perciocchèsottolei
rectiuaciuitatumprincepsestartium, sicontegnonomoltealtrearti,lequali
eoquodsubhaccontinenturresho. sonoonorevili,siccomelascienzadi
norabilesualideconsistentie;utpote farel'osteedireggerelafamiglia,
arsexercitualisetarsfamiliedo- elarettoricaèanchenobile,percio mus dispensatiua
ac rethorica,et ch'ellasiordinaedisponetuttel'altre
eoquodipsautitarartibusactiuisomni- chesicontegnonosottolei,elosuo
busetcomponitetordinatlegesearum compimentoàilfinedituttel'altre.
atqueiuditia(sic)etdistinguitinter Adunquelobeneloqualesiseguita
laudabilesetillaudabiles.Huius itaque artisperfectioacpropositumadpro-
l'uomo,percioch'ellalocostringe priatpropositaomniumartiumreliqua- di fare bene
e costringelo di non rum.Bonumigiturusitatumsecundum fare male.La recta
dottrina sièche suum modum est bonum humanum; l'uomo si proceda in essa,secondo
ipsumnamqueeffectiuumestcetero- chelasuanaturapuotesostenere. rum bonorum
omnium artium et Verbigrazia:l'uomocheinsegnageo
saluatartificesnequidaganthorridum metriasideeprocedereperargo dimento lo quale
la natura intende quale sono ordinate tutte l'operazioni
diquestascienza,sièlobene del IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 39 chosesdecelart.Etaussicomme altresiciascunaarteaeunafinale
cilquitraitdesonarcauseignala cosache'ndirizaquellaopera.Qui celui bersail por
son adrescement, parla del gouernamento della citta tout autressi a chascune
ars CCXVII.Dunque l'arte che insen finelchosequiadrescesesoevres.
gnialacittagouernareèprincipale III. Donques l'art qui enseigne la cité
àgovernerestprincipausetdame etsoverainedetoutesars,porceque
desouzlisontcontenuesmaintesho- norablesars,sicomme rectoriqueet
lasciencedefaireostetdegoverner e donna di tutte l'arti,
peròchedisottoaleisonotuttii maestrionoreuoliecontiensisotto
luituttemolteonorabillearti,sicome retoriccha e la scienza di fare oste
edigouernaresuamasnada.E an samaisnie;etencoreestelenoble,
coraènobileperoch'ellamettein porcequeelemetenordreetadresce
toutesarsquisouzlisont,etlisiens compliemensetsafinssiestfinet
compliementdesautres.Donquesest ele li biens de l'ome, porce que ele
constraintdebienfaireetelecons- traint de non mal faire.
Lidroizenseignemenzsiestque onailleselonccequesanaturele
ordineeadirizzaartichesonosotto lui,eilsuocompimentodisuafine
sièfineecompimentodel'altre. Dunqueilbene(che)diquestascienza uiene si è bene dell'uomo
pero che 'l constringniedinonfarelomale. E il diritto insegniamento ch'ell'à
inleisecondosuanaturalepuote soferire.Cioèadirechecoluiche
puetsofrir;ceestàdirequecilqui insengnagouernaredeeandareper
enseignegeometriedoitalerparar- suoiargomentichesonoapellatidi
gumensquisontapelésdemonstra- mostrazioni.Erittorichadeeandare
cions,etenrectoriquedoitalerpar perargomentieperragioneuedere
argumenzetparraisonvoiresembla- senbiabille,eciòauienepercioche
ble.Etceavientporcequechaschuns ciascunoartieregiudicabeneedicela
artiensjugebienetditlaveritéde ueritàdiciòcheapartienealsuome
cequiapartientàsonmestier,eten stiere,ecosiinciòèilsuosennosottile. ce est ses
sens soutis. une e sovrana La scienza di città governare non
Lasciencedecitégovernerne sifamichaafanciullonedahuomo
afiertpasàenfantneàhomequi chesegualesueuolontadi,percio
vueilleensuirresavolenté,porceque che amendue sono non sacenti delle
anduisontnonsachantdeschosesdou cossedelseculo,chequestaartenon
siecle;carcestearsnequiertpasla chiedelasienzadell'uomo,mach'egli
sciencedel'ome,maisqueilsetorne sitorniabontà.Esapiatechein
àbonté.Etsachiésqueenfesestde. fateèinduemaniere,chel'uomo
ij.manieres;carlihompuetbien puotebeneessereuechioditenpo
estrevielsdeaageetenfesdemors; euechioperhonestavita. 40 C. MARCHESI
autillaudabile.Et saluatioquidem mentifortiliqualisichiamanodimo.
uniuslaudabilisexistit,quantomagis strazioni,elorettoricodeeprocedere
gentiumacciuitatum.Rectadoctri. nellasuascienzaperargomentie
natioestinquirereinunoquoquege- ragioniverisimili;equestosièpercio
nerumiuxtamensuramquamsustinet checiascunoarteficegiudichibene
naturailliusgeneris;etutexigitur etdicalaveritadediquellocheap.
quidemamathematicodemonstratio partieneallasuaarte.Lascienzada et a rethore
sufficientia persuasiua. reggere la cittade non conviene a Unusquisque enim
artificumrecto garzonenèauomocheseguitilesue iuditio iudicat de eo quod est
infra h a cose buone e giuste e oneste; onde Rerumquedamsuntcogniteapud
gliconvieneaverel'animasuanatu nos,etquedamsuntcogniteapud ralmentedispostaaquellascienza:
naturam.Oportetergoutamator maquellouomochenonhaeneuna
scientieciuilispromtussitadres diquestecose,èinutileaquesta
eximiasetsciatopinionesrectas.Opi- scienza(1). (1)Questo ci prova chiaramente
che Brunetto non ebbe tra mani altro testo latino fuor del compendio
alessandrino-arabo; giacché le altre traduzioni greco-latine della Nicomachea
gli avrebberodatolagiustaindicazionedel
poeta:Esiodo.Maforsepertuttoilriferimento,che son volontadi,peroche non
> bitum suae scientiae,et in hoc est nellecosedel secolo.E notache gar
perspicaxipsiusscientia.ludicans zonesidiceinduemodi,quantoal
autemdeomnisapiensestomnipe- tempoequantoallicostumi,che
ritiaimbutus.Arsciuilisnonpertinet puòtaloral'uomoesserevecchiodi
pueronequeprosecutoridesideriiatque tempo e garzone di costumi, e tal
uictorie,eoquodamboignarisunt fiatagarzoneditempoevecchiodi
rerumseculi,nequeproficitipsis.Non costumi.Adunqueacoluisiconviene
enimintenditarsistascientiamsed lascienzadireggerelacittade,lo
conuersionemhominisadbonitatem; qualenonègarzonedicostumie
nequediffertpueretateautinmo- chenonseguitalesuevolontadi,se
ribuspueris,nonenimaduenitquidem nonquandosiconvieneequantosi
defectusexpartetemporissedpropter conviene ed ove si conviene. usum uite in
moribus puerilis;pueri ergodissolutietdesideriorumprose-
cutoresnonproficiuntpenitusexarte ciuili. Qui autem utitur desiderio secundum
quodoportetetquando Sono cose le quali sono manifeste
allanatura,esonocoselequalisono manifeste a noi; onde in questa scienza si dee
cominciare dalle cose, oportet,etquantumoportetetubi
oportet,hicplurimumproficitex scientia artis ciuilis.
loqualedeestudiareinquestascienza, edapprendere,sideeausarenelle
lequalisonomanifesteanoi.L'uomo savi IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 41 et puet estre enfes par aage et viel Dunque la
sienzia di città ghouer parbonevie.Donqueslasciencede nare è a fare huomo che
non sia governer citez n'afiert à home qui fanciulo de cuore molle e che non
estenfesensesfaizetquiensuie sesvolentės,selorsnonquantille covient faire et
tant comme il co- vient,et là où il se covient,et si comme est covenable.
seguasuauolontadi,senoquelliche siconuengonoetantocom'ellesi debono e la dove
si conuiene e si come conueneuole. E sono chose che sono chonueneuoli a natura
e cose chesonoconueneuolliannui;che Iliachosesquisontconnuesà
natureetsontchosesquisontcon- chisivuolestudiareasaperequesta
neuesànos;porquoinosdevonsen scienza,eglideeussarecosegiustee
cestesciencecommencieraschoses buoneeoneste,ond'egligliconuiene
quisontconneuesànos,carquise auerel'arminaturallementeaquesta
vuetestudieràsavoircestescience, scienza,macoluichenonanèl'uno
ildoituserdeschosesjustes,droites nèl'altroriguardiaciòchedee.Se
etbonnesethonestes,oùillicovient 'lprimoèbuonoel'altroèapere avoirl'ame
naturaument ordenée à gliato ad essere buono.Ma chi da
cestescience;maiscilquin'ane ssenonsanienteenonaprendedi
l'onnel'autreregardeàcequeHo- ciòchel'uomogl’insenguia,egliè
merusdist:Selipremiersestbons, deltuttomecciante.- Quidicedelle
liautresestappareilliezàestrebons; treuieCCXVIII. Dacontaresono
maisquidesoinesetneant,etqui.ij.uie.L'unaèuiadichonchupi.
n'aprentdecequehomlienseigne, senziaediconuotizia.L'altraèuita
ilestdoutoutmescheanz(1).IV.Les cittadina,cioèdisennoediproeza
viesnoméesquisontàcontersont ed'onore.Laterzaécontenpratiua..ij.L'uneestviedeconcupiscenceet
E più ujuono secondo la uita delle decovoitise;l'autresiestvieciteine,
bestie,ch'èapellatauitadichonchu ceestdesensetdeproesceetd'onor;
pisenzia,peròch'egliseghonolaloro la tierce est contemplative: et li uolontade
e loro diletto. E chatuna plusorviventselonclaviedesbestes,
diqueste.ij.uiteàsuapropriafine quiestapeléeviedeconcupiscence,
diuersedal'altre,tuttoaltresìcome porcequeilensuientlorvolentezet
[lasienzadiconbatteredi]medi lordeliz.Etchascunedeces.ij.vies cina à sua
finediuersa dalla scienza asaproprefin,diversedesautres,
delconbattere,chèquellabadaafare toutautressicomme medicineasa
santà,equellaadauereuetoria.Qui findiversedelasciencedecombatre;
diuisadelbeneCCXVIIII.Ubene carelebéeàfairesanté,etcele ėinduemaniere,che'unamaniera
autreàvictoire.V.Libiensesten èch'èdisideratapersemedesimo[e
ij.manieres;carunemanieredebien l'altra)eun'altramanieradibeneè
niones autem rectae sunt ut in arte Le vite nominate e famose sono
ciuiliincipiaturarebusapudnos tre;l'unasièvitadiconcupiscenza,
cognitis,etinconsuetudinibuspul- l'altrasièvitacittadina,cioèvita
crisethonestisfactasitassuetudo diprodezzaed'onore;laterzasiè principium enim
est et inceptio a vita contemplativa: e s o n o molti
quaresest.Exmanifestoexistente uominichevivonosecondolavita
sufficienterquiaresest,nonindigetur dellebestie,laqualesichiamavita
propterquidresest.Indigetautem diconcupiscentia,perciòchesegui.
homoadpromtitudinemhabitationis tanotuttelelorovolontadi;ecia
leritatisrerumbonarumautaptitudine scunadiquestevitesihasuofine
boneinstrumentalitatisexquasciat propriodiversodaglialtri,sicome
uerum,autformaperquamaccipian- l'artedellamedicinahadiversofine
turprincipiarerumabeofacile.Qui dallascienzadicombattere,chè'l
veroneutramhabueritharumaptitu- finedellamedicinasièdifaresani.
dinumaudiatsermonemHomeripoete tade,e'lfinedellascienzadifare
ubidicit:Illequidem bonusest,hic battagliesièvittoria.Benesièse autem aptus ut
bonus fiat. Vite condo due modi, chè è uno bene lo
famosetressunt.Uitaconcupiscen- qualeuomovuoleperse,eunaltro
tieetuoluptatis,uitaprobitatiset beneloqualel'uomovuoleperaltro.
honoris,uitascientieetsapientie; Benepersesìcomelabeatitudine,
pluresuerohominumseruisuntuo- beneperaltruisonodettiglionori luptatis uitam
bestiarum eligentes elevertudi,perciòcheuomovuole
inexecutionedelectationum.Sunt questecoseperaverebeatitudine. autem termini
harum uitarum distan. Naturalcosa èall'uomoch'eglisia
tesetbonaipsarumbonadiuersificata. cittadino,etconversicongliuomini
Sicutergobonum quodestinarte artefici,econtralanaturadell'uomo
exercitualiestaliudabonoquodest sièd'abitaresoloneldeserto,elà
inartemedicinali,sicabinuicemalia ovenonsianogente,peròchel'uomo sunt bona
trium uitarum. Et bonum naturalmente ama compagnia. quidem medicine est
sanitas,bonum Beatitudo si è cosa compiuta,la exercitualisestuictoria.Estautem
qualenonabbisognaneunacosadi bonumsecundumduosmodos:bonum
fuoridase,perlaqualelavitadel per se et bonum propter aliud; et
l'uomosièlaudabileegloriosa.Adun. quesitumquidemproptersemelius quelabeatitudinesièlomaggior
estquesitopropteraliud.Nosuero beneelapiùsovranacosaelapiù manca
nelcompendiodiTaddeo,BranettosivalseanchedelLiberminorum moralium:«.aduertat «
intentionem poetae dicentis: Optimus est hominum qui a semet ipso intelligit
quod expedit.Qui « autem ab altero hoc intelligit, est in uia directionis. Qui
uero nec a semet ipso intelligit nec « ab altero recipit, hic uir est inutilis
», 42 C. MARCHESI - IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 43 est qui est desirrez por lui meisme, et une autre maniere de
bien est qui est desirrez por autrui. Biens par lui est beatitude,qui est
nostre fin,à quoi nos entendons;bien par autrui sont les honors et les vertuz;
car ce desire li hom por avoir beatitude. Naturale cosa è a l'uomo ch'egli sia
cittadino e ch'egli conuersi in tra le gienti, cioè intra gli uomini e intra
gli artefici. E contra natura sarebe abitare in diserto oue non à persona,però
che l'uomo naturale. mente si diletta in conpangnia. Bea tittudine è cosa
conpiuta, si che non à niuno bisongnio d'altra cosa fuori di lui, per chui la
uita degli uomini ė pregiabile e groliosa:dunque è beatitudine il magiore bene
di tutti, e la più sourana cosa e la trasmil gliore di tutti i beni che sieno.
Qui diuisa di treposanzie CCXX. Tutte le opere dell'uomo o sono malvagie o
[buone.om.]. Colui che lle fa buone l'opere,egli è degno d'auere il compimento
della uertu di L'anima dell'uomoae.ij.posanze. L'una è uegiettative,e
questa è co mune ad alberi ed a piante, ch'egli anno annima uigettatiua,altresìco
m'àno gli uomini; la seconda è apel latta sensitiua; la terza è apellata r a
zionabile,l'èperquestoche l'uomoè ragioneuole e diuisato da tutte le cose, per
ciò che niuna altra cosa ae anima razionale se no l'uomo;e questa possanza è
alcuna uolta in natura e al cunauoltainpodere.Ma beatittudine è quand'ella è in
opera e non miga quand'ella è in podere solamente; chè s ' e g l i n o 'l f a,
e g l i n o n è m i c h a b u o n o. Naturel chose est à l'ome que il soit
citeiens,etque ilconverseentre les homes et entre les artiens; car contre
nature seroit de habiter en desers où il n'a nule gent,porce que li hom
naturelmentsedeliteen com paignie. Beatitude est chose complie,si que ele n'a
nul besoing d'autre chose fors de li,par quoie la vie des homes est puissanz et
glorieuse: donques est beatitude li graindres biens de touz et la plus
soveraine chose et la très mieudre de touz biens qui soient. V I. L ' a m e d e
l ' o m e a j i j. p u i s s a n c e s. L'une est vegetative, et ce est c o m
mun asarbresetasplantes,caril ont ame vegetative aussi come li home
ont;lasecondeestapeléesen sitive, et est c o m m u n e à toutes bestes, car
eles ont ames sensitives; la tierce est apelée rationable,et por ceste est li
hom divers de toutes choses,porce que nule autre chose n'a ame ratio.
nableselihom non.Etcestepuis sance rationable est aucune foiz en oevre et
aucune foiz en pooir; mais beatitude est quant ele est en oevre, et non pas
quant ele est en pooir seulement; car se il ne le fait, il n'est mie bons. ch'è
disiderata per altrui. Bene per lui è beatitudine, ch'è nostra fine a che noi
intendiamo.Bene per altrui sono gli onori e le uertu: chè questo si disidera
per auere beatitudine. Toutes les oevres des homes ou -44 C.
MARCHESI Ogni operazione che l'uomo fae o ellaèbuonaoellaèrea;equello uomo lo
quale fa buona la sua ope. razione, si è degno d'avere la perfe. zione della
virtude di quella opera zione.Verbigrazia: lo buono cetera tore,quando egli
cetera bene,si è degnacosach'egliabbiailcompimento di quella arte,e lo rio
tutto il con. trario. Adunque se la vita dell'uomo è secondo l'operazione della
ragione, allora si è laudabile la sua vita, quand'egli la mena secondo la sua
propria vertude; ma quando molte vertudi si raunano insieme nell'animo
dell'uomo, allora si è la vita dell'uo mo molto ottima e molto onorata,e molto
degna,sicchè non puote essere più;perciò che una virtude non puote beatitudinem
ultimam propter se uo lumus,cum sitfinisnosteretintentum à nobis; honores autem
et uirtutes propter beatitudinem, eo quod per ipsas pertingimus ad illam. Homo
naturaliter ciuilis est et con uiuithominibusetsocietatesexercet
comel'uomo;lasecondapotenziasi cumartificibusdecenter,nequeap
chiamaanimasensibilenellaquale petitsolitudinemnequedesertum
participal'uomocontuttelebestie, neque heremum.
perciòchetuttelebestiehannoanima Beatitudoestrescompleta,nullius
sensibile;laterzasichiamapotenza indigens,perquamuitahominislau.
razionale,perlaqualel'uomosiè dabilisexistit.Beatitudoigiturexce
diversodatuttel'altrecose,perciò lentissimum est eligibilium et opti. che neuna
altra cosa hae anima ra mumbonorum,cumsitperfectiore zionale,sicomel'uomo.E
questa rumoperabilium.Sicutigiturestin potenziarazionalesiètalorainatto
qualibetartiumbonumquodillaars etalorasièinpotenzia;ondela intendit,etsicutestcuilibetmem.
beatitudinedell'uomosièquandoella brorumcorporisactuspropriusin
vieneinatto,enonquandoellaèin quoeialiudnoncomunicat,sicest homini actus
proprius in quo aliud ei non comunicat. Homini autem se cundum animam
uegetabilem C O municant terrae nascentia,et secun dum animam sensibilem
comunicant ei animalia; actus uero ei proprius, inquo nullum aliud ipsi
comunicat, est actus secundum rationem et di scretionem. Ratio uero duplex est:
potenzia: ratio uidelicet actualis et ratio poten tialis;dignior autem ad
intentionem rationis et magis cognita est ratio actualis,ut pote actus hominis
di. scernentis et agentis. Et omnis actio quam agit actor aut est bona aut est
mala. Actor autem bene agens in omni arte meretur intentionem uir tutis, ut
bene citharizans citharedus bonus;citharizans autem male malus. ottima che
l'uomo possa avere. L'a nima dell'uomo si ha tre potenzie; l'una si chiama
potenzia vegetabile, nella quale comunica l'uomo cogli arbori e colle
piante,perciò che tutte le piante hanno anima vegetabile,si IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA bonesoumauvaisessont.Etcilqui
quell'opera.Chècoluichebeneopera fait lesbonesoevres,ilestdignes
èdegnod'auereilcompimentodisuo d'avoirlecomplimentdelavertude
mestiere,equeglichemalfanno,il celeoevre;carcilquibiencitoleest
contrario.Dunqueselauitadell'uomo dignesd'avoirlecomplimentdeson
èsecondol'operadiragione,alora mestier,etciquimallefait,lecon- è da pregiare
quand'eglila mena traire;doncselaviedel'omeest secondolapropriauertu.Maquando
seloncl'oevrederaison,lorsestele mantieneuertusonogliuominisaui,
prisablequantillamaineseloncla esauioebisongniabile,enorevolee propre vertu;
mais quant maintes moltodengniosichepiùnonpotrebe
vertuzsontenl'ome,savieestbesoi. essere;percidcheunasolauertunon gnableethonoréeetmultdigne,si
puotefarel'uomodeltuttobeatone queplusneparroitestre,porceque
perfetto.Chèunasolarondineche uneseulevertunepuetfairel'ome
uengnianèunosologiornotemperato detoutebeatitudeneparfait;carune
nondonaciertanainsengniadelprimo solearondelequivieigneneunsseus
tenpo.Eperciòinunopocodiuita jorsatemprésnedonentcertaineen-
d'uomoeinunopocoditenpoch'egli seignedouprintens;etporceenpo
facciabuoneopere,nonpossiamoperò devied'ome,neenpodetensque
direch'eglisiabeato.CCXXI.Qui ilfacebonesoevres,nepoonnosdire diuisa di tre
maniere di bene.Il queilsoitbeates.VII.Libiensest beneèdiuisatointremaniere,che
devisezen.iij.manieres,carliuns l'unoèilbenedell'anima,el'altro
estbiensdel'ame,etliautresest delcorpo.Mailbenedell'animaèil
doucors,etlitiersdehorslecors; piùdengniochenullodeglialtri,
maislibiensdel'ameestplusdignes peròcheglièilbenedidio,esua
quenusdesautres,carceestlibiens formanonèchonosutaseperl'opere
deDieu,etsaformen'espasconneue separlesoevresvertueusesnon.Et
sanzfaillebeatitudeestenquerre lesvertuzetenelsuser,maisquant
beatitudeestenhabitetaupooir del'ome,etnonensesfaiz,ceest
àdirequantilporroitbienfaireet ilnelefaitmie,lorsestvertuous
aussicommecilquisedort,carses oevres ne ses vertuz ne se mostrent
pas.Maisl'omquiestbeatescovient aussicommeparnecessitéqueilface uertudiose
non.E sanza fallo beati tudineèinchiedereleuertuefarle.
Maquandobeatitudineènell'abitoe inpoteredell'uomononèsenone
fatti:questoèadire,quandoeglipuote benefareeno'lfaaloraèegliuer
tudiosoaltresìcomecoluichedorme; chèsueopereesueuertunonsimo strano.Ma
l'uomoch'èinbeatitudine conuiene altresì come per necissetà
ch'eglifacciailbeneinoperaesi comeilsauiochampioneeforteche
lebiensenoevre.Etsicommeli sichonbatteuuoleportarelacorona 45 46
C. MARCHESI Actusigiturhominisunaestuitarum l'uomo fare beato,nè perfetto,sic
famosarum trium prenominatarum, una rondine quando appare
uitascilicetrationisetscientieet sola,eunosolodietemperatonon
sapientie.Etomnisquidemresbona dànnocertadimostranzachesiave.
existitetdecorapropteruirtutemsibi propriam. Vita ergo hominis actus
estanimeintellectiueperuirtutem sibipropriam;sedcumuirtutesani-
memultesint,eritperoptimam et honoratissimam in fine et dignis-
simaminfineperfectionisetcomple- menti.Unanempehyrundononpro-
nosticaturuernequediesunicatem- peratiaeris,sicnecuitapaucaet
lobenedell'animasièpiùdegno tempusmodicumsignumcertumsunt
benedineuno,elaformadiquesto beatitudinis. bene si non si conosce se non nell'o
Bonum tripliciter diuiditur; est perazioni, le quali sono con vertudi. bonum
anime et bonum corporis et nutalaprimavera;ondeperciò nè.
inpicciolavitadell'uomo,nè in pic ciolotempochel'uomofacciabuone
operazioni,nonpotemodicereche l'uomosiabeato. Lo bene sidivide in tre parti,chè
l'unosièbenedell'anima,l'altrosi èbenedelcorpo,el'altrosièbene difuoredalcorpo.Diquestitrebeni,
come bonum extra corpus. Bonum ergo delle vertudi e nell'uso loro; ma
quoddignissimebonumdiciturest quandolabeatitudineènell'uomoin bonum anime,neque
apparet forma abito,e non in atto,allora si è vir istiusboni,nisiinactibusquisunt
tuosacomel'uomochedorme,lacui auirtute.Etbeatitudoquidemest
operazioneevirtudenonsimani. inacquisitioneuirtutumetinusu
festa;mal'uomobuonodinecessità earumsimul.Cumquefueritbeatitudo
èbisognochel'aoperisecondol'atto, inhominetamquaminpossessioneet etèsomigliantediquellochesta
habituetnonactu,tuncesttamquam neltravitoacombattere;chè sola uirtuosus
dorniiens cu non apparet mente quelli che combatte et vince,
actionequeuirtus.Beatusautemactu quelliàlacoronadellavittoria;e
necessarioexercetbeatitudinem.Et sealcunouomosiapiùfortedicolui,
quemadmodumperitiagonisteatque chevince,nonàperciòlacorona,
robusticoronanturquidemetacci. perch'eglisiapiùforte,s'eglinon
piuntpalmamapudactumagoniset combatte,avvegnach'egliabbiala
uictorie,sicuirtuosielectiboniac potenziadivincere;ecosìlogui. beati laudantur
et premia uirtutum derdone della virtude non ha l'uomo
suscipiuntdumapparentoperationes senoninfinoatantoch'egliadopera ipsorum
secundumueritatem;etisto. lavirtudeattualmente;equestosiè
rumuitaestinseipsadelectabilis. perciòcheloloroguiderdoneela
Unusquisqueenimhominumdelecta- lorobeatitudineèladilettazione,che La
beatitudine si è nell'acquistare IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 47 della uettoria, tutto altresì l'uomo buono e beato ae il
guiderdono e la loda della sua uertu ch'egli fae et mostra ueracemente per
queste opere, perciò che il guiderdono delle sue opere e della beatittudine è
ildiletto ch'egli n'atantoe com'egli opera la uertu; chè ciascuno si dileta in
cid ch'egli ama; il giusto si dileta in giustizie e l'asagia e gli piacciono, e
'l uertudioso nelle uertu. Et tutte l'opere che sono per uertu sono belle e
dilettabille in se medesime. Beatitudeestlachoseaumonde
Beatitudineèlacosaalmondoche quiesttrèsdelitable,maislabeati
tudequiestenterreabesoingdes biensdedehors;carilestdurechose
quel'onfacebelesoevres,seiln'ia grant part des choses avenables à
bonevieethabondanced'avoiret d'amisetdeporenz,etprosperitéde fortune, et por ce
la sapience abe. soigned'aucunechosequifaceco perciòlasapienzaàbisongniod'al
noistre sa valor et ses honors.Se cuna cosa che faccia conossere suo aucuns
done as homes dou monde, ualore e suo onore.Se alcuno dona
disgloriousetsoverainsfaiz,l'en ahuomodelmondodonogroliosoe
doitbiencroirequecildonssoitbea. souranofattol'uomodebenecredere
titude,porcecequeestlamieudre chequellodonosiabeatitudine,perciò
chosequiestrepuisseaumonde;car ch'eglièlamigliorecosachepossa
eleestmulthonorablechose,etest esserealmondo;ch'ell'èmoltoono.
licompliemensetlaformedevertu; rabilecosa[essere]edèilcompimento
neiln'estpasditdouchevalnes elaformadellauertu;nèeglinonè
desautresbestes,nedesenfans,que michadettodelcaualloedel'altrebe ilsoient
beates,porce qu'il ne font oevres de vertu. Beatitude est chose ferme et
estable, tozjors en une fermeté, si que ele ne stie,nè degli fanciulli che
sieno beati, perciò ch'egli non fanno opere di uertu. Beatitudo è cosa ferma et
stabille. (1 ) A r r e s t i a m o q u i l a t r a s c r i z i o n e d e l c o
d. M a g l i a b e c h., s e m b r a n d o c i l a p a r t e t r a s c r i t t
a s u f f i ciente ad attestare la propria dipendenza dal testo francese.
milglioreepiugioiosaetradiletta bille:mallabeatitudinedeeessere
interraebenidifuori.Chègliè dura cosa che l'uomo faccia belle opere e ch'egli
abbia parte di cose aueneuolliahuonauitaedabondanza
d'auereedabondanzad'amiciedi parenti e prosperita di fortuna, e F sages
champions et fors qui se combat et vaint emporte la corone de victoire,
toutautressilihom bonsetbeatesa le guerredon et la loange de la vertu que il
fait et mostre veraiement par ses oevres, porce que li guerredons de la
beatitude est li deliz que l'om atentcomme iluevrelavertu,car chascuns se
delite en ce que il aime: lijustessedeliteenjustise,etlisages en
sapience,etlivertueusenvertu; et toute oevre qui est par vertu est bele et
delitable en soi meisme.. (1) virtude, si è bella e diletteuile in
se Beatitudo autem omnium rerum est medesima. Beatitudo si è cosa ot
optimaiocundissimaatquedelectabi- tima,giocundissimaedilettabilissima.
lissima.Beatitudotamenqueesthic Labeatitudine,laqualeèinterra,si
bonisexterioribusindiget;difficile abbisognadeglibenidifuori,perciò est enim
homini ut opera decora che non è possibile all'uomo ch'egli
exerceatabsquemateriautpotequod facciabelleopereech'egliabbia
habeatpartemcompetentemrerum artelaqualesiconvengaabuona
boneuitepertinentiumetcopiam vita,eabbondanzad'amiciedipa familie et parentum
et prosperita- renti,eprosperitàdiventura,sanza temfortune.Ethacquidemdecausa
libenidifuori;eperquestacagione indigetarssapientiearteregnandi,
nonabbisognaalcunacosachefaccia ut apparere faciat honorificentiam manifestare
il suo onore e lo suo va suiatqueualorem.Etsialiquarerum
lore.Sealcundonoèfattodidome donata est hominibus a deo excelsa nedio glorioso
e eccelso agli uomini etgloriosa,dignumestutbeatitudo
delmondo,degnacosaèdacredere siuefelicitasdonumsitdiuinum se-
chequellodonosiabeatitudine,im cundumquodipsaestoptimaomnium
perciòch'ellasièlapiùottimacosa rerum humanarum; est igitur de onorevole molto
e compimento e rebus prehonorabilibus,cum sit com. 48 C. MARCHESI
turineoquodestamatumapud eglihanno,infinoatantoch'egliado ipsum; delectetur
ergo iustus in perano la virtude; chè il giusto si
justitiaetuirtuosusinuirtuteet dilettanellaiustiziae'lsavionella
sapiensinsapientia.Etactionesfientes sapienza,elovirtuosonellavirtude;
peruirtuteminseipsissuntdelecta. eognioperazione,laqualesifaper biles uenuste
ac decore. forma di virtude. E neuna genera plementum uirtutis siue forma et
zione d'animali puote avere beatitu fructusipsius— [Non)diciturautem
dine,senonl'uomo,eneunogarzone deequonequedealioaliquoanima-
nonhaebeatitudine,perciòcheneuno liumhuiusmodi,nequedepueris,quod
animalenèneunogarzonenonado sintbeati,eoquodnequehuiusmodi perasecondovertude.
animalia neque pueri agant opera Beatitudo si è cosa ferma e stabile
uirtutis.Etbeatitudoestresfirma sempresecondounadisposizione,nella
stabilissecundumdispositionemunam, qualenoncadevarietadenèpermu
inquamnoncaditalteratioetpermu- tazione alcuna,e non v'ha talora
tatio,etnoncomitanturipsameuen: beneetaloramale,matuttaviabene,
tusuarii,etnuncbonitasnuncmalitia. equestosièperciòchelabonitade
Etenimbonitasetmaliciaestinopere elareitadesiènellaoperazione
hominis;etcolumpnabeatitudinis dell'uomo.Lacolonnadellabeatitu
estoperasecundumuirtutem;co- dinesièl'operazione,chel'uomofae 1 se
remue pas,et si n'est mie une foiz bien et autre mal, mais toutes foiz
bien,porce que li muemenz de bonté ou de malice n'est pas se es oevres des
homes non. Li pilers de beatitude est lesoevres que l'onfait selonc vertu,et la
colone dou con traire est les oevres que l'on fait selonc vice; et la vertus
ferme et estable est en l'ame de l'ome.Li hom vertueus ne se contorbe ne ne
s'es maie por nule temporal chose qui li avieigne; car il n'auroit jà beatitude
se il s'esmaioit,car dolor et paor abatent l'oevre de vertu et la joie de
beatitude. Felicités est une chose qui vient par vertu de l'ame, non pas dou
cors..... IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 49 Aucunes choses sont
mult griez à sostenir;mais quant l'on les a bien sostenues,lors apert et se
mostre la hautesce de son corage; et sont au tres choses qui ne sont griez à
sos tenir, ne li hom qui les sueffre ne mostre pas que en lui soit force.Et jà
soit ce que mort et maladies de filz soient griez à sostenir, ne doivent pas
remuer l'ome de sa felicité; car bienetfelicité,ethome felixetDex glorious et
benois sont tant digne chose et tant honorable que nulz pris ne nule loenge ne
lor sofit pas; et nos devons reverer et magnifier et glorifier Dieu sor toutes
choses et si devons croire que en lui sont tuit bien et toutes felicitez.,porce
que il est commencemenz et achoisons de touz biens. C. MARCHESL 4
secondo virtude,e la colonna del con trario suo si è l'operazione, la quale
l'uomo faesecondolovizio;equesta operazione si erma e stante nel. l'anima
dell'uomo,et l'uomo virtuoso non si muove,e non si turba per cosa contraria
temporale che gli possa a v venire, perciò che già non arebbe beatitudine,
s'egli si conturbasse, perciò che la tristizia e la paura si toglie altrui l'allegrezza
della beati. tudine. Sono cose le quali sono molto forti a sostenere; ma quando
l'uomo l'à sostenute pazientemente, si dimostra la grandezza del suo cuore; e
sono altre cose le quali sono lievi a sostenere,e perché l'uomo le so. stegna
non si mostra grande fortezza in lui,siccome morte di figliuoli e loro
malitia.Queste cose,avegnache ellesiano forti,non permutano l'uomo di sua
felicitade.La felicitade e l'uomo bene avventurato e domenedio bene detto e
glorioso sono tanto degna cosa e tanto da onorare che le loro lodi non si
possono dicere,e spezial mente si conviene a noi di reverire e magnificare
messere domenedio sopra tutte cose, e dee l'uomo pen sare di lui, che nel suo
pensare ha l'uomo tutto bene, e tutta felicitade, perciò ch'egli è cominciamento
e ca gione di tutto bene. 50 C. MARCHESI lumpna uero contrarii
beatitudinis est opera secundum contrarium uirtutis; et optima operationum
secundum uir tutem est stabilissima earum in ani ma;et uita beatorum continua
est semperperactioneshonorabilesbonas; et uirtuosus perfectus absque ex
tollentia speculatur in rebus virtuali bus et substinet irruentia mala et
tollerat ea tollerantia decenti et non turbatur cor neque formidat ex ma. gnis
calamitatibus ex temporis malitia occurrentibus; nisi enim eas decenter
sustinuerit conturbabitur eius felicitas et inducentur super ipsum meror et
tristitiaque impedient secundum uir tutes operationes. Quedam autem actionum
malitie difficiles sunt ad sufferendum: sed quando acciderint homini et eas
sustinuerit,demonstrant eius magnanimitatem.Alie uero que. dam
facilepossuntsufferrietheecum inciderint homini et eas sustinuerit, non
demonstrant eius magnanimita tem; et mortuis ex bonitate actionum filiorum et
ex malitia ipsarum con tigit [modicum aliquid tante, in. quam,quantitatis].transmittetfelices
a sua felicitate ad infelicitatem; neque infelices a sua infelicitate ad felici
tatem.Bonum etfelicitasatque felices et deus benedictus et excelsus digniora
sunt et honoratiora quam ut lau dentur. Immo conuenit quidem uene rari deum et
ipsum singulariter m a gnificare et eius intuitu felicitatem
etfelicesetbonum,cum sintresdi. uine, et gratia quorum omnia alia aguntur;et
creditur de eo quod est Felicitade si è un atto il quale procede da perfetta
virtude dell'anima et non del corpo. IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 51 principiumbonorum etipsorumcausa, quod
sit res diuina. Felicitas est quidem actus anime procedens a uirtute
perfecta,non cor poris sed anime. 52 C. MARCHESI IL COMPENDIO
VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 53 Prima di passare al raffronto della parte
finale nelle diverse redazioni, non sarà inopportuno riprodurre ancora un
brano, del principio del secondo libro, che valga a confermare le diffe renze e
le relazioni da noi stabilite tra i due compendi, volgare e francese, e il
testo latino. Liber Ethicorum. Litresor,Liv.II,P.I, Virtusergoduplexest,
chap.IX.-Porceapert uidelicetintellectualiset ilque.ij.manieressont
moralis;intellectualis, devertuz:l'uneestde utsapientiaetprudentia
l'entendementdel'home, etsimilia.Laudantese- ceestsapience,science nim hominem
ex parte Et uirtutum quidem tuel,nos disons:ce est uirium intellectualium
eum appellamus. intellectualium genera prisierdevertu intellec uns sages hom
etsoutis; par enseignement,et liumestperbonam et porcelicovientexpe honestam
conuersatio- rience et lonc tens. La nem;nequesuntinno- vertudemoraliténaist
bispernaturam.Res etcroistparbonuset enimnaturalesnonegre. honeste;car ele
n'est diuntur a natura sua pas en nos par nature; perassuetudinem,utpe-
àcequechosenaturele tra,quaesempertendit nepuetestremuéede et sens; l'autre est
de sapientem eum dicimus autscientemaut(secun- choses semblables. Et
dumaliquidhuiusmodi); cepuetchascunsveoir sed ex parte moralium clerement; car
quant largumuelcastumuel un home humilem uel modestum mais quant nos le volons
tioetincrementumfit prisierdemoralité,nos inhomineperdoctrinam
etdisciplinam;ideoque chastesetlarges.X.La in eius acquisitione ex- vertu de
l'entendement perimentoindigetettem- estengendréeetescreue pore longo.
Generatio autem uirtutum mora en l'ome par doctrine et moralité,ce est chastée
et largesce, et autres disons:ceestunshom nos volons L'Etica.– Due sono le
virtudi; l'una si è dettaintellettuale,sicco me lasapienza e scienza e
prudenza; l'altra si chiama morale,sicome castitade e larghezza ed umiltade;
onde quando noivolemolodarealcuno uomo divertudeintellet. tuale,diciamo: questi
è un saviouomo,intende vile e sottile; e quando noi volemo lodare un altro uomo
di virtude morale,cioè de costumi, si diciamo:questi è un uomo umile e largo.-
Concio siacosachesiano due vertudi,una intel lettuale e l'altra morale, la
intellettuale si si in genera e cresce per dot. trina e insegnamento,e la
virtude morale si si in. genera e cresce per b u o na usanza;e questa ver tude
morale non è in noi per natura,percioc cbè natural cosa non si puote mutare
della sua disposizione per contra 54 C. MARCHESI
riausanza.Verbigrazia: ad centrum naturaliter, lanaturadellapietrasi
etignisadcircumferen èl'andareingiuso,onde tia,numquam assue non la potrebbe
l'uomo receptionem, et perfi questevirtudinonsono tiunturinnobisexbona in noi
per natura,la po. (1) Taddeo amplio e chiarì meccanicamente l'esempio della
pietra e del faoco, valendosi del latino del Liber Ethicorum del commento
tomistico: «..... puta lapis natura deorsum latus non autiqueassuescitsursumferri,nequesideciesmilliesassuescat
quis,eumsursumiaciens»;e sopratutto del Liber minorum moralium: « Lapis enim
qui naturaliter deorsam descendit quamvis « quis probiciat ipsum sursum uicibus
innumerabilibus, quarum non comprehenditur multitudo, «uolens per
hocassuefacereipsummouerisursum,numquamhabebitpossibilitateminhoc.Et «
similiter ignis non est possibile at recipiat per assuetudinem diuersum
motionis suae ». nos par usage; por quoijediqueces vertuz ne sont pas dou tout
en nos sanz nature ne dou tout selonc nature; mais li commencemenz et la racine
de recoivre ces vertuz sont en nos par nature,et le lor c o m pliment est en
nos par usage.Et touteschoses tanto gittare in suso, situm; neque aliarum
ch'ellaimprendessead rerumullaassuescetop. andareinalto;elana-
positumnaturesue(1). turadelfuocosièd'an. Attamen cognationem
dareinsuso,ondeno'l aliquamhabetconsue. potrebbe l'uomo tanto tudo cum natura
et co trarreingiuso,ch'egli gnationemaliquamcum imparassedivenirein
intellectu.Nonsuntita que in nobis uirtutes niunacosanaturalepuo- morales
naturaliter,ne tenaturalmentefarelo quepreternaturam;sed contrario della sua
na- nati sumus ad earum giuso;eduniversalmente tura.Mà avvenga che scunt
huiusmodi oppo consuetudine.Itemomne puissanced'aprendrela tenziadiriceverleèin
quodinnobisestnatura. estennousparnature, noipernatura,elocom-
literpreextititinnobis etlicomplemenzesten pimentoèinnoiper
potentialiter,deindeap usanza.Ondequestever. paretactualiter.Ethoc
tudinonsonoinnoial manifestumestinsen postuttopernatura;ma sibus. Sensus enim
in laradicee'lcomincia. nobisnonfiunteoquod mentodiriceverequeste
uideamusuelaudiamus multociens,sed e con trariofitinnobis.Ha bemus enim eos
prius naturaliteretpostmo. vertudi si è in noi per natura,e'lcompimento
elaperfezionediqueste virtudisièinnoiper usanza.Ognicosala dumexercitamurineis.
sonordreparusage con traire.Raison comment: la nature de la pierre est d'aler
tozjors aval, ne nus ne la porrait tant giteramont que ele seust sus aler; et
la nature doufeuestd'aleramont, ne nus ne leporroit tant avaler que il seust en
aval metre la flamme. Et generalment nul na tural chose ne puet par usage
aprendre à faire lecontraire de sa nature. Et jà soit ce que ceste vertuz ne
soit en nous par nature, certes la IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 55 diusinterextremadicta, Etporunemeismechose et d'oïr, et
par celui quellapotenziaodee ethocmodoestinom- pooirvoitetoit,etnus
vede,enonvedel'uomo nibus artificibus.Nam nevoitdevantqueilen prima
eode,ch'egliab- hedificatores sumus ex ait le pooir. Donques
bialapotenziadelve- usuhedificandietcytha. savonsnosquelipooir
dereedell'udire.Dunque rediexusucytharizandi; est devant le faire.Mais vedemo
già che la po- ex bene quidem facere es choses de moralité
tenziavadinanziall'atto. hocbonisumusinbiis, estli contraires;car E nelle cose
morali è ex male autem mali. l'uevre et li faiz est de. tutto locontrario,chè
vant le pooir. Raison l'operazioneel'attova eadem fituirtusetcor-
comment:aucunshom dinanzi alla potenzia. rumpitur.....autem a la vertu de
justise, Verbigrazia:l'uomosi similiter(sanitatis).Et cor mentneleseustlimais.
rumpunturexpaucitate tresseiln'eneustovré fatteprimacase,edal-
etmultitudine,uttimi- autrefoiz.Autressi se trimenti non potrebbe ditas et
procacitas. Ti- vent aucun bien citoler peravereeglimoltevolte
averequellaarte,seegli midusenimfugitomnia, Exeisdemergoetper porce que il a
devant hae la virtude che si actiones laudabiles cor- fait maintes cevres de
chiamagiustiziapera- rumpunturproptersu- jostise;etunsautresa vereeglifattoinnanzi
perfluitatemautdiminu- lavertudechastée,porce molteoperazionidigiu.
tionem,utexercitia su- que il a devant fait stizia,edhael'uomola
perfluaautdiminutaet maintesoevresdecha virtudechesichiama
nutrimentisusceptiosu-stée.Toutautressiest castitadeperavereope-
perfluaautdiminutafor- des choses de mestier rate dinanzi molte ope- m a m
sanitatis corrum- et de art.On scet faire razionidicastitade;e
punt,equalitasautem maisons,porcequeon cosiadivienedellecose
ipsorumsanitatemfacit enamaintesfaitespre artificiali, chè l'uomo et auget et
conseruat.Et mierement; car autre hal'artedifarelecase uirtutes morales porce
que il en sont non l'avessemoltevolte procax autem omnia in- molt usé.Et li hom
est adoperata dinanzi;esi. uadit. Fortitudo autem bons por bien faire,et
migliantemente l'arte qualeèinnoiperna- Virtutesautemacqui- quisontennosparna
tura,sièprimaepoi rimusexfrequentatione turesontpremierement
sivieneinatto,siccome actuumhabitusinducen- enpooiretpuisenfait, avviene de
sensi del- tes. Iusti etenim sumus aussi comme li sens de l'uomo,chèprimaha
exusuactuumiustitie, l'ome;cartoutavanta l'uomolapotenziadive.
etcastisimiliter,scilicet lihom pooir de veoir dere e d'udire, e per ex usu
actuum castitatis, del ceterare ha l'uomo inhisesthabitusme- mauvaispormalfaire.
et inest fortitudo ei qui scit fugere a fugiendis et inuadere inuadenda,
ethichabitusacquiritur Per una medesima exconsuetudineuilipen
cosasigeneranoinnoi di(sic)terribilia.Sicca levirtudi,esicorrom
ponosequellacosasifa indiversimodi;eadi viene della virtude si
comedellasanitade,che una medesima cosa in diversi modi fatta fa ella sanitade
e corrompela. Verbigrazia: la fatica s'ella è temperata si in. genera sanitade
nel corpo dell'uomo,e s'ella è più che non si con. viene o meno che non si
conviene,si corrompe lasanitade;esìadiviene della virtude che si cor rompe per
poco e per troppo, e conservase per tenere lo mezzo.Verbi. grazia: paura e ardi
mento corrompono la prodezzadell'uomo;per cio che l'uomo che ha paura si fugge
per tutte le cose, e l'uomo ch'è arditoassalisceognicosa e credelasi menare
fine; e nè l'uno nè l'al. tro non èprodezza;ma la prodezza si è tenere lo mezzo
intra l'ardi mentoelapaura;edee stitatishabitusacqui. ritur ex consuetudine
retrahendiseauolupta tibus,etsimiliterseha betinceterishabitibus
laudabilibus..... 56 C. MARCHESI per avere molte volte ceterato; e l'uomo
è buono per far bene,e lo rio per far male. naissent en nos et se cor rumpent
les vertus,se cele chose est menée en diverses manieres;tout autressi c o m m e
la santé; car travailleratempree. ment engendre santé au corsdel'ome;maistra
vailler o plus ou mains que mestiers n'est,cor ront la santé; mais meenneté la
garde et acroist: autressi est de vertu, car ele corront et gaste par po et par
trop,et si se conserve et maintient par la meenneté.Raison com ment: Paors et
harde corrumpent la p r o e s c e d e l ' o m e; c a r li hom qui a paor
s'enfuit por toutes choses, ne n'ose nule emprendre; et li hardis emprent à
faire toutes choses,et les cuide mener å fin. Et sachiez que l'une ne l'autre
n'est pas proesce: mais proesce est aler entre hardement et paor. Et doit li
hom foïr les choses qui sont à foïr, et envaïr les choses qui sont à envaïr. Et
cist habiz est aquis par usage de desprisier les terri bles choses,et habiz de
chastée est aquis par u a mens IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 57 l'altre virtudi,siccome tu hai inteso della pro dezza; chè
tutte le virtù s'acquistanoesisalvano per tenere lo mezzo. Col raffronto del
devez entendre de toutes vertuz. brano finale mettiamo termine a questo
prospetto comparativo, che porta un contributo,non privo d'in teresse, alla
conoscenza della fortuna aristotelica, ed è d'impor tanza fondamentale per la
storia dei compendî neolatini del l'Elica nicomachea. che sono da fuggire.
E sage de retenir soi contre l'uomo fuggire le cose cosideiintendereintutte ses
covoitises. Autressi Liber Ethicorum. Educatio puerorum secundum
no- Dee essere lo notricamento delli bilem legem necessaria est ad indu-
garzoni secondo la nobile legge, e cendumeispermodumcastitatiset
ausarliadoperazionidivirtù,ein non per modum continentie. Inde-
questodeeesserepermododicastità, lectabilisenimestapudplureshomi.
enonpermododicontinenzia,per. numususuirtutumpermodumcon-
ciocchèl'usodellacontinenzianonè tinentie.Nequeabstrahendaesteis
dilettevoleamoltiuomini,enonsi manus statim post pueritiam, sed dee ritrarre la
mano di gastigare continuanda est eis usque ad con• il fanciullo via via dopo
la fan sistentiam et robur uirilitatis. In ciullezza;anzi dee durare in fino al
rectificandoquosdamsufficitredar- tempo,chel'uomoècompiuto.Sono
gutioetcastigatiosermocinalis,in uominichesipossonocorreggere aliisautem
quibusdam uixsufficitas. per parole e sono altri che non
siduatiouerberumtamquaminbestia. si possono correggere per parole,
Neutrouerohorummodorumrecti- anziv'èmistieripena.Esonoaltri ficabiles tollendi
sunt de medio.No- che non si correggono in niuno di
bilisetstrenuusrectorciuitatisciues questiduemodi,equesticotali(1)
nobilesefficit,etbonioperatoresha- sonodatorredimezzo.Lonobilee'l
benteslegemetoperalegisexer- buonoreggitoredellacittafanobili
centesaduersantureisquicontraria cittadiniebuoni,liqualiservanola
agunt,etsibonaagant.Inpluribus leggeefannol'operachecomanda ciuitatibus iam
abiit regimen uite la legge e sono avversari a coloro hominum ideoque dissolute
uiuunt che non osservano gli comandamenti etpropriassectanturuoluptates.Et
dellalegge,avegnach'ellifacciano regimen quidem conuenientius est
bene.Inmoltecittadièitoviailreg. communis prouisio moderata,cuius
gimentodellavitadellihuomini,però usumobseruarepossibileestetnon
chesivivonodissolutamenteese summedificile:etquodcupitquili.
guitanolelorovolontadi.Lopiùcon betseruariinseetamicisetfiliiset
venevolereggimentocheporresi familia.Etprecipueydoneusadtalis
puotenellacittà,sièquellocheè regiminisconstitutionemestillequi
temperatoprovedimento,intalmodo sciueritquoddictumestinhoclibro.
chesipuoteosservareenonètroppo Scietenimcanonesuniuersalesad
grave;equelloloqualedesidera particulariadistrahere.Communis
l'uomochesiosserviinsèenelli 58 C. MARCHESI (1)Icodd.8. v.11:...ce
questicotalisono rei perchè sonopartitiintuttodalmezo,et « debbono essery
odiati si come sono li lupi et cacciati d'ongne buono luogo. Lo nobile etc. ).
L'Etica d'Aristotile. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA
59 Li Tresors,Liv.II,P.I,chap.XLIV. Magliabech.,I,I,47. Et li norrissemens des
enfans doit I nodrimenti da fanciulli debbono estrenoblesentelmanierequeil
esserenobili,sichesiabeneapreso soientaprisàfaireetàuserlesbones afareedausodibuoneopereper
oevresparchastéenonmieparcon- chastitaenomicapercontinuanza.
tinance,carcontinancen'estmiecon- Checontinuanzanonemichaconue
venablechoseasgens;etl'onne neuollecosaagienti;el'uomonon
doitpasostercestusagenecest deemichaleuarequestausanzane
chastiementmaintenantqueilont questochastighamentoimmantenente enfance passée,
mais maintenir la ch'egliàlafanciullezasua,maman
jusquesàtantquelidroizaagessoit tenerla insinoatantocheildiritto
acompliz.Iliahomesquipueent estre governé par chastiement de
paroles,etautresiaquinepueent mieestrechastiéparparoles,mais par menaces de
torment; et autre homesontquel'onnepuetchastier neparl'unneparl'autre;ettelhome
doiventestrechastiésiqueilnede- mourentavecautresgens.XLV.Li
chacciatisich'eglinodimorinocon noblesgouverneresdelacitéfaitles
l'altrigienti.Quidicedelgouerna citeiensnoblesetlesfaitbienoyrer
mentodellacittaCCLXVIII.Ino. etgarderlaloietcontresterasautres
biligouernamentidellacittadefanno quinelagardent,jàsoitcequeil
icittadininobilieglifabeneoperare lefacentbien,Maintescitezsontoù
eguardarelalegieecontradirea ligouvernementdelaviedel'ome quegliche
nollaguardano,concio sontdestruit,etviventdissoluement,
siacosach'eglifaccianobene.Molte car chascuns va après sa volenté. città sono
oue il gouernatore della Liplusnoblesgovernemensquisoit ụitadell'uomoèdistrutaeuiuono
enlaviedel'ome,etàmoinsde disolutamente,chè chattuno
poineetdetravail,estcilquel'on apressosuauolonta.Ilpiùconuene
consiredemaintenirsoietsamaisnie uollecomandamento egouernamento etsesamis,etcilpuetconvenable-
chesianellauitadell'uomoeapena mentmaintenirgensquiaurala
dipeneeditraualglioèquellache science de ce livre; porce que il l'uomo
considera di mantenere se e saurajoindrelesenseignemensuni.
suamasnadaesuoiamici;equeuli verselsaveclesparticulers;carci-
puoteconueneuollementemantenere teiennecommuneestdiversedela
gientecheàconsecolascienzadi particulere,aussicommeentozmes-
questolibro;peròch'eglisapragiun agiosiacompiuto.Esonohuomini
chepossonoesseregouernatipergha. stigamentodiparole,ealtrisonoche
nopossonoesseregastigatiperpa role,maperminacieditormenti;e
altrisonochel'uomononpuotees seregastigati nè per l'unonè per
l'altro;etallihuominidebbonoessere uae 1 60 C. MARCHESI
(1)Taddeo riduce molto sensibilmente il testo latino e ne sopprime a dirittura
la fine: forse egli ritenne compiuto a quel punto trattato aristotelico della
morale e credette opportuno esclu. dere le parole seguenti; forse a lui melico
e maestro fece ombra quell'accenno, in fine, all'arte della medicina.
Probabilmente Taddeo rappresentava più da vicino il metodo pratico, e il
libellus de servanda sanitate pnò darcene fede: s'è cosi, egli non poteva
piacevolmente accogliere l'affer mazione aristotelica.
namqueciuilitasdiffertaparticulari suoifigliuolienegliamicisuoi.E quemadmoduminmedicinaetceteris
lobuonoponitoredellaleggesiè potentiisoperatiuis;inhacintentione
quegliloqualesaleregoleuniversali, nonmodicaestdifferentia.Inomnibus
lequalisonodeterminate in questo ergo huius necessaria cognitio uni. libro,et
salle coniungere alle cose uersalium simul et particularium. particulari le
quali vegnono altrui Experientiaenimsolanonestsuffi-
ciensinhiis,nequescientiauniuer- saliuminipsissecuraestetcerta absque
experimento. Multi ergo m e dicorum sola freti experientia in se ipsis,quidem
intendunt,bene uidentur operari et in aliis non proficiunt quicquam,eo quod
naturam ignorant. Considerandum est itaque qualiter et per que erit quis
peritus legis-lator. Erit autem hoc per noticiam rerum ciuilium,que subiectum
sunt huius potentie. Quemadmodum se habet in ceteris artibus consimilibus huic,
posse experientie in inuentione legis non estmodicum.Quidam putauerunt quod hac
ars et rethorica sint unum et idem: in uno etiam putauerunt
intralemani,peròcheabeneordi. esse uiliorem hanc rethorica: et leue quid
reputarunt scientiam condendi le. ges.Non estautem sic;electionam que in arte
qualibet actus nobilis est, et quidem per duo est,siue per scien tiam et
experientiam: et per scien. tiam quidem est actus illius inuentio et per
experientiam est ipsius directio et certificatio. Et universaliter con
nareleleggisièmistieriragionee sperienza(1). IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 61 di uiuere coronpono ibuoni usi di
tiers;carenchascunechoseconvient gnierelo'nsigniamentouniuersale ilconoistrelesparticuleresetlesuni.
cholparticullare;chèciertauitadi verseleschoses,porcequeseuleespe.
comuneèdiuersadallaparticullare, riencen'estmiesoffisansence;et savoir
lesuniverselschoses n'est pas altresicomeintuttimestieri,chèin ciascuna cosa
conuiene conoscere li seurechosesanzl'esperience;ainsi
commenosveonsmaintmirequipar particullariequesteuniuersalicose,
perochesollasperanzanonèmica soficiente in cio; e sapere l'uniuersali cosenon è
mica sicuracosasanza seule experience sevent maint bien faireenlormestieretenseignierne
lesporroientasautres,porcequeil n'ontsciencedesuniversels.Donques
l'esperienze;sìcomenoiueggiamo moltimedicichepersolasperanza
seracilparfaizmaistresdelaloi neseguemoltobenefareinsuome.
quiseitlesparticulerschosespar stiere,einsengniareno'lpotrebono experience et
qui seit les choses agli altri, però ch'elgli non áno universels. scienza de
l'uniuersali cose.Dunque Home furent qui cuidierent que sara quegli perfetto
maestro della rectoriqueetlasciencedemaistrie legiechefaeleparticullaricose deloifussentunemeismechose,et
persperienzaechesalecoseuni penserentquecestesciencefustle- uersali.
giere;maislaveritén'estpasainsi, Huomini furonochecredottonoche porce que li
maistres de la loi doit lla retoriccha e la scienza di m o estresemblablesàsesciteiens,et
strarelegiefossonounacosa,epen doitsavoircestart,etquilesaura
saronochequestascienzafossele liseraprofitable,etautrementnon; giere;ma
llaueritanonècosi,però etseilcommencastàfaireloisanz
cheimastridellalegiedebbonoes cestescience,ilneporroitdoitrement
seresimilgliantialorocittadinie conoistrenejugierlabontédesana-
ture,deacomplirladefautedesa science,maisporcequenoscuidons
consirertouteshumaineschosespar legiesanzaquestascienzaeglinon
guisedephilosophie,simetronstout potrebedirittamentegiudicharenė
avantlesdizdesancienssages;et conosere dibontàdisuanaturane
encepenseronsquelesdesordenées conpieladifaltadisuascienza.Ma
manieresdevivrecorrumpentles perochenoiabbiamod'andarecon bons us des
citez,etliconvenable siderandotutteumanecoseperguisa lesredrescent,etquiestl'achoison
diphilosophia,simetonotut'auanti demaleviededanzlacitéetdela
idettideliantichisauieciòpen bone,etparquoilaloiestsemblable
seremonoicheledisordinatemaniere as costumes. debonosaperequestaarte:chilese
guirrasaràprofitabileealtrimenti non.Es'eglicominciasonoafare ditio
legum similatur potentiis ciui libus, nec potest esse conditor legum qui non
habuit scientiam istius artis. Qui uero habuit eam proficiet per experientiam
et qui non, non. Et cum inceperintimponere legem absque habitu scientiali,non
recte discernent. Neque bene iudicabit,nisibonitaset excellentia multa nature
suppleat de. fectum scientie. At quantumcumque natura bene disposita sit,est
tamen promtior et expeditior est in uere iudi. cando,cum secum habuerit
certudinem artificialem.Quoniam itaque proponi mus speculari in rebus humanis
modo philosophico, substinemus primitus dictaantiquoruminhoc;deindeconsi
derabimus modos uiuendi,qui extant; qui ipsorum corruptiui sintconsortii
ciuilis in ciuitatibus quibusdam et rectificatiui in quibusdam, et qui
corruptiui in omnibus et qui rectifi. catiui in omnibus, et que est causa bonae
uite quarundam ciuitatum et que causa quarundam habentium se e contrario, et
quarum leges con suetudinibus similantur. Incipiamus ergo et dicamus. 62
C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 63
cittadini,e le conueneuoli la dirizzano, e chi è chagione di malla uita dentro
alla città e della buona, e perché la legie è sembiante a costumi. Da questo
prospetto risulta chiaro quanto abbiamo prima af fermato,ed insieme con la
questione dell'Etica volgare è risoluta quella non meno importante del
volgarizzamento del VI libro del Tresor e delle fonti di esso,che il Sundby con
molto buona volontà ma con poca fortuna rintracciava nel latino dell'altro
Liber Ethicorum, del commento tomistico, e nelle chiose di S. Tommaso (1). È
naturale che il critico danese ha qualche volta gridato all'impossibilità di
trovare il passo corrispondente nell'originale(2),ch'egli rinveniva del resto
molto malconcio e scompigliato nel francese di Brunetto. Nè il Sundby fu il
primo a esser tratto in inganno circa le fonti del VI libro del Tresor.Già il
Mehus parla di un'Etica latina di cui si valse Brunetto, compilata per incarico
dell'im peratore Federico Inell'Università di Napoli,e di una traduzione
dalgrecoinlatinodelLibermagnorum Ethicorum,fattasotto gli auspici di Manfredi
da maestro Bartolomeo di Messina (3). Il Mehus è senza dubbio fuor di strada;
giacchè quest'ultima opera rimane estranea alla tradizione dell'Elica nostra,
nè di quella prima imperiale versione d'Aristotile pare che non sia lecito
dubitare. De'rifacimenti latini dell'Etica aristotelica dirò compiutamente in
un prossimo lavoro; giacchè non è più possibile star paghi alle vecchie
notizie,e d'altra parte le buone ricerche del Jour (2) lvi,p. 149. (3)
Op. cit., p. 155. 144. p. (1) Op.cit., dain non sono affatto
compiute e i risultati da lui ottenuti non sono più in buona parte
sostenibili(1). Della Nicomachea si conoscono cinque redazioni latine nel 1300;
delle quali tre derivano direttamente dal greco: l'Ethica uetus (2) che
comprende solo il secondo e il terzo libro,l'Ethica noua (3)che contiene il
primo libro, e il Liber Elhicorum che abbraccia tutti i libri e al posto dei
primi tre inserisce con frequenti ritocchi e modificazioni il testo dell'Ethica
noua e dell'Ethicauetus.IlLiberEthicorum,che fu commentato da Tommaso
d'Aquino,ebbe larghissima diffusione,come pare anche dal numero e dalla
importanza de'mss. che lo contengono (4), insieme col commento tomistico servi
di testo fondamentale per l'instituto filosofico etico del tempo. Per il
tramite arabo ci son pervenuti due rifacimenti latini della Nicomachea,d'indole
ben diversa:il Liber Ethicorum, volgarizzato da Taddeo,che servi di fonte al VI
libro del Tresor, eilLiberMinorum MoraliumoliberNickomachiae(5),tradotto
dall'arabo in latino per opera di Ermanno il Tedesco (Herman nus Alemannus)nel
1240. È questa la parafrasi dell'Etica fatta da Averroè; il rifacitore non
volle solo tradurre l'opera m a intese altresi chiarirla e
spiegarla,accrescendone e sviluppandone idati dimostrativi che nel testo sono
ridotti a'risultati de'processi lo gici.Aristotile parve un po'contratto;l'arabo
ne distese imuscoli (4) Fin ora ho potuto esaminare ventidue mss.,di cui
quattro del sec.XIII (Laurenzian.89,sup.44;XIII Sin.1;79,13;XIII
Sin.6),diciassettedelse colo XIV (Ambrosian.F. 141 sup.; A. 204 inf.,di mano di
Giovanni Boc caccio;Laurenz.XII Sin.7;XII Sin.9;Nazion.Napoli,VIII G. 11;G. 25;
G.27:Riccard.III;Marciana (mss.lat.)cl.VI,39,41,43,44,122;Uni vers.Padova
679,788; Antoniana XX,456; Capit.Padova G. 54; e uno del sec.XV:Ambros.R. 50.
sup.). (5 ) L a u r e n z. 7 9, 1 8; 8 9, s u p. 4 9. T r o v a s i p u r e i m
p r e s s o i n t u t t e l e e d i z i o n i di Aristotele con ilcommentario
di Averroès (Venezia,Andrea d'Asolo,1483; Giunta, 1550, 1560, 1562,
1574). 64 C. MARCHESI (1 ) O p. c i t., p p. 5 9 - 6 2, 7 6 - 7 7, 1 4 4,
1 7 9 - 1 8 1. (2 ) L a u r e n z. X I I I, S i n. 1 2; V I I I, D e x t. 6.
(3)Ashburnham.1557. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 65
e ne arrotondo icontorni,stemperandone la fibra. Aristotile,ada giatosi nella
mollezza araba un po' adiposa, si presento all'in telligenza un
po'incerta,bambina alquanto e stentata,delle nuove genti latine che con più
agevolezza poterono,cosi in veste più larga,contemplarlo e comprenderlo; e
l'opera aristotelica, accresciuta di quel po' di cemento della parafrasi araba
che riempiva gl'interstizî apparenti della sua costruzione ideale,poté
intendersi e premere sulle coscienze senza l'aiuto di un com mentario apposito
che dissolvendone l'unità finale ne facesse a p parire gli elementi semplici di
formazione. APPENDICE I. I CODICI DELL'ETICA Cod.Ashburnhamiano955[=
1]membr.sec.XIV,conlaprimapagina miniata.Tit.: L'Etica del sommo phylosofo
Aristotile; la soscrizione finale si legge difficilmente; pare: Explicit liber
Ethicorum Aristotelis phylo. sophj in uulgari idioma scriptus: di cc. scr. 48,
le cui ultime presentano molte abrasioni. Cod.Magliabechiano 12.8.57
[52]membr.sec.XIV;titolieiniziali color.,di cc.scr.26. Com. Prolago sopra
l'etichadel sommo phylosofo Aristotile; in fine: Explicit liber ethicorum
Aristotilis. deo gratias. In fondo è ilnome del trascrittore «Sander me
scrissit». Cod.MagliabechianoA.2.3.2[= 3]membr.sec.XIV;titolieiniziali in
rosso,di cc.scr.22. Com.: Prolago sopra l'etica d'Aristotile; in fine: Qui
finisce il libro dell'Etica del sommo filosafoAristotile il quale tratta delle
uertudi che ssi conuegnono auere a cchostumi ed a buona vita delli huomini. In
fondo « Giouanni di Lapo Arnolfi lo fece scriuere. Compiesi di < scriuere
martedi di XXII di Giugno Anno MCCCXXXIX »; più sotto è indicato iltrascrittore«Sanderme
scrissit»:è lostessodelcod.precedente. 5 C. MARCHESI.
Cod.Magliabechiano2.4.274[= 4)membr.sec.XIVexc.dicc.scr.44, miscell.,
contiene il Trattato sulle avversità della fortuna (c.1-16'). L'Etica com.:
Incipit Ethica Aristotilis translata in uulgari a magistro Taddeo
florentino;infine:ExplicitethicaAristotilistraslatatapermaestro Taddeo. deo
grazias. A c.1a « Qui cominciano le robriche di tutto il libro dell'eticha «
d'Aristotile traslatata per lo maestro Taddeo ». Cod.Marciano (mss.ital.)II,3 [=
M]membr.sec.XIV,225 X 164,di cc.46 non numerate;anepigr.Precede il trattato «de
la doctrina di tacere «etdi parlare»diAlbertano da
Brescia;finisceac.11a:Quifiniscee libro de la doctrina di tacere et di parlare
el quale fece messere Alber tano giudice da brescia nell'anno domini Millesimo
CCXL V del mese di dicembre Deogratias Amen.Dopo un foglio vuoto,ac.13a seguono
alcune « Sententie Tulij et Senece et aliqua dicta Aristotilis », che vanno
sino a c.18a.L'Eticii,anepigrafa,vadac.18'ac.46t;iltestoèmolto guasto e
scorretto,senza alcuna divisione in libri; in fine: Finitus est liber deo
gratiasAmen. Cod.Palatino634[=5] membr.sec.XIV;rubricheeinizialicolorate: di
cc. scr.27, più una bianca. Tit.: Incomincia l'eticha d'Aristotile in uol. gare;
in fine: Explicit ethica Aristotilis translata a mgio iohe min. deo gratias.
Cod.Riccardiano 1538 [= 6;vecch.segn.S.III.47]membr.sec.XIV inc.,miscell.,con
belle iniziali colorate e rabescate e numerose vignette intercalate nel
testo,di cc. scr.231. Tit.: Incipit etthica Aristotalis. Segue a l l ' E t i c
a il t r a t t a t o d e l l e q u a t t r o V i r t ù, il S e g r e t o d e S
e g r e t i e d a l t r e s c r i t t u r e sacre e profane;il cod.,come sivede
dalla soscrizione finale,appartenne a un Bertus de Blanchis che ne fu forse
anche il trascrittore. Cod.Riccardiano 1651 [= 7;vecch.segn.N.
IV.27]membr.sec.XIV,
coninizialicolorateerabescate,dicc.scr.50.Tit.:Prolagosopra l'ethica
d'Aristotile;infine:explicitliberEthicorum Aristotelis.Contieneinoltre: Egidio
Romano, la esposizione della Canzone di Guido Cavalcanti. Cod.Laurenziano89Sup.110[=
a]membr.sec.XV,dicc.42.Nella 66 C. MARCHESI C o d. R i c c a r d i a n o
1 2 7 0 [ = 8 ] m e m b r. s e c. X I V, m i s c e l l.; p r e s e n t a t r a
c c e di quattro mani diverse;la più antica riempi ifogli dell'Etica (da c.5a a
c. 3 0 ). C o m.: Q u i c o m i n c i a l ' e t i c h a d ' A r i s t o t i l e.
Cod.Ambrosiano C.21.inf.[39]membr.del sec.XV,dicc.58,con la prima pagina
fregiata e miniata,con lo stemma del possessore e il ri tratto del filosofo; le
iniziali di ogni libro colorate e fregiate. Com.: La Prefatione di 'l primo
libro di l'Ethica de Aristotele ad Nicomacho suo figliuolo; nessuna soscrizione
finale. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 67 prima
pagina è lo stemma del possessore con la indicazione « Jacopo di « piero
benciuenni ciptadino florentino spetiale a pie'del Ponte Vecchio 1488 ».
Tit.:Prolago sopral'eticadelsommophylosofoAristotile;infondoporta la data della
trascrizione: 1451. Cod. Laurenziano 76. 70 [= r] cartac. sec. X V, di cc. 118.
Precede a p. 1 « Insegnamento delle uirtudi e mortificamento de'uitii secondo
Aristo « tile e detti e autorità notabili di Santi et di molti saui et filosafi
et poeti » cioè,ilVIIlibrodel Tesoro.L'Eticacominciaac.78:Quicomincial'etica
d'Aristotile; in fine: Explicit l'etica d'Aristotile.
Cod.Magliabechiano2.4.106[= m]cartac.sec.XV,dicc.77,miscell.;
contienevolgarizzamentidioperesacre.L'Etica(c.54-72t)com.:Qui co mincia
un'opera facta per lo grande sapiente Aristotile detta l'Eticha; in fine:
Finita l'eticha d'Aristotile translatata per maestro Taddeo.deo
gracias.Sottoèl'indicazionedell'anno Scrittadigennaio1459».
Cod.Magliabechiano2.2.72[= p]cartac.sec.XV,miscell.:contiene
ladottrinadelparlare(estrattadallaP.I,cap.13del Tesoro),ilSegreto de
Segreti,ilvolgarizz.daVegezioFlavio,un librodelleAringherieetc. Si trova unito
a questo un codicetto dello stesso formato, di cc. 18, conte nente una piccola
storia o diario della città di Firenze dal 1300 al 1379. L ' E t i c a v a d a
c. 5 4 a c. 3 6 ', a n e p i g r. I n f i n e: C o m p i u t a è l ' E t i c a
d ' A r i s t o tile translatata in uolgare da maestro Taddeo.
Cod.Magliabechiano21.9.90(= r]cartac.sec.XV exc.miscell.Con tiene una parte del
trattato del Governo della famiglia di L. B. Alberti e dell'Etica solo il libro
ottavo e nono; vede bene che il trascrittore ha
volutoestrarrelaparteriguardantel'Amicizia;ambedue ilibrisondivisi i n v e n t
i d u e c a p i t o l e t t i. A c. 6 1 è l a s o s c r i z i o n e d e l c o p
i s t a « G i o v a n n i S t r o z z i », eladata:20maggio1482.
CodiceMarciano(mss.ital.)I,134(= N)membr.sec.XV,205X 138, cc.64 non
numerate,con le iniziali dei libri miniate e dorate. Com.: Incipit proemium
transductorishuiusoperisuulgaris;iltestocom.ac.21:Libri Ethicorum siue Moralium
Aristotelis qui sunt X in multa capitula diuisi,
quiageneraliterdemoribussehabet.Nam inprimolibrodeterminatde felicitate morali
et eius partibus. Segue a c. 47 un semplicissimo ristretto volgare degli
Economici,indue libri:Incipiunt libri Ichonomicorum Ari. stotilis duo diuisi in
aliqua capitula pertinentis ad gubernationem familie. Nam
inprimolibrodeterminatdepartibusIconomiceetdeconiugatione mulieris et uiri,quae
dicitur nuptialis,de coniugatione parentum ad filios quae dicitur paterna,et
dominorum ad seruos quae dicitur dispotica. « La scientia di regiere la casa ha
nome Iconomicha et è differente da la « scientia di reggiere la
cipta la quale ha nome polliticha. Non solamente « perchè una cio e la
Iconomica considera el regimento de la casa et la « politica el regimento de la
cipta,ma etiandio perché in reggiere la casa «nondieesseresenonuno.».A
c.61asegueunExtractumAristotelis de libro Secreta Secretorum de arte
cognoscendi qualitates hominum ad Alexandrum regem. In ultimo è questa
soscrizione: « Ex Venetiis primo «IdusIulijMCCCCLXXIII finis». Codice Marciano
(mss.ital.)II,141 (= V]cartac.sec.XV inc.,272X200, di cc.48 non numerate,con la
iniziale miniata e il titolo rubricato: Hetica d'Aristotile; finisce a c.38 ':
Qui finisce il libro detto Ethyca d'Aristotile. Composto per lo nobile
phylosapho Aristotile greco Atheniense scritto nel
M.CCCC.XVIIIecompiutoadiXXVIIId'aghosto. Nellestinche di firençe nel malleuato
di sotto. Seguono due carte bianche, e a c. 41 il libro di sentenze, che si
legge pure nel Marciano II, 3. Cod.Mediceo-Palatino43 [= y] membr.sec.XV,di
cc.scr.54,più quattrovuote:ititolideilibriedeicapitolicolorati;scrittomolto
nitida mente.Per incuriadichirilegòne'due primi quaderni è un'inversione cui
pone riparo la opportuna numerazione delle pagine.C o m.: Incipit Ethyca Ari.
stotilistranslatainuulgariamagistro Taddeoflorentino;infine:Explicit Ethica
Aristotilis traslatata per magistro Taddeo.Deo gratias Amen. Cod.Palatino501 [=
X]cartac.sec.XV,dicc.44,miscell.;contiene il libro di ammaestramenti,sentenze,il
libro di Catone,il trattato delle quattro virtù, e altri volgarizzamenti di
carattere morale. L'Etica (c. 1-224) com.: Questa si è l'etica d'Aristotile; in
fine: Explicit etica Aristotilis translata a magistro Taddeo. Cod.Palatino510[=
d]cartac.sec.XV inc.,dicc.111,miscell.;con. tiene volgarizzamenti da
Boezio,Cicerone etc. L'Etica (c.82--1066)com.: Qui chominciano i fioretti
dell'etica d'Aristotile; in fine: Finiti i fioretti dell'etica deo gratias. C o
d. P a l a t i n o 7 2 9 [ = f] c a r t a c. s e c. X V, d i c c. 4 5: i n i z
i a l i c o l o r a t e e fregiate. Inc. Qui chomincia il proemio sopra
l'ettichia di Aristotile Pren. cipe di filosafi; in fine: Finito e libro
chiamato l'eticha d'Aristotile a di X X V d'ottobre mille quatrociento
quarantacinque per le mani di filippo Adimari da firenze a uso e stanza di se e
di suoi amici deo gratias. Cod.Riccardiano1084 [= c]cartac.sec.XV,dicc.49;inizialieru
briche colorate. Inc. Comincia il prolago del libro della hetica d'Aristotile;
in fine « deo gratias amen ». Cod.Riccardiano1357[=
e]cartac.sec.XV,dicc.248,miscell.;con tiene scritture sacre.L'Etica va da c.49a
a c.702. Com.: Prolagho sopra 68 C. MARCHESI IL COMPENDIO
VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 69 l'eticha del somo filosafo Aristotile; in
fine: Finiscie l'eticha del sommo filosafo Aristotile deo grazias.
Cod.Riccardiano 2323 [= g] sec.XV,di cc.51; rubriche e iniziali grandi colorate.Precede
la Introduzione al dittare di «maestro Giouanni « bonandree da Bologna », con
questa ottava al principio « Di Bologna natio
«questoautore|nellacittastudiandodou'ènato conallegrezzaemaestral
«amore|digiouaniscolarquestotrattato|brieuementecomposeilcui ti «nore
conciedeachil'aurabenistudiato|sopraquelchelaepistolaadi. « manda |et
sofficientemente in lei si spanda ». L'Etica è compresa da c.20
ac.51;infine:ExplicitEth.Ar.traslatataamagistro Taddeoinuulgare. Scribere qui
nescit nullum putat esse laborem. Cod.Riccardiano1610[=
h]cartac.sec.XV,dicc.26,miscell.;contiene il trattato delle quattro virtù.Com.:
Incipit liber Ethicorum Aristotilis; infine:ExplicitliberEthicorum
Aristotilis.Ilcopistafu«lulianusAndree a de Empoli > che lo scrisse « per sè
e per i suoi consanguinei ». Cod.Riccardiano1585[=
v]cartac.sec.XV,dicc.69:inizialierubriche colorate,con frequenti macchie
d'acqua nel margine.Contiene il Segreto de
Segreti(1"-44a)el'Etica(441-68a);com.:Fiorettidell'etichad'Aristotile del
primo libro; in finc: Qui finiscie el libro dodecimo ed ultimo delle
tichacompostoperlonobilefilosofoetsommo Aristotile.Amen. Cod. Ambrosiano J. 166
inf. Cartac., trascriz. rec. Il codice consta di più parti cucite insieme.
L'ultimo quaderno contiene l’Etica, il Segreto,e il volgarizzamento
dell'orazione pro Marcello. La trascrizione è fatta con molta probabilità su di
un codice antico, fedelmente. L'Etica è anepigrafa; in fine: Explicit Eth.
Ar.Manca ogni divisione della materia. Cod.Erbitense [Biblioteca Comunale di
Nicosia].Cartac.,trascriz.rec. Contiene il volgarizzam. toscano del de Amicitia
e il compendio dell'Etica, che manca del primo libro. Cod.Napolitano
Nasion.XII.E.35 [= s]:Copia recente d'un ms. quattrocentino posseduto dalla
biblioteca di casa Bentivoglio. Contiene il trattato della fisimomia (sic),
ch'è aggiunto in fine come tredicesimo libro dell'Etica.Inc.: Dell'Eticha del
sommo filosofo AristotilelibriXIII;in fine: Qui son finiti i dodici libri
dell'eticha del sommo Aristotile. I CODICI DEL TESORO Cod.Ambrosiano
G.75 Sup.(= Amb.)membr.sec.XIV,aduecolonne, con rubriche fregiate e colorate;
di cc.scr.121. L'Etica va da c.56a « In « cipit libro d'eticha Aristotile » a
c.73a « Expicit libro d'eticha Aristotile. « I n c i p i t l i b r o c o s t u
m a n t i e ». L ' u l t i m o c a p i t o l o c o n c u i si c h i u d e il c
o d i c e è: Come ilsignoredeestarearendereragione.Finisce(c.121a)«eprenderai «
commiato dal consellio e dal comune de la citta e te ne anderai a gloria dea
honore. FiniscelolibrodimaestroBrunectoLatinidaFiorenza». Cod.Ashburnhamiano
540 (= a)cartac.sec.XIV;anepigr.e mutilo,
dicc.138.L'Eticafinisceac.73t:ExplicitelicaAristotilisa Magistro Taddeo in
uulgare traslata. Il resto del Tesoro si arresta a cc.88 (lib.VII, cap.27]; a
c.90 è un capitolo in terza rima di Dante: lo scrissi già d'amor pii uolte in
rime,con una notizia sull'occasione ch'ebbe il poeta di scriver quella poesia;a
c.94 è una legienda chome tre monaci andarono nel paradiso di lutiano. il qual
e in terra... Seguono altri scritti,tra cui un framm. del Fiore di filosofi.
Cod.Gaddiano 83 (= €)cartac.sec.XIV,acef.e mut.; ilprimo foglio è aggiunto di
mano diJacopo Gaddi,dicc.147,sciupatodall'acqua.Ilcodice si chiude con
l'Etica,ed ha questa soscrizione: Finito el libro fatto e chon pulato per
Maestro Brunetto Latino. Il cod.come si vede da un'indicazione sulla
guardia,apparteneva a'figliuoli di « Giouanni di ser Andrea di Michele « Benci
lanaiolo cittadino fiorentino ». Cod.Laurenziano42.23(=
)membr.sec.XIV,contitoliinrossoe le iniziali colorate, e il ritratto del
maestro, in principio, dipinto nell'atto che insegna; di cc. 142. Il testo è
diviso in tre parti: dopo la prima è un indice della materia precedente; un
altro indice di tutta la rimanente m a teria trovasi alla fine del codice.
L'Etica va da c. 59! « Cominciamento del « segondo libro del Tesoro lo quale e
appella l'eticha che compuose Ari « slotile » a c.774 « Explicit hetica
Aristotilis a magistro Taddeo in uol. «gare
traslectata».Infinedelcod.:«Explicitlibroloqualefuecomposto per lo maestro
Brunetto Latino di fiorenza et poi traslectato di fran ciescho in latino (Bondi
pisano mi scrisse dio lo benedisse. Testario sopra nome, dio lo caui di gienoua
di prigione. et a llui et a li autri che ui sono 70 C. MARCHESI APPENDICE
JI. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 71 e da dio abiano
benizione.Amen amen). La soscrizione è di mano dello stesso copista.
Cod.Laurenziano 90 Inf.46 (= d)cartac.sec.XIV exc.,aduecolonne; titoli in rosso
e iniziali colorate; di cc. 211. L'Etica va da c. 74+ (Qui co. mincia l'ectica
d'Aristotile et est la segonda parte del Tesoro) a c. 100a (Explicit l'etica
Aristotile in questo tanto che io noe trouata).In fine del codice: Qui fenisce
lo sourano libro-Explicit lo libro del Tresoro. Cod. Magliabechiano 2. 8. 36
(vecch. segn. 25. 258] secc. XIII-XIV: acefalo e mutilo di cc.91. Comincia al
lib.II, P. I,cap.19 efinisceal lib.III,P.II,cap.21. L'Etica finisceac.19a,senza
alcuna soscrizione. Tra il compimento della prima parte e il principio della
seconda (cc.44-75)sono della stessa mano alcune tavole planetarie e
astrologiche, tavole ad lunam et ad Pascham inveniandas etc. Proven.Strozzi.
Cod.Palatino585(= ^)cartac.sec.XIVexc.,dicc.214;miscell.Con tiene,oltre il
Tesoro,ilLibro di amaestramenti di costumi,le cinque chiari della
sapienza,iltrattatodelle quattro Virtù morali,lo libro di Chato. L'Etica va da
c.87+ [Qui chominciano le robriche del secondo libro
delTesoro,cioèd'etichad'Aristotile- epoi:Quisichomincialosecondo libro del
Tesoro e primamente dell'ecitta d'Aristotile) a c.115a [Explicit E t i c h a A
r i s t o t i l i s a M a g i s t r o T a d e o i n u u l g h a r i t r a s l a
t t a t a d e o g r a z i a s ]. Finisce il Tesoro a c.175a.Al recto
dell'ultima carta,dimano di poco po. steriore, si legge « Questo libro è di
Giuliano di Giouanni Quaratesi: chi llo « achatta, piaccagli renderlo per
l'amore di dio, e dalle lucerne e da' fan «ciullilorighuardi».Com.iltestodel
Tesoro:«Questoèlolibrochessi «chiama Texoro loqualeèchauato dalla
bibbiaede'libridifilosofi a che ssono stati per li tempi ». Cod.Riccardiano
2221 (= 2)membr.sec.XIV,di cc.127; iniziali co
lorateefregiate.L'Eticavadac.58'«Incipit libbro elichaAristotile» a
c.75'«Expicit libbrod'etichaAristotile».A c.1224:Qui finiscielo libro di mastro
bruneto Latini da fiorensa. Si nota una grande confusione nella distribuzione
della materia dell'Etica,prodotta dallo spostamento di varie parti.
Cod.Laurenziano 42. 19 (= P) membr.sec.XIV, a due colonne,con molte
miniature e iniziali colorate; di cc.93. L`Etica va da c.40a « Qui « comincia
la seconda parte del Tesoro di Burnetto Latino el quale libro e si chiama la
ethica d'Aristotile » a c. 51a « Qui finisce l'Eticha d'Ari a stotile ». = u.
membr. Cod.Casanatense1911(= )cart.sec.XV,dicc.130;anepigr.mutilo. L'Etica va
da c.33*(Qui chomincia il nobile libro che fecie il sauio Ari.
stotilefilosafocioèl'Eticasua)ac.45 (fincieillibrodel'etica).Inun'av.
vertenzaappostaalcodicestessoènotatalamancanzadellaparteche ri guarda la
Politica (lib.IX); vi si trova la teologia,divisa in due parti;
com.:Voiuorestich'ioviconfortassil'animeuostremaiodubito fare ilchontrario.;(in
questo trattato si parla di dio,angeli,sacramenti, del l'anima).Nel
fl.r.membr.della guardia è un indice della materia che giunge sino alla natura
del delfino (V libro). Cod.Magliabechiano2.2.82(=
n)cartac.sec.XV,dicc.111,mutilo; siarresta al principio
dell'Elica(cap.1):sièinutileinquestascienza. Inc.: Qui comincia lo libro il
quale fece ser Benedecto (sic) Latini di firense e parla della nascienza di
tutte le chose e ae nome il Tesoro. L'Etica ha questo tit.: Qui comincia il
sechondo libro del Tesoro facto per ser Brunetto latini di firenze il quale
parla dell'ethica di Aristotile. Si trovano in questo codice altri
volgarizzamenti da Seneca, Boezio, G e ronimo etc. Cod.Magliabechiano2.2.48(=
v)cartac.sec.XV,dicc.153,mutilo; e x p l. « Q u i d i c i e d e l l a B r a n c
h a c i o e d i c h o n c r u s i o n e ». I n c.: I n c o m i n c i a il
Tesoro di ser Brunetto Latini da Firenze conpilato in francescho. L'Etica va da
c.60a [Qui parlla il maestro della beatitudine.coe.parlla Aristotile sopra
l'eticha] a c.81* [Qui finisce il secondo libro di questo trattato di ser
Brunetto Latini oue brieuemente a trattato della beatitudine e d e l l e u i r
t t u s o p r a l ' e t i c h a d ' A r i s s t o t i l e ]. A l m a r g. i n f.
d e l l a p r i m a p a g i n a si legge il nome di un possessore: Concini. I
CODICI MUTILI DEL TESORO. Cod.Leopold.Gaddiano IV (= 0)membr.sec.XIV,a due
colonne,con la iniziale dorata e dentro essa l'effigie dell'autore; di cc.40.
Inc.: Qui in. chomincia el Tesoro di ser burnetto Latino di firenze. E parla
del na. scimento e de la natura di tutte le cose. Si arresta alle parole «
allora «uegnonolichacciatoriefanno»,cioè al penultimocapitolodellaprima parte
(de unicorno).Sul foglio di custodia in fine si legge il nome del possessore «
Liber mei Angeli Zenobii de gaddis de florentia ». Cod.Leopold. Gaddiano 26 (=
T)cartac.sec.XIV,a due colonne,di cc.88. Inc.: Questo libro si chiama il Tesoro
maggiore il quale fece maestro brunetto Latini di firenze, e tratta della bibia
e di filosofia e 72 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 7 3 delle uecchie istorie ad amaestramento di choloro
che leggierano.Contiene tutta la prima parte e il prologo della seconda (c.
85): « E poi uerra il prolagho apresso a questo dicha de l'eticha del grande
sauio Aristotole ». Cod.Laurenziano 42. 22 (= E)cartac.sec.XIV,di cc.165;titoli
in rosso e iniziali colorate, con l'effigie dell'autore in principio; mutilo.
Inc.: In nomine Domini Amen. Qui comincia lo libro del Thesoro maggiore, lo
quale libro fece maestro brunetto Latino di fiorenza. Questo primo libro
fauella del nascimento di tutte le cose di filosophia et di sue parti. Prologue
de la natura di tutte cose. Si arresta alla prima parte: « per « ragunare la
secunda parte di questo thesoro che dia essere da pietre pre
«tiosecioecharbonchi perlle diamanti».La lezione di questocodice in moltissimi
punti si allontana da quella comune delle stampe e dei codici, non solo per
diversità di espressioni,ma anche per copia e qualità di notizie.
Cod.Laurenziano 42. 20 (= B)membr.sec.XIV,a due colonne,col ri. tratto
dell'autore in principio; titoli in rosso e iniziali colorate, di cc. 112. Inc.
« Questo libro e chiamato il tesoro magiore il quale fece ser burnetto. «
Latini di firenze il quale tratta de la bibbia et di filosofia et del cho «
minciamento del mondo e de l'antichita de le uecchie istorie et de le a nature
di tutte chose insomma ad amaestramento e dottrina di molti. «Ed erechato di
francescho in uolgare apertamente».Comprende la prima parte e il prologo della
seconda: Qui parla alquanto d'eticha d'A ristotile.A c.112a è un elenco de're
di Francia. Cod.Laurensinno 42. 21 (= p) cartac.sec.XV,di cc.70. Inc.: Qui
comincia il libro del Tesoro il qual fe ser brunetto da fiorença e parla del
nascimento di tutte le cose.Contiene fino a tutto il libro V. Molte varianti.
Cod.Magliabech.VIII.1375 (= U)membr.sec.XIV.Anepigr.,acef.,
matilo,dicc.32,aduecolonne,con le iniziali colorate.Proven.Strozzi. C o m i n c
i a a l l a f i n e d e l c a p. 9 (p. 3 0, e d i z.. R o m a g n., B o l o g n
a, 1 8 7 8 ) « n e «elliuengnano.Etperciononaeinloropuntodifermeçça ketuttecose
ve tutte creature si muouono e si mutano in alimento percio dico ken « questi
tre tempi cioe li passati e li presenti e quelli ke sono a uenire non a sono
niente se del pensiero noe a chuelli souiene de le cose passate e in « guarda
la presente ed atente quelle ke deono uenire » etc.... sino a c. 41 (p. 94, ed.
cit.) « e la reina non uolse aconsentire al matrimonio anzi la « uolea donare
». Da questo punto ch'è evidentemente interrotto, per man. canza di nesso con
la pagina seguente,la distribuzione e l'entità della m a teria sembra in gran
parte diversa dalla comune del Tesoro. Riferiamo talune rubriche: a c. 5a il
cod. seguita « dira qui apresso Lamet frate di C o m e l o r e M a
n f r e d i p r e g h a il p p c h e li c o n c e d e s s e il r e n g n o e t
c. e t c. ». Seguita quindi a dire di Manfredi e della battaglia di Benevento e
di Carlo d'Angiò e di Gianni da Procida e de'Vespri,lungamente.Vengono appresso
altre narrazioni « Come si lamenta il conte Giordano Cod.Palatino 483 (=
Q)cartac.sec.XV,dicc.65. Inc.:Quichomincia lo libro il quale fecie ser
Benedetto Latini di firenze e parlla della n a scienza di tutte le chose e a'l
nome il Tesoro. Comprende la prima parte e il prologo della seconda. Ne resta
esclusa dunque l'Etica e il resto del Tesoro. Insieme con questo codice si
trova legato un altro, di mano diversa, contenente iframmenti del Buouo
d'Antona,in ga rima. Cod.Riccardiano2196(= w)membr.sec.XV,aduecolonne,dicc.67.
Si ferma al punto ove parla del « modo di trovare l'acqua e delle cisterne »
(lib. I I I?). È da notare che ci troviamo di fronte a una lezione ben diversa
dalla più comune. CONCETTO MARCHESI. «GiosepoefigliuolodiJacobetc....
Come sicominciai agioaltempo «diSaulediJerusalem–
Loquintoagiosicominciaquandoigiudei «eranoinpregione Danielf.gesseediSaul
·delgloriosoreSalomone «profetta de elias deloredugidiTebas– dieliseusprofete.
de « isaie profette de germie profette etc. etc. ». A c. 9 abbiamo un cata logo
di pontefici: segue la storia della chiesa di Roma e di Costantino. Poi « Come
franceschi perdero lo 'perio di lo re imperadore di Roma « primo taliano di
beringhieri come perdeo la sengnoria e uenne amao «dotto di Sasogna Reame della
mangna Arigho della mangna «Comeloredifranciafusconfitto
Comelo'peradorepreseliparlati «difrancia
Comelachiesauacantidibuonipastoritradivalo'peradore « tinuamente la natura
lauora in tutte cose – »; seguono figure astrono miche,della luna,del
mappamondo. Finisce a c.32. « Dell'altra citta di uerso nasce lo fiume di
rodano e uassene dall'altra parte uerso borghon « Francia diuide in « gnia e
per proenza molto correndo e anzi che lli sia a mare si
«duepartiellamaggioreparteentrainmare presoadArlil'altrobraccio.». Qui si
arresta il codice. Come con KLII,p.1 74. THADDÆUS FLORENTINUS.
qua fortuna. Sunt quivelint ex humili prorsus loco, & infima populi
fæce.(6) Sed contra aliisvidetur editus exAiderotta gente,non patricia illa
& primaria;duplex enim fuit;sed altera,minus quidem nobili,fedhonefta &
liberali. (c) Alderottum certe patrem habuit, (d) & ex gente Alderotta di
ctus est a Scriptoribus. Fuere Thaddæi fratres Simon & Bonaguida, homines
obfcuri, quorum vix nomen ad nos pervenit. (e) Ac Thaddæum quoque ip sum
narrant non minimam ætatis partem non folum inglorie, sed ignominiose etiam
transegisse. Adeo enim ftupidum a natura fuiffe tradunt,ut totis triginta annis
n e c literas didicerit, nec honetto ulli artificio aprus fit visus. Itaque v i
ctitasse ajunt sordido & illiberali quæftu, occupatum præ foribus sacelli
S. Mi. chaelis in Horto vendendis minutis candelis, quas ibi religionis causa
accendi mos erat. Sed exactis triginta ætatis annis, quafi ex veteri somno
experre ctum, & dissipata cerebri caligine, incredibili ardore excitatum ad
literas, quarum discendarum ftudio Bononiam, adhuc rudem, & vix in
Grammatica eruditum convolasse ajunt. Sed hæc, quæ de Thaddæo memoriæ tradidit
Philip pus Villanius, quamquam & Florentinus, & non indiligens
scriptor, & ad m o d u m antiquus, aliquis in dubium revocat, quod fabulis
fimilia videan. tur; (f) qua de re integrum erit unicuique judicium. IÌ. C u m
igitur Bononiam venisset, ut optimarum artium ftudiis animum excoleret, in quo
omnes consentiunt, Philosophiæ totum, ac Medicinæ le de dit. Incidit Thaddæi
adventus ad fcholas noftras in illud tempus, cum M e d i ca facultas, quæ antea
ufu fere & exercitatione peritorum tota continebatur, a Philosophis
tractata, nova luce donari cæperat; fi tamen vetus illa Arabum Philosophia, quæ
tunc scholas invaserat,n o n ubique tenebras & caliginem offundere poterat.
Sed ita persuasum erat hominibus, atque hæc potislima Thaddæi laus fuit, quod
primus ex noftris Medicinam cum Philofophia arctissi m o fædere conjunxisse
visus sit. (g) Tentaverant id quidem ante Thaddæum alii, (h) & erantin
Academia noitra ante illum Phyficæ, five,ut dicere ama bant,Phyficalis
ientiædoctores,& professores,quifacemThaddæoipfiprætu. lerant; nec dubito,
quin eorum aliquem in scholis noftris audierit. Sed ille unus plus operæ
contulit inftaurandis Medicina ftudiis ad ejus fæculi guftum, q u a m
fuperiores omnes. Extant adhuc ampla ejus commentaria in libros vete rum
Magiftrorum artis Medicæ, partim typis edita, partim manu exarata in
locupletiorum bibliothecarum pluteis, quæ primum inter docendum in scholis
nusprotulitexlibroHH.p.338.Excerpt.Scriptur. (c) Annotaz. del Dot. Ant. M.
Biscioni al Conventus S Crucis Flor. Vid. Ci.Mazuccbel,in Conv. di Dante. In
Firenze 1723. p. 68. XVI. "Haddæus Florentiæ natus eft paulo post
initium sæculi XIII.,(a) incertum THE, Nnn 2 (a) Obiit anno MCCXCV., ut infra
dice- teringum & c. Presentibus Mag. Salveto de tur.Cum igitur,Philippo
genarius decesserit, natum oportet Villavio auctore, octo annoMCCXV. Com.Bonon.
Ferraria & M a g. Santo de Cesena. Ex Mem. ab (b ) Pbilip. Villan, in lib.
de laut.Florent. in Append. N. XII. (e)Ex tabulisanni MCCLI.,quas Biscio.
PROFESSORES. 467 (d)An.MCCLXXXIII.die VIII.exeunt. (f) Vid.Ci. Mazuccbel.
loc.cit. Jul.Mag.Thaddeus professor artis Medicine (g) Vid.Jo.Antr.Vunjted
defair.viror. fil. qnd.d n.Alderotti de Florentia fecit Joan. illuftr. p. 312.
& c. n e m dn. Anglonis fuum procuratorem ad re (h ) Petri Hispani, qui
anno M C C L X X V. cipiendam pacem & remifsionem a Loteren.
Ro.Pontifexrenunciatus,di&tusifJeannesXXI., go qui dicitur Rigutius & a
Bonino fuo fi commentaria babemus in librum Ifaac Medici,quae lio & ab
omnibus & fingulis aliis de consan- Jubtilitatibus dialecticis abundant.
Ilm in hipo guinitate ipsorum... de omni injuria, & pucratem w Arijtotelem
scripufe dicitur; nec du offenfione que dicebatur eise facta per M a g. bito,
quin bæc fcripta aliquanto ante Tbs.ddæi Thaddeum vel B.naguidam fuum fratrem
commentaria prolierint. Sed quantum bæc illis vel per aliquem de
contanguinitate ipforum præjliterint, doctorum hominum judiciun postea vel q u
æ diceretur eise facts p e r predictos L o vlendit. Tbadilæo Allerotto,
ab eo tradita, m o x ab auditoribus excepta, incredibilem ei famam
concilia runt. Id autem in eo potissimum mirabantur homines, quod ita Medicinam
tractaret, ut ejus facultatis canones & præcepta ad severioris Philofophiæ
ratio nes exigeret; quod nemo ante illum magno fuccefsu perfecerat. III. In
hunc m o d u m recepta eft in scholis noftris vetus illa Medicina Philosophica,
fi ita appellare licet, quæ brevi tempore omnes Europæ Acade. mias pervafit,
& innumeros Scriptores tulit. Hinc agmen interpretum in Hip pocratem, &
Galenum, atque Avicennæ in primis, aliosque veterum Medico rum libros, Thaddæo
duce; cui non satis ad laudem fuit interpretem dici,sed plufquum interpres a
quibufdam dici amavit, (a) & ut alter Hippocrates apud Italos habitus eft. (b)
Ejus autem gloffæ, præcipuis Medicinæ libris adjectæ, in scholis communi
suffragio receptæ sunt, & pro ordinariis, ut dicere folebant, longo tempore
habitæ eodem loco fuerunt apud Medicinx Itudiofos, atque Ac curtianæ gloffæ
legum libris appofitæ apud Juris Civilis professores. Magister etiam Medicorum
jure di&us eft, (c) ob excellentium Medicorum copiam, qui ex ejus fchola
prodierunt. Tanta denique ejus nominis fama, & inre Medica celebritas fuit,
ut perinde esset in usu popularis fermonis Thaddæum fequi, (d) ac Medicinam profiteri.
IV. Docere cæpit Thaddæus circiter annum M C C L X., aut non multo fe rius;
eodemque tempore scribendo vacabat, neque operam fuam curandis V.Cum
igituræquefelixincurandisægrotis,acdoctusinscholareputa retur, non folum in
civitate noftra Medicinam fecit, sed paflim vocabatur ad curandos magnates,
& viros principes per alias Italiæ civitates. Hinc aliquis de illo
magnifice potius, quam verescriptum reliquit, non confuevisse illum aliis, quam
principibus, & nobiliflimisviris curandis operam præftare. Sed il lud tamen
indubium eft, non fivisse aliò fe abduci ad curandum quemquam, nifi pacta
ingenti mercede, quæ non tam efiet pro loci diftantia, aut difficul tate
curationis, q u a m pro fui dignitate, & facultatibus eorum, ad quos CU
randos vocaretur. Neque far erat de mercede pacisci: nam fibi quoque cau. t u m
volebat de itu & reditu, accepta ingentis pecuniæ sponsione pro fecurita:
te itineris·Dignæ sunt, quæ legantur, tabulæ an. MCCLXXXV.scriptæ,cum Thaddæus
Mutinam iturus esset ad curandum Gerardum Rangonum. In iisRan goni procuratores
T h a d d æ o promittunt, fe facturos, ut liberum iter & expedi ium ad eam
civitatem habeat, fufcipientes in se omne periculum, & impen sam: quod si
pactis minime ftetiffent, promiserunt, fe eidem reftituturoster mille libras
bononinorum, quas depofiti loco a Thaddæo ipfo accepisse fate bantur. Similes
tabulas habemus anno MCCLXXXVIII.cum Mutinam rurfus ment. in Parad. Dantis C.
XII., dou a vellutela. 1189 1 468 MEDICINE ! (a) Ita appellati:r
aBenvenuto ImolenfiCum evo. apud Ercard. Corp. Histor. med. ævi col 1 1 lo
ibid. Sed qui plusquam Commentator a Pbi. qui revera opus fuum tum inscripsit,
is fuit Turrisanus Tbaddæi au ditor;de quo alibifermo erit. plufquam Commen M a
per amor della verace manna (6) Hic homo, cum penes Italos, ut al. fundature,
Paradisi C. XII, t e r H i p o c r a s h a b e r e t u r. P b i l i p. V i l l
a n. d e L a u d. (e ) T b a l i l æ u s a d c a l c e m C o m m e n t a r. ix
A Florentiæ,five de Cl. Florentin. (d) Non per lomondo, percuimo's'afo In
picciol tempo gran dortorli feo. Dant.Aligber. de S.Dominico Ord.Prædicator.
tis defiderari patiebatur. Docendi tamen, & scribendi laborem intermifit an
no,utopinor,MCCLXXIV.cum civilebellum,aLambertacciis,&Jere.
miensibusexcitatum,civitatemnoftrammiseranduminmodum conculit.(e)Sed ipfe
quoque fatetur,se aliquando a scribendo ceffasse ob quæstum, quem curan dis
ægrotis faciebat. (f) Atque hinc apparet, quæ fides habenda fit Philippo Villanio,
cum scribit, Thaddæum, fpreto lucro, fe totum interpretandis vete. rum
Magiftrorum libris dedille. (8 ) Fallitur etiam Villanius, cum scribit,
Thaddæum ftipendio publice conftituto Bononiæ docuiffe; nondum enim, eo vivente,M
e d i c i n æ profefforibus ftipendia attributa fuerant. lippo Villanio,
aliisque Scriptoribus dictus et, fanna Diretro all'Ostiense et a Taldea (c!Eo
anno Mag.Thaddæus Medicorum magitter moritur. Ricobald. Compilat.Cbronolog.
pborismos Hippocrat. (f) bulm. (g ) Pbilip. Villan. loc. cit. ægro
evocaretur ad curandum Guidonem Guidonum. Utrasque in Appendice dabi mus.(a)
Sed quis credat, in his contractibus bona fide actum? Ego fraude caruisse non
arbitror. Facit, ut ita credam, infignis Odofredi locus, ad fraudes pertinens
Advocatorum sui temporis; qui cum immodicasmercedes præterjus falque pro suis
advocationibus & patrociniis extorquere vellent a clientibus eos adigebant
ad ftipendium, quali deberent ex causa mutui.(b) Eodem artificio usum arbitror
Thaddæum, quem ne obulum quidem verisimile eft_deposuisse apud Rangoni, &
Guidoni procuratores. Sed ego tamen existimo,Thaddæum, probum hominem &
pium, non ita immitem fuiffe, ut tam ingentes pecu-, nias exigeret ab iis, quos
curandos aggrederetur. Potius crediderim, hanc cau tionem voluiffe, ne jutta
mercede fraudaretur, & damna fibi æquo jure præfta rentur, quæ quacumque ex
causa pertulisset. V I. Vocatus aliquando ad curandum R o m a n u m Pontificem,
negasse dici tur se iturum, nisi centum aurei nummi in dies fingulos
penderentur. Quod cum immodicum videretur iis, quibus negotium datum erat, ut
cum Thaddæo transigerent, neque ea de re conveniret; concessit tamen Pontifex,
grandem quantumvis pecuniam vitæ & incolumitati fuæ pofthabendam ratus. M o
x au. tem, cum arnice Thaddæum argueret, quod tam magno operam suam locaret,
ille admirationem fimulans; ego vero, inquit, multo magis obftupesco, cum
ceteri fere viri nobiles, & minores Principes quinquaginta & amplius
aureos nummos mihi in dies conferre soleant, tibi, qui maximus es Chriftianorum
Principum,grave visum esse,quod centum petierim.Sed Pontifex,ubi Thad dæi
ftudio optime convaluit, decem millia aureorum eidem rependi juffit, non tam ut
tantum virum pro dignitate fua, & ejus meritis remuneraretur, quam ut o m n
e m ab se averteret avaritiæ suspicionem. VII.Itanarrat PhilippusVillanius, (c)
qui tamen Pontificis nomen filet• Sed hunc fuisse Honorium IV. alii Scriptores
tradunt, & in primis Joannes Tortellius in libro de Medicina & Medicis
ad Simonem Romanum.(d) Sunt etiam qui hæc tribuant Petro Apono illuftri Medico,
de quo alio loco dice mus. Sedcredibilenon videtur,tum quiapotiormihiet
auctoritasPhilippi Villanii, & Joannis Tortellii, quam aliorum multo
recentiorum, qui hæc de Petro Apono scripserunt;tum quia Honorii IV.ætate
Petrus Aponus nondum ad tantam f a m a m pervenire potuerat, ut ad curandum
Pontificem accerseretur. Sunt qui immaniter augent pecuniam, q u a m Pontifex
recuperata valetudine Thaddæo numerari jusserit; nec desunt qui non minus, quam
ducenta millia aureorum accepisse dicant. Sed nimis multa mihi etiam videntur
pro iis t e m poribus vel ea decem millia, quæ Villanius omnium modeftiffimus
narrat. VIII. Thaddæus certe Medicinam faciens ad ingentes divitias
pervenit;nec facile est reperire plures ejus facultatis professores, qui
majores fint consecuti. Ejus autem commodis, & utilitatibus consuluit etiam
non uno modo Populus Bononiensis. Ei nimirum, & ejus hæredibus concessa eft
immunitas a vectiga libus, & remissio ab omni munere publico. Additum eft,
ut libere a quovis intra fines Agri Bononienfis prædia, & fundos emere
posset, quos vellet; m o d o ne ab exulibus & profcriptis. Itaque eum
voluerunt gaudere omnibus civium commodis,neque iis oneribus obnoxium effe,quæ
cives reipublicæ causa sustine re debebant. Ejus quoque discipulis eadem.
privilegia, & immunitates populi beneficio concessæ sunt,quibus gaudebant
ScholaresJuris Civilis & Canonici. Id autem, nominatim pro auditoribus M a
g. Thaddæi ftatutum, aliorum Medicina profefforum auditoribus communicatum est.
(e) Ita honor additus est Scholæ ad Simonem Romanum Medicum præftantif (b)
Dicit advocatus, fi promittis mihi fimum. Ex Cot. Vatican. aput Apostol. Zenun
milleaureosnominefalarii,nonteneris.Sed inDissert.Volpian.To.I.p.151.
faciasmihiunum inftrumentum,inquo con (e)ExStat.Pop.Bon.anniMCCLXXXVIII.
tineatur, quod tu teneris mihi dare mille ex vel potius M C C L X X X U I., in
quibus eji Rubri. causamutui.Odofred.inl.Sifubfpecie.C.de
cadeprivilegioMag.ThaddeiductorisFixi Polulando. (c) Pbilip, Villan, loc. cit.
ce & diicipulorum ejus. Vid.Append.N. X X. ProFESSORES. 469 / }
(a)Vid.Append.annoMCCLXXXV.,dow (d)Jo.TortelliusdeMedicina& Medicis
MCCLXXXVIII. Medi. Medicæ,quæ Thaddæi potissimum opera magis
aucta,& nobilitata,parigradu deinceps fuit cum scholis Legum, & Canonum.
X. Nescio quid molettiæ illi etiam intulisse credo Clarellum quendam,ut opinor,
Medicum, five quod ejus doctrinam impugnaret, five quod medendi rationem
carperet. Queritur de illo in Commentariis ad Joannicii Ifago gen,(d) X I.
Habere consuevit in familia sua Thaddæus Medicos aliquot, quibus adjutoribus
uteretur five in scholæ muneribus, five in ægrotantium cura. Eo rum aliqua
mentio eft in ejus teftamento, quod in Appendice damus. Dome ftica quoque
negotia, ne quid esset, quo a suis ftudiis interpellaretur, per pro
curatoresaliquando agere consuevit. Anno certe MCCXCII. procuratorem suum
conftituit Octavantem Florentinum, (g) affinitati fibi conjunctum,eum, qui Jus
Pontificium exeunte fæculo XIII. in scholis noftris docuit;de quo fuo loco
diximus. (c)Vit.Append.Pertinethocadannum tisnominedñeAdelefuefilieipfiMag.Thad
MCCXCII. dum numero, quo luci altitudő indicatur. (8)An.MCCXCII.dieXV.MajiMag.
tia. bus dicitur Regalettus Bunaguide de Floren. 470 MEDICINA IX.Quamdiu
vixit priinum dignitatis locum tenuit interMedicinæ profef fores; ac multum ei
quoque tribuerunt professores aliarum disciplinarum. (a) Sed gravis offenfionis
causa ei aliquando fuit cum Bartholomæo Varignana,qui ex ejus schola, ut
verisinile eit,prodierat, & magiftro adhuc vivente ma gnopere
celebraricceperat. Receperat ille in Medicina erudiendos quofdam, qui ad
Thaddæi fcholam ante accesserant. Id ei magno crimini datum eft a Tnaddæo; ac
fortasse erat contra leges scholafticas,vel Academiæ noftræ mo rem. Neque vero
aliter to'li diffidium potuit,& sarciri injuria,qua affectum fe credebat
Thaddæus, quam ubi Varignana promisisset omnem pænam pora'em, & fpiritualem
ultro subiturum, q u a m in e u m ftatuissent Vicarius Ar. chidiaconi
Bononienfis, & aliquot doctores ex Collegio Magiftrorum, (b) arbi tri ad
tam rem delecti. (c) quæ cum scriberet, nondum, ut arbitror, id auctoritatis
consecutus erat, ut hujusmodi obtrectatoris importunitatem fortasse Thaddæus
natura suspiciofus, & ad inanes metus comparatus; quod,ni fallor, oftendunt
etiam tot capta de securitate itinerum, & ftipendiorum fuo r u m caurelæ,
& iterata fæpius testamenta, de quibus diximus. Id porro ex ejus corporis
habitu, & temperamento quid fuisse, pro certo habeo. Ipfe enim de se
fatetur, fe somnambulum fuil. fe, (e) & interdum ex alio loco dormientem
fine fenfu cecidiile. (f) ipfe (a) Vide tabulassocietatisinterMag.Gen Thaddeus
doctor Fixice fecitsuum procurato tilemdeCingulo,LouMagGuilielmumdeDeza
reminomnibusfuiscaufis&negotiisdn. ra fcriptas anno MCCXCV. in Append. deo
matrimonio unite trescentas libras Pifa. (d) Finitus eft tractatus de febribus
do norum in forenis de duodecim.Pretereado m i n o Clarello, qui facit nos
evigilare, & tran firepermentemnoftramquidquidmalipo.
brasejusdemmonete.ErMen.Con.Bonon. test. Tbad. ir Isag. Joannic. c. 32. Fortale
ad (i ) O t a v a n t e m, q u i p u t e a c a n o n u m p r o f e f. eundem
pertinent, quæ babetad finem cap.36. Hoc eft, inquit, quod dicit tallidicus,
qui fa. tereaque Adelæ fratrem, intelligimus extabulis cit omnia mala trautire
per mentem noftram. an.MCCLXXXIII.scriptis inMem.Com.Bon.,
(e)Dequartoficprocedo:videtur,quod inquibuslegitur:Dn.OctavantedñiGuidalo homo
poflitdormiendo fentire, nam dorinien do movetur, ficut patet in furgentibus de
no. čte,quorumegofuiunus.Ibid.in.c.10.p.362. Guidalottipater jam indeabannoMCCLXVI.
(f) Ibid.Sed locus fortasse mendojus in pe Bunoniæ degebat, ex Mem. Com.Bonon.,inqui
a se avertere poffet. Sed erat accidere debebat, in quo insolens ali navit
eidem propter nuzias quinquaginta li. for fuit, Guirlalutti Florentini filium
fuiffe,propo cti de Florentia scolaris Bonon... emit dige. ftum... pretio
lib.L. bon. Regalettusautem tem XII. Anno M C C L X X I V. Thaddæus fere
sexagenarius uxorem duxit Ade lam Guidalotti Regaletti filiam,(h) Octavantis,
quem ante nominavimus,fo rorem, (i) ex eaque filiam suscepit Minam, quæ adhuc
innupta erat, cum (b) Magiftrorum collegium jure tunc dice O &avantem
deFlorentiasuumcognatum.Ex Mem, Com. Bonon.
batur,nonautemMelicorum;quianonsolumMe (h) An.MCCLXXIV.XV.Jan.Mag. dicinæ,fed
alia,um quoque artium liberalium pro fesjures complectebatur, ut ex ipfis hujus
controver Thaddeus artis Fixice professor fil. and. Alde rotti de Florentia
fuit confeffus habuiife a dño fæ actisapparet,quæinAppendiceexbibentur.
Guidalottoqnd.dňiRegalettideFlorentiado. XIII, Teftamentum fæpius,
nec uno in loco Thaddaus fecit. Et quoniam perpetuo domicilium Bononiæ habuit,
cum aliò diverteret ad curandos magna tes, itinerum pericula reputans,
propterea teftamentum sæpius fecisse videtur. Sed omnium poftremum Bononiæ
condidit initio anni M C C X C I I., quo cete ra omnia revocavit facta Bononiæ,
(b) Florentiæ, Ferrariæ, R o m æ, Mediola ni, Venetiis, & alibi. Pro anima
fua, & ad pias causas x. mille libras bonon. legavit: quæ immanis summa
erat pro ætate illa, & privati hominis facultati bus. Ex his bis mille
quingentas libras impendi voluit emendis prædiis pro pauperibus verecundis,
quorum administrationem esse voluit penes Fratres de Pocnitentia. Viger ad hanc
diem ut cum maxime pium hoc inftitutum,a pru dentissimis civibus adminiftratum
in civitate noftra, quo consulitur egettati h o neftorum civium, quibus
oitiatim mendicare victum vel natalium, vel ætatis, sexusve conditio fine
pudore non finit. (c) Fratribus Minoribus, penes quos sepeliri voluit,
ubicumque ejus obitus contigisset, multa legavit. Atque illud viri prudentiam m
a x i m e demonftrat, quod præftari voluit in perpetuum ali menta uni ex
Fratribus ejus Ordinis qui Parisiis Theologiæ studeret, fupra numerum eorum,
qui ibidem facris ftudiis destinati esse solerent. Jisdem Fra. tribus Minoribus
Conventum erigi voluit, in quo tresdecim Fratres ali possent. Viginti ex fuis
scholaribus magis egentes ex albo panno vestiri in die obitus sui mandavit,
itemque familiares suos omnes masculos, qui secum eo tempore futuri essent.
Statuit etiam impensam funeris fibi apud Fratres Minores cele brandi,&
certam insuper summam, pro die feptimo obitus sui, trigesimo, cen tefimo, &
anniversario, erogandam in Fratrum refectionem, ut iis diebus pro anima fua
preces ad D e u m funderent; qui mos ab antiquissimis temporibus ad eam ætatem
pervenerat. (a)ExliterisNicolaiIV.inCodicediplom.
quisibisuppetiasferrent,ubieffetopus,tumin docendo, tum in medendo. (b) Etiam
Bononiæ anno M C C L X X. for (e) Hanc Biscionius in adnotat. ad Convi. talle,
antequan iter aliquod susciperet, teflamen vium Dantis Adolam vocat., sed in
testamento tum fecerat, quod indicatum vidinius in Memor. Autograpbo en Adela.
mff. Biblioth. publ. Bonon. C o m. Bonon. ejus anni. (f) Quia Fratribus Minoribus
quidquam pof (c) Jam inde ab anno M C C L V I. Uher- fidere non licebat, voluit
ut medietas predicte tus facerdos Sanctæ Catharinæ de Saragotia contingentis
ipfi Opizo perveniat ad Dominas legaverat X. corbes frumenti pauperibus vere
cundis, ut ex ejus tejlamerto apud Fraires Mi- cujus dicte Domine nores: ex quo
apparet ejus pii inflituti anti pendere pro necessitatibus Fratrum Minorum
quitas. infirmorum fenum & forenfium. Vide teftam. (d) Hos duos Medicos in
schola fua, uti Thaddæi in Append. credibile efl, eruditos, in sua familia
babebat, & Sorores S. Clare civitatis Florentie fructus & Sorores
teneantur ex PROFESSORES. 471 1 mo N ipse extremum obiit diem. Sed ante
illud tempus filium genuerat ex illegiti mo complexu.Hic patrisnomen
geflit,& vulgo Thaddæolusdicebatur,cum que Nicolaus IV.anno MCCXC.jure
legitimorum nataliumdonavit.(a) XIV.De bibliotheca sua in hunc modum
ftatuit.Avicenna opera,quatuor voluminibus contenta, & Galeni item, quæ
totidem voluminibus comprehensa erant,Fratribus Minoribus ea conditione
legavit,ne ullo umquam tempore alie nari, diftrahive possent, aut e Conventu
ipfo exportari. Fratribus B. Marize Servis legavit Metaphysicam Avicenna,
Ethicam Aristotelis, & Sextum de N a turalibus Avicenna in majori volumine.
Magiftro Nicolao Faventino Glossas fuas omnes, quas scripserat in veterum
Medicorum libros, & Almanforem suum, & Magiftro Johanni Affifinati (d)
Serapionem suum,& Sextum de N a turalibus Avicennæ in minori volumine, fi
quidem uterque in familia sua esset tempore obitus sui. Adelæ (e) uxori
fuæ,præter aliquam pecuniæ summam, cu biculi sui supellectilem omnem
legavit,& veftes,& gemmas,exceptis dumta. xat valis aureis, &
argenteis, & usumfructum domus Florentiæ in via S. Cru cis,&
fundosinagroFlorentino.HæredesauteminftituitMinamfiliamsuam Thaddæolum filium
naturalem, & Opizum Bonaguidæ fratris sui filium; quibus, fi abfque filiis
masculis legitimis decessissent, Fratres Minores, (f) & pauperes verecundos
fubftituit. Nupfit hæc Thaddæi filia Dorgo Pulcio Florentino sum X
V. Obiit Thaddæus an.M C C X C V. (e) cum annos octoginta vixisset.(f) Fuit
autem ejus mors repentina, ut narrat Benvenutus Imolenlis, Dantis inter pres.
Tumulatus eft apud Fratres Minores, quos vivus magnopere dilexerat, & apud
quos ægrotus etiam aliquando sub extremum vitæfuæ tempus jacue
rat.(g)Sedejusfepulchrimagnifice extructi,& elegantis,quod eratprope januam
Ecclefiæ, propter recentiora ædificia ibidem excitata, nulla jam vefti. (d)
Manni degli antichi Sigilli To. XII. (b) Nicolaus V.annoMCDLIV.mandavit, pag.
117. utHofpitaleS.AntoniiPatavini,quodFratresTer (e)AnnoMCCXCV.dieXX.Marzii
Thad tii Ordinis, five de Penitentia,ex bonis bæredita dæus erat in vivis, ut
ex charta societatis in riis Mag.Tbudlæi Bononiæ erexerant,indomum ter
Mag.Gentilem Cingulanum, g Mag. Gui. pro Sanétimonialibus Franciscanis, ex
Monasterio lielmum Dexarensem, quam in Append. danus.
FerrarienfiCorporisCbriflitra.lucendis,convertere. Af eodem
annoaddiemXVII.Juliiinvivisef tur.Sed r jijtentibusFratribus,res ita compofita
eft de defiderat, ut ex bis tabulis, quas indicavit
infequentiannoperBifurionemBononiæLegatum, CI.Montius:An.MCCXCV,dieXVII.Jul. ut
iratres Ecclefiam S. Antonii, cu aljacentes D. Ugolinus de Montezanico Dn.
Novellonus ætes cum molicocenfuad bufpitalitatemexercen Megloris de Florentia
Dn. Amadeus Poete damretinerent;fedbonareliqua,quæadeosex
Dn.FraterRaynucciusqund.Deotaiuti com bereditate Mag.7budlæipervenerant, novo
Par milfarii & executores testamenti egregii vi tbenoni pro
SanctimonialibusCorporisChristi con ri& discreti Mag. Thaddei and.Alderotti
Aruendo attribuerentur: quod anno M C D L V I.pero qui fuit de Florentia artis
Filice profetforis featumest,CatharinaVigria,quamnuncinSan.
fueruntconfeffihabuiffeadñoBartholomeo clarum Virginum album relatam veneramur,
cum 472 MEDICINE mo genere nato.(a)Thaddæolus autem fivequod cælibem
vitam duxerit,five quod filios non genuerit, aut pofteritatis memoria apud nos
diu fuperftites non habuerit, certe nulla ejus superfuit. Sed opulenta M a g.
Thaddæi hæreditas non ita humanis cafibus subjecta fuit, ut nobiles ejus
reliquis non exiftant. Sanctillimum enim ad hanc diem civitatis noitræ
Monasterium Corporis Chrifti, & Collegium Puellarum S. Crucis ex bonis
hæreditariis M a g.Thaddæi initium legata insuper alia, q u æ legi poffunt in
tefta quali acceperunt. (b ) Mittimus mento ipso, quod in Appendice exhibemus.
(c) Unum addimus, quod maxi me memorandum videtur,aureosnempe florenos xv.in
annos fingulos legatos Zco Scansalti Pisado, quamdiu futurus effer in
Januensium carceribus, ex qui bus ubi eum liberari contigiffet, cc. libras
bonon. eidem perfolvi a suis hæredia bus mandavit. Nota est ex eorum tima
Pilanorum cum Januensibus rum vires miserandum in modum temporum scriptoribus
infelix pugna mari annoMCCLXXXIV.pugnata,qua Pisano XVIII. pax convenit. Tunc
bello capri, qui supererant, redditi funt, effæti prope enecti. Diligentissimus
Mannius jam, & tam longi carceris incommodis proftratæ funt. Magna corum
cædes fuit, abductus præfertim ex nobilioribus. N e atque ingens numerus in captivitatem
que ullis conditionibus adduci potuere victores, ut captivos redderent. Ita
enim confilium fuit sobolem invifæ primariis civibus detentis, ne procreandis
liberis dare operam poffent, fuccide. civitatis impedire, totque fortissimis
viris, ac re nervos civitatis, usque in illud tempus potentissimæ. Itaque non
ante annos Sigillum Universitatis Carceratorum Januæ detentorum illustrat. (d)
Ex eorum numero erat Zeus Scanfalti, amicus, ut opinor, Thaddæi; qui quam
pronus effet ad ferendam miseris opem, cum ex hoc, tum ex fingulis fere
teftamenti sui capitibus liquet. (a) Dn.Mina quondam Mag.Thaddei Corporis
Cbrisi, W Puellarum S. Crucis, quæ AlderottiuxorDorgiquondamDorgidePula
vidit,lowindicavitCi.Montius. cis.Ex tabulisan.MCCCI.inarcbiv.publ.Flo vent.
Inilicavit Cl. Biscion. loc. cit. (c ) Vide Append. gia > pauci supererant,
Ecclefiam S. Antonii, d adja centes æles, bonaque omnia ad eum locum perti deus
confeffus eft quod ipse emit quandam pe. tiam terre... Actum in loco Fratr.
Minor, ! Blanchi Cofe for. auri cccc, depofitos ab ipfo aliquot aliis
Monialibus ex Ferrariensi Monaste. Mag.Thaddeo & c.Ex Mem.Com.Bonon. rio in
nouum buc noftrum commigrantibus. Anno autem MDXCII. Fratres sertii Ordinis,qui
(f) Pbilippus Villan. loc. cit. (g) An.MCCXCIII.die... Mag.Thad
nentia,erigendoPuellarumpericlitantium domici in camara Ministri ubi
Mag.Thaddeus ja lio libere tradiderunt, quod in via S. M a m æ a cebat infirmus
prefentibus M a g. Bertolaccio, mæniffimo civitatis locu, non longe a
Monasterio Fratris Venture M a g Nicolao de Faventia
CorporisCbrijli,conjtructumest,a S.Crucisti. &c.ExMem.Com.Bonon. tulo
infignitum. H æ c ex monumentis Monialium gia supersunt. (a) Minime
igitur audiendus eft Joannes Villanius, qui Thaddæi o b i t u m p r o t r a h i
t a d a n n u m M C C C I I I., (b ) a u t fi q u i s e f t a l i u s, q u i i
n a l i u d tempus referat. Paulo poft ejus mortem dillidium ortum est inter
Fratres Ter tii Ordinis, five de Pænitentia, & Priorem fratrum Prædicatorum,
ac G u a r dianum Fratrum Minorum in eligendis pauperibus ad præfcriptum
teftamenti ip fius M a g. Thaddæi. Sed litem o m n e m fuftulit Dinus
Mugellanus, clarus legum interpres, qui per illud tempus Bononiæ docebat, cui
utraque pars arbitrium dederat. (c) X V. Possem hic plura Scriptorum teftimonia
de Thaddæo admodum ho norifica afferre; possem & Scriptores multos emendare,
multos supplere,qui de illo vel minus diligenter, vel minus vere scripserunt;
in quo numero sunt præsertim scriptores noftri Alidofius, & Ghirardaccius.
Sed hæc curabunt, qui magis otio abundant. Nunc ejus scripta recensenda funt,
quæ & multa fue. runt, & magno in pretio habita. TH4DD=1SCRIPTA.
Expositio in arduum Ipocratis volumen. Galenus Aphorismos Hippocratis illuftri
commentario exornavit. Thaddæus & Hippocratis Aphorismos, & Galeni
commentarium diligenter exposuit.Cum autem in septem libros, fivepar ticulas
Hippocratis volumen Aphorismorum diftributum fit, Thaddæus fcrip. to tradidit
expofitionem suam in sex priora capita, eamque absolvit anno
MCCLXXXIII.decimadieSeptemb.,utadejuscalcemadnotatum efttam in editis
exemplaribus, q u a m in m a n u exarato, quod vidi in bibliotheca, Collegii
Hispanorum Bononiæ. Eft autem hoc Thaddæi opus valde proli xum, cuiscribendo non
uno tempore insudavit. Sic enim ad ejus finem ait: I n his particulis
explanandis diversa fuerunt tempora. N a m cum efjorn in nono anno mei
regiminis (qui publice docebant regere tur) incepi gloffare Aphorismos a
principio. Et infpatiofex menfium glossa. v i primam, fecundam, tertiam, a
quartam particulas, a quintam usque ad illum Aphorismum: Mulieri menstrua fine
colore. Tunc autem fupersedi, convertens me ad glosas, quas fuper Tegni feceram,
completiores edendas; quas perfeci usque ad illud capitulum caufarum: A d
inventionem vero salu brium. Ibidem vero deftiti impeditus a guerra civitatis
Bononiæ, au lucrati va operatione distractus. Poft vero placuit mihi refumere,
ut complerem glof fas Aphorismorum, addendo ad eas, quas primo feceram. Et feci
additiones Super primam, Be fecundam, no quartam particulam. In tertia vero
particu la solum glossas veteres divis: Item in quinta particula super
veteribies glosis quas feceram primo nullam additionem feci. Incepi autem de
nova glosam in illo Aphorismo: Mulieri menftrua fine colore, ut dictum est.
Quod hic habetde Bononiensium bello,pertinerevideturad Lambertacciorum, &
Jeremienfium turbas, quibus anno M C C L X X I V. civitas noftra pæne d e
solata eft. C u m autem nono anno poftquam docere cæperat, ad inter pretandum
Hippocratis Aphorismos le contulerit, in eoque opere tempus aliquod impendere
debuerit, & rursum eo dimiffo, librum Tegni interpre tandum susceperit,
& in eo verfatus fit, quoad Bononiæ in otio quietus esse potuit; subductis
rationibus apparet, non multo poft annum M C C L X. debuisse illum publice
docendi in scholis noftris munus suscipere, imo ditavit hortulanum fuum. Vixit
autem renze, noftro cittadino, il quale fu s o m m o Fisiciano sopra tutti
quelli de' Cristiani. Je. scholas diceban 4. ооо annis PROFESSORES. 473
(a) Fuit Thaddæus medicus famosus, apud Murat. Antiq. med. ævi To. I. col.
1262. conterraneus auctoris, (Dantis ) qui le (b) In questo tempo morì in
Bologna git& scripsitBononiæ& vocatuseitplus. M.TaddeodettodaBologna,ma
eradiFi. quam commentator.Et factus est ditiflimus, & mortuus est morte
repen Villan, ad an. MCCCIII. tina, & fepultus eft Bononiæ ante portam (c)
Extar Dini confilium,five fententia in Minorum in pulchra & marmorea
sepultu- arcbivo Fratr. Prædicat. Bonon. ra. Benvenut. Imol. comment, in
Purgat. Dantis Ad Ad septimam particulam Aphorismorum quod attinet,
Thaddæus perpetua in eam commentaria non reliquit, sed monuit auditores suos,
fi quis voluif fet ex ore docentis excerpere, quæ in nenda in schola protulisset,
fe deinde emendaturum, & utin ordinem re digerentur curaturum. Sic enim
inquit: immediate Icribere intendo. Sed fi quis de meis auditoribus notare
voluerit eas corrigam, o in petias redigi faciam. Hæc autem verba fcripfi, ut
si alicubi minus completa expositio reperiatur, non adfcribatur ignorantiæ, fed
potius novitati, a pigritiæ scriptoris. Sed Thaddæi commentaria in septi m a m
partem Aphorismorum nufpiam apparent, & ejus loco circumferri solebat
expofitio Alberti Zancarii, de q u o alio loco dicemus. Expositio in divinum
Hipocratis Pronosticorum volumen, A d cujus finem ita ada notatum eft in editis
exemplaribus. Explicit liber tertius yra ultimus Pro. nofticorum Hipocratis
fecundum antiquam translationem a Thaddæo Florentina explanatus. Sed revera
Thaddäus ipfe non unam translationem præ mani bus habuit, fed faltem duas. (a)
A d extrema vero capita, seu textus libri tertii nihil adnotavit Thaddæus, aut
certe nihil adnotatum reperio in edis tis exemplaribus; manu enim scripta
explorare non licuit. Thaddæi Florentini in præclarum regiminis acutorum
morborum Hipocratis volu men expositio. Hanc Thaddæus in proæmio fatetur se
maxime procudisse ut rem gratam faceret Bartholomæo Veronenfi, q u e m fibi dilectiffimum
vocat, & pollentis ingenii; aitque,non minimo fibi adjumento fuisse ad id
operis perficiendum. N o n attigit T h a d d æ u s, nisi tres priores libros
hujus operis, ratus fortasse, quartum non effe legitimum Hippocratis færum,quod
aliis visum erat, ut fatetur Galenus ipfe initio commentariorum in hunc quartum
librum de regimine acutorum. Suam porro diligentiam oftendit Thaddæus in his
commentariis exarandis, appellans ad verfionem Græcam, ubi in ea, quæ ex
Arabica facta erat, vitium suspicabatur. (b) Atque hinc apparet, duplicem ejus
libri interpretationem per illud tempus in doctorum manibus verfatam fuisse,
quarum altera ex Græca, altera ex Ara. bica lingua ducta erat. In fubtiliffimum
figogarum Johannicii libellum expositio. E a m fic concludit Thad dæus: Scio
tamen, quod de his obscure dixi, Jed fellus f u m a deficit charta: misera
excusatio, & vix fapienti homine digna. Q u æ hactenus recensuimus Thaddæi
opera in unum volumen redacta Venetiis edita sunt per Lucam Antonium Junctam
anno MDXXVII.curante Joan ne Baptista Nicolino Sallodienfi, qui in epiftola
nuncupatoria ad Aliobel. lum Averoldum Polenfium Antiftitem, & Romani
Pontificis Legatum ad Venetos, impense Thaddæum laudat, illumque dicit, nonnisi
ad lapsam Extat hic Thaddæi liber in Codice Vaticano, (c) ejufque hæc eft
æcono. mia. Initio agit de corpore sano, ejusque, ut ita dicam, essentia, &
va. riis sanitatis gradibus; tum pergit in hunc m o d u m: Nota quod dicit
Johan nicius, quod fi unaquæque res naturalis propriam naturam jervaverit,
facit fanitatem, fi vero ipfam dimiferit, facit ægritudinem, vel neutralitatem,
fta tum fcilicet, quo necfanum eft, necægrum.Sequiturinhuncmodum usque ad finem
libri: Nota quod dicit Galenus; nota quod dicit Hipocras, Avicenna.Nota quod
venæ non dicuntur oriri ab epate quod oriantur ex ea dem materia v c. Nota
differentiam arteriarum ad venarum, originem nervorum W c. Nota quod partes
totius capitis funt quatuor B c. Inter has notationes, in quibus totus hic
liber decurrit, aliquas quæftiones interferit, (a) Ad text. X. lib. I. ita
inquit: Alia quod patet per translationem Græcam. Liba translatio non ponit hic
nifi duos colores & c. III. text. X. ea Aphorismorum particula expo Super
feptima vero particula nihil 474 MEDICINE principum fanitatem
recuperandam vocari consuevisse. Auctoritates are definitiones fuper libro
Tegni, quamplures utiles dubitationes. uti (b) Unde dicendum quod litera
Arabica, (c) Cod. Vatic. 1. 4445. ex qua fumitur illa auctoritas, elt corrupta,
1 uti est illa: Quæritur hic an dari poffit membrum, quod nec
recipitur, nec tribuit. Nunquam editus eft hic Thaddæi liber, quem ne ipse
quidem au ctor satis elimatum cenfuit. Itaque rurlus Artem parvam Galeni, sive
li brum Tegni interpretandum suscepit. Habemus hoc Thaddæi opus typis editum
Neapoli cum hoc titulo: Commentaria in artem parvam Galeni.
NeapoliannoMDXXII.Horum initiofatetur,fepræmaturamaliamexpo fitionem Artis
parvæ edidisse,hisverbis: Atveroquoniamfuper eundem librum expofitionem facere
necessitas compulit præmaturam, in qua non ut expedit Galeni instituta
patefeci". Ideo e c. Magiftri Thaddæi conflia. In Codice Vaticano (a)
consilia Medica Thaddæi sunt centum quinquaginta sex.Minore numero,imo
perpauca,lirecte memi ni, funt in codice bibliothecæ Cæsenaris Fratrum Minorum.
Primum in utroque codice est de debilitate visus. Ultimum in codice Vaticano
eft de virtute Aquæ vitis. Docet in eo modum præparandi alembicum cu. preum.
Incipit: A d faciendam Aquam vitem, quæ alio nomine dicitur aqua ardens. Eft
unum ex his consiliis de minctu urinæ cum fanguine. Incipit: Conqueftus est dn.
Bartoločtus comes. Eft is Bartholottus comes Ripæ Insulæ Suzariæ & Bardinæ,
de quo plura diximus, ubi de Rolandino Passagerio a r tis Notariæ doctore
agebamus. Eft aliud Thaddæi confilium ad midtum f a n guinis pro Duce
Venetiarum. Aliud item de impedimento loquelæ propter mollitiem linguæ. Incipit:
C u r a comitis Bertholdi. In librum Galeni de crisi. Eft in codice Vaticano.
(b) Magiftri Thaddæi de Florentia quæftio de augmento. Eft in codice Vatica
Thaddæum artis Medicinæ in civitate Bononiæ doctorem. Eft in codice bi.
bliothecæ Eftenfis, tefte Muratorio. (d) Idem Italice extat, scriptus in m o d
u m epistolæ cuidam ex Neriis Florentinis. Incipit: Imperciocchè la con dizione
del corpo umano. (e) Extat etiam latine typis editus Bononiæ anno MCDLXXVII.cum
libelló Mag.Benedicti de Nurlia ejusdem argumenti. N u m autem Italice scriptus
fit libellus ifte ab auctore suo, an latine, mihi non conftat. Italica tamen
lingua, quæ tum nitefcere, & a Scriptoribus nobilitari cceperat, delectatum
constat Thaddæum, qui Ariftotelis Ethicam in eam linguam vertit; quamquam hunc
ejus laborem haud magnopere laudandum exiftimarit Dantes in Convivio, ubi ait,
velle se suum illum librum Italica, five, ut ipfe inquit, vulgari lingua donare,
ne ab alio quopiam interprete vitietur, ut Ethicæ Ariftotelis contigit, quam
Thad dæus Italicam fecit.(f) Eum purgare nititur Biscionius,vitio vertens non
tam Thaddæo, qui Italicam ex Latina non bonam, quam veteri interpre ti,qui
nihilo meliorem ex Græca Latinam fecerat Ariftotelis Ethicam.(8) Sed vix
quisquam probabit hanc Biscionii defensionem. Id unum enim r e prehendit
inThaddæo Dantes Aligherius, quod Italicam interpretationem ejus libri non
bonam dederit. Nihil autem impedit, quominus librum aliquem, licet
mendofiffimum, & maxime corruptum, optime, quod ad nitorem verborum attinet,
interpretari, & in aliam linguam elegantissime quispiam convertere possit.
Habuerat Thaddæus Aristotelis Ethicam ex Thesauro Brunetti Latini, ut observat
Laurentius Mehus, qui de his abun de disserit in prolegomenis ad epiftolas
Ambrofii Camaldulenfis, nuper Flo rentiæ editas. (h ) no. (c) Libellus
fanitatis conservandæ factus pay adinventus per probiffimum v i r u m M a g.
(f)E temendo,cheilvolgarenonfosse dato posto per alcuno, che l'avelse laido
fat. (g ) Ibidem: (h) Tv.I.pag. 156. 157. Epift.Ambrof.Cam. to parere, come
fece quegli, che tramutò il Ooo 2 (a) Cod. Vatic. 2418. PROFESSORES 475 Expe
latino dell'Etica, ciò fu Taddeo Ipocratita (c) Ibid. 4454. provvidi di ponere
lui, fidandomi di me più (d) Murat.To.IX.Rer.Ital.Script.p.583. che
d'un'altro.Convito di Dante.In Firenze (e) Vid.Biscion.Annot.alConvitodi Dan
(b) Ibid. 4451. te.loc.cit. 1723. p.68. 1 Experimenta Mag. Thaddæi
probata ab ipfo. Hunc titulum habet collectio ex. perimentorum Medicinalium
Thaddæi in codice Vaticano. (a) Incipit: Omnes herbee a radices quæ debent
prius coqui, abluantur mundentur Poit brevem præfationem, fire inftructionem,
defcribere incipit p r i m u m Syrupos varii generis. Receptio Syrupi majoris
fecundum M. T. Syrupus Jor. danus M. T. ad correctiones epatis aut fplenis @ c.
Deinde describit electua ria, inter quæ hæc confectio locum habet: Confectio
qua utuntur magna tes in curia Romana, vagy maxime convenit in æftate fanguinem
mundificans, colera fuaviter educitur. R. pulpæ Caffic fi. 16. 2. Tamarindorum
3. pe. nidii.zuc.violati añş.x.Syrupi violati, Ġ.Mirrhæ s3 conficianturfive
dissolvantur cum tali fucco. X. Prunorum.ios feminum ordei mundi. lic quir. añ
i 2 cum ifta aqua decoquatur usque ad spissitudinem mellis. Dein pergit ad vina
medicata. In his ett Aqua vitis ad calculum M. B. ideft, M a. giftri
Bartholomæi de Varignana, ut opinor, medici celeberrimi, cujus infra mentionem
faciemus. Tum de oleis agitur, ibidemque describitur Tragea M. T. & Tragea
M. B., ideft, Magiftri Thaddæi, & Magiftri Bar. tholomæi. Pulveres fubinde
varii, & pilulæ, & unguenta describuntur, tum remedia quædam ad
peculiares morbos. N e c desunt fuperftitiofa quædam, & vanissima. Tale eft
illud: Ut homo poffit ire super ignem fine læfio. ne. Dicas ifta verba. ter in
nomine individuæ Trinitatis.Abyfon. Dalma. tiu, vel Magata, v e a s nudus.
Emplaftra quædam poft hæc describuntur: fed in hujus libri extremis partibus
vix ordo ullus apparet, ut conjicere liceat, aliena manu aliquid genuinis
Thaddæi experimentis additum; quo ex genere esse arbitror superftitiola illa,
quæ dixi. De Interioribus libri VI.a mag.Thaddæo correcti. Ita in codice
Vaticano.(b ) Thaddæus de Bononia de aquis, oleis, a vinis medicatis. Extat
inter codices mo locorecensuitejusCommentariainIpocratem,moxCommentariain
Avicennam; n a m neque in alia Hippocratis opera fcripfit Thaddæus, quam quæ
indicavimus, quæque vel iple Biscionius feorfim poftea enumerat; nec ulla in
Avicennam Commentaria scripsisse comperio.Addit tamen idem Biscionius
descriptionem pulveris mirabilis Mag.Thaddæi, quam re perit ad calcem libri M a
g. Aldobrandini. E g o alterius pulveris descriptio n e m in hunc m o d u m
reperi ad calcem Almansoris, ideft, libri Rasis in codice Vaticano.(d) Recepta
quam mag.Taddeusreliquitpauperibus in te ftamento: R. Cinamomi eleli s Macis.
Croci aš 3 ij. Sene s fiat pul vis poftea R u s Tartari albi fubtilissime
pulverizati, a misce fimul. Dosis ejus eft; 3 ij cum brodio poteftconfici cum
zuccaro ut melius conserve tur. E u m d e m pulverem defcriptum vidi in codice
bibliothecæ Cælepatis Fratrum Minorum inter confilia Medica Mag. Thaddæi ad
libri marginem in hunc modum: Pulvis folutivusTaddei. R. Cinamomi:5. Macis.Cra
ci añ 7. 3. 1. Sene ad pondus predictorum. Fiat pulvis, cui potes addere de
zuccaro albo vel rubeo B eft delectabilior. DON 476 MEDICINE Thomæ
Bodleii. (c) Auxit immaniter Biscionius paucis verbis catalogum operum Thaddæi,
dum pri (c) To. I. mill. Angliæ. Cod. 2359. (d) Cod. Vatic.4425. Aderotti. Alderotti.
Keywords: le quattro cause. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alderotti” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692254470/in/photolist-2mKHtgX-2mKSjjJ/
Grice ed Alfieri –
LVCREZIO – filosofia italiana – Luigi Speranza (Parma). Filosofo. Grice:
“I like Alfieri; the enzo is vital – Vittorio alfieri has statues at Torino! V.
Enzo Alfieri dedicated his life to prove that Democritus was more of a poet
than a philosopher. ‘Indeed, I will go as far as to argue that he ain’t no
philosopher!’ Unfortunately, Abbagnano ignored him, and Lucrezio stayed in the
canon! Then Alfieri tried to study the idea of the ‘in-divisibile,’ the ‘atom’
and the ‘clinamen,’ and how Lucrezio was a good poet but a bad philosopher!”
-- Filosofo. - allievo diCroce. Nato a
Parma, visse la maggior parte della sua vita a Milano ove si laureò in
filosofia e insegnò storia della filosofia alla Bocconi, per poi continuarne
l'insegnamento presso l'Pavia. Allievo
di Piero Martinetti e di Benedetto Croce, di cui condivideva l'ideologia
liberale e il pensiero filosofico, ma anche gentiliano non ortodosso secondo la
definizione di Ugo Spirito, fu un oppositore del regime fascist che lo arrestò
una prima volta nell'aprile del 1928 quando a Milano scoppiò una bomba
all'ingresso della Fiera che fece sospettare che si trattasse di un fallito
attentato al Re. Alfieri fu incarcerato a San Vittore assieme a Ugo La Malfa,
Umberto Segre e Mario Vinciguerra. Fu liberato senza processo tre mesi dopo per
l'interessamento di Benedetto Croce che tramite Marinetti aveva fatto
intervenire Mussolini. Il secondo arresto,
per la scoperta di lettere ritenute compromettenti dalla censura fascista,
avvenne nel 1936. Alfieri fu scarcerato dopo quindici giorni per l'intervento
diretto di Gentile ma dovette lasciare entro due giorni l'insegnamento a Modena
e trasferirsi a Milano dove riuscì a sopravvivere grazie all'aiuto di amici e
di parenti che lo ospitarono. A Milano
ottenne il primo incarico universitario presso la facoltà di Lingue della
Bocconi dove rimase per 13 anni fino al suo trasferimento a Pavia per la
docenza di storia della filosofia. Suoi
amici, «maestri e testimoni di libertà», come lui stesso li definì, oltre a
Croce, furono Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Lombardo Radice, Francesco Flora,
Pilo Albertelli, il giovane professore ucciso alle Fosse Ardeatine e, tra i più
vicini e affezionati, Giovanni Spadolini.
Fortemente critico nei confronti del movimento sessantottino e impegnato
attivamente per le riforme della scuola, Alfieri è stato il fondatore del
"Movimento per la libertà e la riforma dell'università italiana" e
del "Comitato nazionale per la difesa della scuola", e presidente
dell'"Associazione amici dell'Gerusalemme". Negli anni 1937-1938 collaborò alla rivista
L'Italia che scrive che ancora in quel periodo riusciva a mantenere una certa
autonomia nei confronti del fascismo. Monarchico, iscritto al Partito Liberale
Italiano; nel dopoguerra si avvicinò agli ambienti della destra, aderendo al
Sindacato Libero Scrittori Italiani e collaborando con la casa editrice di
Giovanni Volpe e con la rivista Intervento di Fausto Gianfranceschi. Negli anni
'70 fu collaboratore culturale per la filosofia de Il Giornale diretto da Indro
Montanelli. Tra le sue opere di
filosofia vanno annoverati saggi sulla filosofia greca-romana antica, “La
tristezza di Pindaro”; “Lucrezio”; “Gli atomisti” e opere di estetica,
L'estetica dall'Illuminismo al Romanticismo. Ad Alfieri, oltre ad un suo
epistolario con Croce, si devono due libri di memorie autobiografiche (“Maestri
e testimoni di libertà” e “Nel nobile castello”) dove sono originalmente
ritratti personaggi della vita culturale e politica italiana da Croce a Scotti,
da Jacini a Casati, a Flora. Antonio Troiano, I 90 anni dell'ultimo allievo di
Benedetto Croce, in Corriere della Sera, 10 maggio 199648. Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio
Banfi, in Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofiaTreccani,. Alessandra Tarquini, Gli sviluppi della
scuola di Gentile: da Armando Carlini a Ugo Spirito, in Croce e
GentileTreccani,. Andrea Mariuzzo, La Scuola
Normale di Pisa negli anni Trenta, in Croce e Gentile Treccani,. Marcello Veneziani, 68 pensieri sul '68: un
trentennio di sessantottite visto da destra, Firenze, Loggia de' Lanzi,
199846. Michele d'Elia, Monarchici e
partito, su Italia Reale. Benedetto
Croce, Vittorio Enzo Alfieri, Lettere,
Milazzo, Edizioni Spes, Aldo Garosci, Nel nobile castello, in Tempo
presente, Forum in occasione del novantesimo compleanno di Vittorio Enzo
Alfieri, in Rendiconti, parte generale e atti ufficiali, 130, 1996,
110-140. Maria Luisa Cicalese, Vittorio Enzo Alfieri maestro di studi e
di vita, in Nuova Antologia, Vittorio Enzo Alfieri: maestro e testimone di
libertà: atti del Convegno, Cremona, 22 novembre 1997, Cremona, Circolo
Culturale Benedetto Croce, 1998. Margherita ardi Parente, Vittorio Enzo Alfieri
e il nobile castello, in Belfagor. Già Vittorio Enzo
Alfieri, nell’introduzione al breve primo scritto bembiano incluso in una
strenna dell’editore Sellerio, aveva colto una possibile connessione ai
dialoghi platonici più ‘letterari’, dove a proposito del piacere ecfrastico del
giovane scrittore per il podere di S. Maria del Non scriveva: «Bembo si
compiace a descrivere il luogo a lui caro, il fresco riparo dalla calura
estiva, il fiumicello, i pioppi piantati dal padre, il quale si stupisce che
nella piana verso le pendici dell’Etna vi siano platani, che gli fanno forse
risovvenire i platani d’Ilisso»321.L’intuizione diviene più 320 «Del resto
l’opera stessa prima del Bembo, il De Aetna, aveva richiamato a quei molteplici
interessi – spesso da e su testi greci – che avevano ispirato le Castigationes
Plinianae. E la stessa felice ambientazione del dialogo già di per sé dilata i
confini dell’oggetto esegetico e rilancia tutte le più vitali istanze di
plenitudo culturale, di renovatio che il Barbaro stesso (e il Poliziano per suo
conto) aveva indicato tra gli scopi della propria lezione (Mazzacurati). Sono
una plenitudo e una renovatio che si muovono anche da quell’indirizzo
filosofico e umanistico insieme che era stato così caratteristicamente
veneziano, dal Barbaro a Giorgio Valla: nella ripresa di un tutto autentico
Aristotele che Aldo aveva consacrato con la sua monumentale edizione delle
opere aristoteliche (1495-1498) ispirata alla lezione di Ermolao e dedicata a
Alberto Pio. Proprio sulla base della retorica e della poetica aristoteliche,
ripresentate come esemplari dopo secoli e secoli sulla laguna, poteva
svilupparsi anche la filologia più nuova del Bembo, tutta fondata sul concetto
di creazione artistica, non come furor o inventio platoniche, ma come imitatio
naturae e su una considerazione critica nuova della lingua», Branca, La
sapienza civile, cit. 130-131. 321 Bembo Pietro. De Aetna: il testo di Pietro
Bembo tradotto e presentato da Vittorio Enzo Alfieri, note di M. Carapezza e L.
Sciascia (Palermo: Sellerio, 1981) 35. 132 concreta se posta a
confronto con un altro testimone contemporaneo di Bembo, Gregorio Giglio
Giraldi322. Questi infatti nella sua lettera introduttiva a Renata di Francia alla
Historia Poetarum tam Graecorum quam Latinorum (1545), su uno sfondo tutto
boccacciano -- l’occasione della peste e la conseguente riunione di una piccola
brigada (il puer Pico della Mirandola e B. Piso) --, così si esprimeva nel
presentare la cornice diegetica del trattato: L'Alfieri, critico verso la
cecità dell'eruditismo dei vecchi filologi che si affannavano a congetturare e
spostare, sminuzzare e riattaccare i luoghi del poema lucreziano (op. cit., p.
17 ), sintetizza ancora: “Il canto del sonno e dei sogni (vv. 816-1036) si
riattacca a quei canti precedenti, ai canti delle illusioni, e apre la via ai
versi contro la più terribile delle illusioni: contro l'amore. Ecco come viene
il sonno: una parte dell'anima è dispersa fuori, una parte si è raccolta nel
profondo della sua sede, e le membra si sciolgono, e manca il senso, perché i l
s e n s o è o p e r a d e l l'a n i m a; ma il senso non manca interamente,
perché, se no, non si potrebbe riaccendere mai più e sarebbe la morte. La causa
del sonno è la continua perdita di atomi da parte del corpo, perdita che
avviene specialmente per le incessanti percosse degli atomi aerei; e questi
versi sono bellissimi, nella narrazione dell'inavvertito conflitto, eppoi (vv.
950-953 ) nella rappresentazione della sonnolenza, con versi rotti e con un
verso finale di grande dolcezza: ' poplitesque cubanti / saepe tamen
summittuntur virisque resolvunt, ' ' e quel che dorme si sente scioglier le
ginocchia e venir meno tutte le forze'. E il sonno segue al cibo e alla
stanchezza, perché allora è avvenuto un tanto più grave turbamento di atomi in
noi. Qui passiamo alle illusioni. Ognuno si sogna quello che è la sua
occupazione del giorno: gli avvocati sognano di trattar cause, il generale di
guidare eserciti alla guerra, il marinaio di lottare coi venti, Lucrezio
d'essere sveglio a scrivere il 'De rerum natura' (vv. 962-970). Ed ecco quelli
che si sognano i pubblici spettacoli, dopo essersene storditi per tanti giorni;
i cavalli, che sognano le corse; i cani, che sognano la caccia e fiutano in
aria ve si agitano; gli uccelli si sognano di sfuggire ai falchi. Così gli
uomini: sanguinosi e paurosi sogni di re, sogni terrificanti di uomini che si
credono alle prese con pantere e leoni, e gente che parla dormendo e svela
tutti i propri segreti, e gente che immagina di morire o di precipitare da alti
monti, e gente che ha sete e si sogna di essere presso un fiume e di bere
infinitamente”.
E' come se all'interno di un'argomentazione piana, di
un'espressione variata, di un vocabolo già abusato, di un ritmo additivo
irrompessero sistematicamente una rivendicazione terminologica, un elemento
imprevisto, un segnale indecifrabile, un'interruzione del ritmo, un vestigio ad
investigare. Non cessano infatti di stupire, per vistosità e normatività,
un'accelerazione espressiva e un turbamento linguistico, i quali tuttavia,
anziché disperdersi in una sorta di dadaismo originario o di impazzire nel
gioco retorico, concorrono al prima e al poi della dimostrazione, alla proporzione
del dettato, alla simmetria e regolarità del verso. Essi stessi riducibili a
struttura, più simile ora ad un reticolo cristallino, ora ad una tavola
aritmetica, ora ad un ordinamento geometrico. Questa compresenza dell'uno e del
molteplice, del medesimo e del diverso, del codificato e del nuovo --
responsabilità morale di annunciare un nuovo mondo. Linguistica, che porta alla
preoccupazione dell'iso-morfismo, al voler far combaciare vocabolo e oggetto
segnato ↔ segnante ordine linguistico ↔ ordine cosmico. La eversibilità e
convertibilità di ordine fisiologico o naturale, e di ordine “filologico” --
verbale. Anzi, la fisiologia irrelata e caotica sembra comporsi e prendere
forma in un divenire “caosmico” proprio grazie alla filologia, la quale *ordina*
sintammaticamente il molteplice -- il complesso nel semplice, nel semplicissimo
(atomon, indivisum), domina il caos, resiste alla morte ed all'amore, e,
anziché immaginare o assecondare l'esistente, lo ferma e se ne appropria. A ut
noscas referre earum primordia rerum cum quibus et quali positura contineantur
et quos inter se dent motus accipiantque, quin etiam refert nostris in versibus
ipsis cum quibus et quali sint ordine quaeque locata. Namque eadem caelum mare
terras flumina solem SIGNIFICANT, eadem fruges arbusta animantis. Si non omnia
sunt, at multo maxima pars est consimilis. Verum positura discrepitant res. Sic
ipsis in rebus item iam materiai intervalla vias conexus pondera plagas
concursus motus ordo positura figurae cum permutantur, mutari res quoque
debent. Atque eadem magni refert primordia saepe cum quibus et quali positura
contineantur et quos inter se dent motus accipiantque. Namque eadem caelum mare
terras flumina solem constituunt, eadem fruges arbusta animantis, verum aliis
alioque modo commixta moventur. quin etiam passim nostris in versibus ipsis
multa elementa vides multis communia verbis, cum tamen inter se versus ac verba
necessest confiteare et re et sonitu distare sonanti. tantum elementa queunt
permutato ordine solo; at rerum quae sunt primordia, plura adhibere possunt
unde queant variae res quaeque creari. Analogia tra formazione di
"verba" et versus e formazione res, espressa dagli eadem e dal
parallelismo tra "significant" e constituunt resa esplicita nella spiegazione
della paronomasia ignis/lignum iamne videas eadem paulo inter se mutata creare
gnis et lignum? Quo pacto verba quoque ipsa inter se paulo mutatis
sunt elementis, cum ligna atque ignis DISTINCTA VOCE NOTEMUS. Costituenti
minimi semantica (parola, sillaba, articolazione, prima articolazione, seconda
articolazione, terza articolazione) ↔ natura (radice -- atomo - molecula).
Reversibilità dei co-efficienti dei costituenti minimi, positura, motus, ordo,
che già nella metafisica aristotelica -- dell'aristotele perduto -- erano
indicati come le sole e tutte differenze che possono presentare tra loro le
lettere. Circolarità tra realtà fisica e linguistica con successione
intrecciata delle argomentazioni nei due passi elemento -- ELEMENTUM (gr.
stoicheion) è costituente originario sia di alfabeto che natura, secondo
Democrito e Leucippo, fonte Metafisica, Aristotele. Lo stoicismo, nella sua
lotta contro l'epicureismo, sostiene la legge finalistica del Logos come vera
unica legge che indirizza la scrittura delle opere e la formazione delle cose.
Platone sostene l'esperienza letteraria come micro-cosmo produttori del reale.
Concurcus motus ordo positura figurae. Sono documentati come 'produttori' del
'reale' (res, rerum) in Leucippo, Democrito (dalla Metafisica) ed Epicuro e sono
gli esatti sinonimi latini dei termini greci (individuum, atomon; elementum,
stoicheion, simple, simplice, simplicissimum. Il verso è straordinario, dal
punto di vista ritmico, tutto spondaico, e semantico, essendo costituito da
soli sostantivi elencati a-sindeticamente, e culminante dal punto di vista
fonico su ordo, quasi palindromo, appena bi-sillabo. Un verso icastico, che
riprende i termini già esposti ma in ordine sparso e vi associa figurae,
termine con una doppia valenza (ma monosemia) materiale e linguistica. Numerose
testimonianze nei testi grammaticali latini fanno emergere la perfetta
corrispondenza della terminologia atomistica e linguistica, in quanto tutti i
term9ni "concurcus", "motus", "ordo" et
"positura" sono specificamente grammaticali. motus concursus gramm:
fenomeni fonetici: sinalefe (contrazione in un'unica sillaba di due vocali,
solitamente dittonghi), sineresi (contrazione in un'unica sillaba della vocale
terminante di una parola e di quella iniziale della successiva), iato (incontro
di vocali forti successive). Il “distaccamento”, l'”accostamento”, il
“mutamento” degli atomi convertono la natura delle cose nello stesso modo in
cui l'”omissione”, l'”aggiunta”, il “mutamento” delle lettere convertono
l'identità delle parole. Il modello grammaticale sembra in ogni caso essere
preminente e fungere da paragonante per scoprire e chiarificare i meccanismi
del mondo atomico, “ex apertis in obscura”, per rendere più semplice il
passaggio dall'esperienza sensibile della littera scritta all'invisibilità
degli infinitesimi atomi, elementa. Gramm: flessione (verbo) music: ritmo
retor: figura retorica ut potius multis communia corpora rebus multa
putes esse, ut verbis elementa videmus. L'assimilazione tra verba et res
fornisce una giustificazione e funzione della poesia, nonché annulla il divario
tra poesia e filosofia, aprendo la strada della ben più successiva divulgazione
scientifica. E' convinzione epicurea quella dell'iso-morfismo tra parole e
cose, e tale risulta nella costituzione del poema intero, costruito come un
cosmo vero e proprio. La valorizzazione di ogni singola parola, la sua attenta
scelta si riflette in un innalzamento a materia poetabile delle realtà anche
più umili, come “minerali, piante, fiumi, cielo, mare, terra, fiere, uomini”.
Si crea così una democrazia linguistica ante litteram, lontana dal buonismo
religioso, spesso degradato in ipocrisia, o dagli esperimenti novecenteschi
degl'atomismo logico di Russell, che demolendo la sintassi o creando
l'enumerazione caotica volevano demolire la società borghese e capitalistica e
criticare la massificazione elevando ogni singola parola, pur immersa nella sua
massa uniformemente bianca e nera che è il testo. Vittorio Enzo Alfieri. Alfieri.
Keywords: Lucrezio, l’implicatura di Lucrezio, la folla di Lucrezio, Croce,
filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alfieri” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51793159577/in/dateposted-public/
Grice ed Alfonso –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa Severina). Filosofo. Grice:
“I like Alfonso – no, he ain’t a Spaniard; the surname was pretty popular in
Southern Italy after the roaming of the Spaniards! And it’s ultimately
barbaric, that is, Goth!” “Typically, for a philosopher, a professional one, I
mean, he started with logic for teenagers (il ginnasio ed il liceo), but with a
twist – he called his lectures (his ancestor may testify) ‘logica reale,’ or
colloquenza reale – and he tried to criticse “il Vera,” who had written “Il
problema dell’assoluto.” “Like me, he has an interest in S is P and S is not P
(questo uomo no est sensibile). His first utterance is actually, NOT ‘the fat
cat sat on the mat, and as he sat on the mat, he saw a rat” – but the rather naïf
‘il sole e luminoso.’ He gives two other examples, which are easy to detect,
since he does not use quotes but ITALICS!: “questo corpo est rotondo” and
“questa pianta fiorisce.” His idea, like mine, or Peacocke’s,, or Speranza, is
that that is pretty much enough to deal with the most serious problems in
philosophy: the judicatum, and its component Concetto 1 e Concetto 2 – “Questa
pianta fiorisce’” -- Un temperamento di spirito positivo e di evoluzionismo
idealistico, che attesta l’origine del suo metodo e la serietà dei suoi studi,
ma che dimostra pure quanto egli si sia discostato dall’indirizzo del Vera e
dello Spaventa per accostarsi a quella che fu chiamata la sinistra
hegeliana» (Luigi Ferri). Filosofo. Autore di 67 pubblicazioni scientifiche
e di numerosi articoli su riviste letterarie e quotidiani, alcuni dei quali
sulla Calabria e sui personaggi delle tragedie di William Shakespeare, che gli
fecero guadagnare l’attenzione internazionale per l’approccio singolare alle
opere del grande drammaturgo inglese. Nato a Santa Severina il 17
agosto 1853 da una famiglia di proprietari terrieri, molto giovane si dedicò
all'approfondimento delle Sacre Scritture, grazie ai due fratelli del padre,
don Michele e don Francesco d'Alfonso, entrambi canonici del Capitolo
metropolitano della Cattedrale; questi studi, parte dei quali furono pubblicati
con il titolo “Le donne dei Vangeli” (Firenze, Successori Le Monnier),
manifestano un approccio *positivista* sull'analisi del testo biblico.
Terminati gli studi nel suo paese natale si trasferì a Catanzaro, dove fu
allievo del letterato e patriota rocchitano Vincenzo Gallo-Arcuri. Frequenta poi
il Liceo Ginnasio "Pasquale Galluppi", conseguendo la licenza
ginnasiale. Ottenne in seguito la licenza liceale con lode al Liceo classico
del Convitto nazionale "Vittorio Emanuele II" di Napoli, che gli fece
valere, su concessione del Ministero della Pubblica Istruzione, la possibilità
di iscriversi contemporaneamente alle facoltà di Medicina e di Lettere e Filosofia
presso la Regia Napoli. Alla facoltà di Filosofia, dove, allievo di Sanctis,
Vera e Spaventa, ottenne vari riconoscimenti. Conseguì entrambe le lauree
in Medicina e Chirurgia e Filosofia, a soli tre mesi di distanza l'una
dall'altra. I Lincei gli assegono il Premio Reale per le Scienze filosofiche e
morali, consistente in 4.000 lire, per lo studio dal titolo “Kant. I suoi antecessori
e i suoi successori”. Su espressa volontà del padre fece ritorno a Santa
Severina, dove esercita la professione di medico condotto. Ma la passione per
la filosofia e l'insegnamento prevalse e partecipò ai concorsi a cattedra per i
licei, iniziando a insegnare Filosofia in Sicilia (Caltanissetta, Messina e
Catania). Da questa esperienza di insegnamento cominciarono ad evidenziarsi
sempre di più le sue qualità didattiche, tant'è che il ministro della Pubblica
Istruzione Paolo Boselli lo convocò a Roma per affidargli la cattedra di
Filosofia nei licei della Capitale: prima al Liceo Ginnasio "Umberto
I" (dove insegnò dal 1889 al 1909) e poi al Liceo "Ennio Quirino
Visconti". Nello stesso periodo cominciò a collaborare con le più
importanti riviste letterarie, tra cui il Nuovo Convito, la Rivista d’Italia,
la Rivista moderna politica e letteraria, la Rivista italiana di filosofia, la
Nuova Antologia, L’Educazione, la Rivista italiana di Sociologia, la Rivista di
filosofia e scienze affini e con diversi quotidiani, tra cui L'Osservatore
Romano. Nel 1890 fu chiamato dal ministro della Pubblica Istruzione Paolo
Boselli ad insegnare Pedagogia e Filosofia all'Istituto Superiore Femminile di
Magistero, dove, in seguito a concorso, divenne Professore dal 1903 al 1923.
Ebbe come colleghi Luigi Pirandello, Maria Montessori e Luigi Capuana. Durante
i trantaquattro anni di insegnamento al Magistero, fu relatore di oltre
trecento tesi. Per il Dizionario illustrato di Pedagogia, curato da Luigi
Credaro e Antonio Martinazzoli, redasse la voce Istituti Superiori femminili di
Magistero. Dal 1896 fu anche libero docente di Filosofia teoretica alla Regia
Roma, dove insegnò ininterrottamente fino al 1933, anno della sua morte.
All'insegnamento affiancò sempre una prolifica attività di scrittore,
pubblicando complessivamente sessantatré opere, recensite in Italia e
all'estero, che spaziano dai temi dell'educazione e della morale all'economia
politica, dagli studi sull'ambiente e sulle foreste all'analisi criminologica
dei personaggi shakespeariani. Il suo Sommario delle lezioni di pedagogia
generale (Loescher, 1912) fu giudicato dalla Reale Accademia dei Lincei «frutto
d'amorosa meditazione e di mente abituata alla ricerca e alla costruzione
filosofica, che esce dai confini degli ordinari trattati di pedagogia per
elevarsi ad una sintesi mentale superiore». Tenne la prolusione
all'Universal Congress of Races di Londra, che fu poi pubblicata col titolo “Speculative
psichology and the unity of races” (E. Loescher & Co), e fu membro del VI
Congrès international du progrès religieux a Parigi. Fu consulente medico della
Real Casa d'Italia durante il regno di Umberto I e del Palazzo Apostolico
Vaticano sotto il pontificato di Benedetto XV. Mai volle aderire ad
alcuna corrente filosofica e politica, e fu fortemente avversato dal ministro
della Pubblica Istruzione Gentile,che decise di mandarlo anzitempo in pensione
con un provvedimento ad personam. Si tratta del Regio Decreto n. 736 del 13
marzo 1923, all'interno della Riforma Gentile, che anticipa, per i soli
professori del Magistero, il collocamento a riposo al compimento del
settantesimo anno anziché al settantacinquesimo, come per gli altri docenti
universitari. Il suo posto fu immediatamente occupato da Radice, amico di
Gentile. Anche Croce intervenne nella vicenda in favore di d'Alfonso, chiedendo
a Gentile una deroga a tale decreto, ottenendo però risposta negativa. La
salma fu portata sulla carrozza della Real Casa e seppellita nel Cimitero
monumentale del Verano. Il paese natale, Santa Severina, gli ha
intitolato una via del centro storico e la Scuola elementare. Opere: “Le
donne dei Vangeli, Firenze, Successori Le Monnier); “Sonno e sogni” (Milano-Roma,
E. Trevisini); “Principii di logica reale” (Roma, G. B., Paravia & C.); “Il
re Lear” (Roma, Società editrice Dante, Alighieri); “La dottrina dei
temperamenti” (Roma, Società editrice Dante, Alighieri); “Lezioni elementari di
psicologia normale” (Torino, Fratelli Bocca editori); “Pregiudizi sull'eredità psicologica
(genio,delinquenza, follia)” (Roma, Società editrice Dante Alighieri); “I
limiti dell'esperimento in psicologia” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Sommario
delle lezioni di filosofia generale (la filosofia come economia)” (Roma, Casa
editrice E. Loescher); “Lo spiritismo secondo Shakespeare, E. Loescher &
C.); “Sommario delle lezioni di Psicologia criminale. Critica delle dottrine
criminali positiviste, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Il Cattolicismo e la
filosofia, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Otello delinquente, Casa libraria
editrice E. Loescher e C. Sommario delle lezioni di pedagogia generale
(L'educazione come economia)” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Note
psicologiche, estetiche e criminali ai drammi di G. Shakespeare (Macbeth,
Amleto, Re Lear, Otello)” (Milano, Società Editrice Libraria); “Principii
economici dell’etica”; “Naturalismo economico”; “Principi naturali di Economia Politica”
(Roma, Athenaeum); “Gli alberi e la Calabria dall'antichità a noi” (Roma, Angelo
Signorelli editore); “La disoccupazione: cause e rimedi” (Torino, Fratelli
Bocca editori. Nicolò d'AlfonsoIl del
Sud Furio Pesci, Pedagogia capitolina.
L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma, Parma, Ricerche
pedagogiche, 1994 Francesco d'Alfonso,
Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo
edizioni,, pag. 42 Francesco d'Alfonso,
Nicolò d'Alfonso, cit Attilio Gallo-Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò
d'Alfonso, Roma, A. Signorelli editore, 1934
La vicenda del pensionamento di Nicolò d'Alfonso è ricostruita e
ampiamente documentata in Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale
indipendente, cit., cap. V Francesco
d'Alfonso, L'onesto solitario. Vita e opere del filosofo Nicolò d'Alfonso,
Reggio Calabria, Città del Sole edizioni,
Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale
indipendente, Bisignano, Apollo Edizioni,
Francesco d'Alfonso, Amleto e Ofelia. La critica shakespeariana negli
scritti di Nicolò d'Alfonso, Reggio Calabria, Città del Sole edizioni, Furio Pesci, Pedagogia capitolina.
L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma Parma, Ricerche pedagogiche, 1994 Attilio
Gallo Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A. Signorelli
editore, 1994 Mariantonella, Giovanni Marchesini e la «Rivista di filosofia e
scienze affini», Franco Angeli Daniele
Macris, Nicolò d'Alfonso: uno studio introduttivo, in Quaderni Siberenensi,
Catanzaro, Ursini, Francesco De Luca, Santa Severina. L'antica Siberene,
Pubblisfera edizioni, Antonio Testa, La critica letteraria calabrese nel
novecento, L. Pellegrini editore, 1968 Silvio Bernardo, Santa Severina dai
tempi più remoti ai nostri giorni, Istituto editoriale del Mezzogiorno,
1960 Santa Severina Università La
Sapienza di Roma Accademia dei Lincei Liceo classico Pilo Albertelli. Il
prof. Nicolò D'Alfonso presenta: 1) Note psicologiche, estetiche e crimi n a l
i a i g r a m m i d i G. S h a k s p e a r e M a c b e t h, Amlet o, R e L e a
r, O t e l l o - (s t.); 2 ). U n a nuova fase dell'economia politica, (st.);3)
Speculative psychology and the unity of races (st.); 4) « Il cattolicismo e
l'insegnamento della storia del cristianesimo nell'Università di Roma, (st.);5)
- La filosofia della storia nel nostro tempo -; 6) -G. C. Morgagni e la
biologia moderna »;7) «In Calabria». Il prof. D'Alfonso, come già risulta
dall'elenco dei lavori presentati, s'è occu pato di argomenti disparatissimi,
senza che però, a giudizio unanime della Commis sione, egli sia riuscito a
trattarne alcuno con metodo scientifico. Per la più parte sono articoli
occasionali e informativi, discorsi, prelezioni, ma invano si cercherebbe
un'indagine compiuta con intento scientifico. Le nole psicologiche sui drammi
dello Shakspeare, che del resto sono una ristampa di articoli pubblicati già parecchi
anni addietro, per molti rispetti sono pregevoli, contenendo osservazioni
giuste, e in ogni modo attestano l'amoroso studio che l'A. ha fatto dei drammi
dello Shakspeare; ma, a giudizio unanime della Commissione, non sono titolo
sufficiente per l'assegno del premio a cui il D'Alfonso aspira.D'ALFONSO
NICOLA. -E'un insegnante che ha una lunga eonorata carriera,emolti s s i m e p
u b b l i c a z i o n i. M a q u e s t e c h e p u r c o n t e n g o n o m o l
t i p r e g i, r i g u a r d a n o l a p s i c o logia,lalogicaelapedagogia
Lastessaoperaches'intitola:«Saggiodifilosofiamo. rale »,è un saggio di
psicologia applicata alla critica dell'antropologia criminale.«Il Somm a r i o
d e l l e l e z i o n i d i f i l o s o f i a g e n e r a l e (l a f i l o s o
f i a c o m e e c o n o m i a ) i n c u i il D ’ A l fonso espone i concetti
cardinali del suo pensiero, non tratta propriamente problemi morali,al cui
studio non arreca contributo notevole l'opuscolo « Principi economici
dell'Etica ». Formulati in questo modo i giudizi riassuntivi intorno ai
quattordici candidati, e vagliati comparativamente ititoli di ciascuno, e
tenuto conto infine dell'esito della prova orale, la Commissione procedette
alla votazione definitiva, secondo le norme dell'art. 113. La terna risultò
così concepita in ordine alfabetico: Calò Giovanni con tre voti favorevoli e
due contrari; Ferrari Giuseppe Michele, con tre voti favorevoli e due contrari;
Orestano Francesco, a voti unanimi. Due voti riportò ilcandidato Zini.
Essendosi quindi proceduto alla graduazione dei tre candidati designati per la
terna, in ordine di merito, si ebbe il seguente risultato: 1°Orestano Francesco
con voti quattro contro uno; 20 Ferrari Giuseppe Michele con voti tre contro
due; 3°Calò Giovanni con voti tre contro due. Ilcandidato Calò ebbe un voto
come primo nellaterna. La Commissione pertanto propone a V. E. di nominare il
dott. Francesco Ore. stano professore straordinario di filosofia morale presso
l'Università di Palermo. Roma, 11 aprile 1907. Il Consiglio Superiore di
Pubblica Istruzione, esaminati gli atti del concorso,li riconobbe regolari e
nell'adunanza dell'11 maggio 1907 deliberò di restituirli al Ministero senza vazioni.
La Commissione Osser. -- quando un maggior numero di uomini si strinsero
in rapporti fradi loro e furono animati dal *fine comune* (mutual goal) di *aiutarsi*
(reciprocal helpfulness) nel superare le
difficoltà per la vita, onde sivideilgrande vantaggio del lavoro collettivo,
questo fatto ebbe una grande importanza per quegli uomini e pei primordi
dell'umanità in genere.Fu allora necessaria la dimora fissa in un luogo, ciò
che dovea A. LA STORIA DEL LINGUAGGIO. diminuire loro idisagi
e le incertezze del domani.Si preferi di dimorare presso le rive dei fiumi, dei
laghi e del mare,che offrivano certi vantaggi. Risoluto il problema
dell'esistenza nell'oggi, fu reso possibile il tentativo di produrre pel
domani, allora si principio ad allevare il bestiume ed a coltivare la terra,
prendendo insegnamento, come potevano, dalla natura. Allora fu reso maggiore il
bisogno di *esprimersi* (express ourselves) e d'*intendersi* (comprehend
ourselves) in un più largo ambito e nacque nell'uomo il desiderio di ben
provvedere al suo avvenire, à quello della tribů o della piccola società ed a
ricordare la vita passata per trarne insegnamento per l'avvenire. Fu reso
ancora necessario il tradurre in segui materiali, e perció più memorabili, I rumori
e le voci di *espressione*: prima origine della scrittura e della lettura.
Ma,anche in questocaso,quando nonsitrattavadi do vereriprodurre
l'immaginesensibiledelle cose,ma di u sare segni più o meno facili ad eseguire
e da connettere alle parole, ciascuno dovette significare da principio in modo
affattoarbitrarioedinintelligibileaglialtrilepro prie rappresentazioni; e solo posteriormente
per mezzo di accordi alcuni *segni* (segnante/segnato) furono ricunosciuti da parecchi
siccome *esprimenti* alcune date *rappresentazioni*. Si *stabilirono* (Grice –
established procedure) cosi tanti segni (segnante, segnato) per quante erano le
parole in uso. Però un cosiffatto costituirsi della società primitiva non
avvenne per un aggruppamento solo, in un solo sito, di uomini e di famiglie.
Dato invece il continuo dirimersi e disgregarsi degli uomini preistorici, bisogna
ammettere che sia dovuto avvenire, isolatamente, in vari punti della superficie
della terra; e per ciascuna piccola società dovettero stabilirsi speciali segni
di scrittura e di lettura. Questi movimenti d’emigrazione e
d'immigrazione, di conquiste, raggiunte con la violenza o con lacalma e l'astuzia,
furono più frequenti nei primordi della storia; poichè in quei tempi non tutti
i bisogni individuali e sociali dell'uomo potevano essere sollecitamente
soddisfatti, quantunque fosse stato prepotente in lui il desiderio di soddisfarli.
E poichè ogni gruppo sociale migrante, come avea un complesso di parole, cosi
poteva avere un complesso di *segni* a quelle corrispondenti, avvenendo lo
stesso per la società che subiva l'immigrazione o il dominio, con la mescolanza
degli uomini dovette ancora avvenire una mescolanza di differenti linguaggi. In
questo caso il gruppo sociale più potente dovea esercitare il suo dominio sul
popolo nuovo arrivato o sul debole. Era necessario perciò che gl'imponesse
anche la propria lingua, altrimenti non sarebbe stata possibile la
comunicazione degli animi, prima condizione al vivere. Queste società col
vivere a lungo in un sito andarono incontro ad alcuni disagi per lo
sfruttamento del terreno non ancora coltivato secondo le leggi naturali o per
la distruzione degli animali boschivi o infine perchè il loro sviluppo sociale
dovea far loro avvertire nuovi bisogni o per dar nuove esplicazioni alle loro
energie. Nacque perciò in loro o in parecchi di essi il bisogno di avvicinarsi
ad altre società, sia per offrire a queste i prodotti particolari del loro
suolo e della loro industria e rice verne altri; sia per offrire loro le
proprie energie organiche dalle quali volevano trarre un profitto. L'avvicinamento
e poi la reciproca compenetrazione degl’animi avvenne per via pacifica o per laviolenza
e la forza, onde la società sopravvegnente sottomise a sè l'indigena.
-- sociale. Ma si deve anche ammettere che il popolo vinto o il nuovo
abbia in parte contribuito a modificare la lingua dell'altro, non potendosi
ammettere che esso si fosse potuto così facilmente e presto privare della sua
lingua abituale e l'altro non ne avesse subita alcuna modificazione. Cosi,come
la parola (del greco parabola), anche altri segni dovettero subire molteplici
metamorfosi in ragione del vario congregarsi e disgregarsi degli uomini, in ra
gione dei vari influssi che quelle società esercitarono fra di loro. E quando
in mezzo alla vita indeterminata delle società primitive sorse un popolo
energico e forte che acquisto di sè una coscienza superiore a quella degli altri
popoli che si sforzò di soggiogare e di dominare ed impose loro i suoi costumi,
le sue credenze, fu quello il primo popolo veramente storico e allora la lingua
di esso fu imposta ai vinti ed ammesso riconosciuto da questi. Ma un popolo che
sappia esercitare il suo dominioè destinato a vivere e a perpetuarsi. È
necessario allora che esso diventi qualche cosa di organico, che abbia un
ordinamento interno, che abbia leggi ed istituzioni. Un popolo cosi costituito
è costretto a conservare ed a coltivare la propria lingua, dando un valore
determinato alle proprie parole; perchè solo cosi è possibile il governo che
deve implicare la stabilità delle leggi e della istituzioni alle quali deve
perció connettersi una lingua determinate e fissa, altrimenti quel popolo
ricadrebbe, come, malgradociò, tende sempre a ricadere, allo stato primitivo di
disgregamento. In un popolo che vive e dura la lingua deve non solo fissarsi ma le parole di
cui consta debbono moltiplicarsi. E ciò non può non ammettersi se si considera
che una società che vive non può non compiere,per mezzo degli individui che la
costituiscono, un'attività psicologica scrutativa e conoscitiva sulla natura
circostante. Questa che da principio apparisce come qualche cosa di molto
semplice, come un tutto a sè, in ragione che più si esercita l'attività umana
sopra di essa,apparisce distinta in una molteplicità di gradi o di oggetti i
quali alla loro volta da prima appariscono indeterminati nelle molte proprietà
di cui risultano e, progressivamente, appariscono sempre più determinati. Tale è
stato il movimento della conoscenza dai primordi della storia sino ai nostri
tempi e non si è peranco arrestato. Di nessun oggetto si può dire che esso sia
stato cosi studiato ed analizzato in tutte le sue note,in tutti i suoi
rapporti, che un ulteriore studio nulla di nuovo potrebbe darci. Quantunque
questo processo di scrutazione e di conoscenza si sia eseguito sopra ogni cosa,
pure non tutti i popoli hanno all'istesso modo fatte le loro conquiste in ogni
ramo della realtà. Giacchè alcuni hanno scrutato un ramo ed hanno lasciato intatto
un altro di essa e, conseguentemente, la lingua si è più arricchita in quella
regione della natura che non in un'altra. Inoltre è avvenuto nella storia che,
come gli uomini hanno fatto un progresso nel campo della conoscenza, si sono
ingegnati di servirsi delle loro cognizioni per modificare la natura esteriore
a loro profitto, producendo una molteplicità di beni e sovrapponendo cosi
all'opera della natura una nuova creazione che è quella dell'arte. Tutte
le istituzioni sociali sono creazioni dello spirito, -- Cosi quando
un popolo emerge nell'arte della guerra e delle conquiste, come il popolo
romano, deve anche creare una nomenclatura in cose militari e guerresche. Giacchè,
anche in questo caso, ogni nuova veduta, ogni nuova invenzione, per quanto
possa sembrare poco apprezzabile, pure deve essere contrassegnata dalla sua
parola. Tale lingua non poteva riscontrarsi nei popoli che, nel movimento
storico, precedettero quelli. Ed allora la nuova lingua potrà inprosieguo divenire
patrimonio di nuovi popoli; perchè le conquiste di una nazione nel campo della
conoscenza e dell'attività pratica tendono a divenire patrimonio ed eredità
delle altre nazioni, Una nazione che emerga nel mondo pel suo dominio sul mare,
ciò che non può avvenire senza la costruzione di vascelli di meravigliosa complicazione,
come il popolo ligure, deve creare una nomenclatura marinaresca, sia per le varie
parti e di vari apparecchi di cui consta un vascello, come per la loro funzione
e per gli uomini che vi si addicono, nomenclatura che *prima della formazione
di quei vascelli non avea ragion d'essere* e che ora deve essere accettata
dalle altre nazioni che vogliono costruire nelle quali se la natura
interviene, essa non vi è come puramente tale, ma rianimata da un nuovo soffio.
La storia ci fa vedere che ogni società civile ha prodotto qualche cosa di
particolare in un ramo delle istituzioni sociali; o nelle leggi o nell'industria,
nel commercio, nell'arte militare, nelle belle arti, nella religione, nella
scienza. Corrispondentemente a questo progresso nell'attività intellettuale e
pratica, nuove forme particolari debbono sorgere che contribuiscono ad
accrescere la somma delle parole di un popolo. -- navi di quei tipi o forme,
onde quelle parole genovese o ligure debbono in massima parte essere accettate
come tali dalle altre nazioni. Anche una nuova e grande religione, come il
culto di Marte, il dio della guerra dai romani, dovette formarsi una nuova
lingua relativamente alle antiche religioni, quantunque alcune parole di queste
siano state conservate nella nuova religione, all'istesso modo che qualche cosa
del contenuto delle prime religioni si perpetua nel contenuto delle altre. E,
poichè la religione, sopra tutto la religione istituta dal primo principe,
Ottaviano, compe netra ed informa tutti gli aspetti della vita individuale e
sociale, esercita la sua azione modificatrice nella lingua di tutte le
istituzioni sociali. Nel culto romano di Marte troviamo parole che hanno un
contenuto differente da quello che avevano nei popoli precedenti o che non
ancora hanno accettato il Cristianesimo, quantunque le stesse parole possano
prima essere state usate.E, poichè il Cristianesimo è stato il punto di
partenza di un grande e lungo svolgimento artistico, teologico e filosofico,
informato ai suoi principii, si è dovuto ancora produrre una lingua atta a rendere
in tutti i loro elementi le nuove e grandi concezioni. Cosi l'attività pratica
sociale e le istituzioni contribuiscono a fare arricchire la lingua latina dei
romani. Ma infondo a questo progresso linguistico sociale dobbiamo trovare come
principale fattore l'attività individuale di un Cicerone, di un Lucrezio, di un
Varrone, di un Romolo! Come avviene delle nazioni che non fanno un passo
innanzi nel progresso dell'umanità se non per l'opera dei grandi uomini che esse
nondimeno hanno creato eeducato, avvieneanche pel progredire della lingua
dialettale – o soziale – altre l’idioletto. Giacchè gl'individui in quanto
vedono aspetti nuovi della natura o della vita s o -- Però da principio
essi hanno ricevuto dalla società in seno alla quale sono nati e cresciuti un
linguaggio che era patrimonio comune a molti; essi l'hanno solamente arricchito
in quel ramo di attività nella quale hanno espli cato la loro energia e,se
questa riguarda immediatamente la vita del popolo,potranno le nuove parole
divenir popolari, altrimenti rimarranno sempre chiuse nella cerchia dei
pensatori e degli studiosi. Così la lingua filosofica di Cicerone non è
popolare o ordinario o volgare come non è popolare o ordinaria o volgare la
filosofia, mentre il linguaggio della religione e dell'arte potrà più fa
cilmente scendere sino al popolo e divenire suo patrimonio; perchè esse al
popolo sopra tutto s'indirizzano ed in esso debbono trovare alimento. --
Pertanto se la lingua dell'arte, della filosofia, della storia differiscono in
qualche modo fra di loro, differisce anche la lingua di un cultore di quella
data branca di attività umana da quello di un altro.Così il idoletto o idioma
di Platone differisce da quello di Aristotele e di Hegel. La lingua, l’idioletto,
o l’idioma di Omero differisce da quello di Aligheri, di Shakespeare e di
Goethe. La lingua, l’idioletto o l’idioma di Tucidide e di Erodoto differisce
da quello di Livio, di Tacito, di Machiavelli. E ciò perchè ciascuno scrittore
impiega nella realtà che studia e perciò nella lingua che trova e contribuisce
a creare, quella sua attività particolare che - - -47 -- ciale contribuiscono
a formare la lingua ed imprimono parole nuove a nuovi fatti reali che si sono
scoperti od escogitati. Ippocrate, che fu il fondatore della scienza medica
nell'antichità, fu anche il creatore della lingua medica che si conserva in
fondo alla compless lingua medica moderna. Cesare dette nuove determinazioni ed
una più grande precisione alla lingua militare. -- lo spinge ad
usare nuove parole o a dare un nuovo contenuto o segnato a vecchie parole o it
nobilitarle o a degradarle. In questo modo la lingua di un popolo che, come
ogni conquista dell'uomo e dell'umanità, tende a sminuire e a perdersi, è
sostenuto dalla vita nazionale ed è migliorato dal progresso che essa fa in
ogni ramo dell'atti vità umana. Il suo progresso va di pari passo col progresso
dell'umanità, all'istesso modo che il
decadere di questa trae seco il decadere della lingua. Una nazione mantiene
integralmente la sua lingua quando una sola vita ed un solo pensiero circolano
in essa quando vi è, cioè, unità nazionale, onde tutti i cittadini hanno la
stessa educazione, la stessa coltura, le stesse aspirazioni, volgono la loro
attività allo stesso fine collettivo, partecipano intimamente agli avvenimenti
nazionali, sono animati dello stesso spirito religioso, artistico. Quando lo
spirito nazionale si affievolisce o cade, tendendo allora la lingua a
degradarsi, la scuola apparisce come una sostituzione alla vita sociale, la quale
può creare il culto della lingua nazionale, facendo interpretare e gustare i
capilavori letterari, storici e politici che quella data nazione possiede. In
questo caso la scuola può creare un movimento per un nuovo risorgimento
nazionale e per mezzo di essa può la lingua durare e vivere anche quando le
istituzioni che la formarono e la sostennero son decadute. Ma se in quei casi la
scuola manca, tutto va in rovina. Nella scuola va incluso anche il culto
per l'arte, quando questa non rappresenti il puntosalientedella vita nazionale,
come avvenne in Grecia la quale dovette la popolarità di quella meravigliosa
lingua primieramente al culto per Omero I cui canti, artistici e
religiosi insieme, venivano imparati a memoria e ripetuti e cantati da tutto il
popolo. La religione ha anche essa una grande potenza a mantenere in vita una
lingua, quando ogni altra istituzione sia perita in una nazione; perchè essa,
tendendo a difondere un complesso organico di principii e di massime a tutto un
popolo, in modo che tutti gl'individui vengano illuminati e spinti all'azione
da essa (e già la religione esercita la sua azione in tutti i fatti della vita,
onde la lingua religiosa penetra in ogni cosa), deve tenere perciò vivo il
culto per la lingua nazionale. Quando queste condizioni mancano la lingua
sidiscioglie,soprat tutto se quella nazione continua ad essere ilcentro d'im
migrazionedialtripopoli,come avvennedell' Impero Ro mano dopo la sua caduta,in
cui, con la invasione dei barbari, quando la scuola mancava, nuovi linguaggi e
nuovi costumi penetrarono che dovettero affrettare la disorganizzazione di quella
lingua in tanti linguaggi particolari a varie provincie e luoghi, varianti fra
di loro secondo che varie erano le nuove condizioni di ciascuno. Alcuni di
questi particolari dialetti più tardi divennero
ancheessinuovelingue,quandoapparvero ipoeti,gli
oratori,glistorici,ilegislatori,ireligiosi, i quali, per adattarsi al popolo al
qualedoveano volgerel'operaloro, dovetterobeneconoscereilnuovolinguaggio
ed,usan dolo, gli accrescevano prestigio e destavano il culto per esso. In
questo modo una grande lingua si discioglie e gli altri linguaggi che vengon
fuori da quella dissoluzione possono di nuovo nobilitarsi e divenire
storici. La lingua tedesca non sarebbe divenuta una nobile e bella lingua
se Lutero,col movimento religioso che egli. Risulta da quel che si è detto che
non è stato un solo il popolo storico, ma vari,quantunque però si debba a m
mettere che questi si sieno manifestati in una regione piuttosto che in
un'altra del mondo e che vi sieno stati p o poli storici di cui non sono
rimaste vestigia;perchè la parte che essi hanno rappresentato per la storia
dell'u manità in genere non è stata di grande importanza, onde non sono
divenuti centro di attrazione di altri popoli e non hanno avuto perciò
l'energia di sottometterne e di dominarne altri. All'istesso modo che ogni
popolo ha una storia parti colare e comparisce e sparisce dal teatro del mondo
e ad un popolo si succedono altri popoli ed ognuno ha la ere dità degli altri
ed ha insieme aspirazioni, tendenze ed uno spirito proprio,si foggia ancora in
modo particolare la propria lingua. E come il suono o la voce è l'espres sione
dello stato interiore psichico indeterminato dell'a fondo ed inizio, in
cui dovea avere gran parte la cultura del popolo, non avesse destato un culto
per essa.I grandi poeti tedeschi, gli storici, i filosofi, gli
scienziati,animati dallo spirito della riforma,contribuirono poi a rendere
importante nel mondo e nella storia quella lingua. L'a vere la Grecia
conservata, dopo la sua caduta, la sua antica lingua la quale, tenuto conto dei
mutamenti necessari che in essa son dovuti avvenire pel progresso del pensiero
umano, si è continuata nella lingua greca moderna, si deve all'essere essa, dopo
la sua caduta, stata quasi tagliata fuori dal grande movimento del mondo, il
cui centro divenne ROMA, e al non essere più essa stata fatta segno alle
invasioni e alle immigrazioni di altri popoli. Quando, dopo la rovina
dell'impero romano,il pen - -- animale o dell'uomo, anche la lingua, nel
complesso si stematico delle sue parole, è l'indice dello stato intellet tuale
di un popolo,della sua storia,del grado dellasua eticità,della sua
energia,delle sue aspirazioni economi che, artistiche, sociali, religiose, scientifiche.
Sicchè, conosciuta la lingua di un popolo, ci è dato conoscere la sua vita
naturale e spirituale; perchè nulla è nella vita naturale e spirituale degli
uomini che non sia in qualche modo nel suo linguaggio. Diciamo in qualche
modo,per «chè la lingua non è l'espressione perfetta della vita e del movimento
della psiche. Le parole di cui il linguaggio consta sono sempre vi 'brazioni
tradizionali,empiriche o convenzionali per espri mere alcune rappresentazioni o
azioni o energie delle cose;'sono perciò involucri naturali ed estrinseci in
cui si avvolge la coscienza e la mente per esprimere la realtà delle cose e
degli avvenimenti; la cui ricchezza di par tivolari, d'intrecci e di energie è
profonda ed inesauribile. Sono perciò una pallida immagine della realtà e della
mente,quantunque siano però qualche cosa di superiore e di più perfetto
relativamente al linguaggio indetermi nato.Equandovièdissdiotrarealtàelingua,dimodo.che
quella apparisce alla mente nel suo progresso di complicazione,mentre la lingua
si pietrifica, questa diviene un impaccio alla espressione dellamente che di
continuo si muove e si svolge; ed è solo rompendo questo in volucro sensibile e
dandogli un valore più nuovo e più altochesi
possonointendereemanifestarelepiùascose pieghedel pensieroedella mente;giacchè
per inten dere il pensiero non vi vuole che il pensiero. Ad ogni modo la
mente nella sua progressiva forma-. zione si sforza di creare il suo linguaggio;
perchè il linguaggio serve pel pensiero;e foggia nuove parole o nuove
combinazioni di parole o dà un nuovo significato alle vecchie parole. E perció
la storia ci fa vedere che quelle nazioni che sono state ricche di pensiero,co
inella sfera di attività pubblica e sociale,come nella s'era artistica, religiosa,
scientifica, hanno avuto una lingua an
corariccadiparole,dilocuzioni,diflessioniper espri mere i più fuggevoli moti
della realtà e dello spirito; ed in quella nazione in cui la vita del pensiero
è stata poverit o nascente si è ancora avuta una lingua povera. di parole e di
uso. Ciascuno di questi gradi dell'evoluzione del linguaggio è l'espressione
dello stato psichico e cerebrale di quei dati popoli, stato in parte ereditato
in parte acquisito; dello stato degli organi vocali e dell'ambiente cosi na
turale come etico che gli uomini si sono creato ed in cui sono vissuti.Queste
tre seriedi fattori hanno la parte principale nella storiadel
linguaggioe,secondo il grado. -- del loro accordo dello sviluppo di esso, costitu'scono
la lingua peculiare di un dato popolo. -- siero cristiano che porto seco una nuova
civiltà,più pro fonda e più complessa della romana, a poco a poco si sostituiva
alle vecchie istituzioni, LA LINGUA DEL LAZIO non potè essere più adatta ad
esprimere il nuovo pensiero, sopra tutto dopo le invasioni barbariche; e se fu
colti vata dalla Chiesa e dai dotti,questi per entrare in re lazione col popolo
e partecipare perciò alla vita.nazio nale, dovettero usare il vulgare. Qualche
cosa di analogo avviene nella storia dell'in è psicologicamente
molto simile agli animali, emette an.che esso dei suoni indeterminati. Ma in
ragione che ac. quistano maggior sviluppo i sistemi del suo organismo e gli
organi vocali e le sensazioni acquistano maggior pre cisione funzionale, il
bambino si assimila gli elementi delle voci o delle parole che ode intorno a
sè,assimila zione che è resa facile da predisponenti condizioni ere ditarie, le
riferisce alle cose con cui è in rapporto, le fissa nella memoria, si sforza di
pronunciarle,riuscendovi male da principio;ma dopo unalunga esercitazione,ar
riva a pronunziare bene ed a mano a mano non solo al cuni monosillabi, ma anche
parole più o meno semplici. Nella storia del fanciullo si ha insomma come
riepilogo quello che è avvenuto nella lunga storia dell'umanità; cosi il
bambino da poco nato non ha altro modo per esprimere isuoi stati interni che
ilgrido,ilpianto,che sono poco più che un moto riflesso, una forte sensazione
che si estrinseca per le vie del respiro. - dividuo. Come il grido
indefinibile che l'animale emette •è l'espressione dello stato indeterminato
dei sentimenti che lo agitano e dello stato informe delle rappresenta
zionichelomuovono,come dellapovertàdeicentridelsuo:sistema nervoso, cosi il
bambino che nei suoi primi anni 53 Abbiamo usato promiscuamente la parola
linguaggio e lingua; m a è bene dichiarare che la lingua implica m a g giori
determinazioni che non il linguaggio che è qualche cosa di più generale ed
inderminato relativamente ad essa. La linguaè un linguaggio
divenutoclassicoostorico,con nesso cioè ad una vita nazionale, per cui ogni
parola ha una storia e le cui origini si possono seguire anche in altri
linguaggi che sono presupposti della lingua che si Dopo che le
parole son divenute storiche, sono state cioè connesse ad un segno
materiale,possono continuare, sopra tutto in tempi in cui le lingue si formano,
ad a vere una storia circa alla loro struttura. Ed anzi tutto pare non si debba
ammettere che, quando LA LINGUA PREISTORICA abbia principiato a divenire
STORICA, si fossero tra dotte in segni materiali tutte le parole parlate.
Invece si deve aminettere che queste dovettero essere moltissime neila
lorogradazionedipronunziadaindividuoad iudiv'duo, da tribà a tribù, per la
ragione detta precedentemente. E quando si volle tradurre in segni una parola
la quale aveva immense gradazion,essi furono appunto quasi una. somma di una
molteplicitii di parole parlate le quali se: poterono fissarsi in segni non
poterono però definitivamente fissarsi in un tipo di vibrazione fonica ad esse
corrispon denti,quantunque pero questo fosse stato il fine dell'in venzione dei
segni materiali e della scrittur a e questo. fosse anch e il fine
dell'inseegnamento della lettura. Da ció segue che le parole parlate furono
moltissime relativamente alle impresse. Stabilitasi la forma della parola
parlata e della i m pressa non si tenne più alcuna ricordanza della deriva-.
zione primitiva di essa nè si pensó più a modellare le: parole sulle forme
delle vibrazioni naturali. Dovette per - -- studia. Si può dire ‘lingua’
della natura, ‘lingua’ degli animali, ‘lingua’ dei bambini, ma non lingua senza
quotazioni. L'uomo che per morbi perde la facoltà di parlare che prima posse
deva in modo perfetto, non *parla* più la lingua, *ha* però una lingua. La
condotta dell'uomo si può chiamare una ‘lingua’ in quanto manifesta per mezzo
di una. serie di atti tutto un concetto interiore della vita. -- ció
necessariamente ammettersi che i primi popoli storici dovetterò averə ciascuno
una nomenclatura e corrispondenti forme d'impressione e di scrittura e,nel loro
con tinuo movimento di espansione e di concentrazione, tutto dovette mutare fino
a che un popolo non raggiunse la sua stabilità. Ma anche allora la stabilità
della lingua non fu definitiva. Abbiamo detto che la parola è qualcosa di molto
più complesso del semplice suono o della semplice voce o esclamazione o della
semplice imitazione di suoni o rumori naturali, quantunque derivi da essi -- è
già un suono o più suoni e rumori connessi che complessivamente e sprimono una
rappresentazione formata od un'azione od un concetto.Vi sono perciò parole di
pure voci o suoni, altre di puri rumori ed altre infine risultanti degli uni e
degli altri. Studiando l'acquisizione della loquela nel l'individuo vedremo
come egli dall'attività più semplice passa alla più complessa, cosa che,come
avviene ora nel l'individuo, si veritica anche nella storia dell'umanità in
genere.Dovettero perciò iprimi uomini da principio
pronunziareparolerisultantidipurevociodipuri ru mori; anche allora, o più tardi
poterono pronunziarsi monosillabi,che sono l'unità di un rumore edi una voce.
Il mono-sillabo è perció la parola più conforme alla possibiliti tisiologica e
psicologica di esecuzione fonica dei popoli primitivi e rappresenta la
vibrazione primitiva della cosa,trasformata dall'attività fisiologica e psicolo
gica degli uomini.Le lingue dei primi popolifurono per cid monosillabiche.Ed a
questo proposito possiamo noi indagare se le lingue primitive fossero più o
meno ric che di parole delle lingue moderne o in generale delle lingue più
complesse. E bisogna dire di si se si pensa che, quantunquepei primi popoli storici
il mondo esteriore fosse qualche cosa di molto semplice, pure, nel ri produrre
gli oggetti essi teneano conto solo della vibra zione la quale era varia
d'intensità nelle cose ed era ancora più variamente ripetuta od imitata dagli
uomini di una popolazione e dalle varie popolazioni. Onde varie parole doveano
primitivamente indicare la stessa cosa. Anche perché, potendo una stessa cosa dare
vibrazioni differenti, essa veniva indicata con quella tale vibrazione della
quale più s'interessava il soggetto. Cosi il cavallo poteva essere indicato pel
suo nitrire, per lo scalpitare, pel m ovimento della criniera, pel rumore che
fa nei masticare il cibo, per la velocità nella corsa, ecc. cosa assumeva. In
tal caso la parola monozillabica primitiva si dice -- Per questa ragione
le parole dovettero molto più delle cose esse represe in considerazione. Ma in tempi
più progrediti abbiamo una lingua più complessa, in cui cioè le parola o la
maggior parte di esse sono risultanti di più sillabe; e in questo caso le
parole monosillabiche non spariscono. E questa le lingue poli-sillabiche o la
agglutinante o l’articolata. Perchè in esse la sillaba si collegano o si
articolano con la sillaba. La parola poli-sillabica potè divenir tale o perchè
mono-sillabi di una lingua si vide che corrispondevano alla stessa cosa, di
modo che, pronunziandole insieme due o più esigenze venivano conciliate. O perchè
una sola sillaba assume una voce nuova secondo che la nuovi movimenti; perchè
le cose assumono ancora nuove energie se l'attività scrutatrice del soggetto si
esercita.su di esse. radice la quale non cessa di essere parola,
perchè esprime una rappresentazione, per quanto indeterminata, ma è considerata
come una parola elementare la quale è come il ceppo comune ed originario di
altre parole. Essa, entrando in rapporto con altre parole più o meno semplici o
pure assumendo varie flessioni, si complica in modo da esprimere una
rappresentazione più complessa o un concetto. Se la lingua mono-sillabica,
esprimendo rappresentazioni indeterminate, e la LINGUA PRIMITIVA, la lingua
agglutinante o articolata segnano un *progresso* relativamente alle precedenti.
Perchè in essa, una parola poli-sillabe e un complesso di al meno due parole mono-sillabe
e perció si parlano da quei popoli nei quali è più sviluppata l'attivitàr appresentativa,
onde un solo mono-sillabo non sempre è sufficiente ad esprimere una rappresentazione
molto complessa. La lingua del Lazio, la maggior parte delle cui parole hanno
flessioni, in cui la “radice” e il “tema” assumono varie forme e una lingua
flettente. E quella che han raggiunto il maggior sviluppo possibile e puo costituire
l'espressione di una tela organica di concetti e di un pensiero dalle più
ricche gradazioni e di sfumature appena apprezzabili. In tale lingua, il nome sostantivo
o aggetivo ed il verbo assumono flessioni (declinazione e congiugazione) e
mediante tali forme si esprimono i vari rapporti delle cose e l'avvenimento
dell'azione nei vari gradi di tempo e di condizione in rapporto con l'avvenimento
di altre azioni. Una lingua flettente e perció *posteriore* anche alla lingua agglutinante,
quantunque non bisogna credere che, quando esse appariscano, le parolea gglutinanti
e monosiilabiche non esistano più. Esse sono le ultime apparse nella
storia - Con lo sviluppo della lingua del Lazio va di pari passo lo sviluppo
del mondo logico. Giacchè sono due aspettidiuna stessa cosa.. Il pensiero e la
sua manifestazione sensibile. Non si può ben comprendere l'importanza della
lingua del Lazio senza vedere l'importanza dell'energia logica che è inclusa in
esso, la quale sottratta, l'attività della loquela rimarrebbe un fenomeno
puramente fisico e *fisiologico* ma non umano, o pure sa rebbe l'espressione di
uno stato interno indeterminato. delle lingue, e sono state parlate e
scritte da popoli ricchi di pensiero e di azione. Se dunque le lingue ultime
dei popoli civili, che noi crediamo le più perfette, perchè ricche di flessioni
(onde tra queste bisogna comprendere la latina o lingua del popolo del Lazio)
ha avuto una così lunga e avventurosa istoria ed alla loro formazione hanno, piùo
meno immediatamente, con corso tanti e cosi disparati elementi e lingue di
minore perfezione e lingue anche complesse e ciascuna lingua, per quanto
immediata sia, risulta di elementi molteplicissiini ed accidentalissimi (per
quanto vi sia qualche cosa di costante),comparisce chiaro quanto debba essese
difficile, fare una compiuta anatomia della lingua del Lazio ed assegnare a
ciascuno elenento di essa, a ciascuna parola di cui essa risulta, il suo vero
valore e la sua vera istoria. Bello stesso; Sonno e sogni. E. Trevisini, Milano-Roma
scolastico. E. Trevisini,Milano-Roma. Ilparlare, il leggere e lo scrivere nei bambini,
saggio di 00 1 Saggi di pedagogia:(ilproblema dell'educazionemorale. Le donne
dei Vangeli. Successori Le Monnier, Firenze. La rappresentazione psicologica è
l'immagine che l'oggetto della percezione lascia di sè nel campo co sciente
quando è sottratto all'azione stimolante che esso può esercitare sugli organi
dei serisi del soggetto. Questa rappresentazione è tanto più indeterminata ed
imprecisa per quanto più l'oggetto che l'à prodotta risulta di un numero grande
di qualità e di note,per quanto più breve è stato il tempo che essa ha agito da
stimolo sul soggetto, per quanto meno sviluppata è l'attività percettiva
cosciente del soggetto e per quanto meno questa si è esercitata su di esso. Non
vi è oggetto del mondo esterioreilquale,dopo l'osservazione volgare e
dopo lo studio scientifico, non risulti di una molteplicità di note e di
qualità ed in cui queste qualità non abbiano un determinato grado d'intensità;
ma queste note non appariscono determi nate e distinte fra di loro innanzi al
soggetto quando I. 1. l'oggetto gli si presenta d'innanzi per
laprima volta o quando per la prima volta l'anima principia ad es sere attività
cosciente;allora l'oggetto apparisce come un tutto indistinto,anzi apparisce
come una nota sola. Cosi appariscono il mondo esteriore e gli oggetti di esso
al bambino nel primo sbocciare della sua coscienza e cosi devono essere apparsi
all'uopo primitivo che non ha avuto una potente attività scrutatrice; ed in
questa stessa posizione è l'uomo moderno dirimpetto a quelle cose più o meno
complicate che gli si parano d'innanzi per la prima volta e che non ha avuto il
tempo di scrutare. In ragione che l'attività cosciente si esercita sempre più
intensamente sul mondo este riore gli oggetti a mano a mano appariscono come
distinti gli uni dagli altri ed in ciascuno oggetto la nota uniforme e
primitiva che lo designava si pre senta progressivamente moltiplicata in più
note dif ferenti. a mano ad affievolirsi, a divenire sempre più
imprecise, a perdere una parte delle note che le costituiscono e lentanente a
sparire quando non vengano rianimate, mediante nuove percezioni degli stessi oggetti
che le han prodotte, nella coscienza; 10 Se l'attività del soggetto si
esercitasse sulla rap presentazione dell'oggetto già percepito piuttosto che
sull'oggetto ripetutamente percepito, non vi sarebbe progresso nella
scrutazione dell'oggetto, anzi vi sa rebbe regresso;perchè èlegge psicologica
infallibile che le rappresentazioni degli oggetti già percepiti tendono a
mano mentre la ripetuta azione del soggetto sull'oggetto fa sempre
scoprire di questo nuovi aspetti e nuove re lazioni;ed a questa condizione la
rappresentazione dell'oggetto sempre più si arricchisce e si compie e risponde
più precisamente all'oggetto reale. Si può fare a meno dal percepire più oltre
l'og getto e considerare solo la rappresentazione in sè stessa quando esso è
stato cosi studiato ed analizzato e scrutato che un ulteriore studio non
aggiungerebbe nulla di nuovo allarappresentazione diesso,laquale però, perchè
si mantenga integra, deve spesso ripro. dursi nel campo della coscienza.E ciò
può sopra tutto avvenire quando l'oggetto che si studia risulta di poche
qualità e determinazioni; ma quando l'oggetto è ricchissimo di struttura, di
organi e di funzioni, quando presenta un vasto e ricco sistema di fatti e di
fenomeni, riesce quasi impossibile rappresentarlo compintamente, senza che
alcuni aspetti di esso non sfuggano alla coscienza o non spariscano da essa.In
questo caso il soggetto, per quanti sforzi faccia ad apprendere e conservare la
rappresentazione compiuta · dell'oggetto,non può fare a meno dal tornare a per
cepire spesse volte l'oggetto del suo studio per sem pre meglio comprenderlo e
conservarlo. Sicché,parlando qui della rappresentazione psico logica, non
s'intende dire che quella rappresentazione la quale rimane nel soggetto dopo la
ripetuta azione di esso sull'oggetto: ciò che è la rappresentazione
dell'oggetto percepitu. Ed è questa la condizione pilt - 11
importante perchè la rappresentazione psicologica possa divenire obbietto
della logica, quantunque non sia primitivamente tale. La rappresentazione della
sensazione pura o lo stimolo della sensazione non può mai divenire obbietto
della logica; perchè la sensa zione non consta che di certi stati dell'anima,
che sa distinguere e che anzi attribuisce a sė stessa, senza riferirli allo
stimolo: e ciò per quegli animali che per tutta la loro vita rimangono nella
cerchia della sensazione pura.Ma nell'animale e nel l'uomo che rimane solo
temporaneamente nella cerchia della pura sensazione dove stimolo ed animo si
con fondono e che oltrepassa questa cerchia per divenire percezione e coscienza
che è dualità tra l'anima che ora diviene soggetto e lo stimolo che diviene
oggetto, ciò che prima ha determinato la sensazione (lo stimolo) può divenire
oggettodellapercezioneedellacoscienza e poi della logica; anzi non vi è oggetto
della logica che non sia oggetto della coscienza. Onde segue che la materia
prima del mondo logico è fornita dall'oggetto della percezione che è l'oggetto
della coscienza, senza del quale non potrebbe darsi attività logica di sorta;
perchè l'attività logica del soggetto si deve esercitare sempre sopra un
oggetto, come il soggetto non diviene attività logica senza la sua relazione
coll'oggetto. Il soggetto cosi diviene at tività logica, non nasce tale e la
sua attività dere esercitarsi o sull'oggetto naturale esteriore o sulla
rappresentazione interiore di esso, essa non 12 In una zona
logica cosi ampia non va compreso solamente l'uomo superiore con la sua potente
ener gia logica, nè solamente l'uomo medio con la sua or -13- pura Però
il passaggio nel soggetto dalla pura sensa zione alla logica non è
rappresentato da una linea cosi precisa che si possa dire: Di là dalla linea vi
è tutto il mondo delle sensazioni, di qua vi è tutto il mondo logico
compiutamente formato; giacchè, come avviene in ogni sfera che passa in
un'altra sfera, quella che passa non è completamente esclusa come tale da
quella in cui passa. E non bisogna credere che, superato una volta il confine,
questo sia supe rato per sempre; perchè la vita della o
dellerappresentazionidisensazionipuòtornarecome puramente tale anche quando una
volta si sia pene trati nel campo logico.Inoltre è difficile per lo stu dioso
tracciare questa linea in cui l'anima cessa di essere meramente sensitiva e fa
il primo ingresso nel campo logico. Come ogni grado dell'esistenza,la logica
occupa una determinata zona, chiusa fra due determinati limiti, di cui l'uno
rappresenta il minimo della logicità,tanto
chedilàdaquestolimitenonvièattivitàlogicane obbietto logico e l'altro
rappresenta l'entità logica nel suo più alto grado.Dal primo all'ultimo limite
il mondo logico compie un processo che implica una progressiva perfezione,per
cui, partendo dal fatto puramente sensitivo, si allontana sempre più da esso
per divenire entità logica compiuta. sensazione dinaria potenzialità
logica; ma ancora l'uomo volgare, il fanciullo, gli animali superiori ed alcune
specie degli animali inferiori che arrivano a percepire.Però se, come avviene
in ogni sfera dell'esistenza che ha una serie di gradazioni, la sfera logica
presenta un sistema cosi ricco di gradazioni le quali passano l'una nell'altra
in modo appena apprezzabile, tanto che è quasi difficile distinguerle, pure si
può dire che tutte queste gradazioni vanno comprese in tre grandi sot tozone le
quali possono chiamarsi la logica meccanica o estrinseca, la logica chimica o
intima e la logica organica. La prima zona,rappresentandoleformelogichepiù
elementari, se può stare di per sè come pura logica meccanica, si ritrova però
anche nelle due zone sus seguenti; e cosi la sfera chimica si ritrova ancora
nella sfera organica che è la più compiuta. In generale si può dire che
l'oggetto della perce zione ovvero la rappresentazione di esso principia a
mostrare il primo movimento logico allorché cessa di apparire innanzi al
soggetto come risultante di una sola qualità naturale,ma apparisce come
distinto in due o più qualità connesse in qualsiasi modo fra di loro ed allora
si ha la forma primitiva della rappre sentazionelogica.Una
qualitàsolaedincomunicabile ad altre qualità e zon trasformabile non fornisce
al cuna materia logica.E se un fatto naturale,secondo che è più scrutato dal
soggetto, comparisce sempre più ricco di qualità e si vede la ragione intima
per 15 cui le varie qualità convengono all'oggetto,è chiaro che
esso diventa progressivamente obbietto di una entità logica superiore. Ma può
avvenire ancora che,dopo uno studio più profondo e comprensivo fatto
sull'oggetto,questo ap paia innanzi al soggetto come intimamente connesso ad
altri fatti esteriori ad esso, tanto che senza di questi non potrebbe essere
quello che è. E,se vi sono oggetti le cui note ed i cui rapporti sono immobili
e fissi, ve ne sono altri in cui le qualità che li costi tuiscono ed i loro
molteplici rapporti con enti fuori di essi si trasformano e cangiano. È chiaro allora
che l'entità logica dell'oggetto si accresce e si complica. Può avvenire ancora
che l'oggetto che ora è studiato comparisca come l'ultimo risultato di una
storia spe ciale propria o di una storia di altri enti simili o dis simili da
esso; onde l'importanza delle note attuali che lo costituiscono si accresce e
mostra cosi una n a tura assai più elevata.La rappresentazionelogicaha cosi una
considerevole latitudine; perchè principia quando il soggetto vede almeno due
note nell'oggetto e si conserva ancora quando si è scoperto in esso un numero
grandissimo di qualità. Si è detto e ripetuto che è il linguaggio che segna
nell'uomo ilprimo apparire delle attivitàlogiche.Ma non si considera che la
parola linguaggio, avendo un largo contenuto esignificandoqualsiasimanifestazione
dei fatti interni psichici,siano sensitivi che rappresenta tivi ed emotivi,ha
una larga applicazione cosi nel campo animale come nel campo umano;onde
non si vede con determinazione la necessità del coesistere solamente nell'uomo
del linguaggio e della funzione logica,si deve però ammettere che la lingua che
è un linguaggio formato e divenuto classico (onde vi è differenza tra
linguaelinguaggio),quandoèbeneusata dal sog getto uomo,può far vedere in questo
le più grandi energie logiche,all'istesso modo che una lingua im perfetta o
poveramente usata può manifestare nell'uomo rudimentali qualità logiche. Però
non si può concedere che deva necessariamente intervenire la lingua per potersi
trovare nella sfera logica e perpoterecompierefunzionilogiche.Individui nati
muti o sordo-muti possono compiere con grande coerenza logica i loro atti,
all'istesso modo che la lo quela non sempre rivela una perfetta energia logica,
come avviene per disordini nervosi e mentali o per ritardato sviluppo di tutte
le attività psichiche. Al l'incontro ciò che è indispensabile perchè il
soggetto compia le più elementari funzioni logiche è l'oggetto della percezione
e la rappresentazione molteplice del l'immagine di esso, come è manifestato
dagli atti e dalla condotta che gli animali e l'uomo non ancora parlante hanno
verso quegli oggetti sui quali si eser cita la loro attività e dal giovarsi che
l'animale fa dialcunequalitàdeglioggetti.E larappresentazione molteplice
dell'immagine degli oggetti è anzitutto necessaria ancora per l'uomo logico che
parla,la r a p presentazione e l'esecuzione della parola udita, par
16 lata e scritta non essendo che un'altra specie di r a p
presentazioni specialideglistessioggetti sopraggiunta alla prima;per cui illavoro
psicologico elogicodel l'uomo è assai più complicato di quello dell'animale,
anche perchè, per la sua grande energia psichica, l'uomo moltiplica le
rappresentazioni relativamente semplici che delle cose hanno gli animali,onde
il lin guaggio diventa nell'uomo assai più intricato e com plesso. Segue da ciò
che il linguaggio umano è una nuova aggiunta che si fa alla rappresentazione
pri mitiva dell'immagine delle cose; ma rimane sempre questa l'obbietto delle
attività logiche cosi animali come umane. Questo è ancora dimostrato dalla
patologia del lin guaggio umano;poichè è statoconstatatoche,quando l'uomo perde
la memoria della immagine percepita delle cose e conserva la ricordanza della
parola udita, parlata o scritta,che ad essa corrispondono, la sua lingua è
divenuta un caos; perchè, essendo perduto il nesso tra la cosa e la sua parola
udita e parlata, l'attività logica non si può esercitare sulle parole, perché
non si può esercitare sulle cose, come allora è manifestato dalla sconnessione
e dalla incoerenza del linguaggio. -1 Del giudizio e dei suoi
elementi. Quando il soggetto distingue per la prima volta un dualismo
nell'oggetto, cioè da una parte quello che, prima di questo atto
psichico,costituiva tutto l'og getto, indistinto nelle sue qualità, e dall'altra
quello che scorge ora in esso mediante l'atto di distinzione e vede che questo
è connesso con quello in modo che senza di esso non sarebbe,si fa quel che si
dice un giudizio. Sicché per avere un giudizio occorrono due fatti distinti fra
di loro ed un atto psicologico che li connetta.Però bisogna
considerarequestitreelementi di cui consta il giudizio come dati tutti e tre
insieme nello stesso atto. Dei due fatti che possono dirsi anche termini,perchè
significati con parole, il primo, quello che prima del l'atto psicologico
faceva una sola cosa con la qualità che ora si distingue da esso e che meglio
osservato e scrutato può mostrare altre qualità inerenti a sé,onde può divenire
obbietto di altri giudizii,si chiama sog getto;la nota che gli si attribuisce
sidice aggettivo - 18 II. od attributo; l'atto psicologico
col quale gli si attri buisce è il verbo. Bisogna bene intendersi sul
significato della parola soggetto che si usa nel giadizio. In generale soggetto
significa ente attivo, ente operoso. Si chiama soggetto l'anima cosciente e
distinguente sè dall'oggetto e nel l'istesso tempo l'anima che esercita la sua
attività sul mondo esteriore che considera come suo oggetto. E poichè
dall'animale inferiore all'uomoedall'uomoemi nente per pensiero e per azione
questa attività cono scitiva ed operativa sempre più si afferma e cresce, è
cosi che la parola soggetto,quantunque possa ap plicarsi indistintamente alla
serie degli enti animali, pure compete in sommo grado all'uomo ed all'uomo che
abbia la più grande energia nel campo del pen siero e dell'azione. Intesa cosi
la soggettività, scendendo dall'animale alla pianta, sembra non essere più il
caso di dovere applicare la parola soggetto;ma,poichè la pianta è un organismo
dutato di attività la quale consiste nel compiere una serie di funzioni
interiori per le quali è continuamente messa in rapporto coll'ambiente este
riore ad esso (aria,luce,terreno)e manifesta, quan tunque in modo assai più
imperfetto di quel che si compia nell'animale, per mezzo di una serie di feno
meni esteriori, i suoi fatti interiori ed il suo orga nismo compie una storia,
pure si può concedere il nome di soggetto alla pianta la quale cosi manifesta
anche essa una certa energia. 19 Ma igrammatici ed ilogici
hanno anche dato il nome di soggetto non solo ad ogni opera dell'uomo, che può
considerarsi come un tutto armonico in sé, avente un determinato fine,ma ad
ognipartediessa, ad ogni ente della natura inferiore ed inorganica o
adunframmentodiessa,adogni minerale,adogni fatto ineccanico o chimico e financo
hanno consi derato come soggetto le qualità e gli attributi stessi delle
cose.Però l'uso che in questo caso i gram matici hanno fatto della parola
soggetto può essere giustificato,considerando che ciascuno degli enti in
feriori agli enti organici e psichici è sempre un com plesso, anche quando sia
semplice parte, di qnalità o proprietà concentrate e connesse insieme; onde,
rigo rosamente parlando, non si può negare ad essi una certa energia senza la
quale le proprietà non potreb bero esistere in essi; possiamo chiamare questa
energia, meccanica, fisica o chimica; ma è sempre una energia E non si può non
concedere che le qualità stesse che si considerano come attributi delle cose
possano essere considerate ancora esse come soggetti,quando si riconosce che
ciascuna qualità,essendo inerente a molti soggetti i quali hanno altre
proprietà differenti, contribuisce in modo differente all'energia di ciascuno
di essi. Cosi quando si parla della gravità che è una proprietà dei corpi, si
vede che essa si manifesta di versamente secondo che si tratta di an corpo
gassoso o di una pietra o di un liquido o di un pendolo o del sistema
planetario. 20- Quando ilsoggettodelgiudizioèconsiderato o
stu diato dal soggetto psichico allora può anche chiamarsi oggetto; perchè, quantunque
attivo in sè, è sempre qualche cosa di passivo relativamente al soggetto psi
chicoilqualeesercitalasua azionescrutatricesudiesso. - 21 Il secondo
termine del giudizio, cioè quella qualità o quella determinazione che,
quantunque insita nel soggetto o estranea ma conveniente ad esso,per mezzo
dell'atto psicologico gli si riconosce come connessa, è stata chiamata dai
logici attributo o predicato.Rap presentando il soggetto un gruppo di proprietà
dif ferenti, suscettivo di ulteriori giudizii,e l'attributo una sola qualità o
determinazione,è chiaro che questo può essere applicabile a più soggetti, non
essendo ciascun soggetto costituito di attributi assolutamente speciali a sé;
ma in mezzo ai tanti attributi comuni a molti soggetti ha solo qualcuno che
conviene esclu sivamente a lui. Dei molti attributi che costituiscono un
soggetto una parte sono sensibili o percettibili per mezzo degli organi dei
sensi. Ogni oggetto del mondo esteriore è fornito di peso,ha una grandezza
variabile, una re sistenza, è situato ad una certa distanza dallo spet tatore,
ha una forma fissa o cangiante,un colore,una composizione mineialogica, chimica
o organica, può presentare una struttura determinata, uno stato ter mico, può
vibrare in modo differente nella intimità clelle sue molecole, può esercitare
un'azione più o meno irritante o elettrica o offensiva sull'organismo
del soggetto,può dare speciali odori,può essere gn. stato per mezzo della
lingua. Ma vi sono altri attri buti i quali non sono percepiti per mezzo degli
or gani dei sensi ma vengono compresi mediante un atto della mente, quantunque
le attività percettive possano contribuire o avere contribuito alla
comprensione di queste nuove specie di attributi. Sono tutte quelle qualità che
riguardano la provenienza od il fine del soggetto,isuoirapporticon
altrioggetti,lasuaazione favorevole o nociva su di essi o viceversa. Inoltre il
soggetto acquista attributi non semplicemente sensi bili quando desta in noi
stati interiori piacevoli o do lorosi,ricordanze,speranze etimori,ma qualche
cosa di più che sensibile, poichè in quel caso viene scossa l'intimità della
nostra vita interiore. 22 Quantunque a primo aspetto sembri che ogni at
tributo sia una qualità semplice e non suddivisibile in altre qualità,benchè
una qualità possa averevari gradi d'intensità, ciò che non la fa considerare
come qualche cosa di fisso, pure può una qualità essere il risultato di un
sistema di altre condizioni o attributi. Quando diciamo che l'animale è
sensibile,la nota della sensibilità pare che sia una qualità sola; ma, se si
pensa che per essere sensibile l'animale deve im plicare una serie di organi e
di funzioni e di condi zioni esteriori all'organismo, si è costretti ad ammet
tere che quest'attributo è come la risultante di fatti molto complessi, non è
dunque un attributo semplice. Se diciamo che Giulio ė ragionevole
quest'attributo è 2:3 Il soggetto e l'attributo non potrebbero
costituire il giudizio senza l'atto psicologico col quale l'uno ė connesso con
l'altro; senza questo atto i due termini non avrebbero fra di loro altro legame
fuori quello accidentale della coesistenza e della successione, che è un legame
psicologico, non logico. Rigorosamente parlando,è quest'atto che costituisce
ilverogiudizio; però senza i ter.nini esso non potrebbe essere, non sarebbe che
una mera possibilità. Questo atto che è espresso dal verbo è quella scrutazione
che l'anima attiva fa tra i due termini, per la quale si riconosce che l'uno è
connesso indissolubilmente,intimamente e necessariamente con l'altro.Questo
nesso intimo che lega i due termini è un fatto obbiettivo delle cose, non è una
pura produzione dell'atóività psicologica, però non si pno pervenire ad esso
senza l'attività picologica. È questa un'alta attività a cui l'anima umana per
viene;perché per mezzo di essa può internarsi nella natura dell'obbietto,
vederne il movimento, compren derlo ed assimilarselo. Sicché non si arriva al
fatto logico senza l'attività psicologica e senza di questa l'energia logica
rimarrebbe nella inconsapevolezza delle cose naturali, rimarrebbe per sempre
muta ed inco municabile ad alcuno, Per questo vgni atto giudica di una
natura cosi complessa che deve presupporre un ricco sistema di condizioni
perchè possa darsi. L'attributo ragionevole perciò non implica un fatto cosi semplice
come l'attributo pesante. tivo non è un atto meramente
psicologico,ma è anche obbiettivo, il suo contenuto cioè corrisponde al conte
nuto delle cose;ed in quest'atto si uniscono e com penetrano l'energia psichica
e l'energia delle cose. Con l'atto giudicativo, subbiettivo insieme ed ob
biettivo, si entra nel vero campo logico e si può dire che è sul giudizio che
poggia tutto l'organismo logico e che è il giudizio, considerato nel suo
sistematico svolgimento,che costituisce la parte più importante della logica e
che il primo prodursi della più rudi mentale attività giudicativa dell'uomo o
dell'animale segna ilprimo apparire del mondo logico. In generale si può dire
che sempre che ilsozgetto principia a giudicare l'oggetto della percezione o la
24- Però'seil giudizio come necessaria convenienza dell'attributo al soggetto è
la forma più perfetta alla quale il soggetto pensante non arriva se non dopo
una lunga educazione,vi sono molte forme di giudizio inferiori ad essa, che
possono considerarsi come tanti tentativi che l'anima fa per penetrare
nell'intimità delle cose ed impadronirsene. Ciò conferma il fatto che non vi è
un limite netto tra la psicologia e la logica e che se vi è una parte della
psicologia quella inferiore, in cui non vi è nulla di logico,e che se vi è
un'altra parte della psicologia, quella ultima e più raffinata, in cui ogni
energia o la più parte delle energie sono logiche, vi è una larga zona
psicologica in cui si manifestano le prime tendenze logiche ed in cui il lavoro
logico è eseguito allo stato bruto. rappresentazione di esso,allora
questa cessadiessere rappresentazione psicologica e diviene rappresenta zione
logica; e non vi è alcuna rappresentazione logica la quale non sia insieme,
implicitamente od e s p l i c i t a m e n t e, g i u d i z i o. E, s e l ' i n
f i m o g r a lo d e l l a r a p presentazione logica deve implicare un solo
giudizio almeno nella sua forma primitiva e bruta,un'alta rap presentazione
logica si ha quando essa implica un gran numero di giudizii. Delle tre parti in
cui si può considerare divisa la logica (la meccanica, la chimica e
l'organica), la rappresentazione logica cosi intesa esaurisce le due prime
parti. Se l'anima non può principiare ad eseguire funzioni logiche dall'infimo
al massimo grado se non quando è divenuta percettiva,perchè allora solamente
distingue fra di loro i fatti del mondo esteriore e distingue al cune proprietà
di ciascun fatto,giacchè senza la mol teplicità dell'obbietto non può eseguirsi
funzione lo gica di sorta, nondimeno non in tutto quello che per cepisce od in
tutto quello che si rappresenta nella coscienza interiore vi è energia logica
o, quando vi è, non vi è all'istesso grado in tutto. L'anima vivente o va
incontro ad una varietà di fatti e steriorioquestilesipresentano a caso ovvero
a s siste ad un inovimento di rappresentazioni o fa l'una cosa e l'altra
insieme ed intercorrentemente. Questi fatti si succedono o coesistono fra di
loro e sono per cepiti dal soggetto nella loro successione o nella loro
coesistenza. Ogni fatto deve perciò connettersi ad un 25
altro fatto; e questa connessione può essere di due specie,o casuale
estrinseca,ovvero intima,vera,con veniente. Bisogna però distinguere la
casualità e la estrin- sechezza,tra ifatti psichici,che rimane sempre tale pel
soggetto, per quanto questo possa elevarsi alla più alta attività
psichica,dalla casualità e dalla estrin sechezza che apparisce tale al soggetto
solo tempo raneamente nel primo periodo della sua storia,quando non ancora è
giunto al grado di potere compiere un lavoro psicologico cosi intenso da sapere
vedere una connessione intima tra due fatti; onde questa gli si presenta
estrinseca senza esser davvero tale e, con un ulteriore sviluppo dell'attività
soggettiva,sparisce la estrinsechezza e comparisce la intimità. no Non si può
non ammettere però che questa estrin sechezza vera è in certo modo relativa al
grado di sviluppo dell'attività del soggetto psichico;perchè,a vendo ciascun
soggetto nel mondo es'errore un campo - 26 Nel caso della estrinsechezza vera,
per quanto in oggetto si succeda ad altri od apparisca al soggetto in
concomitanza con altri oggetti, anche con un ac curato studio, non si saprà mai
trovare una ragione del succedersi di un avvenimento ad un altro o della
coesistenza di un fatto con un altro, di una qualità con un oggetto;giacchè
ciascuno oggetto apparisce come assolutamente indipendente dirimpetto
all'altro, perchè non lo modifica in alcun modo nė ne ė dificato.
speciale nel quale si esercita la sua attività, onde é messo frequentemeate
in rapporto di coscienza solo con un determinato aggruppamento di oggetti, egli
può vedere meno di estrinsechezza tra questi oggetti che non tra quelli
estranei alla sua azione.In ragione che il soggetto allarga sempre più il suo
campo og gettivo e lo scruta con maggiore intensità l'estrinse chezza si
allontana sempre.E quando l'obbietto del l'attività soggettiva è tutto
l'universo allora il filo sofo,guardando le cose dal più alto punto di vista
che è quello dell'unità,non vede più estrinsechezza di sorta tra le cose;perchè
ogni cosa vi apparisce come organo di un vasto sistema ed è necessariamente
connessa a tutti i gradi di esso. La intimità,laveritàelaconvenienzatradueog
getti (e perciò tra due rappresentazioni) o tra un og getto ed una sua proprietà
si ha allora quando l'uno non può essere in alcun modo indipendente dall'altro
per cui sempre che è dato l'uno è dato l'altro o, se prima è dato l'uno, dopo
verrà necessariamente dato l'altro. Ora questa intimità ha vari gradi che
possiamo riepilogare in tre zone logiche principali,presentando ciascuna zona
immense gradazioni. 27 La prima zona, quella più elementare in cui si de
signano le prime linee del mondo logico, di là dalla quale vi è il puro mondo
degli oggetti delle percezioni e delle loro rappresentazioni scomposte e
sconnesse, ha questo di particolare che in essa alcuni oggetti o r a p p r e s
e n t a z i o n i s o n o, è v e r o, l e g a t e, d a n e s s i i n t i m i, m
a 28 questa intimità è al suo minimo grado,rasenta quasi la
estrinsechezza;perchè della loro intimità non si vede altro che il semplice
succedersi costantemente diuna rappresentazioneadun'altraodilsemplicecoe
sistere di una rappresentazione con un'altra.E questa conquista il soggetto può
avere fatto non solo per pro pria esperienza ma anche per tradizione o per quel
che si è detto consenso degli uomini. Qui non si vede alcuna ragione della
convenienza delle due rappre sentazioni,alla qualeilsoggettorimaneperfettamente
estraneo; e tutta l'attività del soggetto si esaurisce nel vedere questo puro
costante coesistere e succe dersi delle cose e perciò il giudizio che esso
compie è semplicemente meccanico, non fa che constatare quanto avviene nel
mondo naturale. Così l'attività del soggetto qui è meccanica e delle cose non
afferra che il semplice meccanismo,l'energia più elementare della natura, il
muoversi delle cose per la loro pura gravità o per la loro forza od il muoversi
per forze estranee ad esse ma che agiscono su di esse. In questa zona logica va
compresa anche quella elementare attività giudicatrice mediante la quale si
scopre o constata qualche proprietà o qualità che in teressa gli organi
sensibili e percettivi del soggetto, come il sole è luminoso; è un'attività
giudicativa molto elementare.A questa zona logica possono per venire gli
animali superiori e quegli animali inferiori i quali si elevano alla
percezione, quantunque gli a nimal¡ non possono esprimere con
paroletaligiudizii, poichè bastano certi atti o movimenti che
l'animale esegue adimostrarecheessohacompiutoungiudizio. Ma questa attività
meccanica logica non solamente rappresenta la prima epoca dell'energia logica
umana e l'energia dialcuni animali,ma anche quando l'uomo è atto ad elevarsi ad
una attività logica superiore compie ordinariamente giudizii logici meccanici.
È questa la posizione dell'uomo incolto. Di tutti gli a v venimenti naturali ed
umani ai quali egli assiste non può vedere altra intimità che quella meccanica
ed estrinseca; alla ragione intima dei fatti egli non perviene. La seconda zona
che si dice chimica e che sta più in alto alla precedente ed alla quale non si
perviene se non per mezzo della precedente rappresenta quel campo della logica
in cui il soggetto può compiere un più complesso lavoro di penetrazione tra gli
og getti, onde quei nessi intimi che prima vedeva in modo quasi estrinseco sono
visti davvero nella loro intimità. La parola chimica sembra bene
adoperata;perchè cor risponde a quello stato della energia della materia in cui
gli elementi relativamente semplici si compe netrano ed uniscono insieme per
formare un corpo di una più elevata natura ed in cui corpi di complessa natura
si scindono nei loro elementi sem plici;ondelachimicadelcampo logico
corrisponde a quel grado delle attività psicologiche per le quali il soggetto
afferra la convenienza vera di un oggetto. e delle sue proprietà e vede le
intime ragioni per le 29 nuovo La zona chimica logica si
evolve cosi dalla mec canica non solo, ma questa coesiste nella chimica;
perchè, anche quando vediamo il rapporto chimico di duerappresentazioni,vièsempreillato
meccanico, l'incontro cioè di due oggetti o di un oggetto ed una
qualità,quantunque questo meccanismo sia assorbito e trasformato dal chimismo.
Avviene nel campo lo gico quel che avviene nel campo naturale in cui il chimismo
implica ilmeccanismo,quantunque non sia semplicemente
tale,essendoilmeccanismotrasformato ed elevato ad un più alto grado di
esistenza nel chi mismo il quale senza di esso non potrebbe darsi. Però non
bisogna credere che, quando l'uomo è ar rivato alla zona chimica della logica
tutti i suoi atti logici siano giudizii chimici;perchè questi,implicando una
grande difficoltàacompiersi,nonpossonofarsida ciascun uomo che in un campo
speciale che ha scelto come materia del suo studio e delle sue ricerche; il resto
della sua attività logica è rappresentato sempre dal meccanismo e questo può
intercorrere nel chimi smo logico od alternarsi ad esso. - 30 quali il
soggetto non può fare a meno di quellapro prietà e questa deve sempre
necessariamente andare congiuntaalsoggettoinquellecondizioni.É questo, si può
dire, il campo della conoscenza vera e della scienza dove il soggetto compie le
più elevate forme di giudizio,risultato di una lunga scrutazione psico logica
nei rapporti delle cose. III. Il giudizio nella sua for.na più
elevata, implicando quell'atto del soggetto cosciente mediante il quale si
riconosce che ad un oggetto del mondo naturale o ad un ente spirituale che qui
diviene soggetto logico con viene intimamente e necessariamente un dato at
tributo, esprime un rapporto tra i due termini che nelle stesse condizioni,deve
essere tale costantemente, sempre vero, oggi e sempre, qui ed ovunque. Per
questa ragione il giudizio non va soggetto a m u t a zioni per tempo e perciò
si esprime sempre com'è,in tempo presente.Ogni dubbio,'ogni incertezza circa
alla concordanza perfetta dell'attributo col soggetto
nondarebbeilverogiudizio;seperòilsoggetto ri conosce l'incertezza nel suo atto
giudicativo e c e r c a di uscirne per addurre la verità, sforzandosi di eser.
citare tutto il suo potere percettivo nella scrutazione dei termini e nel loro
rapporto, allora l'incertezza è unbene,perchèciconducealverogiudizio.Per la
stessa ragione, quando in un giudizio interviene il de - -31 Considerazioni
sul giudizio. siderio o la speranza od iltimore,non siavrà ilvero
giudizio. - 32 I logici classici si sono molto occupati della nega zione
nei giudizii e li hanno perciò distinti in affer mativi o positivi e negativi:
affermativi sono stati detti quei giudizii in cui si riconosce che l'attributo
conviene al soggetto, negativi quelli in cui questa convenienza non si ha.Ma
evidentemente ilogicinon hanno ammesso che è sull'oggetto della percezione o
della sua rappresentazione che primitivamente deve volgere ogni giudizio e che
bisogna guardarsi bene dal giudicare prima di avere studiato e scrutato bene
l'oggetto.Se questo sifacesse,sivedrebbelainutilità e la vacuità di una gran
parte di qnesti giudizii ne gativi,come è dimostrato anche dal fatto che alcuni
giudizii negativi possono tradursi in positivi.Quando si ammette che un dato
corpo non è solido, implici tamente si ammette che è liquido o gassoso.Per que
sta ragione i veri giudizii devono essere tutti positivi; perchè, rigorosamente
parlando, lo scienziato deve conoscere quello che una cosa è non già quello che
non è. Quando si tratta che il soggetto può avere uno di due attributi che sono
fra di loro contrari e che se gli convieneuno di essi gli sconviene neces
sariamente l'altro, si dice che allora si possono for mulare due giudizii,l'uno
negativo e l'altro positivo. Ma è facile osservare che, fatto il giudizio
positivo, è perfettamente inutile formulare il negativo ilquale con parole
diverse,per mezzo della negazione,ripete la positività del primo giudizio.
33 Vi sono però dei casi in cui pare che il giudizio negativo dovrebbe
aver luogo. Cosi noi sappiamo che una data pianta deve fiorire; se la guardiamo
in un'e poca in cui il fiore non è apparso,dobbiamo dire che la pianta non è
fiorita; ma d'altra parte è in es.a la possibilità di dovere fiorire; poichè in
tutti i fatti che implicano uno svolgimento od una storia non tutte le qualità
che devono costituirli possono essere date belle e compiute dal bel principio;
perchè ciò escluderebbe la storia; a ciò pensando, la pura nega. tività di
questo giudizio è spuntato. Che se poi guar diamo la pianta non fiorita come ci
si presenta per cettivamente, allora non si ha alcuna ragione a par lare di
negazione. Sappiamo inoltre che la sensibilità deve essere un attributonecessarioall'uomo;ma
permalattiedelsi stema nervoso questa funzione può perdersi, onde il
direalloraquest'uomonon sensibile,potrebbepa iere un giudizio negativo
incontestabile; ma si tra scura di considerare che quani'o l'uomo è divenuto
insensibile non è pixi l'uomo compiuto, ma l'uomo che è nel declivio della
dissoluzione e della morte e che, dicendo che non è sensibile, si riconosce che
la sua Molti, parlando e scrivendo, anche di cose scienti fiche, fanno
grande uso di questi giudizii negativi; ma
èquestaunaconsuetudinedilinguaggiochequalche volta fa anche vedere la poca
sicurezza e la povertà delle nostre cognizioni; perchè il difficilc non sta nel
dire quel che una cosa non è,ma qnelcheèdavvero. attribuzione
sarebbe la sensibilità e che questa si è perduta solo per condizioni morbose.
Nondimeno se il giudizio negativo è possibile esso può solo avere
laragionediessereinquesticasididissoluzione edi sfacelo degli organismi e
delleistituzioni,quantunque anche allora,stando alla semplice percezione, si po
trebbe semplicemente giudicare quel che l'oggetto pre senta di positivo; m a
allora il soggetto che pensa non può fare a meno dal paragonare la primitiva
gran dezza o la perfezione tipica di una data cosa con la dissoluzione e la
rovina presente, onde quel che è ora è la negazione di quel che era prima. Può
avvenire lo stesso quando si tratta di paragonare varioggetti fra di loro. Il
giudizio nella sua forma classica è rappresentato dal soggetto, dal presente
del verbo essere e dall'at tributo. M a il soggetto per tenere avvinto a sè
l'at tributo deve esercitare una certa energia che indica il vero nesso tra il
soggetto ed il suo attributo; ora il g i u d i z i o f o r m u l a t o i n q u
e l m o d o n o n f a v e d e r e t u t t a questa attività del soggetto,ne fa
vedere,si può dire, la minima parte. All'incontro sono i verbi attributivi i
quali possono risolversi nel verbo essere e nell'at tributo, che manifestano la
vera energia, la vera at tualità del soggetto, che costituisce il giudizio
nella sua realtà vivente; perchè fanno vedere il soggetto che si manifesta nel
suo attributo e fanno vedere l'at tributo vivificato dal soggetto.Per questa
ragione il giudizio espresso nella sua forma classica trova più - 34
- ragione di essere applicato nelle sfere inferiori mec. caniche
della natura,quelle che manifestano una energia più povera, relativamente alla
energia animale ed umana erelativamente all'altaenergiadella vita dello
spirito. Qui tutte le attività, tutte le funzioni che si esercitano e che si
esprimono con verbo sono gin dizii viventi. Se diciamo questo corpo é rotondo
l'a' tributo, quantunque inerente al soggetto, pure è con siderato come qualche
cosa d'indifferente ad esso.Qui si tratta del giudizio nella sua primitiva
forma. Ma se diciamo questa pianta fiorisce facciamo un giudizio della seconda
forma, perchè qui vediamo il soggetto che crea il suo attributo e vive in esso
Ammesso il concetto del giudizio qui dato, risulta evidente che ogni giudizio
implica una sintesi ed una analisi insieme e nello stesso atto. L'analisi vi dà
la dualità dei termini, siano nello stesso soggetto che tra due oggetti; e
l'analisi è un morrento necessario a l g i u d i z i o; p o i c h è s e n z a
il d u a l i s m o g i u d i z i o n o n v i sarebbe; m a d'altra parte
cesserebbe l'atto stesso del e per esso. Più elevata e spirituale è la
natura del soggetto e più è ricco di attività speciali e più verbi glisipos
sono attribuire e più giudizii compie, svolgendosi e vivendo.Più ilsoggetto
appartiene alle sfere della materia bruta e meno verbi gli si possono
attribuire 35 più le sue qualità possono essere espresse con la forma classica
del giudizio; ma ciò non toglie che anche giudizii di questa fatta possano
eseguirsi sopra alcuni soggetti di elevata natura. giudizio se
questo non fosse insieme sintetico; cés sando la sintesi cesserebbe anche
l'analisi e viceversa. Non vi sono perciò giudiziipuramente analiticinè pu
ramente sintetici;per conseguenzailsoggettovivente compie continuamente
un'analisi ed una sintesi delle sue qualità e lo scomparire dell'una o
dell'altra ap porta la morte di esso. Quando diciamo giudizio diciamo ancora
ragione, pensiero. Però come il giudizio consiste più nell'atto
psicologico,corrispondente al nesso intimo che vi è tra due rappresentazioni,
che nella distinzione dei ter miui, quantunque i termini siano necessari al
giudizio e senza di essi giudizio non vi sarebbe,lo stesso deve dirsi del
pensiero e della ragione. Se non che queste due parole, considerate come
semplice giudizio,dicono molto meno di quel che dicono quando sono adoperate
nel senso assoluto del loro contenuto. Quando diciamo il pensiero,la ragione si
vuole intendere il sistema di tutti i nessi possibili di tutte le
rappresentazioni delle cose della natura e dello spirito insieme, sog
gettivamente ed oggettivamente considerate. Quando poi sono applicate come
semplice giudizio equivalgono ad un pensiero,una ragione. Per alcuni logici la
parola proposizione esprime la stessa cosa chela parola giudizio
eperòsiadoperano promiscuamente queste due parole. Ma se vi sono verbi
attributivi che possono ridursi a giudizio,ve ne sono però altri i quali non vi
si possono ridurre, perchè non corrispondono pienamente a quel che siè detto
dovere essere un giudizio. Quando conosciamo 36 Si comprende
però che gli avvenimenti storici pos sono essere guardati dal punto di vista
estrinseco e quasi accidentale come fanno gli storici che riprodu cono i fatti
semplicemente nel modo come sono suc cessi;ma questistessifattipossono
ancheesserestudiati scientificamente e filosoficamente, considerati cioè in
quel che essi hanno di intimo,di necessario e di co stante; allora, entrando
quei fatti nel dominio della scienza,possono divenire obbietto di
giudizii, 37 le proprietà e le speciali energie dei fatti naturali o
psichiciosociali,ecc.allora possiamo faregiudizii; perchè si hanno avvenimenti
e fatti che sono sempre gli stessi nelle stesse condizioni e si manifestano co
stantemente ad un modo; ma se narriamo le gesta di Annibale o di Alessandro,
ciascun verbo che siamo costretti ad operare non può essere il verbo di un
giudizio;perchè esprime un avvenimento singolo che non è stato prodotto che da
quel tale individuo in quelle sue particolari condizioni ed in quelle condi
zioni di tempo,di luogo,in quello stato speciale di un popolo,avvenimento che
non può più riprodursi e perciò il giudizio non si ha quando si deve espri mere
uii fenomeno che non può ripetersi frequente mente,che è avvenuto una volta e
non piùequando non si vede alcuna necessità del suo ritorno. In questo caso,più
cheillinguaggioscientificoelogico,abbiamo illinguaggio storico,ed allora,più
che ilgiudiziosi ha la proposizione:cosi è spiccata la differenza tra il
giudizio e la proposizione:questo esprime gli avve nimenti storici, quello i nessi
logici. Il soggetto che giudica é determinato dall'atto stesso del
giudizio alla vitapratica.Ogni essere vivente,dal l'animale infimo all'uomo, si
sforza, come è noto, una condotta assai elevata, presupponendo ciascun suo atto
una molteplicità di giudizii;onde si vede l'intimo rapporto che passa tra una
grande intellettualità e la vita pratica. ancora 38 sottomettere ai suoi
bisogni la natura esteriore, ed ogni atto,ogni movimento che l'animale
esegue,cer cando di fuggire il malessere e di addurre a sè il
benessere,presuppone una distinzione negli oggetti concuièinrapporto.La
formicachevaincercadel frumento, riconoscendo in questo la proprietà di n u
trire,non solo compie un lavorogiudcativo ma anche un atto col quale manifesta
tale lavoro psichico.In tutti i pericoli che gli animali schivano come in tutti
i movimenti che fanno per prepararsi il nido o per andare in cerca del cibo e
per conservarsi,sipossono riconoscere gli atti che presuppongono ilgiudizio,per
quanto questo possa essere classificato tra i giudizii meccanici. I psicologi
in questo caso parlano d'istinto; ina è sempre l'istinto nel giudizio. In
questo senso gli atti degli animali equivalgono ad un linguaggio che esprime
alcuni nessi logici,quantunque sia il lin guaggioin unaformabrutaemonca.Intuttigliatti
che gli uomini fanno per raggiungere i loro fini e la loro felicità si può
riconoscere la conseguenza di un giudizio.E si comprende come l'uomo eminente
che ha una perfetta conoscenza delle cose possa avere di IV.
Formazione del concetto. Il soggetto può compiere sull'oggetto un numero grande
di giudizii secondo che pixi educato e svilup pato è ilsuo potere di
scrutazione e secondo che più complicata è la natura dell'oggetto. Cosi,
vivendo e studiando, la rappresentazione psicologica primitiva che il soggetto
ha delle cose si arricchisce di attributi e di qualità ovvero sirisolvein
attributiiquali erano primitivamente confusi in quel che dicevamo oggetto e che
costituivano tutto l'oggetto.Nondimeno durante e dopo questo processo di scrutazione
l'oggetto rimane sempre come qualche cosa in cui alcune qualità sono distinte
ed altre indistinte, potendo le qualità indi stinte ricomparire subito distinte
secondo che l'attività giudicatrice si rivolge su di esse ed allora le distinte
ritornano indistinte. Si verifica anche qui un'applicazione speciale di quella
legge psicologica secondo la quale in una data unità di tempo il soggetto non
può compiere che un lavoro limitato e,come non può scrutare che succes. 1
39 per la prima volta sipresentino allo studio del soggetto; in
questi casi è la legge generale che pre domina. Dopo che si è compiuto sopra un
oggetto un n u mero considerevole di giudizii non si deve credere che allora
l'oggetto sia conosciuto pienamente.Più chela conoscenza del soggetto, si ha
allora la conoscenza di un mucchio di note coesistenti;perchè,se il giu dizio è
un'alta funzione psicologica e lozica, non è però la più alta la quale si ha
invece quando tutte le note di cui l'oggetto risulta appariscono in esso come
organizzate, cioè si ha un organismo di giu 40 sivamente un dato numero
di oggetti e di rappresen tazioni,per la stessa ragione non può compiere in una
unità di tempo e nello stesso atto psichico che un numero limitato di giudizii,
quantunque succes sivamente possano essere compiuti sopra un oggetto
tuttiigiudiziidicuipuò esseresuscettivo.Perònon si può sconoscere che le
abitudini della mente possono arrivare ad un'altezza cosi meravigliosa:da
conside rare come compiuti una serie di giudizii che non si haavutoiltempodicompierepacatamenteodicom
pierli in un breve atto: è il meccanismo che penetra nelle più elevate regioni
psichiche ed in cui si sem plifica, per mezzo della ripetizione, il processo
giu dicativo primario che è più lungo e difficile. Ma in questi casi si deve
trattare di compiere sempre giu dizii già compiuti altre volte o negli stessi
oggetti od in oggetti differenti già percepiti, non in oggetti che
dizii. In generale con la parola conoscenza si vuol dire non solo
l'apprensione e la ritenzione delle pro prietà dell'oggetto e degli oggetti in
connessione fra diloro,ma ancorailoronessiconlealtreproprietà dello stesso
oggetto e con le proprietà delle altre cose, a differenza del pensare e
delragionareincuisitiene pii conto dei nessi delle cose. Quando l'oggetto è un
mucchio di proprietà, queste aderiscono a quel centro comune che primitivamente
costituiva tutto l'oggetto indistinto in sè stesso;e,se si ha qui il grande
vantaggio che ciascuna nota e per mezzo dell'atto giudicativo connessa
all'oggetto, non si vede la ragione del coesistere di tutte queste qualità
nell'oggetto e non sivede alcuna ragione del l'incontro delle note fra di
loro.La parola mescolanin che usano i naturalisti quando vogliono indicare il
coesistereel'essere diparecchi corpi incontattol'uno dell'altro senza perdere
la loro natura corrisponde a questa sfera dell'obbietto logico in cui si
possono c o m piere molti giudizii sullo stesso obbietto, ma senza che l'uno
eserciti una preponderanza sull'altro,senza che l'uno abbia un valore superiore
all'altro,e perciò ciascun giudizio ha un valore per sè; e considerati tutti
fra di loro costituiscono una mescolanza. Quandoilsoggettocominciaa
scorgerenellarap presentazione la proprietà più appariscente,quella sopra tutto
per la quale l'oggetto ha costantemente un valore speciale ed un uso,ed intorno
a questa nota costantemente si aggruppano, con nessi pi'i o meno 3. -
+1 intimi, altre note si principia a scorgere nell'oggettu i primi
rudimenti del sistema il quale può darsi non solamente tra le note dello stesso
oggetto, ma anche tra più oggetti, secondo il campo su cui si esercita
l'attività soggettiva. Intendere logicamente il sistema significa fissarlo nel
suo minimum primitivo ed in una forma più com plicata e seguirlo a mano a mano
sinoallaforma piiz completa in cui cessa di essere puro sistema e di venta
sistema funzionante, sistema di sistemi ed ganismo vivo. un si OL 42
L'intendimento del sistema è stata una delle pii grandi conquiste che ha fatto
il pensiero filosofico in generale ed il pensiero logico in particolare. Questa
parola che primitivamente ha significato la molte plicità scomposta delle cose
è stata ulteriormente usata ad indicare la molteplicità ordinata di esse. È la
filosofia di Hegel che ha compreso il sis'ema nella sua forma più alta e come
non era mai stato fatto prima. Considerando Hegel l'universo come stema, si è
molto addentrato nella comprensione delle cose. E, come il sistema occupa una
gran parte cosi nel mondo della natura come in quello dello spirito, perchè
interviene in ogni grado di essi e senza il si stema nessuna cosa potrebbe
intendersi, cosi costi tuisce anche una sfera del mondo logico, tanto che senza
di esso non potrebbe intendersi il concetto che rappresenta in sommo grado
l'energia logica. Il sistema nella sua forma primitiva trova il suo
In questa forma primitiva il sistema apparisee, anche al soggetto
superiore, nel regno minerale ed inorganico od anche in tutto ciò che l'uomo,
serven dosi di materiali bruti ed amorfi, foggia pei suoi bi sogni; poichè qui
si hanno sempre forme inferiori di sistema.Qui le qualità connesse al sistema
sono co stanti finchè dura l'oggetto; non hanno una energia superiore a quella
meccanica, fisica o del chimismo inferiore od inorganico. Il sistema solare
presenta una forma più perfetta di sistema;perchè esso presenta una
molteplicità,un centro ed una periferia e gli uni di cui risulta sono di visi
fra di loro e dal centro per mezzo di grandi tratti di spazio e sono uniti al
centro del sistema - 13 riscontro nel regno minerale; il sistema della
seconda forma trova il suo riscontro nel regno della vita; ma anche qui si
riproduce,quantunque trasformato, il sistema della prima maniera. La forma più
rudi mentale di sistema si ha quando ilsoggetto aggruppa intimamente intorno
alla nota più importante dell'og getto altre note secondarie od intorno ad un
oggetto principale altri oggetti di secondaria importanza fra i quali passino
rapporti più o meno estrinseci. È questo il sistema quale apparisce alla
soggettività volgare la quale non sa considerare l'oggetto diver samente anche
quando ha dinanzi a sè un sistema nella sua più alta forma quale può apparire
allo scien ziato. per legge di gravitazione. Per quanto si osservi qui in
la alto grado di sistema, perchè ciascuno degli elementi non è
autonomo,ma connesso al centro,pure serva tra le parti di cui il sistema
risulta una grande estrinsechezza. Per trovare una più elevata forma di sistema
dob biamo entrare nel regno della vita e nei tessuti che co stituiscono
l'organismo animale o vegetale;ma anche qui il sistema si presenta in una
grande e meravi gliosa graduazione; perchè se in questa sfera gli ele menti che
devono intervenire non sono, - 4'1 si os non sono, come nelle
formeprecedenti,esseriinorganici,ma entidotatidi vita e di una più o meno
grande energia interiore e non sono divisi fra di loro per mezzo di distanzepiù
o meno grandi,ma sono in qualche modo in contatto fradiloro,ilcentroperò che
deve implicare ilsi stema non è sempre determinato, anzi non vi è nei sistemi
dei tessuti vegetali o nei tessuti di un'impor tanza inferiore degli
animali,comeperesempio iltes sutograssosoedilconnettivale.Per questa ragione ė
più perfetto quel sistema in cui gli elementi istolo gici che sono dotati di
vita sono non solamente con nessi od in contatto fra di loroma anche unitiinuna
comunione funzionale e che vi sia un centro ove con vergano le attività degli
elementi e che l'energia fun zionale dal centro s'irradii anche verso la
periferia. E, come vi è una sola funzione, quantunque assai multiforme, che
circola pel centro e per le parti che, per contrapporle al centro, possiamo
chiamare peri feria, vi deve anche essere la stessa identità di co
stituzione chimica tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema.
I biologi distinguono il sistena dall'apparecchio il qnale consiste in un
complesso di organi di varia strut tura,ordinatiinmodo fradiloroda
compiere'una: funzione di complessa natura.Cosisidice apparecchio respiratorio,
uditivo, visivo, ecc. Inteso l'apparecchio in questo senso, ha una importanza
logica intermedia tra l'organo ed il sisteina, superiore a quello, infe riore a
questo. Ma un siste.na della vita non ha che una funzione speciale e non
autonoma; perchè è connesso agli altri sisteini e non può compiere questa
funzione senza l'in tervento e l'aiuto di altri sistemi. È qui che l'auto nomia
del sistema principia a venir meno; perchè cia. scun sistema non fa che
compiere una funzione spe ciale in un sisteina che co.nprende tutti i sistemi
della vita, ciò che s'indica col no.ne di organismo. Anche dicendo sistema di
sistemi si dice sempre meno di quel che dice la parola organismu, la quale
include una grande intimità e reciprocità funzionale tra i singoli sistemi e
tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema. - Da questo punto
di vistasesideve riconoscere che il sistema circolatorio sanguigno sia un
grande si stema si deve però ammettere che non vi è nell'orga nismo un sistema
più compiuto del nervoso, sia per la elevatezza della funzione che per la
meravigliosa struttura e per la ricchezza e bellezza delle forme che esso
presenta. Nel sistema una parte può venire sottratta senza
cheilrestodies30vadainrovina;maun organo qualunque dell'organismo non può
essere tolto senza che l'organismo non perda una nota fondamentale della vita,
la quale induce una diminuzione generale della perfezione organica e funzionale
e se l'organo ha una importanza grande nell'organismo adduce la caduta o la
morte di esso. La parola fisiologismo adoperata nel senso moderno (non nel
senso antico e greco secondo il quale signi fica semplice attività naturale)
contrassegna la nota più saliente dell'organismo che è la vita animale.Però il
fisiologismo non è una sfera naturale autonoma ed indipendente dalle altre zone
inferiori naturali;in esso -46 Sipuò dire che solamente in questo
secolo,pei grandi progressi che si sono fatti negli studi sulla vita in senso
largo, si è potuta comprendere la grande importanza dell'organismo. Quando si
dice che l'uni verso èun organismosivuole indicare un fattodiuna natura assai
più complessa ed elevata che quando si dice che esso è un sistema. Quegli
elementi che nel sistema diciamo parti nell'organismo diventano organi
iqualisono,èvero,parti,manonconnessialresto più o meno estrinsecamente, come
avviene nel sistema ordinario; e sono elementi attivi e funzionanti pel resto
dell'organismo tanto che contribuiscono grandemente a tutta l'energia
dell'organismo e viceversa, questo dà ad essi un alto significato che, fuori
dell'organismo, non avrebbero. Ilchimismo,quantunquerappresenti una
seriedi fatti inferiori a ciò che costituisceilfisiologismo,pure costituisce
parte integrante di questo, cosi nel senso scientifico come nelsenso
logico,tanto che senzachi mismo non potrebbe darsi fisiologismo; poichè non vi
è funzione fisiologica la quale non implichi una serie di complicazioni e
riduzioni chimiche. E, poichè non vi è fatto chimico che non implichi nello
stesso tempo fatti meccanici e fisici; il fisismo èparte integrale del
chimismo,cosi scientificamente come logicamente,e per conseguenza anche
dell'organismo. Ed il fisismo si trova nel fisiologismo non solo come assorbito
dal chimismo, ma anche come indipendente da questo. Cosi nell'organismo, oltre
ai fatti chimici si trovano fatti anche puramente fisici, quantunque questi si
tro vino in complicazione coi fatti chimici e fisiologici; ma però il soggetto
può fissarlied isolarli dagli aitri fatti e considerarli come puramente fisici.
Avviene cosi nell'organismo logico quel che avviene nella natura in generale in
cui le zone inferiori sono ciascuna autonoma e per sè e nell'istesso tempo in
al troeper altro.La meccanicaela fisicarappresentano - 47 invece sono
implicate il chimismo ed il meccanismo ofisismo (adoperando anche questa parola
nel senso m o d e r n o n o n n e l s e n s o a n t i c o s e c o n d o il q u
a l e v o r r e b b e indicare semplicemente il fatto naturale. Si sa che la
fisica moderna studia solamente alcuni fatti della n a tura, come la gravità,
il calorico, la dinamica, l'elet tricità,la luce,la vibrazione dei
corpi,ecc.). alcuni gradi della natura dove si manifestano in tutto
il loro potere.Ed anche la chimica è una zona per sé della natura,ma frattanto
in questa devono ne cessariamente intervenire le sfere precedenti, mecca nica e
fisica, altrimenti non potrebbe sussistere come chimica.E similmente i fatti
più complessi della na tura quali sono la vita vegetale ed animale non po
trebbero sussistere senza le due zone precedenti; giac chè non vi è fenomeno
vegetale ed animale senza che v'intervengano fatti fisici e chimici.
Ifisiologi,inquestiultimitempi,avendo riscon trato fatti meccanici
nell'organismo ed una certa so miglianza dell'organismo al meccanismo, si sono
stu diati a tracciare le differenze che passano tra l'orga nismo ed il
meccanismo ed hanno conchiuso che l'organismo non è un meccanismo. Per quanto
giuste sieno state le osservazioni fatte, pure avrebbero rag. giunta una più
vera conoscenza dell'organismo se avessero detto che esso implica ilmeccanismo,
quan tunque il meccanismo che si trova nell'organismo non sia come quello che
si trova nei congegni meccanici, ma
trasformatoecomplicatodaifattidellavita;ondeé sempre una sfera
dell'organismo. 18 Nel campo psicologico si raggiunge la sfera della
perfezione quando l'anima èdivenuta organismo degli stati suoi, di sè stessa e
dell'oggetto, ciò che è la mente; e non si raggiunge questo punto senza essere
passati pel meccanismo psichico prima e pel chimismo poi;enondimeno queste due
formediattivitàpsichica esistono sempre nella mente come due sfere
subordi nateefondamentali per essa,tanto che quando l'or ganismo mentale
comincia a decadere, permanentemente o temporaneamente, ricomparisce il
chimismo prima e poi gradatamente il meccanismo come forme autonome
psichiche,e,quandoperunaincompiuta educazione psicologica,l'uomo non raggiunge
la mente, si arre sta al chimismo. Il meccanismo psichico pure contras segna la
vita animale e l'ultimo stadio di decadimento della mente già compiuta. La
parola organismo trova più propriamentelasua applicazione, che non la parola
sistema, quando si vuole significare in modo saliente quel che sia la fa
miglia,lasocietàoloStato.La molteplicitàdegliin dividui funzionanti di cui una
società risulta,l'essere questi individui animati da un fine comune che è lo
spiritonazionaleecheècomeilcentrodelle individua lità,la varietà di classi,di
funzioni, di aspirazioni, di attività in cui si possono scorgere tanti fini
secon dari o aspetti speciali e necessari del fine comune,onde non tutti
gl'individui partecipano all'istesso modo al raggiungimento di questo fine,
ilpermanere dello spi rito nazionale mentre gl'individui che vivono in esso e
per esso muoiono erinascono, fa diuno stato un or ganismo assai più complesso e
di un'assai più elevata natura che non l'organismo animale. E più lo stato ė
organico in questo senso e più è perfetto. Si può dire anzi che,dal primo
costituirsi dello stato sino allo stato come può essere ai giorni nostri, si
nota una tendenza a raggiungere la forma perfetta della orga nicità.
Quando si parla di organismo, sia che si tratti del l'organismo vegetale od
animale, che dell'organismo eticosihad'innanziunaltro fattopiù complessochene
rende più difficile la conoscenza ed è che l'organismo non può essere
conosciuto in sè stesso se non è messo in relazione con tutto ciò che lo
circonda. La pianta non può essere conosciuta se non si conoscono le sue
relazioni con l'aria,col terreno,col calorico, ecc.La vita animale non sipuò
conoscere pienamente se non si vedono irapporti che la legano al cibo che
rappre senta il mondo esteriore, all'atmosfera, al clima, al luogo.Sisa che
l'animaleassorbisce qualche cosadal mondo esteriore e lo rende ad esso per
altri modi e per altre vie.Anche gli organismi etici non possono sussistere
senza un ambiente non solo naturale, ma anche etico. Uno stato non può esistere
senza il suo territorio,senza un determinatoclima,senzaiprodotti delsuolo,come
non pno aver una vita spirituale propria senza assimilarsi il pensiero degli
altri stati, senza essere in rapporto con essi e senza esercitare un'azione
sugli altri stati. Il soggetto, passando dall'oggetto in cui questo è una
mescolanza a quello in cui è un sistema ed a quello in cui è un organismo,
compie un lavoro giu dicativo chimico progressivamente intenso.Conseguen
temente larappresentazione dell'oggetto sidetermina sempre più e diventa anche
essa sistematica ed or --
Perchè si abbia il concetto logico le note di cui il concetto risulta
devono essere comprese tutte nel loro organismo, di ognuna di esse deve vedersi
la neces sità e l'importanza; poichè se di qualche nota non si sa vedere la
necessità,cioè se non si vede diessa laconnessionealtuttoedallepartioaglialtri
or gani od alle altre parti dell'oggetto,mediante un giu dizio intimo od una
serie di giudizii, non si ha più ilconcettologico;siha alloralarappresentazione
logica. Sicchè la rappresentazione logica si ha non solamente quando delle
proprietà che costituiscono l'oggetto una o parecchie sono viste nella loro con
nessione intima con esso e le altre sono viste acci dentalmente, ma anche se
l'oggetto è compreso,nella maggioranza delle sue note, nel suo sistema e nel
suo organismo e solamente una nota di esso non è vista nel sistema o
nell'organismo, non si può dire che si abbia allora la conoscenza compiuta
dell'og getto;sihasempre una conoscenza inferiore cheè ganica non solo in
sè stessa, ma anche in connes sione con altre rappresentazioni; cosi anche a m
a n o à mano la rappresentazione bruta e puramente psico logica diventa
rappresentazione logica. Ma quando l'oggetto o la rappresentazione di esso è un
sistema od un organismo, allora siamo innanzi ad una nuova zona logica che è il
concetto che vuol dire conoscenza sistematica ed organica delle cose.Cosi si
può fare una distinzione precisa tra la rappresentazione logica ed il concetto
logico. Poichè la conoscenza sistematica ed organica del l'oggetto
è l'ultima a raggiungersi dal soggetto,s'in tende che prima di averlo
pienamente raggiunto, un certo numero di note ha dovuto essere considerato come
inesplicato od accidentale e non è stato espli cato se non dopo un ulteriore
studio del soggetto. La perfetta conoscenza di un oggetto o di un fatto può non
essere stata raggiunta dall'individuo che pensa;ma può possedersi dagli
scienziati o conser varsi negli annali della scienza; può ancora non es sere
stata raggiunta dagli scienziati. In tutti e due questi casi si è nella sfera
della rappresentazione lo gica,non del concetto. Finora i logici non han fatto
distinzione tra r'ap presentazione e concetto ed han contrassegnato l'una e
l'altro insieme con la parola idea. Si sa che la pa rola idea è stata
largamente usata dai filosofi greci, dai filosoa del Medio-Evo e del
Rinascimento e dai filosofi moderni e contemporanei. Quantunque dallo studio
delle opere di Platone e di Aristotele appari sca che questi due grandi
filosofi abbiano bene di stinto quel che ora si dice conoscenza rappresenta
tiva dalla conoscenza perfetta delle cose,la opinione dalla verità,pure
essi,usando la parola idea, pare 32 la rappresentazione logica. In questo
caso una o pa recchie note sono considerate come inesplicabili ed accidentali,
mentre le altre sono considerate come ne cessarie ed esplicate (la nota
esplicata è la nota con nessa all'oggetto mediante l'atto giudicativo). che
non abbiano tenuto conto di questa distinzione e l'abbiano invece adoperata per
indicare indistinta mente l'una cosa e l'altra: ciò che, trattandosi di un
fatto di tanta gravità per la scienza, non può non ingenerare confusione ed
equivoci nella mente del lettore. Gli stessi equivoci hanno sostenuto,
adoperando la parola idea ifilo:ofidelMedio-Evo,delRinascimento, i filosofi
moderni e contemporanei.Non si deve però noverare tra questi l'Hegel il quale
frequen:emente nei suoi libri accenna alla differenza che deve pas sare tra la
rappresentazione e la nozione od il col cetto.E se è vero che anche egli fa
moltissimo uso della parola idea, l'adopera però per indicare il si stema od i
vari gradi del sistema dell'universo; ed in questo caso è chiaro che la parola
idea deve corri spondere al concetto. Ma,anche posteriormente
all'Hegel,ilogici, ado perando la parola idea, non han creduto necessario
dichiarare se essa deve corrispondere alla rappresen tazione od al concetto;
però nel fatto l'hanno adope rata per indicare l'una cosa e l'altra
indistintamente come si vede dai trattati di logica che circolano per le scuole
di tutte le nazioni. E vi sono anche alcuni logici che adoperano promiscuamente
le parole idea e concetto;ma non si può dire che la parola concetto che essi
usano corrisponda a quel che si è detto do vere essere il concetto, anzi,
stando a certe divisioni che essi ne fanno, si deve conchiudere che per
co: 53 cetto essi intendono la rappresentazione. Cosi essi,
tra le altre divisioni dei concetti, ne fanno una in concetti chiari ed
oscuri,distinti e confusi,completi ed incompleti; ma un concetto che sia oscuro
o con fuso od incompleto deve essere una rappresentazione non un concetto. Per
l'uso equivoco che della parola idea si è fatto per tanti secoli e perchè può
ancora ingenerare con fusione nella mente, sembra necessario il non doverla più
adoperare,tanto più che le parole rappresentazione e concetto,che sono anche
esse due parole classiche, corrispondono benissimo a distinguere due gradi dif
ferenti di quello che i logici hanno indicato con la parola idea. La
parola concetto ha nella lingua latina ed ita liana un significato assai
profondo e complesso;poiché esprime l'ultimo e più compiuto risultato di un pro
cesso,diuna seriediavvenimentiiqualihannoavuto il loro punto di partenza in un
fatto che è il loro presuppostonecessarioelaloropossibilità.E questi
avvenimenti devono essere legati fra di loro con legame tale di successione che
ciascuno di essi non può rappresentare che un dato grado del processo, non può
prodursi cioè prima che si sieno dati altri gradiod avvenimenti più o meno
elementari che esso pre suppone e da esso devono prodursi altri gradi più c o m
plessi i quali menano al pieno risultato del processo. Cosi si vede che la
parola concetto include w a storia e che questo processo concettuale si
riscontra non solo nella natura, nel suo insieme, ma anche in ogni grado di
essa con questo diparticolare che più ci eleviamo nelle sfere alte della
natura, quali sono la sfera della vita e dell'umanità,più questo processo. Del
Concetto lin si esegue compiutamente e, relativamente, in breve
tratto di tempo ed ogni proprietà di ciascuno entedi queste importanti zone
della natura compie insieme con le altre proprietà una storia. Quel processo
che avviene nella vita dell'animale e della pianta risponde bene a quel che è
un concetto. Si sa che la pianta ha il suo punto di partenza nel germe che può
considerarsi come il grado infimo di essa,di là dal quale non vi è nulla della
pianta. Partendo dal germe la pianta attraversa una serie di gradi,lo sviluppo
delle foglie e la trasformazione di esse nel fusto, nei rami, nei fiori e nel
frutto che racchiude il seme, ciò che segna il grado ed il limite ultimo
dell'esistenza della pianta; onde essa parte dal germe e ritorna al germe. Si
può dire che nel germe sono implicati tutti i gradi della pianta e che il grado
che segue alla trasformazione del germe lo include come un presupposto
necessario e cosi pos siamo dire del grado successivo relativamente ad es:a. È
stato dimostrato che il fiore è una trasformazione della foglia ed il frutto è
una trasformazione del fiore e perciò anche della foglia e che anche il seme
sia una foglia trasformata; onde nel frutto sitrova come un grado ad un
presupposto necessario il fiore e perciò anche la foglia, all'istesso modo che
nel fiore sitrovalapossibilitàdelfrutto.Ora lastoria com piuta della pianta si
ha quando essa attraversa tutti questi gradi e si considera uno di essi come
quello a cui mirano i gradi precedenti, cioè il frutto ed allora 56
possiamo dire di avere il vero concetto della pianta. Cosi quando diciamo
concetto diciamo anche sviluppo. Da ciò si vede che il processo del concetto
che è il concetto stesso delle cose non deve essere inteso come una progressione
aritmetica.Da un grado non sipassa all'altro mediante una aggiunzione di
qualche cosa a -- Ma gli avvenimenti di cui risulta il concetto non solo
devono essere legati fradi loro pel nesso di suc cessione ma anche pel nesso di
coesistenza; giacchè, quando il concetto è dato,esso rappresenta un com plesso
di avvenimenti o di proprietà le quali ha con quistato e conservato nel suo
processo,di cui ciascuna è necessaria, benchè non necessaria all'istesso modo
chelealtre,perl'attualitàdelconcetto;enon po trebbe mancare senza che il
concetto venisse sconvolto o degradato. Però bisogna bene intendere questo
conservare che il concetto fa delle proprietà che acquista, nell'at traversare
tutti i gradi necessari prima di attuarsi pienamente; giacchè le proprietà di
un grado non sono conservate come precisamente tali nel grado seguente, ma sono
conservate ed insieme trasformate e complicate. Cosi nel fiore non abbiamo la
somma delle qualità della foglia insieme con quelle del fiore; ma
lequalitàdellafogliasisonotrasformateinquelle del fiore, di modo che vi si
conservano ma non come puramente tali,son divenute cioè proprietà nuove.E
questa trasformazione avviene in tutti i gradi che il concetto
attraversa. qualchecosaltro il quale, dopo l'aggiunta,rimanga come
puramente tale insieme con la cosa aggiunta, di modo che l'ultimo grado possa
essere considerato comelasommadeigradiprecedentiedincuiigradi precedenti si
conservino come puramente tali. In vero iprimi filosofi hanno compreso il mondo
come una progressione quantitativa;peressilaveritàdelle cose non era che un
risultato di una moltiplicazione o di una sottrazione dell'istesso principio
naturale; e l'esplicazione dell'universo dal punto di vista m a t e matico e
quantitativo è stato quasi sempre tenuto di mira dai pensatori e dagli
scienziati.Anche aitempi nostri in cui le scienze particolari possono dare
larghi contributi per arrivare ad una concezione organica delle cose e
dell'universo, è sempre il punto di vista quantitativo che esercita le più
grandi attrattive su gli scienziati, anche quando si tratti di argomenti i più
complessi ed ipiù remoti dalla quantità pura,come la vita sociale o nazionale o
la vita organica; si sa che anche ai giorni nostri ilcervello,come organo
supremo dellavitaorganicaementale dell'uomo,sicrede non po tersi altrimenti
intendere che considerandolo dal puuto divistaquantitativo.Ma
ènotochePlatoneedAristo teleavevanointravistochelamatematicaedilnumero sono
insufficienti per la comprensione piena delle cose e che
l'HegeleilVera,apiùriprese,hanno molto insi stito nel far vedere l'importanza
limitata della mate matica nel sistema dell'Universo e nel far vedere che il
sistema delle cose non può essere compreso che dal 58 punto
di vista qualitativo e specifico il quale però presuppone come un elemento subordinato
la mate matica, ciò che è ben diverso. a numero, quantità a quantità,
mentre la chimica va dall'identico al non identico, che è il vero processo
delle cose. Il processo chimico non esclude il processo matematico;perchè non
può esservi processo chimico senza il processo matematico; si sa che la chimica
procede aggiungendo atomi ad atomi, molecole a molecole,ciò che èprocesso quan
titativo e, mentre nella sfera della quantità, aggiun gendo quantità a
quantità, questa è semplicemente aggiunta o sovrapposta a quella la quale,dopo
questa nuova aggiunzione, nulla acquista enulla perde della sua natura
qualitativa primitiva;aggiungendo all'in contro chimicamente atomi o molecole
specifiche ad atomi ed a molecole specifiche, viene come risultato un corpo avente
proprietà nuove, tutte diverse dalle proprietà che avevano gli elementi di cui
si compone il nuovo corpo. Si sa che l'idrogeno e l'ossigeno di cui sicompone
chimicamente l'acqua hanno proprietà diverse dalle proprietà che ha l'acqua. E
ciò si può dire di tutti i corpi composti relativamente ai corpi
semplicidicuirisultano.È questoillatoimportante e meraviglioso del processo
chimico. 39 Noi crediamo che il principio chimico,la cui impor tanza era
sfuggita agli antichi e si è vista solo ai tempi moderni,possa, più del
principio matematico, esprimere bene il vero svolgimento delle cose;giacchè la
matematica procede dall'identico all'identico, ag giungendo numero a
numero, Sembra ora assodato dalla scienza chimica che l'im mensa
varietà dei corpi composti inorganici ed orga nici sipossano tutti scomporre in
quei pochi e deter minati corpi semplici ora conosciuti.Ebbene,in qual modo con
cosi pochi corpi semplici si possono otte nere corpi innumerevoli con proprietà
differentissime gli uni dagli altri?Semplicemente mutando ledispo
sizionichimicheomolecolari;odaggiungendo sem plicemente una molecola di un
nuovo corpo a molecole costituenti prima un altro corpo o moltiplicando una
molecola specifica di un corpo composto di determi natemolecoleosottraendonealcuneadalcune.È
questo processo che ci dà corpi di natura tanto differenti e diversi. 60
Ma se la chimica occupa un largo campo nellana
tura,dallamateriaprimaallamateriacheraggiunge la più alta forma complicativa,
alla sostanza nervosa,dap pertutto nella natura essendovi più o meno lente e
conti nue complicazioni osemplificazionichimiche,ilprincipio però
chimico,quello secondo il quale di due o più cose od elementi che si uniscono
si forma un nuovo grado ilqualeha proprietànuoveedifferentidaquelli dai quali risulta,rimane
non solamente nella natura ma anche nella storia delle cose naturali ed in
quelle dello spirito. L'animale non s'intende aggiungendo alle note che
costituiscono la pianta, la sensibilità ed ilmovimento;eseèveroche alcune
qualità della pianta si trovano nell'animale, queste hanno assunto ụną naturą
tutta nuova nell'animale, tanto che,rigo rosamente parlando, ciò
che costituisce la vita della pianta non si rinviene punto come tale
nell'animale; perchè quelle note che costituiscono la pianta sono nell'animale
elevate ad una nuova zona e vivificate e complicate e moltiplicate da una nuova
vita.La nu trizione dell'animale è tutta differente dalla nutri zione della
pianta, all'istesso modo che la struttura organica della pianta differisce
dalla struttura animale. Ciò portanecessariamenteunadifferenzanotevolenella
storia della pianta ed in quella dell'animale; sicchè tutto è nuovo
nell'animale relativamente alla pianta e si ha nell'animale una nuova e
complessa serie di proprietà tutte differentidalle proprietàvegetali.Cosi una
proprietà che si aggiunga modifica tutte le altre proprietà, come fa la
sottrazione di una data proprietà o funzione nell'animale. -61 Nella
storia organica e psicologica del regno ani male troviamo dominare lo stesso principio;
giacche, se vi è una vasta scala di specie animali,in ciascuna specie la
modificazione di una data proprietà organica e psichica,relativamente ad altre
specie,adduce con sė una corrispondente trasformazione di tutte le altre
proprietà organiche,funzionali e psichiche.Cosi laforma esteriore degli animali
non è indifferente al loro grado di energia funzionale e di energia psichica;
la sensi bilità è varia secondo le varie forme organiche,,se condo le varie
forme di sistema nervoso; i movimenti sono vari secondo che è varia la
sensibilità ed è vario il sistema scheletrico ed il sistema muscolare.
Una Inoltre l'individuo come tale ha attribuzioni che non
--62-- varietà organica dunque non si ha senza avere unà varietà di tutte le
altre proprietà e funzioni dell'ani male; cosi di ogni proprietà animale. Si sa
inoltre che alla vita di uno stato devono con
correretantecondizioni,tantifattori; ma c'inganniamo se crediamo che ciascuna
condizione non eserciti se condo il suo grado alcuna azione determinante su tutte
le altre condizioni e perciò su tutta la vita nazionale. L a ricchezza non è nè
il solo fine né il solo fattore di una nazione;ma uno statoricco può avere un
gran mezzo per creare condizioni necessarie ad elevare lo spirito di una
nazione in tutti i suoi aspetti, a far felice la fa miglia e gl'individui; e
d'altra parte uno spirito n a zionale elevato trova molte vie aperte
all'acquisto della ricchezza.I grandi individui contribuiscono a far grande una
nazione e d'altra parte sono le grandi nazioni che fanno le grandi
individualità. Un'alta vita reli giosa non può intendersi e compiersi che nelle
grandi nazioni e d'altra parte lo spirito religioso dà un ele vato contenuto
all'arte,allaletteratura,spingegliuo mini alle investigazioni scientifiche e
filosofiche, può dare indirizzi nuovi alla vita politica, commerciale,
economica dei popoli, può dare un'impronta speciale a quel che
sidicespiritonazionale.Ciascunfattoredella vita sociale dunque, mentre è
modificato dagli altri fattori, dal loro grado di energia o di decadimento,
contribuisce a modificare,svolgendosi,quale che sia il suo grado, gli altri
fattori. 63 ha come faciente parte della famiglia in cui acquista
nuove e più alte qualità,onde,senza il sacrifizio e senza l'abnegazione dell'individuo,lafamiglianon
può vivere una vita rigogliosa. Cosi le attribuzioni della famiglia sono
differenti da quelle dello stato, quan tunque senza la famiglia lo stato non
potrebbe essere, essendo questo costituito di una moltitudine di fa miglie e
perciò d'individui, i quali nello stato acqui stano nuove e più alte qualità;
onde nello stato le famiglie e gl'individui non sono come sono fuori dello
stato, Il principio chimico domina cosi la vita della n a tura e dello
spirito,non ilprincipio matematico, quan tunque la chimica implichi e
presupponga lamatema tica senza la quale né il chimismo, nè la natura, nè lo
spirito stesso potrebbero essere.Onde,sepuò dirsi che il chimismo è lo schema
dell'organismo delle cose, la matematica può dare lo schema quantitativo del
chimismo e per conseguenzadellecose;ma perquesto è più lontana che non la
chimica dalla realtà che non può intendere e che è sopra tutto qualitativa; ed
è la chimica che fa intendere il concetto e che costi tuisce la seconda zona
logica e che è parte integrante della vita del concetto più che la quantità la
quale può corrispondere alla prima zona logica. S'intende che qui si parla del
chimismo logico, non della chi mica come sfera della natura, la quale ha anche
essa il suo concetto, come qui si parla della matematica come principio
logico;non della matematica come sfera speciale del pensiero e
delle cose; poichè come tale ha anche essa il suo concetto. Sicché non si nega
che la matematica possa dare un certo schema della realtà e che perciò non sia
una certa logica; si afferma solamente che essa ci dà uno schema assai povero
della realtà, che non ce la fa intendere. In vero la logica classica non è
stata che la logica matematica e se vi sono oggi dei logici i quali, coltivando
la logica intesa matematicamente, credono di coltivare una nuova logica,essi
s'ingannano, quantunque però diano nuovi svolgimenti alla vec
chialogicalaquale,se nonpuòesserelalogicadella vita e dello spirito,può essere
però la logica delle sfere inferiori della natura,della meccanica, in tutti i
suoi gradi, e della fisica intesa come grado della natura in generale. Si sa
che tutti i fatti meccanici e fisici possono ridursi a formole matematiche,
quan tunque allora non saranno la meccanica e la fisica che ci guadagneranno,
le quali sono sfere molto più con crete e ricche che le matematiche pure;
onde,ridotti i f e n o m e n i m' e c c a n i c i e f i s i c i a s c h e m i m
a t e m a t i c i, e s s i perdono la loro concretezza, perchè sono
semplificati (le cose non potendo essere intesa che dal punto di vista
semplificativo ecomplicativoinsieme;onde,s'in tende la meccanica e la fisica
non solamente quando sono intese matematicamente, ma quando sono intese
matematicamente ed insieme meccanicamente e fisica mente; in quel caso guadagna
però la matematica la quale estende i suoi confini). 64 6.3 I
fatti però meccanici e fisici dell'organismo non sono cosi facilmente
riducibili a schemi matematici; non avendosi allora il meccanismo ed il fisismo
puro od inferiore, ma ilmeccanismo ed ilfisismo come gradi dell'organismo,onde
quei fatti sono allora determi nati da cause chimiche ed insieme fisiologiche e
per ciò sono di una provenienza oscurissima e complica tissima; perchè il fatto
meccanico o fisico può essere effetto di moltissime e svariate condizioni
organiche e sono nello stesso tempo effetto e causa di altri fe
nomeniorganici.Cosisipuòdiredei fenomeni psi chici e sociali; onde, per quanti
sforzi la matematica faccia per entrare in questo regno, essa non potrà
impadronirsene mai, potrà però calcolare matematica mente i fenomeni estrinseci
di essi.Ciò conferma sem pre più il principio che non può essere la matema tica
lo schema della realtà; ma è il chimismo. Aristotele, il primo grande logico
dell'antichità e quasi il fondatore della logica, le cui dottrine per 22 secoli
hanno doininato e dominano ancora nelle scuole, perché non si possedeva ai suoi
tempi una conoscenza profonda della natura e dello spirito come si possiede
ora, non poteva darci che la logica quantitativa che si può considerare come il
grado primitivo e più ele È lo studio profondo dei fenomeni biologici
come in gran parte è stato compiuto ai nostri tempi, che può farci vedere la
grande importanza del processo logico chimico per raggiungere il vero concetto
delle cose;e ciò non era possibile prima dei nostri tempi. mentare
della logica. L'Hegel poi può dirsi il fonda tore della nuova logica più per
avere fatto vedere l'insufficienza della logica classica ad intendere la realtà
anzichè per averci dato compiuta la nuova lo gica;e ciò perchè anche ai suoi
tempi gli studi na turali e biologici non avevano raggiunto quell'alto grado
cheraggiunseroposteriormente.Nondimeno l'ap parire della logica di Hegel segna
nella storia un'e poca grandiosa;poichè,per mezzo di essa sono state poste le
basi e si sono fatti i primi passi della lo. gica reale come può aversi e
svolgersi ai nostri tempi. Inteso il concetto come l'ultimo risultato del pro
cesso storico e chimico delle cose non ha più quel l'importanza che ha nella
logica classica il capitolo della comprensione e della estensione dei concetti,
in cui il concetto è inteso solo quantitativamente. Bisogna distinguere il
concetto che sta per co.n piersi dal concetto compiuto; quello può essere chia
mato concezione o concepimento che indica appunto l'atto del compiersi del
concetto. Ora nell'atto che il concetto si forma attraversa vari gradi di cui
cia scuno, se è considerato come arrestato nel suo c a m mino,può
essereconsiderato come unconcettopersė; e si considera come grado di un altro
concetto se as sume qualità e forme nuove di esistenza tanto che
puòcorrispondere adun concettopiù compiutodiesso; ed in questo caso esso fa
parte della concezione o del concepimento del nuovo concetto; e ciò può dirsi
di ogni concetto. ĜO ! Considerando da questo punto di vista
l'universo, si scorge facilmente che ogni sfera,ogni grado di esso è insieme
concepimento e concetto, cioè è assorbito e complicato chimicamente in un
concetto più alto e nello stesso tempo può essere considerato come un con cetto
in sè. Questo duplice fatto forma dell'universo un vasto sistema e nell'istesso
tempo un grandioso organismo;perchè ciascun concetto è in sè e per sè ed
insieme in altro e per altro. conce -67 Questo principio si osserva con
evidenza in tutte le zone delle mondo della natura. I minerali ed i feno meni
fisici sono insieme in sè e per sè in una deter minata zona della natura
(concetti);ma essi sono per la chimica relativamente alla quale sono
pimento.Cosi la chimica rappresenta anche una de terminata zona del mondo
naturale;ma, mentre è in sè, e perciò è un concetto,è anche concezione;perchè
la chimica è per la vita della pianta e dell'animale e
perciò,mediatamente,anche ilminerale èperlavita. Nel regno della vita questo
processo diconcepimento continua; perchè,quando è data la forma infima della
vita vegetale, si passa da forme vegetali semplici a forme gradatamente e
successivamente più complesse sino all'ultima forma vegetale che potrà dirsi la
più compiuta.In questo processo quei gradi che inatura listi dicono specie
rappresentano appunto la conce zione della pianta;per cui ciascuna specie
èinsieme concetto e grado del concetto superiore.Lo stesso può dirsi
dellapiantarelativamenteall'animaleedelmondo della vita animale in
generale. Quando siconsideral'uomonell'ordinedellanatura sembra
cheinluisiabbial'ultimorisultatodellastoria e del processo naturale; ma d'altra
parte l'uomo non è per sè solamente; perchè egli è quel che è per la famiglia e
per lo spirito nazionale che egli contribuisce a formare ed in cui vive e si
muove,all'istesso modo che lo spirito nazionale è per Dio che è il puro per
fetto spirito in cui perciò si ha il vero concetto ed a cui tutta la concezione
dell'universo aspira; perchè Dio non è più per altro ma per sè ovvero ė inaltro
per sè; e tutta la vita ed il movimento della natura e dello spirito terreno
non sono che un processo di ele vazione a lui e fuori di lui non sarebbero e
non po trebbero esplicarsi. Cosi vi è un solo concetto e l'universo è una serie
di concepimenti che sono relativamente concetti.E questi concetti costituiscono
un processo di compli cazione che è chiuso tra due limiti estremi, il massimo
ed il minimo. Il limite minimo si ha nell'elemento primo della naturaeperciò
del pensiero,diqna dal quale vi è il sistema e l'organismo dei concetti, di là
dal quale vi è il nulla della natura e del pen siero. Come tale questo limite
minimo dei concetti può essere concepimento od elemento del concetto che segue
ma non concetto.Il limite massimo ècostituito dal concetto assoluto, di là dal
quale vi ha del pari il nulla e di quà dal quale vi è tutto ilsistema e l'or
ganismo dei concetti. Ciò posto i concetti sono nella natura e nello spi
Le cose sono cosi in se stesse,obbiettivamente, con cezione e concetti;
ed il soggetto, volendo conoscerle, deve seguire lo sviluppo di ciascuna di
esse, dal suo primo ed infimo grado sino alla sua più compiuta realtà;deve
seguire il processo del formarsi e del trasformarsi delle proprietà costituenti
l'oggetto che siconcepiscesinoalsuoultimostato,come avviene degli enti morti o
sino al massimo grado della sua energia, come avviene degli esseri viventi o
degli or ganismi etici.Quandoilsoggettoavràcompiutoquesto lavoro psicologico
insieme elogico di concezione in modo che questo processo corrisponda
alprocesso obbiettivo rito,eperciònelpensiero,dispostiinmodo seriale;
onde ciascun concetto che è tra i limiti ha un prima ed un dopo ed è concetto
del concepimento 'precedente e concepimento del concetto seguente.Non sipuò dire
però che il concetto che precede sia compreso come tale e nel senso della
logica classica e con tutti i concetti precedenti dal concetto seguente; poichè
il chimismo che domina il processo dei concetti non a m mette
lacomprensionenelsensoclassico,cheè conside ratain senso puramente
quantitativo. Del pari non si può dire che ciascun concetto si estenda in altri
concetti; perchè esso è chimicamente assorbito e trasformato dal concetto che
segue immediatamente e non si può tro vare come semplicemente tale in altri
concetti'; onde la estensione secondo la logica dei secoli non risponde al vero;
perchè in questa i concetti sono estrinseci gliuniagli
altri,percuinonvièorganismodiconcetti. 69 70 d e l l a c o s a, e g
l i a l l o r a a v r à r a g g i u n t o il c o n c e t t o d i e s s a: ciò
che può dirsi cosi dei singoli concetti o di un si stema di concetti che del
concetto assoluto. L’economia nella vita dell’animale e dell’uomo.
L’ attività economica è una nota propria e fondamentale della vita
animale ed umana. Essa è rappresentata prima dalla fisiologia, cioè dalle
funzioni dell’organismo. Ogni funzione or- ganica, studiata
analiticamente, dimostra una dualità, cioè due termini: l’organismo
vivente che rappresenta l’unità degli or- gani funzionanti; e il mondo a
lui esteriore con cui è in con- tinuo rapporto (alimento, ossigeno
dell’aria, acqua, calore, luce, ecc.). L’ uno dei due termini scisso
dall’ altro annullerebbe in- sieme con la vita l’attività economica; e
l’organismo dovrebbe disfarsi. La vita, sostenuta da organi
di elevata struttura e costi- tuzione chimica, implica l’ unità degli
elementi istologici, dei tessuti, dei sistemi e degli organi che la
rappresentano. Ma la funzione di ciascun organo e sistema, mentre ha un
fine che si esercita o dentro l’organismo, in aiuto ad altre funzioni, o
fuori dell’organismo, contro il mondo esteriore per dominarlo e
farlo servire ai suoi bisogni, deve implicare una continua perdita
materiale degli organi funzionanti, che si riduce contempora- neamente in
una degradazione chimica di sostanze componenti i tessuti e gli organi,
dallo stato di elevata natura a quello di più elementare costituzione
molecolare. Nello stesso tempo deve associarsi ad uno sviluppo di forze
fisiche (forza meccanica, vibrazioni molecolari, calorico,
elettricità). In tal modo i due termini debbono entrare in un
rapporto molto intimo e continuo fra di loro; giacché il termine
esterno naturale, rappresentato dall’alimento, dall’ossigeno dell’aria,
dal- l’acqua, deve diventare interno. Infatti l’alimento da
sostanza esterna e morta, quantunque di elevata costituzione
chimica. ti r I ^
I giacché è stata vivente, come la carne, le uova, il latte, le
erbe, frutta e semi di varie piante, modificati esternamente e poi
in- geriti dall’animale e dall’uomo, vengono ancora modificati, ri-
dotti in sostanze relativamente semplici. Passate poi nel circolo
sanguigno vengono ancora modificate dalla presenza dell’ ossi- geno che i
globuli rossi del sangue hanno fissato per nutrire i tessuti in contatto
dei quali sono messi e dai quali si compie l’assimilazione. In tal modo
il cibo raggiunge la sua massima elevcizione; da termine esterno e morto
diventa interno e vivo. Ma qui comincia la scissura interiore, onde il
termine interno diventa per mezzo della funzione anche esso morto in
alcuni suoi elementi e le sostanze che lo costituiscono, decadute e
sem- plificate, vengono così restituite al mondo esterno, per mezzo
dei reni, della cute, del polmone e ancora modificate dalle glan- dolo di
speciale segrezione; all’ istesso modo che l’energia che costituiva il
termine interiore si risolve in forze meccaniche e fisiche le quali si
spengono entro l’organismo stesso e nel mondo esteriore, anche per mezzo
del lavoro. Il termine interiore che da prima è un organismo
vivente di elevata struttura, perchè è e sussiste, si può chiamare
bene, secondo lo scrittore del j)rimo capitolo della Genesi, per
cui è bene tutto ciò che è creato da Dio; ed il termine esteriore,
perchè anche esso è e sussiste, si deve anche esso chiamare
bene; ma, poiché deve essere degradato come tale, e trasfor-
% maio e ridotto nei suoi elementi; diviene male. E male il
deca- dere, lo scomporsi, il menomarsi degli enti. Ma, poiché dai
suoi elementi di nuovo si ricompone, si organizza ed alimenta la
vita, diviene di nuovo bene; ma bene interno, come il bene in- terno si
trasforma in male interno airorganismo da prima, poi in male esterno;
perchè nei suoi elementi primi si trasforma in male esterno, cioè in
elementi inorganici senza una finalità su- periore. Ma di nuovo può
divenire bene esterno, perchè per mezzo di essi si possono ricostituire i
beni esterni più elevati (piante, animali, ecc.). Il bene cosi si
trasforma in male e questo in bene. L'antico detto corruptio unius gene
ratio alterius espri- me un principio che domina il regno della vita
vegetale ed animale, giacché anche la pianta si trova in una posizione
dua- listica tra sè e il mondo a lei esteriore (il terreno, Tarla,
la luce) ed è perciò in lotta con esso che tende a conquistare,
come questo è in lotta con la pianta. L'animale è in una lotta
più intensa col suo termine esteriore, la natura, come questa
% è in lotta contro Tanimale. E questo lo schema più
semplice della vita vegetale ed animale. Distinta cosi T
attività economica in due termini e fatta Tanalisi di questi, apparisce
più chiaro il concetto generico di economia. Quantunque questa parola sia
stata adoperata la prima volta in Grecia ed intesa come legge,
amministrazione della casa, implica anche il concetto di soddisfazione,
di godimento, che gli animali e noi abbiamo di qualche cosa che
dalTesterno penetri nel nostro organismo. Coinvolge anche il concetto
d'in- tegramento, conservazione, elevazione di qualche cosa di ma-
teriale per mezzo del lavoro delTuomo o per opera della na- tura stessa,
ma che rimane sempre nel mondo esterno alTuomo e di cui questi può
cercare di godere. Importa notare la differenza tra Teconomia della
vita ani- male e quella delTuomo, che implica insieme con la vita
orga- nica 0 animale, qualche cosa di superiore o mentale. Benché
una grande differenza vi sia anche nel regno stesso delTani- malità,
nelle sue varie specie, dalTaniraale infimo a quello della più complessa
organizzazione, giacché dalla prima alla seconda specie il processo della
vita si va sempre più complicando e specificando, alT istesso modo che si
complica ed aumenta di volume Torganisrao nei suoi tessuti e nei suoi
organi; onde si ha un'organizzazione più vasta e complessa, pure in
quest'ara- pia graduazione di animali lo schema dell* economia della
vita è identico in tutti; benché varia sia la quantità dell'
alimento ingerito ed assimilato e poi consumato e ridotto ad elementi
semplici, come corrispondentemente varia sia la somma delle forze fisiche
esplicate. L'animale infatti, a qualunque genere o specie
appartenga, non vive che monotonamente, sempre nel presente, benché
va- ria sia la sua attività esplicata per vivere, secondo la natura
della specie a cui appartiene, e vario sia l'ambiente naturale e
climatico in cui vive. Esso non ha cura che per conservarsi e per fuggire
i pericoli che lo minacciano; cerca la tana, il cibo, e l’acqua per
dissetarsi; alleva con molta cura i suoi nati e provvede per il loro
alimento; li protegge contro le insidie degli altri animali sino a che
essi non possano vivere da sè. Non provvede pel suo avvenire e, durante
la vita, non è suscettivo, a causa delle limitate sue condizioni
psicologiche, a migliorare la sua posizione economica, come è avvenuto
pel suo passato in cui si è riprodotto sempre identicamente lo stesso
tipo e la forma del suo organismo. Dall’animale all’ uomo si
fa un passo gigantesco; giacché questi, a causa della superiorità della
struttura del suo organi- smo e della sua intelligenza, si volge a
studiare continuamente sè e il mondo esteriore. Avendo il suo organismo
molteplici bi- sogni, egli si sforza di soddisfarli per mezzo delle sostanze
che trova nel mondo esterno; e, a differenza dell’animale, prevede
i suoi bisogni avvenire e provvede come può affinchè nulla abbia a
mancargli pel futuro. E, se tende da prima a sfruttare la natura, come fa
l’ animale, di poi, apprendendo da essa stessa i suoi metodi, si sforza
di produrre ciò di cui ha bisogno per vivere (piante ed animali
speciali). Si apn; cosi all’ uomo il campo della produzione dei
beni naturali di cui ha bisogno, e % che può ottenere
per mezzo deir ingegno e del lavoro. E una lotta che egli deve sostenere
contro la natura, che ha avuto principio col suo primo apparire sulla
terra, che è andata sem- pre crescendo ed intensificandosi lungo il
processo della storia e con lo sviluppo della civiltà; e che non avrà mai
fine, finché dura la vita umana. La materia economica non può perciò
essere intesa fuori della sua storia, anzi essa fa una sola cosa con la
storia del- r umanità; giacché questa ha la sua base nell' economia
e senza di questa non potrebbe essere; all' istesso modo che nes-
sun aspetto 0 grado del mondo naturale ed umano sfugge alla storia e
fuori di questa non potrebbe comprendersi. La scienza economica dunque
deve trattarsi storicamente. È questo un ten- tativo che può farsi solo
oggi, in tempo di un grande sviluppo dell'esperienza e della rifiessione
umana, in cui il pensatore acqui- sta coscienza di sé, dei propri bisogni
fisiologici e mentali e del mondo esterno naturale, in ciò che può
soddisfare i detti bisogni. V f Questa materia cosi deve essere studiata
nei suoi due ter- mini, il soggetto e l'oggetto, economici,
ciascuno nella sua storia e nel suo rapporto con l'altro, senza del quale
nessuno dei due termini potrebbe sussistere sotto l'aspetto economico; e
questo rapporto é tutto tra i due termini, per lo quale questi si
uni- scono e dividono continuamente. È la storia deU’umanità e
della natura insieme nel loro aspetto drammatico. Nel
trattare i principii naturali di economia bisogna trarre insegnamento
prima dello studio della storia deH'umanità. Ma nella storia fatta dagli
storici più valorosi e rinomati l'aspetto economico non è messo gran
fatto in evidenza; come se per loro » * non avesse avuto che un'
importanza trascurabile; non veniva perciò compreso e considerato
nella sua obbiettività e non si sognava che un giorno i posteri sarebbero
stati curiosi di cono- scere, nei suoi particolari, il metodo e la
materia dell' attività economica dei popoli di cui si narrava la storia.
Si credeva che il cibo e gli altri beni di cui l'umanità ha bisogno
sarebbero stati sempre abbondanti e perciò non meritava che gli
uomini se ne preoccupassero. Del resto anche gli storici più recenti
si sono cosi condotti verso l’aspetto economico della popola- zione. Pure
in ogni scrittore non possiamo non trovare qualche accenno alla vita
economica delle nazioni di cui si narra la storia 0, se non alla economia
normale, aireconomia patologica, come la carestia, la pestilenza, i
risultati della guerra, le emigrazioni e le immigrazioni, i perturbamenti
della natura fatti per opera della mano deiruomo, che, facendo vedere la
deviazione del processo economico normale e naturale nella storia, fanno
meglio vedere le necessità di questo. Avviene così nel campo economico
quel che avviene nel regno della vita, per cui le malattie che sono
la deviazione funzionale degli organi dal processo tipico normale
della vita, che apportano anche una corrispondente alterazione chimica,
istologica ed anatomica degli organi, hanno dato non pochi contributi
alla conoscenza delle funzioni normali della vita. Vi sono poi le
grandi crisi economiche nazionali o univer- sali, come quella che ora si
attraversa sull’ incarimento del costo della vita, un fenomeno nuovo e
gigantesco che non ha avuto l’eguale nella storia, la cui origine oscura
ci obbliga a riflettere e a meditare per risolvere Tenigma. Vi sono
inoltre gli errori della storia che il popolo stesso compie per suo
prò- prio istinto o che compiono gli uomini di governo, errori di
cui è piena la storia e che, con le loro conseguenze patologiche,
fanno meglio comprendere il processo logico e progressivo della storia
come avrebbe dovuto essere. Cosi è stato disastroso per la vita dei
popoli il non avere compreso la natura propria della moneta che si è
voluta sempre di metallo prezioso, per cui alla scarsezza di questa si
debbono alcune rivoluzioni ed un arresto nello sviluppo del lavoro e
della produzione dei beni e r arricchirsi di alcune nazioni che ne hanno
molta a danno di altre che ne hanno poca. Ma il presente stato economico
del mondo in cui l’ industrialismo ha raggiunto un grado di vitalità
• esuberante da per tutto ed attira l’energia e V operosità
del maggior numero degli uomini i quali affluiscono nelle industrie
e nelle città disertando i campi e i villaggi, ci spinge a stu- diare il
presente fenomeno e, mettendolo in relazione col pas- sato economico, ci
apre la via ad intendere la storia econo- mica deir umanità. Ma la
storia economica che fa una sola cosa con la storia * politica,
artistica ed intellettuale delle nazioni, nell’ aggregarsi o disgregarsi
continuo di queste, è certo un grande e cospicuo periodo del processo
logico della storia del mondo ed è anche quello più memorabile: quello
cioè che, per essere stato esperi- mentato primitivamente da alcuni
uomini, riconosciuto e pro- vato da altri, aggruppati da prima in piccole
tribù o società, e poi esteso, ad altri, è trasmesso a mano a mano ai
posteri col contatto degli uomini, attraverso il loro nascere, crescere
e morire. E l’attività economica che è stata sempre viva nella sto-
ria, quantunque abbia operato in modo inconscio agli uomini, negli ultimi
due secoli ha raggiunto uno sviluppo considerevole insieme con lo
sviluppo industriale e con l’estendersi del com- mercio nel mondo. Questa
da prima si è sviluppata istintiva- mente ed impulsivamente per mezzo
dell' ingegno dell’ uomo che ha saputo trovare ed aprire le vie; poi è
venuta la scienza dell' economia industriale e commerciale, che ha riconosciuto
i fatti compiuti e ne ha formulato e cercato di spiegare le leggi.
Sicché non è stata la scienza economica che ha destato l’atti- vità
economica, bensì questa ha dato origine a quella. Si può
rintracciare dunque, attraverso la storia intellettuale, politica e
pratica dell’umanità, una storia economica. Ma la sto- ria politica
rappresenta il processo degli avvenimenti umani di cui si conserva
memoria; si è perciò innanzi ad un’epoca molto avanzata dalla storia,
quella in cui l’uomo ha cominciato ad acquistare consapevolezza
della sua superiorità sulla natura e della possibilità del suo dominio
sugli uomini inferiori per in- gegno ed attività pratica. Ma la storia
memorabile e memorata presuppone la preistoria, che è di là dalla memoria
degli uo- mini e che nondimeno ha dovuto preesistere alla storia.
Come nessun aspetto della civiltà e delle istituzioni umane sfugge
alla preistoria, quale il linguaggio, la politica, l’arte, la religione,
ecc., così avviene dell’economia e della scienza economica. E la
sto- ria d’altra parte si connette alla preistoria di cui è
continua- zione e complicazione, onde si può dire che nella preistoria
si trovano i principii economici più semplici ed elementari che
nella storia progressivamente si sono andati complicando; ma che sono
sempre vivi ed attivi nella storia ulteriore: ed appariscono nella loro
semplicità nelle grandi crisi di economia so- ciale, quando si sente il
bisogno di tornare alla vita naturale e primitiva. Non bisogna però
ammettere una barriera tra la preistoria e la storia. Ciò che fu il
principio è la base odierna deir edificio economico.
Quantunque la preistoria pura e primitiva sfugga alla no- stra
osservazione, pure, come è avvenuto pel linguaggio, stru- mento
fondamentale deirintelligenza e deirattività pratica umana e del
progresso scientifico, si può rintracciarla prendendo le mosse
daireconomia naturale che può avere rappresentato essa sola neirepoca
preistorica tutta T umanità, che di poi divenne storica, economia che
anche oggi deve essere considerata come il sostegno deireconomia storica,
industriale odierna, e senza la quale questa è destinata a fallire. In
questo senso, guidati dalla logica della realtà delle cose e dalla
psicologia speculativa, si può rintracciare il processo preistorico dell’
economia. Il punto di partenza è qui Teconomia fisiologica, comune da
prima al- Tanimale e airuomo, giacché ambidue sono soggetti
economici che hanno la natura come termine a loro opposto. Ma,
mentre, come si è detto, la soggettività animale ha un arresto nel
suo sviluppo, la soggettività umana all’ incontro prosegue senza
li- miti, cercando di conoscere la natura ed adattarla alla soddi-
stazione dei suoi bisogni, che con la sua intelligenza sa scoprire in sé,
nel suo organismo e nella sua mente, nuove lacune da colmare. A
differenza però deiranimale in cui Torganismo si svi- luppa rapidamente,
onde breve è per esso il periodo in cui ha bisogno delle cure dei
genitori, perchè ben presto può fare uso delle sue forze e rendersi
indipendente, onde vive guidato dai suoi istinti, l'uomo all’ incontro ha
bisogno di un certo numero di anni per potere da sé provvedersi del cibo
e colmare tutti i suoi bisogni. Ben presto morrebbe se, appena nato, non
avesse le cure materne, ed anche se venisse abbandonato a sé stesso
neH'infanzia e neiradolescenza. Molte altre cure poi richiede, ed anche
un certo numero d’anni, se egli vuole educarsi, eser- citare un facile
mestiere od una difficile professione; e volesse elevarsi nella sfera
dell’ alta cultura, dell’arte o della scienza. In questo lungo periodo
della sua vita il giovanetto è allevato e educato dalla famiglia, o dalle
istituzioni di beneficenza, dal- r insegnamento pubblico e dalla
religione. In tutto questo periodo dell’infanzia e della
fanciullezza il dualismo è rappresentato dal fanciullo, ente passivo
nella sua attività, e dalle istituzioni familiari e sociali, che sono il
termine veramente attivo, il quale, servendosi di elementi c vie
naturali, eleva e conduce il bambino all’attività pratica, affinchè
possa col tempo provvedere ai suoi bisogni. Il giovanetto,
diventato adulto, deve da sè solo risolvere il problema dell’esistenza,
per quanto possa essere agevolato dalle istituzioni; allora egli si
trova d’innanzi alla natura alla quale domanda i mezzi di vita 0 di
conservazione. Questi sono rappresentati dal ricovero e dall’alimento che
è fornito dagli animali e dai frutti e semi di piante; e vegetali di una
elevata costituzione chimica. Qui co- mincia la lotta tra 1’ uomo e la
natura. Questa è da prima prov- vida madre per lui, onde gli concede
facilmente ciò di cui ha bisogno, ma non senza che egli taccia qualche
sforzo, qualche fatica, andando in cerca deU’alimento, sottomettendosi
anche a gravi pericoli e spesso rimanendo vittima delle intemperie
o degli animali che egli ha cercato di abbattere e conquistare.
E questa la condizione dell’ uomo primitivo che non ha a- vuto dal
passato insegnamenti e tradizioni; per cui l’esperienza e l’osservazione debbono
cominciare da lui che è fornito di un organismo che si presta ad una
grande varietà di lavori; e di intelligenza che gli è guida all’ attività
pratica, allo studio ed alla conoscenza della natura della quale cosi può
meglio ser- virsi; e conserva memoria delle sue conquiste, passate e
pre- senti. Ma la natura, dà all’ uomo i mezzi di vita, purché li
cer- chi, non glieli assicura per sempre. Comincia cosi l’attività
per la ricerca del cibo e comincia ancora un’epoca di disgregamento per
la ricerca dei luoghi dove la natura fosso più ferace di ve- g'etabili e
di animali, atti a far vivere l’uomo. In quest’ epoca, certamente non
breve, si ha un grande disgregamento del ge- nere umano, in tutta la
superficie della terra, per quei luoghi dove la vita fosse possibile;
giacché in quest’epoca in cui il la- voro collettivo non era ancora
principiato, l’uomo voleva essere solo con la sua famiglia a conquistare
e a godersi la preda. D altra parte 1’ uomo in lotta con la natura
primitiva, che si slanciava ad imprese difficili ed audaci, in tempi in
cui l’aria sulla superficie della terra era buona ed in cui
ralimentazione era prevalentemente carnea, dovea dare al suo organismo
uno sviluppo ed una resistenza ammirevole, che lo rendeva atto a
trionfare dei più grandi ostacoli che nel suo cammino potesse incontrare.
Grande era anche la potenza generativa, per cui gli uomini si
moltiplicavano facilmente. Quel genere di vita tutto naturale dava
un’educazione anche naturale all’ uomo, che gli dava la massima
resistenza all’ impresa e lo rendeva refrattario agli stimoli morbosi
sino alla vecchiezza, se fosse riuscito a su- perare il periodo della
fanciullezza, flrano i tempi di Ercole. In tutto questo lungo periodo
egli cerca, con l’ ingegno che la vita nomade e mal sicura dell’ avvenire
rendono più acuto, a modificare minerali e legna per costruire strumenti
che rendes- sero più facile il conseguimento del fine di vivere; a
rendere alcuni animali adatti ad essere guidati, a viaggiare, a portare
masserizie ed a ottenere la prole di essi, anche per potersene
alimentare. Finché si é in questo stato di vita nomade ed incerta
in cui non si può essere sicuri della vita avvenire ed in cui gli
uomini tendono continuamente a dividersi, le conquiste iiella conoscenza
dei metodi per servirsi della natura vanno perdute e non é necessario il
linguaggio che é possibile quando é data una certa associazione di uomini
i quali, a intendersi scambie- volmente, conservino la tradizione delle
precedenti attività li- mane che agevolano la vita. Tutto questo lungo
periodo della vita umana sulla terra, di una larga estensione sulla
medesima, può essere indicato col nome di 'preistoria dell’ umanità.
La quale bisogna intendere non come ristretta in un solo angolo
della superfìcie della terra, ma come diffusa da per tutto, e dove la vita
dell’ uomo fosse possibile, e rappresenta la fami- glia da per tutto
disgregata in famiglie, di cui ciascuna aspirerà più tardi ad entrare
nella storia e da nomade diventare fìssa. In tutta questa lunga
epoca i due termini dell’attività eco- nomica sono r uomo e la natura; 1’
uomo il quale é uscito da quello stato di felicità del periodo della sua
fanciullezza in cui vive a spese della sua famiglia o della carità altrui;
ma l’uomo che deve fare uno sforzo per andare in cerca dei mezzi di
sus- sistenza; deve cioè andare incontro ad una perdita di forza
mu- -..-.•V scolare e psichica, che, aggiunta alla perdita che apporta la
vita in sé stessa, apporta una perdita maggiore o un male
interiore maggiore. La natura, dando da viv^ere all’uomo, ha una
perdita in sé 0 una degradazione, quantunque parziale e limitata;
ma questa perdita apporta all’uomo un bene interiore. La
mancanza di sicurezza dell’alimento pel domani in que- sto periodo della
preistoria in cui non ancora si erano conosciuti i metodi e non si
possedevano i mezzi per ottenere gli animali di cui avrebbero potuto
servirsi e nutrirsi e né anco si sape- vano conservare le carni degli
animali di cui si era andati in caccia, é la nota preminente di questo
cosi largo periodo dell’umanità. La storia della civiltà ha per fondamento la
storia dell alimentazione. Il passaggio dalla preistoria alla storia,
dalla vita naturate allo stato di civiltà, si ebbe quando si potè
pro\’- vedere ad un alimento che potesse conservarsi per qualche
anno, assicurando così il prolungarsi della vita umana ed il
fissarsi di alcune popolazioni in dati siti della superficie della terra
do- ve la produzione di date sostanze alimentari potesse
avvenire. Scambio e stimoli economici Si eiiira cosi in un
altra c più elevata sfera deH’attività economica che è quella dello
scambio (e questo avviene cosi nella zona industriale propriamente detta
che in quella naturale ed agricola). Si cominciano così a formare dei
piccoli mercati in cui r uomo vende e compra. Jla s’ intende che, prima
che nella storia si stabilissero dei veri mercati, queste
operazioni di scambio avvenivano egualmente, quantunque in modo più
vago, appetiii ai)parve la libertà e l’ elezione nel lavoro del- r
uomo. Nella sfera dello scambio si ha una maggiore facoltà di
acquisto ed un risparmio di tempo e di forza (ciò che è propria- mente r
attività economica); perchè il soggetto economico vende ciò che ha
prodotto facilmente e bene per acquistare ciò che da sè stesso non
avrebbe i)otuto produrre che male e con molta per- dita di tempo. E ciò
in generale; perchè l’ ingegno umano po- ti ebbe in ciò darci una
smentita, non essendo molto rari quegli uomini che hanno saputo tanto
bene educare il loro ingegno e 1.1 loio attività pratica da diventare
valenti produttori di una varietà di beni e in modo perfetto. E questo
avviene cosi per la produzione dei beni inferiori e materiali che dei
beni supe- riori ed artistici. Importa notare che lo scambio
può avvenire tra questi e quelli, come con le attività intellettuali
dell’uomo. Cosi il lette- rato, r uomo istruito e dotto, l’ insegnante,
il medico, l’ inge- gniere, l’ avvocato, scambiano il loro sapere, la
loro dottrina e l’arte, con beni materiali. Anche nella sfera dello
scambio, l’acquisto implica una perdita, quantunque la perdita sia
ridotta al minimo; perchè quello che il produttore perde gli è
costato relativamente poco lavoro, mentre quello che acquista è per
lui un guadagno, perchè ha un prodotto che si suppone buono, che
egli non avrebbe potuto eseguire, anche perdendo molto tempo. Per
mezzo del lavoro artistico dunque la produzione dei beni si specializza, mentre
questi si possono moltiplicare senza limiti, perchè ognuno può trovare
nell’uomo una sorgente di bisogni da colmare e nuove comodità che si
desiderano, nuovi beni che riescono a quel fine. E poiché in tutti gli
uomini si ha r istesso metodo e perciò gli stessi bisogni che si tende a
sod- disfare, i nuovi beni prodotti sono ambiti da tutti. Ma qui
deve intervenire l’opera dell’istruzione che sveglia e fa
riconoscere aU’uomo i propri bisogni e fa sviluppare in lui il desiderio
di soddisfarli. Moltiplicandosi i beni che l’uomo ambisce,
egli può acqui- starli tutti col suo prodotto particolare che alla sua
volta viene ambito dai produttori dello merci altrui, con le quali egli
scam- bia la sua. Il principio economico qui non solo si conserva,
ma si eleva ad una più alta potenza di acquisto. Ma più tardi
1 ’ uomo ha avuto un istrumento d’acquisto non solo nel suo ingegno e
nelle sue forze muscolari, ma anche nella macchina che egli, aiutato
dalla conoscenza delle leggi mecca- niche ha prodotto ed applica ancora
alla produzione di una grande varietà di beni. E necessario
qui promettere che la macchina come inven- zione umana è stata preceduta
dalla macchina che è insieme nell’organismo animale ed umano. L’
organismo infatti è insieme meccanismo; e se come organismo è qualche
cosa di più elevato del meccanismo che implica, come meccanismo non cessa
di essere macchina; macchina organica si, ma sempre macchina. Lo
schema della macchina si ha infatti in tutti gli organi e i sistemi più
importanti deH’organismo; nel cuore col sistema va- saio annesso;
neU’apparecchio digestivo con le sue glandolo, co- me in ciascuna
glandola; nell’apparecchio respiratorio; nei reni e nella vescica; nel
sistema osseo-muscolare-nervoso. L’occhio è una macchina, come
l’orecchio. Anche nel cervello si trovano gli elementi più complicati
della macchina; all’istesso modo che le funzioni di tali organi sono
insieme funzione e meccanismo. È proprio della macchina costruita dall’
ingegno umano il venir "•uw'mo'' • ‘‘‘ Hìacchina die è
or- moNe oigan.smo, anche essa per mez^o di questo.nuove
l.i macchina esteriore, sia immediatamente che mediatamente per
mezzo delle forze fisiche. ^uiawmente, L’apparire della macchina è
stato accolto con grande entu- ..asmo da tutto il mondo, perchè ha portato
una fraudo rivo uz.one nel campo della produzione, poiché l’A accresciuta
co.isi- erc^olmcnte; ma ha anche contribuito ad una maggiore spe-
CK hzzaz.one d. produzione. E poiché la macchina è stata appli- c a anche
al trasporto dei beni in tutto il mondo, per mare e PCI terra, ha anche
contribuito ad accrescere in modo come non era possibile prima, il
commercio mondiale. Sicché ol! e solamente possibile a pochi uomini
godere di una grande J-h nomi I che sono nel mondo. Si ha cioè il
grandioso feno- meno de la umversalizzazione del godimento dei beni. È
questo nsuUato di una lunga storia nell'attivirà degli scambi che
pimcipiata in modo limitato, tra individuo e individuo, per una’
lunpo tra vari aggruppamenti umani, tra varie popolazioni e
mi/ioiii, e tra tutte le parti del mondo. È questa veramente la
pffffcernza.''"’ « dell’industrialismo S’intende che se
prima lo scambio comincia cedendo merce per merce, e in certe condizioni
questo può sempre avvenire lo scambio e.1 commercio che rendono accessibili
le merci da |.cr t„„o, h„„ dovuti avvenire con la moneta che é,m
mé.t tei mine, inventato da. governi, tra due merci o più merci; per
cui «1 lavora, cioè si danno le proprie forze, il proprio ingegno e
a propria produzione, per guadagnare danaro e si ambisce que- sto
per provvedersi di tutti i beni di cui si ha bisogno. Segue ancora che,
in ragione che la produzione, gli scambi e il cL- moneta ìr^nmiido;
È qui necessario far notare che, se la parola stimolo inter- lene a ogni
passo nella trattazione dei fenomeni fisiologici e pa ologici, come nei
fenomeni psicologici, intendendo la psicoogia in tutta la sua ampiezza, in
tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, apparisce chiara la necessità
dell’ intervento frequente di questa stessa parola anche nello studio dei
fenomeni econo- mici, giacché anche questi hanno un fondamento
fisiologico e psicologico, senza il quale non potrebbero essere. Così
nella pro- duzione si ha uno stimolo interiore a produrre, il bisogno inte-
riore organico e psicologico, immediato o prossimo, che deve sparire,
facendo col lavoro esistente il bene che si desidera: l’im- magine
interiore cioè deve tradursi in atto col lavoro produttivo e che diventa
anche stimolo esteriore, la materia esteriore otte- nuta col lavoro, per
mezzo della coltura (sostanze vegetali) o con rallevamento del bestiame
(sostanze organiche). Queste debbono alimentare e far vivere 1’ uomo,
trasformando la materia morta e bruta che deve dargli alcune comodità o
godimenti dell’ animo. Si ]Hiò dire che sono gli stimoli e gli
stati interiori a spin- gere 1 uomo all attivila; e più questi sono
numerosi ed elevati più muovono l’individuo al raggiungimento dei suoi
materiali od alti filli che egli vorrebbe vedere tradotti nel mondo reale.
Ma alla sua volta gli stimoli interiori sono il riflesso di stimoli
este- riori, di oggetti già percepiti o immaginati. È questo ciò che
si esprime con la parola ambizione umana la quale, se è la nota
preminente dei grandi uomini è anche una nota importante degli uomini
mediocri e d’ infimo ordine, giacché ogni uomo, secondo il grado della
sua costituzione mentale e della conoscenza del mondo esteriore, naturale
ed umano, vorrebbe far suoi tutti i beni che conosce, sia di basso che di
elevato ordine. Il cibo è uno stimolo per l’alimentazione e la fame è uno
stimolo per provve- dersi del cibo. Cosi il gusto letterario e le
conoscenze scientifiche possono essere uno stimolo interiore per
ajiprofondirsi nel campo dell’arte e delle.scienze. Non solo
sono stimoli i due termini economici, oggetto e soggetto, 1 uno per 1
altro: nia è anche stimolo il mezzo termine fra le due merci o tra il
soggetto e l’oggetto, cioè la moneta. L come è nota della natura umana
l’insaziabilità dei beni mate- riali e spirituali, quando questi siano
conosciuti; ciò che è dif- ficile, come 1 illimitatezza nell’acquisto,
cosi avv^iene per la mo- neta. Di questa anche 1 uomo non è mai sazio di
possederne; perchè riconosce in essa una possibilità ed uno stimolo per
66 acquistare altri beni. Ed il possesso è di vari
gradi. Vi è il pos- sesso limitato della moneta, per quanto questa possa
essere grande, e di essa 1 uomo si contenta e che vuole o conservare o
spen- deie, 0 di questa egli si serve come stimolo per la
produzione di nuove ricchezze. Proprio quando la vita
economica, industriale, commerciale, è molto complessa ed estesa, e tutto
il mondo umano sembra un grande mercato come è ora, per cui grandi sono i
bisogni c le richieste dei beni da per tutto; e l’ambizione umana si
estende ed intensifica ovunque, allora la ricchezza può essere
adoperata come strumento (stimolo) per acquistare nuove ricchezze.
Cosi viene stimolata la sete deH’uorno per l’acquisto indefinito
della ricchezza; perchè vi è richiesta di tutti i beni che egli
conosce e di cui vuole godere, come da per tutto viene apprezzato e
richiesto il lavoro dell’uomo..Si comprende in tal modo come piu
sovrabbonda il danaro in una società, più gli uomini.sono spinti all
attività pratica e cresce la loro ambizione per guada- gnare e godere.
Uomini che hanno quest’aspirazione e non hanno danaro, ma riconoscono di
avere ingegno, forza muscolare e tempo per arricchirsi, ricorrono al
prestito del danaro. Ma cosi si entra in una categoria economica più
elevati, quale è appunto il presfito, il cui polo opposto è il capitale.
Il semplice possesso della ricchezza, sia questa rappresentata dalla
moneta o da altre specie di beni immobili e mobili o da prodotti
industriali od artistici, se è come semplice servizio personale o della
famiglia, non merita il nome di capitale. Si richiede invece che essa
si.a data in prestito. XV. Il
capitale-prestito, 11 capitale-prestito cosi rappresenta un più
alto grado dello scambio; e, come in questo, ciascuno dei due termini o
soggetti economici acquista e perde, cosi avviene nel
capitale-prestito; ma anche qui la categoria di acquisto e perdita
implica una più elevata economicità. Cosi colui che prende in prestito
acquista la ricchezza ma la perdita e rimandata aH’avvenire; si ha cioè
il bene presente; ma la perdita che dovrà aversi nell’ avvenire
consisterà non solo nella restituzione del capitale, ma anche nell’
interesse convenuto. Frattanto l’uso provvido ed economico del capitale
avrà dovuto fargli acquistare nuove ricchezze. An- che nuove ricchezze
acquista il capitalista, cedendo tempora- neamente la sua ricchezza ad
altri; ma va incontro anche ad una perdita temporanea della sua ricchezza
durante il periodo della sua cessione; perchè non se ne può
servire. Col capitale e col prestito l’attività economica da una
sfera limitata e quasi individuale, quale è quella dello scambio,
da prima in una ristretta cerchia, s’ingigantisce ed estende da pri-
ma in ciascuna nazione e più tardi gradatamente in tutto il mondo; con la
fondazione o moltiplicazione delle banche che dànno una grande diffusione
al capitale e al credito, stimolando l’attività economica produttiva e
portando la diffusione delle merci da per tutto. E ciò con l’aiuto della
macchina che ha moltiplicato e specializzato la produzione dei beni
industriali e li fa penetrare, come vi fa penetrare anche i beni
naturali, in tutto il mondo umano. Ma per quest’attività si richiede l’
ingegno; all’ istesso modo che 1’ esercizio di essa fa sviluppare
Tingegno. La produzione dunque della ricchezza capitalizzata e
capi- talizzante, per cui si tende sempre a ridurre al minimo la
perdita, nello stesso tempo che si tende a jiortare al massimo
l’acquisto, deve essere sempre l’obbietto dell’attività del soggetto
economico. Me questa che già fece esistente il capitale si affie-
volisce, 1 oggetto per mancanza di governo e di direzione tende ad
arrestarsi nel suo processo e, per le mutate condizioni este- riori,
tende a deviare, a perdere la sua potenzialità di acqui- stare ed a
venire cosi scemato come semplice ricchezza. Sicché, se dalla
produzione diretta primitiva alla produzione capitalistica si ha una
progressione per cui pare che la ricchezza si produca da sé,
indipendentemente dal soggetto, pure l’attività di questo deve
intervenire, cercando di farla progredire ed ac- crescere. Deve prevedere
il cammino che si può e si deve fare e provvedere alla
conservazione della ricchezza ed alla sua dif- lusione proficua; ciò che
è il lavoro di critica e di speculazione che il soggetto deve tare. Ad
ogni modo questo lavoro, se im- plica una piccola perdita di tempo e di
forza organica e psichica, pure riduce con l’esercizio al minimo questa
perdita; onde si può dire che se il lavoro di produzione che da prima è
grande, secondo la quantità e la specificità d’impiego del capitale,
esso è di poi menomato e perciò agevolato; anzi deve al meccani-
smo, guidato dall’ intelligenza, il suo grande sviluppo. All’incontro
nella produzione naturale il soggetto deve so- stenere una lotta
intensa contro il suo oggetto, la natura indo- mita e ribelle, che
può essere vinta temporaneamente ma non definitivamente; giacché essa
offre sempre nuove difficoltà al soggetto produttore, anzi si può dire
che dai primi tempi della \ ita umana sulla terra, queste difficoltà si
sono andate sempre accentuando. E ciò perchè, se la natura da prima, dopo
uscita dal suo stato selvaggio, dava facilmente all’ uomo i suoi
pro- dotti, col progresso del tempo gliene ha dato sempre meno, an-
che essendosi moltiplicato l’ ingegno e il lavoro dell’ uomo volto contro
di essa. E ciò mentre gli uomini si moltiplicavano ed ac- crescevano con
la loro associazione i loro sforzi per la produ- zione agricola.
Sembra che d’ oggi innanzi il lavoro dell’ uomo contro la natura
per obbligarla a produrre ciò di cui ha bisogno diverrà sempre più
intenso ed i mezzi più necessari alla vita diverran- no sempre più difficili
a conquistare. In altri termini la lotta tra l’uomo e la natura diverrà
sempre più intensa; perchè la fina- lità di questa è in opposizione alla
finalità di quello; ed una con- ciliazione solamente è possibile alla
condizione che ciascuno dei due termini conceda all’ altro qualche cosa
di sé, senza annul- larsi, anzi sostenendosi l’ uno con l’altro. Questo
fa vedere che r uomo deve essere limitato nelle sue pretese verso la
natura e che, se questa deve dare qualche parte di sé all’ uomo,
non può e non deve dare tutta sé stessa se non a costo di annullarsi;
perchè allora anche la natura, dominata dall’ uomo ed alla quale questi
domanda i mozzi di vita, dovrà venir meno alle sue pro- messe, producendo
in lui le più grandi delusioni. Frattanto, mentre i prodotti dell’
industria si moltiplicano indefinitamente e progressivamente da per
tutto, in quantità e qualità, richiedendo questa un esiguo lavoro
muscolare e meno tempo, ciò che incoraggia l’ irregimentazione dei
lavoratori, tanto più perchè questi vi hanno la promessa di una vita
agiata e comoda, quasi sempre in città, senza sospettare che un
giorno avessero a scarseggiare gli alimenti necessari alla vita, i
lavo- ratori delta terra, all’ incontro debbono sostenere una lotta
lunga faticosa ed intensa per procacciarsi di che vivere. Del valore
e delle sue forme inferiori Le attività economiche, come quelle
fisiologiche, sono cosi connesse ecl intralciate fra di loro che
l'esposizione logica e siste- matica ne riesce oltremodo difficile, Non
si può trattare un a- spetto, una categoria economica se in essa non
intervengano, sottintese o manifeste, altre categorie. Sicché da prima si
può avere una conoscenza parziale o sconnessa di alcune funzioni; e
solamente dopo che si è raggiunta la piena conoscenza di tutte, si può
principiare a vederle ordinatamente. È que.sta la ragione della
difficoltà nello spiegarsi i fenomeni economici. E l’ordine consiste
neH’universalizzazione dei vari principii e nel 1’ unificazione di
que.sti in tutte le loro gradazioni, in tutti i loro movimenti, nei loro
reciproci rapporti, tanto da apparire come lo svolgimento di un principio
solo. Sotto quest’aspetto molto importante è il principio del valore in
economia politica, cosi in quella naturale come in quella industriale; e
in tutte le isti- tuzioni umane nelle quali questo concetto interviene.
Ma solo una esposizione storica e sistematica, in che consiste la vera
tratta- zione logica della dottrina, può farcela intendere in tutti i
suoi gradi ed aspetti. Negli ultimi tempi si è parlato di
valore in materia di arte di scienza, di filosofia, di religione; ma
poiché in tali rami di attività umana, cosi come sono stati trattati, la
dottrina del va- lore non é dedotta da un principio più univ^ersale che
comprenda e questi e tutti gli altri rami del mondo naturale ed
umano, quella trattazione riesce incomprensibile e vana. E, benché
si possa dire che la filosofia e la religione implichino la più
alta sfera del valore, pure, se esse v^engono considerate come per
sé, senza alcuna comunicazione col resto del mondo, non come il
risultato di uno svolgimento e di una storia, il concetto del valore che
da esse si può trarre non deve essere soddisfacente. E se il valore è una
categoria universale che interviene in tutti i gradi deiressere, nel
mondo metafisico, come nel fisico e nello spirituale, in ciascun grado ha
un aspetto particolare, ha qualche cosa d'identico e di differente con la
stessa categoria di valore degli altri gradi del mondo reale. Far distinguere
perciò le dif- ferenze dall’ identità del valore in ciascun grado della
realtà è il dovere di colui che tratta questa materia. Da
prima potrebbe sembrare che la teoria del valore si identificasse con
quella del bene; ed in vero vi è molta identità fra le due categorie.
Però del bene i filosofi e i moralisti hanno dato più un concetto
comprensivo che analitico e storico; ed alcuni Tànno identificato con Dio
stesso, il sommo bene. Essi hanno anche fatto notare la varietà dei beni
che sono nel mondo e l'ànno anche sistematizzati; hanno messo il bene e
tutti i gradi di esso in correlazione col male e con tutti i mali
pos- sibili. Ma la dottrina del valore include quella del bene e
del male insieme, però le compie, mettendole in una posizione dua-
listica ed unitaria insieme, quasi drammatica; scinde cioè la ma- teria
in due termini in lotta fra di loro, rorganismo e il mondo esterno che ha
valore per quello, può cioè tornargli a bene; vede una dualità tra
l'anima, la mente e il mondo esterno. E se nella prima zona Torganismo
vivente deve accettare e subire il mondo esterno quale è, pure reagendo
contro di esso; nella se- conda zona r anima e la mente possono
modificare per sè il mondo esterno, elevandolo; o produrre addirittura
qualità nuo- ve neiroggetto. % E questo l’aspetto
nuovo ed originale della dottrina del va- lore, il cui regno in verità é
quello della vita organica, vegetale ed animale, le zone cioè superiori
della natura; ed anche quello deH’aniraa umana, nelle sue attività
inferiori e nelle superiori, intellettive, pratiche ed anche creative,
che sono i gradi più eminenti del mondo umano. L’attività umana perciò
diventa essa stessa una forma altissima di bene, il bene attivo,
limitrofo a Dio stesso: non il bene immobile che può anche menomare se
stesso e il suo termine opposto che presuppone e per cui è; può
pro- durre cioè il male, dal quale può, è vero, di nuovo nascere il
bene che rientra nella sua ricostituzione storica e progressiva. Ma, se r
organismo e la mente rappresentano il regno e la vitalità del valore,
essi non esauriscono tutta la natura; vi è in questa qualche cosa che
essi presuppongono, senza di che non potrebbero essere e muoversi; e che
si può dire il loro presupposto. E se si va a fondo nello studio della
natura questo che noi chiamiamo presupposto si risolve in una serie di
pre- supposti, una serie di gradi di cui ciascuno è presupposto e
presuppone altri. E questa è pure un’ ampia zona del valore che si può
dire puramente naturale, la quale, studiata, apparisce come l’unità e la
sistematizzazione di altre sottozone. Si ha cosi la zona fisica la quale
comprende e quella della materia e quella delle forze. Sembra a prima
vista che questa sia come chiusa in sè ed isolata dal regno della vita e
perciò fuori il mondo del valore. Forme superiori del valore
Il processo ascensivo e discensivo, chimico, minerale, il quale,
non bisogna dimenticarlo, è sempre un processo di elevazione e di
menomazione insieme del valore, diventa più intenso in quella sfera più
elevata della chimica che è 1’ organica in cui entra in composizione il
carbonio. Pure quest’ attività è relativa- mente qualche cosa di semplice
se si studia in sostanze singole che sono fuori dell’ organismo vegetale
ed animale o estratte da questi. Ma se si.studia entro di questi, l’
intensità trasforma- trice del movimento chimico e di valore organico
diventa stra- ordinariamente complessa, quantunque questa complessità
sia minore nella pianta e maggiore nell’ animale. In quella è con-
siderato il lavorio complicati vo mentre è vivente; e con la morto si ha
il lavorio analitico. Nella vita interna dell’animale albi contro
intensissimo è il lavorio di scomposizione, come è quello di composizione
e di reintegramento, in tutti gli atti della vita, sia considerata in
ciascuna cellula e in ciascuna fibra che in ciascun organo o sistema e
nell’ unità funzionale di questi. Qui il concetto del valore, cosi in
ciascuno elemento della vita, come in ciascun organo e tessuto e nell’
insieme dell’organismo vivente, diviene di tanta molteplicità,
complessità e varietà, che la mente umana non può seguirlo in tutti i
suoi elementi e in tutti i suoi intimi processi. Vi è una più
alta regione della natura, rappresentata dalla vita animale e vegetale
nel loro insieme, come si svolge nel mare dove vivono insieme piante ed
animali in lotta fra loro; e sulla superficie della terra che è
rappresentata dal bosco nel cui mezzo gli animali vivono e prosperano,
come è avvenuto nelle epoche primitive della natura vegetale ed animale.
Qui •V ciascun animale, ciascuna pianta, è un
elemento della vita na- tumle, animale e vegetale, nel suo insieme e
nella sua univer- salità, nella quale si può riscontrare, in proporzioni
ancora vaste ed universali, il processo di elevazione e di riduzione, che
si ha in ciascuno organismo vivente, onde piante e generazioni di
piante muoiono ed altre nascono, come animali e generazioni di ammali
muoiono ed altri nascono; ed alcuni servono di cibo (hanno un valore) per
altri: la corruzione degli uni è la vene- razione degli altri. Ma per la
vita vegetale ed animale hanno un valore ancora il clima, le condizioni
atmosferiche, le condi- zioni del suolo ed anche le condizioni storiche
di questo; giac- che la vita vegetale ed animale nella loro lunga storia,
come elidono a modificare lo stato del terreno, contribuiscono
ancora a modificare la vita vegetale ed animale, onde animali si
nu- trono m modo più 0 meno rigoglioso di piante e di altri ani-
mali; e la dissoluzione delle piante e degli animali rende più energica
la vitalità delle piante. hin qui vi ò un processo puramente
inconscio di movimenti naturali e di elementi, di cui gli uni hanno
valore per gli altri, -la, benché l’animale distingua ciò che può avere
un valore Ku- lui (positivo 0 negativo), come l’alimento, l’acqua, la
tana, .1 c ura pei figli, la ricerca del clima a lui propizio, la fuga
dai leiicoli, alcune di queste cose sono un prodotto puramente na-
urale, che l’animale trova d’ innanzi a sé; solo alcuni animali ivendo il
potere limitato di costruirsi il nido e la tana • altre i Olio tenomeni
istintivi. ’ Apparso l’uomo con l’intelligenza di cui è dotato, che
egli < sercita e sul mondo circostante e su sé stes.so, il suo
organismo I sua anima, e tutto ciò che ha fiuto suo, nel mondo
esterno Ultra la natura e gli elementi che la costituiscono,
acquistano I 11 pili alto valore. Studiando sé stesso, egli non può non
av- ' crtire e scoprire i bisogni, le lacune che si generano conti-
1 uamento nel suo organismo e nel campo della sua mente; e con la sua
intelligenza prevede i bisogni avvenire. Nello stesso t ‘inpo, essendo
messo in rapporto col mondo esterno, egli studia questo negli elementi,
nelle qualità e proprietà, che lo costitui- s-ono, nei suoi movimenti;
cerca di adattarlo a sé; e non solo d colmare i suoi bi.sogni per mezzo
di qualche cosa, di qualche
elemento di esso; ma anche di elevare il proprio benessere, di
assicurarlo per sè ed i suoi per l’ avvenire. Tutto questo processo è
avvenuto dal principio della storia dell’ uomo sulla terra e si è andato
progressivamente affermando, intensificando e svolgen- do, sino a noi. E
non solo non si è arrestato; ma con lo studio progressivo della natura,
nella sua materia e nelle sue forze, .sembra voglia assumere proporzioni
più vaste anche nel nostro tempo in cui non si lascia nulla di tentare e
di studiare per applicarlo al miglioramento ed al progresso umano.
Questo lavoro l’uomo ha compiuto empiricamente ed incon-
sapevolmente dai primi tempi; e più tardi in modo più o meno scientifico,
organico e progressivo. Cosi deve essere inteso il progresso che l’
umanità ha fatto nel campo del sapere. A questo progresso nel regno della
conoscenza si è andato sempre asso- ciando un progresso nell’ attività
pratica la quale è divenuta anche materia di studio per l’ uomo; questi
due ordini di attività essendo 1’ uno indivisibile da 1’ altro e 1’ uno
stimolando 1 altro nel suo sviluppo. A questo processo coiioscitivm e
pratico, che implica un lavoro distintivo delle cose si è associato
un progresso nel linguaggio. Ad ogni atto distintivo o cosa
distinta applicandosi una nuovni parola, ciò ha contribuito al lavoro
di associazione e di conservazione delle conoscenze e delle atti-
vità umane. Sarebbe un lavoro importante ma lungo seguire questo
fenomeno nella storia, per cui si è riconosciuto un valore ad un dato
minerale, ad una data pianta o animale, che hanno con- tribuito alla
soddisfazione di un bisogno organico o al mantelli mento della vita o a
dare certe comodità. Si è riconosciuto nelle parti di alcune piante e
nelle sostanze animali un valore nutri- tivo e conservativo. E il primo
valore che l’uomo ha cercato nelle cose è stato quello che ha potuto
contribuire a mantenerlo in vita, come ha tatto 1 animale. Sono state
cioè le cose neces- sarie che egli ha cercato. Fatto sicuro del vivere,
egli ha cercato a ben vivere; quindi la ricerca e 1’ uso delle cose
utili. Ma, ac- canto a questa attività, si è sviluppata quella inventiva,
per cui egli, aiutato sia dal suo ingegno che dalle scoperte
scientifiche, ha cercato di costruire istrumenti, congegni, apparecchi e
più tardi, macchine, che contribuissero a modificare le inatGrie
che I — 80 — dovessero essergli
utili. Sicché da una parte ha impiegato le sue attività intellettive a
scoprire, nei regni delia natura, ele- menti, sostanze, energie, che
potessero giovargli, dall’altra ha cercato di trovare i mezzi per
servirsene. Queste attività dal loro più primitivo inizio nella
storia sino a noi, attraverso i millenni, si sono andate svolgendo ed
esten- dendo con l’estendersi delle comunicazioni e delle
associazioni umane. Sarebbe una ricerca importante seguire nella storia
il processo per cui 1’ uomo, singolo da prima, ha trovato
un’utilità in un dato animale, in una pianta o in un minerale. Si può
rin- tracciare questo cammino nelle letterature antiche, medioevali
e moderne di tutte le nazioni; giacché in varie epoche si vedono
nominati speciali metalli, piante ed animali, ai (]uali o alle parti dei
quali 1 uomo ha attribuito un valore e di cui si é servito. Così l’uomo
mano a mano ha aggiunto al valore delle cose, latente ed inconscio, un
nuovo valore. E, se da prima questo era qualche cosa di limitato, più
tardi al primitivo valore si sono aggiunti nuovi valori, nuovi usi della
cosa; nuovi congegni si sono in- ventati, nuovi metodi si sono adoperati
per poter estrarre la cosa, modificarla, farla servire ai vari usi della
vita; metterla in commercio affinché tutti gli uomini ne godano. Tanti
metalli e metalloidi che dalle epoche primitive della natura erano
se- polti nelle viscere della terra, aventi una semplice
potenzialità di valore chimico, vengono disseiipelliti dall’ uomo ed ai
quali la civiltà moderna dà alte attribuzioni economiche, come
l’oro, 1 argento, il ferro, il rame, il solfo, il carbonio, ecc. Hi
sa che se presentemente ipiesta sola unica sostanza, il carbonio,
veni.sse a mancare, tutto il ritmo della vita contemporanea
verrebbe arrestato; giacché é un istrumento di moltiplicissime
attività tisiche, meccaniche, chimiche e perciò, si può dire, rende
possi- bile la vita economica del nostro tempo. Ma questi bisogni
ac- ciescono 1 attività umana la quale si volge a rintracciare le
•sostanze di cui ha bisogno, da per tutto, cosi sulla superficie ionie
nelle vi.scere della terra. Anche le forze fìsiche le quali prima erano
in balla della natura, come le forze meccaniche, il calorico, la
elettricità,.sono state non solo conquistate e domi- nate dall’uomo ma
ancora dirette e specializzate per la produzione di certi dati movimenti,
beni o comodità della vita. La forza V
meccanica e l’elettricità hanno dato un impulso straordinario alla
civiltà odierna. Più tardi 1’ uomo crea e dà certe attribuzioni di valore alle
cose, come fa con la moneta, tanto necessaria al mondo economico. Inoltre
il v^alore acquista un nuovo e più alto contenuto ed un significato nuovo
nel mondo psicologico ed artistico, come nella sfera religiosa. Ma in
queste ultime e così alte sfere dell’attività umana tale dottrina merita
una trat- tazione a parte. Nicolò Raffaele Angelo D’Alfonso. N. R.
D’Alfonso. Nicolò d'Alfonso. Keywords: principii economici dell’etica, valore
superiore, valore inferiore, economia, principio di economia di sforzo
razionale – scambio, exchange – worth, assiologia, valore economico, l’economia
di Platone, l’economia di Aristotele, linceo, dissertazione su Kant ai lincei –
naturalismo economico – no positivista – critica a la psicologia criminologica
positivista, Amleto, lo spettro di Amleto, Macbeth. Linguaggio e mente, il sole
luminoso, l’oggetto rotondo, la pianta fiorisce – logica reale – psicologia del
linguaggio, la storia del linguaggio, storia e prestoria. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Alfonso” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688359432/in/photolist-2mPpb7N-2mPpBQV-2mNzeEc-2mNb8t7-2mMQbzj-2mMJpgU-2mLQc9e-2mLP9qE-2mLQ1Vx-2mKy2vb-2mLK4N4-2mLQCG1-2mLDz3J-2mPu6xB-2mKDXUP-2mKFZMJ-2mKwv6q-2mKMa8P-2mKQDnb-2mKC3nj-2mKNtmY-2mKHdnD-2mKwdUT-2mKw3hq-2mPoBGn-2mPvmTf-2mKCfz1-2mKAsyK-2mKwmsU-2mKCdPg-2mKM4Dx-2mPYoE5-2mKPWrs-2mKLYsa-2mKN88B-2mKDteh-2mKxnN1-2mKCnei-2mKj2vX-2mKk6t5-2mKgT2F-2mJPC2N-2mDZZD3-BT3zr9-BLF8zr-naLzwu-naN7ba-ns1euc-ns1kPM-naLwMj/1
Grice ed Algarotti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “You’ve
got to love ‘il conte Algarotti’; he is the typical Italian philosopher of
language, relishing on ‘la bella lingua,’ by which they do not mean the Roman!
“La Latina, in bocca di un popolo di soldati, e concise e ardimentosa.’” Grice:
“Algarotti thinks that the Florentines have enriched it – ‘Imagine Aligheri in
Latin!” – Grice: “All that should be lost on Oxonians, but it ain’t!” – Consider
‘conciseness.’ One of my conversational maxims is indeed, ‘be concise, i. e. or
viz., avoid unnecessary prolixity [sic].” – So, if the Roman tongue was the
tongue of soldiers, and a soldier needs to be concise in communicating with
another soldier – The justification of the maxim is in the practice of
‘soldiering.’ With ‘ardimentosa’ we have moer of a problem!” – Grice: “In any
case, Algarotti’s excellent point is that each conversational maxim has its
root in the practice of the corresponding conversants!” -- Grice: “Nobody can fail to be enchanted by the drawing
by Richardson of Algarotti!” -- essential Italian philosopher. Grice: “I don’t
have a monicker, but Algarotti had two: il cigno di Padova and il Socrate
veneziano. Filosofo. Spirito illuminista, erudito dotato di conoscenze
che spaziavano dal newtonianismo all'architettura, alla musica, era amico delle
personalità più grandi dell'epoca: Voltaire, Jean-Baptiste Boyer d'Argens,
Pierre Louis Moreau de Maupertuis, Julien Offray de La Mettrie. Tra i suoi
corrispondenti vi erano Lord Chesterfield, Thomas Gray, George Lyttelton,
Thomas Hollis, Metastasio, Benedetto XIV, Heinrich von Brühl, Federico II di
Prussia. Saggi, 1963 (testo completo) Nacque da una famiglia di
commercianti. Dopo un primo periodo di studio a Roma continua gli studi a
Bologna, dove affronta le diverse discipline scientifiche nella loro vastità.
Si trasfere a Firenze per completare la propria preparazione letteraria.
Inizia a viaggiare, raggiungendo Parigi. Presentare il proprio newtonianismo, opera
di divulgazione scientifica brillante. L'opera fu prima apprezzata, e poi
denigrata da Voltaire, che dal lavoro del suo caro cigno di Padova — come era
solito appellarlo — trasse alcuni temi dei suoi Elementi della filosofia di
Newton. Voltaire e Algarotti si erano conosciuti personalmente a Cirey nello
stesso periodo in cui l'italiano preparava il saggio. Dopo il periodo trascorso
in Francia, Algarotti si reca in Inghilterra, per soggiornare per qualche tempo
a Londra, dove fu accolto nella Societa Reale. Tornato in Italia si dedica alla
pubblicazione del Newtonianesimo. Dopo un breve ritorno a Londra, andò a
visitare alcune zone della Russia (fermandosi in particolare a San Pietroburgo)
e della Prussia. Quando il re Federico si recò a Königsberg a
incoronarsi, Algarotti si trova in mezzo gli applausi e il giubilo di quella
potente e valorosa nazione misto e confuso coi principi della famiglia reale, e
stette nel palco col re, spargendo al popolo sottoposto le monete con
l'immagine di Federico. Fu in tale congiuntura che questi conferì a lui, quanto
al fratello Bonomo e ai discendenti della famiglia Algarotti, il titolo di “conte”,
meno vano quando è premio del sapere, e lo fece suo ciambellano e cavaliere
dell'ordine del merito, mentr'era alla corte di Dresda col titolo di
consigliere intimo di guerra. Dal momento che conosce Federico né l'amicizia,
né la stima del re, né la gratitudine, la devozione e il sincero affetto del
cortigiano vennero meno, né soffersero mai alcuna alterazione. L’amicizia fra Algarotti
ed il re e estesa anche alla sfera più intima. Il re lo volle non solo a
compagno degli studi e dei viaggi, ma altresì dei suoi più segreti piaceri,
essendoché della corte di Potsdam, ora fa un peripato, ed ora la converte in un
tempio di Gnido, il che significa: in un tempio di Venere. Utilizza la
propria influenza anche a favore degli oppositori filosofici a Venezia,
Bologna, e Pisa. Altre opere: “Viaggi di Russia”; “Il Congresso di Citera” -- un
romanzo dedicato ai costumi galanti e amorosi rivisitati secondo quanto
osservato nei diversi luoci in cui soggiorna. Altre opere: edizione in 17
volume con indice analitico – reproduzione anastatica -- Poesie -- Epistole in
versi -- Annotazioni alle epistole -- Rime giusta l'ediz. di Bologna -- Elegia
ad Francisci Marive Zanotti Carmina -- Dialoghi sopra l'ottica Neutoniana --
Breve storia della Fisica ed esposizione dell' ipotesi del Cartesio sopra la
natura della luce e de' colori. I principi generali dell'ottica -- La struttura
dell'occhio e la maniera onde si vede; e si confutano le ipotesi del Cartesio e
del Malebranchio intorno alla natura della luce e de colori -- Esposizione del
sistema d'ottica neutoniano. Il principio universale dell'attrazione --
Applicazione di questo principio all'ottica -- Si confutano alcune ipotesi
intorno la natura de colori, e si riconferma il sistema del Neutono -- Opuscoli
spettanti al neutonianismo. Caritea, ovvero dialogo in cui spiega come da noi
si veggano dritti gli oggetti che nell'occhio si dipingono capovolti e come
solo si vegga *un* oggetto, non ostante che negli occhi se ne dipingano *due*
immagini -- Dissertatio de colorum immutabilitate eorum que diversa
refrangibilitate -- Memoire sur la recherche entreprise par m. Du fay, s'il n'y
a effectivement dans la lumie re que trois couleurs primitives -- Sur les sept
couleurs primitives, pour servir de réponse à ce que m. Dufay a dit à ce sujet
dans la feuille du Pour et contre -- Le belle arti -- L'Architettura --
La Pittura -- L'Accademia di Francia ch'è in Roma. L'opera in musica. Enea in
Troja. Ifigenia in en Aulide: opera -- Sopra la necessità di scrivere nella
propria lingua -- La lingua francese -- La Rima -- La durata de' regni de' re
di Roma -- L'impero degl'incas -- Perchè i grandi ingegni a certi tempi sorgono
tutti ad un trat o e fioriscono insieme -- se le qualità varie de' popoli
originate sieno dall' influsso del clima, ovveramente dalle virtù della
legislazione -- Il gentilesimo. Il Commercio -- Cartesio -- Orazio -- La
scienza militare del segretario fiorentino. Discorso militare -- La ricchezza
della lingua italiana ne' termini militari -- Se sia miglior partito schierarsi
con l'ordinanza piena oppure con intervalli -- La colonna del cav. Folfrd --
Gli studj fatti da Andrea Palladio nelle cose militari -- L'impresa disegnata
da Giulio Cesare contro a' Parti -- L'ordine di battaglia di Koulicano contro
ad Asraffo capo degli Aguani. L'ordine di battaglia di Koulicano a Leilam
contro Topal Osmano. Gl'esercizi militari de' prussiani in tempo di pace --
Carlo XII re di Svezia -- La presa di Bergenopzoom. La potenza militare in Asia
delle compagnie mercantili di Europa -- L'ammiraglio Anson -- La scienza
militare di Virgilio -- La guerra insorta l'anno MDCCLV tra l'Inghilterra e la
Francia -- Il principio della guerra fatta al re di Prussia dall' Austria,
dalla Francia, dalla Russia, etc. -- Gl'effetti della giornata di Lobositz --
La condotta militare e politica del ministro Pitt -- Il poema dell'arte daila
guerra -- Il fatto d'armi di Maxen -- La pace conchiusa l'anno MDCCLXII tra
l'Inghilterra e la Francia -- La giornata di Zamara -- Viaggi di Russia --
Storia metallica della Russia -- Lettere a milord Hervey sopra la Russia --
Lettere al marchese Scipione Maffei sullo stesso argomento -- Congresso di
Citera -- Giudicio di Amore sopra il Congresso di Citera -- Vita di Stefano
Benedetto Pallavicini -- Sinopsi di una introduzione alla Nereidologia --
Lettera sopra il prospetto o Sinopsi della Nereidologia. 387 Risposta dell'
Autore -- Gl'effetti dell'invasione dei goti e de'vandali in Italia -- Le
Accademie -- Michelagnolo Buonarroti -- Gl'italiani -- Il passaggio al sud per
il norte -- L'industria. Gl'inglesi -- Bernini -- Metastasio -- Gl'abusi
introdottisi nelle scienze e nelle arti -- Le donne celebri nella letteratura
-- La difficoltà delle traduzioni -- Il commercio -- Fontenelle -- La forza
della consuetudine -- L'utilità dell' Affrica per il commercio -- Il secolo del
seicento -- Ovidio -- Cicerone -- Plutarco -- I romani -- L'etimologie --
I principi dotti -- L'eleganza nello scrivere del Vasari e del Palladio
-- Galilei -- La maniera onde si venre a popolar l'America -- Dante Alighieri
-- La lingua francese -- Voltaire -- Euclide -- Le misure itinerarie
degli antichi -- La questione della preferenza tra gli antichi e i moderni --
Il secolo presente -- Omero -- Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla
traduzione dell'Eneide del Caro -- La Pittura -- Descrizione dei quadri
acquistati per la Galleria di Dresda -- La prospettiva degli antichi -- Pitture
ed altre curiosità di Parma -- Pitture di Mauro Tesi -- Pitture di Cento --
Pitture di Bologna -- Pitture di varie città di Romagna -- L'Architettura --
Un'antica pianta di Venezia, prete so intaglio di Alberto Durero -- L'uso dello
appajar le colonne -- L'origine delle basi delle colonne -- Descrizione dei
disegni di Palladio ed altri per la facciata di s. Petronio di Bologna -- Delle
antichità ed altri edifizj di Rimini -- Delle cose più osservabili di Pisa --
Progetto per ridurre a compimento il R. Museo di Dresda -- Argomenti di quadri
dati a dipingere a' più celebri Pittori moderni per la R. Galleria di
Dresda -- Lettere scientifiche -- Lettere erudite -- Il Cesare tragedia di
Voltaire -- EUSTACHIO MANFREDI -- Saggio tritico sulle facoltà della mente
umana dello Swift -- L'opera de natura lucis del Vossio -- Omero -- I poemi del
Tasso -- Milton -- La traduzione di Omero fatta dal Salvi -- Il poema le Api
del Rucellai -- Iscrizioni ed epitaffj rimarcabili -- Sandersono -- Iscrizioni
per la chiesa cattolica di Berlino -- Le traduzioni delle sue opere -- Il moto
dell'apogeo della luna -- Le comparazioni -- Gli Scrittori italiani del
cinquecento -- L'ANTI- LUCREZIO del card. di Polignac -- Gl'abitanti del
Paraguai -- Alcuni plagiati de' francesi -- Le cose che i irancesi hanno
imparato dagl'italiani -- L'invenzione degli specchj ustorj di Buffon --
L'Edipo di Sofocle -- L'ULISSE del Lazzarini -- L'elettricità -- Il CATONE dell'
Addison -- Elogio di Giovanni Emo -- I fosfori -- La doppia rifrazione de'
prismi di cristallo di rocca. -- La diffrazione della luce. 355 rocca -- Le
Poesie di Gio: Pietro Zanotti -- Pope -- Lo stile di Dante -- L'opinioni del
Rizzetti intorno la luce -- La stranezza di alcuni paralelli -- Il poema di
Milton -- Il libro De orli et progressu morum del p. Stellini -- Elogio del
Caldani -- Gl'influssi della luna -- L'abuso della filosofia nella poesia -- Il
Poema del Trissino -- La maniera di seminare insegnata da Alessandro del Borro
-- L'operetta Il Congresso di Citera -- Pregi degli scrittori toscani -- Le due
tragedie di Mason r Elfrida ed il Carattaco -- L'odi di Tommaso Gray -- La
necessità di arricchire di voci toscane il dizionario della Crusca -- La
deformità di Guglielmo Hay. Il gnomone di Firenze rettificato dal p. Ximenes --
Storia de' Dialoghi dell' Autore sopra la luce e i colori -- L'origine
dell'Accademia della Crusca -- Carteggio con Mauro ('Maurino') Tesi -- Lettere
ad Eustachio Zanotti -- Lettere all'ab. Antonio Conti -- Carteggio con il p. d.
Paolo Frisi. Lettere. Di Eustachio Manfredi al co. Algarotti -- Di Giampietro
Zanotti al co. Algarotti -- Di Francesco Maria Zanotti al co: Algarotti -- Del
co: Algarotti a Giampietro Zanotti -- Del co: Algarotti a Francesco Maria
Zanotti -- OPERE INEDITE. Lettere. Di Francesco Maria Zanotti al co: Algarotti
-- Di Eustachio Zanotti al co: Algarotti -- Della marchesa Elisabetta Ercolani
Ratta -- Del co: Algarotti a Francesco Maria Zanotti -- Dell' ab. Metastasio al
co: Algarotti -- Dell' ab. Frugoni -- Di Alessandro Fabri -- Di Flaminio
Scarselli -- Di Benedetto XIV. Sommo Pontefice. -- Del co: Agostino Paradisi --
Del co: Giammaria Mazzuchelli -- Di mons. Michelangelo Giacomelli. 361 Del co:
Algarotti a Flaminio Scarselli -- Del co: Algarotti a Benedetto XIV -- Del co:
Algarotti al co: Giammaria Mazzuchelli. Dell ab. Clemente Sibiliato al co:
Algarot -- Dell'ab. Saverio Bettinelli -- Del consigliere don Giuseppe Pecis --
Di Gio: Beccari -- Del marchese Scipione Maffei -- Del co: Aurelio Bernieri --
Del co: Paolo Brazolo. 277, 279 Di Lodovico Bianconi.. 282, 296, 308 Del padre
Paolo Paciaudi. 285 Del marchese Gio: Poleni. 288 Di Antonio Cocchi. 291 Del
doge Marco Foscarini. 293 Dell' ab. Giammaria Ortes. 315 Del marchese Girolamo
Grimaldi. 317 Dell' 300, 6 GENERAL E. pag. 320 354 387 Dell' ab. Metastasio.
Del padre Jacopo Belgrado. 335 Di Giovanni Bianchi. 338 Di Tommaso Temanza. 342,
345, 348 Del padre Antonio Golini. 350 Dell'ab. Gaspero Patriarchi. Di Giuseppe
Bartoli. 369 Del co: Girolamo dal Pozzo. 373 Del marchese Bernardo Tanucci. 383
Dell'ab. Spallanzani. Di Jacopo Martorelli. 439 Del canonico Andrea Lazzarini.
443 Del co: Algarotti all'ab. Sibiliato. 3 Del co: Algarotti all'ab. Bettinelli
-- Del co: Algärotti al consigliere Pecis --Del co: Algarotti al co: Aurelio
Bernieri. -- Di Federico II. Re di Prussia al co: Algarotti -- Del Principe
Guglielmo di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Prussia -- Del Principe
Enrico di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Brünswic -- Del cardinale di
Bernis -- Del sig. du Tillot. Del co: Algarotti a Federigo II -- Del co:
Algarotti al Principe Guglielmo -- Del co: Algarotti al Principe Ferdinando --
Dello stesso al Principe Enrico -- Dello stesso al Principe Ferdinando di
Brünswic -- Dello stesso al cardinale di Bernis -- Della marchesa di Châtelet.
pag. 3 a 61 Di Voltaire -- Di Maupertuis -- Di Formey -- Di madama Du Boccage
-- Del.co: Algarotti a Voltaire -- Del co: Algarotti a Formey -- Dello stesso a
madama Du Boccage -- Di mad. Du Boccage al co: Algarotți -- Del co.
Algarotti alla stessa -- Del triumvirato di CRÀSSO, POMPEO E CESARE. Fu
sepolto nel camposanto di Pisa in un monumento di stile archeologizzante, tradotto
in marmo di Carrara. L'epitaffio è quello che per lui dettò il re di Prussia:
“Algarotto Ovidii aemulo” -- Neutoni
discipulo, Federicus rex". Algarotti medesimo si era preparato il disegno
del sepolcro e l'epitafio, non già per orgoglio, ma spinto dal sacro amore del
bello che anche in faccia alla morte non poteva intiepidirsi nel suo petto. Aperto
al progresso e alla conoscenza razionale, esperto del bello (si prodiga come
fautore di Palladio), fu rispetto alla filosofia un grande assertore delle
teorie di Newton, sul conto del quale scrisse uno dei suoi più noti saggi, Il
newtonianesimo. Viene considerato una sorta di Socrate veneziano e per
comprendere la sua statura di insigne filosofo con un'infinita sete di sapere e
divulgare è sufficiente porsi davanti al suo innumerevole campo di interessi.
Al di là del suo ruolo di spicco nell'illuminismo filosofico, fu anche un
diplomatico e un procacciatore d'arte. In particolare viaggia cercando
antichita romani per conto di Augusto III di Sassonia. È noto che fu a comprare
a Venezia il capolavoro di Liotard, il pastello de La cioccolataia, che poi
divenne una delle perle a Dresda. Di bell'aspetto, dotato di un aristocratico
naso aquilino (esiste al Rijksmuseum uno suo ritratto a pastello, sempre di
Liotard, nel Saggio sopra Orazio non perde occasione di far notare come questi
fosse ambi-destro, e tanto lodava i vantaggi di questa disposizione, che c'è
chi suppone che egli la condividesse. Ebbe a filosofare praticamente su tutto,
affrontandocon l'acuta attenzione dello scienziato presso ché ogni aspetto
dello scibile umano. Basti ricordare i saggi “Sopra la pittura”; “Sopra
l'architettura”; “Sopra l'opera in musica”; “Sopra il commercio”; “Poesie”. Il
demone ben temperato. tra scienza e letteratura, Italia ed Europa,
Sinestesie, Note Umberto Renda e Piero Operti, Dizionario
storico della letteratura italiana, Torino, Paravia, 195226. Ugo Baldini, BRESSANI, Gregorio, in
Dizionario biografico degli italiani, 14,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Algarotti, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Algarotti, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Francesco
Algarotti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Francesco Algarotti, su Find a Grave.
Opere di Francesco Algarotti, su Liber Liber. Opere di Francesco Algarotti / Francesco
Algarotti (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Francesco Algarotti,. Spartiti o libretti di Francesco Algarotti, su
International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC. Progetto per ridurre a compimento il Regio
Museo di Dresda su horti-hesperidum.com. Sito Algarotti dell'Treviri, su
algarotti.uni-trier.de. La casa di Francesco Algarotti è aperta da
settembre come alloggio turistico.
Algarotti e Palladio, su cisapalladio.org. Il newtonianismo per le dame, su
google.com. Opere del conte Algarotti, su google.com. Corrispondenza con
Federico II di Prussia (testo francese e tedesco) V D M Illuministi italiani --
LGBT
LGBT Letteratura Letteratura
Teatro Teatro Categorie: Scrittori
italiani del XVIII secoloSaggisti italiani del XVIII secoloCollezionisti d'arte
italiani Venezia PisaTeorici del restauroIlluministiScrittori trattanti
tematiche LGBTMembri della Royal SocietyViaggiatori italianiMercanti d'arte
italiani. Il conte Algarotti adunque per
più ragioni, secondo che egli dice, entra in pensiero, che della metà a un di
presso s'avesse ad accorciar la durata de’ regni de’ re di Roma. Alcune di
queste possono considerarsi come certi sguardi, che getta ad un traito sopra
tutto il corso degli anni, che. E per trattare ordinatamente la quistione
reputo necessario l'accennare prima ditutto il cammino, che ho avvisato dover
battere per giungere al vero. Breve lavoro sarebbe pertanto i l rispondere alle
opposizioni della prima maniera, che fa contro le epoche dagli antichi fissate alla
storia de' re, in ispecie a quelle, che sono in principio del suo saggio, le
quali sono tratte, direi cosi, dalla sola natura del soggetto. P r ciocchè
alcune ch'egli aggiugne in fine del suo saggio, quantunque risguardino in genere
tutto il tempo della durata de' sette regni, contuttociò tratte sono dagli
avvenimenti narrati dagli storici, e sono come un fidicono passati. Sotto
cotesti Re. Altre, e queste sono in maggior copia, risguardano più
particolarmente ciascun regno, e s'in gegna con tutto questo di dimostrare, com
e i fatti, che dagli storici, e principalmente da Livio ci furono tramandati, facciano
guerra alle epoche assegnate da esso altri scrittori di quelle storie; le quali
ragioni io non istimo Livio medesimo, e dagli essere di tal peso, che s'abbia
-perciò ad infringere l'autorità degli storici, ed abbre viare della metà circa
la durata de'mentovati Regni. un risultato delle osservazioni sue sopra
ciascun regno. Ma riesce poi più lunga faccenda il togliere quelle
contraddizioni, e ripugnanze, che dice ritrovarsi tra i fat tiregistrarinegli annali
degli storici, e le epoche da elli
assegnate. Ben è vero, che per questo rispetto chi volesse restringersi unicamente
a mettere la cosa in dubbio, quella stessa facilità, con cui prese per guida
que’.foli Storici, che gli andavano a grado, e fece scelta di que ' foli luoghi
di questi, che gli erano favorevoli, potrebbe appigliarsi ad altro Scrittore,
oppure ammertendo gli stesii sceglier da quelli que'luoghi (che al certo non
gli mancherebbono), i quali favorissero l'antico cronologico sistema. Ma questo
sarebbe porre folianto, c o m e disli, in dubbio la cosa; anzi il far vedere,
che non mancano testimonianze in favore sia dell'una, che dell'altra opinione,
riuscireb be di non poca confusione, e darebbe a credere a' poco avveduti, che
la quistione definir non sipossa. Onde io credo, che far si debba un passo più
oltre, vale a dire non appagarsi di ridur la cosa a tal segno soltanto,che
vengano ad indebolirfi le ra gioni addotte dal Conte Algarotti contro l'antico
Cronologico Sistema, per m o d o che non che per l'altra, o pure
anche che venga non fiavi per una parte ragion più forte, a rendersi più
probabile l'antico Sistema, m a di più innalzarlo al grado delle cose più fi
cure, che affermar si possano di quella pri ma età di Roma:ilche per recare
adef fetto si dovrebbono esaminare le qualità, ed il particolarcaratteredi
ciascuno degli Sto rici, che scrissero gli avvenimenti di que' secoli, e
confrontandone i luoghi, far ragio ne dal tempo, in cui vissero, dal fine,per
cui presero a dettare le loro Storie, in s o m m a adoperarsi per conciliarli
fra di loro, ed accertarsi per mezzo di una sana Critica della verità de'fatti,
onde chiaramente siscopra, se questi, ove sieno ben accertati, sieno poi tali,
che all'epoche ripugnino. Ora adunque seguendo lo stesso ordine te nuto
dall'Autore nelSaggio suo, allorchè mi sarò ingegnato di rispondere a quelle g
e n e rali opposizioni, ch'egli fa, e dopo che avrò delineato non dirò già un
ritratto, m a un lieve abbozzo de'tre principali Scrittoridelle Storie di Roma
sottoi Re, mi farò distin tamente ad esaminare quelle irragionevolez ze; ed
anche ripugnanze, com'ei le chiama, per cui stimò doversi abbreviar ciascun R e
gno, e per conseguente di molto, cioèdella i b metà metà
forse, doversi scemar la durata di tutti fette iRegni. Si risponde ad alcune
obbiezioni, che fa il Conte Algarotti coniro l'antico dero no, CAPO
Cronologico Sistema. P e r farci a considerar quelle ragioni, che adduce prima
di tutto l'Autor nostro nel suo Saggio, e che tutta la quistione abbraccia fa
d' ilpremettere, uopo, e che gli mette troppo bene a conto, ed è che i fatti
fieno staticonservati illesi dalla semplice tradizione, che tro egli chiama
vaga, senza ajuto degli A n nali,i quali perirono nelle fiamme, cui die 1
noftri ultimi tempi alcuni Letterati Francesi dell'antica avanti Pirro osservato
Storia molti luoghi avendo Roma farono doverne dubitar della certezza nel qual
dubbio se fosse per avventura 'egli en trato, non opporre che, essendo il tutto
dubbioso egualmente egli un partito Ora è da avvertire prender che a questi di
sottilmente, p e n più ragionevolmente potrebbe i fatti dagli Storici narrati
all'epo di mezzo per al dero in preda i Galli la Città di Roma, e le
epoche sieno state interamente distrutte da quell'incendio, nè per quelte sole
tradi zioni veruna valendo, abbiano dovuto gli Storici posteriori immaginarsele
a senno loro. Il qual partito, soggiugne il noitro Autore, ben volentieri
presero essi, trovando modo di appagar con questo quel natural deside
rio,che,nonmeno diciascuna famiglia, ha ciascun popolo di spingere, come e'fece
ro, tant'oltre quanto poterono nella oscuri rità de'tempi la propria origine. E
quello che è più lidà a credere,che a ciò fare giustificati fossero dalla
opinione, la quale ei dice ch'essi aveano, che tante generazio ni corressero
quanti Re; onde circa tre R e gni largamente in ogni secolo si avessero a porre,
essendo ogni generazione di trentatrè anni: laddove egli pensa, che più brevi
di molto sieno di Regni, non giungendo questi l'uno fagguagliato coll'altro se
non ai di. ciotto o vent'anni, secondo che scrisse il Neurone (a), la qual
legge, segue egli a dire, si vede confermata in quella unga fe rie d'Imperadori,
che da Yao infino a ' di b2 (a) “The Chronology of the ancient kingdoms of Rome,
amended by Newton. Veggansi le due tavole Cronologiche in fine. ..
nostri tennero il vasto Impero della China, D a tutto questo si raccoglie
fupporsi dall'Au tor noftro, che quella vaga tradizione, la quale conservò gli
avvenimenti, comechè facili a ricevere alterazioni, a cagion delle molte
circostanze, che fogliono a c c o m p a gnarli, anzi che conservò, c o m e di
alcuni dovrem notare le epoche precise, in cui non abbia potuto conservare le
altre epoche più notabili, vale a dire la durata di ciascun Regno, e per
conseguen te la somma dello spazio di tempo,che ab bracciarono tutti isette
Regni insieme,quan tunque cosa non meno importante di m o l tiffimi fatti, che
pur furono da cotesta sua tradizion conservari, e non capace di pren dere come
ifatti diverso alpetto passando per le bocche degli uomini. Non troppo ra
gionevole pertanto mi sembra la sua preten. fione, e per asserire, che gli
Storicidique' primi tempi di R o m a non fossero informati di queste epoche,
farebbe mestieri produrre qualche testimonianza, o almeno congettura, da cui si
potesse chiaramente inferire che di quelle veramente informati non fossero, la
qual cosa non facendo egli, io ftimo, che non maggior ragion fiavi per credere
a' fatti, che alle epoche. Cie seguiti sono 1 Ciò posto o è l'antica
Storia di Roma del pari tutta dubbiofa, e d in questo caso inutili sono le
osservazioni sue, o è del pari certa tanto a' farti, ed rispetto alle epoche
allora non hassi a dire,che le, quanto i che sieno state supposte ci. Senzachè
se gli Storici si fossero i m m a ginato a piacer loro le durate de'Regni se
condo la legge delle generazioni, com'egli pensa, non si sarebbono tolto la
briga di far registro di quanti anni precisamente sia stato ilRegno diciascun
Re, edavrebbonodato qualche cenno d' aver seguita una tal legge; fe pur non
vogliam credere, non che seguit sero una regola da essi giudicata sicura,ma che
avessero concepito di tessere un dolce inganno a'contemporanei loro, il che,
senza che se ne adducano le prove, conceder non si dee a giudizio mio per modo
nessuno. epo da'pofteriori Stori- * il malizioso disegno 1 Quantunque però sia
abbastanza Ito, che, quand'anche tutta l'antica Storia di Roma fi fosse, non
solo ugualmente per semplice tradizione conservata instrutti della Cronologia,
che de'fatti por si debbano gli Storici mentovati; nulla dimeno, fia per salvar
dalle fiamme questa Cronologia, d a cui divorata,ma anche più manife la presume
ľ sup Aus b due (6)Quae
incommentariisPontificumaliisquepublicisprive. tisque erant monumentis incenfa
urbe pleraeque interiere. T.Liy.Dec. I.Lib.VI.inprinc. ()Plut.inNuma
inprinc. non che vorrà negare. 22 RAGIONAM,CONTRO IL CONTE Autor noftro,
sia perchè resti maggiormen te confermata la certezza dell'antica Storia di R o
m a (la quale a vero dire già ha a v u to troppo più valorosi difensori di
quello ch'io m i sia ) stimo pregio dell'opera il *mostrare, che non fu poi,
qual per alcuni si dipinge,si funesto l'incendio de'Galli per gli annali di
Roma. E per cominciar da Livio, della testimo nianza di cui si fiancheggia in
prima il no ftro Autore, oltrechè mostreremo fra breve, che a lui non poco
premeva di fare passar per dubbiosi gli antichi avvenimenti seguiti avanti
l'incendio de'Galli, se si considera no attentamente le parole di lui (b), que
ste non vengono a dir altro, se buona parte de'monumenti perì in quelle.
fiamme,ilche nè io, nè alcuno, penso, Plutarco poi non dice altro (c), se non
che, secondo quello, che avea osservato un certo Clodio,supposte erano alcune m
e m o rie appartenenti a Numa, essendo le vere mancate nella presa di R o m a.
Se da questi ро ALGAROTTI. CAPO II. 23 due luoghi di Livio, e di Plutarco
si possa inferire, che abbiano gli Archivj di R o m a fofferto un generale
incendio, lo lascio al giudicio de'giusti estimatori delle cose. Se R o m a
fosse itata inaspettatamente presa di asfalto, non riuscirebbe forse difficile
ilcon cepirlo;ma ad ognuno è noto,che iRo mani, dopo l'infaufta giornata di
Allia, in cui furono da’Barbari sconficci, vedendo di ·non potere per modo
nessuno difendere la Città dal vittorioso esercito de'Galli,ebbero ancora tale
spazio di tempo (d) (tre giorni diconoDiodoroSiculo (e),ePlutarco)da po ter
fornire di munizioni il Campidoglio,m e t tervi alla difesa il miglior nerbo
della solda tesca, i più valorosi Senatori, e la più vi gorosa gioventù, ove
ancora per teftimo nianza del medesimo Diodoro posero in fal v o quant' oro,
argento, vesti preziose, e cose rare, che s'avessero (f): ebbero t e m b4
Diodor. Sicul, loc, cif, non le Vertali di ricoverarsi a Cere, non r é
itando nella Città fe non que'venerandi v e c chị, che vollero rimanervi. Ora
adunque (1) T. Liv. Dec. 1. Lib. V. cap. 21. 22. ) Diodor. Sicul. Bibliot.
Stor. Lib.XIV.n. 115. p.729. tom. I. ed. Amft. 1746. Plut. in Camillo.
> ed incerta, ma poco o nulla men pregevole delle Storie
medesime, di cui a b biamo fatto parola sopra, e per mezzo di cui, secondo
quello che abbiamo osservato, riesce 24 RAQIONAM. CONTRO IL CONTE non
avranno o i guerrieri rinchiusi nella roca o quelli, che lisottrassero colla fuga.
all' eccidio della Città, falvati dalle f i a m m e quegli antichi Annali? I n
verità bisognereb be far forza a noi medesimi per idearci Romani accesi
com'erano dell'amor Patria, e solleciti di ogni cosa, che potesse fervire alla
gloria di quella, così (8) V o f f i u s d e H i f t. L a t. L i b. I. C a p.
I. T o m. I V. O p a i della ca, ranti delle proprie poco Storie.M a supponiamo
cu che,che questi an fossero periti; il f a m o so Vossio Annali (g) osserva
tacciar non per questo tica Storia dubbia credibile l'an avessero di Roma,
essendo pur anche i loro Annali, che le circon fi dovrebbe vicine Città, con
tuto ad un bisogno loro; ed in secondo alle luogo non essereda cre dere, che
coloro fra'Romani, i q u a l i li l e g g e vano, custodiyano duto la memoria,
scriveano del tutto: ed ci riduciamo a quella tradizione vaga,, non però,che di
falsa, o cui i Romani abbiano mancanze supplire, avessero in tal caso po per
ed, Amst. 1699 (4)Cic.de Orat.Lib.II.,de Legib.Lib.I. Nulla enim
lex neque pax, neque bellum, nequè res ficnotata: Corn. Nep. in Attico n. 18.
(1) SenexHistoriasfcribereinstituit,quarumsuntlibrisep. M a che serve
affaticarsi di provare con congetture una cosa, di cui abbiamo cost chiare, e
sicure testimonianze? N o n giunse ro gli Annali Maslimi.a'rempi di Cicerone, e
non ne reca egli giudizio (h) in più luoghi. delle opere sue? Onde Fabio
Pirrore, Lu cio Pilon Frugi, Valerio Anziate Scrittori che furono tra lemani dị
Dionigi,ediLi vio, avranno prese le memorie per dettare le Storie loro, se non
da'monumenti, che avanti l'incendio esistessero? Pomponio A t tico intrinseco
amico di Cicerone, che se condo Cornelio Nipote (i) non tralasciò in certo suo
libro di porre sotto l'epoca pre cisa cosa alcuna riguardevole del popolo R o m
a n o, C a t o n e, il p r i m o l i b r o d e l l e S t o r i e d i cui
comprendevaifattide'Re diRoma come riferisce lo stesso Cornelio (k), onde avran
tratto i materiali per quest' opere loro? Varrone il più dotro de'Romani, uomo
al ALĞAROTTİ. CAPO II. 25 tiesce non solo ugualmente, m a più credi bile
eziandio la Cronologia de'fatti. certo ili luftris estpopuli Romani, quae non
in eo,fuo tempore com,primus continet res gestasRegum populi Romani Corn. Nep.
in Cat. n. 3. certo di non facile contentatura,su che avrà fondato
l'opinion sua contraria a quella di Catone circa al tempo della fondazion di R
o m a, se non sopra monumenti,che a'suoi tempi ancora esistessero, in cui fosse
accura tamente descritta quella prima età? E, v a gliami per ultimo l'autorità
di quel diligen te investigatore delle antichitàRomane Dio. nigi d'Alicarnasso,
quante tenebre egli non dilegua coi Commentarj de’Censori, e con altre memorie,
le quali pajono anteriori alla famosa irruzione de'Galli, o almeno sopra quelle
compilate? E non è forse da crede. re, che a quel Dionigi, il quale dovendo per
mezzo di un suo computo fissar la giu Ata epoca della fondazione di R o m a, fi
Itu dia di portare tanti monumenti, per venire in cognizione del numero d'anni,
che cor sero dalla deposizion di Tarquinio insino all' incendiodiRoma (1),echecircaalladu,
rata de'Regni non muove la minima que stione, anzi concordando con Livio, gli
af segna il medesimo numero di anni;a quel Dionigi,cui è data la lode di
esattissimo nel fissar le epoche, come più sotto vedremo,
(9)Dionyf.Halic:Antiq.Rom.Lib.I. p. 60. ex ed, RAGIONAM, CONTRO IL CONTE non
Graeco-Lat. Friderici Sylburgii Lipfiae 1691, امی ju ALGAROTTI, CAPO II. C h e
poi per vantare antichità abbiano gli Storici allungata la Cronologia, è noto a
d ognuno esserregola dell'Arte Critica, doverfi presumere, che alcuno abbia
ingan, nato sulla fola luogo bio, non ܕ nato
in suo pro l'ingannare, m a doversi a d d'aver egli.veramente ciò fatto; ed
oltre a questo non può cade dur prove manifeste sopra Dionigi., come quello,
ch'essendo straniero re per modo nessuno un talsospetto non era tentato
dall'amor della patria a m e n tire per adularla, e che fece un particolare
ftudio di chiarire l'antica Storia di Roma. che sarebbetor non mancassero i
suoi fondamenti per accer tartaldurata,come cosa fuord'ognidub congettura, Non
istimo ora del resto dover parlare della diversità, che l'Autor nostro dice c o
r Tere tra le generazioni, e le successioni de' Regni;giacchè è manifesto non
aver gli Storici seguito una tal regola, e quand'an. che seguita l'avessero
potendosi far veder di leggieri, che se per alcuni motivi da lui e dal Neutone
addotti sembra, che iRegni debbano riuscir più brevi, che le, per altri
rispetti potrebbe più lunghi restassero tazioni. Tanto più che dovrò accennare
in generazio succedere, che i Regni, che le gene ni luogo più opportuno
quelle regole ch'io stimo doverli osservare, nel fiffar queste g e nerazioni,
potendosi queste sotto diversi a f petti riguardar da ' Cronologi.
(mn)Description de l'Empire de la Chine par le P.Dus Halde. Tom.I. Faites de la
Monarchie Chinoise 28 RAGIONAM,CONTRO IL CONTE per dare a divedere, che
quella rego Mi basterà per ora notare, ch' in quella lunga serie degli
Imperadori della Cina s'in • contrano n o n una volta sola, m a diverse fiare
sette Regni di seguito, i quali se non giungono, si avvicinano però assai allo
spa zio di tempo, che tolti insieme durarono i Regni de'Re diRoma:per
comprovarla qual cosa giova il recarne alcuni esempj, che m'è venuto fatto di
ritrovare ne'fatti di quella Monarchia descritti dall'accurato P. Du-Halde
(m).Nellaprima.DinastíadaTi Pou-Kiang insino a Kiè corsero dugento e dodici
anni. Nella seconda da Tching-Tang infino a Tai-Vou passarono dugento e quat
tro anni; e nella terza Dinastía dugento 'e venticinque da Tchao -Vang insino a
Li-Vang. Facilmente non saranno questi foli i casi, in cui,non uscendo dalla
serie degli Imperadori della Cina, fecte Regni di seguito abbiano abbracciato
più di due secoli; tanto però basta la, ALGAROTTI. CAPO II, 2.9
gi la, la quale pure è vera, trattandosi di l u n ghissimo spazio di
tempo, riesce falsa nelle itesse Tavole Cronologiche degli Imperadori Cinesi,
quando si reftringa a fette soli R e gni. Ed ecco come si vengono a sciogliere
tutte quelle diffico'tà inosse dall'Avior no stro per diminuir la credenza, che
prestar fi dee agli Storici, e rendere improbabile in genere la lunghezza di
questi Regni. O r a fa di mestieri farsi a considerare quelle ragioni, ch'ei
deduce dalla ripugnanza dei fatti, di cui fecero gli antichi Scrittori re
gistro,alleepoche,per venireadaccorciar ciascunRegno:Seiodicesli,che concor
dando a un dipresso tutti gli Storici nelle epoche principali, e circa la
durata de'Re-. gni, e discordando ne'fatti, ilconsenso loro nello afferir la
durata dee meritar. troppo maggior fede, e pertanto doversi come lup-, posti
rigettar quegli avvenimenti, e quelle epoche particolari di alcun fatto, che
taluno fra essilasciò ne'suoilibri descritte, che ripugnano a quello, la di cui
certezza è chiaramente,e concordemente da essi affe rita; se jo ciò dicefli, mi
servirei di una ragione più atta a far forza, che a persua dere. Perciocchè
resterebbe sempre una c o tal nebbia, ed oscurità nella mente de'Lega
gitori, non vedendo eglino quali oltre a que ito fieno i motivi, per cui
come falsi s'ab biano'a rigettar questi fatti, che falli certa mente avrebbono
a d essere, quando ad una verità fi opponeffero. Laonde è convenien te o farne
vedere per altre ragioni la fal fità, o mostrarne la non ripugnanza, quan do,
come di alcuni veri dovrò fare meno avvedutamente ripugnanti, sieno stati
dall'Au tor nokro creduti.Per condurre a fine le quali cose, siccome è d'uopo
far uso delle regole, che prescrive l'Arte Critica, stimo pregio dell'opera il
premetter quella, la quale più d'ogni altra ttimali necessaria, ed è il chiarir
bene a quale Scrittore s'ab bia per CAPO (n) Si unus aut alius (Hiftoricus)
adverfus plures teftifi: Centur, Historicorum conferendae dotes, fecundum cas
je dicandum. Genuenfis in Arte Logico-Crit. Lib.IV, Cap. II. §. 19. can.
2. 30 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE COSI. l'antica Storia Latina, i di cui
av. venimenti cadono nella nostra quiltione, a ri correre, ed in caso di
disparere, a quale fi debba prestar maggior fede (n). CAPO Trattasi
della credenza, che prestar fi dee a Tito Livio, Dionigi d'Alicarnaso Plutarco,
per rispetto ai fatti, che R a gli Scrittori, in cui troviamo descritti i
principi di quella Nazione, al di cui co fpecto dovea tremar l'Universo,
primeggia no Tito Livio, Plutarco per le vite, che stese de'due primi Re,
eDionigidiAlicar naffo. Penso adunque esser buona cosa l'in.vestigare prima di
tutto il vero carattere di ciascuno di questi, per rispetto al m a g g i o re o
minor caso, che far si vuole della au torità di taluno di effi per riguardo a
tal altro,ne’racconti,che pressodiloro sitrovano. per (a) Come Livio scrive,
che non erra, Dante Inf. cant. che non Fra ALGAROTTI, *31 cądono nella
presente quistione. Se farò poi in questa disamiņa precedere Tito Livio agli
altri due, si è, perchè di lui fi pregia più che d'ogni altro l'Autor nostro, e
glid à ad una voce col creatore della nostraLingua,non meno chedellano Itra
Poesia la lode di Scrittore 2 erra (a), la qual lode se vera se giusta sia 2
28. V. 124 III. (5) Livius etiam, & Curtius artem declamatoriam
affe&taffe videntur.Nimiam ftyli.curam in Hiftorico fufpettam ho beo,Genuens.
in Arce Logico-Crit. Lib.IV. Cap. 2o $.18. 32. RAGIONAM. CONTRO IL CONTE
per rispetto a quel tratto della Storia Latina', che cade sotto la controversia
noftra, verrà brevemente esaminando. pol L'andar dietro alle quistioni, e
dubbie tà, che s'incontrano nella Storia de primi tempi di Roma, il diradar
lenebbie,incui si avvolgeva quell'oscuro secolo, era cofa, che ripugnava
all'indole di Livio, il qual certamente più compiacevafi nel dipingere con quel
luo vivo, e maestoso itile i bei giorni di R o m a, che in ricercarne sottilmen
te le origini traendo alla luce gli avveni menti, che succeduti erano in quelle
rimote età. Pare veramente ch'egli dovesse te mer forte non i suoi lettorifi
disgustassero, se egli si fosse messo in un tale intricato sen tiero, sentiero,
che male egli avrebbe p o tuto spargere di tutti i fiori della sua E l o quenza;
la quale fua Eloquenza però, per dirlo alla sfuggita, rende sospetta a tal C r
i tico la veritàde'fatti da lui narrati (b). Principale intendimento era
adunque di lui lo stendere la Storia più luminosa di R o ma, vale a dire allor
quando falira a gran possanza, ed a grande onore questa R e p u b
blica cominciò a stender le ali Pontificum libros annosa volumina Storia
in fine, la quale troppo più che l'antica era confacente algeniodi Livio, ed
alcomun desiderio dei Romani de'suoi tempi, per cui preso avea a dettarla.Che
se Tacito parago nando le Storie de'tempi suoi a quelle di que sto secolo, di
cui favelliamo, dice, che m i nute,e poco memorevoli farebbono sembrate le per
cose, 1Uni verso. Quando, domati finalmente i feroci popoli dell'Italia, qual
rinchiuso fuoco, che rovescia ogni ostacolo più forte, avventò le fiamme in
grembo all'emula Cartagine, ed a Corinto, e loggiogata parte coll'armi, par te
coll' accortezza la Grecia tutta, e corsa l' Asia trionfando, essendo, per
servirmi delle parole di Tacito, l'antica, e natural ansietà ne'mortali della
potenza cresciuta e scoppia ta colla grandezza dell'Impero (c), sidivise in
quelle fazioni, che tanti e si gran casi somministrarono alla Storia. Storia di
gran di imprese, di gran personaggi, e di gran di avvenimenti ripiena; Storia
non troppo lontana dal secolo, in cui egli vivea, e per cui non avea a
rivoltare ALGAROTTI. CAPO III. 33 T a c i t. H i f t. L i b. I I. C a p. 3 8. n.
1. ҫ RAGIONAM. CONTRO IL CONTE te nimia obfcuras, velut, quae magno
ex intervallo'lo ci vix cernuntur; tum quod, & rarae por cadem tempo ra
literae fuere,u n a custodia fidelis memoria rerum g e ftarum; & quod etiam
fiquaein commentariis Pontificum, aliisque publicis, privatisque erant
monumentis incenja urbe pleraeque interiere. Clariora deinceps certioraque ab
secun 'da origine velut ab ftirpibus laetius feraciusque renatas urbis, gefta
domi militiaeque exponentur, 1 34 mo cose, ch'egli avea a raccontare, e
che non erano da eguagliarsi le Storie sue agli A n nali antichi diR o m a (d),
poichè gli Scrit tori di quelle narravano guerre grosse, Città sforzate, R e
prefi, e sconfitti, e dentro di scordie di Consoli con Tribuni, leggi a'fru
menti, zuffe della plebe co'grandi,larghilli mi campi, scarso all'incontro e
stretto effe re il suo: che ne avrà dovuto pensar Livio paragonandole a quelle
di que'rimoti, ed oscuri secoli? Se non tralasciò pertanto del tutto di far
menzione de'principj de'R o m a ni, non altra ragione, penso io, averlo a ciò
moffo, fe non per non incorrer la tac cia d'aver composta una Storia mancante,
e per potersi in certo modo fpianar la ftra da a descrivere le susseguenti
famose impre se di quel popolo d'Eroi. Ed in fatti dalle sue stesse parole fi
rac coglie (e) non aver egli troppo dibuon ani (d)Tacit.Annal.Lib.IV.Cap. 32.
n.1. &.. cum vetufla ALGAROTTI. CAPO III. 35 m o lavorato a
ftendere quel tratto delle sue Storie. Cofe le chiama oscure per troppa
antichità, e che, per così dire, a cagione della grande distanza appena più
sivedeano. Parla di quelli avvenimenti in modo che fi scorge, che poco o nessun
conto ne fa cea, tanto più dicendo, ch'esporrà più l u minose, ed accertate
gelta della quafi da più fertili, e rigogliole radici rinata Città dopo
l'incendio de'Galli. Poco, ei dice, scriveasi avanti l'irruzione de' Galli, e
se al cune memorie eranvi negli Annali de'P o n tefici, ed in altri pubblici, e
privati m o n u menti,buona parte di queste peri nelle fiam me. La qualcosa,
posto che veramente molte memorie ancora esistessero a'suoi gior ni di
que'tempi, come ben feppe rinvenirle Dionigi, dà non lieve motivo d i dubitare
non il dire, che molti di questi monumenti periti fossero in quell'incendio sia
un mendi cato pretesto di lui per ispacciarsi in poche parole di quelle
antichità. Per raccogliere il tutto in breve non p a re, che in questo tratto
di Storia almeno Livio sia quel Livio, che non erra, e che a più buona ragione,
che non quel verso diDante, adattar fe gli.patrebbe ilgiudicio di
с2 di Quintiliano (f), ove dice,che quella dol ce facondia di Livio
non sarà mai per a p pagare colui, che non la venuftà del dire, m a la verità
cerca nella Storia. Perlaqual cosa a giudicio non solo del P.Rapino(g), m a di
quasi tutti i più valenti Critici, e per l'accuratezza, e per lo discernimento,
e per la verità delle cose narrateanteporre fidee a Livio Dionigi d'Alicarnaffo.
Questo Storico è appunto il nostro caso. Perito egli era della lingua, e
de'costumi de'Latini,fra cui fece lunga dimora.Con temporaneo di Livio, Critico
eccellente p r e se a trattar quella parte della Storia Latina, ch'era più
oscura per la lontananza de'tem consultò tutti gli antichi Romani Scrit tori
diligentemente; e siccome si scorge, se condo quello, che abbiam notato, che
l'in tenzion di Livio era di trattar principalmen te la Storia di R o m a dopo
l'incendio de' Galli, così il fine di Dionigi era d'inftrui re i suoi lettori
nelle antichità soltanto di quella Nazione, per le quali sue doti ftimò
36 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE pi? il Neque illa Livii lattea ubertas fatis
docebit eum, qui non speciem expofitionis, fed fidem quaerit. Quiptil.Lib. X.
Cap. I. (8) Rapin. Réflex. sur l'Hift. n. 28. Sto. il Bodino (h) di
doverlo in questa parte pre ferire a tutti gli altri Storici Greci e Latini. E
se per avventura non è, come osservò il Rollin (i), nella lingua lua si
eloquente, e si colto come Livio nella Latina, in quanto all'accuratezza, e
diligenza il vince sicura mente d'affai.Che poi più cose, e più ac intorno
antichità presso di lui, che presso Livio fi curatamente descritte
ritrovino,èancheilparerediquel Varro ne dell'Ollanda Gerardo Vossio (k), ilqual
coll' autori tà di Eusebio, e dello Scaligero, l'ultimo fuo sentimento egli
fiancheggia de quali lo commenda appunto per quella dote, di cui noi
abbisogniamo, voglio dire per essere stato egli più d'ogni altro dili gente nel
fissar le epoche. M a a che serve andar raccogliendo le testimonianze de'Cri
tici? Niuno v'ha fra' letterari, che ignori quanto Dionigi sia benemerito delle
R o m a ne antichità, e che non sappia esser egli alla C3 alle Romane ALGAROTTI:
CAPO III, 37 (h) Dionyfius Halicarnasseus antiquitates Romanorum ab ipfius
urbis origine tanta diligentia confcripfit, ut Graecos omnes, ac Latinos
fuperaffe videatur. John B o d i n. M e t h. a d f a c i l. H i f t. c o g n. C
a p. I V. (i) Rollin Histoire Anciene tom.XII. (A)VoffiusdeHift.GraecisLib.
II.Cap.V.,&ibi Euseb. in prep. Evang., & Scaligerin animad.Euseb., il
qual dice: Curatius co niemo tempora obfervavit, 38 RAGIONAM.
CONTRO IL CONTE E'ben vero esservi taluno fra'moderni,il quale non fa gran calo
dell'autorità di lui per riguardo a ciò, che scrive intorno alle origini
de'popoli d'Italia, avendo a parer suo Dionigi,per gloria della propria nazio
ne, dato luogo troppo leggermente alle con getture, per derivar dalla Grecia i
primi abitatori dell'Italia (l). Lascio ad altri il giudicare le giusta fia, o
no quest'accusa; m a, quanrunque fosse ben fondata, non so avrebbe per questo a
dubitare delle cose n a r rate da lui, le quali cadono nella nostra qui ftione:
perciocchè in quella parte dell'Ope ra sua, di cui servir ci dobbiamo, n o n
trattasi più delle prime origini de' popoli Italici, m a delle origini soltanto
primi tempi di Roma; onde non può più aver luogo quel sospetto, ch'egli abbia v
o luto adulare la nazion sua, non essendovi piùlagloriadiquellainteressata in
modo nessuno. Questo Storico pertanto, quantun que venga una volta fola in
campo nel Saga Storia Latina de primi tempi quello, che è alla Storia
d'Italia de'secoli di mezzo l'eru dito, e diligente.Muratori. e dei gio (1)
Guarnacci Origini Italiche Lib. I. Cap. I. De 4 Veniamo ora
finalmente a Plutarco.M o l to discordanti sono i giudici, che di lui re cato
hanno i Critici:perciocchè, se a molti Letterati di grido siattribuisce per una
par te quel detto, che se in uno universale in cendio di tutti i libri un solo
scampar se ne potesse dalle fiamme, si vorrebbono falvare le vite di Plutarco;
non manca per altra parte chi ne rechi troppo più vantaggioso giudicio, e fra
gli altri un celebre Lettera to Inglese il Signor Midleton (n) giunse a chiamar
l'Opera di lui un abbozzo piuttosto, che il compimento di un gran disegno. A
chi fu (m) Saggio sopra la durata de'Regni de'Re di Roma p. 142-3. del tomo
III.delle Op. del Conte Alga rotti ediz. di Livorno 1764 Nella edizione fatta
di questo Saggio in Firenze nel 1746. non è mai citato Dionigi, anzi nella
lettera al Signor Zanotti dice P Autore: che non avea voluto leggere altri
scrittori, cheparlafferode'Re diRomafuorchèLivio,ePlutarco. (a) Conyers
Midleton prefaz, álla Vita di Cicerone, per ALGAROTTI CAPO.III, 39 gio
del nostro Autore (m ), sarà però quello, che più d'ogni altro ci additerà la
strada, che li vuol battere per giungere al vero nella presente materia, c o m
e quello, il quale più giustamente di Livio merita il nome di P a dre di Romana
Storia. ! altro pon mente alle belle qualità, per cui fu lodato, ed a'diferti,
perliquali C4 D e l resto per giungere a farci una chia ra idea del
merito di questo Autore fa d' uopo prendere d'alquanto più alto i princi p j.Quantunque
pertanto pregio essenziale della Storia sia la verità de'fatti, si voglio no
con tutto ciò offervare e la scelta che fa l'Autore di questi, e le rifleffioni,
e l'ordi ne, con cui dispone ogni cosa, e la dici tura, di cui si serve, del
che tutto nell'al tra nostra Opera abbiamo copiosamente ra. gionato. O r a per
parlar soltanto delle riflel fioni, queste son quelle, che danno a vede re il
giudicio dell'Autore intorno alle cose narrate, giudicio,che resta più o meno
de gno di stima a misura, che viene ad esser fondato sopra valide ragioni, e
che non esce di quella scienza, a cui ènoto aver con Jode dato opera lo Storico.
Le considera 1 40 RAĞIONAM, CONTRO IL CONTE fu ripreso, riuscirà agevole
il comporre i lorodispareri. Vero è, che ilSignorMidle ton ne recò più
svantaggioso giudizio di al cun altro, perchè forle non ritrovò in lui, come
bramato egli avrebbe, abbastanza en comiato l'Eroe, a gloria di cui egli consa
crò una sua assai lunga, ed elaborata o p e ra, nella quale però sembra ad
alcuni, che ne tefla egli piuttosto il Panegirico, che la Storia. zioni,
zioni di un Polibio, o di un Cesare sopra l'arte della guerra, o di un
Tacito sul ALGAROTTI, CAPO III, Inoltre dalla scelta, che fa de'fatti, fi
(6) Arte Poetica del Signor Francefco Maria Zanotti verno de'popoli intanto
degne sono di c o m tore le manifeste, in quanto hanno essi fama di ef
mendazione fere stati di quelle facoltà ottimi conoscitori M a fupponiamo, che
sitralascino. dallo Scrita riflessioni,non èforsevero, è per così dir forzato
lo Sto che narrando rico a dar segni della approvazione fapprovazion,odi sua?
Cosi pensa quel dotto, e Scrittore, uno de'primi lumi d' leggiadro Italia, cui
il Conte fto fuo Saggio (o). Ora que ognun Algarotti indirizzo ciò posto
professò principalmente sa, che Plutarco fcienza de'costumi; questa cui le
altre tutte qual più direttamente s'hanno a riferire, come raggi d'un meno
cerchio al centro, esercita l'impero suo so pra le azioni tutte degli uomini,
ond'è m a nifesto, che anche supposto, che Plutarco alcuna osservazione do reca
giudicio dell'azione non aggiugnesse fcrivendo, e giudicio, di cui non piccol
caso facoltà,narran ', che va de uscito dalla penna di un F i far fi dee,come
losofo de'più rinomati dell'antichità. go la poi, a, qual viene
Rag.IV.pag.261,Bologna 1768. qual dà maggiormente a conosce re il
bellicofo genio di quell'Alessandro del Settentrione Carlo XII.,loggiugne (p),
che tal cosa lasciato non avrebbe d'inserire nella vita di lui un Plutarco.
remmo 6)Opere delConte Algar.tom.IV.Discordimilitari Disc,IX,pag.230. 42
RAGIONAM, CONTRO IL CONTE ز e nel formare il carattere de'perso naggi, di cui
stende la vita. Egli non sia p paga delle azioni pubbliche, e ftrepitose, nè si
ferma intorno alla sola corteccia, m a seguendo, per dir così, i suoi Eroi in
ogni lu go, e non temendo di abbassarsi col de. scrivere certe minute
particolarità, entra ne? più fecreti ripostigli dell'animo loro, e pre fentà al
lectore ad un tempo medesimo un fedel ritratto e di esli, e della umana na.
tura. E questa singolar dote di Plutarco fu giàdal nostroAutore osservata;
poichènar rando in un suo discorso un tal fatto parti colare, il qual dà viene
in cognizione della perizia di lui nello scoprire le più nascoste proprietà del
cuore umano, e nel formare Questo è il favorevole aspetto, fotto cui riguardar
fi possono le vite da lui scritte,e gli encomj,di cui gli furono cortefi iCrie
tici,vengono a ridurlia questo.Ma sevo leffimo poi in materie dubbie, ed oscure
ri poläre interamente sulla fede di lui, corre altri. ALGAROTTI. CAPO
I11. 43 remmo non piccolo pericolo d'ingannarsi. Plutarco, con ben raro esempio,
congiun geva un ingegno straordinario ad una credu lità somma (difetto, da cui
i rari ingegni fogliono per altro andar esenti, cadendo più sovente nell'
eccesso contrario ). Forse ritene va in questo parte degli influfli del Cielo
di Beozia. Occupato da'negozji, ch' ebbe a trattare, e dall'impiego di dare
lezioni di Filosofia, poco tempo gli rimaneva per ac certarsi della verirà
delle cose, che s'accin geva adescrivere.Sifa,ed eglistessolo con feffa, che
ignorava la lingua Latina, nè o b bligato era dalla necessitàa d iftudiarla,
ava vegnachè dimorasse in R o m a, servendo la lingua Greca a que' tempi presso
i Latini di lingua,come fuoldirsidiCorte,cioè par lata dalla più leggiadra, e
brillante parte delpopoloRomano,edi linguadotta.La (ciopensare di quanti sbaglj
una tale igno ranza possa essere itato cagione. Che della fola autorità di lui
pertanto non si debba far molco caso, è il sentimento del dotto Bodino (9), del
Rualdo, del Dacier, e di (1)Joh.Bodin.Method.Hist.Cap.IV..Interdum etiam in
Romanorum antiquitatelabitur.Ruald.animad.inPlut. Dacier nelle note alla fua
traduzion francese delle Vite di Plutarco. Vero RAGIONAM. CONTRO
IL CONTE Vero è, che l'erudito Giureconsulto Ei neccio (r) per salvar dalle
accuse de'Critici un luogo di Plutarco, ove narra questo Sto rico aver N u m a
concesso certi privilegj alle Vestali, i quali si sa indubitatamente non essere
stati ad effe concessi senon dopo que sto R e, avvisofli di fare una mutazione
nel teito di lui,di modo che seavantidiceva: aver conceduro grandi onori alle
vergini V e Itali, veniffe a dire: loro concedettero (i R o mani ei
sottointende ) molti onori, e fog giugne, che per sì fatta maniera salvar li
possono molti luoghi di questo Storico.cen Turati dagli eruditi. M a lasciando
stare, che molti non saran no quelli,che con una talcurafanarfipof fano; non so,
perchè con tanta facilitànon. essendo il luogo di Plutarco un frammento di
qualche antico Giureconsulto, il qual a b bia necessariamente cogli altri a
concordare, si avventuri da lui questa emendazione, fen za addurne altra
ragione, fe non che ilfal varsi con questa l'autoritàdi Plutarco.Am mesfa una
tal Critica si fanno scomparire con poca fatica tutti gli sbaglj de'libri, che
ci restano dell'antichità. (5)Heineccius ad legem Papiam Poppaeam
Lib.I.Cap, II, p. 27.Amít, apud Wetftenios, ALGAROTTI. CAPO
III. 45 Sia adunque per la ignoranza della lingua Latina, lia molto più per lo
genio credulo, e poco critico, anzi qualora trattasi di Sto rie lontane da
tempi fuoi portato al m e r a viglioso Plutarco, non è guida ficura per chi
vuol penetrare nelle più rimote istoriche n o tizie. Quella Storia favolosa,
che dic' egli rinvenirli (S ). nelle origini delle nazioni prende, e li ftende
troppo negli scritti di lui sopra i diritti della vera Storia maggior mente
sgombra dalle finzioni presso altri Scrit tori. M a per riguardo a quella parte
della Storia di Roma, i di cui avvenimenti ca d o n o nella nostra quistione,
potea troppo qui cilmente schivar gli errori. N o n avea egli nella sua
stessa lingua le accurate fatiche d i Dionigi di Alicarnasso Scrittore, che ben
d o vea esfergli noto, e noto veramente gli era, facendone egli menzione?
Perchè adunque n o n fi restrinse a lui solo, tralasciando quelle fue popolari,
e favolose tradizioni? Niuno dubiterà pertanto, che in questa parte della R o m
a n a Storia pofpor si debba Plutarco a Dionigi. E ben riuscirà singolar cosa,
fe recherò in mezzo l'autorità dello stesso Algarotti, il quale, fuori di
questa fa (S ) Plut, in Theseo in princ. quistione non lasciò di
rendere il dovuto omaggio a Dionigi, e di mostrare il poco caso, che far fi dee
della sola autorità di Plutarcone'fattide'Romani,efefarò ve dere aver egli in
cofamolto più recente negato credenza a quel Plutarco, a cui tan to s'affida
per rispetto ad avvenimenti ri motissimi dalla età di lui. Bafta per chiarirfi
di quanto ho detto dar un'occhiata a ciò, che scrisse l'Autor nostro intorno
all'impre fa di Cesare contro a'Parti (t). Questo è quanto ho io stimato dover
pre mettere circa la fede, che prestar fidee agli Storici, innanzi di farmi ad
esaminare. la verità, o falsità de'fatti, e la ripugnan ża o non ripugnanza di
questi alle epoche il che mi studierò quanto più brevemente per me sipossa di
recare ad effetto. Alicarnasco, Polibio...... danno una più esatta contez fa
delleragioni dei costumi Romani che non fanno i Romani medefimi..... M a quei
Greci sapeano a fondo la lingna Latina, buona parte della vita erano viffura
co'Romani ec. 46 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE CAPO
(*)Alg.Op.tom.IV.Disc.Milit.Disc.V. soprala impresadisegnata da Giulio Cesare
contro a'Partipo 178-9. La verità si è, che ognuno si può effere ac corto
quanto nelle cose dei Romani fia poco efatro Plu tarcoec.,epag.180.
Egliècerto,chedellecoseRo mane le migliori informazionisi può dire che le dob
biamo a' Greci. Ed è naturale che cosìfia. A forestieri ogni cosa giugne nuovo
ec, D i qui èche Dionigi ALGAROTTI 47 D i s cIsecnedndeenndo ora
coll'Autor -noftro al para ricolare, ci si fa innanzi il Regno del bel licoso
Fondatore della R o m a n a grandezza, e sarà secondo quello, ch'io Atimo
Indole guerriera, dic'egli, danno ad una voce tuttigli Storici al Fondatore di
quella Impero, che dovea coll'armi fare la con. quista del M o n d o. Questa
indole bellicosa piùnonfipuò celebrareinRomolo,quando fi mostrasseaver
eglipassatolamaggior par te del suo Regno in grembo alla pace:ora le prime
guerre di lui contro i Sabini, che ridomandavano le donne loro, e contro al
quni altri popoli per gelosia d'Impero, furo no tutte breviffime, e
dellapenultima guer ra contro a'Camerj ce ne dà l' tarco (a), che non cade più
in là dell'anno sedicesimo dalla fondazione di R o m a. N e dopo questa si ha
notizia di alira guerra, falvo CAPO Regno di Romolo.? cagio ne di non
piccola maraviglia il farsi a c o n siderar la prima venir ad abbreviare la
durata. ragione,ch'egliadduce per epoca Plu. @ Plut.inRomulo, IV.
salvo di quellaco'Vejemi, i quali doman davano, che fosse loro restituita
Fidene, c o me Cittàdilorragione,dicuiRomolos' era impadronito, avanti che egli
s'impadro niffe di Camerio. E questa guerra non si ha da porre più tardi, che
sotto l'anno d i ciassettesimo dalla fondazione di R o m a 0 là in quel torno
non essendo verisimile che una nazione potente com'erano iVejenti tardasse gran
t e m p o a cercare di riavere il suo. Senzachè ognun ben fa, che le guer re
tra que popoli erano subitanee, tra loro la vendetta non tardava molto a
seguitar l'offesa. Posto adunque, ei soggiu gre, che l'ultima guerra fatta da
Romolo cadeffe nell'anno diciassettesimo del suo R e gno, se non vogliamo, che
i Romani fie no stati più lungo tempo in pace che in guerra fotto il reggimento
dilui,nonsivuo le farlo regnar trentotto anni, m a della m e tà circa il Regno
di lui accorciar fi dee 'Questa è la prima ragione, che adduce l'Autor noftro
per abbreviar la durata del Regno di Romolo, a proposito di cui,,co m e già
disli, strana riuscir dee a chi pon mente quella epoca, su cui fonda egli ilsuo
argomento, ed è ľ 48 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE epoca della e che tro i
Camerj somministrata guerra con da Plutarco. Il Conte d ALGAROTTI.
CAPO IV. Conte Algarotti, che la durata del Regno · di Romolo attestata da
tutti gli Storici vuol distruggere, adopera per mandarla in rovi na un'epoca di
un fatto particolare,dicui niuno fa menzione, fuorchè il solo Plutarco Storico
a tutti iCritici, ed a lui medesimo sospecto. E d in fatti di questa guerra
contro i Camerj Livio non ne parla punto nè p o co, prova forse della
trascuratezza di lui nel tessere l'antica Storia. Dionigi (b) poi, il quale nel
collocarla frale guerre co'Fide nati, e co'Vejenti da Plutarco non discor da,non
dice però, che questa precisamen te seguita sia l'anno sedicesimo d i R o m a.
V e d e pertanto ognuno,ch'io potrei, rifiu tando la testimonianza di Plutarco,
togliere ogni fondamento a questa ripugnanza, m a conveniente mi pare di
mostrarmi cortese ful bel principio delle osservazioni mie. Concediamo adunque,
che nell'anno fe dicesimo di Romolo succeduta appunto sia questa guerra coi
Camerj:.con qual ragio ne si prova, che tantosto abbiano impugna te le armi i
Vejenti? Forse perchè avendo i Vejenti mosso contro i Romani per riaver Fi...
49 (6) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 117. Dice Plutarco, che i
popoli circonvicini vedendo (c) riuscir bene tutte le guerre a Romolo,da
invidia,e da timore agitati, ftimarono non essere la sua crescente gran dezza
da guardar con occhio indifferente, e doversi opprimere una potenza, era ne'
suoi principi formidabile Laon de i Vejenti,i qualitenevano un ampio paese, ed
erano de'più potenti fra' Tosca ni, mosfero contro Romolo, chiedendo la
restituzion di Fidene che dicevano essere di giurisdizion loro; il che,
foggiugne P l u tarco, non solamente ingiusto,m a ridicolo era, poichè
domandavano come ad efli sper tante una Città, che non avean difeso, quan
50 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE che già do Fidene come Citrà di lor ragione
soggioga ta da Romolo innanzi a Camerio, non è da credere, che un popolo
potente come quello abbia tardato molto a farsi rendere il fuo, essendo le
guerre a que'tempi fubitanee,nè tardando molto la vendetta a seguitar l'of
fela? Ora io intendo dimostrare,anchecollo stesso Plutarco, effer piuttosto da
credere, che alla guerra co' Camerj seguita fia las guerra co'Vejenti dopo
qualche notabile spa zio di tempo. () Plut. in Romulo. do da Romolo
era stata assalita, e lasciati in quel tempo gli uomini in balia de'nemi
ci,aspettavano allora a pretenderne lemura. Livio poi dice, che presero le armi
i V e jenti (d), non perchè fossero possessori di Fidene loro tolta da Romolo,
ma perchè i Fidenati erano anche Toscani, e quel che è più, perchè temevano non
le armi de' Romani avessero ad esser fatali alle vicine nazioni; e Dionigi in
fine (e) dice, che il pretesto della guerra fu la strage de' Fide nati. Ora
adunque, poichè siamo certi,che per gelosíad'Impero, e non per altro im
pugnarono le armi i Vejenti, li dee piutto Ito credere effere questa gưerra
fucceduta qualche tempo notabile dopo quella coi Ca. meri; perciocchè stava ad
osservare questo popolo, le poteva assicurarsi della sua forte Tenza arrischiar
nulla, e se riusciva a qual che altra nazione di abbattere i Romani: veggendo
poi, che s'erano felicemente sbri gati da quelle, e che anzi salivano ogni
sanguinitate (nam Fidenates quoque Etrufci fuerunt ), & quodipfapropinquitasloci,fiRomana
armaomnibusin. d 2 gior ALGAROTTI, CAPO IV. 51 (d)T. Liv.Lib.I.Dec. I.
Cap.VI.n.15. Belli Pidenatis contagione irritaii Vejentium animi, & con
festafinitimis effent,fimulabat. (e) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 117.
RAGIONAM. CONTRO IL CONTE Oltr' a ciò, avvegnachè seguita fosse., come si
dà a credere l'Autor noftro,questa guerra circa all'anno diciassettesimo dalla
fondazione di R o m a, chi ci assicura, che altre non ce ne sieno state, le
quali,come di non gran conseguenza,n o n sieno state dagli Storici giudicate
degne di entrare negli A11 nali loro? Pretende pure egli stesso, che non fisia
tenuto accurato registro de'fatti, anzi confervari fi fieno per mezzo di una
cotal vaga, ed incerta tradizione? Veda adunque non se gli possano ritorcere le
sue stesse ar mi, e ch'egli medesimo ammetter debba p o ter offer fucceduti
cali da cotefta fua vaga tradizione non conservati. giorno a maggior
buona cosa il non lasciarli fortificar nella grandezza stimò esfer pa ce. Se
ruppe adunque per propria sua ial vezza la guerra, è probabile, che ciò non
abbia fatto se non dopo un qualche conside rabil tratto di tempo, nel quale
abbia ve duto, che nessuno s'arrischiava di sfidar R o molo a battaglia. Queste
osservazioni,a me pare,bastar po trebbono per dimostrare, cheleirragionevo
lezze ręcate in mezzo dal nostro Autore non sono di tal peso, che vagliano ad
in fringere la Cronologia, e sminuir la durata del 'ALGAROTTI CAPO
IV. 53 del Regno di Romolo: nulladimeno stimo pregio dell'opera, acciocchè
maggiormen te appaja la verità, fare una luppolizione, Orsù adunque abbiasi per
non detto tutto ciò, di cui abbiamo ragionato sin ora.Dianli per invincibili le
ragioni del nostro Autore. Concedafi la presa di Camerio esser seguita; com'ei
pretende,l'anno sedicesimo di Ro m a, l'anno seguente la guerra co'Vejenti, e
dopo questopace profonda; che ne segui rà per ciò? Si opporrà questo per
avventu ra a quell + ' indole bellicosa, che gli Scrittori danno ad una
voce al Fondatore del R o m a no Imperio? Non potrà un Principe dopo essere
felicemente riuscito in molte pericolo se imprese, dopo essersi procacciato
stima, e venerazione presso le vicine nazioni colla fua bravura, goder
de'frutti delle sue vit torie, e riposando all'ombra allori 9. col mantenere il
guerriero valore vivo, e rigoglioso ne'suoi soggetti, fare in modo,che la fama
diprode,ed invittoac quistatası, ed il sapersi esser egli a guerega giare
sempre apparecchiato, gli proccurino una pace non inquieta,turbata, e vergogno
fa,ma ferma,ftabile,sicura,pienadiglo ria, e di virtù. Troppo sarebber funesti
all? uman genere gli Eroi, e troppo infelice vi de'conquistati ta d 3
(f)Op.del Conte Algar.tom.VIII.Epistoleinverfa ep.16. sopra
ilCommerciopag.147, (8)Dionyf. Halic,Lib.II.p.82. 54 RAGIONAM.CONTRO IL
CONTE se per guerra fosse valente, ce ne assicura D i o nigi (g), ove con
quanti modi studiato fi di sia ta avrebbono eglino stessi a menare, acquistarsi
tal n o m e, viver dovessero o g n o ratra le stragi, e tra 'l sangue. E non eb
be lo stesso Autor nostro a lodare l'amor delle bell'arti, la profonda Scienza
Politica, e le altre civili virtù di quel bellicoso Prin cipe, il quale tanto,
vivo, il processe, ed in tanto illustre modo, morto,rese celebre la memoria di
lui? E non fu la verità ster fa, che animò la sua tromba, quando ce. lebrò quel
paese (f). Dove un Eroe audace, e saggio Nestore, e Achille in un fa fede al
Mondo, Che l'Italo valor non è ancor morto. Troppo fiera fu adunque l'idea,
ch'egli fi formò in questo suo Saggio di un Principe guerriero,potendo
esseremoltobene,eche Romolo abbia la maggior parte del suo R e gno passato in
pace, e che ciò non ostan te a sminuir non si venga la gloria milita re, dicui
gode presso gli Storici. E chenell'artinonmenodipace,che 4 fia di
ordinare lo stato va divisando. N e meno di un Romolo vi avrebbe voluto,per
assodare, ed unire con faldi nodi una sì mal ferma società, e per ispirare la
dovuta f o m missione, una sola foggia di vivere, di pen fare in certo modo,
l'amordella patriaido. lo de'Romani., e fonte di tutte levirtù loro, in uomini
di varie nazioni, di non ottimi costumi,per l'armi,eperlevittorieferoci. N è
quelle parole, che Plutarco mette in bocca di N u m a (h), quando per sottrarsi
dallo accettare il Regno offertogli insiste, di cendo, chedi un uomo di
spiritiardenti,e insulfiordell'età,che non diunRe,ma di un condottier di
esercito avean di biso gno i Romani per fronteggiar que'potenti nemici, che
Romolo avea lasciato loro sulle braccia; quelle parole, dico, non sono da t a n
t o, c o m e si c r e d e l ’ A u t o r n o s t r o, c h e, a n che concedendo
non esservi ftata dopo l' anno diciassettesimo del Regno di Romolo guerra
alcuna, perciò ritrar debbasi la m o r te di lui al diciottesimo, o ventesimo
anno del suo Regno. Temeva Numa, che i po poli circonvicini, i quali non
s'attentavano di moleftar i Romani, poichè ben sapevane qual d4 ALGAROTTI,
CAPO IV. 55 (5) Plut. in N u m a, 56 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE
Storici, che finsero aver que'personaggi, i quali a favel lare introducono,
ragionato secondo le cir costanze, e giusta l'indole loro. Dalle m a l sime,
che nel corso del suo Regno dimostrò Numa, dalla non curanza di luiper gli ono
ri ricavo Plutarco questa parlata da lui fat ta, rifiutandoil Regno offertogli
da'Romani. A proposito del qual nulla trovarsi appreffo Livio, altra prova.
forse della sua trascuratezza, e che Dionigi (1) rifiuto è d a notare 2 qual
prode Principe li reggeffe, non pren dessero animo dal genere di vita
tranquillo, e filosofico, che noto era ad ognuno essere da lui professato, e
non volessero lasciarsi sfuggir di mano una occafione sì favorevo le di
abbattere un popolo, il quale già d a to avea tanti non dubbj fegni di voler
fot tomettere le confinanti nazioni, ed in q u e to modo è da intendere, che
Romolo la sciato avesse potenti nemici sulle braccia a' Romani. Senzachè, per
non ripeter quello, che già disfi, e di nuovo mi converrà dire intorno al poco
credito, che far sidee della autorità di Plutarco, certa cosa è, che quelle
parole, le quali presso di lui si leggono c o me diNuma,s'hanno
ariguardarealpari delle altre concioni,sia di Livio, chedilui, quai lavori
della mente degli Storici 1 ALGAROTTI. CAPO IV. 57 )
firestringeadire,che avendoperbuo no spazio di tempo ricusato ilRegno, s'in
duffe poi ad incaricarsene a persuasione de' fuoi, è inutil cofa riuscirebbe
cercar in Lo stesso Plutarco poi è quello,che fom miniitra il fondamento ad
un'altra ragione, con cui ftudiasi il noitro Autore di abbre viare il Regno di
Romolo. Ammette.egli adunque, che nel cinquantesimoquarto anno dellasua età
giunto siaa morte Romolo, ma conceder poi non vuole,che difolidi ciassette anni
abbia cominciato a regnare, la qual cosa è forza dire, quando foftener si
voglia, che di anni trentotto stata sia la durata del Regno di lui. Le ragioni,
che egli adduce per mostrare non poter R o m o lo esser cosìper tempo
falitolulTrono,non fono altre, se non che ciò ammesso,non po. terli quelle tante
cose, che questo Principe facea secondo Plutarco (k) con sì tenera età
conciliare; ed essere maggiormente impro babile, che si giovane abbia fondato u
n a Città, fiasi fatio Capo di un popolo, ed pone Plutarco. 1 abbia sto
Storico quelle parole, che in bocca gli (1) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 121.
(1) Plut. in Romulo. que (1) Op.delConte Alg.tom.IV.Disc,milit.Disc.V.sopra
cit.p. 180. Per via della conversazione, dic'egli (Plu
tarco)convieneinstruirsidelleparticolarità,chesonosfug gite agli Storici
58 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE abbia guidato difficilissime imprese, c o m e a
tutti è noto. M a io non so ritrovare in primo luogo ripugnanza veruna tra la
età, e la condot ta di Romolo innanzi a'principi del suo R e '
gno,principalmente se vogliamo attenersi a ciò che di lui narrano Livio, e
Dionigi, e non ricorrere a Plutarco quale pren dendo le notizie dalla bocca di
que'R o m a ni,con cui conversava, come stesso'noftro che dalla venerazione, in
cui quelli tenevano dell' Imperio leggiadro Autore (1), ben è da credere, ogni
cosa, che appartenesse al Fondatore loro,sia Scrittor erudita, ed elegante (m
), diceva, che la grandezza sero i Romani cia, e dell'Alia dopo le conquiste,
avea (parfo voluttà non ebbe, e di gloria fu que'pri lume di chiarezza de’ m i
loro antenari posteri, qual rozzo, e barbaro popolo sem il, i quali senza la
fama avverti lo.Un, che in fatto di stato ingannato Francese pari, a cui giun
della G r e per così dire un Non so s e i moderni noftri Critici ileClerc, é i
Muratorigli avessero menato buono tal fuo Criterio. (m) S. Euremont Ouvres
mélées, pre ALGAROTTI, CAPO IV. 59 (n) Montesq.Consid.
surlescausesde lagrand,desRom. a segnes venando peragrare falous: hinc robore
corporis bus animisque fumo jam, non feras tantum fubfiftere, fed in latrones
praeda onuftos impetum facere, pastorie busque rapta dividere, & c u m his
crescente in dies grege juvenum ferias, ac jocos celebrare, pre 1
farebbono stati riguardati dalle colte n a zioni. Io non voglio per niun modo
adot tare il parere di lui, anzi penfo, che lo stesso Signor Montesquieu, il
quale osservò c o n occhio si filosofico tutto il corso della Romana Storia,
abbia avvilito di non Chap.I. (0 ) D i o n y f. H a l i c. L i b. I. p a g. 7 2.
8 ful bel principio della sua Opera (n) l'ori gine di quella Città Regina; m a
credo Tuttavia di potere a buona ragione sospetta fondato sopra popolari
tradizioni, e proveniente dalla b o c re del racconto di Plutarco ca di
coloro,che qual Nume Romolo ado ravano, quando nè Dionigi, e nè pur Li vio
danno di ciò il minimo cenno. Ed in fatti Dionigi (6) ci fa sapere soltanto,
che i due giovani Principi furono condotti Città de'Gabj, perchè loro
s'insegnassero leLettere,laMusica,ed ilmaneggiarle armi alla foggia Greca
insino a tanto che pervenissero alla pubertà, e tutti que'p r e gi, i quali
attribuisce loro Livio (p), T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.3.1.4. Quum primum adolevit
aetas nec inftabulis, nec ad peco troppo alla disconvengono punto
alla giovanile età, a n zi più diquella,ched'ogni altracomecor porali esercizj
fon convenienti. M a su via concedasi per vero ciò, che dice Plutarco, sarebbe
poi da farne le maraviglie, che un giovane d'ottimo ingegno fornito cominci a
dar segni di quella prudenza, che ha da tilucere un giorno in lui.Educato
Romolo, come fu, non v'ha inverisimiglianza nessu na,cheinlui,avvegnachè
giovanetto,sfa villasse un raggio di qualche cosa maggior del comune M a dirà
egli, per quanto, e dalla natura di belle doti fornito,e dalla educazione in
strutto suppor si yoglia Romolo, che abbia edificato una nuova Città, che si
sia fatto Capo d'un popolo, che abbia guidato diffi cilissime imprese, sempre
con si tenera età mal potrafficoncordare. Non sipuò nega re, che di troppo
maggior forza, che non 60 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE e cominciassero a
svilupparsi que'semi di generosità, che dalla sua prin cipesca origine avea
tratto? Oltre di che quan te volte il corso dello ingegno è più velo ce di
quello degli anni? U n a illustre prova ben ce ne diede lo stesso noftro Conte
Al garotri, il quale nella sua prima età in m o l te, e varie facoltà dimostrò
l'acume, e la perfpicacia dell'ingegno suo. la la precedente sia
questa ragione: vediamo con tutto ciò il modo, con cui Romolo di venne Re, e
non parrà più forse tanto dif ficile il concepire, che si giovane sia giun to a
tanta grandezza; e prina d'ogni cosa prendiamo le più sicure notizie di quello,
che è succeduto dalla nascita di Romolo in Gino al tempo, in cui fu innalzato
alTrono. A tutti que'racconti della infanzia diR o molo io ltimo doversi
preferire quello di F a bio antico Storico seguito da molti, come dice Dionigi,
ed acui più propende egli medesimo (9), come quello, che favole chia m a le
narrazioni degli altri Scrittori. Egli adunque rigettando quella poetica
finzione della Lupa, nega insino, che fieno stati ef posti i due gemelli; che
anzi afferma aver Numitore per destro modo sottoposti altri fanciulli, i quali
furono da Amulio spieta tamente trucidati. Quindi essere stati i due Principi
da Faustulo educati, ed inviati, perché ricevessero una insticuzione, secondo
che richiedeva la origine loro,alla Città de' G a b j; il qual Fauftulo, per
dirlo alla sfuga gita, quaprunque pastore de'Regj armenti, è da credere fosse
poco meno di un uomo ALGAROTTI. CAPO IV. 63 (9) Dionyf. Halic. Lib, I.
pag. 70-12 di di stato de'nostri dì, attesa lasemplicitàde* costumi
di que'tempi. Ritornati poi dalla Città de'Gabi, legue a dir Fabio presso
Dionigi, di consenso dello stesso Numitore, i due giovani Principi fi
azzuffarono co'p a stori d i lui, e gli sforzarono di ritirarsi in un co'loro
armenti dà certi pascoli tuttoc chè comuni. Questo aver fatto Numitore per
poterli accufare, e trovar m o d o di far entrare senza dar sopetto tutti que'
pastori nella Città. Ordita una tal trama, esser v e nuto Numitore dal fratello
Amulio a lagnarsi, e chiedere a lui, che gli dovesse consegna Te que'due
Fratelli col Padre loro, i quali l'aveano sì villanamente oltraggiato, e d a n
neggiato nelle cose sue, se pure seguito era ciò senza colpa di esso Amulio.Amulio
per dare a divedere, che avuto non ne avea al cuna parte, manda tosto per esli,
62 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE dando,che nella Città venir dovessero non il solo
Faustulo co'suoi supporti figliuoli, m a tutti coloro eziandio, i quali erano
di tale delitto accagionati. E con tal mezzo essen dosi, oltre a 'rei,
grandissima moltitudine nella Città introdotta, Numitore, dopo aver a' giovani
l'origine loro, i loro cali, e le offele da Amulio ricevute, averli scoperto
animati alla vendetta, ed averli persuasi a esli, coman non
ALGAROTTI. CAPO IV. 63 non lasciarsi sfuggir di mano sì favorevole
occasione di eftirpar quel Tiranno come fe cero. Questo è quanto si raccoglie
da Fabio presso Dionigi; narrazione, lia per la quali tà del testimonio, sia
per la veritimiglianza, da antiporsi sicuramente a quella di Plutar co (r), che
porta in se stessa scolpito ilca rattere della finzione, e che al primo aspet
to si dà a conoscere per lavoro della fanta sía de'Romani de'suoi tempi, da cui
attin geva questo Storico le sue notizie, i ogni cosa nel loro Fondatore
finsero straordi naria, e maravigliosa. N o n fu adunque solo Romolo in quella
impresa, anzi fu a quella stimolato dall'Avo, e fu diretto da quello il suo
valore, perchè produr potesse non solo discordie, e sangue, ma utilità, e fi
curezza. quali con Non voglio poi ora parlare diquellaopi nione accennata
da Dionigi (1 ), e se non -abbracciata, n e m m e n o riprovata da lui, che R o
m a stata sia anteriore a Romolo; onde egli non Fondatore diquellaCittà,ma Capo
soltanto d'una colonia chiamar 'si debba; (1) Plut, in Romulo. (8) Dionys.
Halic. Lib. I. pag.60... concedo, che ne sia stato ilFondatore,ma è
da sapersi, che, ha l'idea di edificare una Città, lia i mezzi per condurla a
fine, fu rono opera di Numitore, e non diRomolo. Dionigi (1) di questo ci
assicura, dicendoci, che due fini il mossero a ciò fare; primie ramente per
dare un ricetto degno di loro a'due giovani Principi, in secondo luogo per
isgravare la troppo grande popolazione della Città di Alba, allontanando
principal. mente coloro, che avean seguito le parti di Amulio, ond'egli poteffe
regnare libero di ogni sospetto. La qual cosa è, avvegnachè oscuramente
accennata da Livio (u): per ciocchè dicendo questo contro l'autorità però e di
Fabio, e di Dionigi, i quali per ianti rispetti degni sono di maggior fede, che
il disegno di fabbricare una nuova Città fu pure Numitore, 64 RAGIONAM.
CONTRO IL CONTE opera della mente dei due Fratelli,m a n i felto indizio, che
troppo non erasi studiato di diradar le tenebredi que'primi secoli, soggiugne,
ch'eravi allora una gran molti tudine diAlbani,e di altri,con cui pote vano
popolarla. Nè mancó Lores quoque accefferant, come. (1) Dionyf. Hasic. Lib.
I.pag. 72. (u) T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.III.n.6. Supererat multitudo Albanorum,Latinorumque,
ad id p e r come attesta Dionigi, di somministrar loro e danari,ed
armi,ed ognialtra cosa,che abbisognasse per edificareuna Città (x).Ed a quella
parte di popolo, che seco condot ta avea Romolo, fra cui eranvi non po chi de'
principali di Alba, iecondo il parer dell'Avo, ragionò sul cominciare della edi
ficazione (y ). Dal tutto il fin.qui detto pertanto ftati e (3) Dionyf.
Halic. Lib. I pag. 72. (y) Dionys. Halic.Lib. II.pag.78. ) Dionyf, Halic. Lib.
II, pag. 119. ALGAROTTI. CAPO IV. 69 ramente ne risalta non esserpunto cosa in
verisimile, che di soli diciassette anni, o di diciotto abbia potuto Romolo
farquello,che pur fece, se lipon mente, che in quelle sue prime imprese ebbe
sempre a'fianchi l' A v o, ed ogni cota secondo il consiglio di lui esegui;fu
egli l'Achille d'ogni impre fa,Numitore ilChirone. Tanto ho stimato dovermi
stendere su que ho particolare, perchè non è Plutarco il solo, che ciò scriva;
ma lo stesso Dionigi chiaramente attesta aver Romolo incomincia to il fuo Regno
di foli diciotto anni (z). Vero è, che se si dovessero togliere dagli anni, che
corsero avanti N u m a cinquanta giorni, i quali vogliono molti Autori essere 1
chia. 66 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE stari aggiunti da questo R e,
oltre ad undi ci giorni, che pur mancavano all'anno fe condo la riforma,
ch'egli ne fece, tre anni fi vorrebbono togliere dalla età di Romolo, quando
ascese al Trono, nè vi farebbe per venuto di diciassette, o diciotto anni, di
quattordici, o quindici. Anche ciò con cesso nel modo, che divenne Re, non sa
rebbe gran meraviglia, che divenuto lo foffe in età si tenera, non avendo forse
altro egli fatto, senon imprestare ilsuonome alieim presedell'Avo:ma
dipiùsivuolnotare che quegli Autori, da cui raccogliesi esser giunto al Solio R
o m o l o di soli diciassette, • diciott'anni, non sono di parere, che tanti
giorni mancassero all'anno avanti N u m a. za r Dionigi, il qual dice
(aa) essere il Fon dator di R o m a morto di cinquantacinque anni dopo averne
regnato trentafette, e che aggiugne sulla testimonianza di tutti gli a n tichi
Scrittori, i quali parlarono di lui, che molto giovane fu innalzato al Solio
vale a dire di soli diciott' anni, di questa rifor ma dell'anno fatta da Numa,
per quanto io ne abbia osservato, non ne dà alcun cen no, silenzio, che
congiunto colla accuratez (aa) Dionyf. Halic. loc. cit, 2
ALGAROTTI.CAPO IV. 67 (bb) Plut. in Roinulo. (cc) Plut. in N u m a.
(dd)T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.19. (ee) Macrob.Salurnal. Lib.I. Cap.XIII.Numa......quin
quaginta dies addidit, ut in trecentos quinquaginta qua. suor dies za di lui mi
mette in dubbio della verità della cosa.Plutarco poi, che dice esseregli morto
di cinquantaquattro anni (bb), onde abbia dovuto incominciare ilsuo Regno di
diciassette, parla di questa riforma (cc), m a vuole, che Numa altro non abbia
fatto,le non aggiugnere gli undici giorni, che m a n cavano all'anno, e
togliere l'irregolarità de' mesi, che erano in uso, essendovene tale, che non
giungeva a venti giorni, e tale, che giungeva a trentacinque e più. Che al tro
egli non abbiafatto,cheregolareimesi, ed aggiungervi alcuni pochi giorni, è
quello pure, c h e intorno a questo raccogliere fi possa da Livio (dd). So, che
molti Scrittori, come Macrobio (ee), 'Ovidio, Censorino, ed altri furono di
contrario parere. Si dee però distinguere tra quelli, che asserirono, che
l'anno avanti Numa era di soli dieci mesi, e quelli,che dissero precisamente di
quanti giorni fosse composto, perchè potrebbe essere, trattan e2 dosi....annus
extenderetur,Ovid.Falt.Lib.I. dosi di Scrittori molto lontani
da'tempi di Numa, che da quelli, i quali lasciarono scritto essere stato l '
anno avanti N u m a di soli dieci mesi, abbiano altri, come forse
Macrobio,argomentato, che l'anno foffe di foli trecento e quattro giorni, la
qual c o n getturą ognun può vedere, quanto sarebbe · fallace, potendo esser
benissimo, che fi fa. cessero avanti N u m a dei mesi più lunghi a l fai del
convenevole, e si venisse a compor re con foli dieci mesi l'anno di trecento
cinquantaquattro giorni, non di foli trecento e quattro. Del resto il.Signor
Dacier (ff) afferma, che alla opinione, che di soli trecento e quattro giorni
fosse composto l'anno avanti N u m a prevalse quella, che giugnesse ai trecento
cinquantaquattro per l'autorità principalmen te di Fenestella, e di Licinio
Macro. Cre do pertanto, che ciò basti per togliere quello 'o m b r a
d'inverisimiglianza, c h ' altri ritrovar potesse tra l'età di Romclo, e
l'elier egli giunto ad ottener la Corona, dovendosi, le condo la più comune
opinione, togliere fol tanto pochi mesi, che risultano dagli undici giorni, i
quali mancavano all'anno avanti (f) Dacier nelle note alla vita di Nuina di
Plutarco, 68 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE ! Numa, ALGAROTTI CAPO
IV, 69 e3 CAPO (88) Così dice il Signor Dacier nelle mentovate sue annotazioni
doversi leggere Plutarco, e non trecento e s e s s a n t a, c o m e m o l t o b
e n e l o d à a d i v e d e r e il c o n tetto, Numa, e non tre anni
dalla età di diciotto. Senzachè a me baita, come già disfi, che da quegli
Autori, da cui fi rica-. va questa età di Romolo quando fali sul Trono, non fi
può l'obbiezione dedurre in modo alcuno, anzi il primo glıtoglieilfon damento,
non parlando di questa riforma. lui di dell' anno, te, il secondo la confuta
espressamen dicendo, che l'anno avantiNuma giun geva ai trecento
cinquantaquattro giorni (gg ). O n d e mi pare a sufficienza dimostrato, che
tuttique'fatti,iqualirecatisono inmez z o dall'Autor nostro c o m e ripugnanti
alla d u rata del Regno del primo Re diRoma,ot timamente con questa possono
conciliarsi, e vengono a perdere.ogni lor forza, e a di. leguarsi cutte le
contrarie ragioni. RAGIONAM. CONTRO IL CONTE (a)L'Ami desHommes
Tom.III.Chap.V.DesPro cui V. Fondare Regno di Numa. CAPO Ondare un Regno,
e dargli le leggi sono due operazioni cosi fra loro diverse dice un valente
Politico (a), che richiedono per lo più due distinti Principi per eseguirle.
Nascono ordinariamente gl'Imperj nella fe. rocia de'popoli tra la discordia,e learmi:
laddove la Legislazione (intendo io di quella, che veramente meriti un tal nome
), è uno de'piùpreziosifruttidellapace.Ed èben conveniente, che ciò, che rende
per quan to si può gli uomini felici, tra quello for ger mal poffa, che ne fa
l'infelicità m a g giore. Ed in effetto le leggi di Romolo,. di cui abbiam
sopra fatto parola, riguarda vano soltanto lo stato corrente degli affari,
erano leggi, che abbisognavano, p e r così dire, allagiornata. Numa si che fu
poi quello, che concepì una vasta pianta di L e gislazione, un general Sistema,
il quale m i rar dovea alla eternità; Sistema, che sotto di se comprendeva
eziandio la Religione,di hibitions. ALGAROTTI. CAPO Y. 71 M a
l'Autor noftro, quafichè ridur non si possa a credere, che senza alcuno
indirizzo ira popoli feroci, e pressochè barbari, g i u n gere Per fia
potuto Numa a tanto senno da cui egli secondo l'uso de' Legislatori,iquali
furono a' tempi degli Dei bugiardi, utilmen te fi servi per fiancheggiarne
quelle leggi, quegli instituti, que'coitumi, e quelle opi nioni, che a parer
fuo doveano maggiormen te contribuire alla felicità della Nazione: per se,
mette in campo quella tradizione, che correva per bocca de'Romani insin da'tem
pi di Augusto, secondo cui dicevasi essere Itato ilRe Numa uditor di
Pitagora:onde le belle doti, le quali rilussero in lui, frutto fieno stato
degli ammaestramenti di quel F i losofo, la qual tradizione torna molto in a v
vantaggio del suo Sistema. Perciocchè, dic' egli, posto che N u m a sia stato
discepolo di Pitagora, siccome sappiamo da Cicerone, Livio, e da altri
Scrittori esser giunto q u e Ito Filosofo in Italia in età molto lontana dal
tempo, in cui comunemente fi pone. N u m a, dee questo far accorciare almeno la
durata de'cinque susseguenti Regni, perchè il Filosofo possa essere
contemporaneo del Re Legislatore. еА 3 da Per rispetto al qual suo
ragionamento dei che se egli si fosse soltanto servito di quella tradi zione,
secondo cui dicevasi N u m a essere Itato uditor di Pitagora, da questo n o n
avrebbe potuto inferirne cosa alcuna in fa vore del suo Sistema, potendosi una
tal v o ce concordar molto bene coll'antica C r o n o logia, cioè dicendo, che
Pitagora venne in Italia in que'tempi, in cui secondo questa, fi crede regnasse
N u m a; facendo ascendere in una parolaPitagora a'tempi di lui.Ma siccome egli
desiderava farlo discendere a’ tempi pofteriori, non bastavagli questa s e m
plice tradizione, bisognava, che d'altronde in cui coreito raccoglier potesse
il tempo, Filosofo venne in Italia: preselo da Cicero ne, e da Livio, ma non
s'avvide, che vo. lendo servirsi della autoritàloro,erapoi for za rinunciare a
quella tradizione base avea posto alla obbiezion sua. Percioc chè vero è bensì,
ch'essi dicono esser giun to questo Filosofo molto più tardi in Italia di quel
tempo, in cui secondo l'antica C r o nologia regnava N u m a, m a in tanto
l'asse riscono in quanto l'uno lo fa contemporaneo di Servio, di Tarquinio il
Superbo, o,del Console Bruto l'altro. Volendo pertanto at gno è di particolar
considerazione. 72 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE che per 9 te
266., ed ivi Giamblico, e Diodoro. () Diogen. Laert. inPythagora
Lib.VIII.Clem.Alex, + il qual venne Pitagora in Italia, poichè ne lia
l'epoca, come bene osservò incerta il dotto P. Gerdil (b), non però Scritto
gran fatto fra loro i più accreditati far ri, i quali di tal sua venuta
dovertero fessagesimaleconda te concordano quale asserisce piade 'feffagefima
Clemente Alessandri. Diodoro menzione piade sesfagefimaprima sotto la facilmen
no, che lo mette conda, e finalmente fotto la pone forto, Giamblico l’Olim, le
quali epoche (c), il aver egli fiorito fotro l'Olim con Diogene Laerzio con
variano la fessagesimale con Eusebio dice esfer egli morto nel quarto anno
della fettantesima Olimpiade Diogene mentovato - ottanta o novant'anni. Livio
poi, Cicero- in cui quantunque del (d) in età di, e per attestato Laerzio ne,
ALGAROTTI CAPO V. renerli ad effi, non v'era ragione per a b bracciare soltanto
il tempo, e n o n di qual R e fu contemporaneo questo Filosofo le non il tornar
questo in avvantaggio del suo Sistema. lo pon parlerò qui del tempo, (1)
Introduz. allo Studio della Relig. Lib. III. $. 2. p. Strom.Lib.1. (4) Diogen.
Laert.loc.cit. ed altri Scrittori in tanto ci danno 19 epoca
inquanto,come ho accennato,cidi con di qual Re fu Pitagora contemporaneo le
quali epoche però da loro fissate non ef cono dagli anni, che secondo la
Cronolo gia comunemente ricevuta, corsero dal fine del Regno diServio,
insinoalprincipiodel Consolato; del che niente è da maravigliarsi, poichè
essendo probabile aver dimorato in Italia questo Filosofo un notabile spazio di
tempo, tale Scrittore avrà tolto l'epoca, di cui fece registro, dall'anno della
sua v e nuta,tal altro da un fatto accaduto essendo lui in Italia, tal altro
dalla sua partenza, o dal tempo di mezzo della sua dimora, onde possono aver
detto tutti ilvero,quando fiasi fermato in Italia non più di venticinque a n ni,
che tanti ne corsero appunto dalla m o r te di Servio infino al principio del
Consolaro. Tutto questo adunque io lafcierò da par te.Concedo, che ammettendo
per vera quella popolar voce, essa dovesse piuttosto far discender N u m a
a'tempi di Pitagora, che far ascender Pitagora a'tempi di N u m a. M a quello,
a cui principalmente badar fi dee, è, che questa tradizione medesima non è
fondata sopra alcuna autorevole testimo nianza, che la renda credibile. Vero
è,che ne 74 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE 2 al. verità
nelsuo gover ALGAROTTI, CAPO V. 75 alcuni rammentati da Livio, da Dionigi, e da
Plutarco (e) furono di parere, che da Pitagora, il quale in quella parte
d'Italia, che M a g n a Grecia nomavası, gittò ifonda menti della sua
filosofica serta, N u m a ricevu to avesse quelle maflime di Religione, e di
Politica, che pose in opera no. M a è da considerarsi negar Livio ciò
apertamente, p.120. non essendo secondo luivenu to Pitagora in Italia,se non
sotto ilRegno di. Servio Tullio, e dopo alcune ragioni, con cui studiasi di
mostrar l'insusistenza della opinione di costoro, soggiugne, che di sua natura
inclinato fosse alla virtù cotesto Re, nè bisogno avesse di straniera
instituzione bastandogli la dura, e severa disciplina degli antichi Sabini, de'
quali non v'avea una vol ta più incorrotta nazione (f ). E questa se
(e)T.Liv.Dec.I. Lib.I.Cap.7.8. 18. Dionyf. lic.Lib.II. Plut.in Numa. (f)
T.Liv.loc.cit.Auétoremdoctrinaeejus,quianonexa taralius,falfo Samium Pythagoram
edunt: quem Servio Tullioregnante Romaecentumampliuspoftannos inul tima Italiae
ora....... juvenum emulantium ftudia coetus habuiffe conftat....... fuopte
igitur ingenio, temperatum animum virtutibusfuisfeopinormagis,
instru&tumquenon tam peregrinis artibus, quam disciplina teirica, ac tristi
veterum Sabinorum, quo genere nullum quondam incorru. prius fuis.
verità origine ebbe per avventura da una Colonia di Spartani venuta in
Italia a't e m pi di Licurgo, come appare dalle memorie antiche nazionali
portate da Dionigi, e di cui anche ne dà un cenno Plutarco (8 ), la qual
Colonia è da credere che trasfufo avesse ne'Sabini buona parte de'costumi de'
Lacedemoni. Cicerone poi in più luoghi delle opere sue afferma fuor di alcun d
u b bio esser giunto questo Filosofo in Italia sot to ilRegno di Tarquinio
ilSuperbo,eche in Italiapur era a que’tempi,in cuiBruto diedelalibertà
a'Romani(h).SottoilCon solato di Bruto lo mette pure Solino, ed Aulo Gellio in
fine dice effer venuto questo Filosofo in Italia sotto il R e g n o dello
stesso Tarquinio Superbo. Dirà forse taluno, che l'alterigia de'R o (8) Dionyf.
Halic. Lib. II. pag. 113. Plut. in N u m a in piternum Hanc opinionem
discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit,quicum ·Superbo regnanteinItalian
veniffet tenait magnam illam Graeciam ec. Cic. Tusc. Brutuspatriam
liberavit:ld.ibid.Lib.IV.Aulus Ge lius Noet.
Attic.Lib.XVII.Cap.21.PofteaPytagoras Samius in Italiam venit Tarquinii filio
regnum obtinente, cui cognomento Superbus fuit, 76 RAGIONAM. CONTRO IL
CONTE mani princ. (h) Ferecides Syrus primum dixit animos hominum ellefema
Quaeft. Lib. I. Pythagoras, qui fuit in Italia temporibus iisdem, quibus
L. mani fu cagione del non darsi credenza a questa tradizione dai
dori, quafichè ellite messero non venir con questo a scemare la gloria di
que'primi secoli,, riconoscendo da un Greco l'Institutore della Religione, ed
il più favio de'Re loro. Quantunque questa non paja ragion bastante per negare
ciò, che gli Scrittori Romani ci dicono: poichè ammessa questa regola, rifiutar
fi potrebbe come supporto tutto ciò, che uno Storico narra di avvantaggioso per
la nazion sua, v e diam tuttavia ciò, che ne dissero iGreci. E' da credere; che
questi sisarebbono recato ad, onore l'aver dato a Romani il Maestro di N u m a:
che per Greco passò presso Dionigi e Plutarco Picagora, che che ne sia della
opinione di alcuni moderni, i quali nè G r e co.il. vogliono, e nè,pure di
quelle Greche Colonie fondate negli ultimi confini d'Italia. pal
ALGAROTTI, CAPO V. 77 Ora ciò non oftantePlutarco(i)nonscio glie la quistione,
e reca foltanto in mezzo le varie opinioni, che a'suoi di correvano, fra le
quali degna è di considerazione quella di coloro, che asserivano essere venuto
in Italia un certo Pitagora Spartano, il quale avea nella Olimpiade sedicesima
riportata la (i) Plus,in Numar bre (k) Dacier nelle annotazioni
alla sua traduzione francese delle vite di Plutarco; alla vita di Nuina.
78 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE palma ne'giuochi Olimpici, fotto Numa terzo anno
appunto del Regno di lui il Il Signor Dacier (k) fi ride di una tale opinione,
fembrando a questo Critico ripu gnanza da non potersi comportare, che u n
personaggio atto a dare instruzioni ad un R e, e ad un Re,qual
fuNuma,abbiagareggia to in Olimpia per ootttenere il premio del corso.Ma a me
pare con buona avendo Spartani questi additato parecchj al Re ftrato fondamento
uli degli sommini Legislatore alla favola., abbia ed pace di 'un tanto uomo,
che le usanze moderne lo abbiano ingannato nel giudicar delle antiche. A tutti
è noto, che Socrate il più rinoma to Filosofo della Grecia non isdegnava di
suonar la cetra, e che anzi non lasciò di esercitarsi nella lotta; ed oltre a
ciò non era poi mestieri, che fosse un gran scien ziato costui per instruire N
u m a delle leggi degli Spartani. Si sa, che quel popolo nella rigidezza de'
costumi, e privazione di prel so che tutte le cose, le quali rendono dol ce la
vita, godeva per altro dell'avvantag gio d'aver leggi, che per la semplicità,
e ALGAROTTI, CAPO V..79 con brevità loro, e per la cura del
governo nel farle apprendere a'fanciulli erano note a tutti coloro, che doveano
obbedirvi. N o n farei pertanto lontano dall'ammettere que fta opinione,se altro
non vi fosse in con trario, fuorchè questa ripugnanza ritrovata dal Signor
Dacier; m a rinunciar vi fi dee per troppo più forte motivo, ed è la te
stimonianza di Dionigi, il qual dice non ri levarsi da alcuna memorabile
Istoria, che stato vi sia in Italia altro Pitagora anterio re al famoso
Filosofo (l). Del resto,cheilcelebreFilosofodi que sto nome nonsia stato
a'tempi di Numa, con molte, ed incontrastabili ragioni Atelio Dionigisiprova
(m), e di più ac cenna ciò, c h e diede occasione a questa v o ce sparsası nel
volgo, e sono la venuta di Pitagora in Italia, la sapienza di N u m a fuori
dell'usato della nazion sua, a cui sipuò ag. giugnere la conformità della
dottrina, ed il ritrovarsi presso alcuni antichi Scrittori, da cui non dissente
Dionigi (n), che N u m a fu chiamato al R e g n o il terzo anno della fedi
cesima Olimpiade, il qual anno designarono dallo (1) Dionyf. Halic. Lib. II.
pag. 121. (12)Idem loc.cit. (n) Idein Lib.II.pag. 120. con dire,
che fu quello appunto, in cui quel certo Pitagora Spartano avea riportato il
premio de'giuochi Olimpici.E le pure è fondata quella taccia data a Dionigi di
derivare da'Greci assai più di quello, che ragion voglia delle cosede'Romani,Greco
d a lui efsendo Pitagora stimato, ben è da credere, che nel secolo, in cui
eglivivea, fossero i dotii,uomini sicuri della falsità di questa popolar
tradizione. Chiaro è a d u n q u e abbastanza, che nessun caso si volea fare di
questa, quando da'più dotti fra' R o mani, e fra' Greci fu non solo rigettata, m
3 confutata eziandio, e quando fondato sopra l'unanime consenso loro già
esitato, non avea l'erudito Stanlejo di chiamarla fas vola folenne (0) Quello,
di cui abbiamo infino ad ora raa gionato,non risguardailRegno diNuma, m a
tendeva ad accorciare i cinque seguenti Regni,ed inquestoluogo se*o'èdovuto
trattare, perchè da cosa appartenente a lui ricavata era
l'obbiezione.Facciamoci ora a considerare quelle ragioni, per cui accorciar
debbasi il Regno diN u m a medesimo. Pare adunque primieramente all'Autor nostro,
che non () Stanlejus in Hift.Philosoph.part.VIII.Cap,X. 80 RAGIONAM.
CONTRO IL CONTE ALGAROTTI. CAPO V. 81 Io non fo rispondere altro a
queste ragio ni,se non lasciare al giudicio di chiha fior di senno,sesianon
solo maraviglioso, eri pugnante, m a soltanto fuori dell'ordinario corso delle
cose, che, quando un uomo fia stato di singolare ingegno dalla natura for nito,
e quand'esso abbia posto cura in col tivarlo, giunga in età di quarant'anni ad
acquistarsi il grido di favio: tanto più che sappiamo aver N u m a avuto l'arte
di conci liarsi venerazione presso gente rozza, e per conseguente superstiziosa,
collo sfuggire il con non potesse esser fornito nella fresca età,ei dice,
di quarant'anni questo R e di tanta fcienza, e di cosi alto lenno 2 che già ri
suonaffe la sua fama non folo pressoi suoi nazionali, m a ancora presso gli
stranieri, e che il suo nome già dovesse far tacere in un subito ogni
particolar riguardo, e le ani mosità delle parti, che per lo spazio di un anno
intero contefo aveano fra loro dello Imperio. Che tale fosse la riputazione,
che si avea della sua scienza, nelle cose divine, ed umane, che quantunque i
Padri vedes sero la grandezza, che tornava togliendo il Re dalla nazion
loro,nondime n o niuno ebbe ardire di preporre ad un tal uomo. alcuno a'Sabini,
7 f consorzio degli uomini, dimorando ne'sagri boschi, col
disprezzar le pompe, M a questo non è il tutto, segue a dire il nostro Autore.
Tazio, che reggeva R o m a insieme con Romolo, preso al grido della fapienza di
N u m a, gli ditde Tazia unica sua figliuola in moglie; ed ancorchè dalla
Storia non abbiasi in qual tempo ciò preci samente avveniffe, si p u ò
affermare senza tema di errore, questo essere avvenuto nei primi anni del Regno
di Romolo dacchè Tazio morì prima della guerra co'Fidenati, e co'Camerį, cioè
prima dell'anno sedice 6)Tacit.Annal.Lib.III.Cap.26. Nobis Romulus ut 82
RAGIONAM.CONTRO IL CONTE e le 1 gran dezze, e lasciar che corresse la voce dei
suoi pretesi congressi colla Ninfa Egeria.La fama della sua giustizia non era
tale da afa sicurar i Romani, che non sarebbono stati molestati da 'Sabini,
quantunque essi avesse ro tolto il Re della nazion loro? Doveano finalmente
concordare una volta i Padri, e stanchi forse i Romani, e mal foddisfatti, come
quelli, che dato ne aveano non dubbj segni,del governo diRomolo,ilqualpen deva
al tirannico (p), fi contentarono di eleggere a R e loro un Filosofo. fimo,
libitum imperitaverat. fimo, o diciassettesimo del Regno di R o m o
lo; e Plutarco (9) inoltre atteita, che T a zia era morta, quando N u m a fu
chiamato al Regno, e che era vissutacon effo luilo spazio di ben tredici anni.
Quindi ei rac coglie, che gran tempo innanzi fioriva la fama della fapienza di
Numa, e dice,che, volendosi ritenere il compuro di Plutarco, sarebbe di
necessità asserire contro ogni ve. risimiglianza, che all'età di soli
venticinque anni la fama della fapienza di N u m a fosse già tanta da indur
Tazio Re ad allogare una fua unica figliuola con lui u o m o priva Ed ecco
altre opposizioni,a cuidàsem pre il fondamento il folo Plutarco. E che fede fi
dee prestar m a i a questo Scrittore, to, f2 е ALGAROTTI, CAPO V. 83 onde
conchiude non potersi fare a m e no di non dare un sessant'anni almeno a Numa,
quando ad una voce fu eletto Re di Roma, e ne deduce, che se vogliamo, che,
come s'ha dagli Storici, sia vissuto in fino all'età di ottantatré anni, avendo
vent' anni più tardi, che non è la comune cre denza, incominciato a regnare, è
neceffario, che di altrettanti fi venga ad accorciare il suo Regno. (1) P l u t.
i n N u m a. 84 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE avanti lui? Per formarci
una chiara idea della falsità del ragionamento del nostro A u tore, connettiamo
alcune delle epoche di Plutarco, che è il suo Achille per questi due primi
Regni col suo Sistema Cronologico. Tredici e più anni avanti alla morte di
Romolo ei raccoglie da questo Storicoesser seguite le nozze di Numa con Tazia.
Que sto Storico medesimo dice esser nato N u m a nello stesso tempo che Romolo
innalzava le mura dell'alta sua Roma (n): ma vuole il nostro Autore, che di
foli diciannove anni circa stato sia il Regno di Romolo, dunque ne seguirebbe a
ritenere tutte queste e p o che di Plutarco,e congiungerle col suo S i stema,
che nel fefto, o fettimo anno della età e per rispetto almatrimonio di
Numa con Tazia, e per rispetto all'esatto numero di anni, che vissero insieme,
minute particola rità, le quali sfuggono agli stessi contempo sanei? D'onde
ebbe egli si particolarinoti zie,che aver non potè non già ilsoloLi vio,ma nè
pure l'accuratoDionigi,ilqua le tanta maggior diligenza usò nello stende re le
sue Storie, che di maggior criterio è fornito, e che visse notabile spazio di
tem po () Plut. in N u m a. 1 ALGAROTTI, CAPO V. 85 età fua N u m a
avesse menato moglie, ridi colo affurdo, ed inverisimiglianza troppo maggiore
al certo, che non sia quellad' averla menata nell' anno vigesimoquinto. So che
rigetterà egli quest'epoca, poichè chia ramente scorgesi doversi secondo il suo
Si Itema porre f 3 la nascita di N u m a quarant'anni innanzi alla
fondazione di Roma; ma è da riflettere,che se di quelle, direi così, m i nute
epoche, di cui favella Plutarco, non ne danno gli altri Scrittori un minimo cen
no,nel mettere la nascita diNuma alprin cipio del Regno di Romolo, o là in quel
torno, concordano tutti; poichè tanto asse risce Dione (s ), lo stesso si
raccoglie a un dipresso da Livio, ed infine l'accurato D i o nigi dice,che Numa,quando
giunsealSo lio, era vicino al quarantesimo anno, onde non essendovi, come a luo
luogo opportu no abbiam mostrato ragione alcuna di ab breviare il Regno di
Romolo, fi vuol pure secondo lui mettere circa a'prinċipj di R o m a la nascita
di N u m a. Perlaqualcosa stra no dee riuscire, che l'Autor noftro rifiuti (1)
Dion. Cocej. in fragm. Peiresc. pag. 8. ex ed.Rei. quella mari Hamburg. 1750.
T.Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.8.n.21, Dionys, Halic, Lib, II. pag. 129.
quella epoca di Plutarco, la quale è atte Iata dagraviffimi Scrittori,ed
ammetta quel le, nello asserir le quali trovasi solo questo Stórico. E' adunque
forza rigettare le epo che di Plutarco, e queste sue minute noti zie,non solo
perchè incerte,ma perchèfe fi colgono tutte insieme mal congiungerli possono
col Sistema del nostro Autore. Per rispetto poi a quelle parole di questo R e
presso Plutarco, con cui rifiuta il R e gno, le quali pajono a lui disdicevoli
i n bocca 86 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE M a concediamo, che queste
particolarità accertate fieno, e n o n ripugnino col Sitte m a di lui le epoche
stesse di Plutarco, che grande assurdo ne seguirebbe poi? Che T a zio avrebbe
data lasua figliuola in isposa a Numa, mentre questi era di soli venti cinque
anni;a Numa de'principali fra' Sa bini; a N u m a, che già erasi acquistato per
avventura riputazion d i fapiente; a N u m a infine, che quantunque giovane,
ben si può far ragione dal gran renno, che poscia di mostrò, che di venticinque
anni uguagliasse molti uomini, i quali già fossero avanti nell' età. Qui mi
pare in una parola, che la grandezza moderna abbia offuscato l'intellet to del
nostro Autore nel recar giudizio dell' antica semplicità. E' ben
vero però, che fa d'uopo fer marsi ancora alquanto intorno ad una sua
considerazione, la quale entrambi gli abbrac cia,ma spero,chemi
verràfattodidimo, ALGAROTTI. CAPO V 87 bocca di un uomo di soli
quarant'anni,già ne abbiamo sopra ragionato(1).Basteràag giugnere, che quantunque
proferite le avel le questo Re Filosofo in taleesà,male non gli sarebbono state
in bocca. Forse tuttigli uomini hanno da potersi vantare di militar bravura?E
quando vantatosenefosse,non era egli noto, che mai vissuto non avea fra l'armi?
Concedası, che questa dote fosse necessaria ad un Principe in quelle circostan
ed egli appunto mostrò di stimarla tale e per questo accettar non volea
l'offertagli Corona. Non hanno pertanto da parer disdi cevoli, e vergognose in
bocca di un Filo sofo di quarant'anni, mentre N u m a di tutt' altro pregiavasi,
che di stare in full armi, ed avea preso b e n diverso cammino per giungere
alla gloria. Laonde mi pare, che già li fia fatto chiaramente vedere, che per
quello, che spetta a'due primi Regni, non avea l'Autor noftro per accorciarli.
alcun bastantemotivo Itrare ze, f A (+) Cap ly. RAGIONAM. CONTRO IL
CONTE strare non aver questa maggior forza delle altre sue obbiezioni. Pare
adunque all'Au tor noftro improbabile, D 88 Tullo Ostilioriaccendere
petti de'Romani (nervati che abbia la bellica virtù ne® di sessantacinque anni
dice risultare l'antica Crono logia da quarantatré anni del Regno di N u m a,
da un anno d'interregno, e da ven tuno pacifici già da unapace anni, iquali
sessantacinque di Romolo. secondo potuto samente potuto Tullo Ostilio delta re
dopo sì gran tempo Romani, e guidarli come ei fece si animo alla vittoria: fi
ponga però soltan to mente alla pace, da cui uscivano i R o mani,e biano
interrotto l'ardor guerriero n e ' per qual guerra una e chiaramente fi verrà a
comprendere, come ciò fia poflibile. tal pace ab Lasciando ora da parte, se
quegli ultimi anni di Romolo sieno stati cosi pacifici c o me si dà a credere
il nostro Autore, o fe almeno, come abbiamo sopra mostrato, non abbia quel
bellicolo Principe mantenuti vivi gli spiriti marziali ne'suoi Soggetti; venia
mo a vedere, fe ammettendo questasilun ga pace,ne risulti tale
inverisimiglianza, per cui abbiasene a negar la possibilità. Tutta la
ripugnanza consiste nel concepi come abbia те, 2 La ALGAROTTI, CAPO
V. 89 La pace de'Romani non era nata dall' ozio,èdaltimore,ma eraunapace,che
ben lungi dal paventar de'nemici era in istato di farsi temer da quelli:onde
non d o vea pure sembrare improbabile al nostro A u tore, che le circonvicine
nazioni gelose della grandezza di R o m a non ne abbiano turba ta la
tranquillità. E che senno sarebbe stato il loro di romper guerra con un popolo
pol sente, e valoroso, che vivea in pace bensi, m a in una pace lontana dalle
morbidezze, dura, rigida,anzi feroce, che non le of fendeva in cosa alcuna, che
dava speranza in fine di voler depor l'armi, confervar l' acquistato, nè più
curarsi di estendere i c o n fini? Aggiungafi inoltre di quai belle doti a b
bia il saggio N u m a fornito i suoi soggetti p e n d e n t e il s u o p a c i
f i c o R e g n o. N u m a a c conciò il popolo a Religione, e Divinità, per
servirmi delle parole di Tacito,(u) fu, vale a dire, datore di quel freno, e
{pro ne sì necessario, promosse, favorì, e ftudioffi in ogni modo di
farfiorirel’Agricoltura,co me hassi non già dal solo Plutarco, ma da Dionigi
eziandio (v). Ora ciò posto non iscriffe Plut, in N u m a, Dionyf, Halic.
Lib.II, pag. 133 (w)Tacit.Annal.Lib.III.Cap. 26.n.3: lo Che
(a) Alg. Op. tom. III. Saggio sopra il Gentilefiro go RAGIONAM. CONTRO IL
CONTE lo stesso noftro Algarotti (x ), seguendo il parere del Segretario
Fiorentino, che, se dove sono le armi, e non Religione, con dif ficoltà fi può
quella introdurre, dove è R e ligione, facilmente si possono introdurre le
armi? E in quanto allo avere un popolo di agricoltorinon avrà egliavuto
probabilmen te sotto gli occhi una riflessione veramente aurea
diPlutarco,laqualequestopiùFilo. fofo, che Storico inserisce nella vita di N u
m a, ed è, che, se in villa si perde quella temerità, e malnata voglia, che ci
spinge a rapire le sostanze altrui, fi conserva però ottimamente tutto il
necessario coraggio per difender le proprie? Che più? Non diceegli stesso, che
quel Principe, che ha uomini può farne presto de'soldati (y ), che un zappatore,
un contadino li avvezza agevole mente a marciare, a patir caldo e gelo, alle
fatiche, ed agli ordini della milizia? Ecco in qual maniera da que'robusti
contadini, della Religion loro veneratori, amanti della patria abbia Tullo
Ofilio potuto ben tosto crarre un poderoso esercito. pag.273: (y ) A l g. O p.
c o m. V. V i a g g i di R u s i a p a g. 5 8 - 9; ra, avere
ALGAROTTI, CAPO V, C h e se altri poi si volgerà a considerare, per qual guerra
abbia questo R e rotti gli ozj dellapatria, e spintii Romani all'ar mi, come
s'esprime Virgilio, vedrà,che ca de rovinata del tutto la ripugnanza i m m a
ginata dal nostro Autore. Nella prima guer che ebbero i Romani dopo ilRegno di
N u m a, non trattossi di uscire dal proprio paese,e andarad invaderecon armata
ma no l'altrui, trattosli di difendere i propri confini dagli Albani', che per
gelosía d'ima pero vollero la guerra con esli, e le per avventura non
si-sarebbono questi accinti di buon animo ad una straniera espedizione, è da
credere, che non avendo ne'campi perduto il necessario coraggio per difende re
il suo, con tanto maggior ardore moffi G fieno a rintuzzare la forza degli
ingiusti aggressori. Che tali poi fieno stati gli Alba ni, avvegnachè Livio (7)
secondo l'usanza fua distintamente non ne favelli, non ce ne lasciano dubitare
e Diodoro Siculo, e lo Atesso tante volte lodato Dionigi (aa). Per ciocchè il
primo dice, che finfero gli Alba ni di aver motiyo di lagnarside'Romani per (z)T.Liv.Dec.
I.Lib.I.Cap.9.n.22. (a a ) D i o d. S i c u l. e x c e r p. L e g a t. t o m.
I. p. 6 1 8. Dionys Halic.Lib.II.p.137. iR o m a ni sia per gara
di primato, sia a cagione di questo stesso maltalento, che contro esli gli
Albani dimostravano, non mancassero di corrisponder loro in malevolenza, e già
in questo modo fparli fossero que'semi di odio, i quali scoppiarono poi in
guerra manifesta. Nè tralasciarfidee,cheilnuovoReTullo Ostilio già erasi colle
sue belle qualità cat tivato l'affetto de'Romani, e col distribui re
a'bisognosi cittadini certe terre, le quali aveano appartenuto a'due primi Re,
come scrive Dionigi (bb), avea già dato ad effi 92 RAGIONAM, CONTRO IL
CONTE avere un pretesto di muovere contro esli, c o m e quelli, che portavano
invidia alla p o •tenza loro; e Dionigi attesta, che Cluilio Dittator di Alba
volle la guerra co’Roma ni, e permise a'suoi di dare il sacco impu nemente alle
terre loro.Aggiungafi, che gli Albani, come sopra abbiam cacciato una parte del
popolo loro, la qua le a persuasion di Numitore, che per rego la dibuon governo
volea purgarne laCittà lua,era ita con Romolo probabile, che vedessero di mal
occhio cre sciuta a tanta grandezza una Città formata de’rifiuti loro, e che
d'altra parte riferito, avean a Roma, onde è mo 1 (bb) Diony. Halic. Lib. III.
pag.137 1 motivo di sperare di dover condurre una vita felice sotto
il governo di lui. In abbiano CAPO VI. Regni di Tullo Ostilio, Anco Marzio,
Ccoci ora giunti al Regno di quel Tullo Oftilio, che meritò di nuovo corona per
la sua perizia militare, e guidò alla vittoria (a). pure il nostro Autore, che
d'alcun poco s'ac (a) Virg. Lib. VI. Aeneid, potuto cor Patria si cara, e
che già per le civili, e militari virtù di Romolo, e per lo senno di Numa
salita era ingrande stima,ed ono re presso le vicine nazioni. difendere una
Eccoci ALGAROTTI. CAPO V. e Tarquinio Prisco. que Ita maniera resta verisimile,
che i Romani robusti, e valorofi com'erano dilornatura, offesi da un popolo ad
essi odioso, governa ti, e retti da un favio, e prode Principe, che amavano,
Agmina J a m desueta triumphis QuestoRegno adunquenon meno diquello del suo
fucceffore Anco Marzio defidera Vero è, che si potrebbe in primo
luogo fospettare e dell'età si avanzata di Anco e della stessa asserzione, che
questo R e alla morte sua non avesse un figliuolo, il quale giunto fosse alla
pubertà. Perciocchè il n o Itro Autore da un'epoca del suo Plutarco raccoglie,
che giunto già foffe Anco all' anno sessantesimoprimo dell' età sua, quan do
venne a morte, prestando intera fede a questo Storico, allorchè dice, che Anco
ni pote di N u m a per parte di una figliuola alla morte dell'Avo già era nel
quintoanno dell' età fua (b); minuta particolarità, di cui egli folo
c'instruisce, non facendone motto non solo Livio, m a nè pure Dionigi,
entrambi 94 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE corcino, avvegnachè non possano
chiamarfi di lunga durata, non giungendo ilprimo se non a trentadue anni, ed il
secondo a ven tiquattro, secondo la Cronología c o m u n e m e n te ricevuta; e
la ragione, che lo spinge ad abbreviarli, non è altra, se non l'improba bilità,
che, secondo lui, risulta dal doversi ! fupporre nell'antico Sistema, che il R
e A n co Marzio fia morto nella età di anni fel fantuno senza aver figliuoli, i
quali già p e r venuti fossero alla pubertà. (6) Plut. in Numa in fine. i
fe dati questi per ne nyf. Halic. Lib. 1. p. 136. (d) 'T. Liv. Dec. I.
Lib. I. Cap. 14. n. 35. Jam filii ALGAROTTI, CAPO VI. 95 i quali fi restringono
a dire, che questo R e nipote era per via di una figliuola del Re Numa (c).Nè
certaèpurequell'altraal serzione del nostro Autore, che alla morte di Anco non
fosse ancora alcun suo figliuo lo giunto alla pubertà: perciocchè, te L i v i o
descrivendo non troppo accuratamente quel primo secolo di R o m a secondo
l'ufan za fua,diceallasfuggita,cheifigliuolidi Anco erano vicini alla pubertà
(d), Dioni gi, il quale con occhio più diligente scorse que'tempi, attefta, che
uno de'sopraccen nati figliuoli era già pervenuto alla pubertà, e l'altro
ancora fanciullo (e). Dubbiosi sono pertanto,per nondirfalsi,ifondamentidella
difficoltà. Vediamo ora, veri fia almeno questa convincente". Perdo nimi
il Conte Algarotti; ma io debbo con fessare, che quando lessi questa parte del
suo Saggio,non potei fare a meno di non com piangere m é c o stesso la
deplorabil sorte della umana ragione, non potendosi coloro, che © T.Liv.Dec.ILib.I.Cap.13.n.32.NumaePom
pilii Regis Nepos filia ortus Ancus Martius erat.Dio prope puberem aetatem
erant. (e) Dionys, Halic.Lib.III.pag.184. ne fanno la gloria, qual
certamente egli era liberare da'pregiudizi pienamente. Grave presunzioneinvero
controallagiustiziadella causa si è l'esser forzato un u o m o del suo senno a
ricorrere a tali ragioni per sostenerla. La grande impressione, che avea fatto
in lui il Sistema Cronologico del Neutone, 1' opinione, che aveva della
dottrina di q u e fto Filosofo fecero sì, che lasciò sfuggir dalla penna certe
ragioni, le quali eglim e desimo, le altri gliele avesse opposte, non avrebbe
né m e n o degnate di risposta se è da credere, che tutti gli uomini facciano,
e d Anco medesimo abbia fatto quello,che pru dentemente far fi dovrebbe. Se
finalmente anche concesso, che ne'giovani suoi anni abbia 96
RAGIONAM.CONTRO IL CONTE Lascio pertanto al giudizio de'giusti matori delle
cose, se l'esser morto il Re Anco Marzio in età di anni sessantuno fen za aver
figliuoli,iqualitrapassasseroiquac tordici ami, sia tale inverisimiglianza, che
ci sforzi a negar fede a'più gravi Scrittori delle cose Romane di que'tempi, e
lascio per conseguente pure al giudicio loro, fe, fupposto, cheil partito
prudente fosse di tor moglie, essendo egliancor giovane perpo terlasciare, come
l'Autor nostro s'esprime, dopo le figliuoli attial governo, esti
ALGAROTTI, CAPO VI. 97 abbia tolto moglie, sia cosa inverisimile, che se
non tardi abbia avuti figliuoli,o pu re morti fieno avanti lui i primi,non rima
nendovi che gli ultimi. Tutte queste cose, come dicea,io le lascio al giudicio
de'let tori, e mi reftringerò soltanto a dimostrare, che la speranza, la quale
prudentemente a y rebbe potuto nodrire, c h e i suoi figliuoli poteffero
succedergli nel Regno, non era tale da spingerlo a tor moglie affai per tempo,
la qualcosa per recare ad effetto mi con verrà indagare attentamente quelle
leggi, o per dir meglio costumanze,secondo cuicrea vanli i R e di R o m a;
tanto più che, oltre all' effere materia per se importante, non ci riuscirà
forse inutile l'averla trattata nel de. corso di queste osservazioni. Chi
dunque prende a considerare la con ftituzione del governo di Roma a que tem
pi,hadapormente innanziditutto,che le cose non erano ordinate, come sono negli
Statide'giorninoftri,ma chesenonrego lavansi gli affari del tutto all'
avventura, elea forza, e l'accortezza aveano per l'ordina rio'non poca
parte nelle deliberazioni.Dif ficile pertanto sarebbe trovare le leggi fone
damentali, secondo cui fissata fosse la suc cessione al Trono, ovvero il modo
della la g A due capi ridur si può la base della constituzione di
qualunque Stato: al m o d o, con cui si eleggono, od intendonsi eletti quel
Principe, o que' Magistrati, che hanno da reggerlo, ed alla autorità, che
questi hanno sopra i loro soggerti. Della autorità, che i Re di Roma avessero soprailorosog
getti, non appartenendo punto alla presente quistione, io non farò parola. Chi
deside raffe per avventura d'esserne informato, p o trà ricorrere al Grozio, ed
al Cellario (1) ed a que'luoghi degli antichi Scrittori da essi accennati. Mi
volgerò bensì a mostra che H. Grotius de Jure Belli & Pacis Lib. I.
Cap.III. Chriftoph. Ceilar.Breviar.Antiq.Roman.Cap.II.feff.1. 98
RAGIONAM. CONTRO IL CONTE 1 elezione: tuttavia connettendo alcuni luoghi degli
Scrittori, e facendovi sopra alcune ri flessioni, verremo in chiaro, per quanto
comportar lo possa un si rimoto secolo, di quelle consuetudini, le quali,
secondo c h e io stimo, tenevano luogo presso i Romani di leggi fondamentali.
per quanto raccoglier si poffa dalle scarse notizie di quella età il Regno di R
o m a piuttosto elettivo, che altro chiamar li dee. re, 1 E 03.120. n.5 S.
2. ma ALGAROTTI. CAPO VI. 92 E prima di tutto, le dalla
qualitàde'Re, i quali fuccedettero l'uno all'altro, si può ricavare alcuno
indizio, certa cosa è, che in que'sette Regni mai figliuolo non succe dette al
padre, che anzi tutti furono di di verle famiglie. N o n parlo di Tarquinio il
Superbo, il quale non per giusta strada, m a colla forza, e per mezzo delle
scelleratezze giunse al Trono, a cui mai sarebbe in al tro modo pervenuto.Veda
adunque l'Au tor noftro, se dalla elezione di Anco, che nipote era per via di
una figliuola di N u che non subito dopo il Regno dell' Avo,ma dopo quello
diServioTullioasce se al Trono, inferir se ne possa, che piut tosto pendesse ad
essere successivo il Regno di Roma. Che se Tarquinio Prisco allonta nò da Roma
i figliuoli di Anco nella ele zione del nuovo Re, la qual precauzione egli
s'avvisa dimostrar, che vantassero que sti giovani diritto al T r o n o,si vuol
notare, che tutto facea per li figliuoli di Anco,per muovere i Romani a
conceder loro il R e g n o, e tutto era contrario a Tarquinio. Erano i primi
discendenti da N u m a figli uoli di Anco Principe, che congiunto avea le più
belle qualità de'suoi antecessori, o n de è detto da Livio uguale a qualunque
de' pal. g 2 Pa (8)T.Liv. Dec. I. Lib.I.Cap.13. n.32. Medium erat
in Anco ingenium,& Numae, & Romuli memor. Id. ibid. Cap. 14. n. 35.
Cuilibet fuperiorum Regum belli ) Dionyf. Halic. Lib. III, pag. 184. 1
Too RAGIONAM, CONTRO IL CONTE passati R e nella gloria delle arti sia di
Sequitur jactantior Ancus Nunc quoque jam nimium gaudens popu laribus auris.
Uno di questi poi secondo Dionigi (1) già era alla pubertà pervenuto.Laddove Tar
quinio oltre ad essere straniero essendo stato dal morto Anco fuo fingolar
benefattore d e ftinato per tutore a'suoi figliuoli, la qual cosa fece per
avventura, lusingandosi, che avrebbe egli tentato ogni modo di aprir loro la
strada al Trono,nè per gratitudine questo dovendofi fupporre ignoto a' R o m a
ni, certa cosa è, che eravi ragion di teme re per lui di non poter ottenere il
suo in tento, quantunque il Regno fosse elettivo, se i figliuoli di Anco
avessero potuto chia marlo, esponendo a' Romani i meriti del paces che di
guerra (g), e quello, che è più grandemente amato dal popolo,secondo che disse
Virgilio in que'suoi versi, ove più da Storico, che da Poeta favella (h).
pacisque,& artibus, & gloriapar. (h) Virgil.Aeneid.Lib.VI.
'ALGAROTTI. CAPO VI. 101 Padre loro, la di cui memoria era ad effi si
cara. Sapea benissimo l'astuto, ed a m bizioso Tarquinio, qual impressione far
p o tea nel popolo l'aspetto de' giovani Princi pi, ed il rinfacciargli, che
avrebbono fatto la sua ingratitudine. T e m è pertanto la pre senza loro
giustamente, e trovò m o d o di allontanarli da’ Comizj. Dal fin quì detto
chiaramente risulta, che non ostante i pregj, che vantavano i figliuoli di Anco,
essendo stati esclusi dal Trono, a cui quantunque per molti motivi gliene
dovesse esser chiusa la strada (k), fu innalzato Tarquinio, ben lungi
dall'inferire da questo allontanamento, che nella elezio. ne del R e i voti
stessero ordinariamente per la ftirpe Reale, 'avendo un tale allontana mento
bastato ad escluderli, se ne dovea a più buona ragione dedurre, che i Romani
niun riguardo avessero al sangue Regio nella elezione del R e loro. min
(k),Alienum quod exaétum: alienioremquod ortum Corin tho:faftidiendum quod
mercatore genitum: erubefcendum quodetiam exule Demararo narum patre, Valer.
Mas xim, Lib.III,Cap.IV. M a veniamo ora con testimonianze degli Storici
a dimostrar maggiormente il diritto de'Romani nell'elezione de'Re loro,eco..
g3 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE ininciando da Livio:(1) Servio Tullio,
dice questo Storico, avvegnachè foffe coll'uso al possesso del Regno, tuttavia
perchè sa peva, che il giovane Tarquinio andava dif ieminando esso regnare
senza ordine espres so del Popolo, conciliatosi il buon voler della plebe col
distribuir certe terre tolte a’ nemici, fi arrischio di porre in deliberazio ne
a'Romani, fe volevano, ed ordinavano, che regnasse o no, e con tanto general c
o n senso, con quanto per lo innanzi alcun al tro giammai Re fu dichiarato. Ove
è da notare,che Tarquinio il Superbo per farsi strada al Trono non vanta già i
suoi diritti come figliuolo di Re, nè taccia Servio di usurpatore, perchè
coll'occasione di a m m i nistrar la tutela di lui era giunto al Princi pato, m
a dice, che fenza espressa elezione del popolo Servio Tullio governava il R e
gno: e Servio per dileguar que'rumori,non risponde già non essere un tal
consenso n e cessario, m a, assicuratosi prima dell'affetto quam jam ufu haud
dubie Regnum poffederat; tamen quia interdum jactari voces 1 102 (1)T. Liv.Dec.
I.Lib.I.Cap.18.n.46.Serviusquam del a juvene Tarquinioaudiebat fe injusu populi
regnare, conciliata prius voluntate plebis, agro capto ex hoftibus viritim
diviso, aufus eft ferre ad populum, vellent juberentne fe regnare: santoque
consena fui, quanto haud quisquam alius ante, Rex eft declarcius; #
Questo è quanto dice Livio lo Storico, di cui l'Autor nostro maggiormente si
pre gia; m a per dare a vedere con alcun altro Scrittore la verità medesima, a
chi della a u torità del solo Livio non si volesse appaga consideriamo c o m e
parla lo ítesso S e r vio presso Dionigi per difendersi dalle accu fe di
Tarquinio: mentre io era disposto (ei dice adunque a Tarquinio ) a rinunciare
il Regno (m) iRomani mi trattennero, sulqual Regno essi hanno diritto, e non
voi altri, o Tarquinj; quindi prosegue: siccome al vostro A v o (cioè a
Tarquinio Prisco ) fu dato il Regno, quantunque estero, ed alie nisfimo dalla
cognazione diAnco, sprezzati i figliuoli di Anco non fanciulli e nipoti, m a
nel fiore dell'età loro, nello stesso m o d o a m e f u c o n c e s s o, p e r
c h è il P o p o l o R o mano non un erede del Padre metre algo verno della
Repubblica, m a un personaggio veramente degno del Principato. Tutto questo
vien confermato dalla con g4 'ALGAROTTI. CAPO VI. 103 del popolo, pone in
deliberazione a ' R o m a ni, le volevano, che seguitasse a reggerli, cose
tutte, che l'autorità del popolo nella elezione de'Re appieno dimostrano. dotta
1 re, (in) Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.237. 1 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE
dotta di Tarquinio Prisco verso i figliuoli di Anco; chi si vorrebbe dare a
credere, che un uomo cosi accorto avesse commesso tale inconsideratezza di
lasciar dimorare in R o m a questi Principi, e non proccurare di al lontanarli
per destro m o d o d a quella Città se avesse loro usurpato il R e g n o?
Bisogna credere, ch'ei s'avvisasse dinon esser reo d'ingiustizia veruna contro
d'essi, non altro avendo fatto, se non usare una destrezza per ottener dal
Popolo una cosa, di cui questo poteva liberamente disporre. Vero è, che sia
Anco Marzio, fia Tare. quinio Prisco, destinando per tutori de'pro pri
figliuoli personaggi, i quali doveano ef sere per ogni ragione ad elli tenuti
grande mente, si lusingarono, che questi proccurasse roa'lorofigliuoli
quelRegno, cheime desimi procacciarono per fe, servendosi p e r l'appunto del
credito acquistatofi penden te il governo de'benefattori loro. M a que sta cura
medesima, ed il non aver sortito l'effetto desiderato da que’ due R e, dimo-.
ftra vie più il poco riguardo, ch'avea il Popolo Romano al sangue Reale nelle
ele, zioni de’nuovi Principi. Del resto, se da quel general ritratto de?
costumi de'Romani di que'tempi, che racs 1 104 1 CO Troppo
parrà a taluno, che dilungato mi fia in questa materia, la quale in vero non
avrei trattato così ampiamente, se non mi fosli dato a credere, che anche
prescinden (7) Montes Esprit des Loix Liv.XI.Chap. 12, ALGAROTTI. CAPO
VI. 105 cogliesi dalla Storia, si può trarre qualche congettura, essendo
propria di popoli rozzi peranco e semibarbari una costituzione in forme di
governo, non è da credere, che la successione al Trono di padre in figliuo lo
stabilita fosse tra esli, essendo questa frut to di secoli più colti, e per
recar finalmen. te la testimonianza di qualche moderno Scrit tore ', che questa
verità abbia riconoíciuto, basterà per tutte quella del Montesquieu (n), il
quale asserisce chiaramente e fuori di v e r u n d u b b i o, c h e il R e g n
o d i R o m a e r a e l e t tivo. Veda adunque l'assennato lettore, se la
speranza di lasciar figliuoli atti al R e g n o allamorte fua era tanta da
muover Anco a tor moglie assai per tempo, e se anche c o n cedendo tutte le
conseguenze, che da que Ro matrimonio cosi per tempo contratto ne deduce il
nostro Autore, le quali altri forse non avrebbe alcun ribrezzo a negare il fon
damento, che a queste ei pose, siastabile, e fermo fufficientemente. do
106 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE do dalla nostra quistione, non sarebbe per
avventura riuscito discaro il veder posto in pieno lume untal punto. Tempo è
ora, che veniamo al Regno di Tarquinio Prisco. Se de'Regni di Tullo Ostilio, ed
Anco Marzio toccò per così dire soltanto alla sfug gita il nostro Autore, di
troppo più forti r a gioni fi crede afforzato per accorciar la d u rata di
quest'ultimo. E qui debbo di n u o vo avvertire, che l'essersi egli appagato
degli scarsi racconti di Livio, e il non aver rivolto l'occhio a quel lume, che
mena di ritto per l'oscuro calle di que' primi tempi di Roma, voglio dire a
Dionigi, è stato cagione dell'aver egli ritrovate ripugnanze, che non vi sono.
Strana a lui pare, per istringere le sue ragioni in breve,la disfimu lazione
de' figliuoli di Anco, che per tren totto anni aspettarono luogo e t e m p o
vendetta, e vendetta ei dice eseguita c o n tro un usurpatore del R e g n o in
pregiudizio loro, avvegnachè fosse itato instituito tor di essi dal Padre
medesimo. E d'altra parte a lui pare, che troppo grande disdet ta sia stata la
loro, che di tanta dissimula zione dopo aver indugiato intino alla età di
cinquant'anni ad operar quel fatto, non ne abbiano colto frutto alcuno alla tu.
tuttociò essendo cona rimasi esclusi dal Trono. per altro grido di
accurato nel r a c cogliere i fatti descritti dagli Antichi (p), e il di cui
difetto non è la brevità, cioè, ch'essendo stato ucciso il famoso Augure Accio
Nevio colui, di cui si racconta il prodigio vero o supporto della cote tagliata
col rasojo, i figliuoli di A n c o attribuirono questa uccisione a Tarquinio,
fia perchè, essendo il R e entrato in pensiero di far m u tazioni nelle leggi,
temeva non gli dovesse di "ALGAROTTI, CAPO VI, 107 M a se avesse
egli consultato Dionigi, avrebbe veduto, che vero è bensì aver in terposto i
figliuoli di Anco trent'otto anni tra la ingiuria, e la vendetta in questo fen
fo, che potessero recate ad effetto le loro crame, ma vero poinon è, che in
questo frattempo questa medesima scelleratezza altre volte macchinato non
avessero,laqual cosa non sivenne a sapere,se non dopochè eb bero eseguita
quella tragedia: Chiaramente in farti asferisce Dionigi, ove narra la m o r te
di Tarquinio (o), che coteíti figliuoli di Anco più volte aveano tentato di
togliergli la vita, che anzi aggiugne questa partico larità, omeffa da uno
Storico moderno, il quale ha (1) Dionyf. Halic. Lib. IV. p. 204-5; (0) Rollin
Hift. Rom. RAGIONAM. CONTRO IL CONTE di nuovo efier contrario
questo Augure,coa m e altre volte trovato lo avea, sia perchè egli non fece le
necessarie ricerche per stato a 1 conoscere, e punirne gli uccisori.
Riconci liolli Servio Tullio con Tarquinio, m a a v e n dolo ritrovato facile
al perdono, dopo tre anni il messero a morte nel modo, che de scrive Livio.
Dirà taluno non esser da cre dere, che abbia Tarquinio sì facilmente p e r
donato un tale attentato a'figliuoli di Anco; m a forse vero era ciò, di cui
l'accagiona vano, e se ne avesse mostrato risentimento, avrebbe dato peso all'
accusa. Del rimanen te è da credere, che note non fossero a Tarquinio le
antecedenti macchinazioni, p e r chè dicendo Dionigi unicamente a proposi to di
quest' ultima, che lo ritrovarono fa cile al perdono, dimostra, che le altre
giun te non erano a cognizione di lui; onde cagion di quella accusa, ben avesse
egli m o tivo di tenerli per malcontenti, m a n o n a segno di volergli toglier
la vita. ri che allora pre Anzi di più è da notare cipitarono
l'impresaifigliuolidiAnco,quan do sividero chiusa lastrada dipoteredopo la
morte del vecchio R e, esponendo i m e riti del Padre loro, procacciarsi il
Regno; voglio dire quando giunto Servio inalto stato presso a
Tarquinio, ed instituito tutor re de'figliuolidilui,vedevano,chequesti amato, e
ten Tutto questo succeduto non sarebbe, se fosse stato, come pensa l'Autor
noftro, Tar quinio un usurpatore, poichè non avrebbo no dovuto tentare tante
obblique strade, usar tanta diffimulazione, ed è da credere, che più facilmente,
e più presto sarebbono forse venuti a capo de'loro disegni. M a già so pra
abbiam messo in chiaro, ch'elettivo ef Tendo ilRegno di Roma ingrato bensi, e
sconoscente ad Anco fuo benefattore non usurpatore chiamar fi può Tarquinio
Prisco. Strano pertanto non dee riuscire che abbiano frapposto i figliuoli di
Anco trentore'anni non già tra l' ingiuria, e la ALGAROTTI. CAPO VI, 709
e riverito da'Romani poteva con tro esli servirsi del credito rante ilRegnodi
Tarquinio.Fecero per tanto pensiero di arrischiare il tutto iare, le poteva
loro venir fatto con una d i {perata impresa di far levare il popolo a r u
more,presso cui(prestando fededileggie ri l'uomo a quello, che spera ) stimato
a v ranno, potere ancor molto la memoria del di quel Trono, a cui avvisavano di
non poter giugnere in Padre, e così impadronirsi altro modo. acquistatofi du ma
de deliberazione, che fecero di vendicarsi,m a tra l'ingiuria, ed
il vedere la vendetta loro eseguita non sarebbe questo il solo esempio, che
delle contraddizioni c'instruisca dello spirito umano. Non avete, dice pure
egli stesso (1) Alg.Op.tom.IV.Disc,milit.Disc.XIX.Soprala Giornata di Maxen.
II. RAGIONAM. CONTRO IL CONTE N o n fa ora quasi più mestieri di farmi a
dimostrare, che per non aver esli colto al cun frutto dalla loro lunga
dissimulazione, non sidee,come fa l'Autornoftro,negare, che di trentotto anni
stato non zio di tempo, il qual corse dalla morte di A n c o a quella di
Tarquinio Prisco. E chi non sa, che moltissime volte non riescono ad uomini
avvedutissimi i loro disegni? Dice pure lo stesso Conte Algarotti, che l'efito
il quale importa il tutto innanzi agli occhi del volgo, è nulla innanzi a
quelli del fa vio? (9) E d ancorchè fuppor fi volesse, che i figliuoli di Anco,
i quali aveano per si lungo tempo con tanta cautela l'affare, non avessero poi
usate condotto le dovute della c o n giura, non farebbe questo, per servirmi di
avvertenze nell'ultimo scoppiar nuovo delle parole di lui in altra sua o p e
sia lo spa tan ra ALGAROTTI. CAPO VI. tante volte veduto la
medesima nazione, il medesimo uomo prudentissimoragionevolisii m o in una cosa,
imprudente, ed irragione vole in un'altra, benchè in ammendue gli dovessero pur
esser di regola le stesse m a l fime, gli itefli principi (r)? Del rimanente
chi la, se non si farebbo no gli uccisori impadroniti del Trono, quan do Servio
Tullio, e Tanaquilla non foliero stati così avveduti, come e'furono? A tutti è
noto, che Tanaquilla fece correr voce, che Tarquinio ancor vivea, affinchè
niente si tentaffe di nuovo, e Servio avesse c a m ро di premunirsi. Onde
possiam conchiude re,chenèpureinquestoRegno diTar quinio vi è ripugnanza tale
tra i farti, e le epoche, che ci sforzi ad abbreviarlo. Regni di Servio Tullio,
e di Tarquinio E il non aver consultato Dionigi traffe più volte l'Autor noftro
in errore, secondo () Alg.Op.tom.I.Dialoghi sopra l'OtticaNeuron, C A Pp
Oo quello, SE Superbo. VII. Dialog.IV.pag.140. Per venire adunque
prima di tutto alle ragioni, per cui giudica l'Autor nostro d o versi
abbreviare il R e g n o di Servio Tullio: fu Servio, ei dice, ucciso da Lucio
Tarqui n i o, d i p o i c o g n o m i n a t o il S u p e r b o, c h e v o leva
ricuperare il R e g n o paterno toltogli d a effo Tullio, uomo intruso, e
dischiattaser vile,e fu ucciso dopo un indugio di qua rantaquattro anni, il che,
segue eglia dire, vie maggiormente pare inverifimile a chi fa considerazione,
che questo Tarquinio era già u o m o da menar moglie, allorchè Servia Tullio
divenne Re, ch'egliera dispiritiol tre 112 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE 1
quello, che abbiam sopra dimostrato, onde ritrovò irragionevolezze, ed
inverisimiglian ze tali, che stimò doversi di sì lungo trat to di tempo
abbreviar la durata de'Regni de'RediRoma,ilnon aver rivolto lo sguardo a questo
Storico assurdi gli fece rinvenire in questi due ulti mi Regni. Perciocchè in
vero gliere le difficoltà mosse de'cinque primi Regni contro la durata non
avrebbe molte volte fairo mestieri d i mente a Dionigi; m a più difficile
riuscireb b e il rispondervi per rispetto ultimi,se nonsifacefleusodellaautorità
di lui. troppo maggiori ricorrere necessaria. a questi due, per iscio 1
che abbrancato Servio nel mezzo della persona lo si portò di peso fuor
della C u ria,e gittollo giù perli gradini;ora sea quarantaquattro anni del R e
g n o di Servio si aggiungono venti circa, ch' eidovea ave re alla morte di
Tarquinio Prisco,verrà ad esser vecchio di sessantaquattro anni, allor chè
dimostrò tanta gagliardía. Questi sono i motivi, per cuistima l’Au tor nostro
esser più inverisimile aver Servio regnato quarantaquattro anni, che Tarqui
nioPrisco trentotto.Già abbiamosopradi mostrato non esser punto contraria
a'fatti la durata del Regno di Tarquinio, ora verre mo a far vedere effer non
meno verisimile la durata del Regno di Servio, che quella non ALGAROTTI.
CAPO VII. '113 tremodo ardenti, ed ambiziosissimo,.e v e niva tuttodi stimolato
ad occupare ilRegno da Tullia sua moglie femmina trista fopra ogni credere, e
malvagia. Dal che ne c o n chiude esser m e n o probabile, che Servio Tullio
abbia potuto regnare quarantaquattro anni, che Tarquinio Prisco trentotto.
Oltre di questo ei riflette, che Lucio Tarquinio, il quale vivente Servio
Tullio è sempre q u a lificato giovane, fosse tuttavia giovane, e robusto alla
fine del Regno di quello, la qual cosa egli arguisce da ciò, che fi leg ge,
h 114 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE a ) T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap.
17. n. 42. O T.Liv.Dec.I.Lib.I.Cap.16.n.41.Tuumeft..... non sia del suo
antecessore. Desidererei per tanto prima di tutto lapere, onde abbia r a c
colto l'Autor noftro quella particolarità,c h e al principio del Regno di
Servio già fosse Lucio Tarquinio in età da menar moglie. Di questo non m i
venne fatto di ritrovarne parola presso gli Storici, e non mi posso persuadere,
che perchè Livio (a) descriven do le azioni di Servio pone prima di tut to aver
egli date in ispose due sue figliuo le a Lucio, ed Arunte, per questo abbia l'
Autor nostro stimato di poter mettere q u e sti due matrimoni al principio del
Regno di Servio: perciocchè in questo caso ognun vedrebbe sopra quanto fallace
congettura egli avrebbe avventuraro questo fatto. M a quando pure da Livio ciò
ricavar fi potesse, vorrei di più, ch'altri mi sciogliel se questo nodo, cioè
se a tale età già per venuto era Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio
Prisco, c o m e riuscir poffa proba bile, che Tanaquilla con quelle si
eloquenti parole eforti presso Livio Servio Tullio (6) a Servi fi vir es Regnum,
non eorum, qui alienis mani. bus peffimum facinus fecere: erige'te Deosque
duces re. quere, qui clarum hoc fore caput divino quondam circum 1
ALGAROTTI. CAPO VII. Desidererei pure, ch'altri insegnar mi sa pesse ilmodo
dicomporre insieme l'aver Tanaquilla un figliuolo giunto alla luccenna ta età, ed
il proccurar, ch'ella fa il R e gno a Servio piuttosto, che a Tarquinio suo
figliuolo. E d ecco che senza rivolgere al tro Storico, che il folo Livio,
dando vento anni circa a Tarquinio Superbo al princi pio del Regno di Servio,
ne risultano in verisimiglianze grandissime, per toglier le quali altro far non
si potrebbe, che suppor re fanciullo Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio
Prisco; il qual partito essendo h2 115 - a prendere le redini del Regno
ancor manti del sangue di Tarquinio Prisco, e a vendicar la morte dell'uccilo
fuo marito, A m e sembra, che ad una tal vendetta ad ogni m o d o piuttosto
ella proprio figliuolo, se questi già pervenuto era al ventesimo anno dell'erà
sua, ed è ben da credere, che u n giovane Principe nel fior de'suoi anni
facesse troppo più m e morabil vendetta della uccisione del Padre di quello,
che fosse per fare Servio Tullio. fufo igni portenderunt: nunc te illa
coeleftisexcitesflama ma:nuncexpergifcerevere:& nosperegriniregnavimus: qui
fis non unde natus fis, reputa: Si iua, re subita 2 confilia torpent, at tu mea
confiliafequere. animar dovesse il fu quello, '116 RAGIONAM. CONTRO
IL CONTE Posto ora adunque, che ancor fanciullo fosse TarquinioSuperbo
alprincipio delRe. gno di Servio Tullio, ne segue, che da lui allevato, non
avendo vedute. le grandezze del R e g n o dell'Avo, del quale lapea. aver
Servio vendicata la morte collo allontanarne dal Trono gli uccisori, e per
ultimo stret to seco lui in vincolo di parentado, e spe rando di succedere ad
un uomo già oltre negli anni per commettere la scelleratezza che commise,
dovettero concorrere questi due impulsi, vale a dired' avere a lato una
malvagia, ed ambiziosa femmina, e d'ef fer fuori di speranza di poter succedere
a Servio Tullio, avendo questi, come ce ne affi e quello, che toglie
tutte le ripugnanze, d altra parte non raccogliendosi dagli Stori ci, di qual'
età precisamente ei fosse alla morte di Tarquinio Prisco, sarebbe quello, che
prendere li dovrebbe.M a non abbia m o bisogno di congetture, poiché, che T a r
quinio Superbo fosse per anco fanciullo, non figliuolo, ma nipote di Tarquinio
Pri sco, chiaramente viene attestato d a D i o n i gi (c); il che dovremo di
nuovo notar più fotto. (c) D i o n y f. H a l i c. L i b. I V. p a g. 2 1 1. 2
1 3. re frapposto qualche indugio, affinchè m a • nifeftamente n o
n risaltassero agli occhi i d e suno 5 che ci dicono gli Storici (e), per
potere stringere quel scellerato matrimonio, fra l'una delle quali, e l'altra
avranno p u ALGAROTTI, CAPO VII. 117 assicurano Livio, e Dionigi (d), fatto pen
fiero di rinunciare il Regno, e dare la lic bertà a Romani. M a è da avvertire,
che forse qualche notabil tempo trascorse oltre il ventefimo anno del Regno di
Servio,in-· nanzi che si congiungessero con quelle infa m i nozze Lucio
Tarquinio, e Tullia: per. ciocchè, fupponendo, che avanti al vente fimo anno
del Regno suo non abbia Servio date le sue figliuole in ispose a' Tarquinj, ad
ognuno è noto, che Tullia moglie era di Arunte, e non di Lucio, e Lucio a m m o
gliato era coll'altra figliuola di Servio, o n de ebbero a passare per tutte
quelle scelle ratezze, litti loro. Credo poi veramente, che dopo ch' ebbero
coronate le commesse iniquità colle nozze, non si debbano per modo nef h3 (d)
T. Liv. Dec. I. Lib. I.Cap. 18. n.48. Idipfum tani mite tam moderatum imperium
deponere eum inani. mo habuisse quidam Auctores funt, ni fcelus intestinum li.
berandae patriae confilia agitanti interveniffet. Dionyfi Halic. Lib. IV. pag.
243. (c)T. Liv.Dec. 1.Lib.I.Cap.18.n.46 Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.232,234,
che la ragione, per cui finalmente val sero preffo Tarquinio le
persuasioni della sua rea moglie, fu l'aver questi inteso c h e Servio volea
dar la libertà a'Romani, alla qual risoluzione forse fu egli spinto princi.
palmente dalle malvagità della figliuola, e di Tarquinio. Vedeva egli benislimo
che Tarquinio da lui giudicato indegno del T r o no,appunto perchè
tristo,giàdovea forse essersi formato una fazione di ribaldi pari suoi, e che
dopo la morte di lui o avreb be forzato i Romani ad eleggerlo a Re lo ro, o
pure quando avessero avuto tanto co raggio di eleggerne un altro, prevedeva,
che avrebbe tentato ogni mezzo, ed anche accesa una civil guerra per giungere
al T r o no. E d'altra parte Tarquinio Superbo, se con questa risoluzione di
Servio non sifosse veduta tagliata ogni strada, non avrebbe avventurata la sua
fortuna e la sua vita G T.Liv.Dec.I.Lib.I.Cap.18.n.46.Initiumcura 138
RAGIONAM. CONTRO IL CONTE suno passar sotto silenzio i continui stimoli di una
donna, quale si era Tullia, onde a buona ragione abbia detto Livio (F), che il
principio di sconvolgere ogni cosa da una donna ebbe origine: m a contuttociò
io sti me mo, bandi omnia a foemina orium ift Tolti ora diciannove
o venti anni dalla età, che aver dovea Tarquinio ilSuperbo, onde venga ad
essere di soli quarantaquat sro o quarantacinque anni, e non di sessan
taquattro,quandogittògiùper ligradini della Curja Servio Tullio, non parrà più
in nessun m o d o inverisimile tanta gagliardía. Senzachè io lascio al giudicio
degli assen nati, se, anche concedendo, che di sessan taquattro anni abbia
Tarquinio fatta una tal prova, menandosi allora una vita più dura, e per
conseguente più robusta, ed essendo Tarquinio riscaldato dalla collera, sia poi
cosa da farne tanto le meraviglie.Onde mi pare di potere a buona ragion
conchiudere, h4 1 1 1 V ALGAROTTI CAPO VII. medesima come fece, ma
servito fifareb be della fama dell'Avo suo dopo la morte di Servio, che già era
oramai pieno di anni per farsi elegger Re da'Romani, cosa, la qual potea
giustamente sperare potergli riu sčir più agevole, che d 'intraprendere, com '
egli fece, di usurpare il Regno vivente lui medesimo. Ben vedea, che se tentato
avel 1 se inutilmente questo passo di trucidare il suo Suocero, ed
impossessarsi coll'armi del Solio, non gli rimaneva più speranza alcu na. Non
arrischiò adunque iltutto, senon quando si vide in procinto di tutto perdere. 1
119 chę ) < RAGIONAM. CONTRO IL CONTE che siccome non v'ha
motivo di accorcia. re i precedenti Regni, così nè pure ve ne ha alcuno per
accorciar quello di Servio Tullio. Siamo finalmente pervenuti al Regno dello
steffo Tarquinio Superbo ultimo R e di R o ma. La principal ragione, che
adduceľ Autor noitro per abbreviare ilRegno di lui, e che abbraccia anche i
Regni di Tarqui nio Prisco, e di Servio Tullio, è questa. A c cadde,ei dice,
che verso la fine del Regno di Tarquinio Superbo, Sefto Tarquinio, e Tarquinio
Collatino essendo a c a m p o ad A r dea, vennero a contesa chi di loro avesse
moglie più onefta; d'onde poi nacque, c o m e ognun fa, il Consolato, e la
libertà di R o m a. Ora questo Tarquinio Collatino a quel tempo secondo le
parole di Livio (8) era giovane, e secondo lo stesso Autore era figliuolo di
Egerio, a cui Tarquinio Prisco suo Zio commise la guardia di Collazia Città
novellamente acquistara (h) nella guerra S a (8) Regiiquidem juvenes interdum
orium conviviis comeslaf. fionibusve inter fe terrebant; forte potantibus his
apud (fratris hic filius erat ) Collasiae in praefidio relictus bina,
Sextum Tarquinium incidit de uxoribus mentio & c. T. Liv. Dec. I. Lib.I.
Cap. 22. n. 57. (1) T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap. 15. n.38. Egerius }
1 3 1 1 ALGAROTTI. CAPO VII. bina, e ciò fu verso il principio del Regno
di Tarquinio Prisco, il quale viene a c a d e re fe non prima l' anno
centocinquanta se condo il computo comune della edificazione di R o m a.
Convien dire, ei soggiugne, che Egerio a quel tempo avesse almeno i suoi
quarant'anni, fe vogliamo crederlo atto a Costenere un carico di tanta gelosía,
come è quello di castodire una Città, di nuovo a c quisto, e se vogliamo, che
fosse nato, c o m e si h a d a L i v i o, p r i m a c h e T a r q u i n i o
Prisco veniffe a Roma.Ma come può fta re, ei conchiude, che un uomo di quarant'
anni l'anno di R o m a centocinquanta avesse un figliuolo'ancor giovane l'anno
dugento quarantaquattro? Cioè quasi un secolo dopo, come non fi voglia dire,
ch'egli avesse fi gliuoli passati i novant'anni, il che merita va aver luogo
secondo lui tra le meraviglie della Storiadi Plinio,non traifattidiquella di
Livio. Pensa adunque l'Autor noftro, che s e vogliamo ritenere questa
discendenza de'Tarquinj, fa mestieri prendere ilpartito di accorciare i Regni
di Tarquinio Prisco, di Servio Tullio, e di Tarquinio Superbo, che occupano il
tempo, che è di mezzo tra il figliuolo, ed il Padre. Molte cose io potrei qui
porre sotto l. + RAGIONAM. CONTRO IL CONTE (i)Collariae
inpraefidio reli&us.T. Liv.loc.fupra cita opera ucchio del lettore
per isciogliere questa dif ficoltà, come farebbe il dire, che non sifa
precisamente il tempo, in cui sia stata con quistata Collazia; che Livio
Storico non trop po'accurato può esserfi ingannato nel dire, che già nato era
Egerio prima che Tarqui nio Prisco venisse a R o m a, che la custodia d'una
Città non era carica a que'tempi, per esercitar la quale dovesse u n guerriero
effer giunto all'età di quarant'anni: tanto più trattandosi di un Zio, che una
tal c u ftodia commette ad un Nipote: perciocchè non essendo in quell'età le
cose così rego late,come a'dinostri,piùosservavasinegli uomini, i quali davano
al mestier delle armi,la bravura,elagagliardia,doti, di cui potea egli molto b
e n e esser fornito alla età di venti o venticinque anni che n o n il s e n n o,
c h e a ' n o f t r i t e m p i i n u n G o vernatore fi richiede, per fuppor
ilqual sen no ci vorrebbe per avventura più avanzata età. Potrei dire di più,
che se vogliamo Itare alle parole di Livio,da queste nonfi può dedurre, che la
custodia della Città sia Itata a lui principalmente come Capo c o m mesla (i),
ma solamente che fu lasciato di pre ALGAROTTI. CAPO VII, 123
presidio inquella Città dal Re fuo Zio.Por ter essere finalmente, che questo
Collatino giovane più non fosse, attesochè, per non far parola della poca
esattezza di Livio, questo Storico non dice precisamente, che
giovanefosseCollatino,ma cheiRegjgio vani passavano il tempo in conviti, mentre
erano occupati in quella piuttosto lunga,che viva guerra, 1 gliuolo sotto le
quali parole di Regi giovani può egli aver foltanto intesi i figli uoli del R e,
e non Collatino, quantunque della stessa famiglia, tanto più che dicendo egli
dopo,che stando essibevendo pressoSe sto Tarquinio, ove pur Collatino cenava,
cadde ildiscorso sopra le moglj (k), a me pare, che quelle parole ove pur
Collatino cenava, dimoltrino, che sotto quelle ante riori di Regj giovani non
altri abbia volu to intendere Livio fuor che ifigliuoli di Tarą quinio. M a
comunque fiafi di ciò, s'abbia per nulla il fin quì detto, concedasi essere
impossibile, che Egerio abbia potuto avere un figliuolo giovane al fine del
Regno di Tarquinio Superbo. Sappiasi adunque, che Dionigi (1) crede Collatino
nipote,e non fie (k) Forte potansibus his apud Sextum Tarquinium ubi Collatinus
coenabat. T. Liv. loc. cit. (1) Dionys, Halic. Lib. IV. pag. 261,
RAGIONAM. CONTRO IL CONTE L'ultima ragione, con cui l'Autor nostro
ftudiali di abbreviare il R e g n o di Tarquinio Superbo, e che abbraccia anche
quello del fuo predecessore Servio Tullio, ei la ricava da questo. Tarquinio
quando pervenne al Principato, avea secondo lui sessantaquattro anni, a'quali
chi aggiugne i venticinque che si dice aver egli regnato, troverà, che era
questi in età di Ottantanove anni, a l lorchè fu cacciato dal Regno, la qual
par ticolarità posto che vera,n o n sarebbe stata passata dagli Storici sotto
silenzio. C h e più, segue egli a dire, leggeli, che il medesimo Tarquinio
parecchj anni dopo che fu c a c ciato di Roma, combatté a cavallo al L a go
Regillo contra ilDictatorePostumio (m), ciò, che verrebbe a cadere l'anno
centefi m o circa della età fua, onde ei correrebbe la giostra c o n un secolo
sulle spalle,affurdo, prosegue egli, non punto diffimile da quello avvertito da
Luciano (n), che quella Elena, gliuolo di "Egerio, ed in questa
maniera con un colposolositagliailnodo. 1 i Per cui l'Europa armolli,e guerra
feo, E l alto imperio antico a terra sparse, (m)T. Liv.Dec.
I.Lib.II.Cap.11.11.19. (1) Lucian, in Somnio seu Gallo, quan
"ALGAROTTI. CAPO VII 12.5 quando desto quelle si celebri fiamme i n
petto a Paride già fosse coetanea di Ecuba. suo. Lalcio io
qui,d'avvertire, che a Tarqui nio Superbo si vogliono torre que'vent'anni,
iquali,come già sopra abbiam mostrato, gli dà di troppo l'Autor noftro, onde
per dirlo alla sfuggita, non avea egli da mara vigliarsi, che gli Storici
abbiano taciuta quella particolarità, che quando Tarquinio fu cacciato di R o m
a, già era pervenuto alla età di oitantanove anni. Quello poi, che tronca ogni
quistione per rispetto alla giornata del L a g o Regillo si è, che Dionigi (o),
ch'egli pure reca in mezzo a questo proposito, e non gli presta fede, riprende
quegli Storici, i quali narrano tal fatto, e dice doversi credere suo figliuolo,
e non lui medesimo esser quello, che fu,ferito com. battendo contro ilDittatore
Poftumio. O v? è da notare che anche facendo il caso, che con sole congetture si
dovesse scioglie re questo nodo, essendovi due mezzi noti al nostro Autore per
togliere l'inverisimi glianza,, cioè o di abbreviare i due.Regni di Servio
Tullio, e di Tarquinio Superbo, o pure di dire non essere stato lui,m a il (0 )
D i o n y f. H a l i c. L i b. V I. p a g. 3 4 9. CAPO VIII. Si dà
risposta a varie opposizioni. Chiaro Hiaro ora resta abbastanza, che le in.
verifimiglianze raccolte dal Conte Algarotti, s'altri le viene minutamente
osservando,non I26 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE fuo figliuolo quello, che
ritrovossi alla giord nata del Lago Regillo, il nostro Autorem prende piuttosto
il primo, cioè quello, che favorisce l'opinion sua, quantunque a m m e t ter
non si possa per modo nessuno, quando si sa, che Dionigi, il quale avea con tan
ta cura studiati gli antichi Storici Latini, e che se non altro fu tanti secoli
più antico del Conte Algarotti, Dionigi in s o m m a così diligente nel fiffar
le epoche, stima più prudente partito prendere il secondo. La scio ora pertanto
decidere da chi diritto ragiona, se tali fieno i motivi addotti dallo Autor
noftro, che si debba pure accorciare il Regno di Tarquinio Superbo,o se piut
tosto,come ioavviso,non resistanoalla autorità degli antichi Storici, e debbano
c a dere a terra come damento, del tutto privi di fon fon ALGAROTTI.
CAPO VII. 127 folamente non sono valevoli a mandare in rovina la Cronologia
comunemente ricevuta, m a nè pure hanno forza per ispargervi fo: pra alcuna
ombra di dubbietà,nè efferne cessario ricorrere a quel suo ripiego di a b
breviare pressochè della metà la durata de' sette Regni per conciliare la
giovanile erà di Romolo colle grandi cose, ch'egli ope To, e l'età di N u m a
colla sua esalcazione al Trono. Nè secondo quello, che abbia m o osservato, l' u
o m o indugia troppo cogli ftimoli della vendetta, e dell'ambizione a fianco
anzi lungo spazio di tempo non ba fta ad estinguerli; nè quella gagliardía,che
trovar non si può nella vecchia età, avvien che vi si trovi, onde senza negar
credenza, com 'egli pretende, a' più gravi Storici dell' antichità in cosa, in
cui tutti convengono, quale si èla duratade'fette Regni,torna ogni avvenimento (per
servirmi delle stesse fue parole in contrario senso ) nell' ordine naturale
delle cose. nolo. 1 Del resto si dee avvertire, e di fatticre do, che
ognuno avrà avvertito quanto d e boli, e leggiere fieno le inverisimiglianze ed
assurdi,dicuiservisli ilnostro.Autore per distruggere la durata de'mentovati R
e gni, e venire a confermare il Sistema Cro. 128 RAGIONAM.CONTRO IL
CONTE nologico del suo Filosofo. Q u a n d o altri nes gar vuole la verità di
un fatto attestato da gravi Storici per folo glianze, o contraddizioni, queste
devono ef ler tali, che ammesse per vere il fatto al trimenti fufliftere non
pofsa: perciocchè è legge dellaPoesia,non della Storia,ilnarra re soltanto cose
verifimili.La.Storiaècon tenta di narrar cose vere; e quante cose, a v vegnachè
vere inverisimili ci pajono per una minuta circostanza o smarrita, o di cui non
pensarono gli Scrittori di far menzione,per un costume, per una legge, per una
fog. gia particolare di vivere, di cui come di cose a'contemporanei loro
notiffime, n o n istimarono dover far parola? In s o m m a molte volte
assomigliar potrebbefi la Storia ad una macchina, la qual produca maravigliosi
ef fetti, e i di cui ordigni sieno ignoti. Tali dicono essere i nostri orologi
per rispetto a’ Cinesi,e noinondirado,inispecieinquan. to allaStoria,laqual'èo
da’tempi,oda? paesi nostri lontana, fiamo nel caso loro. Ecco adunque,che
leguate n o n fi fossero le inverisimiglianze i m maginate dall'Autor noftro,
sono queste si deboli, che come saette vibrate contro una motivo d'inverisimi
quantunque eziandio di falda armatura, ben lungi di recare alcuna offesa,
ALGAROTTI. CAPO VIII. 129 offesa, cadono effe medesime infrante a terra,
chę E appunto per iscogliereil nodo, ch'egli benissimo vedea, ch'alori
gli avrebbe potu to mettere innanzi agli occhi, vale a dire per qual ragione
egli opponesse alcuni fatti, in cui discordano gli Storici alla durata di tutti
i sette Regni tolti insieme, ed alla d u rata di ciascheduno in particolare, in
cui sono a un di presso di un medesimo pare re, ei dice, che la memoria
de'fattidovet te con più sicurezza essere conservata dalla tradizione, che non
fu da quante volte, mentre quelli avvennero tornato un Pianeta al medesimo sito
del Cie lo; la qual risposta io non so, se basterà per appagare chi considera
alquanto adden tro nellecose; perciocchè a me pare noti zia non meno
importante,e degna di esse re dalla tradizione, e dagli Scrittori a' p o steri
trasmessa il numero degli anni, che occupòilTrono un Principe,diquello,che
fieno molti fatti, a cui presta l'Autor n o ftro intera credenza. N e aveano i
Romani bisogno di troppo fortili astronomiche culazioni, come pare, ch'egli
accennar v o glia,per sapere di grosso, quando terminal
le,eprincipiassel'anno.Ed unaprova, che questa tradizione del numero degli anni,
i essa trasmessa sia {pe ' epoca di molti de principali fatti, non
si sia notato però l'anno preciso, in cui segui ciascun fatto. O v e è da riflettere
che lo stesso noftro Autore dicendo non ef fere da credere, che gli Storici
sapessero quanti anni sieno trascorsi, mentre andava no fuccedendo i fatti, è
forza,che ammet 130 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE guerra di Romolo con lo
veramente credo poi, che quantunque tenuto fi sia registro non solo del numero
degli anni, che durarono i Regni de'Re di Roma, ma ancora del Regno di ciascun.
R e, e dell ta, che abbia regnato ciascun Re, e per con seguente della somma di
tutti isetteRegni, inratta conservata fi fia, si può dedurre da quella
ammirabile concordia degli Storici nella Cronología, concordia, la qual non si
vede certamente ne'fatti. che non sapesser nè pure l'anno preci fo, in cui
questi avvenimenti seguirono. Ora con questa sua sola concessione viene a ro
vinare buona parte delle ragioni, ch'egli apporta per abbreviare ciascun R e g
n o. E d in fatti quante volte non fi serve egli di epoche di avvenimenti
minuti, e per lo più; registrati soltanto da un Plutarco, per ritro var
ripugnanze nell'antico Cronologico Siste ma, come sarebbe,per recarne alcuno
esem pio, l'epoca della tro ALGAROTTI. CAPO VIII. 131 e del
diverse guerre; tempo Approssimandosi l’Autor nostro al fine del suo Saggio,
reca altra prova contro l'anti co Cronologico Sistema,e ben sivede,che avendola
riserbata in ultimo, ei crede, che dia questa l'estremo colpo, e il nodo del
tutto recida. Questa prova, ei dice, è c a vata dalle generazioni di uomini, le
quali tro i Camerj, che è in Plutarco, l'epoca del matrimonio di Tazia con N u
m a, che trovali presso lo Iteffo Storico, come anche il precito numero d'anni,
che vissero insie m e, il q u a l p u r e è r i c a v a t o d a l l o e s a t t
o r e giftro, che il medesimo Plutarco ne tenne, per non parlare de cinque anni
nè più nė meno,che avea Anco allamortediNuma e degli anni, in cui seguirono
precisamente della nascita di Egerio, ch'egli raccoglie da Livio. Le quali
epoche tutte oltre all'essere tratte la maggior parte da Plutarco o da Livio,
credulo il primo, Itraniero, e lontanissimo da'tempi,poco accurato l'altro,non
dovea no per nessun modo addursi da lui, come quello, che pretendea non aver la
tradizio ne potuto tramandareepoche di troppom a g gior rilievo, che queste non
fieno, e c h e sono da tutti i più gravi Storici ammesse per vere. fono
i2 sono indicate dagli Autori nella Storia dei R e diRoma,le
qualigenerazionidice,che con vincono di falsa la loro Cronología quanto alle
durate de'Regni. Nella vita di R o m o lo,ei segueadunque, liha,cheOttilioAvo
lo di Tullo Ottilio mori nella guerra contro a'Sabini, la qual fu ne'primi anni
di R o ma,iRegni pertanto,eiconchiude,diRo molo, di Numa, e di Tullo Oftilio
non si stendono più là, che il tempo razioni.Da Numa ad Anco Marzio,ei se gué,
ci è una generazione sola, perchè l' uno era Avolo dell'altro; dal che seguita,
che la generazione tra Numa, ed Anco coincidendo col tempo di Tullo Oftilio, ci
fia l'età di un uomo qualche anno più o meno da Tullo al fine del Regno di
Anco. Onde dal principio del Regno di Romolo allafinediquellodiAncocorrono
datre generazioni. Lucio Tarquinio Prisco, p r o legue egli, uno de'Lucumoni
dell'Etruria, viene a Roma uomo maturo sotto ilRegno di Anco, de cui figliuoli
fu instituito tuto re: e però l'età di Tarquinio convenendo con quella di Anco,
non resta che una. e fola generazione tra il Regno di Anco il Regno di
Tarquinio Superbo figliuolo del Prisco. Talchè, ei conchiude, dal
principio 132 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE di due gene del del
Regno di Romolo alla fine di quello di Tarquinio Superbo fi contano quattro
sole generazioni in circa, e non più. Ora som mando insieme gli anni di quattro
genera zioni, che corrono durante ifetteRe diRo. m a fi hanno cento trentadue
anni; poiché una generazione di uomini trentatré anni. E fommando insieme gli
anni di ciascun Re, secondo il computo di Livio, fi hanno d u gento
quarantaquattro anni; e vi ha più di un secolo di differenza tra due risultati,
che pur avrebbono ad essere uguali.D'altra par te facendo, che tocchi a ciascun
R e l'uno ragguagliato coll'altro diciannove anni di R e gno, come vuole il
Neutone, fi ha cento trentatré anni, e tra questi due risultatinon corre
differenza niuna. di comune sentimento vengono dati a 9 f ALGAROTTI. CAPO
VIII. 133 Sin quì il nostro Autore. Io per rispon dere a questo lungo
ragionamento prima di tutto voglio concedere, che quattro fole g e nerazioni
fieno corse da Romolo insino a Tarquinio Superbo: perciocchè ciò si riduce
finalmente a dire, che durante i Regni dei serte Re, quattro uomini in tutto
ilR o m a no popolo ebbero prole un dopo l'altro di sessanta e un anno. Ora
farebbe poi forse questa impossibilità tale fisica, per cui non i3
fi dovesse più prestar fede agli Storici delle antiche memorie de'Romani?
Ma,suppo sto (quello però, che in nessun modo con cedere fi può ) che questa
fosse inverisimi glianza tale, per cui sipotesse negar cre denza alla Storia,
s'è forse l' Autor nostro bene assicurato, che, non uscendo da quelle persone,
di cui egli fece scelta per fissare le generazioni, quattro soltanto corse ne
fie no pendente il Regno dei sette Re? Dio nigi (a) attesta pure, che Tarquinio
S u perbo fu nipote, e non figliuolo di Tarqui nio Prisco?Questo accuratissimo
Storico d o po aver fatto parola di molti assurdi, che ne seguirebbono, fe
figliuolo, e non nipote ei fosse di Tarquinio Prisco, fi afforza colla autorevole
testimonianza di Pison Frugi, il qual solo tra gli Storici affermò questa cosa.
Nè mancadiaccennarequello,cheperav ventura fu cagion dello sbaglio: poichè dice,
che dall'essergli nipote per natura, e figli uolo per adozione fieno stati
forse gli altri Storici ingannati. Nè giovaildire,comefal'Autornoftro, che la
contrarią opinione cioè, che figliuo lo fosse questo Re, e non nipote di
Tar 134 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE qui
(2)Dionys,Halic.Lib.IV.pag.211,213, ALGAROTTI. CAPO VIII. 13 S
parte (6) Hic, L. Tarquinius Prisci Tarquinii Regisfiliusneposre fuerit parum
liquet:pluribus tamen auctoribusfiliumcreg diderim.T. Liv,Dec.
I.Lib.I.Cap.18.n.46. 9 In quanto a Collatino poi, quà di nuovo addotto
dall'Autor nostro p e r confermare il 2 fuo di numerare in quegli arcaismi come
le autorità, contentofli e non si fece a pesarle il diligente sciando da
Dionigi. In secondo luogo, la perder tempo ľ autorità di Dionigi, la quale, com
' è palese, è molto più da segui re, che non sia quella di Livio, ben diver sa
è la maniera di spiegarsi dei due Scrit cori intorno a questo affare,l'uno ne
tocca alla sfuggitą, l'altro vi si ferma, ragiona reca latestimonianza di uno
de'più antichi Storici, e sappiglia a quella opinione, la quale sia per lo
credito, che ha all'Auto re fia per, quinio Prifco fu opinione dei più, ed opi
pione abbracciata da Livio medesimo; d o vendosi in primo luogo riflettere alla
m a n i e ta, con cui Livio s'esprime, vale a dire, che questo punto era assai
all'oscuro, che egli peraltro seguendo i più credevalo figliuo lo (6); il che
dimostra aver egli benissimo veduta la difficoltà, m a che non volendo, come
sopra abbiam notato lo contesto di tutta la Storia, gli pare più sicura.
is suo Sistema, già sopra abbiamo osservato raccogliersi dallo
stesso Dionigi (c), che n i pote era, e non figliuolo di Egerio. Ciò posto ne
viene, che senza uscire da quelle persone, di cui egli osservò le generazioni,
non quattro, m a cinque numerar se ne debe bono d a Romolo inlino a Tarquinio
Super bo: onde se aver non si dovea per assurdo tale da negar fede alla Storia
l' essersi ritro vare quattro persone in tutto il popolo R o m a n o le
generazioni, di cui fossero di fef santa e un anno, tanto meno dovrà parer
ripugnante, che cinque susseguite ne sieno, ciascheduna delle quali
uguagliatamente non oltrepassi i quarantanove anni.
(.)Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.2619 que 336 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE M a dirà
il nostro Autore, che ad una generazione comunemente si danno soli tren tatré
anni, laonde n o n si può essere così largo, e concederne a ciascheduna di q u
e Ite quarantanove. Qui mi convien prendere d'alquanto più alto i principi, e
si verrà a conoscere, che quelle generazioni, a cui comunemente fi danno
trentatré anni, o secondo altri tren tacinque,non sono della specie di quelle
osa servate dal nostro Autore. Vediamo adun ALGAROTTI: CAPO VIII.
137 q u e quali fieno quelle, a cui diedero tal nu: mero di anni i Cronologi, e
verremo in chiaro, fe tali fieno le osservate da lui.La Cronologia, come tutte
le altre facoltà,dee seguir la natura, come maestro fa ildiscen te, per dirlo
alla Dantesca, e pure è che collo.Specularvi sopra molte fiate,in luo go
diavvicinarsiaquellaaltrilafugge,e gli ultimi passi sono quelli c h e
riconducono a lei nella vero, L e generazioni pertanto, che fiffarono i
Cronologi circa a trentatré anni, sono quelle, che generalmente si osservano in
un lungo spazio di tempo nella maggior parte famiglie di una nazione;laonde, fe
fiof servano in una sola, o poche famiglie, a n che per lungo tempo questa
osservazione, non è più fattasecondo la regola, che general mentela maggior
parte abbraccia:percioc chè, se nella maggior parte delle famiglie sono
uguagliatamente le generazioni di tren tatré anni,potrebbe succeder benissimo,
che fi ritrovasse una famiglia, od anche diver se, in cui queste foffero o più
lunghe, più brevi. Se poi non si osservassero in un lungo spazio di tempo,
riuscirà ancor più agevole il ritrovarne. M a le generazioni, di cui servifli
il nostro Autore, nè corsero delle - nella maggior parte delle
famiglie, nè in lungo tempo, anzi nè pure in unasola fa miglia, essendo
composte di diverse perso ne d i varie famiglie. Certamente se si fa un
Cronologo ad osservare per tal modo le generazioni, ben tosto fisserà la regola
ge nerale di queste a settanta e più anni, per chè in un notabil tratto di
paese popolato iopenso,chenon passisecolo,senzachèfi veda uno, o forse più
uomini, che di tale età hanno prole. Lo sbaglio in somma del Conte Algarotti
consiste nello aver presa la regola d a quello che suole generalmente avvenire,
gli esempj da ciò, che in pochi succede,ed aver pensato, che que'casipar
ticolari sotto la general regola cadessero, o n de la Cronologia degli Storici
delle cose de? Romani sottoi R e s'opponesse a quella legge, che osservaro
aveano nella natura i più periti Cronologi. Nel che quanto sia a n dato lungi
dal vero credo d'aver fatto ba ftantemente palese. Due ragioni reca ancora
finalmente l'Au tore in difesa del Sistema del Neutone,cui è necessario
rispondere innanzi di por fine a quelte nostre osservazioni. La prima fiè, che
tal Sistema discolpa Virgilio esattissimo Poeta, ci dice, da quello anacronismo
i m pu 138 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE > i ALGAROTTI, CAPO
VIII. 139 putatogli volgarmente per conto de'tempi, in cui vissero Didone, ed
Enea. La secon da, perchè giustifica quella comune tradi zione tenuta in R o m
a, che N u m a foffe fta to uditor di Pitagora. Ora per rispondere alla prima,
questa. ammetter fi dovrebbe senza dubbio veruno qualora fosse stato Virgilio
tenuto a soddi sfare alle leggi della verità storica;ma non fa mestieri
ricordare, che da tali leggi sciolti sono i Poeti.Raro è quel vero, che non
abbia bisogno del finto per aggradire ai più, e se non inftillano virtù, col
dilet tare mancano i Poeti al principal fine dell' arte loro; tanto più, che
fecondo quello che pensa il dotto P. dellaRue (d),non per ignoranza delle
antiche Storie, m a per dar ragione de'famosi odj, i quali si lungo tempo fra'
Cartaginesi, e la Nazion suam durarono, e per introdurre quel patetico, che
tanto piacque, come ce ne assicura Ovidio (e), a'suoi contemporanei, e tanto è
degno di piacere ad ogni età,e ad ogni popolo, non ebbe difficoltà di commettere
(4) Ruaeus in not.ad.Arg.Lib.IV.Aeneid. quell' Ovid. Trift. Lib. II.
Eleg. I. v. 535. Nec legitur pars ulla magis de corpore toto. Quam non
legitimofoederejunétus4mor, quell'anacronismo. S'aggiunga, che que
ito anacronismo non era tale che facil mente potesse venire scoperto dalla
comune de'Leggitori, da'quali soltanto balta, che non vengano scoperti gli
errori storici dei Poeti: perciocchè correa fama fecondo A p piano (f), che
Cartagine fosse stata fonda ta alcuni anni avanti all'eccidio di Troja da una
colonia di Fenici, presso i quali poi ricoverossi dopo lungo tempo Didone, del
che non lascia Virgilio didarne qualche cen nei? 140 RAGIONAM, CONTRO IL
CONTE Appian. apud Ruaeum cit. loc. no, > onde trattandosi di tempi assai
lontani dalla età di Virgilio, questo rumore basta va per render tale la
finzione, che non fof se la verità ad un tratto conosciuta,e vinta a terra
cader dovesse la invenzione di lui. Ma abbreviando della metà iltempo,che
durarono i Regni de'Re di Roma viene forse a nulla cotesto anacronismo? E che
fa rebbe, se il nostro Autore inutilmente ado perato fi fosse, e che anche
togliendo pref so che la metà degli anni dalla somma di tutti quelli, che
corsero sotto a'Regni dei fette R e, non si venisse con questo a ren der
probabile in alcun modo, che Enea, e Didone potessero essere stati
contempora Tre secoli e più corsero,secondo gli an tichi Scrittori,
dall'incendio di Troja alla f u g a d i D i d o n e, c o m e o s s e r v a r o
n o il d o t t o Petavio, e l'erudito Commentator di Vir gilio della Rue (g):
ora da trecento e le dici anni (che tanti ne corlero fecondo il Petavio
dall'eccidio di Troja alla fondazion di Cartagine ). togliendone cento e undici,
come piace all'Autor noftro,vale adire facendo venire Enea in Italia cento
undici anni più sardi, rimangono nulladimeno d u gento e cinque anni di svario.
Laonde é chiaro, che nè Virgilio abbisogna della di fesa del nostro Autore, nè,
quand' anche ne abbisognasse, sarebbe questa bastante per do
(3)Petav.Rationar.tempor.Parte I.Lib.II.Cap.IV. Cartagofundata dicitur anno
posttemplum incoatum144. qui est annus poft Trojanam calamitatem 316. Ruaeus
loc, supracis. te svanire l' anacronismo da lui commesso. fa ALGAROTTI.
CAPO VIII. 141 nei? Sia adunque egli pur certo, che cote fto fuo ripiego
nontoglie, ma soltantosmi nuisce l'anacronismo di Virgilio; che anzi questo
rimane peranco maggiore di due le coli. N è soltanto vuole il Conte Algarotti,
che fia alla più esatta verità conforme ciò,che si legge in un Poeta, purché in
alcun m o anno > che comunemente credefi centesimo
undecimo dalla fondazion di Roma,alprin cipio del Regno, di cui già dovea effer
giunto N u m a al quarantesimo primo della età fua (se pur vogliamo seguire
ical coli dell'Autor nostro, il quale dando diciannove anni circa di Regno a
Romolo faprincipiare il suo Regno aNuma giàvec chio di sessant'anni ), e
fissando d'altra p a r te, come già sopra abbiamo osservato, le condo la mente
di lui, la venuta di Pitas gora anno soli 142 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE do
favorir possa il suo Sistema; ma preten de eziandio, che maggior credenza
prestar fi deggia ad una popolar voce,laqualtor na in avvantaggio della opinion
sua che a'più rinomati Storici dell'antichità. Già abbiamo sopra veduto il suo
parere circa all'essere stato Pitagora contemporaneo anzi Maestro di N u m a,
ora adunque a confer mare vie più ilsuo Sistema,lorecadinuo vo in mezzo
quasichè ridondar debba in avvantaggio di questo il porgere, che fa fa vorevole
interpretazione a d u n a tale p o p o lar voce. Avendone però già altrove
fuffi cientemente favellato, non mi resta altro da aggiugnere, se non che,
anche fiffando il principio del Regno di Romolo secondo lo intendimento del
nostro Autore, a quello ALGAROTTI. CAPO VIII. 143 Queste sono le
riflessioni, le quali, fecon do quello,ch'iopenso,chiaramentedimo streranno,
che il Conte Algarotti cadde trat to dal suo Filosofo in errore. Se parranno
per avventura troppo più lunghe di quello, che neceffario fosse, gioveràin
primo luo go considerare, che bastano poche parole per mettere una cosa in
dubbio, m a effer forza per iftabilirne la certezza ricorrere a' principi, onde
riescono sempre le risposte più lunghe delle opposizioni; in secondo luogo, c h
e ho stimato dovermi fermare alquanto in torno a certi punti, i quali oltre
allo influi re nella materia, che per me trattar fi do vea, poteano essere
forse non del tutto inu tili per chiarir la Storia di quella prima età di Roma.
Che gora in Italia circa a quello anno, che giu dicasi dagli Storici
dugentefimo quarantesi moquarto diRoma, virimaneciònon ostan te un anacronismo di
cento trentatré anni tra la venuta di questo Filosofo in Italia, ed il tempo,
rendere in cui Numa-già era perve anno della età sua; o n de il Sistema del
Neutone non può nè pure nuto al quarantesimo Pitagora, e Numa contemporanei,
come non può affolvere Virgilio te dall’anacronismo interamen di Didone, e di
Enea. 1 1 1144 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE Che se,come fpero,mi è
riuscitodifar vedere l'inganno del Conte Algaroiti, sarà questa una novella
prova di quanto sia in tralciato il cammino del vero, quanta 1 sia connesso, ed
unito l'errore: collo inge gno umano, poichè gli uomini fommi non tralasciando
desser uomini, in tutto spogliar non se ne possono. La più bella discolpa del
resto che addur si possa in difesa di lui, îi è il dire, che fe pur s'ingannò,
s'ingan nò seguendo un Neurone. L'opinione del Newton fu sostenuta in Italia
dal conte Algarolti in un suo saggio sopra la durata de're gni de'Re di
Roma,scritto nel 1729,cioè due anni dopo la morte di Newton e un anno dopo la
pubblicazione del libro di lui!.Ora,in questo suo saggio l'Algarotti lascia
poche censure intentale contro la cronologia dei primi due secoli e mezzo di
Roma,procurando di provare in particolare come non fosse succeduto davvero ciò
che per una ragione generale il Newton aveva affer malo che non era potuto
succedere.Ilsuo fondamento è soprallulto Livio; e in secondo luogo Plutarco,
non 1Ilsaggiodell'Algarotttisitrovanelvol.IV dellesueopere (Cremona
1779),p.106-138.Ma laristampachequivi n'è fatta non è in tutto conforme
all'edizioni anteriori,delle quali ioho la seconda, Firenze 1746, presso Andrea
Bonducci; e dico la seconda perchèl'editoreinunaletteradidedica
all'illustrissimosig.cav.An tonioSerristorichiamaquestaunaristampa,enonpuò
esservistata, se non una sola edizione prima, perchè una lettera dell'Algarotti
allo Zanotti, che precede il saggio, è del 24 dicembre 1745, e da essa appare
che il saggio non fosse stato stampato prima. In questa lettera l’Algarotti
dice appunto di averlo scritto oramai sedici anni passati,quando dava opera
alla Cronologia sotto la scorta di quel lume vero d'Italia, Eustachio Manfredi,
e che non vi avrebbe più riguardato,«sevoinonmiavesteeccitatoainandarlovicome
fate»; e se n'era distolto, perchè « distratto da mille altre cose, e gli
pareva,che non fosse da moltiplicare in iscritture e in istampe intorno a cose
già trattate,benchè in modo diverso dal mio.» Que g l i il q u a l e a v e v a
t r a t t a t a q u e s t a, e r a u n I n g l e s e d i c u i n o n d i c e il
nome,ma di cui gli aveva dato notizia,in un suo viaggio in Inghil t e r r a, il
s i g. C o n d u i t, e r u d i t o g e n t i l u o m o i n g l e s e e d e r e
d e d e l N e w t o n, quello stesso che ha scritto una lettera di dedica alla
Regina, messa avanti alla Cronologia.Lo scritto dell'Inglese doveva esser pub
blicato in fronte d'una storia Romana. Non so chi fosse. E. M a n fredi scrisse
gli « Elementi della Cronologia con diverse scritture appartenenti
alCalendarioRomano.» Furon pubblicatiinBologna nel
1744.Egliaccettaladatavarron.dellafondaz.di Roma,01.6,3. 1.- LAMONARCHIA.
51 riferendosi a Dionisio mai; anzi confessando di non avere lello
se non idue primi'.Ora,ilsuo assuntoé che i fatti che Livio racconta dei Re,non
s'accordano col numero d'anni che questi,secondo lui stesso,avreb. b e r o r e
g n a l o. Il c h e p r o v a, m o s t r a n d o p e r R o m o l o, q u a n t a
parte del suo regno resti vuota di avvenimenti,e quanta
sial'inverisimiglianza,che,a17anni,ch'è l'etàincui si dice cominciasse a
regnare, desse già segno di tanta prudenza civile e virtù di guerriero, quanta
gli se ne attribuisce; per Numa,che dovesse,poiché eletto per la fama sua e per
avere avuto in moglie Tazia, essere asceso sul regno a sessant'anni; per Tullo
Ostilio ed Anco Marcio, che dovessero aver avuto più breve re gno,di 32 anni il
primo, di 24 il secondo,se dev'es. sere vero, che i figliuoli di queslo, il
quale aveva, a detta di Plutarco, cinque anni alla morte di Numa, non fossero
ancora maggiorenni alla sua,cioè quando Anco avrebbe avuto sessantun anni; per
Tarquinio Prisco, che non può avere regnato trenlolto anni, se dev'essere stato
ucciso per opera de'figliuoli di Anco, attentato da giovani, ancora freschi del
torto ricevuto, e non da uomini di cinquant'anni quanti ne avreb bero avuto
alla morte di Tarquinio dopo cosi lungo re gno, anche supposto che non ne
contassero se non soli dodici alla morte del padre; per Servio Tullio,che a i
Cosi dice nella lettera allo Zanotti, secondo sta nell'ediz. del 1726;ma non è
ripetuto in quella dell'edizione del 1779,che è variata anche in altri punti. E
di fatti in questa seconda edi zioneècitatoDionisio,lib.VI,permostrarecome
questi,accor gendosi dell'impossibilità, che Tarquinio Superbo assistesse egli
stesso alla battaglia del Lago Regillo, vi fa invece assistere il
figliuoloTito.Però,anchecosi,lostudiodell'Algarotti resta,come prima,poggiato
tutto sopra Livio e Plutarco. 52 LIBRO QUARTO. 1. - LA
MONARCHIA. 53 dargli quarantaquattro anni di regno,Tarquinio Superbo,
ilqualeeragiàingradodimenar mogliealprincipio diquello,non avrebbe potuto a
sessantaquattro anni opress'apoco ucciderlo nel modo che si racconta; per
Tarquinio Superbo infine,che Tarquinio Collalino non avrebbe potuto essere
giovine alla fine del regno di lui, poichè egli era figliuolo di fratello,se il
suo cugino avesse avulosessantaquattro anni al principio del regno stesso; e
che, se questi n'aveva tanti allora, n'avrebbe avuto ottantanove, quando su
sbalzato dal trono, e cento alla battaglia al Lago Regillo dove avrebbe
combattuto a ca vallo,e sarebbe poi morto, si può aggiungere, di cento
trèanni.Sicché l'Algarotti crede che questi regni si debbono accorciare lulti,
se la storia di ciascun Re si deveaccordarecolladuratadel regno.E di quanto
biso gni accorciarli,egli lo trae da un'altra considerazione, cioè dal numero
di generazioni, intervenule durante la monarchia.Queste,egli dice, non poter
essere state se nonquattro:poichèiregnidiRomolo,diNuma ediTullo Ostilionon
siestendono più di due generazioni, stante
chéOstilio,avolodiquest'ultimo,ècontemporaneo di Ro molo;un'altra generazione
richiede il regno di Anco, che è vissuto la maggior parte di sua vita durante
il regno di ullio; ed un'altra, i regni di Tarquinio Prisco. di Servio Tullio e
di Tarquinio il Superbo, poichè il primo ha del pari vissuto la maggior parle
di sua vita durante il regno di Anco. Sicché contando ciascuna generazione per
trentatré anni,la durata della monar Chia sarebbe stata di centotrentadue
anni,e ne tocche rebbero a ciascun Re, l'uno ragguagliato con l'altro,
diciannove. Sopra la durata de'Regni DE RE DI ROMA. Gli è una neceffaria
conse guenza delSistemacronolon gico del Neutono abbrevia re considerabilmente
i regni de' sette Re di Roma, a ciascun de' quali agguagliatamentegli Storici
danno trentacinque anni di regno, mentre il comun corso di Natura secondo le
offervazionidel Filosofo, non ne concede loropiù di diciot to o di venti. La
qual conseguen za separesse stranaad alcuno,pur dovrà meno parerlo a chi
risguar derà, che gli Archivi di Roma perirono dalle fiamme nel tempo che E
15 Ma noi (chiarati anco in questa parte dalle of (1) Plut,inNuma
in principio p. 59.ed.Grecolat,Francofurti 1620. 16 che iGalli occuparono
quella Cita tà(1),onde gliStoricinonebbę. ro dipoi alrro fondamento di quel lo
scriveano, se non se la tradi zionevaga ed incerta,ch'era ri masa delle cose
passate Talmente che ritenendo esli i nomi de'Re e registrando le azioni di
quelli che tuttavia duravano nella m e moria degli uomini, fecero una
Cronologia a modo loro. E questa Cronologia allungandola più del dovere,
poterono in quella incer tezza fatisfareaquelnaturale ap petitocosidelleFamigliecome
del le Nazioni, di cacciar le origini l o r o il p ị ù i n d i e t r o c h e p
o s s o n o n e l la caligine del tempo. (1).Come
Livioscrivechenonera ra.DanteInf.29: offervazioni del Neutono,possiamo
rimettere le cose al debito ordine nella serie de'tempi, e ciò fare mo non in
altro modo che aflog gettando i Re di Roma a quelle comunileggi
diNatura,allequa li ubbidiscono nelle Tavole cro nologiche tutti gli altri Re
della Terra.Pur nondimeno questa par c o f a d u r a a m o l t i c h e si d e b
b a f r a n ger,dicono efli,l'autorità di Sto ricichenonerrano(1),echevo gliano
uomini di jeri giudicar m e glio degli antichi di cose passate
tantisecoliavanti.A questiioin tendo di ragionare;e perchè ilN e u tono nella
fua Cronologia non fa al tro che accennare così in generale la detta quiftione,
io intendo d i fputarla con alcune particolari ra gio B 17 gioni,e
quefte derivate appunto da quegliStorici,dell'autoritàde' quali e'fanno sì gran
caso, e maffi-. me daTitoLivioPadre diRoma na Istoria.Nel che io mostrerò, che
avolerritenere ifattida efio lui riferiti, egli è forza rigettar le epoche da
esso affegnate 'a quelli, come non sivogliaammettere(che niuno ilvorrà) certe
irragionevo lezze da non ammettersi,che na scono da'suoi raccontimedefimi, e da
quella sua Cronologia, 18 E prima diognialtracosa io metterò innanzi una
Tavoletta de' regnidiquestiRe distesagiustal' oppinioncomune la qualeporrà
fotto l'occhio in un tratto l'anti co Sistema,eserviràameglio in tendere
ilseguente Ragionamento. T4, VII.TarquinioSuperbo 44 219 11.
Numa muore dopo un regno di anni 38 III. Tullo Oftiliom u o IV.AncoMarziomuo 43
81 32 113 38 24 redopounregnodi anni 137 V. Tarquinio Prifco muore dopo un rem
gno di anni Tulliomuo ·redopounregnodi - anni 1 TavolaCronologicade' anni anni
RediRomasecondor de' ab oppiniondiTitoLivio. Regn.V.C. 1.Romolo muore 37 37
Interregnodiun'anno Í è cacciato da Roma dopounregnodianni 25 19 re dopo un
regno di anni DO V i. Servio Ba 175: 244 Dove non sarà fuor di
propofi to avvertire quello che avverte lo stelloNeutono(1)comedaltem poincui
laCronologia cominciòad ellercertaedesatta,non sitrovain tutta laStoria pure
un'esempio di sette R e, i più de'quali furono a m mazzatied uno deposto,che ab
biano regnato dugenquarantaquat tro anni senza interruzione veruna. Ma
venendoalparticolare, e in cominciando da Romolo, i fatti di questo Principe
dopo il ratto del ledonne,primacagione delmet tersi in arme (1).Nella
Cronol.p.137. dellaE 20:) furono le guerre contro i?Sabini, che ripeteano
le donne loro,e.leguerrecontroal cuni popoli per gelosia d'imperio.
Plutarconedà l'epoca della pe nul-, diz, Franzese 1728. giuri
sdizione,laqual Fidene era stata soggiogata da Romolo innanzi Ca merio. Il che
ne somministra assai pro (α)και την πόλιν ελών, τοίς. μεν ημίσεις των
περιγενομένων εις Ρώμην εξώκισε,τών δ'υσομερόν- τωνδιπλασίους έκ Ρώμης κατώ
κισεν εις την Καμερίαν Σεξτιλίαις Καλάνδαις.τοσύτοναυτώ περιήν πολιτών
εκκαίδεκα έτησχεδον οί κάντι την Ρώμην. 21: nultima di queste guerre che
fu c o n t r o i -C a m e r j, l a q u a l e e p o c a c a -, de nell'anno
sedicesimo della edi-, ficazione di Roma,e del Regno di Romolo (1). E dopo
questa e gli non imprese altraguerra se non contro iVejenti, chemoslero cono
tro i Romani domandando la resti tuzion diFidere,come di,Città che
siapparteneva alla loro Β3 22 probabile argomento di por questa
ultima guerra guerra l'anno decimofetti mo della edificazion di Roma o là in
quel torno, non essendo punto verisimile che i Vejenti domandaf sero la restituzione
di cofa tolta troppo lungo tempo avanti; tanto più che siccome era rozza.a quei
di l'arte della guerra,rozza altresì era quellade'Manifesti.Stando a (1) In
Rom. in fine p. 37. Id. inNuma in princip.p.60. dunquecosìlacosa,cioè che l'ul
tima guerra fatta da Romolo cadel senel'annodecimosettimodelre gno suo, e
facendolo regnare tren totto anni,comedicePlutarco(1), ne rimarrebbe uno spazio
di ven tun'anno in bianco, voglio dire tuttopacifico e quieto, e con verria
dire che sotto il reggimen to A questeparticolariragionidi
abbreviare il regno di Romolo se ne aggiugne un' altra non meno ftringente
tratta da Plutarco, fe condo cui egli deveaver comin B4 cia 23 to diquel
Re fosserostatiiRom mani molto più tempu in non in guerra; il che non accorda
punto con quella indole bellicosa che tutti gliAutori ad una voce danno al
fondatore di quello Iinperio. N e ciò accorderia pure con quelle pa role che
Plutarco mette in bocca á Numa, il quale per rifiutare il Regno offertogli
dalRomani,dice che si convenia loro un Condot tierod'esercitoanzicheunRe per
cacciare que' potenti nimici che Romolo avea lasciato loro in sulle braccia
(1). pace che. (1) Plut,in Numa p.63.; (1)Id.inRom.infine 77 24
ciatoaregnareinetàdi anni di cialette, dacchè egli è morto di anni
cinquantaquattro secondoi computi di quello, e ne à regnata trentotto (1). Ora
come sipuò egli mai conciliare con una età cos sì tenera quelle tante cose che
fa cea costui secondo lo stesso Plutara co,perlequalisivoleaunaetà più
gagliarda,e più ferma?Egli eccellente ne'consigli e nella civil prudenzá mostrò
moltepruovedel suomirabileingegno inoccasiondi trattar co' vicini, attendeva
agli ftudidell'artiliberali;fi esercita vanellefatiche,nellecacce delle
fiere,nelperseguitare gliaffaslini, nel purgar levie da'ladroni,e nel difender
dalle ingiurie coloro che fusleroftatioppressi dall'altrui fu per P.37
perchieria(1):modi tutticheil feceró crescere in reputazione fra
glialtri påstori,e chedebbono fara locrescerdietàapponoi.Nè lo aver' egli
guidato a quel tempo impresedifficilisfime,lo efferfi fat to capo di un popolo,
e lo aver fondato una Città ne rimoveranno dall'oppinione di farlocominciare a
regnar più tardi, e di accorciare ilsuoregno. tore E da Romolo passando a N u
ma,eglinoncisonomenfortira gioni per abbreviare il regno anco di questo. Io
lascio ftare quella quistione roccata da Livio,e da Plutarco(2)come questo
Legisla (1)Plut.in:Rom.p.20. (2)Id.inNumap.60.69,e 74. Tit. Liv. Decad. I. lib.
la pa 14.atergo.Ed.Ald.1918.. 25 : por Authorem do&trina
ejus quia non extat,alius,falfo SamiumP y thagoram edunt,quem Servio Tül lo
regnante Rom& centum amplius poft annos in ultima Italiæ ora cir ca
Metapontum Heracleamque de Crotonam juvenum æmulantium fta diacatus
habuilleconstat.Liv,Ibid. 26 gnan tore potesse essere stato uditor di
Pitagora, il quale essendo venuto inItaliapiùtardiche Numa non cominciò a
regnare secondo la co mune oppinione (1), ne farebbe (1) Plut,in Numa p.60.
PherecidesSyrus primum di xit animos bominum esse fempiter
nos:antiquusfane:fuit enim meo regnante Gentili.Hanc opinionem discipulus ejus
Pythagoras maxime confirmavit, quicum Superbo re fu Cic.Tusc.Quæft.
Lib.I. 27 il regno suo più sotto, e per conseguente accorciare almeno le
durate degli altri cinque regni,che furonodaessoNuma fino alRegi fugio;della
certezza della qual'e pocanonsidubitadaniuno lo Jascio,dico,questa quistione,la
qua lenon risguarda tantoladuratadel regno diquestoRe,quanto il prin cipio di
quello:e vengo a cið che ne appartienepiù davicino, porre Plutarco ne dice che
Numa aveva quaranta anni (1), quando gnante in Italiam menisset, tenuit magnam
illam Greciam ac. Pythagoras qui fuit in Italia temporibusiisdem,quibusL. Bru
tus patriam liberavit. Id.Ib.Lib.IV. (1)InNuma p.62, 28 qua
rantatre, la quale ultima cosa ne dicefimilmenteLivio(1).Ma qui io domando le
parrà ragionevole ad altrui,che incosìfrescaetàpo tesseNuma essergiuntoaquelloe
minente grado di fapienza, che fi dice;emoltopiùpoiseparrà ve risimile, che
tenendo egli maslime modi di vivere differenti dagli u fatinel fuo
paese(2),egli potesse esser salico in così alto grado di re Tit. Liv. Decad. I.
lib. I.p. 16. a tergo. fu eletto in Re di Roma, e che la governò per
lospaziodi pu (1) Plut.InNuma p.73.2 74. Romulus feptem do triginta regnavit
annos. Numa tres a quadraginta - (2) Vedi Plut. in Numa in princip.
Annumque intervallum regni fuit. Id ab re quod nunc quoque tenet nomen,interregnum
appella tum. ld paullo post. Consultissimus vir omnis di putazione,che lo
facesse riverire non solo appo gli stranieri, ma nel proprio paeseeziandio per
così straordinario modo,come narrano; e per recar le molte parole in u. na, che
l'autorità del nome suo. fossetale,ch'ella dovesse in un subito far ceffare le
animosità, e le gare delle parti, che per lo Ipazia di un'anno aveano conteso
in Ro.: m a per lo Imperio (1). M a egli (1)Patrum interim animos certamen
regni ac.cupido verfa bat @c. OK 29 ci Tit.Liv.Decad.I. lib.I.p.14.
30 Plut.in Numa p.61. --- a y ci è ancora alcuna altra confider1
zione da farsi.Tazio che reggeva Roma insieme con Romolo,mcf so dalla gloria e
dal nome dilui che tantoalto suonava,selofece genero dandogli per moglie una
sua unica figliuola che si chiama vaTazia.Quandoquestoavvenif feper appunto
nonsilegge;ma eglièverobensì,che ciðfumol divini atque'bumani juris dito nomine
N u m e Patres Romani quamquam inclinari opes ad Sabi nos rege inde fumpto
videbantur: t a m e n n e q u e se q u i s q u a m, n e c f a
Etionisfuæalium,nec denique Pa trum aut Civium quenquam prefer re illo viro auf
ud unum omnes. Numa Pompilioregnumdeferendum decernunt,Id. Ib.atergo,ep.15.
to (1)T.Liv.Decad.I.Lib.I. p.12.Plut.inRom.p.32. 31 sua to di
buon'ora nel regno di R o molo,dacchè Tazio muorì prima della guerra
co'Fidenati, e co'Ca meri (1),cioè prima dell'anno see dicesimo del regno di
Romolo; e d'altra parte ne racconta Plutarco che Tazia era morta quando N u ma
fu chiamato al regno, e ch'era vissuta con esso luilo spazio di
tredicianni(2).Dal chetuttofi deeraccogliere,che grantempoa vanti la morte di
Romolo fioriva lafamadellafapienzadi Numa;e converrià dire,ritenendo il c o m p
u todiPlutarco,cheavendoNuma foli venticinque anni,questa fama
fossegiàtanta,che inducefleTa zio Re a dare in matrimonio una (2) Plut.in Numa
p.61. -(1) Id. in Numa p.63. sua unica figliuola a lui uomo
pri vato, il che mostra essere alieno da verisimiglianza, Diremo per
tantoasalvareilvero,cheNuma dovesse avere sessanta anni almeno quando fu eletto
con tanta unani mitàaRediRoma;eciòpofto, gli staranno molto meglio inbocca
quelle parole che periscansarsi da questo carico gli fa dire Plutarco,
qualmenteallecondizioni de'Ro mani era bisogno che laCittà avef seunRe
dianimoardente erobu sto (1),le quali parole più tosto fi disdirieno che no ad
un'uomo di quarantaanni.Postoadunque che Numa, come ragion vuole,comin ci a
regnare vent'anni più tardi che non si crede,> di altrettanti an ni fi verrà
ad accorciare ilsuo re gno in età in circa di ottantatre anni
(1). gno, dove si voglia ch'egli sia morto come narrano, 33 sta E per tal
modo abbreviando il regno di Numa, e similmente q u e l l o d i R o m o l o, si
v e r r à a r e n der più probabile la lunghezza del la pace di cui godè Roma a
tempo attorniata da popoli estre mamente gelosidellasua grandezza, come
ellaera.Questapace giusta l'antico computo farebbe dileffan tacinque
anni,iqualirisultano dal la somma de'quarantatre del regno diNuma,daun'anno
d'interre gno,e da'ventun'anni passati da Romolo, dirò così, nell'ozio e nella
cessazion dalla guerra; e g i u C: quel > (1) ετελεύτησε δε χρόνον ο σ ο
λύντοϊςογδοήκοντα προσβιώσας. Plut,in Numa p.64. ven di pre
34 itale cose discorse, questapace viene ad essere di ventiquattro an ni in
circa e non più. E da ciò riesce molto più verisimile, come Tullo
Ostilioerededelregno,non dell'arti di Numa, abbia potuto facilmente rinvigorir
ne' Romani la bellica virtù inspirata loro da R o molo,ecomeabbiapotuto sente
combatter con feroci Nazio ni e soggiogarle; il che di troppo
fáriafuordell'uso,e della oppi nion comune se la virtù de' R o
manifossestata(nervatadauna pa c e di fesfantacinque anni. Io non dirò nulla
de' due fuf seguenti regnidiTullo Ottilio,edi Anco Marzio,ilprimo de'qualiè di
trentadue anni (1), l'altro di (1) Tullus magna gloria bel li
regnavitannosduosdotriginta. T. Liv.Decad.I.lib.I.p.24. (2)
Jam.filii prope puberem etatem erant Id. Ib. 35 ventiquattro (1), se non
che ab breviandogli un tal poco, egli ne parrà piùverisimilequello che di ce
Tito Livio de'figliuoli di A n co Marzio: cioè che alla morte del padre e'non
fossero ancora ag giunti agli anni della pubertà (2) (1) Regnavit Ancus quatuor
dig viginti. Ib.p. 26. a tergo. Anco Marzio aveva cinque
anniallamortediNuma(3):sea cinque se ne giungano trentadue, e ventiquattro,
avremo leffantun’ anno,cioè l'età d'Anco Marzio allamorte fua;ilqualeavriadova
to naturalmente lasciare figliuoli più adulti,postoche egliavesse regnato
ventiquattro anni, e Tul C2 lo annos (3)Plut. in Numa pag. 74. 36
lo trentadue; e cið perchè seconda ragione,un regio uomo come si era Anco
Marzio e che fu poi Re, dovea menar moglie assaidibuon' ora per lasciare il
regno a'figliuoli nella più ferma età che far fi po tesse. Eniente farebbe
ildire,ch' egliavesle avuto figliuoli maggio ri di età che morisfero innanzi a
lui, e che questa cura del padre di la fciar figliuoli atti al regno futle del
tutto inutile in un regno e lectivo qual sieraquello diRoma, poichè dall ' una
parte egli pare improbabile che dovessero ellere morri in tenera età tutti i
primi suoi figliuoli più tosto, che gli altrs,edall'altrocanto eglisem bra che
si avesse risguardo alla stir pe regia nella elezione del Re. Segno è di questo,
che i Romani chiamarono al regno il medesimo 1 An 37 Ma Anco
Marzio nepote di Numa che Tarquinio Prisco allontand i figliuolidiluidaRoma
neltem po de'Comizj (1). (1) C3 do peromnia expertus (L.Tarquinius ) postremo
tutore diam liberisregistestamento insti tueretur Jam filiiprope pube
remætatemerant.EomagisTar quinius instare,utquamprimum comitia regi creando
fierent: qui.. bus indi&tisfub tempus pueros vem natum
ablegavit:isqueprimus de petisse ambitiofe regnuin & c. T. Liv:Dec.
I.lib.I.p.26.atergo. Tum Anci filii duo, etfi a n tea femper pro indignissimo
habue rant fepatrio regnotutorisfraude pulsos:regnare Romæ advenäm non modo
civica, fed ne Italica qui demftirpis& c.Id.ib.p.29.terg. e (1)
Nel luogo citato. р 3:8 Ma non è già così da passar sotto silenzio il
regno del medesi mo TarquinioPrisco successoredi Anco.Ne viene costui rappresen
tato come usurpatore del regno, secondo che disli, a' figli di quello,
de'qualieglierastatoistituito tu tore dalpadre(1).Egliregna tren totto anni
(2),e vien finalmente ammazzato per opera degli stessi fi gliuolidi
Ancovaghidiricuperare il regno paterno tolto loro dalla frande dell'uomo
straniero(3).Nel che (3) Sed injuria dolor in Tarquininın ipsum magis quam in
Servium eosftimulabat (3) Duo de quadragefimo fer me anno ex quo regnare
cæperat Tarquinius bc.Id.Ib. ipseregiinfidiaparantur.Id. Ib. aullo poft. ob
hæc che chi non ammirerà la flemma incredibile di costoro, che tra
la ingiuria e la vendetta polero in mezzo trent'otto anni, spazio di tempo
bastante a sedare e spegner forfe nell'animo qualunque più violenta passione?
Questo fatto a dunque dovette avvenire nella lo to giovanile età non molti anni
d o polamortedelpadre;ilche quan to è comprovato dalla vatura del fatto
medesimo, lo è altresi dal non ne avere effiraccolto frutto alcuno, come coloro
che dopo la uccisione di Tarquinio rimasero ne più nè meno esclusidal regno pa
terno.La qualcosaben mostraef fere questa stataopera di età gion vanile e
inconsiderata, e non di quella ferma e matura di cinquan ta anni, in cui Livio
gli fa c o n troogni verisimiglianzaoperarque 3999 Ita. C4
Che diremo oltre del suo suc cessore Servio Tullo, il quale nel fapno
regnare quarantaquattro an ni (1)? Se non che dobbiamo di
moltoaccorciareancoquesto regno, per quella medesima ragione per la
qualeabbiamoaccorciatoquello di Tarquinio Prifco fuo predeceffore. Fu Servio
Tullo anch' ello mello a morte da chi volea ricuperare il
regnopaternotoltoglida essoTul lo,ch'era di schiatta fervile,e
chefuportosultronodiRomaper artifiziodiJanaquilęmoglie diTar 40 sta
Tragedia, E però rimane che fi debbaabbreviareilregnodi Tar quinioPriscocomesiè
fattode' superiori. 1 qui (1) Servius Tullus regnavit, annosquatuor
quadraginta.Id. Ib. p. 34. a tergo. e preso dalla più violenta
ambizione; e ch'egliin 41 quinio Prisco. È in ciò dovrà pa rere molto strano
che Lucio Tar quinio, che fu poi cognominato il Superbo,abbiaaspettatoa metter
lo a morte quarantaquattro anni.E molto più poi le altri vorrà por
menteatrecose,chequestoTar quinioera giovine fatto allorchè Servio Tullo fu
aflunto al Trono, ilqualela prima cosa diede per moglie due sue figlie a due
giova ni Tarquinj Lucio ed Arunte (1); che questo Tarquinio era di natu ra
3rdentifima CS ६. > (1) EtnequalisAneiliberum animusadversusTarquinium fuerat,
talisadversusse Tarquinii liberam esset: duas filias juvenibus, regiis' Lucio
atqueAruntiTarquiniisjunio git •Id.Ib.p.30:a tergo• fine era
eccitato cotidianamente ad occupare il regno da Tullia fua moglie la più
stimolofa è rea f e m mina che fulle mai (1). Le quali cose considerate che
fieno,faranno che debba credersi molto più irra gionevole che Servio Tullo
abbia potuto regnare quarantaquattro an ni,che Tarquinio Prisco
trentotto. 42 Et ipfe juvenis ardentis animi do domi #xore Tullia in-,
quietum inimum stimulante Id. Ib.p.38. Sen (1) Servius quanquam jam 16 fu haud
dubie regnum possederat; tamen quia interdum jactari voces a juvene Tarquinio
audiebat büs Id.ib.p.32,àtergo. Vedi p.33. a tergo, quid te stregium juvenem
confpici jenis6607 Nel fine del regno diSer. Tullo. Senzache
questoTarquinio,che è sempre chiamato giovine nella vi ta di Servio Tullo,
moftra effére robusto e giovinę tuttavia allafi nedelregnodiquello,come co
luichepiglioServioperlomez zo della perfona, e sollevatolo in alto lo gittò giù
per la scala della Curia (1). La qual pruova giova nile non avrebbe potuto
altrimenti fareseaquarantaquattro anni del regno diServioneaggiungiamo venti
più o meno,ch'egli ne do yea avere alla morte di Tarquinio Brisco;.che lo
farebbono vecchio di sessantaquattro anni allorchè ei (1)Multo ætateį viribus
va lidior medium arripit Servium,es latumque eCuria in inferiorempar temper
gradusdejecit.Id.Ib.p.34. a tergo. per 43 » de uxoribus
mentio, Suam quisquelaudat miris modis, 44 Ora venghiamo finalmente ale
lo stesso Tarquinio Superbo che fu l'ultimoRe diRoma iAvvenne verso la fine di
questo regno,che nell'offidionedi Ardeainforgesle quistione traSesto Tarquinio
e T a r quinio.Collatino marito di quella Lucrezia,chị de'dueavesse più savia
moglie, dal che poi nacque, comeYaognuno),11Confolato ela libertàRomana,Ora
quertoTar quinio Collatina secondo le parole di Livio era giovine","e
Yecondo lo ftesto autorem pervenne ad occupare il regno 5. Upitni HI,1, cer era
figlio di un Inde IT: (1)Forte potantikusbisapud Sextun Tarquinium ubii collati
aus cænabat, Tarquinius Egerii fs lius incidit .(fratrisbicfilius e rat
Regis)Cyllațiæ in præfidio re lietus. 1:1, Ib.p, &, e 28. a tery. 45
eerto Egerio,il quale fu lafciato da Tarquinio Prisco alla guardia di Collazia
Città di novella con quita nella guerra Sabina (1) ver -fo la metà del regno
fuo o la in torno, che viene a cadere nell'an no cencinquantacinqueincircadal
(1)Collatio.c quisquid citra Collariam agri erat Sabinisadema ***** ptum
Egerius py,sub Indecertamine accenfoCollatinusne gatverbisopuseffe;paucisid
quide12 horis poffe:frisi,quantum cæteris præftet Lucretia (14. Quin sivi gor
juventa ineft confcendimus,e qws,invifimulqise præsentes 102 strarun ingenia?
T'it,Liv.Ib.p.40. la (1)Vedi'anco la Tavoletta Cronologica
registrata di topra. 46 la edificazione di Roma (1),lomi penso che sarà
mestiero darea ques sto Egerioaquel tempo per lo m e no trenta anni, sì perchè
l'età sua foffe in alcun modo eguale al cari co commessogli dal Re Tarquinio
Prisco,sìperchèquesto Egerioera nato prima del tempo in cui Tar quinio venne a
Roma sotto il re. gno di Anco (2), Ora come può egli
starecheun'uomoditrent'anni ļ' a n n o d i R o m a c e n c i n q u a n t a c i
n q u e avere unfigliogiovine l'anno du genquarantaquattro,come non sivo glia
supporre ch'egli avesse questo figlio dopo l'età degli ottant' an ni? ilche ben
vede ognuno quan to 1 (2)T,Livio Decad. I.lib. I. p. 26. che è di
niez zo tra ilpadre,e ilfigliuolo. 47 to siacontrario all'ordinario corfo delle
cose naturali. Per lo che se vorremo ritenere questa discenden za de'Tarquinj,
bisognerà accor ciare ilregiodiTarquinio Prisco di ServioTullo e similmente di
TarquinioSuperbo,che occupano tutti e tre il tempo ot Un'altrapruova
peracccrcia re ilregnodiTarquinio Superbo e quello eziandio di Servio Tullo
fuopredecessore, fipudcavarda questo. Tarquinio Superbo quand? egli occupò il
regno avea festanta quattro anni,come abbiani veduto poco
innanzi,a'qualichiaggiunga i venticinque che fi dice avere ef fo regnato
(1)troverà,ch'egli avea (1) L. Tarquinius Superbus r e gna 48
ottantanove ánniallorchè fu elpus: fo dalregno;laqualcosapofto che vera, avšia
merit:ito d'esser nota=; ta dagli Storici. Che più? Si legno gechequestoTarquinio
parecchi a n n i d o p o il R e g i f u g i o (1 ) c o m b a t tè a cavallo
alLago Regillo con tro il Dittatore Postumio (2), il che gnavit annos quinque
la viginti ! Regnatum konæ ab condita Urbe ad liberatam annos CCXLIV. Id.
Ib.infinepo42. (1) Vedi T.Livio Decad.I. lib. II. (i) in Pofthumian prima in
acie firos adhortantem inftruen temque Tarquinius Superbus quam quam jam
'&tate a viribus erat gravior equum infeftus admifit; ietusqueab
latere,concursufuorini receptus in tutum eft. Id. Ib. Pr54. 49
du che verrebbe a cadere nell'anno centesimo e più.là ancora dell'età
sua, irragionevolezza troppo mag giore chenon sipuò comportare, e la qual nasce
pure anch'essa, co me ognunvede,da uncalcolofon dato sopra leEpoche Liviane.
Come adunquesidebbano le var molti e dalle du rate de'regnidi inni cotefti R e,
egli si provato rimane abbastanza altrimenti nasco dagliassurdiche insieme i
nelvoler comporre no le altre condizioni che ac fatti,e regni; medesimi cer
questi conpiù compagnano furono i quali fatti dalla tra a'pofteri men
tezdatrasmesli quantevolte dizione,che non un pia tornò. Ed egli abbastanza,
come se fi riducano seguirono del Cielo tre quelli sito neta al medesimo
provato è medesimamente le,cred'io, SO durate di cotesti Re
allà ordinaria legge diNatura,che li faregna re presi insieme diciotto o venti
anniperuno,secondocheàdisco perto il Neutono, tutte le difficol tà
siappianano,esvauiscono leir ragionevolezze tutte degli Storịci. La qual cosa
benchè sia oramai fuor d'ogni quistione,mi piace aggiu gnere un'altra pruova,
perchè fi vegga vie meglio qualmente sorga il vero da ogni lato, come all' in
contro da ogni lato si manifefta 1 errore·Questanovellapruova fa rà ricavata
dalle generazioni d'uo mini che sono indicate dagli Au tori nella storia di
detti R e, le q u a li anch' esse arguiscono di falla la tecnica loro
Cronologia in quanto alle durate de' regni. Nella vita diRomolofià,che
OttilioAvo lo di Tullo Oftilio morì nella guer-. > ra mo (1)
Principes utrinquepugnam ciebant:ab Sabinis Metius Cura tius, ab Romanis
Hoftius Hoftilius (2) τετάρτω δε μηνί μεν την κτίσιν(ωςφάβιοςισορά) τοπε ρι την
αρπαγήν ετολμήθη των γ υ Voixãi.Plut. inRom.p.25. Plut.Ib.p.29.descrivendo co
meleSabinediviserolazuffatraiRo. mani,eSabiniaggiugne:aipšv.muidice
κομίζεσαινήπιαπροςταίςαγκάλαις 51 racontroiSabini,(1)che viene a cadere
ne'primi anni di quel re gno(2).Ilregnopertantodi Ro ut Hostius cecidit &
c.T. Liv. Dec. 1. lib. I. p. 11. Indo Tullum Hostilium nepotem Hostilii,cujus
in infima arce clara pugna adver Sus Sabinos fuerat, regem populus. j u s s i
t. I d. I b. p. 1 6. a t e r g o. P l u t. inRom.p.29. / molo di
Nama e di Tullo Ottilio, n o n o c c u p a a u n d i p r e s s o c h e il t e m
po didue generazioni: quella del padre,o della madre che dir vo gliamo di ello
Tullo Ostilio,che duvette nafcere al principio del regno di Romolo,e quella
diTul lo Oftilio medesimo D a N u na ad Ancu.Marzio suno due ge nerazioni,
poichè ello Numa era avolo di Anco Marzio (1); dat che ne feguita che la generazione
tra Numa ed Anco finendo al tempo diTullo Oftilio,rimanga·una ge nerazione fola
da Tullo alla fine del regno di Anco. Con che dal principio del regno di Romolo
al (1) Numa Pompilii regis ne pos filia ortus Ancus Martiuserat. T.
Liv.Decad.I.lib.I.p.24. la Plut.inNuma p.74. ne la fine di
quello di Anco corrono incircatregenerazioni.Lucio Tar quinio Prisco prima
detto L u c u m o ne viene a Roma uomo maturo nel regno di Anco, (1) onde la
gene razione di Tarquinio'coincidendo con quella di Anco non resta che una sola
generazione di uomini tra ilregnodiAncoeilregnodiTar quinio Superbo figlio di
Tarquinio ilvecchiooPrisco,Adunque dal principio del Regno di Romolo al la fine
di quello di Tarquinio Su perbo corrono quattro fole genera zioni in circa di uomini
e non più, EglièilverocheTitoLiviodi cedubitarealcuni,sequesto Tar quinio
Superbo folle figliuolo a (1)T. Liv.Decad.I. lib.I. p.26.eatergo. 53
54 (1) Hic L. Tarquinius Prifci T a r q u i n i i f i l i u s, n e p o s
v e f u e r i t, p a rum liquet:pluribustamen autho ribusfilium crediderim. Id.
Ib.p. 33. devolvere retro ad ftirpem fra. trifimilior quam patri. Ib. a ter go.Quas
Anco prius, patre deinde Sito regnante, perpelli fint.p. 37. Tarquinius reges
ambos patrem 80 vie,filium perfecisse p. 38.aterg. nepotedelPrisco;ma
fenzache i più erano di oppinione ch'ei gli fusse figliuolo (oppinione abbrac
ciáca da esso Livio medesimo )(1), eglisipuòmostrare,cheda Tar quinio Prisco al
Superbo correfle una sola generazioneper esser Col latino ancora giovane in ful
fine del regno di Tarquinio Superbo, m e n t r e il p a d r e s u o E g e r i o
e r a u o mo già fatto nel regno di Tarqui nio Prisco,come abbiamo veduto
avatt avanti.Ora fommando insieme gli anni di quattro generazioni,
ognu na delle quali ragguagliata è di trentatre anni (1),si hanno cento e
trentadue anni, e dando a cia fcun Re diecinove anni di regno, sihanno cento
trentatre anni,ilche derivato dalle Leggi di Natura co sì maravigliosamente
conviene col la regola cronologica delNeutono, che leosservazioniastronoinichepiù
a capellononconvengonocolleTeo rie eco'calcolidiquel grand'uomo. Io
nonaggiugneròaltroaque fto Ragionamento,se non che a quel modo che la
Cronologia del Neutono assolve Virgilio che fu il più esatto de'Poeti da quello
Ana cronismo imputatogli comunemen (1) Vedi la Cronologia del Neutono p.46. p.
56. 53 te 56 te in rispetto a'tempi in cuiyisse. ro Enea e
Didone,così ella può giustificarequellacomun tradizione tenuta inRoma,che Numa
fusle stato uditore di Pitagora, e che non meno contribuisseafondarquel lo
Imperio, il qual fu fignor delle cole,la Virtù Italiana che la Gre ca Sapienza.
Algorottus. Francesco Algarotti. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice ed Algarotti," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715434392/in/photolist-2mTCXhf-2mMV7Uy-2mKwuhr-2mKC2Sh-2mKgUQf-2mKiHWP-nDMWb2/
Grice ed Alici – reciproco – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Grottazzolina). Filosofo. Grice: “If an Italian
philosopher tells me he believes in God, I stop calling him ‘philosopher’!” --.
Grice: “I like Alici; he has philosophised on some of the topics *I* did, since
it should not surprise anyone, since we are philosophers (if I’m also a cricketer!)
--.Grice: “I will organize some overlaps in hashtags: compassione. – serious
study – il terzo incluso – I curiazi, i moscheteri -- ”:noi dopo di noi,” ‘we
after we’ – the meta-language – romolo e remo; ossia, il bene condiviso;:romolo
e remo; ossia, condividere la deliberazione; eurialo e isso, ossia, dall’io al
noi; colloquenza romana; amore: l’angelo della gratitudine; eurialo e nisso:
amore d legarsi – la reciprocita; pilade ed oreste -- luigi Alici Presidente nazionale dell'Azione Cattolica
Italiana. Filosofo. È stato presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana
dal 2005 al 2008. Allievo di Armando
Rigobello, ha insegnato Filosofia morale nell'Università degli Studi di Perugia
e Filosofia teoretica presso la LUMSA di Roma. Attualmente è Professore di
Filosofia morale nell'Macerata, nonché titolare degli insegnamenti di
Istituzioni di Filosofia morale, Filosofia morale (corso triennale), Etica
pubblica ed Etica della vita (corso magistrale). È stato presidente del Corso
di laurea in Filosofia (1997-2003), coordinatore del Dottorato di ricerca in
Filosofia e Teoria delle Scienze Umane, presidente del Presidio di Qualità di
Ateneo (-), direttore della Scuola di Studi Superiori "Giacomo
Leopardi" (-). Studioso dell'opera
di Sant'Agostino, è autore di numerose pubblicazioni dedicate al rapporto tra
interiorità e intenzionalità, comunicazione e azione, libertà e bene, con
particolare attenzione alle tematiche dell'identità personale e della
"reciprocità asimmetrica", esaminate anche sotto il profilo della
loro rilevanza morale. Le sue ricerche più recenti, a partire dai temi della
fragilità e della cura, sono dedicate al rapporto tra natura, tecnologia e
libertà. Impegnato fin da giovane nell'Azione
Cattolica, nel corso degli anni ha ricoperto nell'associazione numerosi
incarichi, prima a livello locale e poi nazionale: dal 1992 al 1998 è stato
responsabile dell'Ufficio studi; -- è stato direttore della rivista culturale
"Dialoghi"; il 24 aprile 2005 è stato eletto consigliere nazionale
dell'associazione dalla XII assemblea nazionale. In seguito alla designazione
del Consiglio nazionale, il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale
Italiana lo ha nominato presidente dell'associazione per un triennio. Il suo
mandato è terminato il 27 maggio 2008. È
membro dei seguenti organismi: Consiglio scientifico dell'Istituto per lo
studio dei problemi sociali e politici "Vittorio Bachelet" (Roma);
Comitato Scientifico della Collana di “Filosofia morale” (Vita e Pensiero,
Milano); Comitato di direzione della rivista “Dialoghi” (Roma); Consiglio
Scientifico del “Centro di Etica Generale e Applicata” (Pavia); Comitato
scientifico della rivista “Hermeneutica” (Urbino). Membro del Comitato
Scientifico della Fondazione “Lanza” (Padova, /). Dirige inoltre la sezione di
Filosofia della Collana “Saggi” (La Scuola Editrice, Brescia) e della Collana
“Percorsi di etica” (Aracne Editrice, Roma).
Opere: “Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di
Agostino”(Edizioni Studium, Roma); “Tempo e storia. Il "divenire"
nella filosofia del '900” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il pensiero del
Novecento Editrice Queriniana, Brescia); “Il valore della parola. La teoria
degli "Speech Acts" tra scienza del linguaggio e filosofia
dell'azione” (Edizioni Porziuncola, Assisi PG); “Presenza e ulteriorità,
Edizioni Porziuncola, Assisi (PG)); “La dignità degli ultimi giorni” (Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “Con le lanterne accese. Il tempo delle
scelte difficili, Ave Edizioni, Roma); “L'altro nell'io. In dialogo con
Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il terzo escluso, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI)); “La via della speranza. Tracce di futuro
possibile” (Edizioni Ave, Roma); “Cielo
di plastica. L'eclisse dell'infinito nell'epoca delle idolatrie” (Edizioni San
Paolo, Cinisello Balsamo (MI), (Premio "CapriSan Michele); “Amare e
legarsi. Il paradosso della reciprocità, Edizioni Meudon, Portogruaro (VE));
“Filosofia morale” (Editrice La Scuola, Brescia); “I cattolici e il paese.
Provocazioni per la politica” (Editrice La Scuola, Brescia); “L'angelo della
gratitudine, Edizioni Ave, Roma); “Cittadini di Galilea. La vita spirituale dei
laici” (Quaderni di Spello”, Edizioni Ave, Roma, (Premio “CapriSan Michele); “Il fragile e il
prezioso. Bio-etica in punta di piedi, Editrice Morcelliana, Brescia); “InfinitaMente.
Lettera a uno studente sull'università, EUM, Macerata,. Edizioni di opere di
Sant'Agostino La città di Dio, Rusconi, Milano; Bompiani, Milano. La dottrina
cristiana, Edizioni Paoline, Milano; Confessioni, Sei, Torino, Manuale sulla
fede, speranza e carità, Collana La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma.
“Il potere divinatorio dei demoni, Collana La vera religione, Città Nuova
Editrice, Roma; La natura del bene, Città Nuova Editrice, Roma; Il libro della
pace. «La città di Dio, XIX», Editrice La Scuola, Brescia); “Agostino nella
filosofia del Novecento (con R. Piccolomini e A. Pieretti), 4Città Nuova
Editrice, Roma (comprende: Esistenza e libertà, 2000; Interiorità e persona,
2001; Verità e linguaggio, 2002; Storia e politica). Azione e persona: le
radici della prassi, V&P, Milano, Forme della reciprocità. Comunità,
istituzioni, ethos, Il Mulino, Bologna, La filosofia come dialogo. A confronto
con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma, Filosofi per l'Europa. Differenze in
dialogo (con F. Totaro), Eum, Macerata, Agostino. Dizionario enciclopedico, di
Allan D. Fitzgerald edizione italiana curata assieme a Antonio Pieretti, Città
Nuova Editrice, Roma); “Forme del bene condiviso, Il Mulino, Bologna, “La
felicità e il dolore. Verso un'etica della cura” Aracne Editrice, Roma,.
Dialogando. Idee, pensieri, proposte per il nostro tempo, Edizioni Ave, Roma);
“Unità e pluralità del vero: filosofia, religioni, culture, Archivio di filosofia);
“Il dolore e la speranza. Cura della responsabilità, responsabilità della cura,
Aracne Editrice, Roma); “Prossimità difficile. La cura tra compassione e competenza,
Aracne Editrice, Roma); I conflitti religiosi nella scena pubblica. I: Agostino
a confronto con manichei e donatisti, Città Nuova Editrice, Roma); “Noi dopo di
noi. Accogliere, rigenerare, restituire: nella società, nell'educazione, nel lavoro”
(FrancoAngeli, Milano); “I conflitti di valore nello spazio pubblico. Tra
prossimità e distanza, Aracne Editrice, Roma); “I conflitti religiosi nella
scena pubblica. II: Pace nella civitas, Città Nuova Editrice, Roma); “La fede e
il contagio. Nel tempo della pandemia, (con G. De Simone eGrassi), Ave, Roma.
L'umano e le sue potenzialità: tra cura e narrazione (conNicolini), Aracne,
Roma. L’etica nel futuro (con F. Miano), Ortothes, Napoli-Salerno. Pagina di
presentazione nel docenti
dell'Università degli Studi di Macerata, su docenti.unimc. Dialogando. Il blog di Luigi Alici, su luigialici.blogspot.
Predecessore Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Successore
Paola Bignardi. “Love and duty are the cement of society” (Elster).
“Love and duty are *not* the cement of society. The mechanism is *reciprocity*.
Seemingly co-operative, helpful, altruistic behaviour, based on versions of the
‘I’ll-scratch-your- back-you-scratch-mine’ principle, require no nobility of
spirit. Greed and fear suffice as motivation: greed for the *fruit* of co-operation,
and fear of the consequence of *not* reciprocating the co-operative helpful
overture of the other.” (Binmore). Chi tra Elster e Binmore ha ragione? Chi che
vede nell’amore il “cemento della società”, o chi che considera invece la
reciprocità dei due soggetti, basata su egoismo e paura, come il meccanismo sufficiente
per tenere assieme la società? Oppure le cose sono più complicate? Grice
propone di penetrare all’interno delle dinamiche della gratuità, della
reciprocità e del tipo di razionalità che sottostanno ad esperienze
conversazionale che potremmo chiamare “sociali”, come sono quelle dell’Economia
di Comunione Conversazionale [cf. Bruni e Pelligra]. In particolare ci
domandiamo a quali condizioni un soggetto o un’impresa mossi da una razionalità
diversa da quella standard possano sopravvivere e svilupparsi in un contesto
dove esiste una eterogeneità di soggetti interagenti. Inizieremo (§ 1)
evidenziando le caratteristiche base dell’idea di razionalità che muove l’homo
oeconomicus, cioè l’agente considerato “standard” dalla teoria economica
convenzionale. Quindi, nella sezione 2, introdurremo un tipo di agente non
standard, mosso da una razionalità in cui l’azione donativa ha una ricompensa
intrinseca. Questo fa in modo che la reciprocità possa assestarsi come equilibrio
stabile. Nella sezione 3 vedremo che, quando agenti eterogenei interagiscono
tra di loro, le cose si complicano e gli esiti non sono più scontati. Per far
questo ci serviremo della forma più elementare di giochi evolutivi; saremo,
così, in grado di mostrare i risultati più interessanti del modello, che
espliciteremo nelle conclusioni. * Alessandra Smerilli f.m.a. è dottoranda di
ricerca in economia presso l’Università La Sapienza di Roma, dipartimento di
Economia Pubblica. Luigino Bruni è ricercatore presso l’Università di
Milano-Bicocca, Dipartimento di Economia. Gli autori ringraziano Nicolò
Bellanca, Luca Crivelli, Fabio Gori, Benedetto Gui, Vittorio Pelligra e Luca
Zarri per utili suggerimenti e critiche a precedenti versioni. Perché è
così difficile cooperare (per l’economia)? L’idea di razionalità è dove sono
maggiormente concentrate le assunzioni della scienza economica circa il
comportamento umano, che potremmo anche chiamare antropologia filosofica, o
psicologia filosofica. La razionalità economica, non cerca, principalmente, di
descrivere il comportamento “quale è” nella realtà, ma piuttosto di individuare
dei criteri di comportamento ottimo, razionale appunto, che fanno in modo di
poter individuare tra i tanti comportamenti possibili quelli ottimizzanti –
anche se tra analisi descrittiva e normativa esiste poi uno stretto rapporto.
Le caratteristiche base dell’idea standard di razionalità economica, possono
essere sinteticamente enucleate guardando alle assunzioni, che restano spesso implicite,
del “gioco” più famoso utilizzato oggi in economia: il cosiddetto dilemma del
prigioniero. Esso, nell’ambito della teoria dei giochi1, è usato per mostrare
come la ricerca dell’individualistico tornaconto, in molte situazioni (in
particolare in quelle dove non è possibile stipulare un contratto vincolante
per le parti), non solo non porta al bene comune, ma neanche al bene privato
dei singoli individui. La logica che sottende il gioco è usata per spiegare
molti dei dilemmi dovuti all’assenza o al mal funzionamento dei mercati:
dall’inquinamento, alla congestione del traffico, alle difficoltà della co-operazione.
Il gioco rappresenta l’interazione tra due individui, che chiamiamo Romolo e
Remo, identici (hanno le stesse informazioni e la stessa struttura di
preferenze, i due elementi che fanno la diversità tra gli agenti economici –a
cui va aggiunto, nel caso di imprese, il potere di mercato). Romolo e Remo si
trovano a scegliere in una situazione ‘strategica’ di inter-dipendenza,
ciascuno sa di avere di fronte un soggetto identico a sé, con le stesse
preferenze, e *entrambi* conoscono la struttura del gioco (le ricompense, o
pay-off associati agli esiti, che dipendono dalle proprie azioni o muoti
conversazionali e da quelle dell’altro/i). Quali sono le preferenze? Per
restare nel concreto, pensiamo ad una situazione famigliare: la raccolta
differenziata dei rifiuti (ma il ragionamento, come si capirà immediatamente, è
di portata più universale). L’ordine di preferenze dei nostri due giocatori, e
in generale dell’homo oeconomicus standard che di norma l’economista ha in
mente quando descrive il mondo, sono le seguenti. Al primo posto Romolo ed Remo
– o Eurialo e Niso -- mettono: “l’altro fa la raccolta e io no”. A questo esito
del gioco associamo il punteggio massimo, diciamo 4 punti. Al secondo posto
“tutti la facciamo, me compreso” (3 punti). Al terzo “nessuno la fa” (2 punti).
Al quarto “solo io faccio la raccolta differenziata” (1 punti). La tabella e il
grafico sottostanti (che sono due modi diversi di rappresentare questa
situazione, rispettivamente in forma normale ed estesa) rappresentano sinteticamente
la struttura del gioco. La teoria dei giochi è oggi pervasiva nella teoria
economica. Essa è soprattutto un linguaggio che consente di rappresentare in
modo molto efficace interazioni (chiamate “giochi”) di tipo ‘strategico’, cioè
situazioni nelle quali i guadagni, non solo monetari (chiamati pay-off,
ricompense), dipendono dalla scelta dell’ altro soggetto o individuo inter-agente
con lui, e non solo dalla propria (deliberazione condivisa). La teoria dei
giochi ha oggi un campo di applicazione molto vasto, che va dalla collusione
tra imprese all’inquinamento, dalle scelte elettorali al rapporto
paziente-psicologo. Va notato che sebbene, per semplicità e per ragioni di
chiarezza espositiva, abbiamo assegnato pay-off numerici (ipotesi che verrà
eliminata nelle prossime sezioni), in realtà siamo all’interno di un orizzonte
di tipo ordinalistico. Di per sé i valori numerici non possiedono alcun
significato, e quello che conta è l’ordine delle preferenze individuali. Data
una tale struttura di preferenze, si dimostra facilmente che Eurialo e Niso, *se
sono razionali*, sceglieranno entrambi di *non* co-operare (non fare la
raccolta differenziata), ritrovandosi così al terzo livello di preferenza (con
due punti ciascuno: 2 punti per Eurialo, 2 punti per Niso), una situazione
“dominata” dalla co-operazione reciproca (fare tutti la raccolta), in cui
avrebbero ricevuto tre punti ciascuno (3, 3). Eurialo Co-opera Co-opera
3,3 1,4 Non co-opera Non co-opera 4,1 2,2. Nella rappresentazione in forma
estesa, gli esiti del gioco esprimono bene le caratteristiche base dell’idea di
soggetto che l’economia normalmente segue nel costruire i suoi modelli. Il suo
mondo ideale è quello in cui gode dei benefici (ad esempio un mondo non
inquinato) senza sostenerne i costi che preferisce trasferire sull’altro, se
può (separare i rifiuti, depositarli in raccoglitori diversi, ecc. ). Da qui il
dilemma. Si dimostra facilmente che, poiché si trova di fronte uno/a con la
stessa “razionalità” e preferenze, la soluzione del gioco è che entrambi Eurialo
e Niso si ritrovano al terzo livello dell’ordinamento di preferenze, cioè
nessuno fa la raccolta differenziata, quando invece ciascuno avrebbe preferito
che tutti la facessero (che infatti si trova al secondo posto). E la realtà
delle nostra città e del nostro pianeta ci dice quanto questi dilemmi siano
reali e urgenti, e quanto la scelta ‘sociale’ non si discoste poi tanto dal
modello astratto utilizzato dall’economia. Tutto ciò ci dice che la *soluzione*
del gioco, e gli esiti dilemmatici dipendono sostanzialmente da due ipotesi
base circa la razionalità. Primo, l’individualismo: ragionare esclusivamente
nei termini di “cosa è ottimo, o meglio, per me: mittente/recipiente”).
Secondo: lo strumentale (la bontà di una azione si misura sulla base della sua
capacità di essere un *mezzo* condizionale per ottimizzare i pay-off, non per
il suo valore categorico intrinseco. Date queste ipotesi, la non- [Nella
tabella i numeri (i pay-off) esprimono utilità, quindi il più è preferito al
meno. Il primo numero si riferisce a Niso, il secondo ad Eurialo. Nell’appendice
abbandoniamo i numeri e passiamo ad un caso più generale (dove i pay-off è
espresso in lettere, ordinate non in modo cardinale). Va aggiunto che non ogni
inter-azione rappresentabili come dilemma del prigioniero porta a risultati
dilemmatici e sub-ottimale a causa dell’antropologia sottostante. Si pensi, ad
esempio, agli [3 cooperazione (nessuno fa la raccolta) è un *equilibrio*
stabile del gioco (o equilibrio di Nash), dal quale nessuno dei giocatori ha
convenienza a spostarsi uni-lateralmente, a meno che non si sia capaci di
stipulare un *patto* vincolante. Se un patto vincolante non è possibile -- si
pensi alle interazioni quotidiane con numerosi agenti, come nel traffico
stradale -- o troppo costoso, *non* cooperare risulta la ‘strategia’ ottimale
per due ragioni. Prima se Eurialo suppone che Niso è azionale (individualista e
strumentale) allora se co-operassi avvierei Eurialo allo sfruttamento (1
punto).Se invece Eurialo ha buone ragioni per pensare che Niso *non* è razionale
o, come dice Dawkins, “ingenuo”, e che quindi si lasce sfruttare, Eurialo ha
una ragione in più per *non* cooperare. Otterrai infatti 4 punti. Quindi
l’esito dilemmatico è una combinazione di paura alla Hobbes e di opportunism. Se
va male Eurialo cade in piedi e non si lascia sfruttare. Se va bene Eurialo
prende tutto. Una razionalità puo essere con ricompense *non* materiali. In un
mondo fatto di due individui mossi da questa razionalità la co-operazione può
essere raggiunta solo quando siamo capaci di auto-vincolarci a delle regole non
opportunistiche, per un bene individuale maggiore. Io gratto la tua schiena, tu
gratti la mia. Questo principio è, in mille varianti, il tipo di co-operazione
che può emergere tra due soggetti razionali di questa maniere. Grice lo chiama
‘altruismo reciproco’ -- individuando un comportamento pro-sociale in tutte le
specie animali, dove però l’altruismo disinteressato non esiste, ma è solo
maschera di più sottili forme di egoismo (o amore proprio e non benevolenza). In
ogni caso la co-operazione è interamente condizionale e non un imperativo di
tipo kantiano. Eurialo aiuta Niso a condizione che Niso aiuta Eurialo e vice
versa. Viene comunque spontaneo chiedersi se negli esseri umani – o almeno due
filosofi oxoniensi -- ci sia qualcosa di diverso, in termini di socialità,
rispetto alle scimmie o alle formiche. Al di fuori di questi specifici casi nei
quali la co-operazione emerge, un atto che non punti a rendere massimo il
proprio interesse, di breve o di lungo periodo, è considerato *irrazionale* o
ingenuo, poiché si diventa pasto degli altri individui più aggressivi, che
cresceranno e prospereranno a spese degli ingenui. Forse molti degli atti di co-operazione
a cui assistiamo nella vita quotidiana possono trovare la loro spiegazione
sulla base di questo tipo di logica individualistica, strumentale, e condizionale.
Non tutti però. E’ infatti nostra convinzione che la convivenza civile, e le
dinamiche economiche conversazionale, conoscono anche altre forme di co-operazione,
che possono emergere sulla base di un ragionamento mosso da un tipo *diverso*
di razionalità non utilitaria ma assoluta. In quanto segue, cercheremo di
esplorare le implicazioni che scaturiscono dalla seguente domanda. Come cambia
il gioco della vita in comune se complichiamo la visione antropologica
sottostante i modelli economici? L’elemento di diversità (rispetto
all’approccio standard) che qui introduciamo, è la presenza di un valore *intrinseco*
categorico assoluto ingorghi stradali. Questi sono perfettamente
rappresentabili come dilemmi del prigioniero. Ma sarebbe impreciso definire gli
automobilisti che escono per andare a lavoro individualisti e strumentali. Ma
abbiamo a che fare con un problema di mancanza di co-ordinamento in una scelta
collettiva, che se vogliamo rimanda anch’esso a una dimensione ‘sociale’ (come
la capacità di addivenire a patti vincolanti), ma, antropologicamente, è meno
coinvolgente di casi dilemmatici che riguardano l’inquinamento o il rapporto
con il fisco. Questo per dire che la teoria dei giochi è un linguaggio che
trascende l’ambito economico e la sua tipica forma di razionalità; e infatti
essa è utilizzata anche per modelizzare agenti mossi da forme razionalità *non*
strumentali (come in parte fa Grice). (Dal nome del matematico che nei primi
anni cinquanta introdusse questa nozione di equilibrio stabile). Il fatto che
nella realtà concreta riusciamo a non cadere nel dilemma dipende dal fatto che
spesso riusciamo a disegnare patti o contratti vincolanti, con sanzioni. Grice
mostra che anche il richiamo di allarme che certi uccelli emettono per avvisare
il gruppo dell’arrivo di un predatore, a *rischio anche della propria vita*, è
il risultato di un calcolo egoista. L’uccello può più facilmente salvare la sua
vita se tutto lo stormo si sposta e non rimane isolato. -- associato a un
comportamento di gratuità, da cui discende la possibilità di sperimentare una
co-operazione, o reciprocità, non primariamente strumentale e condizionale, ma
assoluta, costitutiva dell’umano, e categorical. Questo agente economico
intende pertanto la reciprocità diversamente da come essa è usata oggi in
economia. Rispetta l’ambiente, paga le tasse o edifica la casa rispettando i
vincoli del piano regolatore (tutte faccende cooperative), ad esempio, perché
questi comportamenti sono per lei dei valori, perché le danno una ricompensa
intrinseca, e non solo strumentale (i vantaggi materiali della cooperazione,
che pure sperimenta). Questo diverso tipo di agente non è quindi puramente
consequenzialista e utilitario come invece è l’agente-individuo. Non valuta
cioè la bontà del muoto conversazionale solo sulla base della conseguenza che
tale muoto produce, ma tiene conto sia di una componente assiologica o
deontologica – non aletica --, legata al valore, sia di una componente procedurale,
più legata ai tipi di relazione all’interno delle quali il suo muoto si
sviluppa. Sa inoltre che il suo muto è pienamente *efficace* se anche l’altro
si comportano allo stesso modo (se reciprocano). Ma non condiziona il suo
comportamento a quello dell’altro (come invece farebbe l’homo
oeconomcus-individuo standard). Al tempo stesso, se l’altro si comportano sulla
base della stessa razionalità assiologica e dello stesso valore intrinseco,
allora egli soddisfa al massimo le sue preferenze, e anche il benessere sociale
aumenta. In base ad una tale struttura di valori, o cultura della reciprocità
gratuita, al primo posto dell’ordine di preferenze questo tipo di agente
economico non mette, diversamente dal tipo standard, “tutti co-operano tranne me”,
ma “tutti, me compreso, cooperiamo”, o doniamo. E questo perché il
comportamento in sé è parte integrante del suo sistema di valori. Al secondo
posto dell’ordine di preferenze pone: l’altro co-opera, io no. Al terzo posto: io
co-opero, l’altro no. Al quarto, nessuno co-opera. Per capire questi valori si
può partire dalla struttura di ricompense (i pay-off, cioè i numeri che
misurano le ricompense) del dilemma del prigioniero. Ma occorre aggiungere, o
sottrarre, ai pay-off materiali una componente intrinseca, sulla base della
teoria classica della felicità o calculo eudaimonico, o beatifico, nella quale
il comportamento buono in sé, o *virtuoso*, ha una ricompensa intrinseca. Così,
se un soggetto ha fatto propria questa cultura della reciprocità gratuita o,
per usare un’espressione più forte ma anche più corretta, della “comunione” (la
communita immune), quando Eurialo co-opera e la controparte, Niso, no (pensiamo
sempre all’esempio ambientale, o, se si vuole, ad un rapporto di amicizia), il
suo pay-off, materialmente uguale a 1 (come nel gioco standard), aumenta a
causa delle ricompensa intrinseca (che poniamo pari ad uno), attestandosi a 2.
Se Eurialo invece *non* coopera ma la controparte, Niso, sì, ecco allora che il
pay-off, pur essendo materialmente pari a 4, diminuisce a 3, perché si
inserisce una *sanzione* intrinseca. 4 – 1 = 3. Si pensi a chi, pur avendo
fatto propria la cultura della reciprocità, in un certo muoto non è coerente
perché non riesce a vincere la tentazione del vantaggio materiale. La sua
soddisfazione è comunque minore a causa della sanzione intrinseca, che potremmo
chiamare anche insoddisfazione o senso di colpa o vizio. Il mondo peggiore
(pay-off = 1) è quello in cui ciascuno è chiuso in se stesso. Qui il pay-off è
1 perché si parte da quello materiale (2) e gli si sottrae il valore intrinseco
(2 – 1 = 1). Il mondo migliore è invece la *reciprocità*, un incontro mutuo di
gratuità: (4), il pay-off materiale della co-operazione (3) più la componente
intrinseca della gratuità. Sui vari usi della categoria di reciprocità nella
teoria economica, cf. Crivelli. Questo ordine di preferenze dipende
dall’ipotesi che la componente intrinseca dei pay-off sia costante e pari ad
uno. Un’analisi più approfondita dovrebbe studiare i casi quando la motivazione
intrinseca è maggiore, minore o uguale alla componente materiale. Non è da
escludere, ad esempio, che all’aumentare di quest’ultimo dovrebbe aumentare la
tentazione di tralasciare gli aspetti intrinseci. Se fare, ad esempio, la
raccolta differenziata diventa estremamente costoso e laborioso, il numero di
quelli, anche bene intenzionati, che la faranno diminuirà. Inoltre, una tale
analisi ammette la possibilità di confronti -- La componente intrinseca
dell’azione è legata alla teoria classica della felicità o calculo
eudemonistico di Bentham. La felicità, essendo il risultato di una vita
virtuosa, è fuori dalla logica strumentale. La virtù è praticata perché ha un
valore intrinseco, non per un calcolo machiavelico strumentale costi/benefici.
La virtù, in particolare quella civica, ha bisogno di reciprocità perché porti
ad una vita sociale pianamente realizzata, ma non può pretenderla, solo
attenderla dalla libertà dell’altro. Ecco perché dagli antichi fino ad oggi
alla felicità è associato un elemento *paradossale*. La feicita ha bisogno di
reciprocità, ma solo la gratuità può suscitarla senza pretenderla. Un “gioco di
reciprocità” (intesa nella maniera appena detta), che rimane sempre del tipo
dilemma del prigioniero, può essere dunque rappresentato come segue: Eurialo Dona
Non-Dona Dona 4,4 2,3 Non-Dona 3,2 1,1 Rappresentiamo anche questo
gioco in forma estesa. Dalla tabella, o dall’albero decisionale, si nota che se
i due giocatori hanno questa stessa struttura di preferenze, l’unico esito
stabile del gioco o equilibrio di Nash, dal quale cioè nessuno è incentivato a
spostarsi, è “dona-dona”. Quindi per interpersonali di utilità, cosa peraltro
non inusuale quando l’utilità attesa si calcola con la funzione di Von Neumann
Morgernstern. Per un’analisi approfondita dei pay-off psicologici cf. Pelligra.
Sul paradosso della felicità cf. Bruni. Il modello che può essere considerato
il capostipite dei giochi del tipo gioco di reciprocità è quello introdotto da
Sen -- questi giocatori-persone donare (o co-operare) è ‘strategia’
strettamente dominante, e l’unico equilibrio stabile del gioco è la reciprocità
o la *comunione*: dona/dona. Cosa ci suggerisce questo gioco, pur nella sua
estrema semplicità? Se sono un soggetto che ha questi valori non ho alternative
a cooperare: gli altri possono rispondere o meno, e quindi il mio
benessere/felicità è incerto (stando al gioco precedente, posso ottenere in
termini materiali 2 o 4 punti): ciononostante per me l’unica possibilità,
l’unica azione razionale, è cooperare, o come abbiamo detto, donare. Così, per
fare un esempio, se sono alle prese con un fornitore difficile, non ho
alternative al donare. Potrò trovare reciprocità o no, ma in ogni caso
l’alternativa, ‘non-dona’ – che, nella pratica, significherà ogni volta
qualcosa di diverso – è per me la peggiore (perché è sempre dominata dalla co-operazione)
a causa della ricompensa (sanzione) intrinseca. E’ questo un soggetto che per
alcune scelte non calcola i costi e i benefici. Che senso ha fare la raccolta
differenziata se solo io la faccio. Ma agisce sulla base di un valore, o di una
norma etica interiorizzata. Ciò spiega, tra l’altro, perché in certe società
l’ecologia o il rispetto delle norme civili sono messe in pratica anche in
contesti nei quali sarebbe razionale (nel senso standard) non farlo: iclassico
fazzoletto di carta buttato fuori dal finestrino quando nessuno ci osserva, e
quindi nessuna sanzione può essere applicata. D’altro canto, davanti a queste
nostre considerazioni qualcuno potrebbe obiettare. Ma se ipotizzate che gli
individui traggano soddisfazione dal muoto conversazionale stesso, diventa
banale spiegare l’emergere (dalla perspettiva della psicologia filosofica) della
co-operazione. In effetti l’idea è semplice. Ma ci auguriamo non banale, ma
bizarra. In particolare, gli aspetti più interessanti intervengono quando
pensiamo che nel mondo reale, nel mercato in particolare, non sappiamo
normalmente con chi stiamo giocando, se abbiamo cioè di fronte un soggetto del
primo tipo o uno del secondo. E qui entriamo in quello che possiamo chiamare il
“paradosso della reciprocità” o della comunione, che possiamo sviluppare
sinteticamente come segue, mettendo assieme i vari pezzi fin qui costruiti. Una
vita buona ha bisogno di reciprocità genuine. La reciprocità genuina però non
viene suscitata se la logica che ci muove è primariamente strumentale. La
risposta dell’altro, la reciprocità, non possiamo pretenderla, ma solo *attenderla*
dalla libertà dell’altro. Co-operare porta quindi a due esiti diversi (indicati
con 2 o 4) in base alla risposta o non risposta dell’altro. Per comprendere
questi risultati, si consideri che ognuno sa che l’altro ha di fronte due
possibili scelte: donare e non donare, e, date le loro preferenze, qualunque
scelta faccia l’altro per ciascuno è preferibile donare -- considerando anche
il pay-off intrinseco. Se infatti l’altro giocatore (Eurialo) sceglie “donare”
i punti di Niso sono 4 (mentre la mossa “non-dona” avrebbe portato solo 2
punti); e anche se Eurialo scegliesse “non donare”, Niso preferisce sempre
“donare” che gli dà 2 punti invece di 1 (che è il pay-off di “non-dona/non-dona”).
Può valere la pena specificare che qui con “donare” non si intende l’altruismo
o la filantropia -- che possono restare atti individualisti. Donare è sinonimo
di ciò che la cultura greco-romana chiama “amore”, e cioè un atto gratuito ma
che ha sempre di mira la *reciprocità*, il rapporto personale con l’altro
(amore-amicizia). Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo che più che di una
diversa forma di razionalità in questo caso siamo in presenza di un soggetto
che ha solo preferenze diverse, ma la cui razionalità resta quella standard
strumentale, perché in fondo anche lui massimizza la propria utilità. Noi
preferiamo pensare che una persona che agisce mossa da motivazioni intrinseche
sia più efficacemente rappresentabile da una forma di razionalità che Grice chiamava
“rispetto ai valori” o assiologica che non dalla classica razionalità
strumentale, che si caratterizza proprio per il suo essere tutta basata sul
calcolo utilitario.Qui infatti nostri soggetti co-operativi fano la scelta non
sulla base di un calcolo, ma per un valore. È ovvio che esiste una circolarità tra
motivazioni intrinseche e il comportamento dell’altro -- su questo cf. Bruni e
Pelligra. Per questo la vita in comune è fragile, come anche i filosofi – da
Aristotele in poi - ci insegnano, perché essa dipende dalla risposta dell’altro
– l’amore di Eurialo e reciprocato dall’amore di Niso e vice versa. Quale
evoluzione? Facciamo ora un passo avanti, e ci domandiamo cosa succede quando
soggetti standard e soggetti non standard (il secondo tipo che abbiamo appena
descritto) interagiscono tra di loro. Sono situazioni che Grice studia. Sono
ormai numerosi i modelli con un agenti altruistico che interage con un agenti
auto-interessato. Qui ipotizziamo quattro casi, che, con diversi gradi di
astrazione, possono rappresentare alcune situazioni reali che vengono a
verificarsi quando l’interazione avviene tra soggetti diversi, perché mossi da
culture diverse. Utilizzeremo, allo scopo, i rudimenti della teoria dei giochi
evolutivi, nella sua forma più elementare, il cui elemento innovativo è
l’introduzione della componente immateriale del pay-off corrispondente alla
ricompensa intrinseca. Ipotizzeremo cioè i nostri giocatori immersi in un
ambiente abitato da popolazioni diverse, dapprima due, e poi tre. La teoria dei
giochi evolutivi utilizza lo stesso linguaggio, e in buona parte la stessa
metodologia, della *biologia* evolutiva. Tra più popolazioni esistenti in un
dato ambiente, nel tempo sopravvive quella che ha la fitness – capacità di
adattamento – maggiore. Se due popolazioni hanno la stessa fitness sopravvivono
entrambe. Ma se una ha una fitness minore delle altre è destinata
all’estinzione, non nel senso biologico del termine (morte di tutti i soggetti
di quella specie), ma che quel comportamento non verrà riprodotto, e saranno
imitati i comportamenti vincenti. Il dibattito sull’applicazione di una tale
metodologia agli essere umani e alle loro popolazione è aperto, e controverso. In
quanto segue noi non intendiamo abbracciare la filosofia, né la metodologia,
dei giochi evolutivi. Riteniamo soltanto che il linguaggio dei giochi evolutivi
ci aiuti a mettere in luce dinamiche, che riteniamo reali, non facilmente
individuabili con linguaggi diversi. Il nostro è quindi un esperimento, che ci
piacerebbe, in futuro, portare avanti, mettendo a quel punto in questione
alcuni assiomi che nell’attuale teoria dei giochi evolutivi ci appaiono troppo
semplificati, come il concetto di fitness: semplificati, ma non inutili, come
speriamo di mostrare. Primo caso: Tipi 1 e Tipi 2, non riconoscibili Come primo
caso facciamo le seguenti ipotesi. Esistono solo due tipi tra loro non
riconoscibili. Chiameremo tipi 1 quelli standard, e tipi 2 quelli non-standard
o di reciprocità. Le ricompense intrinseche sono determinanti per la scelta
(che, come visto, fanno sì che per il tipo 2 sia sempre razionale, perché
strettamente dominante, “donare”). Ma per la sopravvivenza nel tempo di un tipo
di agente, la cosiddetta fitness (misurata -- La versione più semplice di tali
modelli si può trovare nel Manuale di microeconomia di R. Frank. Un testo classico
è quello di Axelrod, e un recente studio, basato su evidenza sperimentale, è quello
di Bowles. Un modello vicino a quello qui presentato è Sacco e Zamagni. Interessanti
considerazioni metodologiche si trovano in Crivelli. Vale la pena specificare
che mentre nella biologia evolutiva l’unità di selezione è il gene, in economia
l’unità di selezione è il comportamento; inoltre, mente in biologia la
trasmissione è ereditaria in economia essa avviene per imitazione. Sono i vari
comportamenti adottati e imitati che rendono un agente più efficiente di un
altro. Un contributo importante a questo riguardo è l’articolo The evolutionary
turn in game theory diSugden -- dal valore medio dei pay-off materiali),
contano solo i pay-off materiali, non i pay- off dovuti alla ricompensa
intrinseca. c. I pay-off materiali sono i seguenti. Coopera – coopera. Non
coopera – coopera. Coopera – non coopera. Non coopera – non coopera. Con a >
b> c> d. La probabilità di incontrare un tipo 1 è p1, mentre quella di
incontrare un tipo 2 è p2, dove, per la definizione di probabilità, p2 = 1- p1
In questo primo caso lo scenario non è roseo per i tipi 2. Si dimostra,
infatti, che a sopravvivere saranno solo i tipi 1, e questo risultato è
indipendente dalla percentuale di tipi 1 e 2 presente nella popolazione. Infatti,
anche se i tipi 2 fossero la quasi totalità (ex. 99%) dell’universo, sarebbero
destinati ugualmente all’estinzione perché sistematicamente sfruttati dagli
individui. SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI, SOPRAVVIVONO SOLO I TIPI 1, PER
OGNI VALORE DI p1 e p2. Se supponiamo un intervento ridistributivo dello stato
che preleva risorse dai tipi 1 per sostenere i tipi 2 (es. ciò che avviene
normalmente nei sistemi di stato sociale con le imprese sociali), il gap di
fitness si riduce, e in certi casi potrebbe essere nullo, consentendo così la
co-esistenza dei due tipi. Situazione diversa se ipotizziamo che i due tipi
siano, per l’esistenza di un qualche segnale, riconoscibili, e che il tipo 2
decida di interagire soltanto con i suoi simili. Aggiungiamo, quindi l’ipotesi. Rispetto ai
giochi delle prime due sessioni, ora ricorriamo esplicitamente a pay-off
ordinali, dove la sola condizione rilevante nella misurazione dei pay-off è il
loro ordine, e cioè che a sia maggiore di b, b di c e c di d. Indichiamo con Fi
la fitness dei tipi 1, e con Fp la fitness dei tipi 2. F1 = p1c + p2a F1 = p1c +
(1-p1)a F2 = p1d + (1-p1)b. La tesi F1>F2 equivale quindi a: p1(b-a) +
p1(c-d) > b-a, per p1 = 0 la disuguaglianza diventa a>b ed è quindi vera
per p1 = 1 la disugualglianza diventa c>d ed è quindi vera osservo che ∀ valore di p1∈ (0, 1), p1(c-d) >0 p1(b-a) > b-a,
perché b-a è minore di zero, quindi: F1>F2 ∀ valore di p1∈ [0, 1].
È possibile inoltre dimostrare che, per tutti I giochi di questo tipo, quale
che sia la posizione iniziale di partenza, l’unico equilibrio evolutivamente
stabile verso cui si converge nel tempo è quello che prevede l’estinzione di
una delle popolazioni, nel nostro caso dei tipi 2. 9 e. i tipi sono
riconoscibili e l’interazione è selettiva (il tipo 2 gioca solo con i simili).
Se la riconoscibilità è perfetta (cioè la probabilità di simulazione è nulla),
si dimostra facilmente che sarebbero i tipi 2 a sopra-vivere. Infatti, in questo
caso vale il Risultato. SE IPOTIZZIAMO PERFETTA RICONOSCIBILITÀ DEI TIPI, SI
ESTINGUONO I TIPI 1. Questo secondo risultato ci dice già qualcosa
d’importante. La riconoscibilità, anche quando non perfetta (come nella realtà
normalmente avviene), aumenta la fitness dei tipi 2. Ciò spiega, ad esempio,
l’emergere del fenomeno della “rete”, una realtà tipica dell’economia sociale.
Le varie componenti ed espressioni dell’economia sociale tendono infatti a
cercarsi e scegliersi l’un l’altra: reti di imprese, reti di consumatori che
insieme preferiscono le imprese sociali, reti di imprese (si pensi ai consorzi
di co-operative, di veri livelli), risparmiatori e consumatori (il fenomeno
delle banche etiche e della finanza etica). Nella realtà, però, supposto che un
agente 2 voglia evitare di interagire con i tipi 1 (cosa da non dare per
scontata), la perfetta riconoscibilità o la simulazione nulla sono comunque
altamente irrealistiche (sono troppi i soggetti con i quali un’impresa e anche
una persone interagisce: lavoratori, finanziatori, concorrenti, fornitori,
consumatori...). E’ quindi necessario ricorrere ad altre ipotesi per
giustificare teoricamente lo sviluppo delle imprese sociali nel tempo. E’
quanto di cerca di fare negli altri due casi. Introduciamo ora un *terzo* tipo
che si aggiunge ai due precedenti. Potremmo chiamarlo ‘civile’ o griceiano. Ipotizziamo
che: f. il tipo 3 gioca una strategia “colpo su colpo”, una strategia
intermedia (rispetto alle altre due più “radicali” dei tipi 1 e 2, che,
rispettivamente, co-operano mai e sempre), che lo fa co-operare con chi
coopera, e *non* cooperare con chi *non* coopera. Quest’ultimo co-opera quindi
con chi coopera, e *non* co-opera con chi *non* co-opera. Il tipo civile o
griceiano, non attribuendo un valore intrinseco (o attribuendogliene uno troppo
basso) all’azione donativa, *non* ha “cooperare!” o “cooperiamo!” come ‘strategia’
*dominante*. La strategia dominante e “Siamo razionali”. Ma se ha di fronte un
tipo 2, pur riconoscendolo, non lo sfrutta preferendo reciprocare. E’ un 21 La
correlazione esclusiva tra tipi può avvenire per almeno due ragioni: o perché
l’agente sceglie il tipo preferito che viene riconosciuto attraverso un segnale
(che deve essere affidabile), oppure perché si trova in un cluster, cioè in
un’area nella quale si trovano soltanto soggettio dello stesso tipo – pensiamo,
ad esempio, ad una comunità locale come il gruppo maschile della sub-faculta di
filosofia a Oxford, dove la probabilità che un agente si trovi ad interagire
con uno “like- minded” è altissima, ed è indirettamente proporzionale al numero
di forestieri – non filosofi non oxoniensi -- presenti in quella comunità. In
questa situazione, i casi interessanti si trovano sui confini, dove la
probabilità di interazioni miste aumenta (pensiamo agli effetti
dell’introduzione di pratiche e comportamenti nuovi da parte del gruppo
femminile, di missionari o di emigranti da Cambridge). Il segnale, inoltre, per
essere efficace dovrebbe essere troppo costoso da imitare da parte dei tipi 1,
come l’adesione ad un codice o procedimento di comportamento o ad una struttura
di valori molto forte (come nelle botteghe del commercio equo e *solidale*, o
nelle imprese di Economia di Comunione). Con riconoscibilità perfetta, la
probabilità di incontrare un tipo simile è 1, mentre la probabilità di
incontrare uno diverso è 0. Quindi F1 =(0(a) + 1(c))=c, mentre F2 = (0(d) +
1(b)) = b, quindi: F2 > F1. Rispetto a quella classica, questa versione di
colpo su colpo è modificata, poiché non inizia sempre con un muoto di
cooperazione, e poi il gioco non è ripetuto -- soggetto leale, che per questo chiamiamo
“civile” o griceiano. Si ipotizza quindi l’esistenza di un segnale,
utilizzabile solo dal tipo civile o griceiano, che gli permette di discriminare
perfettamente tra i tre tipi che ha di fronte. Si ipotizza quindi che le altre
due imprese non possono, o non vogliono, utilizzare quel segnale (pensiamo, ad
esempio, a chi pur sapendo di rischiare entrando in un ambiente molto opportunistico,
rifiuti l’idea della nicchia e accetti di scendere in campo, non utilizzando quindi
il segnale di riconoscibilità. Cosa succede in questo caso? Innanzitutto è
possibile vedere come la fitness del terzo tipo è sempre maggiore di quella del
tipo 2. Infatti vale il risultato. SE E SOLO SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI
(a. – d., f.) SI HA: F3 > F2 ∀ VALORE
DI a, b, c, d, ∀ VALORE
DI p1, p2, p3. Un secondo aspetto che emerge, è che l’evenienza che la fitness
dei tipi 2 possa risultare maggiore di quella degli 1 dipende dalla percentuale
di tipi 3 civili griceiani presente nella popolazione. Più quest’ultima è alta,
maggiore è la fitness dei tipi 2 e minore quella dei tipi 1. Qui per semplicità
supponiamo che gli scarti tra i pay-off siano uguali tr aloro, cio è che sia: (a–b)
= (b–c) = (c–d). Tali scarti possono essere visti, rispettivamente, come
vantaggio dello sfruttamento, premio della cooperazione e costo della coerenza.
Anche nell’esempio numerico precedente tali scarti sono uguali (tutti pari ad
1). Con queste semplificazioni, vale il seguente risultato. SE VALGONO LE IPOTESI
a.–d., f., g., F2>F1 SE E SOLO SE p +p <p. Il risultato ci dice ancora
qualcosa d’importante. La sopra-vivenza dei tipi 2 dipende anche
dall’esistenza, e dal numero, degli agenti del terzo tipo, cioè di soggetti
che, pur *non* attribuendo un valore intrinseco ma derivato dalla razionalita
generale all’azione del co-operare o donare non “sfruttano” il muoto co-operativo
(come fa invece il tipo 1), ma reciprocano. Rispondono alla co-operazione. Per
questo denominare questi tipi “civili”. Questo risultato può essere utilizzato
anche a sostegno del ruolo della cultura civile – la conversazione civile – la
civil conversazione del rinascimento italiano popolarizzato in tutta Europa. La
sopra-vivenza e lo sviluppo di imprese e un soggetto più radicali, come i tipi 2,
dipendono anche dalla “cultura civile” presente nell’ambiente dentro il quale
operano. Di qui l’importanza duplice della diffusione della “cultura”, alla
quale le imprese sociali non possono non attribuire grande importanza. Le
imprese dell’EdC, ad esempio, dedicano un terzo dei propri utili alla
formazione alla *cultura del dare*. Da una parte la cultura re-inforza le
motivazioni intrinseche dei tipi 2, e dall’altra contribuisce ad aumentare e
rafforzare il senso civico e la cultura della co-operazione dalla quale,
indirettamente, dipende anche la loro sopra-vivenza e il loro sviluppo. Supponiamo,
per assurdo, che la tesi non sia vera: Dovrà essere: F3 ≤ F2 => p1c + p2b + p3 b ≤ p1d + p2b + p3b = > p1c ≤ p1d,
disuguaglianza che non e’ mai verificata essendo, per ipotesi, c>d. p1d +
p2b + p3b > p1c + p2 a + p3c ⇔ p1 (d
− c) + p2 (b − a) + p3 (b − c) > 0;<=> p1(c−d) + p2(a−b )< p3(b−c) ⇔ p1+p2 <p3. Altra implicazione
del risultato è il prendere coscienza che affinché i tipi 2 possano svilupparsi,
i tipi civili debbono essere abbastanza numerosi. In particolare, si dimostra che
la fitness dei tipi 3 è maggiore di quella dei tipi 1 se e solo se i tipi 3
sono in numero maggiore dei tipi 2. Ipotizzando, come nei risultati precedenti,
l’uguaglianza tra gli scarti, abbiamo un altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI
DEL LEMMA, F3>F1 SE E SOLO SE P2<P3. Rappresentiamo le due fitness nello
spazio delle fitness e di p2. 0 P2* 1 P2 F1, F3. Da questo emergono due ordini
di considerazioni. Il valore soglia di P2 (P2*) oltre il quale F3 diventa
minore di F1 dipende dalle pendenze delle due rette, rispettivamente a per F1 e
b per F3: (a – b) misura infatti il vantaggio che i tipi 1 hanno rispetto ai 3
per la presenza dei tipi 2 che sfruttano. Quindi minore è questo vantaggio,
maggiore è la quota di tipi 2 che i tipi 3 possono tollerare Se a=b le due
rette sarebbero parallele. Si nota che i tipi 3 perdono fitness con l’aumento
dei tipi 2, e la differenza di fitness massima si ottiene in corrispondenza di
P2 = 0. E’ il meccanismo che potremmo chiamare i figli delle rivoluzioni che
uccidono i padri, perché li considerano troppo radicali, come i francescani di
seconda generazione che rimossero Francesco dal governo dell’ordine, perché con
il suo radicalismo impediva – a loro dire – lo sviluppo del francescanesimo più
moderato e minacciava la morte stessa del movimento. Nell’ultimo scenario,
ipotizziamo che la motivazione intrinseca, la componente non materiale dei
pay-off, possa avere un effetto non solo sulla scelta ma anche sulla fitness.
Finora non abbiamo fatto ciò per un senso di realismo. Eurialo puo persuadersi a
vivere nella piena correttezza verso Niso perché attribuisce a tale
comportamento un valore intrinseco. Se però poi non arrivano i risultati
economici, se ho -- F3 >F1 <=> p1c +p2b + p3b > p1c + p2a + p3c <=> p2pb +
p3b > p2pa + p3c <=> p2 (b-a) > p3 (c-b) <=> p2 (a-b) < p3
(b-c) p2 < p3. Il valore soglia P2* è pari a P3, come sappiamo dal
risultato. F1 F3 -- ad esempio
costi troppo elevati, la fitness di Eurialo ne risente. Ora però abbandoniamo
questa semplificazione, e ipotizziamo che la fitness sia influenzata anche
dalle motivazioni. Alcuni esperimenti dimostrano come i comportamenti ispirati
da motivazioni intrinseche e da logiche di gratuità, oltre a non avere buoni
sostituti - nel senso che in tali casi altre forme di incentivi monetari non
funzionano - portano anche una maggiore efficienza in termini di risultati.
Perché quindi non ipotizzare una fitness influenzata anche dalle motivazioni
intrinseche? Le fitness del primo e del terzo tipo restano le stesse (questi
due tipi non hanno motivazioni intrinseche), mentre cambia quella del tipo 2,
dove la motivazione intrinseca è rappresentata da un ε > 0,29 che viene
aggiunto ai pay-off materiali. Le fitness dei tre tipi diventano perciò le
seguenti: h. F1 =p1(c) + p2 (a) + p3 (c) F2 =p1 (d) + p2 (b) + p3(b) + ε F3 = p1
(c) + p2 (b )+ p3 (b). Si dimostra che è possibile che la fitness dei tipi 2
sia maggiore anche di quella dei tipi 3. Vale infatti il: Risultato. SE VALGONO
LE IPOTESI a. – d., f., h.: 1. F 2≥ F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)31E
2. F2 ≥ F1, SE E SOLO SE ε≥ P1(C–D) + P2(A–B) + P3(C-B). C’è un rapporto
diretto tra ε e (c –d) dove (c – d) misura il costo della coerenza per la
fitness dei tipi 2, poiché è quanto questi perdono per essere coerenti con la
loro cultura ottenendo “d” quando interagiscono con i tipi 1, invece di
giocare, come i tipi 3, *non* coopera, ottenendo così “c”, che è maggiore di
“d”. Il valore più piccolo che può assumere ε (cioè l’effetto materiale delle
motivazioni intrinseche) affinché valga la disuguaglianza F2>F3, è ε* = p1
(c – d). Possiamo quindi osservare che, maggiore è il costo della coerenza (c –
d), maggiore dovrà essere il valore-soglia ε*. Inoltre, c’è un rapporto diretto
anche tra ε* e p1: se i tipi 1 sono, relativamente, molto numerosi, allora ε*
dovrà essere più alto (e viceversa in caso contrario). Pensiamo, per fare un
esempio, ad una impresa di Economia di Comunione che nel campo della legalità
si comporta come un tipo 2. Paga le tasse, rispetta le leggi, per una norma
etica alla quale attribuisce un valore intrinseco, non strumentale. Un tale
imprenditore se opera in un mercato nel quale il costo della coerenza è molto
alto o i soggetti opportunistici sono relativamente molti, per non estinguersi
dovrà fare in modo che le proprie motivazioni etiche si traducano in maggiore
fitness in una misura relativamente maggiore rispetto allo stesso imprenditore
operante in un mercato più civile e dove i soggetti opportunisti sono meno. Come
a dire che più un mercato, e una -- Rustichini e Gneezy -- A rigore potrebbe
anche essere minore di 0. -- Ipotizziamo quindi che solo i tipi 2 e non i 3
“civili” abbiamo motivazioni intrinseche. F2 ≥F3 ⇔p1(d) + p2(b) + p3(b) + ε>p1c + p2b + p3b⇔ ε ≥ p1(c−d). F ≥ F⇔p(d) + p(b) + p(b) + ε≥p(c) + p(a)+p(c)⇔ 21123123 ε ≥ p1(c−d)+ p2(a−b)+
p3(c−b) -- società, premia i “furbi” (con condoni, ecc.) e penalizza i tipi
cooperativi (con leggi che non riconoscono sgravi fiscali per le imprese
sociale, ad esempio), più questi ultimi dovranno far sì che le motivazioni
etiche si riflettano in maggiore efficienza, altrimenti non sopravvivono.
Affinché valga invece la seconda disuguaglianza, F2 ≥ F1, il valore-soglia di
ε, che chiameremo “ε ̊”, dovrà essere: ε ̊ = P1(C – D) + P2(A – B) + P3(C- B).
E quale il rapporto tra i tipi 3 e i tipi 1? SE VALGONO LE IPOTESI DEL
RISULTATO 4.1, F3 > F1, SE E SOLO SE P2 < P3 (b − c). (a − b) Come
interpretare questo? (b – c) è il vantaggio dei tipi 3 rispetto ai tipi 1 (solo
i tipi 3 co-operano con i tipi 2 ottenendo “b”), possiamo quindi chiamarlo il
premio della cooperazione, mentre (a – b) è il vantaggio dei tipi 1 rispetto ai
3, perché è il premio dello sfruttamento che gli standard ottengono nei
confronti dei tipi 2, al quale invece i tipi civili rinunciano. Dal Risultato
4.2. emerge un’affermazione a prima vista inquietante: affinché si affermino i
tipi 3 (sui tipi 1) sarà necessario che i tipi 2 non siano troppi; in ogni caso
questi ultimi potranno essere tanto più numerosi quanto più il “premio della
cooperazione” sovrasta il “premio dello sfruttamento”. Se infatti i tipi 2 sono
numerosi essi diventano pasto per i tipi 1, che hanno così un vantaggio
relativo sui tipi civili. Il risultato potrebbe, infine, essere ulteriormente
rafforzato se che quando un tipo 2 incontra un altro tipo 2 ottiene un di più dovuto
alla reciprocità (il pay-off diventerebbe in questo caso a). i. F2=P1
(d)+P2(a)+P3(b)+ε La fitness dei tipi 2 potrebbe così essere maggiore di quella
dei tipi 3 e 1 con un ε anche minore rispetto al valore di altro risultato. SE
VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1 E L’IPOTESI i. 1. F2≥F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)+P2(B–A)
E 2. F2≥F1, SE E SOLO SE ε≥P1(C–D)+P3(C-B). “ε**” e il valore soglia di ε,
affinché valga la disuguaglianza F2≥F3 e, ricordando che la quantità (b – a) è
negativa, possiamo subito notare che ε**≤ ε*. Similmente, ε ̊ ̊ = p1 (c – d) + p3(c –b) è minore di ε ̊. Le
motivazioni intrinseche e il di più della reciprocità si rafforzano a vicenda e
rappresentano una strada molto interessante per esplorazioni. F<F⇔ p(c)+p(a)+p(c)<pc+b+pb⇔p<p(b−c). 1312312323(a−b). F2 ≥F3 ⇔p1(d)+p2(a)+p3(b)+ε≥p1c +p2b + p3b⇔ ε ≥ p1(c−d)+ p2(b−a). F ≥F⇔p(d)+p(a)+p(b)+ε≥p(c)+p(a)+p(c)⇔ 21123123ε ≥ p1(c−d)+ p3(c−b). Riassumiamo i punti ai quali siamo giunti
ragionando, con l’aiuto della teoria dei giochi, attorno alle prospettive e
alle sfide di uno scenario economico nel quale fanno la loro comparsa soggetti
diversi da quello standard. Un primo punto emerso in diverse parti di questo
scritto è che un agire economico improntato alla gratuità e alla reciprocità, o
alla comunione, in un ambiente abitato da agenti eterogenei non cresce con la
politica dell’aumento numerico: escludendo l’ipotesi di perfetta riconoscibilità
dei tipi, l’aumento numerico, di per sé non basta a far sì che i tipi 2
sopravvivano. Sono invece tre gli aspetti strategicamente cruciali affinché
esperienze rette da una logica come quella delineata possano svilupparsi. Lavorare
sulla cultura media della società (che noi abbiamo espresso con il “terzo
tipo”, quello civile): il messaggio che emerge una volta che abbiamo esteso la
dinamica ai terzi tipi è che i tipi 2 possono sopravvivere e svilupparsi
soltanto all’interno di un’economia civile, un’economia nella quale sono
numerosi gli agenti leali, che pur non attribuendo un alto valore intrinseco
all’azione donativa (e quindi non hanno “donare” come strategia strettamente
dominante in tutti i tipi di gioco), sono comunque corretti se incontrano un
agente co-operativo, non lo sfruttano e co-operano con esso. Poiché le
motivazioni intrinseche dipendono in parte dall’approvazione sociale, esiste un
effetto di complementarietà strategica. Tanto più tali comportamenti sono
diffusi, tanto più saranno premianti36. Infatti, uno sviluppo interessante del
modello potrebbe essere quello di vedere sotto quali condizioni i tipi 1
possono trasformarsi evolutivamente in tipi civili, ma in questo scritto non lo
abbiamo fatto. Va comunque aggiunto che se è vero che un impegno culturale che
si limita a rafforzare le motivazioni intrinseche dei soggetti di tipo 2 non
può bastare, al tempo stesso, però, questa seconda direzione ricopre un ruolo
fondamentale, per evitare che nel tempo scompaia il tipo 2 e ci si assesti sul
terzo tipo. Un mondo senza soggetti che, *almeno in certi contesti* -- ceteris
paribus --, *donano* *incondizionalmente*, sarebbe un mondo più povero. La
presenza dei due tipi civili e griceiani – Eurialo e Niso -- ci dice che nel
tempo saranno questi ultimi gli unici a sopravvivere, a meno che le motivazioni
intrinseche si riflettano nei pay-off ed il loro “riflesso” sia relativamente
grande. Questo risultato è già di per sé significativo. Anche se in determinati
contesti la motivazione intrinseca non riesce a migliorare la performance dei
tipi 2, la presenza, magari solo transitoria, dei tipi 2 svolge un importante
ruolo civile e culturale: permette cioè che l’incontro (o equilibrio) si
assesti sulla reciprocità e non scivoli nella mutua diffidenza. Senza l’esistenza
dei tipi 2, o, paradossalmente, senza il loro sacrificio, i tipi civili non
avrebbero potuto sperimentare la reciprocità, perché in un mondo popolato solo
da loro e da tipi standard, l’unica esperienza possibile è la diffidenza
reciproca, la *non* cooperazione (war is war). Ciò serve a gettar luce sul
significato culturale e civile che nella storia hanno esperienze radicali -- Ciò
implica la possibilità di equilibri multipli ordinabili, cioè la stessa
popolazione può essere altamente inefficiente o altamente efficiente a seconda
che un numero anche piccolo, al limite anche un solo soggetto, decida di
cooperare. 37 E’ infatti verosimile che i tipi 3, quelli civili, abbiano nel
loro “programma” la possibilità della cooperazione perché nell’ambiente esiste,
o è esistito, il tipo 2: certo si potrebbe teoricamente ipotizzare che i tipi 3
co-operino tra loro anche in assenza dei tipi 2. Ma, storicamente, la cultura
civile dell’umanità è andata avanti grazie all’esistenza di esperienze *totalitarie*
che hanno creato categorie nuove che poi hanno contaminato la cultura generale.
Pensiamo, ancora una volta, alla regola d’oro, o, più recentemente, ai movimenti
ecologisti -- come la comunione dei beni totale, certe forme di accademie o
monachesimo, e in generale i primi tempi dei fondatori di nuovi carismi (si
pensi, per tutti, ad un Francesco d’Assisi e alla sua vicenda storica. Simili
esperienze non sempre sono riuscite a sopra-vivere con tutta la loro
radicalità, ma senza di quelle chi è venuto in contatto con loro (nella nostra
metafora, i “tipi civili”) non avrebbero potuto elevare il livello della
convivenza Senza coloro che si sono fatti imprigionare, e hanno dato la vita
per i diritti o per la libertà, oggi l’umanità – il tipo umano personale di
Grice -- sarebbe meno libera e meno diritti sarebbero riconosciuti. Un po’ come
avviene con il sale, che si perde nella massa ma dà quel di più al tutto. La
metafora del sale non è però l’unica presente in quel codice della cultura
occidentale che è il Vangelo: vi è anche quella della città sul monte, una
città che illumina la città sotto monte. La dinamica evolutiva potrà condurre
l’economia sociale, e l’economia di comunione, o sul sentiero sale della terra
o in quello città sul monte. Ma, in entrambi i casi, occorre che la cultura
rafforzi le motivazioni intrinseche. E forse questo il messaggio culturale che
il giocco conversazionale griceiano vuole dare. Araujo, V.“Quale visione
dell’uomo e della società?”, in Bruni, L. e V. Moramarco (a cura di),
L’Economia di comunione: verso un agire economico a misura di persona, Milano:
Vita e Pensiero. Aristotele, Etica Nicomachea, Milano: Rusconi. Axelrod, R. The
evolution of cooperation, New York: Basic Books. Binmore, K. Game theory and
social contract, Cambridge Mass: MIT Press, Vol. II. Bowles, S. et al. In
Search of Homo Economicus: Behavioural Experiments in 15 Small Scales
Societies, American Economic Review, 91, Bruni, L. La felicità e gli altri,
Città Nuova, Roma. Bruni, L. e R. Sugden, Moral canals: trust and social
capital in the work of Hume, Smith and Genovesi, Economics and Philosophy,
Bruni L. e V. Pelligra, Economia come impegno civile, Roma: Città Nuova.
Crivelli, L. Quando l’homo oeconomicus diventa reciprocans”, in Bruni e
Pelligra. Dawkins, R. The selfish gene, Oxford University Press, Oxford. Frank,
R. Microeconomia, Milano: McGrow-Hill. Elster, J. The cement of society. A
study of social order, Cambridge: CUP. Gneezy, U. e A. Rustichini. A fine is a
price, Journal of Legal studies, January. Gui, B. Economic interactions as
encounters, mimeo, Università di Padova. Hollis, M. Trust within reason,
Cambridge: CUP. Nussbaum, M. C. The fragility of goodness: Luck and Ethics in
Greek tragedy and Philosophy, Cambridge: CUP. Pelligra, V. Fiducia r(el)azionale,
in Sacco P.L. e S. Zamagni. Putnam, R. Bowling Alone, New York: Simon e
Schuster. Sacco P.L. e S. Zamagni. Un approccio dinamico evolutivo all’alturismo”,
RISS, Sacco P.L. e S. Zamagni. Complessità relazionale e comportamento
economico, Bologna: Il Mulino. Sen, A. Isolation, assurance and the social rate
of discount”, Quarterly Journal of Economics. Sugden, R. The Evolutionary Turn
in Game Theory, Journal of Economic Methodology, Weibull, J. Evolutionary Game
Theory, Cambridge MA: MIT Press. Zanghì, G. Dio che è amore, Roma: Città Nuova.
Luigi
Alici. Keywords: reciproco, alici, amore proprio ed amore altrui, self-love and
other-love – il paradosso della reciprocita – eurialo e niso – noi –
condividere la deliberazione – eidolon – comunita, immunita, genovesi, il
canale morale, la fidanza e il capitale sociale in Genovesi. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Alici” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791690452/in/dateposted-public/
Grice ed Alighieri – filosofia italiana –
filosofia toscana – filosofia fiorentina – Luigi Speranza (Firenze). dante. Grice:
“Problem with having Alighieri as a philosopher is that rhyming is not usually
considered a priority – that’s why the old Romans like Lucrezio never had to
rhyme – you might say metre is essential to Parmenide and Lucrezio – and that
there is metre in my prose if not in endecasibili!” -- Grice: “This is
important for an Oxonian; since Sir Peter once told me that he made an effort
to understand Italian – ‘or Tuscan implicature,’ to be more precise – just to
be able to digest Inferno compleat with rhyme.’” Grice: “Must say that my
favourite Dante is ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate.”” Grice: “The
Italians, all being Renaissance men, love to catalogue as ‘philosopher’ those
whom the head of the Sub-Faculty of Philosophy at Oxford would NOT: Alighieri,
one of them!” Grice: “But then, a sport of Italian philosophers is to ramble on
“Pinocchio,” too!” -- “The Commedia and philosophy.” Liste di opere in Wiki. Refs.: “Philosophical references in Dante’s
Commedia.” v.17. Sevolemeguardare in LINGUAD'oco
ein LINGUA DI si, ec.e Pag.69. D’oco,ec.N o n giudico superfluo ildire alcuna
cosa su questa v.2. Massimamente quelli di LINGUA denominazione a,ncorchè ne
sia stato già parlato da altri. Era costume de'nostri antichi,volendo essi
denominare il linguaggio d 'una nazione, prendere il suo distintivo dalla
particel. la affermativa del volgare di quella gente. Per tanto la lin gua
Italiana si diceva la lingua del si, la Tedesca dell' io, la Franzese dell’oi,
la provenzale dell’hoc. Eco sì si va d a discorrendo dell'altre lingue.IlVarchịnel
TuoErcolano ac.335. facendosi interrogare dal Conte BaldaflarCastiglionesul
parti colare della lingua Italiana, con queste parole: Cbi la cbie mase
lalinguadelsi? risponde:seguiterebbeuna largbiffimodi. vifione,chehofa
dellelingue,nominandole daquellaparticella,
collaqualeaffermano,comeèlalinguad'hoc,chiamatada volgari lingua d'oca;
perciocchè hoc in quella lingua fignifica quanto væí nella Greca, e etiam ita
mella Lasina, & pelle soffre si; •perciò Dantedife: Ab Pifa, vitupero delle
gesti Del belpaese là, dove 'lsifuona. Ed avanti al Varchi Benvenuto da Imola
su questo medesimo luogo: Quiageneraliteromnisgens Italicautunturifto vulgari
sì; ubi Germani dicunt io, do aliqui Gallici dicunt oi, do aliqui Pedemontani
dicunt ol vel dic: leggo foc credendolo errore del copista nel M Ş. Laurenziano
Derivano tutte queste particelle dal latino, Il “si” nostro dal sico sic est,
eforse più interamenteda sicestbec, od al contrario da hoc eftfoc. L'altra di
queste voci fu presa da' provenzali, cioè l'hoc: e da questa fu non solamente illor
parlare denominato “lingua d'oco”, che vale a dire lingua dell'hoc. Ma il paese
ancora “Linguadoca”. e ne'tempi più
balli della latina lingua fu detto “Occitania”, ilqual paese non è altro che
l'antica Gallia Narbonensis. Lo io del Tedesco da illudbocest, ed in più
perfetta pronunzia “ja”, forse dall'”iam est”. Il Franzese ai, dall “hec illud
est”, che bene si ritrova nell'antico “ouill”, che adesso è diventato “oui”. Ed
in somma il piemontese ol, dall'istesso “hoc illud”. Sicché, a proposito del
passo di Dante, in lingua d’oco, e in lingua di sì, vuol dire in lingua
provenzale, ed in lingua Italiana. V. 24. concioffiacbè. l. conciosracofache.
Lingua, dal lat. 'lingua', voce usata in due signif. principal nel signif.
propr., per quell'organo mobilissimo del corpo anide che è posto nella bocca
ove si stende dall'osso joide fin dietro denti incisivi. Essa è la sede del
senso del gusto, serve alla funzione del succhiare, alla masticazione, alla
deglutizione, alla pronuncia delle parole, ed allo sputare.Varia molto nella
grandezza ha la forma d'una piramide, appianata dall'alto al basso, rotonda su
i suoi angoli, e terminata da certa punta ottusa che guarda ne davanti. E
'lingua' vale pure idioma, linguaggio, favella. Alighieri usa 'lingua' nei due
suoi signif. principali spesse volte nelle sue opere, nel secondo signif.
specialmente nel Vulg. El. Nella Div. Com. 'lingua' si trova 30 volte --19
nell'Inf.(II, 25; X1,72; IIV, XV, 87; XVII, 75; XVIII, 60,126; XXI, 137; XXII,
90; xxx,133; IITL 72, 89; XXVII, 18; XXVIII, 4, 101; xxx, 122; XXXI, 1; XXIII,
9, 1146; 3 volte nel Purg (vii, 17; XI, 98; xix,13) e 8 volte nel Par. 63; X1,
23; XVII, 87; XXIII, 55; XXVI, 124; XXVII,131; XXXIII,70,708). Sulle dottrine
d'Alighieri concernenti la lingua, cioè il linguaggio umano, conviene rimandare
al Vulg. El., specialmente al libro I di quest'opera. Si notino i seguenti usi.
Lingua, riferito a sete; Inf. xxx, 122. Trarre la lingua, per Spingerla fuori
della bocca; atto di SPREGIO; Inf. xvii, 75.-3. Mostrare ciò che puote una
lingua, per Condurre un idioma all'apice della sua perfezione; Purg. VII,
17.-4. Scernere nella lingua, le parole dette o scritte; Purg. XV, 87.-5. La
gloria della lingua, Il pregio d'un idioma, e la maestria dell'usarlo; Purg.
XI, 98.-6. Alighieri chiama la lingua italiana lingua di sì, la provenzale
lingua d'oc, la francese lingua d'oil;Vulg. El. 1, 8, 30 eseg.; cfr. Vit. N.
xxv, 24 e seg.-7. Concernente la lingua primitiva Alighieri esterna in diversi
tempi dee opinioni diverse. Secondo Vulg. El. I, 6, 29 e seg. la lingua dei
primi parenti fu parlata da tutti i loro discendenti sino alla edificazione
della torre di Babele, e dagli Ebrei anche dopo, onde la lingua primitiva fu
semplicemente l'ebraica. Invece secondo Par. XXVI, 124 e seg. la lingua
primitiva, parlata da Adamo, fu tutta spenta già prima della confusione
babilonica, non ha dunque che fare nè coll'ebraica nè con altre lingue.-8. Anche
in merito alla maggiore o minor nobiltà delle lingue latina e volgare Aligheri
muta opinione. Secondo Conv. I, 5, 76 e seg. il latino è più bello, più
virtuoso e più nobile del Volgare. Invece, secondo Vulg. El. 1, 1, il volgare
è più nobile del Latino. La seconda opinione è tutta propria d'Alighieri e
segna un progresso nello svolgimento del suo pensiero. La prima era l'opinione
dominante del tempo, accettata anche d'Alighieri, finchè i suoi studi lo
indussero a lasciarla. La
tèrra d’Occitania a gardat fin a aüra un immense patrimòni gropat simplament a
sa lenga, una lenga qu’es istaa la primiera, comà es ressauput, naissuá dal
latin, a èsser escrita, una lenga que vuèlh soventar, a donat vita a la
primiera literatura moderna europencha, quèla qu’a servit de model per totas
las autras lengas, qu’aviá trobat dau l’acomençament sa forma escrita, fòrça
unitaria. Es pas aicí lo luòc adont percorrer l’istòira de nòstra lenga
faça als colonialismes qu’an empachat la creacion d’una lenga e de istitucions
politicas unitarias mas la retrobaa unitarietat culturala de la tèrra occitana
en cèstos darrieri ans a fait creisser un’ideá, beleu un utopiá, quèla de una
Nacion, malaürament sença estat, de una Nacion culturala. Lo mot
Occitaniá, ben conoissut fin a la Rivolucion, a retrobat sa modernitat
geografica, istorica, lingüistica. Malaürosament nòstra lenga ilh es aüra,
apres mila ans, entren de se perdre, de se esvantar al solelh. Un procés qu’a
començat a partir dal segle XVI, quand nòstra tèrra occitana a perdut definitivament
son autonomiá. Quèlos que los expecialistas de la lenga noman gallicismes, an
começat penetrar en Occitaniá sobretot a partir de l’ordonança de
Villers-Cotterêts dal 15 d’aost dal 1539, quand lo francés es devengut lenga
uficiala de la lei e de l’administracion francesa. Eissubliaa la cultura
dal Meianatge, quèla, per se comprener, dals trobaires, la lenga occitana es
chaüta dins l’umbla condicion de, e zo dizo abó una paraula francésa, patois,
patés. Cèsta paraula la vòl dire parlar abó las pautas, abó los pès. Dins
las Valadas avem perdut la valor de la paraula patois e l’anobrem tranquilament
per dire que parlem a nòstra mòda, comà la se ditz dins tantas valadas. Mas lo
mot patois pòl indicar qualsevuèlhe parlar natural dal mond, sença donar una
precisa indicacion sus la lenga parlaa. Per aiquò Occitan es l’unica paraula
que pòl servir per nomar nòstra lenga, l’unica que rend justiça a mila ans
d’istòira. Pas mens de viatge sabem pas de adont arriba nòstre vocabolari,
quala istòira an nòstras paraulas. Comà bien sabon, la plus part dal
vocabolari es d’origina latina, comun a quasi totas las lengas romanzas.
Un’autra partiá dal vocabolari ven dal grec e decò aicí zo partagem abó las
autras lengas; un’autra encara nos ven de las lengas alemandas o germanicas, de
quèlos puèples qu’an envaít l’Imperi roman. Resta una fòrta presença de
paraulas que beleu nos venon de las lengas parlaas dins nòstros territòris
quand los romans sion arribats en çò nòstre: de lengas de sobstrat, que
normalment partatgem en lengas anarias, al es a dire d’ancianas lengas
mediterranèa comà lo ligure, l’etrusc o de lenga arias pre-latinas comà lo
gallic o la lenga celta. Comà la se pòl comprener sien drant a un tresaur
lexical en partiá ben conoissut, mas adont los trabalhs lexicologics abondan
pas e adont de ensemb lingüistic comà l’occitan alpec, nomat a son temps
vivarò-alpenc, reston mal conoissut. Comà a escrit Robert A. Geuljan dins
son Dictionnaire Etymologique de la Langue d’Oc, en ligna, l’occitan “est la seule
grande langue romane dépourvue d’un Dictionnaire Etymologique.
Volem pas de segur far concorrença al trabalh qu’es istat entrenat per lo
Prof. Geuljan, mas prepausar de trabalhs sus l’etimologiá de paraulas pas gaire
conoissuás de nòstra Valadas e de l’encemb occitano-alpenc per arribar, dins lo
temps, a la redaccion d’un Diccionari Etimologic de l’Occitan Alpenc. Pas
mens nòstre Diccionari Etimologic sarè bilengas, es a dire li aurè una partiá
entierament en lenga occitana e una traducion italiana. Escriure un Diccionari
sus nòstra lenga adont per chasca paraula la se dona la traduccion dins una
lenga diferenta de la nòstra me sembla una chausa que vai contra la lenga
meseima. Pensatz a un vocabolari de l’italian o dal francés o de un’autra
lenga adont la descripcion de la paraula siè dins un’autra lenga. Per
l’occitan pareis siè la nòrma. Lo Tresor dóu Felibrige de Mistral, lo
vocabolari de Alibert comà tuts los autri que sion istats realizats dins cèstos
ans donan la paraula en occitan, mas tota la descripcion, e pas mesquè la
traducion, dins un’autra lenga, o lo francés o l’italian. Per far un
autre exemple, plus recent, cito un grand trabalh de lexicografia comà quel de
Jusiana Ubaud, adont tota l’introduccion e la descripcion de l’òbra es en francés.
Perquè un’obra sus la lenga occitana deu èsser ilustraa en se servent
d’un’autra lenga? Cèstos diccionaris rintran dins la categoriá dals vocabolaris
“dialectals”; meseime los pauqui vocabolaris fait aicí dins las Valadas,
normalment de l’occitan local a l’italian, rintran dins aicèsta
categoriá. Los catalans non pas, nos mostran, abó sos Diccionaris, que se
pòion justament redigir de diccionaris completament en lenga sença la sugecion
d’un autra lenga, comà totas las autras lengas nacionalas. Per aiquò, en
cèst espaci, en cèsta rubrica, chercharem de esclarzir l’origina de certenas
paraulas, beleu pas gaire conoissuás, de nòstre vocabolari. ON
ritrovando io, che alcuno avanti me abbia della volgare eloquenzia niuna cosa
trattato. E vedendo questa cotal eloquenzia es sere veramente necessaria a
tutti; conciò sia che ad essa non solamente gli uomini, ma ancora le femine,
& i piccoli fanciulli, in quanto la natura permette, sisforzino pervenire:
e volendo al quanto lucidare la discrezione di coloro, i quali come ciechi
passeggiano per le piazze, e pensano spesse volte, le cose posteriori essere
anteriori; con loaiuto, che Dio cimanda dal cielo, ci sforzeremo di dar
giovamento al parlare delle genti volgari. Nè solamente l'acqua del nostro
ingegno a si fatta bevanda piglie ma remo, ma ancora pigliando, ovvero
compilando le cose migliori da gli altri, quelle con le nostre mescoleremo,
acciò che d'indi possiamo dar bere uno dolcissimo idromele. Ora perciò che
ciascuna dottrina deve non provare, aprire il suo suggetto,acciò si sappia che
co sa sia quella,ne la quale essa dimora,dico, che 'l Parlar Volgare chiamo
quello,nel quale i fanciulli sono assuefatti da gli assistenti, quan do
primieramente cominciano a distinguere le voci,o vero,come piùbrevemente sipuò
dire, ilVolgar Parlare affermo essere quello,ilquale senza altra regola,
imitando la balia, s'appren de.Ecci ancora un altro secondo parlare il quale i
romani chiamano “letteratura” (greco: grammatica). E questo se condario hanno
parimente i greci & altri, ma non tutti; perciò che pochi a l'abito di esso
pervengono; conciò sia che, se non per spazio di tempo & assiduità di
studio, si ponno pren dere le regole, e la dottrina di lui. Di questi dui
parlari adunque ilVolgare è più nobile,si perchè fu il primo che fosse da
l'umana gene razione usato, si eziandio perchè in esso tut to'lmondo
ragiona",avegna che in diversi vocaboli e diverse prolazioni sia diviso;
si a n cora per essere naturale a noi, essendo quel l'altro artificiale: e di
questo più nobile è la nostra intenzione di trattare. Il testo latino ha: ipsa
(locutione) perfruitur; ossia: di esso si serve. non dico nostro,perchè
altro parlar ci sia che quello dell'uomo; perciò che fra tutte le cose che
sono, solamente a l'uomo fu dato il parlare,sendo a lui necessario solo.Certo
non a gli angeli, non a gli animali inferiori fu ne cessario parlare; adunque
sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso. E la natura
certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente con
siderare la intenzione del parlar nostro,niun'al tra ce ne troveremo, che il
manifestare ad altri i concetti de la mente nostra.Avendo adunque gli angeli
prontissima, & ineffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire i loro
gloriosi concet ti, per la qual sufficienzia d'intelletto l'uno è totalmente
noto all'altro, o per sè, o almeno per quel fulgentissimo specchio,nel quale
tutti sono rappresentati bellissimi, & in cui avidis simi
sispecchiano;pertantopare,chediniuno segno di parlare abbiano avuto mestieri.Ma
chi opponesse a questo, allegando quei spi riti, che cascarono dal cielo; a
tale opposi zione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi
trattiamo di quelle cose, che Sono Che l'uomo solo ha il comercio del
parlare. Uesto è il nostro vero e primo parlare: Q a bene essere, devemo essi
lasciar da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vol lero
aspettare la divina cura. Seconda rispo sta,e meglio è,che questi demoni a
manife stare fra sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere, se non
qualche cosa di ciascuno, perchè è, e qua nto è 1: il che certamente s a n no;
perciò che si conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. A gli animali
inferiori poi non fu bisogno provvedere di parlare; conciò sia che per solo
istinto di natura siano guidati.E poi tutti quelli animali, che sono di una
medesima specie, hanno le medesime azioni, e le m e d e sime passioni; per le
quali loro proprietà p o s sono le altrui conoscere; m a a quelli che sono di
diverse specie, non solamente non fu neces sario loro il parlare, ma in tutto
dannoso gli sarebbe stato, non essendo alcuno amicabile comercio tra essi. E se
mi fosse opposto che il serpente che parlò a la prima femina, e l'a sina di
Balaam abbiano parlato, a questo ri spondo, che l'angelo ne l'asina, & il
diavolo nel serpente hanno talmente operato, che essi animali mossero gli
organi loro; e così d'indi la voce risultò distinta, come vero parlare; non che
quello de l'asina fosse altro che rag ghiare e quello del serpente altro che
fischiare. ·Il testo ha: non indigent,nisiutsciantquilibetde
quolibet, quia est, et quantus est. Parrebbe più proprio iltradurre cosi:non
hanno bisogno di conoscere,se non ciascheduno di ciaschedun altro,che è,e
quanto è: ossia l'esistenza e il grado. Se alcuno poi argumentasse
da quello,che Ovi dio disse nel quinto de la Metamorfosi, che le piche
parlarono; dico che egli dice questo figu ratamente,intendendo altro:ma se si
dicesse che le piche al presente & altri uccelli parlano, dico ch'egli è
falso; perciò che tale atto non è parlare, m a è certa imitazione del suono de
la nostra voce; o vero che si sforzano di imitare noi in quanto soniamo,ma non
in quanto par liamo. Tal che se quello che alcuno espressa mente dicesse, ancora
la pica ridicesse, questo non sarebbe se non rappresentazione, o vero
imitazione del suono di quello,che prima avesse detto.E così appare,a l'uomo
solo essere stato dato il parlare; m a per qual cagione esso gli fosse
necessario, ci sforzeremo brievemente trattare. Che fu necessario a l'uomo il
comercio Ovendosi adunque l'uomo non per istinto di natura,ma per ragione;&
essa ra gione o circa la separazione, o circa il giudi dizio, o circa la
elezione diversificandosi in ciascuno;tal che quasi ogni uno de la sua propria
-- La voce del testo discretio sarebbe resa meglio dalla parola discernimento
-- del parlare -- specie s'allegra; giudichiamo che niuno intenda l'altro per
le sue proprie azioni, o p a s sioni, come fanno le bestie; nè anche per speculazione
l'uno può intrar ne l'altro,come l'an gelo, sendo per la grossezza, &
opacità del corpo mortale la umana specie da ciò ritenuta. Fu adunque bisogno,
che volendo la genera zione umana fra sè comunicare i suoi concetti, avesse
qualche segno sensuale e razionale; per ciò che dovendo prendere una cosa da la
ra gione, e ne la ragione portarla, bisognava es sere razionale; ma non
potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare,se non per il mezzo
del sensuale, fu bisogno essere sen suale, perciò che se 'l fosse solamente
razio nale,non potrebbe trapassare;se solo sensuale, non potrebbe prendere da
la ragione, nè ne la ragione de porre. E questo è segno che il subietto, di che
parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono,egli è per natura una cosa
sensuale;& inquanto che,secondolavolontà di ciascuno, significa qualche
cosa, egli è ra zionale 1. Iltestoha:Hoc equidem signum est,ipsum sub jectum
nobile,dequoloquimur:naturasensualequi dem, in quantum sonus est, esse;
rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum. A noi pare
più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questosegno (l'aliquod rationale
signum et sensuale, di cui ha parlato poche righe più sopra ) è per l'appunto
il nobile soggetto di cui parliamo: sensuale, per n a tura,in quanto
èsuono;razionale,inquantoche,se cheuomofuprimadatoilparlare,
echedisseprima,& inchelingua. l'uomo solo fu dato il parlare. Ora istimo
che appresso debbiamo investigare, a che uomo fu prima dato ilparlare,e che
cosa prima disse, & a chi parlò, e dove e quando, & eziandio in che
linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima
parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del mondo,
si truova la femina, primacheniunaltro,aver parlato,cioèlapre sontuosissima
Eva, la quale al diavolo, che la ricercava, disse, « Dio ci ha commesso, che
non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo
tocchiamo, acciò che per avventura non moriamo.» Ma a vegna che in scritto si
trovi la donna aver pri mieramente parlato,non di meno è ragionevol cosa che
crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa inconveniente mi
pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale
interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo,che sarebbe di
troppo; ma,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col
senso di tutto il Capitolo. 9 Anifesto è per le cose già dette, che a
pensare,che così eccellente azione de la il generazione umana prima
da l'uomo,che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso
essere stato dato primiera mente il parlare da Dio,subito che l’ebbe for
mato.Che voce poi fosse quella che parlò prima, a ciascuno di sana mente può
esser in pronto; & io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli,
o vero per modo d'interrogazione, o per modo di risposta.Assurda cosa veramente
pare,e da la ragione aliena,che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che
Dio; con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uo mo.E
siccome,dopolaprevaricazionedel'u m a n a generazione, ciascuno esordio di
parlare comincia da heu; così è ragionevol cosa, che quello che fu davanti,
cominciasse da alle grezza,e conciò sia che niun gaudio sia fuori diDio,ma
tuttoinDio,& essoDio tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p
a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di
sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu, devette
esser a Dio; e se a Dio, parrebbe,che Dio prima avesse parlato,ilche parrehbe
contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può
l'uo mo averrispostoaDio,chelointerrogava,nè per questo Dio aver parlato di
quella loquela, che dicemo.Qual è colui,che dubiti,che tutte le cose che sono
non si pieghino secondo il voler diDio,da cuièfatta,governata,econservata
ciascuna cosa? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per
comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di
Dio,di maniera che fa risuonare i tuoni, ful gurare il fuoco, gemere l'acqua, e
sparge le nevi, e slancia la grandine; non si moverà egli per comandamento di
Dio a far risonare al cune parole le quali siano distinte da colui, che maggior
cosa distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose
credia mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta
così da le cose superiori, come da le inferiori), che il primo uomo drizzasse
il suo primo parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo
parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne
l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire,
pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di
ogni perfezione principio & amatore,inspirando il primo uomo con ogni
perfezione compi, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale
non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse
contra le obiezioni, Iudicando adunque (non senza ragione trat che
non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo; e che Dio ogni nostro
segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne; ora (con quella
riverenzia, la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna
volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è
una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non
di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono,
colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo
credere, che da Dio proceda, che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne
allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori
laprimafavella;perciòchesefuanimato l'uo m o fuori del paradiso, diremo che
fuori: se dentro, diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè
i negozj umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti
per le parole non intesi da molti,che se fussero senza esse; però fia
buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che
nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu
l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si nutri, e che nè
pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala
è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo.Però
qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco
della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui
parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna
locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata
quella diAdamo.Ma noi,acuiilmondo èpatria, sì come a'pesci il mare, quantunque
abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo tanto
Fiorenza, che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le spalle
del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè se condo
il piacer nostro, o vero secondo la quiete de la nostra sensualità, non sia in
terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti e de gli
altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente si
descrive, e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo, e le
abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore,fermamente comprendo,
e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che Toscana e Fio
renza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti
usare più dilette vole, e più utile sermone, che gli Italiani. Ritornando
adunque al proposto, dico che una certa forma di parlare fu creata da Dio insie
me con l'anima prima,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e quanto a la
construzione de'vocaboli, e quanto al proferir de le con struzioni; la quale
forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro sunzione
umana non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa forma di
par lare parlò Adamo, e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre
di Babel, la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa forma di
locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono detti
Ebrei; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro Redentore, il
quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la
grazia, e non di quella de la confusione. Fu adunque lo ebraico idioma quello,
che fu fabbricato da le labbra del primo par lante. ' Il testo ha: qui ex illis
oriturus erat secundum humanitatem,non lingua confusionis, sed gratiæ frue
retur.E deve tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità, usasse
della lingua della grazia, e non di quella della confusione. Hi come
gravemente mi vergogno di rin 15 e per De la divisione del parlare in più
lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di passare
per essa, se ben la fac cia diventa rossa, e l'animo la fugge, non starò di
narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati, oh da principio, e che mai
non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua corruttela, che
per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a tria de le
delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà della tua
fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse dal
diluvio sommerso, il male, che tu avevi commesso, gli animali del cielo e de la
terra fusseno già stati puniti? Certo assai sarebbe stato; ma come prover
bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza; e tu misera volesti
miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo, o vero scordato,o vero
non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le sferze, che
erano rimase, venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e superba
prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto
persuasione di gigante, di superare con l'arte sua non solamente la na
tura,ma ancoraessonaturante,ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre in
Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava di
ascendere al cielo,avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua
gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia senza misura del celeste
imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi
non con inimica sferza, ma con paterna, & a battiture assueta, il ribel
lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta
la generazione umana a questa opera iniqua concorsa; parte comandava, parte
erano architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le
corde ", parte cavavano sassi, parte per ter
ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere
s’affatica vano, quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che
dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera, diversificandosi in
molte loquele, da essa cessavano, nè mai a quel medesimo comercio convenivano;
& a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osservò che in
luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro
neamente la volgata nel testo latino, si deve leggere: pars amussibus
tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre: parte
arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano.
istessa loquela attualmente rimase, come a tutti gli architetti una, a
tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così
avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in
quell'opera, di tanti varj linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E
quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno, tanto era più grosso e
barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li q u a l i il sacrato idioma rimase,
nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente biasimandolo,
si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono una minima
parte di quelli quanto al numero; e furono, sì come io comprendo, del seme di
Sem, il quale fu il terzo figliuolo di Noè, da cui nacque il popolo di Israel,
il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua dispersione. e
specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin gue non
leggieramente giudichiamo, che allora primieramente gli uomini furono sparsi
per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni & angoli di esso. E
conciò sia che la P Sottodivisione del parlare per il mondo, principal
radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata, e d'indi da
l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione
nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta, là onde
primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta
Europa. Ma ofusseroforestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o pur nati
prima in E u ropa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi
seco; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte
la settentrionale, & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci, parte de
l’Asia e parte de la Europa occuparono.Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari, come di sotto
dimostre remo; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sassoni, Inglesi &
altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato; rimanendo questo solo
per segno, che avessero un medesimo prin cipio, che quasi tutti i predetti
volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo
idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel
tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e
più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta, tenne un terzo
idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia; perciò che volendo
affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spa gnuoli, Francesi
& Italiani.Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da
uno istesso idioma,è in pronto;perciò che molte cose chiamano per i medesimi
vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama,& altri
molti.Di questi adunque de la meridionale Europa, quelli che proferiscono oc
tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi; quelli poi
che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a
quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la
Sici lia.Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto
di questi; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni, dal
ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha: A b isto incipiens idiomate,
videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum
quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est protractum. Totum autem, quod in
Europa restat ab istis, tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A
cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un
altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa,
e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa
tenne un terzo idioma. 19 glese, e dai monti di Aragona terminati,
dal mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi
ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui
vale mettere alla prova, cimentare. ragione, che avemo, volendo ricercare
di quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire
de la variazione, che intervenne al parlare, che da principio era il
medesimo.Ma conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada,
però so lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da
parte, conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole, pare che eziandio
abbia ad esser causa ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come
ho detto di sopra) in tre parti diviso, perciò che alcuni dicono oc, altri si,
e altri oil. E che questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il
che primieramente provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti
vocaboli,come gli eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare,
e come col tempo il medesimo parlare si muta, e de la invenzione de la
grammatica. A la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu
per il delitto ne la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre
queste lingue in molte cose convengono, e massimamente in questo vocabolo,Amor.
Gerardo di Berneil, « Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di
Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guido Guinizelli, « Nè fè amor, prima
che gentil core, Nè cor gentil,prima che amor,natura.» Investighiamo adunque,
perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di
queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha
diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani,
e altramente i Pisani: e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi
cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi,Romani e
Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un
istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani, Ravegnani e Faentini; e quel
che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli
che in una medesima città dimorano, come sono i Bolo gnesi del borgo di san
Felice, e i Bolognesi della strada maggiore.Tutte queste differenze
adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno
manifeste. Dico adunque, che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto
effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni
nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a
nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu
che una oblivione de la loquela prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va
riabilissimo animale, la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere; m
a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi &
abiti),simutano;cosìquesta,secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è
bisogno di va riarsi.Però non è da dubitare che nel modo che avemo
detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il parlare non si varii, anzi è
fermamente da tenere; perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le
altre opere nostre,le troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri
cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a n
tunquecisianomoltolontani1.Ilperchèaudace mente affermo, che se gli
antiquissimi Pavesi ora risuscitassero,parlerebbero di diverso parlare di
quello, che ora parlano in Pavia; nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja
maraviglioso, che I qualicisianomolto lontani(magis....quam a coetaneis
perlonginquis). ciparrebbe a vedere un giovane cresciuto,il quale
non avessimo veduto crescere.Perciò che le cose, che a poco a poco si movono,
il moto loro è da noi poco conosciuto;e quanto la va riazione de la cosa
ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è da noi più stabile
esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i discorsi di quegli uomini,che sono
poco da le bestie differenti, pensano che una istessa città abbia sempre il
medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di essa città
non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia divenuta, e sia la
vita de gli uomini di sua natura brevissima. Se adunque il sermone ne la
istessa gente (come è detto) successivamente col tempo si varia, nè può per
alcun modo firmarse, è necessario che il par lare di coloro, che lontani e
separati dimorano, sia variamente variato; sì come sono ancora variamente
variati i costumi & abiti loro, i quali nè da natura,nè da consorzio umano
sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la conve nienzia de i luoghi
nasciuti.Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale
grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi
tempi e luo ghi.Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata, non
par suggetta al singulare arbitrio di niuno, e consequentemente non può essere
variabile.Questa adunque trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare, il
quale De la varietà del parlare in Italia da la destra e sinistra parte
de l'Appennino. Ra uscendo in tre parti diviso (come di 24 LIBRO PRIMO,
per singulare arbitrio si move,non ci fossero o in tutto tolte, o
imperfettamente date le a u torità, & i fatti de gli antichi, e di coloro
da i quali la diversità dei luoghi ci fa esser divisi. sopra è detto) il nostro
parlare nella comparazione di se stesso, secondo che egli è tri partito, con tanta
timidità lo andiamo ponde rando, che nè questa parte, nè quella, nè quell'altra
abbiamo ardimento di preporre, se non in quello sic, che i grammatici si
trovano aver preso per avverbio di affirmare: la qual cosa pare, che dia
qualche più di autorità a gli Italiani, i quali dicono si.Veramente ciascuna di
queste tre parti con largo testimonio si d i fende. La lingua di oil allega per
sè, che, per lo suopiùfacileepiùdilettevoleVolgare,tutto quello che è stato
tradotto, o vero ritrovato in prosa volgare,è suo;cioè la Bibbia,ifatti de i
Trojani e dei Romani,le bellissime favole del re Artù, e molte altre istorie e
dottrine 1. ma: 0 · Il Fraticelli avverte, a ragione, che qui bisognava
tradurre non: la Bibbia,ifatti de' Trojani... i libri che contengono i fatti
de' Trojani. L'altra poi argomenta per sè, cioè la lingua di oc; e dice
che i volgari eloquenti scrissero i primi poemi in essa, sì come in lingua più
perfetta e più dolce; come fu Piero di Alver nia & altri molti antiqui
dottori.La terza poi, che è de gli Italiani, afferma per dui privilegj esser
superiore; il primo è, che quelli, che più dolcemente e più sottilmente hanno
scritti poe mi, sono stati i suoi domestici e famigliari, cioè Cino da Pistoja,
e lo amico suo; il secondo è, che pare, che più s'accostino a la g r a m m a
tica,la quale è comune.E questo, a coloro, che vogliono con ragione
considerare, par g r a vissimo argomento. M a noi lasciando da parte il
giudicio di questo, e rivolgendo il trattato nostro al Volgare Italiano,ci
sforzeremo di dire le variazioni ricevute in esso, e quelle fra sè
compareremo.Dicemo adunque laItalia essere primamente in due parti divisa,cioè
ne la de stra e ne la sinistra; e se alcuno dimandasse qual è la linea che
questa diparte,brievemente rispondoessereilgiogodel'Appennino;ilquale, come un
colmo di fistula, di qua e di là a diver se gronde piove,e l'acque di qua e di
là per lunghi embricia diversi liti distillan, come Lucano nel secondo descrive;
& il destro lato ha il mar Tirreno per grondatoio, il sinistro v'ha lo
Adriatico. Del destro lato poi sono regioni la Puglia,ma non
tutta,Roma,ilDucato 1, + Ducato di Spoleto. , Toscana,la
Marca di Genova.Del sinistro so no parte de la Puglia, la Marca d’Ancona, la
Romagna, la Lombardia, la Marca Tri vigiana, con Venezia.Il Friuli veramente,e
l'Istria non possono essere se non de la parte sinistra d'Italia; e le isole
del mar Tirreno, cioè Sicilia e Sardigna,non sono se non de la destra, o
veramente sono da essere a la destra parte d'Italia accompagnate.In ciascuno
adun que di questi dui lati d'Italia, & in quelle parti che si accompagnano
ad essi, le lingue de gli uomini sono varie; cioè la lingua de i S i ciliani co
iPugliesi, e quella de i Pugliesi co i Romani,edeiRomani coiSpoletani,edi que
sticoiToscani,edeiToscani coiGenovesi,e de i Genovesi co i Sardi. E similmente
quella de i Calavresi con gli Anconitani, e di costoro coiRomagnuoli,e deiRomagnuoli
co iLom bardi,edeiLombardi coiTrivigianieVene ziani, e di questi co i Friulani,
e di essi con gl'Istriani; ne la qual cosa dico, che nessuno de gl’Italiani
dissentirà da noi. Onde la Italia sola appare in X I V Volgari esser variata:
cia scuno dei quali ancora in sè stesso si varia: come in Toscana i Senesi e
gli Aretini, in L o m bardia i Ferraresi e i Piacentini; e parimente in una
istessa città troviamo essere qualche variazione di parlare,come nel Capitolo
di so pra abbiamo detto. Il perchè se vorremo cal culare le prime, le seconde,
e le sottoseconde variazioni del Volgare d'Italia,avverrà che in Si
dimostra, che alcuni in Italia hanno brutto & inornato parlare. Ssendo
ilVolgareItalianopermoltevarietà dissonante, investighiamo la più bella &
illustre loquela d'Italia; & acciò che a la n o stra investigazione
possiamo avere un picciolo calle, gettiamo prima fuori de la selva gli a r
boriattraversati,elespine.Sicome adunque i Romani si stimano di dover essere a
tutti preposti, così in questa eradicazione, o vero estirpazione, non
immeritamente a gli altri li preporremo; protestando essi in niuna ragione de
la Volgare Eloquenza esser da toccare. Di cemo adunque il Volgare de'Romani,o
per dir meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i Volgari
Italiani; e non è maraviglia, sendo ne i costumi e ne le deformità de gli abiti
loro sopra tutti puzzolenti. Essi dicono: M e sure, quinte dici 1. Dopo questi
caviamo quelli de la Marca d’Ancona, i quali dicono Chigna mente sciate siate
2; con i quali mandiamo via questo minimo cantone del mondo si verrà,non
solamente a mille variazioni di loquela, m a ancora a molte più. I Sorella mia,
che cosa dici? 2 Qualmente siate state. , i Spoletani. E non è da
preterire, che in vitu perio di queste tre genti sono state molte can zoni
composte, tra le quali ne vidi una drit tamente e perfettamente legata, la
quale un certo fiorentino, nominato ilCastra,avea com posto; e cominciava, «
Una ferina va scopai da Cascoli Cita cita sen gia grande aina '. » Dopo questi
i Milanesi, & i Bergamaschi,& i loro vicini gettiam via; in vituperio
de i quali mi ricordo alcuno aver cantato, Ciò fu del mes d'ochiover. » Dopo
questi crivelliamo gli Aquilejensi, e gli I striani, i quali con crudeli
accenti dicono Ces fastù; e con questi mandiam via tutte lem o n tanine e
villanesche loquele, le quali di brut tezza di accenti sono sempre dissonanti
da i cittadini, che stanno in mezzo le città, come i Casentinesi, & i
Pratesi. I Sardi ancora, i quali non sono d'Italia,ma a la Italiaaccom pagnati,
gettiam via: perchè questi soli ci p a jono essere senza proprio Volgare, &
imitano la grammatica,come fanno le simie gli uomini; perchè dicono, Domus
nova,e Dominus meus. Una ferina vosco poi da Cascoli « In te l'ora del
vespero, · Il Fontanini propone di leggere: Zita zita sen gia a grande aina.
Zita vale gita; e aina val fretta. « Ancor che l'aigua per lo foco lassi. »
«Amor,chelongamentem'haimenato.» Ma questa fama de la terra di Sicilia, se dirit
tamente risguardiamo, appare, che solamente per opprobrio de'principi Italiani
sia rimasa; iquali non con modo eroico,ma con plebeo seguono la superbia. M a
quelli illustri eroi Federico Cesare & il ben nato suo figliuolo Manfredi,
dimostrando la nobiltà e drittezza de la sua forma,mentre che la fortuna gli fu
fa vorevole,seguirono le cose umane,e le bestiali sdegnarono.Ilperchè
coloro,cheeranodialto De lo Idioma Siciliano e Pugliese. Ei crivellati
(per modo di dire) Volgari d'Italia, facendo comparazione tra quelli che nel
crivello sono rimasi, brievemente sce gliamo il più onorevole di essi. E
primiera mente esaminiamo lo ingegno circa il Siciliano, perciò che pare che il
Volgare Siciliano abbia assunto la fama sopra gli altri; conciò sia che tutti i
poemi, che fanno gl'Italiani, si chia mino Siciliani,e conciò sia che troviamo
molti dottori di costà aver gravemente cantato,come in quelle canzoni,
Et, Se questo poi non vogliamo pigliare, ma quello che esce de la
bocca de i principali Si ciliani, come ne le preallegate canzoni si può vedere,
non è in nulla differente da quello,che è laudabilissimo, come di sotto
dimostreremo. |Traduzione letteraledialtripices,chesignifica in
gannatori. , cuore e di grazie dotati,si sforzavano di ade rirsi alla
maestà di sì gran principi; talchè in quel tempo tutto quello, che gli
eccellenti Italiani componevano, ne la Corte di sì gran re primamente usciva. E
perchè il loro seggio regale era in Sicilia, è avvenuto,che tutto quello che i
nostri precessori composero in Volgare, si chiama Siciliano; il che ritenemo
ancora noi; & i posteri nostri non lo potranno mutare.Racha,Racha.Che suona
ora la tromba de l'ultimo Federico? che ilsonaglio del secondo Carlo? che i
corni di Giovanni e di Azzo m a r chesi potenti?cheletibiedeglialtrimagnati? se
non, Venite, carnefici; Venite, altripici 1; Venite, settatori di avarizia.M a
meglio è tor nare al proposito, che parlare indarno. Or dicemo,che se vogliamo
pigliare ilVolgar Si ciliano,cioè quello che vien da imediocri pae sani, da la
bocca de i quali è da cavare il giu dizio, appare, che il non sia degno di
essere preposto a gli altri;perciò che 'l non si profe risce senza qualche
tempo, come è in « Traggemi d'este focora se t'este a bolontate. » I Pugliesi poi, o vero per la acerbità loro, o
vero per la propinquità dei suoi vicini, che sono Romaneschi e Marchigiani,
fanno brutti barbarismi.E'dicono, « Per fino amore vo'si lietamente. » Il
perchè a quelli, che noteranno ciò che si è detto di sopra, dee essere manifesto,
che nè il Siciliano, nè il Pugliese è quel Volgare che in Italia è bellissimo;
conciò sia che abbiamo m o strato, che gli eloquenti nativi di quel paese sieno
da esso partiti. De lo Idioma de i Toscani e dei Genovesi. per la loro pazzia
insensati, pare che a r rogantemente s'attribuiscano il titolo del V o l gare
Illustre; & in questo non solamente la « Volzera che chiangesse lo
quatraro. » Ma quantunque comunemente ipaesani pugliesi parlino bruttamente,
alcuni però eccellenti tra loro hanno politamente parlato, e posto ne le loro
canzoni vocaboli molto cortigiani, come manifestamente appare a chi iloro
scritti con sidera,come è, « Madonna, dir vi voglio. » E, opinione dei plebei
impazzisce, m a ritruovo molti uomini famosi averla avuta: come fu Guittone
d’Arezzo, il quale non si diede mai al Volgare Cortigiano;Bonagiunta da
Lucca,Gallo pisano,Mino Mocato senese,eBrunetto fioren tino, i detti dei quali,
se si avrà tempo di esaminarli,noncortigiani,ma proprjdeleloro cittadi essere
si ritroveranno. Ma conciò sia che i Toscani siano più de gli altri in questa
ebrietà furibondi, ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la pompa a
ciascuno de i Volgari delle città di Toscana.I Fiorentini par. lano, e dicono,
« Non facciamo altro. » I Pisani, « Bene andonno li fanti de Fioranza per
Pisa.» I Lucchesi, « Fo voto a Dio,che ingassara eie lo comuno de Luca.» I
Senesi, « Vo'tu venire ovelle?» Di Perugia, Orbieto, Viterbo e Città Castel
lana, per la vicinità che hanno con Romani e Spoletani,non intendo dir nulla.Ma
come che quasi tutti i Toscani siano nel loro brutto p a r « Onche rinegata avessi io Siena.» Gli Aretini,
« Manuchiamo introcque.» lare ottusi,non di meno ho veduto alcuni aver
conosciuto la eccellenziadel Volgare,cioè Guido, Lapo & un altro, fiorentini,
e Cino Pistojese, il quale al presente indegnamente posponemo, non indegnamente
costretti.Adunque se esami neremo le loquele toscane, e considereremo, come gli
uomini molto onorati si siano da esse loro proprie partiti, non resta in dubbio
che il Volgare, che noi cerchiamo, sia altro che quello che hanno ipopoli di
Toscana. Se alcu no poi pensasse che quello, che noi affermiamo de iToscani,non
sia da affirmare de iGenovesi, questo solo costui consideri, che se i Genovesi
per dimenticanza perdessero il z lettera, biso gnerebbe loro, o ver essere
totalmente muti, o ver trovare una nuova locuzione; perciò che il z è la
maggior parte del loro parlare; la qual lettera non si può se non con molta aspe
rità proferire. nino, &
investighiamo tutta la sinistra parte d'Italia, cominciando, come far solemo, a
levante. Intrando adunque ne la Romagna, dicemo che in Italia abbiamo ritrovati
dui Vol gari, l'uno a l'altro con certi convenevoli con De loIdioma di
Romagna, edialcuni Transpadani,especialmentedelVeneto. P Assiamo ora le
frondute spalle de l'Appen trarj opposto !, de li quali uno tanto
femenile ci pare per la mollizia dei vocaboli e de la p r o nuncia, che un uomo
(ancora che virilmente parli) è tenuto femina. Questo Volgare hanno tutti
iRomagnuoli, e specialmente i Forlivesi, la città de i quali, avegna che
novissima sia, non di meno pare esser posta nel mezzo di tutta la provincia.
Questi affermando dicono Deusci, e facendo carezze sogliono dire oclo meo,e co
rada mea.Bene abbiamo inteso,che alcuni di costoro ne i poemi loro si sono
partiti dal suo proprio parlare,cioèTomaso & Ugolino Buc ciola
faentini.L'altro de idue parlari,che ave mo detto, è talmente di vocaboli &
accenti ir suto & ispido, che per la sua rozza asperità non solamente
disconza una donna che parli, ma ancora fa dubitare, s'ella è uomo. Questo tale
hanno tutti quelli che dicono magara, cioè Bressani, Veronesi, Vicentini, &
anco i P a doani, i quali in tutti i participj in tus,e de nominativi in tas,
fanno brutta sincope, come è merco, e bonté. Con questi ponemo eziandio i
Trivigiani, i quali al modo de i Bressani, e de i suoi vicini proferiscono lo v
consonante per f, removendo l'ultima sillaba, come è nof p e r n o v e, v i f p
e r v i v o; il che veramente è barbarissimo, e riproviamlo. I Veneziani ancora
non saranno degni de l'onore de l'investigato Il testo latino ha: duo....
vulgaria, quibusdam convenientiis contrariis alternata. tra i
quali abbiamo veduto uno, che si è sfor zato partire dal suo materno parlare, e
ridursi al Volgare Cortigiano, e questo fu Brandino padoano.Laonde tutti quelli
del presente Ca pitolo comparendo alla sentenzia,determiniamo, che nè
ilRomagnuolo nè ilsuo contrario,come si è detto, nè il Veneziano sia quello
Illustre Volgare che cerchiamo. CA Fa gran discussione del Parlare Bolognese.
quello che della italica selva ci resta.D i cemo adunque,che forse non hanno
avuta mala opinione coloro, che affermano che i Bolognesi con molto bella
loquela ragionano; conciò sia che da gli Imolesi,Ferraresi eModenesi qualche
cosa al loro proprio parlare aggiungano; chè tutti, sì come avemo mostrato,
pigliano dai loro vicini, come Sordello dimostra de la sua Mantova, che con
Cremona, Bressa e Verona confina. Il qual uomo fu tanto in eloquenzia, che non
solamente ne i poemi, m a in ciascun modo che parlasse, il Volgare de la sua
patria abbandond.Pigliano ancora iprefati cittadini Volgare; e se alcun di
loro, spinto da errore, in questo vaneggiasse, ricordisi se mai disse, « Per le
plage de Dio tu non verás »; Ra ci sforzeremo, per espedirci,a cercare
la leggerezza e la mollizia da gl'Imolesi, e da i Ferraresi e Modenesi
una certa loquacità, la qual è propria de i Lombardi. Questa, per la mescolanza
de i Longobardi forestieri, crediamo essere rimasa ne gli uomini di quei paesi;
e questa è la ragione, per la quale non ritro viamo che niuno, nè Ferrarese, nè
Modenese, nè Reggiano,sia stato poeta;perciò che assue fatti a la propria
loquacità, non possono per alcun modo,senza qualche acerbità,alVolgare
Cortigiano venire. Il che molto maggiormente de i Parmigiani è da pensare; i
quali dicono inonto per molto. Se adunque i Bolognesi da l'una e da l'altra
parte pigliano, come è detto, ragionevole cosa ci pare che il loro parlare, per
la mescolanza de gli oppositi, rimanya di laudabile suavità temperato: il che
per giudi zio nostro senza dubbio esser crediamo.Vero è che se quelli, che
prepongono il Volgare S e r mone de iBolognesi,nel compararli essi hanno
considerazione solamente a i Volgari de le città d'Italia, volentieri ci
concordiamo con loro. M a se stimano simplicemente il Volgare Bolognese essere
da preferire, siamo da essi differenti e discordi; perciò che egli non è quello
che noi chiamiamoCortigiano& Illustre;ches'elfosse quello,ilmassimo Guido
Guinizelli,Guido Ghis liero,Fabrizio,& Onesto,& altripoetinon sariano
mai partiti da esso; perciò che furono dottori illustri, e di piena
intelligenzia ne le cose volgari. « Più non attendo il tuo soccorso,
Amore. » Le quali parole sono in tutto diverse da le pro prie bolognesi. Ora
perchè noi non crediamo che alcuno dubiti di quelle città che sono poste ne le
estremità d'Italia;e se alcuno pur dubita, non lo stimiamo degno de la nostra
soluzione; però poco ci resta ne la discussione da dire. Laonde disiando di
deporre il crivello, accid che tosto veggiamo quello che in esso è rimaso, dico
che Trento, e Turino,& Alessandria sono città tanto propinque a i termini
d'Italia, che non ponno avere pura loquela; tal che se così come hanno
bruttissimo Volgare,così l'avessono bellissimo, ancora negherei esso essere
vera mente Italiano, per la mescolanza che ha de gli altri.E però se cerchiamo
ilParlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo non si può in esse città
ritrovare. Il massimo Guido, Fabrizio, «Madonna,ilfermocore.» « Lo mio lontano gire.
» Onesto e pascoli d'Italia, e non avemo
quella pantera, che cerchiamo, trovato; per potere essa meglio trovare, con più
ragione investi ghiamola; acciò che quella, che in ogni loco si sente, & in
ogni parte appare?, con sollecito studio ne le nostre reti totalmente
inviluppia mo. Ripigliando adunque inostri istrumenti da
cacciaredicemo,cheinognigenerazionedicoseè di bisogno che una ve ne sia,con la
quale tutte le cose di quel medesimo genere si abbiano a comparare e ponderare,
e quindi la misura di tutte le altre pigliare.Come nel numero tutte le cose si
hanno a misurare con la unità;e di consi più e meno, secondo che da essa unità
sono più lontane, o più ad essa propinque. E cosi ne i colori tutti si hanno a
misurare col bianco; e diconsi più e meno visibili, secondo che a lui più
vicini, e da lui più distanti si sono.E sicome diquestichemostrano quan tità e
qualità diciamo, parimente di ciascuno I L'edizione del Corbinelli ha:
redolentem ubique, etnec apparentem.Ilprof.Witte proponedileggere: nec usquam
apparentem. De lo eccellente Parlar Volgare, il quale è comune a tutti
gli Italiani. A poi che avemo cercato per tutti i salti D de i
predicamenti e de la sustancia pensiamo potersi dire; cioè che ogni cosa si può
misu rare in quel genere con quella cosa, che è in esso genere simplicissima.
Laonde ne le nostre azioni, in quantunque specie sidividano,sibi sogna
ritrovare questo segno,col quale esse si abbiano a misurare; perciò che in
quello che facciamo come simplicemente uomini, avemo la virtù,la quale generalmente
intendemo?; perciò che secondo essa giudichiamo l'uomo buono e cattivo;in
quello poi che facciamo, come uomini cittadini,avemo la legge,secondo la quale
si dice buono e cattivo cittadino;così in quello, che come uomini italiani
facciamo, avemo le cose simplicissime. Adunque se le azioni italiane si hanno a
misurare e ponde rare con i costumi, e con gli abiti, e col p a r lare,quelle
de leazioni italiane sono simplicissi me,che non sono proprie di niuna città
d'Italia, ma sono comuni in tutte 2; tra le quali ora si
2Iltestolatinoha:inquantum uthominesLatini agimus,quædam habemus simplicissima
signa,idest morum,et habituum,etlocutionis,quibus Latino actiones ponderantur
et mensurantur. Quce quidem nobilissimasuntearum,quæ Latinorum sunt,actio num,hæc
nulliuscivitatisItaliæ propria sunt,sed in omnibus communia sunt: inter que
nunc potest di scerni Vulgare.... Il Fraticelli raddrizzò la traduzione del
Trissino a questo modo: in quello che, come uomini Il testo latino ha: virtutem habemus, ut
genera literillas(actiones)intelligamus.Edevetradursi:ab biamo per intenderle
(leazioni)generalmente,lavirtù. può discernere il Volgare,che di
sopra cerca vamo, essere quello,che in ciascuna città ap pare, e che in niuna
riposa 1. Può ben più in una,che in un'altra apparere,come fa la sim plicissima
de le sustanzie, che è Dio, il quale più appare ne l'uomo che ne le bestie, e
che ne le piante, e più in queste che ne le miniere, & in esse più che ne
gli elementi,e più nel foco, che ne laterra.E lasimplicissima quantità,che è
uno,più appare nel numero dispari che nel italiani facciamo, abbiamo certi
segni semplicissimi, cioè de'costumi, degli abiti e del parlare, coi quali le
azioni italiane si hanno a misurare e ponderare.Adun que quelle delle azioni
italiane sono nobilissime, che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma
sono co muni in tutte: tra le quali ora si può discernere il Volgare.... Il
Trissino, in luogo di nobilissime, ha semplicissime;eforselasua
lezioneèlavera.Levoci nobilissima,hæc,propria,communiaedinterquo non possono
riferirsi ad actiones, ma a signa: cosicchè si dovrebbe tradurre segni nobilissimi.
M a il dir segni nobilissimi è, certo, poco conforme al concetto generale del
Capitolo, nel quale l'autore non parla che di semplicis simi segni: e quindi la
traduzione più propria parrebbe dovesse essere la seguente: ora, quelli, che
sono segni semplicissimi delle azioni degli Italiani, quelli non sonpropri di
nessuna città,ma comuni a tutte:trai quali....;epiùbrevemente:iqualisegnidelleazioni
degli Italiani non son propri di nessuna città.... 4Vulgare.... quod in
qualibet civitate apparet, nec cubat in ulla. Il Manzoni, citando questo passo
nella lettera al Bonghi, da noi ristampata, traduce più esatta mente: il
Volgare, che in ogni città dà sentore di sè, e non si annida in nessuna.
pari; & il simplicissimo colore,che è ilbianco, più appare nel
citrino che nel verde. Adunque ritrovato quello che cercavamo, dicemo, che il
Volgare Illustre, Cardinale, Aulico e Corti giano in Italia è quello, il quale
è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna, col quale il Volgare
di tutte le città d'Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare. Perchè
questo Parlare si chiami Illustre. Erchè adunque a questo ritrovato Parlare
aggiungendo Illustre,Cardinale, Aulico e Cortigiano, cosi lo chiamiamo, al
presente di remo; per il che più chiaramente faremo parere quello, che esso è.
Primamente adunque d i m o striamo quello che intendiamo di fare, quando vi
aggiungiamo Illustre, e perchè Illustre il dimandiamo.Per questonoiildicemo
Illustre, che illuminante & illuminato risplende. Et a questo modo
nominiamo gli uomini illustri, o vero perchè illuminati di potenzia sogliono
con giustizia e carità gli altri illuminare, o vero perchè eccellentemente
ammaestrati, eccellen temente ammaestrano, come fe'Seneca e Numa Pompilio;
& il Volgare di cui parliamo, il quale innalzato di magisterio e di
potenzia, innalza i suoi di onore e di gloria. E ch'el sia da magisterio innalzato,
si vede, essendo egli O n senza ragione esso Volgare Illustre o r
niamodisecondagiunta,cioècheCardinale il chiamiamo, perciò che si come tutto
l'uscio seguita il cardine, talchè dove il cardine si volta, ancor esso (o
entro, o fuori che 'l si pie Perchè questo Parlare si chiami Cardinale,
di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante per plesseconstruzioni,ditante
difettivepronunzie, di tanti contadineschi accenti, cosi egregio, così
districato, così perfetto e così civile ri dotto, come Cino da Pistoja e
l'amico suo ne le loro canzoni dimostrano. Che 'l sia poi esaltato di potenzia,
appare: e qual cosa è di maggior potenzia che quella, che può i cuori de gli u
o mini voltare, in modo che faccia colui che non vole,volere;e colui che
vole,non volere, come ha fatto questo, e fa? Che egli poscia innalzi di onore
chi lo possiede, è in pronto: non sogliono i domestici suoi vincere di fama
ire,imarchesi,iconti,etuttiglialtrigrandi? certo questo non ha bisogno di
pruova.Quanto egli faccia poi i suoi famigliari gloriosi, noi stessi l'abbiamo
conosciuto, i quali per la dol cezza di questa gloria ponemo dopo le spalle il
nostro esilio. Adunque meritamente dovemo esso chiamare Illustre. NA Aulico, e
Cortigiano. Il testo latino ha: Est etiam merito curiale dicen dum, quia
curialitas nil aliud est, etc. Il Fraticelli os serva in questo proposito
quanto segue: « La Curia è il foro,illuogoovesitrattanogliaffaripubblici;ma
es ghi)si volge; cosi tutta la moltitudine de i V o l gari de le città si
volge e rivolge, si move e cessa,secondo che fa questo.Il quale veramente
appare esser padre di famiglia; non cava egli ogni giorno gli spinosi
arboscelli della italica selva? non pianta egli ogni giorno semente o inserisce
piante? che fanno altro gli agricoli di lei se non che lievano, e pongono, come
si è detto? Il perchè merita certamente essere di tanto vocabolo ornato.Perchè
poi ilnominiamo Aulico, questa è la cagione: perciò che se noi Italiani
avessimo Aula,questi sarebbe palatino. Se la Aula poi è comune casa di tutto il
regno, e sacra gubernatrice di tutte le parti di esso; convenevole cosa è che
ciò che si truova esser tale,che sia comune a tutti,e proprio di niuno; in essa
conversi & abiti; nè alcuna altra abi tazione è degna di tanto
abitatore.Questo ve ramente ci pare esser quel Volgare, del quale noi parliamo;
e quinci avviene, che quelli che conversano in tutte le Corti regali, parlano
sempre con Volgare Illustre. E quinci ancora è intervenuto che il nostro
Volgare, come fore stiero va peregrinando, & albergando ne gli umili asili,
non avendo noi Aula.Meritamente ancora sidee chiamare Cortigiano,perciò che la
cortigiania ^ niente altro è,che una pesatura de le cose che si
hanno a fare; e conciò sia che la statera di questa pesatura solamente ne le ec
cellentissime Corti esser soglia, quinci avviene, che tutto quello, che ne le
azioni nostre è ben pesato, si chiama cortigiano. Laonde essendo questo ne la
eccellentissima Corte d'Italia p e sato,merita esser detto Cortigiano.Ma a dire
che 'l sia ne la eccellentissima Corte d'Italia pesato, pare fabuloso, essendo
noi privi di Corte; a la qual cosa facilmente si risponde. Perciò che avegna
che la Corte (secondo che ụnica si piglia, come quella del re di Alema gna) in
Italia non sia,le membra sue però non cimancano;ecome lemembra diquelladaun
principe si uniscono,cosi le membra di questa dal grazioso lume de la ragione
sono unite; e però sarebbe falso a dire, noi Italiani mancar di Corte
quantunque manchiamo di principe; perciò che avemo Corte, avegna che la sia cor
poralmente dispersa, sendo dal Trissino tradotto la Corte, viene a prodursi
confusione,perchè Corte è sinonimo di Aula o Reggia, Per l'esattezza del
significato converrà rendere la voce curialitas per curialità: e cosi in
appresso per cui curiale le voci curia e curialis., e Che i Volgari
Italici in uno si riducono, Uesto Volgare adunque,che essere Illustre, Q
Cardinale,Aulico e Cortigiano avemo dimo strato,dicemo esser quello,che si
chiama Vol gare Italiano; perciò che sì come si può tro vare un Volgare che è
proprio di Cremona, così se ne può trovar uno che è proprio di Lombardia, &
un altro che è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia; e come tutti questi
si ponno trovare, così parimente si può trovare quello, che è di tutta Italia.
E sì come quello si chiama cremonese e quell'altro lombardo,e quell'altro di
mezza Italia, così questo che è di tutta Italia si chiama Volgare Italiano.Que
sto veramente hanno usato gl’illustri dottori che in Italia hanno fatto poemi
in Lingua Vol gare; cioè i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i
Romagnuoli,iLombardi,e quelli delaMarca Trevigiana e de la Marca d’Ancona. E
conciò sia che la nostra intenzione (come avemo nel principio dell'opera
promesso) sia d'insegnare la dottrina de la Eloquenzia Volgare; però da esso
Volgare Italiano,come da eccellentissimo, cominciando, tratteremo nei seguenti
libri, chi e quello si chiama Italiano. siano quelli, che
pensiamo degni di usare esso, e perchè, e a che modo, e dove, e quando, & a
chi sia esso da dirizzare. Le quali cose chia rite che siano, avremo cura di
chiarire i Vol gari inferiori, di parte in parte scendendo sino a quello che è
d'una famiglia sola. e quali no. del nostro ingegno,e ritornando al
calamo de la utile opera,sopra ogni cosa confessiamo, che 'l sta bene ad usarsi
il Volgare Italiano Illustre così ne la prosa, come nel verso. M a perciò che
quelli che scrivono in prosa,pigliano esso Volgare Illustre specialmente da i
trovatori; e però quello che è stato trovato 2, rimane un fermo esempio a le
prose,ma non al contrario; per ciò che alcune cose pajono dare principalità 1
Il Corbinelli e, dietro lui, tutti gli altri hanno poli citantes,che non ha
senso ol'hamoltooscuro;ma forse si deve leggere sollicitantes. Quali sono
quelli che denno usare il Volgare Illustre, P. Romettendo 1 un'altra volta la
diligenzia 2 La voce inventum qui significa poetato. al verso;
adunque secondo che esso è metrico, versifichiamolo 1, trattandolo con
quell'ordine, che nel fine del primo Libro avemo promesso. Cerchiamo adunque
primamente,se tutti quelli che fanno versi volgari, lo denno usare, o no. Vero
è, che cosi superficialmente appare di sì; perciò che ciascuno che fa versi,dee
ornare i suoi versi in quanto 'l può. Laonde non sendo niuno di sì grande
ornamento, com'è il Volgare Illustre, pare che ciascun versificatore lo debbia
usare. Oltre di questo, se quello, che in suo genere è ottimo, si mescola con
lo inferiore, pare che non solamente non gli tolga nulla, ma che lo faccia
migliore.E però se alcun versificatore, ancora che faccia rozza mente versi,lo
mescolerà con la sua rozzezza, non solamente a lei farà bene, ma appare che
così le sia bisogno di fare; perciò che molto è più bisogno di ajuto a quelli
che ponno poco, che a quelli che ponno assai;e così appare che a tutti i
versificatori sia licito di usarlo. M a questo è falsissimo; perciò che ancora
gli eccellentissimi poeti non se ne denno sempre vestire,come per le cose di
sotto trattate si po trà comprendere.Adunque questo Illustre Vol gare ricerca
uomini simili a sé,sì come ancora fanno gli altri nostri costumi & abiti:
la m a gnificenzia grande ricerca uomini potenti, la · Il testo latino ha ipsum
carminemus, che non vale versifichiamolo, ma pettiniamolo, rimondiamolo. porpora
uomini nobili; così ancor questo vuole uomini di ingegno e di scienze
eccellenti; e gli altri dispregia, come per le cose, che poi si diranno, sarà
manifesto.Tutto quello adunque, che a noi si conviene, o per il genere, o per
la sua specie, o per lo individuo ci si convie ne; come è sentire, ridere,
armeggiare; m a questo a noi non si conviene per il genere; perchè sarebbe
convenevole anco a le bestie; ne per la specie; perchè a tutti gli uomini saria
convenevole: di che non c'è alcun dubbio; chè niun dice,che'lsiconvenga
aimontanari.Ma gli ottimi concetti non possono essere, se non dove è
scienzia,& ingegno; adunque la ottima loquela non si conviene a chi tratti
di cose grossolane; conviene sì per l'individuo; m a nulla a l'individuo
conviene se non per le pro prie dignità; come è mercantare, armeggiare,
reggere.E però, selecoseconvenienti risguar dano le dignità, cioè i degni;
& alcuni possono essere degni, altri più degni, & altri degnissi mi;è
manifesto,che le cose buone a i degni,le migliori a i più degni, le ottime a i
degnissimi si convengono. E conciò sia che la loquela non altrimenti sia
necessario istromento a i nostri concetti, di quello che si sia il cavallo al
sol dato; e convenendosi gli ottimi cavalli a gli ottimi soldati, a gli ottimi
concetti (come è detto) la ottima loquela si converrà. M a gli ottimi concetti
non ponno essere,se non dove è scien zia,& ingegno;adunque
laottimaloquelanon si convien se non a quelli, che hanno scienzia,
& ingegno; e così non à tutti i versificatori si convien ottima loquela, e
consequentemente nè l'ottimo Volgare; conciò sia che molti senza scienzia,e
senza ingegno facciano versi.E però, se a tutti non conviene, tutti non denno
usa re esso; perciò che niuno dee far quello, che non si gli conviene.E dove
dice,che ogni uno dee ornare i suoi versi quanto può,affermiamo esser vero; m a
nè il bove efippito !, nè il porco balteato chiameremo ornato,anzi fatto
brutto, e di loro ci rideremo; perciò che l'ornamento non è altro, che uno
aggiungere qualche con venevole cosa a la cosa che si orna. A quello ove si dice,
che la cosa superiore con la infe riore mescolata adduce perfezione, dico esser
vero,quando laseparazionenonrimane;come è, se l'oro fonderemo insieme con
l'argento; ma se la separazione rimane,la cosa inferiore si fa più vile; come è
mescolare belle donne con brutte. Laonde conciò sia che la senten zia de i
versificatori sempre rimanga separata mente mescolata con le parole, se la non
sarà ottima, ad ottimo Volgare accompagnata, non migliore,ma peggiore
apparerà,a guisa di una brutta donna, che sia di seta o d'oro vestita.
Ephipiatum vale insellato, e balteatum vale cin turato. In qual materia
stia bene usare Apoichè avemo dimostrato, che non tutti il Volgare
Illustre. D tissimi denno usare il Volgare Illustre, conse i versificatori, m a
solamente gli eccellen quente cosa è dimostrare poi, se tutte le m a terie sono
da essere trattate in esso, o no; e se non sono tutte, veder separatamente
quali sono degne di esso. Circa la qual cosa prima è da trovare quello che noi
intendiamo,quando dicemo degna essere quella cosa, che ha di gnità, si come è
nobile quello che ha nobiltà; e così conosciuto lo abituante, si conosce lo
abituato, in quanto abituato di questo; però conosciuta la dignità, conosceremo
ancora il degno. È adunque la dignità un effetto, o vero termino de i
meriti;perciò che quando uno ha meritato bene, dicemo essere pervenuto a la
dignità del bene; e quando ha meritato male, a quella del male; cioè quello che
ha ben c o m battuto, è pervenuto a la dignità de la vittoria, e quello che ha
ben governato, a quella del regno; e così il bugiardo a la dignità de la
vergogna, & il ladrone a quella de la morte. Ma conciò sia che in quelli,
che meritano bene, si facciano comparazioni, e cosi ne gli altri, perchè alcuni
meritano bene,altri meglio,altri ottimamente, & alcuni meritano
male, altri peggio,altripessimamente;e conciò ancora sia, che tali comparazioni
non si facciano, se non avendo rispetto al termine de imeriti, il qual termine
(come è detto) si dimanda dignità, manifesta cosa è,che parimente le dignità
hanno comparazione tra sè,secondoilpiù& ilmeno; cioè che alcune sono grandi,
altre maggiori, altre grandissime; e consequentemente alcuna cosa è degna,
altra più degna, altra degnis sima; e conciò sia che la comparazione de le
dignità non si faccia circa il medesimo objetto, ma circa diversi, perchè
dicemo più degno quello che è degno di una cosa più grande, e degnissimo quello
che è degno d'una altra cosa grandissima; perciò che niuno può essere di una
stessa cosa più degno; manifesto è che le cose ottime (secondo che porta il
dovere) sono de le ottime degne.Laonde essendo questo Vol gare (che dicemo
Illustre) ottimo sopra tutti gli altri volgari,consequente cosa è,che solamente
le ottime materie siano degne di essere trat tateinesso;ma
qualisisianopoiquellema terie,che chiamiamo degnissime,è buono al presente
investigarle.Per chiarezza de le quali cose è da sapere, che si come ne l'uomo
sono tre anime, cioè la vegetabile, la animale e la razionale, cosi esso per
tre sentieri cammina; perciò che secondo che ha l'anima vegetabile,
cerca,quello che è utile, in che partecipa con le piante; secondo che ha l'animale,
cerca , quello, che è dilettevole, in che partecipa con le
bestie; e secondo che ha la razionale, cer ca l'onesto, in che è solo, o vero a
la natura angelica s'accompagna; tal che tutto quel che facciamo, par che si
faccia per queste tre cose. E perchè in ciascuna di esse tre sono alcune cose,
che sono più grandi, & altre grandissi me;per la qual ragione quelle cose,
che sono grandissime, sono da essere grandissimamente trattate, e
consequentemente col grandissimo Volgare;ma è da disputare quali si siano que
ste cose grandissime. E primamente in quello, che è utile; nel quale, se accortamente
consi deriamo la intenzione di tutti quelli, che cer cano la utilità, niuna
altra troveremo, che la salute. Secondariamente in quello, che è dilet tevole;
nel quale dicemo quello essere massi mamente dilettevole, che per il
preciosissimo objetto de l'appetito diletta; e questi sono i
piaceridiVenere.Nel terzo,cheèl'onesto, niun dubita essere la virtù. Il perchè
appare queste tre cose,cioè la salute,ipiaceridi Ve nere, e la virtù essere
quelle tre grandissime materie, che si denno grandissimamente trat tare, cioè
quelle cose, che a queste grandissime sono; come è la gagliardezza de l'armi,
l'ar denzia de l'amore, e la regola de la volontà. Circa le quali tre cose sole
(se ben risguar diamo) troveremo gli uomini illustri aver vol garmente cantato;
cioè Beltramo di Bornio le armi; Arnaldo Danielo lo amore; Gerardo de Bornello
la rettitudine; Cino da Pistoia lo a m o re; lo amico suo la rettitudine.
Beltramo adunque dice, « Non puesc mudar q'un chantar non esparja. » Arnaldo, «
Laura amara fa 'ls broils blancutz clarzir. » Gerardo, N o n trovo poi, che
niun Italiano abbia fin qui cantato de l'armi. Vedute adunque queste cose (che
avemo detto), sarà manifesto quello, che sia nel Volgare Altissimo da cantare. In
qual modo di rime si debba usare R a ci sforzeremo sollicitamente d'investi 0
gareilmodo,colqualedebbiamo stringere quelle materie, che sono degne di tanto V
o l gare.Volendo adunque dare ilmodo, col quale , « Per solatz revelhar
Que s'es trop endormitz.» « Degno son io,che mora.» « Doglia mi reca nelo cuore
ardire. » il Volgare Altissimo. Cino, Lo amico suo, queste degne materie
si debbiano legare; primo dicemo doversi a la memoria ridurre,che quelli, che hanno
scritto Poemi volgari,hanno essi per molti modi mandati fuori; cioè alcuni per
C a n zoni, altri per Ballate, altri per Sonetti, altri per alcuni altri
illegittimi & irregolari modi, Come di sotto simostrerà. Di questi modi
adun que il modo de le Canzoni essere eccellentissi m o giudichiamo; là onde se
lo eccellentissimo è delo eccellentissimo degno, come di sopra è provato,le
materie che sono degne de lo eccel lentissimo Volgare, sono parimente degne de
lo eccellentissimo modo,e consequentemente sono da trattare ne le Canzoni;e che
'l modo de le Canzoni poi sia tale, come si è detto, si può per molte ragioni
investigare.E prima,essendo Canzone tutto quello che si scrive in versi, &
essendo a le Canzoni sole tal vocabolo attri buito, certo non senza antiqua
prerogativa è processo. Appresso, quello che per sè stesso adempie tutto quello
per che egli è fatto, pare esser più nobile, che quello che ha bisogno di cose
che sieno fuori di sè; m a le Canzoni fanno per sè stesse tutto quello che
denno; il che le Ballate non fanno,perciò che hanno bisogno di
sonatori,aliqualisonofatte;adunque séguita, che le Canzoni siano da essere
stimate più n o bili de le Ballate, e consequentemente il modo loro essere
sopra gli altri nobilissimo, conciò sia che niun dubiti, che il modo de le
Ballate non sia più nobile di quello de i Sonetti. A p , presso
pare, che quelle cose siano più nobili, che arrecano più onore a quelli che le
hanno fatte; e le Canzoni arrecano più onore a quelli che le hanno fatte, che
non fanno le Ballate; adunque sono di esse più nobili, e consequen temente il
modo loro è nobilissimo. Oltre di questo, le cose che sono nobilissime, molto
ca ramente si conservano; m a tra le cose cantate, le Canzoni sono molto
caramente conservate, come appare a coloro che vedeno ilibri; adun que le
Canzoni sono nobilissime,e consequen temente ilmodo loro è
nobilissimo.Appresso, ne le cose artificiali quello è nobilissimo che comprende
tutta l'arte; essendo adunque le cose,che si cantano, artificiali, e ne le
Canzoni sole comprendendosi tutta l'arte, le Canzoni
sononobilissime,ecosìilmodo loroènobi lissimo sopra gli altri.Che tutta l'arte
poi sia ne le Canzoni compresa,in questo simanifesta, che tutto quello che si
truova de l'arte, è in esse,ma non si converte 1. Questo segno adun que di ciò
che dicemo, è nel cospetto di ogni uno pronto; perciò che tutto quello che da
la cima de le teste de gli illustri poeti è disceso a le loro labbra,solamente
ne le Canzoni si ri truova. E però al proposito è manifesto, che quelle cose che
sono degne di Altissimo V o l gare, si denno trattare ne le Canzoni. Sed non
convertitur.Più chiaro di non si converte sarebbe però non e converso,ovvero
non al contrario. De la varietà de lo stile secondo la qualità de la poesia. L'adpotiavimusdellatinononvaleavemoapprovato,
ma abbiamo dato a bere.Il Fraticelli propone che si tra duca per traslato:
abbiamo dato un saggio. A poi che avemo districando approvato 1 co, e che
materie siano degne di esso, e parimente il modo, il quale facemo degno di tanto
onore, che solo a lo Altissimo Volgare si con venga; prima che noi andiamo ad
altro, di chiariamo il modo delle ca nzoni, le quali pajono da molti più tosto
per caso che per arte usur parsi. E manifestiamo il magisterio di quel l'arte,
il quale fin qui è stato casualmente preso, lasciando da parte il modo
deleBallate e de i Sonetti; per ciò che esso intendemo dilu cidare nel quarto
Libro di quest'opera nostra, quando del Volgare Mediocre tratteremo. R i
veggendo adunque le cose che avemo detto, ci ricordiamo avere spesse volte
quelli, che fanno versi volgari, per poeti nominati; il che senza dubbio
ragionevolmente avemo avuto ardimento di dire; per ciò che sono certamente
poeti, se drittamente la poesia consideriamo; la quale non è altro che una
finzione rettorica, e po sta in musica.Non di meno sono differenti da i ,
grandi poeti, cioè da i regulati; per ciò che quelli 1 hanno usato sermone
& arte regulata, e questi (come si è detto) hanno ogni cosa a caso; il
perchè avviene, che quanto più stret tamente imitiamo quelli 2,tanto più
drittamente componiamo; e però noi, che volemo porre ne le opere nostre qualche
dottrina, ci bisogna le loro poetiche dottrine imitare. Adunque s o pra ogni
cosa dicemo, che ciascuno debbia pi gliare il peso de la materia eguale a le
proprie spalle, a ciò che la virtù di esse dal troppo peso gravata, non lo
sforzi a cadere nel fango. Questo è quello, che il maestro nostro Orazio
comanda,quando nel principio dela sua Poe tica dice, « Voi, che scrivete versi,
abbiate cura Di tor subjetto al valor vostro eguale.» Dapoinelecose,che
cioccorrono + Il testo latino ha isti:quindi non quelli,ma questi; e per
conseguenza nella riga seguente non questi, ma quelli. Sarebbe più chiaro dire
i primi in luogo di quelli. devemo usare divisione, considerando da
cantarsi con modo tragico,o comico, o ele giaco. Per la Tragedia prendemo lo
stile s u periore,per la Commedia lo inferiore, per l'E dei miseri. Se le cose
che ci oc legia quello cantate col correno, pare che siano da essere modo
tragico, allora è da pigliare il Volgare Illustre, e conseguentemente da legare
la Can a dire, se sono 1 Il testo latino ha: tensis fidibus adsumat
secure plectrum; che deve essere tradotto: tese le corde, a s suma francamente
ilplettro. zone; m a se sono da cantarsi con cómico, si piglia alcuna
volta ilVolgare Mediocre, ed al cuna volta l'Umile; la divisione de i quali nel
quarto di quest'opera ci riserviamo a mostra re. Se poi con elegiaco, bisogna
che solamente pigliamo l'Umile.M a lasciamo gli altri da parte, & ora (come
è il dovere) trattiamo de lo stile tragico. Appare certamente, che noi usiamo
lo stile tragico, quando e la gravità de le sen tenzie, e la superbia de i
versi, e la elevazione de le construzioni,e la eccellenzia de ivocaboli si
concordano insieme. M a perchè (se ben ci ricordiamo) già è provato, che le
cose somme sono degne de le somme, e questo stile che chiamiamo tragico, par e
essere il sommo dei stili; però quelle cose che avemo già distinte doversi
sommamente cantare, sono da essere in questo solo stile cantate; cioè la salute,
lo amore e la virtù, e quelle altre cose, che per cagion di esse sono ne la
mente nostra conce pute, pur che per niun accidente non siano fatte vili.
Guardişi adunque ciascuno, e di scerna quello che dicemo; e quando vuole que
ste tre cose puramente cantare, o vero quelle che ad esse tre dirittamente e
puramente se gueno, prima bevendo nel fonte di Elicona, ponga sicuramente a
l'accordata lira il sommo plettro 1,e costumatamente cominci.Ma a fare
questa Canzone e questa divisione come si dee, qui è la difficultà, qui è
la fatica; per ciò che mai senza acume d'ingegno, nè senza assiduità d'arte, nè
senza abito di scienze non si potrà fare. E questi sono quelli che 'l Poeta nel
VI de la Eneide chiama diletti da Dio, e da la ar dente virtù alzati al cielo,
e figliuoli de gli Dei, avegna che figuratamente parli. E pero si confessa la
sciocchezza di coloro, i quali senza arte,e senza scienzia,confidandosi
solamente del loro ingegno, si pongono a cantar som mamente le cose
somme.Adunque cessino que sti tali da tanta loro presunzione; e se per la loro
naturale desidia sono oche, non vogliano l'aquila,che altamente vola, imitare sentenzie
a bastanza, o almeno tutto quello che a l'opera nostra si richiede; il perchè
ci affretteremo di andare a la superbia dei versi. Circa i quali è da sapere,
che i nostri pre cessori hanno ne le loro Canzoni usato varie sorti di versi,
il che fanno parimente imoder ni; m a in fin qui niuno verso ritroviamo, che
abbia oltre la undecima sillaba trapassato, nè sotto la terza disceso. Et avegna
che i Poeti , De lacomposizionedeiversi e de la loro varietà sillabica.
Noi pare di aver detto de la gravità de le A Italiani abbiano usate
tutte le sorti di versi, che sono da tre sillabe fino a undici, non di meno il
verso di cinque sillabe, e quello di sette, e quello di undeci sono in uso più
fre quente; e dopo loro si usa il trisillabo più de gli altri; de gli quali
tutti quello di undeci sillabe pare essere il superiore sì di occupa zione di
tempo, come di capacità di sentenzie, di construzioni e di vocaboli; la
bellezza de le quali cose tutte si moltiplica in esso, come manifestamente
appare, per ciò che ovunque sono moltiplicate le cose che pesano, si molti
plica parimente il peso.E questo pare che tutti i dottori abbiano conosciuto,
avendo le loro illustri Canzoni principiate da esso; come G e rardo di Bornello,
« Ara auzirez encabalitz cantars.» Il qual verso avegna che paja di dieci silla
be,è però,secondo la verità de la cosa, di undeci; per ciò che le due ultime
consonanti non sono de la sillaba precedente.Et avegna che non abbiano propria
vocale, non perdono peròlavirtùdelasillaba;& ilsegnoè,che ivi la rima si
fornisce con una vocale; il che essere non può se non per virtù de l'altra che
ivi si sottintende. Il re di Navara, «De finamor sivient sen e bonté.» Ove se
si considera l'accento e la sua cagione, apparirà essere endecasillabo. ,
«Amor,che longiamente m'hai menato.» «Per finamore vo silietamente.» « Amor,
che muovi tua virtù dal cielo.» «Al cor gentil ripara sempre amore.» 11
Giudice di Colonna da Messina, Guido Guinicelli, Rinaldo d'Aquino, «Non spero
che giammai per mia salute.» Et avegna che questo verso endecasillalo (co me
sièdetto)siasopratuttiperildoverece leberrimo, non di meno se'l piglierà una
cer ta compagnia de lo eptasillabo, pur che esso però tenga il principato, più
chiaramente e più altamente parerà insuperbirsi, ma questo si rimanga più oltra
a dilucidarsi. Così diciamo che l’eptasillabo segue a presso quello che è
massimo ne la celebrità. Dopo questo quello che chiamiamo pentasillabo,e poi il
trisillabo ordiniamo.Ma quel di nove sillabe, per essere il trisillabo
triplicato, o vero mai non fu in onore, o vero per il fastidio è uscito di uso.
Quelli poi di sillabe pari, per la sua rozzezza non usiamo se non rare volte;
per ciò che ri tengono la natura de i loro numeri,i quali s e m Cino da Pistoja,
Lo amico suo: Erchè circa il Volgare Illustre la nostra nobilissimo;
però avendo scelte le cose che sono degne di cantarsi in esso, le quali sono
quelle tre nobilissime che di sopra avemo pro vate; & avendo ad esse eletto
il modo de le Canzoni, si come superiore a tutti gli altri modi, & a ciò
che esso modo di Canzoni pos siamo più perfettamente insegnare, avendo già
alcune cose preparate, cioèlostile,& iversi; ora de la construzione diremo.
È adunque da sapere, che noi chiamiamo construzione una regulata composizione
di parole, come è, Ari stotile diè opera a la filosofia nel tempo di
Alessandro. Qui sono diece parole poste regu latamente insieme, e fanno una
construzione. pre soggiaceno a i numeri caffi, sì come fa la materia a la
forma. E cosi raccogliendo le cose dette, appare lo endecasillabo essere su
perbissimo verso; e questo è quello che noi cercavamo. Ora ci resta di
investigare de le construzioni elevate e de i vocaboli alti, e fi nalmente,
preparate le legne e le funi, inse gneremo a che modo il predetto fascio, cioè
la Canzone, si debba legare. De le construzioni, che si denno usare ne le
Canzoni. P si M a circa questa prima è da considerare, che de le
construzioni altra è congrua, & altra è incongrua.E
perchè(seilprincipiodelano stra divisione bene ciricordiamo)noi cerchiamo
solamente le cose supreme, la incongrua in questa nostra investigazione non ha
loco; per ciò che ella tiene il grado inferiore de la bontà. Avergogninsi
adunque, avergogninsi gli idioti di avere da qui innanzi tanta audacia, che v a
dano aleCanzoni;de iquali non altrimenti so lemo riderci, di quello che si
farebbe d'un cieco,ilqualedistinguesseicolori1.È adun que la construzione
congrua quella che cerchia mo.Ma ci accade un'altra divisione 2 di non minore
difficultà, avanti che parliamo di quella construzione,che cerchiamo,cioè di
quella che è pienissima di urbanità; e questa divisione e, che molti sono i
gradi de le construzioni, cioè lo insipido, il quale è de le persone grosse,
come è, Piero ama molto madonna Berta. Ecci il semplicemente saporito, il quale
è de i scolari rigidi, o vero de i maestri, come è, Di
tuttiimiserim'incresce;ma homaggiorpietà di coloro, i quali in esiglio
affliggendosi, r i vedeno solamente in sogno le patrie loro. Ecci ancora il
saporito e venusto, il quale è di alcuni, che così di sopra via pigliano la R e
t torica,come è,La lodevole discrezione del Meglio, forse, ragionasse o
giudicasse di colori. 2 Meglio distinzione (discretio). «Nuls hom non pot complir adreitamen.» Amerigo
di Peculiano, «Si com’l'arbres,que per sobrecarcar.» ' Præparata qui ha il
senso di preveniente. « Si per mon Sobretot no fos.» Il re di Navara, « T
a m m'abelis l'amoros pensamens. » Arnaldo Daniello, marchese da Este,e la sua
preparata 1 magni ficenzia fa esso a tutti essere diletto. Ecci a p presso il
saporito e venusto, ed ancora eccelso, ilqualeèdeidettatiillustri,come è,Avendo
Totila mandato fuori del tuo seno grandissima parte de i fiori, o Fiorenza,
tardo in Sicilia, e indarno se n'andd. Questo grado di constru zione chiamiamo
eccellentissimo, e questo è quello che noi cerchiamo, investigando (come si è
detto ) le cose supreme. E di questo sola mente le illustri Canzoni si trovano
conteste, come: Gerardo, « Dreit amor qu'en mon cor repaire.» Folchetto di
Marsiglia, « Sols sui qui sai lo sobrafan, que m sorts.» Amerigo de
Belimi, « Tegno di folle impresa a lo ver dire.» « Avegna ch'io non
aggia più per tempo.» « Amor, che ne la mente mi ragiona.» N o n ti
maravigliare, lettore, che io abbia tanti autori a la memoria ridotti; per ciò
che non possemo giudicare quella construzione, che noi chiamiamo suprema, se
non per simili esempj. E forse utilissima cosa sarebbe per abituar quella, aver
veduto i regulati poeti, cioè Virgilio, la Metamorfosi di Ovidio, Stazio e
Lucano, e quelli ancora che hanno usato al tissime prose; come è Tullio, Livio,
Plinio, Frontino, Paolo Orosio, e molti altri, i quali la nostra amica
solitudine ci invita a vedere. Cessino adunque i seguaci de la ignoranzia, che
estolleno Guittone d'Arezzo, & alcuni al tri, i quali sogliono alcune volte
1 ne i vocaboli e ne le construzioni essere simili a la plebe. Nunquam
invocabulisatqueconstructionedesuetos plebescere.Non dunque alcune volte,ma
sempre., Guido Cavalcanti, « Poi che di doglia cor convien, ch'io porti.» >
Guido Guinizelli, Cino da Pistoja, Lo amico suo, 1 dere ricerca,
che siano dichiarati quelli vocaboli grandi, che sono degni di stare sotto
l'altissimo stile. Cominciando adunque, affir miamo non essere piccola
difficultà de lo intel letto a fare la divisione dei vocaboli; per cið che
vedemo, che se ne possono di molte m a niere trovare.De i vocaboli adunque
alcuni sono puerili, altri feminili, & altri virili, e di questi alcuni
silvestri,& alcuni cittadineschi chiamia m o 1,& alcuni pettinati, e
lubrici; alcuni irsuti e rabuffati conosciamo; tra i quali i pettinati e
gl’irsuti sono quelli che chiamiamo grandi; i lubrici poi e i rabuffati sono
quelli la cui riso nel metro volgare. A successiva provincia del nostro
proce. Quali vocaboli si debbano porre e quali no 1IlCorbinelliha:ethorum
quædam silvestria,quæ dam urbania:eteorum,quo urbana vocamus,quo dam
pesaethirsuta,quædam lubricaetreburrasenti
mus.LatraduzionedelTrissinovaraddrizzatacosi:edi questi alcuni silvestri,e
alcuni cittadineschi;e di quelli che chiamiamo cittadineschi, alcuni pettinati
e irsuti, alcuni lubricierabbuffati. Altrihanno invece:quædam pexaetlubrica, quædam
hirsutaetreburra:cioèal cunipettinati e lubrici (ossia scorrenti),alcuni irsuti
e rabbuffati., nanzia è superflua; per ciò che si come ne le grandi opere
alcune sono opere di magnanimità, altre di fumo, ne le quali avvenga che così
di sopra via paja un certo ascendere,a chi però con buona ragione esse
considera, non ascendere, m a più tosto ruina per alti precipizj essere g i u
dicherà; con ciò sia che la limitata linea de la virtù si trapassi. Guarda
adunque, lettore, quanto per scegliere le egregie parole ti sia bisogno di
crivellare; per ciò che se tu consi deri il Volgare Illustre, il quale i Poeti
Vol gari, che noi vogliamo ammaestrare, denno (come di sopra si è detto)
tragicamente usare, averai cura, che solamente i nobilissimi v o c a boli nel
tuo crivello rimangano. Nel numero dei quali ne i puerili per la loro
simplicità, com'è mamma e babbo,mate epate,per niun modo potrai collocare; nè
anco i feminili, per la loro mollezza, come è dolciada e placevole; nè i contadineschi
per la loro austerità, come è gregia e gli altri; nè i cittadineschi, che siano
lubrici e rabuffati, come è femine e corpo, vi si denno porre. Solamente
adunque i citta dineschi pettinati & irsuti vedrai che ti resti no, i quali
sono nobilissimi, e sono membra del Volgare Illustre. E noi chiamiamo pettinati
quelli vocaboli, che sono trisillabi, o vero v i cinissimi al trisillabo, e che
sono senza aspi razione, senza accento acuto, o vero circum flesso, senza z nè
a duplici, senza gemina zione di due liquide, e senza posizione, in cui
·Qucecampsarenonpossumus,cioèchenonsipos sono scansare. la muta sia immediatamente posposta, e che
fanno colui che parla quasi con certa soavità rimanere, come è amore, donna,
disio, virtute, donare, letizia, salute, securitate, difesa. Ir sute poi
dicemno tutte quelle parole, che oltra queste sono o necessarie al parlare
illustre, ornative di esso. E necessarie chiamiamo quel le che non possiamo
cambiare 1; come sono al cune monosillabe, cioèsi,vo,me,te,se,a,e,i, 0,u;eleinterjezioni,&
altremolte.Ornative poi dicemo tutte quelle di molte sillabe, le quali
mescolate con le pettinate fanno una bella armonia ne la struttura, quantunque
abbiano asperità di aspirazioni, di accento, e di d u plici, e di liquide, e di
lunghezza, come è terra, onore, speranza, gravitate, alleviato,
impossibilitate, benavventuratissimo, avventu ratissimamente,
disavventuratissimamente, sovramagnificentissimamente, il quale vocabolo è
endecasillabo.Potrebbesi ancora trovare un vocabolo, o vero parola, di più
sillabe, m a perchè egli passerebbe la capacità di tutti i nostri versi, però a
la presente ragione non pare opportuno; come è onorificabilitudinitate, il
quale in volgare per dodeci sillabe si compie; & in grammatica per tredeci,
in dui obliqui però.In che modo poi le pettinate siano da es sere ne i versi
con queste irsute armonizate, lascieremo ad insegnarsi di sotto.E
questo che si è detto de l'altezza dei vocaboli, ad ogni gentil discrezione 1
sarà bastante. Ra preparate le legne e le funi, è tempo da legare il fascio; ma
perchè la cogni zione di ciascuna opera dee precedere a la ope razione,laquale
ècome segno avanti iltrarre de la sagitta,ovvero del dardo;però prima,e
principalmente veggiamo qual sia questo fascio, che volemo legare. Questo
fascio adunque bene ci ricordiamo tutte le cose trattate) è la
Canzone;eperòveggiamochecosasiaCanzone, e che cosa intendemo quando dicemo
Canzone. La Canzone dunque,secondo la vera significa zione del suo nome, è essa
azione o vero pas sione del cantare; sì come la lezione è la pas sione o vero
azione del leggere; m a dichiariamo quello che si è detto, cioè, se questa si
chiama Canzone, in quanto ella sia azione o in quanto passione del cantare.
Circa la qual cosa è da considerare, che la Canzone si può prendere in dui modi,
l'uno de li quali modi è, secondo "Ingenuce discretioni,cioè ad ogni non
viziato di scernimento. , Che cosa è Canzone, e che in più maniere può
variarsi. o tuono, o nota, o melodia. E niuno trombetta, o
organista, o citaredo chia m a il canto suo Canzone, se non in quanto
siaaccompagnatoaqualcheCanzone;ma quelli che compongono parole armonizate,
chiamano le opere sue Canzoni.Et ancora che tali pa role siano scritte in carte
e senza niuno che le proferisca, si chiamano Canzoni; e però non pare che la
Canzone sia altro, che una c o m che
ella è fabbricata dal suo autore; e così è azione; e secondo questo modo
Virgilio nel primo de l'Eneida dice, « lo canto l'arme e l'uomo.» L'altro modo
è, secondo il quale ella da poi che è fabbricata si proferisce, o da lo autore,
o da chi che sia,o con suono,osenza,ecosì è passione. E perchè allora da altri
è fatta, & ora in altri fa, e così allora azione, & ora passione essere
si vede.Ma conciò sia che essa è prima fatta,e poi faccia;pero più tosto,anzi
al tutto par che si debbia nominare da quello che ella è fatta, e da quello che
ella è azione di alcuno,che da quello che ella faccia in altri. Et il segno di
questo è, che noi non dicemo mai, questa Canzone è di Pietro perchè esso la
proferisca, m a perchè esso l'abbia fatta. O l tre di questo è da vedere, se si
dice Canzone la fabbricazione de le parole armonizate, o vero essa modulazione,
o canto; a che dicemo, che m a i il canto n o n si c h i a m a Canzone, ma 0
suono, piuta azione di colui, che detta parole a r m o
nizate,& atte al canto. Laonde così le Canzo ni,che ora trattiamo,come le
Ballate e Sonetti, e tutte le parole a qualunque modo armoni zate, o
volgarmente, o regulatamente, dicemo essere Canzoni; m a perciò che solamente
trat tiamo le cose volgari,però lasciando le regulate da parte,dicemo,che dei
poemi volgari uno ce n'èsupremo, il quale persopraeccellenziachia miamo
Canzone; « Donne,che avete intelletto di amore.» E così è manifesto che cosa
sia Canzone,e se condo che generalmente si prende, e secondo che per
sopraeccellenzia la chiamiamo. Et a s sai ancora pare manifesto che cosa noi
inten demo,quandodicemoCanzone;e consequente Meglio forse,quiealtrove,un
collegamento (conjugatio). , che la Canzone sia una cosa suprema, nel
terzo Capitolo di questo Libro è provato;ma conciò sia che questo,che è dif
finito, paja generale a molti, però risumendo detto vocabolo generale,che già è
diffinito,di stinguiamo per certe differenzie quello che so lamente cerchiamo.Dicemo
adunque che la Canzone,la quale noi cerchiamo,in quanto che per
sopraeccellenzia è detta Canzone, è una con giugazione 1 tragica di Stanzie
equali senza risponsorio, che tendono ad una sentenzia, come noi dimostriamo
quando dicemmo 2 2Iltestolatinoha:utnosostendimus,cum diximus.
mente qual sia quel fascio,che vogliamo legare. Noi poi dicemo, che ella
è una tragica congiu gazione; perciò che quando tal congiugazione si fa
comicamente, allora la chiamiamo per diminuzione cantilena, de la quale nel
quarto Libro di questo avemo in animo di trattare. Stanzie,e non sapendosi che cosa sia Stan zia,
segue di necessità, che non si sappia a n cora che cosa sia Canzone; perciò che
de la cognizione de le cose, che diffiniscono, resul ta ancora la cognizione de
la cosa diffinita, e però consequentemente è da trattare de la Stanzia, accio
che investighiamo, che cosa essa si sia, e quello che per essa volemo
intendere. Ora circa questo è da sapere, che tale voca bolo è stato per
rispetto de l'arte sola ritro vato; cioè perchè quello si dica Stanzia, nel
quale tutta l'arte de la Canzone è contenuta, e q u e s t a è l a Stanzia capace,
o v e r o il r e c e t t a c o l o di tutta l'arte; perciò che sì come la
Canzone è il grembo di tutta la sentenzia,così la Stan zia riceve in grembo
tutta l'arte; nè è lecito di arrogere alcuna cosa di arte a le Stanzie s e
quenti; m a solamente si vestono de l'arte de la. Quali siano le principali
parti de la Canzone, e che la Stanzia n'è la parte principalissima. Ssendo la
Canzone una congiugazione di prima: il perchè è manifesto, che essa
Stanzia (de la qual parliamo ) sarà un termine, o vero una compagine di tutte
quelle cose, che la Canzone riceve da l'arte;le quali dichiarite, il descrivere
che cerchiamo,sarà manifesto.Tutta l'arte adunque de la Canzone pare, che circa
tre cose consista, de le quali la prima è circa la divisione del canto, l'altra
circa la abitu dine1deleparti,laterzacircailnumero dei versi e de le sillabe;
de le rime poi non face mo menzione alcuna;perciò che non sono de la propria
arte de la Canzone.È lecito certamente in cadauna Stanzia innovare le rime, e
quelle medesime a suo piacere replicare; il che, se la rima fosse di propria
arte de la Canzone, le cito non sarebbe.E se pur accade qualche cosa de le rime
servare, l'arte di questo ivi si con tiene,quando diremo de la abitudine de le
parti. Il perchè così possiamo raccogliere da le cose predette, e diffinire,
dicendo, la Stanzia è una compagine 2 diversi e di sillabe, sotto un certo
canto, e sotto una certa abitudine limitata. 2 Il testo latino ha: limitatam
compaginem. , La voce abitudine, qui e altrove, significa propor zione,
disposizione. S ne la Canzone. Che
sia il canto de la Stanzia, e che la Stanzia si varia in parecchi modi Apendo
poi che l'animale razionale è uomo, e che s e n s i b i l e è l ' a n i m a,
& il c o r p o è a n i male; e non sapendo che cosa si sia quest'a nima, nè
questo corpo,non possemo avere per fettacognizionedel'uomo;perciòchelaperfetta
cognizione di ciascuna cosa termina ne gli ul timi elementi, sì come il maestro
di coloro che sanno, nel principio de la sua Fisica affer ma.Adunque
peraverelacognizionedelaCan zone,che desideriamo,consideriamo al presente sotto
brevità quelle cose,che diffiniscano il dif finiente di lei; e prima del
canto,da poi de la abitudine,e poscia de i versi e de le sillabe in
vestighiamo.Dicemo adunque,che ogni Stanzia è armonizata a ricever una certa
oda, o vero canto; ma pajono esser fatte in modo diverso, che alcune sotto una
oda continua fino a l’ul timo procedeno, cioè senza replicazione di al cuna
modulazione, e senza divisione;e dicemo divisione quella cosa, che fa voltare
di un'oda in un'altra;la quale quando parliamo col vul go,chiamiamo Volta.E
questeStanziediun'oda sola Arnaldo Daniello usò quasi in tutte le
sue Canzoni; e noi avemo esso seguitato quando dicemo, · Il testo ha syrma, che
è quanto dire strascico. « Al poco giorno,& al gran cerchio d'ombra.»
Alcune Stanzie sono poi, che patiscono divi sione. E questa divisione non può
essere nel modo che la chiamiamo, se non si fa replica zione di una oda o
davanti la divisione, o da poi, o da tutte due le parti, cioè davanti e da poi.
E se la repetizion de l'oda si fa avanti la divisione, dicemo, che la Stanzia
ha piedi; la quale ne dee aver dui; avegna che qualche volta se ne facciano
tre, ma molto di rado.Se poi essa repetizion di oda si fa dopo la divi sione,
dicemo la Stanzia aver versi. M a se la repetizione non si fa avanti la divisione,di
cemo la Stanzia aver fronte; e se essa non si fa da poi,la dicemo aver sirima?,o
vero coda. Guarda adunque, lettore, quanta licenzia sia data a li poeti che
fanno Canzoni; e considera per che cagione la usanza si abbia assunto si largo
arbitrio; e se la ragione ti guiderà per dritto calle, vederai, per la sola
dignità de l'autorità essergli stato questo,che dicemo con cesso.Di qui adunque
può essere assai mani festo a che modo l'arte de le Canzoni consista circa la
divisione del canto; è però andiamo a la abitudine de le parti.e de la
distinzione de'versi che sono da porsi nel componimento. tudine,sia grandissima
parte di quello,che è de l'arte; perciò che essa circa la divisione del canto,
e circa il contesto dei versi, e circa la relazione de le rime consiste; il
perchè a p pare, che sia da essere diligentissimamente trat tata.Dicemo
adunque,che la fronte coi Versi 1, & i piedi con la sirima, o vero coda, e
pari mente i piedi co i Versi possono diversamente ne la Stanzia ritrovarsi;
perciò che alcuna fia ta la fronte eccede i Versi, o vero può ecce dere di
sillabe e di numero di versi; e dico può, perciò che mai tale abitudine non
avemo veduta. Alcune fiate la fronte può avanzare i Versi nel numero de i
versi, & essere da essi Versi nel numero de le sillabe avanzata;come 1 Il
Trissino tradusse con la stessa voce verso tanto il carmen che da Dante fu
usato nel significato proprio e comune di verso, quanto il versus che fu invece
usato da lui per indicare una data parte della stanza,che consta d'un certo
numero di versi. Per togliere ogni equivoco noi stamperemo in corsivo e con
l'iniziale maiuscola la parola Verso quando corrisponde al latino versus.
77 De la abitudine de la Stanzia, del numero de ipiedi e de le sillabe, noi
pare, che questa che chiamiamo abi , se la fronte fosse di cinque versi,
e ciascuno dei Versi fosse di due versi, & i versi de la fronte fosseno di
sette sillabe,e quelli de i Versi fosseno di undeci sillabe. Alcuna altra volta
i Versi avanzano la fronte di numero di versi e di sillabe come in quella che
noi dicemmo, Ove la fronte di quattro versi fu di tre ende casillabi e di uno
eptasillabo contesta:la quale non si può dividere in piedi; conciò sia che i piedi
vogliano essere fra sè equali di numero di versi, e di numero di sillabe,come
vogliono essere frà sè ancora i Versi. M a siccome dice mo, che i Versi
avanzano di numero di versi e di sillabe la fronte, così si può dire, che la
fronte in tutte due queste cose può avanzare i Versi; come quando ciascuno de i
Versi fosse di due versi eptasillabi, e la fronte fosse di cinque versi; cioè
di due endecasillabi e di tre eptasillabi contesta. Alcune volte poi i piedi
avanzano la sirima di versi e di sillabe, come in quella che dicemmo, Et alcuna
volta i piedi sono in tutto da la si rima avanzati; come in quella che dicemmo,
« Donna pietosa, e di novella etate.» E si come dicemmo, che la fronte può
vincere di versi, & essere vinta di sillabe, & al con « Traggemi
de la mente amor la stiva. » « Amor,che movi tua virtù dal cielo.»
trario; così dicemo la sirima. I piedi ancora ponno di numero avanzare i
Versi, & essere da essi avanzati;perciò che ne la Stanzia pos sono essere
tre piedi e dui Versi, e dui piedi e tre Versi; nè questo numero è limitato,
che non si possano più piedi e più Versi tessere insieme. E siccome avemo detto
ne le altre cose de lo avanzare de i versi e de le sillabe, così dei piedi e
dei Versi dicemo, i quali nel medesimo modo possono vincere,& essere vinti.
Nè è da lasciare da parte, che noi pigliamo i piedi al contrario di quello che
fanno i Poeti regulati; perciò che essi fanno il verso de i piedi, e noi dicemo
farsi i piedi di versi, come assai chiaramente appare. Nè è da lasciare da
parte, che di nuovo non affermiamo, che i piedi di necessità pigliano l'uno da
l'altro la abitudine & equalità di versi e di sillabe, p e r ciò che
altramente non si potrebbe fare repeti zione di canto. E questo medesimo
affermiamo doversi servare nei Versi.De la qualità de i versi, che ne la
Stanzia si pongono, e del numero de le sillabe ne i versi. Cci ancora (come di
sopra si è detto) una certa abitudine, la quale quando tessemo iversi devemo
considerare;ma acciò che di E, quella con ragione trattiamo,repetiamo
quello che di sopra avemo detto de i versi; cioè che ne l'uso nostro par che
abbia prerogativa di essere frequentato lo endecasillabo, lo eptasil labo,
& il pentasillabo; e questi sopra gli altri doversi seguitare affermiamo.
Di questi adun que,quando volemo far poemi tragici,lo ende casillabo, per una
certa eccellenzia che ha nel contessere, merita privilegio di vincere; e però
alcune Stanzie sono che di soli endecasillabi sono conteste, come quella di
Guido da Fio renza, « Donna mi prega, perch'io voglio dire. »
«Donne,cheaveteintellettodiamore.» Questo ancora li Spagnuoli hanno usato, e
dico li Spagnuoli che hanno fatto poemi nel volgare Oc. Amerigo de Belmi, «
Nuls h o m non pot complir adreitamen. » Altre Stanzie sono, ne le quali uno
solo epta sillabo sitesse;e questo non può essere,se non ove è fronte, o ver
sirima, perciò che (co me sièdetto)neipiedieneiVersisiri cerca equalità di
versi e di sillabe. Il perchè a n c o r a a p p a r e, c h e il n u m e r o d i
s p a r o d e i v e r s i non può essere se non fronte o coda; ben chè in esse
a suo piacere si può usare paro, o disparo numero deiversi.E così come al
Et ancora noi dicemo: cuna Stanzia è di uno solo eptasillabo
formata, così appare,che con dui,tre,o quattro si possa formare; pur che nel tragico
vinca lo endecasillabo,e da esso endecasillabo si co minci.Benchè avemo
ritrovatialcuni,chenel tragico hanno da lo eptasillabo cominciato, cioè Guido
de iGhislieri,e Fabrizio Bolognesi, Et alcuni altri.Ma se al senso di queste
Can zoni vorremo sottilmente intrare, apparerà tale tragedia non procedere
senza qualche ombra di elegia. Del pentasillabo poi non concedemo a questo modo;
perciò che in un dettato grande basta in tutta la Stanzia inserirvi
un pentasil labo, ovver dui al più ne i piedi; e dico ne i piedi, per la
necessità !, con la quale i piedi & i V e r s i si c a n t a n o; m a b e n
n o n p a r e c h e n e l t r a gico si deggia prendere il trisillabo, che per
sè stia;e dico,che per sè stia;perciò che per una certa repercussione di rime
pare, che frequen ' Propter necessitatem,qua pedibusque versibusque cantatur;
per la necessità che nei piedi e nei Versi si deve cantare. (Fraticelli.)
E, E, 1 « Di fermo sofferire, » «Donna,lofermocuore,» « Lo mio lontano gire.
» temente si usi; come si può vedere in quella Canzone di Guido
fiorentino, « Donna mi prega, perch'io voglio dire, » « Poscia che amor del
tutto m 'ha lasciato. » Nè ivi è per sè in tutto ilverso,ma è parte de lo
endecasillabo, che solamente a la rima del precedente verso a guisa di Eco
risponde. E quinci tu puoi assai sufficientemente conoscere, o lettore,come tu
dei disponere, o vero abituare la Stanzia; perciò che la abitudine pare che sia
da considerare circa i versi. E questo ancora principalmente è da curare circa
la disposizione de i versi: che se uno eptasillabo si inserisce nel primo
piede,che quel medesimo loco,che ivi piglia per suo, dee ancora pigliare ne
l'altro; verbigrazia, se 'l piè di tre versi ha il primo & ultimo verso
endecasillabo,e quel di mezzo, cioè il secondo, eptasillabo, così il secondo
piè dee avere gli estremi endecasillabi, & il mezzo eptasillabo; perciò che
altrimenti stando, non si potrebbe fare la geminazione del canto,per
usodelqualesifannoipiedi,come sièdetto;e consequentemente non potrebbono essere
piedi. E quello che io dico de i piedi, dico parimente de i Versi; perciò che
in niuna cosa vedemo i piedi essere differenti da i Versi,se non nel sito; perciò
che ipiedi avanti ladivisione della Stan zia,ma i Versi dopo essa divisione si
pongono., Et in quella che noi dicemmo: De la relazione de le rime, e con qual
ordine ne la Stanzia si denno porre. T dealcuna cosa al presente non trattando
però de la essenzia loro; perciò che il proprio trat tato di esse riserbiamo,
quando de i mediocri poemi diremo.Ma nel principio di questo Ca pitolo ci pare
di chiarire alcune cose di esse; de le quali una è, che sono alcune Stanzie, ne
le quali non si guarda a niuna abitudine di rime, e tali Stanzie ha usato
frequentissima mente Arnaldo Daniello,come ivi, « Si m fos amors de joi donar
tan larga? » E noi dicemo, L'altra cosa è che alcune Stanzie hanno tutti i
versi di una medesima rima, ne le quali è superfluo cercare abitudine alcuna; e
così resta che circa le rime mescolate solamente debbia mo insistere;in che e
da sapere,che quasi Et ancora sì come si dee fare ne i piedi di tre versi,
così dico doversi fare in tutti gli altri piedi. E quello che si è detto di uno
endeca sillabo, dicemo parimente di dui e di più, e del pentasillabo, e di
ciascun altro verso. «Alpocogiorno,& algrancerchiod'ombra.» 'Iltestolatinoha:quisuasmultasetbonas Can
tiones nobis ore tenus intimavit. Il Fraticelli traduce: ci canto a voce, ossia
ci canto improvvisando. tutti iPoeti si hanno in cið grandissima licen
zia tolta;conciò sia che quinci la dolcezza de l'armonia massimamente
risulta.Sono adun que alcuni, i quali in una istessa Stanzia non accordano
tutte le desinenzie de i versi; m a alcune di esse ne le altre Stanzie
repetiscono, overamenteaccordano;come fuGottoman tuano, il quale fin qui ci ha
molte sue buone Canzoni intimato 1. Costui sempre tesseva ne la Stanzia un
verso scompagnato, il quale essò nominavaChiave.E come diuno,cosìèlecito di dui
e forse di più. Alcuni altri poi sono, e quasi tutti i trovatori di Canzoni,
che ne la Stanzia mai non lasciano alcun verso scompa gnato, al quale la
consonanzia di una o di più rime non risponda. Alcuni poscia fanno le rime de i
versi, che sono avanti la divisione, diverse da quelle dei' versi, che sono d o
p o e s s a; & altri non lo fanno; ma le desinenzie de la pri ma parte de
la Stanzia ancor ne la seconda in seriscono.Non di meno questo spessissime
volte si fa, che con l'ultimo verso de la prima parte, il primo de la seconda
parte ne le desinenzie s'accorda; il che non pare essere altro, che una certa
bella concatenazione di essa Stanzia. La abitudine poi de le rime,che sono ne
la fronte e ne la sirima,è sì ampla, che 'l pare che ogni atta
licenzia sia da concedere a ciascuno, m a non di meno le desinenzie de gli ultimi
versi sono bellissime, se in rime accordate si chiudeno; il che però è da
schifare ne i piedi, ne i quali ritroviamo essersi una certa abitudine servata;
la quale dividendo dicemo, che il primo piè di versi pari, o dispari, si fa; e
l'uno e l'altro può essere di desinenzie accompagnate,o scom pagnate; il che
nel pie diversi pari non è dubbio; m a se alcuno dubitasse in quello di
dispari, ricordisi di ciò che avemo detto nel Capitolo di sopra del
trisillabo,quando essendo parte de lo endecasillabo, come Eco risponde. E se la
desinenzia de la rima in un de i piedi è sola, bisogna al tutto accompagnarla
ne l'al tro;ma seinun piedeciascuna delerimeè accompagnata, si può ne l'altro o
quelle ripe tere, o farne di nuove,o tutte,o parte,se condo che a l'uom piace,pur
che in tutto si servi l'ordine del precedente: verbigrazia, se nel primo piè di
tre versi le ultime desinenzie s'accordano con le prime, così bisogna accor
darvisi quelle del secondo; e se quella di mezzo nelprimo
pièèaccompagnata,oscompagnata; così parimente sia quella di mezzo nel secondo
piè; e questo è da fare parimente in tutte le altre sorti di piedi. Ne i Versi
ancora quasi sempre è a serbare questa legge; e quasi s e m pre dico, perciò
che per la prenominata con catenazione,e per la predetta geminazione de le
ultime desinenzie,ale volte accade il detto or 8 + Il testo latino
ha: cum in isto libro nil ulterius de r i t h i m o r u m doctrina t a n g e r
e i n t e n d a m u s. E si d o v r e b b e tradurre: che in questo libro non
vogliamo parlar pivo della dottrina delle rime. 2 Nel Corbinelli questo ultimo
capitolo è diviso in due. Il decimoterzo finisce con le parole: tanta
sufficiant. (a bastanzasarà.);e il decimoquartocominciaconleparole: , dine
mutarsi. Oltre di questo ci pare conve nevol cosa aggiungere a questo Capitolo
quelle cose, che ne le rime si denno schifare; conciò sia che in questo libro
non vogliamo altro, che quello che si dirà de la dottrina de le rime toccare 1.
Adunque sono tre cose, che circa la posizione di rime non si denno frequentare
da chi compone illustri poemi; l'una è la troppa repetizione di una rima,salvo
che qualche cosa nuova ed intentata de l'arte ciò non si as suma; come il
giorno de la nascente milizia, il quale si sdegna lasciare passare la sua gior
nata senza alcuna prerogativa. Questo pare che noi abbiamo fatto ivi, « Amor,tu
vedi ben,che questa donna;» la seconda è la inutile equivocazione, la qual
sempre pare che toglia qualche cosa a la sen tenzia; e la terza è l'asperità de
le rime, salvo che le non siano con le molli mescolate; per ciò che per la
mescolanza de le rime aspere e delemollilatragediaricevesplendore.E que sto de
l'arte, quanto a l'abitudine si ricerca, a bastanza sarà 2.Avendo quello che è de
l'arte ' Il testo latino ha: discretionem facere, che qui vale
trattare partitamente. de la Canzone assai sufficientemente trattato, ora
tratteremo del terzo, cioè del numero de i versi e de le sillabe. E prima
alcune cose ci bisognano vedere secondo tutta la Stanzia, & altre sono da
dividere, le quali poi secondo le parti loro vederemo.A noi adunque prima s'ap
partiene fare separazione 1 di quelle cose, che ci occorrono da cantare; perciò
che alcune Stanzie amano la lunghezza, & altre no; con ciò sia che tutte le
cose che cantiamo, o circa il destro o circa il sinistro si canta; cioè che
alcuna volta accade suadendo, alcuna volta dissuadendo cantare, & alcuna
volta allegran dosi, alcuna volta con ironia, alcuna volta in laude, &
altra in vituperio dire. E però le p a role, che sono circa le cose sinistre,
vadano sempre con fretta verso la fine, le altre poi con longhezza condecente
vadano passo passo verso l'estremo Ex quo quo sunt artis.... (Avendo quello che
è de l'arte.... ); ed ha il titolo seguente: De numero car minum et syllabarum
in Stantia.(Del numero dei versi e delle sillabe nella Stanzia.)Alighieri.
Keywords: lingua del si, la divina implicitura, lasciate ogne [sic] speranza
voi ch’entrate, inferno – section on ‘divina commedia’ in philosophical
dictionaries. ‘inferno’ catabasis, -- la catabasis d’Enea di Virgilio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alighieri” –
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702240158/in/photolist-2mLKuHL-2mKwuhr-2mKAhjQ-2mKCnei-2mKDteh-2mKDA5r-2mKDGhr-2mKjso7-2mJR8Pr-2mJq2uE-2mJ4GHU-2mGnP2f-2mD5ko7-2mDaBF3-2mD9tnu-2mD9tnp-2mDaCcd-2mD8QUw-2mD5cUE-2mD9tnK-2mD5cUK-2mDaCco-2mDdVKR-2mDdVKW-2mDcR47-2mD9tnE-2mDdY2E-2mD5fju-2mDcTpQ-2mDdY2Q-2mD5fjz-2mD5fjQ-2mD9vKk-2mD5fjE-2mEuJp2-2mERQbG-2mEYjVz-2mD3rUh-sjSVNC-2mKrmMv-2mDkstv-2mDnDyd-2mDjoZS-yb7vPV-s3t4S5-q8gsC7-q7XSd8-pQKmoV-ofTuXT-2mUsgo9
Grice ed Aliotta –
esperienza – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo. Grice:
“I like Aliotta; he has philosophised on most things I’m interested in: ‘la
guerra eterna’ is a bit of a hyperbole if you go by a principle of helpfulness,
but that’s Aliotta! – He has focused on Lucrezio, which is fine – But he has
also studied ‘colloquenza romana’ systematically – and more into the Italian
rather than Roman idiom, he has explored Galileo (not the father, thouh: “Some
like Galileo Galiei, but Vincenzo Galilei is MY man); he is also like me a
‘philosophical psychologist,’ along the lines of Stout and Wundt, that is – he
as given proper due to the idea of ‘esperienza’ – unlike Oakeshott, who abuses
of the notion! – and indeed, others see his attachment to ‘esperienza’ as an
‘ism’ (lo sperimentalismo). He has also
discussed the semiotics of Vico, and the idea of life-form, following Witters
(‘cricket come forme di vita’). And he has explored one intriguing idea, that
the so-called ‘meaning’ of life (‘il significato del mondo,’ actually) is that
of ‘sacrificio’ which is very fine with me – but then it would, since I like
‘Another country’ – the ‘sacrifice’ -- He Antonio Aliotta (n. Palermo), filosofo.
Fu componente dell'Accademia Nazionale dei Lincei, nonché dell'Accademia
Pontaniana e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti. Fondò la
rivista internazionale di filosofia Logos e fu autore di una decina di
monografie. Allievo di Felice Tocco e
Francesco De Sarlo, fu influenzato molto dalla concezione della conoscenza
scientifica del secondo, che si rifaceva alle teorie di Franz Brentano. Nel primo periodo della sua vita, Aliotta si
interessò in particolar modo alla psicologia sperimentale come ricercatore,
mentre in un secondo periodo, approssimativamente dal 1944, rivolse il suo interesse
alla filosofia e all'epistemologia. Tra
i suoi allievi vi furono Nicola Abbagnano, Paolo Filiasi Carcano, Cleto
Carbonara, Renato Lazzarini, Giuseppe Martano, Alberto Marzi, Nicola
Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Luigi Stefanini, anche se la sua indole
non dogmatica e aperta "a diverse culture e suggestioni" non diede
luogo alla formazione di una vera e propria scuola riferibile al suo nome, ma
incoraggiò i suoi allievi a indirizzarsi su percorsi culturali autonomi,
emancipandosi dall'egemonia esercitata dal neoidealismo di Benedetto Croce e di
Giovanni Gentile. Al suo magistero può
essere associato anche la figura dello psicanalista Cesare Musatti, che si
indirizzò allo studio della psicologia dopo aver assistito alle lezioni
sull'argomento tenute da Aliotta all'Padova nell'anno accademico 1915-16. Il 19 febbraio 1951 divenne socio
dell'Accademia delle scienze di Torino.
A lui è intitolato il dipartimento di filosofia dell'Università degli
studi di Napoli "Federico II".
Pensiero Psicologia Nella sua prima fase, prettamente psicologica, agli
inizi del nuovo secolo, Aliotta afferma che i fatti psichici non possono essere
quantificati come avviene con i fatti fisici esistenti e misurabili, in quanto
i fatti psichici sono elementi costitutivi della coscienza. La psicologia,
perciò, essendo una scienza empirica che studia i fatti psichici interni al
soggetto, avrebbe dovuto servirsi del metodo dell'introspezione, riferendosi a
formulazioni matematiche al solo scopo simbolico. La filosofia La particolare concezione della
conoscenza dell'autore, intesa né come esistente in sé, né come iscritta nel
processo dialettico del pensiero, lo allontanò sia dalle posizioni positiviste
che da quelle neoidealiste. Nelle sue
opere emerge una visione contraria all'idealismo: né Hegel, nemmeno Fichte, né
tanto meno Schelling col loro proposito di racchiudere tutta la realtà nel
pensiero, sebbene con sfumature diverse, soddisfano Aliotta, che invece
paragona il pensiero a un processo vivente, costruito da tanti centri
individuali tesi verso una armonia, continuatrice dei fenomeni dell'universo.
Aliotta si sofferma sulla coordinazione delle conoscenze, sulle intese fra le
persone, sulla sintesi della scienza e soprattutto sulla ricerca filosofica a
cui assegna il compito particolare di supervisione dei campi di conoscenza con
il fine di limitarne i dissidi e di ampliare, il più possibile, il punto di
vista delle scienze particolari. Aliotta afferma che l'unico metodo che
consente la ricerca della verità sia l'esperimento; la verità stessa non è
assoluta e unica ma prevede vari livelli, i superiori dei quali sfruttano e
inglobano quelli inferiori. La ricerca filosofica possiede, secondo l'autore,
un formidabile strumento di indagine e di verifica che si chiama "storia". In alcuni scritti successivi ("Il
sacrificio come significato del mondo",1947), pubblicati nel secondo
dopoguerra, Aliotta sembra avvicinarsi a un modello di pensiero a metà strada
tra il pragmatismo e lo spiritualismo, nel quale mette in rilievo l'esperienza
morale e il sacrificio, considerato come l'esempio di realizzazione più
elevato, sia per l'individuo sia per la collettività. L'affermarsi dello sperimentalismo produce in
Aliotta una serrata critica all'astratto intellettualismo nonché apre la strada
alla ricezione di studi avanzati sulla cosiddetta 'filosofia scientifica', in
un panorama di reazione idealistica contro la scienza e di graduale
affermazione in Italia di scienze come la sociologia (Guglielmo Rinzivillo,
Antonio Aliotta. L'idea scientifica dello sperimentalismo in Una epistemologia
senza storia, Roma, Nuova Cultura, 197 e sg.
978-88-6812-222-5). Opere
principali “Platone”, “Aristotele”; “Lucrezio”; “Epitteto”. La reazione idealistica
contro la scienza; La guerra eterna e il dramma dell'esistenza; L'estetica di
Kant e degli idealisti romantici; Il sacrificio come significato del mondo; Il
relativismo dell'idealismo e la teoria di Einstein”; “Evoluzionismo e
spiritualismo”; “Il problema di Dio e il nuovo pluralismo”; “Le origini dell'irrazionalismo
contemporaneo”; “Pensatori tedeschi della prima metà dell'Ottocento”; “Critica
dell'esistenzialismo”; “L'estetica di Croce e la crisi dell'idealismo
italiano”; “Il nuovo positivismo e lo sperimentalismo”; “Cinquant'anni di relatività”
(Edizioni Giuntine e Sansoni Editore). Note Vedi S. Belardinelli, in Dizionario
Biografico degli Italiani, riferimenti in.
Sergio Belardinelli, «ALIOTTA, Antonio» in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 34 (1988) Antonio
ALIOTTA, su accademiadellescienze. 9 luglio.
Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Pomba, 1995235, voce
"Aliotta". Nicola Abbagnano,
Dizionario di filosofia, Torino, Pomba, 1995236, voce "Aliotta". Michele Federico Sciacca, Lo sperimentalismo
di A. Aliotta, Napoli, 1951. Nicola Abbagnano Antonio Aliotta, in "Rivista
di Filosofia", 1964, 55, 442–448.
Adriana Dentone, Il problema morale e religioso in Aliotta, Napoli, 1972.
Luciano Mecacci, Antonio Aliotta, in: Guido Cimino, Nino Dazzi, La psicologia
in Italia: i protagonisti e i problemi scientifici, filosofici e istituzionali:
Milano, LED, 1998, 391–402. «ALIOTTA,
Antonio» Enciclopedia ItalianaII Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
italiana Treccani, 1948. Sergio Belardinelli, «ALIOTTA, Antonio» in Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1988. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una
pagina dedicata a Antonio Aliotta Collabora a Wikiquote Citazionio su Antonio
Aliotta Antonio Aliotta, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Antonio Aliotta, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Antonio Aliotta, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Aliotta,. Opere di Antonio Aliotta consultabili
nell'Archivio di Storia della Psicologia, su
archiviodistoria.psicologia1.uniroma1. 16 dicembre 12 luglio Filosofia Filosofo del XX
secoloAccademici italiani Professore1881 1964 18 gennaio 1º febbraio Palermo
NapoliAccademici dei LinceiProfessori dell'Università degli Studi di Napoli
Federico IIMembri dell'Accademia delle Scienze di Torino. Antonio Aliotta.
Aliotta. Keywords: esperienza, l’implicatura di Lucrezio, sacrificare,
significare, sacrificare, guerra eternal. aliotta — l’implicatura di
lucrezio — il filosofo di campagna — la guerra eterna — sacrificare/significare
— croce — il latinismo dello storicismo — galilei — vico – epicureismo campano
-- Refs.:
Luigi Speranza, Grice ed Aliotta” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715423617/in/photolist-2mTBDZh-2mTo5K7-2mTmHyA-2mS1rKF-2mRxLkZ-2mQzgRD-2mQCyu5-2mPxLC4-2mPyUzx-2mMV4GM-2mMV4Vn-2mMsULH-2mKNNqN-2mKLzDp/
Grice ed Allegretti –
colloquenza – filosofia italiana – Lugi Speranza (Forlì). Grice: “I love
Alegretti; very Italian; imagine: after tutoring for a while on dialettica at
Firenze,, he retires to Villa Allegretti, Rimini, where he philosophises ‘De
propositionibus’ (sulle enunciate) as part of the Dialettica!” Grice: “He was so proud of the meetings at
his villa that he called it ‘our Parnassus’!” Grice: “Allegretti’s idea of the
villa meetings was modeled after Plato who, with fewer means, met at the gym in
theVIlla Echademo!” -- – cf. Raffaello, “Il Parnaso.” -- Stemma della famiglia
Allegretti Coa fam ITA allegretti Blasonatura cuore d'oro su campo azzurr. Noto
per aver fondato, secondo alcuni storici, la prima accademia letteraria d'Italia. Fu figlio di Leonardo Allegretti, giudice a
Forlì, di parte guelfa. Apparteneva ad un'antica e cavalleresca famiglia, il
cui capostipite fu Mazzone Allegretti (o Mazzonius Alegrettus), che nel 1095
prese parte alla prima crociata in Terra Santa e per “arma” scelse un “cuore
d'oro su campo azzurro”. Lesse filosofia
a Bologna, logica e filosofia a Firenze. Fonda la prima accademia con un gruppo di
intellettuali: Francesco dei Conti di Calbolo, Azzo e Nerio Orgogliosi,
Giovanni de' Sigismondi, Andrea Speranzi, Rinaldo Arfendi, Valerio Morandi,
Giovanni Aldrobandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti. Per motivi
politici, gli Ordelaffi, signori di Forlì ghibellini, imposero il confino a
Giacomo e al fratello Giovanni. Si trasfere perciò a Rimini. Richiamato
dall'esilio, coinvolto in una faida familiare degli Ordelaffi, fu nuovamente
costretto a fuggire a Rimini, ove fonda una nuova Accademia, l'Accademia dei
Filergiti, con vocazione insieme letteraria e scientifica. La sua prosapia si estinse per linea maschile
ma s'innestò negli Aspini mediante una Margherita di Francesco Allegretti, che
sposò un Lodovico, che fu erede degli averi e del cognome degli Allegretti. Si
trova il seguito di questa famiglia nel senese e nel modenese (a
Ravarino). Note Fonte: F. Valenti, Dizionario Biografico
degli Italiani, riferimenti in. Opere Nel XIV secolo, la sua opera principale
era considerata il “Bucolicon”. Ma
scrisse anche: un epicedio per la morte
di Galeotto I Malatesta, signore di Rimini; un carme al Conte di Virtù; un
carme per la "divisa della tortora"; Eglogae, in lingua latina; un
carme sulla "bissa milanese", cioè lo stemma dei Visconti, il
biscione. Giorgio Viviano Marchesi,
Memorie storiche dell'antica, ed insigne Accademia de' Filergiti della città di
Forlì..., Forlì, per Antonio Barbiani, 1741. Paolo Bonoli, Storia di Forlì
scritta da Paolo Bonoli distinta in dodici libri corretta ed arricchita di
nuove addizioni, 2 voll., Forlì, Luigi Bordandini, Filippo Valenti, ALLEGRETTI,
Giacomo, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1960. Opere di Giacomo Allegretti, Filosofi. ALLEGRETTI,
Giacomo. - Nacque, presumibilmente, a Ravenna, da Leonardo Allegretti,
appartenente a famiglia guelfa di Forlì, in un anno da porsi tra quelli
immediatamente precedenti il 1326. È supposizione abbastanza fondata (cfr.
Massera, p. 156) che nel 1357 leggesse filosofia nello Studio bolognese; certo,
nel 1358-59 fu lettore di dialettica e di filosofia a Firenze, dove rimase
almeno fino al 1365.Benché se ne perdano poi le tracce, è indubbio che si
trovava da qualche tempo a Forlì quando, nel 1376, fu colpito, nella sua
qualità di guelfo, dal bando di Sinibaldo Ordelaffi. Ma la fama di dottrina in
diverse materie -filosofia, astrologia, medicina -che lo circondava, era tale
che egli fu ben presto richiamato alla corte forlivese, dalla quale, però,
dovette di nuovo fuggire nel novembre del 1384 per aver rivelato, nella sua
qualità di astrologo, ma senza essere creduto, la congiura che Pino e Cecco
Ordelaffi stavano tramando contro Sinibaldo, loro zio. L'A. si rifugiò a
Rimini, dove fu precettore del giovane Carlo Malatesta, allora succeduto al
padre Galeotto (m. 21 genn. 1385), e medico presso la corte. A Rimini l'A.
possedette una villa, luogo di raccoglimento, di studio e, forse, di dotti
convegni, cui si compiaceva di dare il nome di Parnaso; donde la notizia,
tratta dagli Annali forlivesi di Pietro Ravennate, secondo cui l'A.
"Arimini novum constituit Parnasum",notizia ripetuta ed elaborata poi
da vari scrittori nel senso, del tutto fantastico, che egli fondasse già allora
una vera e propria Accademia. Negli ultimi anni della sua vita ebbe rapporti
abbastanza stretti con la corte viscontea. Morì a Rimini nel 1393. L'A.
godette di non piccola fama presso i contemporanei. Citato, come astrologo, nel
terzo trattato del De fato et fortuna di Coluccio Salutati, fu in diretta corrispondenza
col Salutati medesimo, di cui si ha una lettera a lui con unito un lungo carme
latino (Epistolario,I, pp. 279-288), e con Antonio Loschi, del quale si
conservano due epistole metriche (ed. in Massera, pp. 193-203) a lui
dirette. Fatta eccezione per un problematico trattato in prosa De
propositionibus,attribuitogli da L. Cobelli (sec. XVI) nelle sue Cronache
forlivesi (Bologna 1874, p. 21), tutte le opere dell'A. di cui si ha notizia si
riferiscono alla sua attività di poeta latino. Ci rimangono: un lungo carme
(317 esametri) a sfondo mitologico-pastorale intitolato Falterona,pieno di
contorte allegorie politiche (Venezia, Bibl. Marciana, cod. lat.cl. XIV, 12);
un componimento a carattere araldico-encomiastico dedicato a Gian Galeazzo
Visconti (edito da F. Novati nel 1904 in appendice allo studio Il Petrarca ed i
Visconti in F. Petrarca e la Lombardia,Milano 1904, pp. 82-84); un Epitaphium
inonore di Galeotto Malatesta (Milano, Bibl. Ambriosana, cod. P 256);un carme
Ad Ludovicum Ungariae inclitissimum Regem (Venezia, Bibl. Marciana, cod.
lat.cl. XIV, 12). La sua fama, però, era legata soprattutto ad un'opera ora
perduta, il Bucolicon,che Flavio Biondo, nella sua Italia illustrata (Basilea
1559, p. 347), giudicava seconda soltanto alle Bucoliche di Virgilio e che il
Massera (pp. 182-188) ha tentato con buoni argomenti di identificare in una
raccolta di egloghe di maniera stampata nel sec. XVII e attribuita in un primo
tempo ad Albertino Mussato. All'A., infine, come opinò il Sabbadini, andrebbero
attribuiti i cosiddetti Endecasyllabi di Gallo, che egli avrebbe, secondo la
tradizione, scoperti a Forlì nel 1372, ma che, invece, molto probabilmente
contraffece, credendo erroneamente che quell'antico poeta fosse nativo di
Forlì. Fonti e Bibl.: Epistolario di Coluccio Salutati,a cura di F.
Novati, I, Roma 1891, in Fonti per la storia d'Italia,XV, pp. 41, 279, 281,
282; III, ibid. 1896, ibid.,XVII, pp. 536, 538; IV, 1,ibid. 1905, ibid.,XVIII,
pp. 14, 230; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV
e XV,Firenze 1905, p. 179; E. Carrara, La Poesia pastorale,Milano 1919, p. 142;
A. F. Massera, Iacopo Allegretti da Forlì,in Atti e memorie d. R. Deput. di
storia patria per le prov. di Romagna,s.4, XVI (1925-26), pp. 137-203; L.
Thorndike, A history of magic and experimental science,III, New York 1934, pp.
515-517; L. Bertalot, L'antologia di epigrammi di Lorenzo Abstemio nelle tre
edizioni sonciniane,in Miscellanea Mercati,IV, Città del Vaticano 1946, p. 311.
La stessa origine hanno le presunte accademie di Rimini e di Forli, che
gli scrittori fanno fondare negli ultimi decenni del se colo xiv a Iacopo
Allegretti da Mantova, uomo versato cosi nella medicina e nell'astrologia come
nelle lettere.Anche in questo caso la più antica affermazione in proposito non
risale a nostra notizia al di là della seconda metà del secolo XVII.Uno storico
di Forli, Paolo Bonoli, appunto nelle sue Istorie della Città di Forlì?al
l'anno 1369 dice: « Strepitava ancora di Forlivesi la fama di G i a como
Allegretti, Filosofo, Medico, Poeta et Astrologo; compose anch'egli la
Bucolica, che doppo quella di Virgilio non vede forse ilmondo
lapiùbella;traletenebre dell'antichità,manifestó molte compositioni del nostro
C. Gallo,e in Rimini,ove poi ricovrossi, per schivar l'ira degli Ordelaffi,
erresse una fioritissima Accade mia.».La notizia passa indi nel proemio delle
Leggi vecchie,di stinte in XII Tavole, dell'antica Accademia de'Filergiti della
città di Forlì e nuovi ordini-sopra essa Accademia, stampate nel 1663,
aggiungendovisi però oltre l'Accademia riminese anche un'Acca demia in
Forli,che sarebbe pure stata fondata dall'Allegretti,e che più tardi,
organizzatasi, divenne l'Accademia dei Filergiti. «G i a como Allegretti – vi
si dice – Filosofo e poeta illustre, trecento anni or sono,non si contentò di
esercitare in Forli sua patria vir. tuose sessioni, che ancora in Rimino, dove
sbandito ricovrossi, er gette una nuova Accademia ».3 Queste parole furono
ripetute tali e quali da G. Garuffi Malatesta nel L'Italia Accademica 4; però
nella parte ancora inedita di quest'opera che giace nella Gamba lunghiana, e
dove si tratta appunto in particolare delle Accademie | Francisci Petrarcae
Epistolae de Rebus Familiaribus et Variae, curate da GIUSEPPE
FRACASSETTI.Volume III.Firenze 1863, p.39. 2 Forli, 1661; p. 168. 3 In Memorie
storiche dell'antica ed insigne Accademia de'Filergiti della città di Forlì già
citate:a p.338-340. 4Rimini,1088;p.116. 136 Ma anche qui,come
dicevamo,sitrattadiunabbaglio.Aspet tando che maggior luce venga data in
proposito in quella vita del l’Allegretti,che il Novati ha promesso da
parecchio tempo,4 basterà notare che a base delle notizie circa queste due
Accademie stanno leseguentiparoledegliAnnalesForolivienses5:«Anno Domini 1372
tempore Ecclesiae Arces in his civitatibus factae sunt: B o noniae, Imolae,
Faventiae et Forolivii. Iacobus Allegrettus Forli viensis poeta clarus
agnoscitur, qui plures Endecasyllabos Galli civis Forliviensis poetae invenit
et Arimini novum constituit Par Quest'ultima parola fu interpretata senz'altro
per Ac cademia, a cui, come al solito,furono ascritti i personaggi princi pali
del tempo,perfino il Petrarca, come abbiamo visto. | Cfr.La Coltura letteraria
e scientifica in Rimini lal secolo XIV ai pri. mordi del XIX di Carlo Tonini.Vol.I,Rimini
1881,p.70. 20.c.p.9sgg.;cfr.anchedelmedesimo:VitaeVirorum Illustrium
Foroliviensium.Forli 1726,p.237. 3 Cfr.Della vita e delle opere di Antonio
Urceo detto Codro di Carlo MALAGOLA.Bologna 1878,a p.163. 4 Cfr.Epistolario di
Coluccio Salutati per cura di FRANCESCO Novati, Vol.I,Roma 1892,p.279,nota 1. 5
Rerum Italicarum Scriptores.Tomo XXII.Milano 1733,col.188. 137 di Rimini,
egli dice di più che l'Accademia fondata dall'Allegretti in Rimini si radunava
in una sala del palazzo Malatesta, adornata dei ritratti dei poeti ed oratori
più celebri del tempo,e che vi era ascritto anche il Petrarca.1 Il già citato
Marchesi dal canto suo circa l'Accademia fondata dall'Allegretti in Forli dice
che costui « lasciata da parte la se verità degli studi astronomici,medici e
filosofici, ne'quali aveva spesi con molta gloria isuoi giorni,finalmente
l'anno 1370,rac colti in una degna Assemblea gl'intelletti più perspicaci,fece
la memorabile fondazione,benchè senza nome particolare,regolamento ed impresa,
invenzioni delle succedute età, ma col solo generico d ' A c c a d e m i a. F u
r o n o i s u o i c o l l e g h i, o p i u t t o s t o d i s c e p o l i F r a
n c e s c o dei Conti di Calbolo,Azzo e Nerio Orgogliosi,Giovanni de'Sigi s m o
n d i, A n d r e a S p e r a n z i, R i n a l d o A r s e n d i, V a l e r i o
M o r a n d i, G i o vanni Aldobrandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti,
tutti illustri per sangue, ed assai più per l'affetto che professavano per le
belle arti.Per le frequenti sessioni che, tenevano a porte aperte, e per gli
ammaestramenti e saggi dati dal Fondatore, s'avanzarono molto iprimi Accademici
colla coltivazione della poesia,sopra ogni altra scienza da essi tenuta in
pregio ».? Esiliato poi l'Allegretti daForli,l'Accademiaandòdispersa,eleraunanze
vennero riprese solo nel secolo xv per opera di Antonio Urceo.3 18 nasum
>> DELLA TORRE Orbene si osservi che l'Allegretti fu in
Rimini maestro di Carlo Malatesta '; e qual cosa più naturale che assieme al
Malatesta si trovassero altri giovani delle principali famiglie Riminesi?
Epperò quel Parnasum va senza dubbio inteso per scuola di umanità e non già per
Accademia nel senso che l'intendono gli scrittori su riferiti. Quanto poi
all'Accademia di Forli, come osserva giustamente ilTiraboschi,?severamentefosseesistita,loscrittoredegli
An nales Forolivienses che nota il Parnasum aperto dall'Allegretti in Rimini,
avrebbe a tanto maggior ragione notata un'Accademia. fondata in Forli, le cui
vicende appunto egli si propone di nar rare;ed invece nulla.Come alsolito,gli
scrittoridicose forlivesi, che, interpretando Parnasum per Accademia credevano
che l'Alle gretti avesse fondata appunto un'Accademia in Rimini, sapendo che
l'Allegretti era stato anche a Forli,gliene fecero fondare sen z'altro una
anche in Forli,ascrivendovi come al solito quanti in quel tempo vi erano di
uomini insigni per ingegno e per cultura. E con questa mania, sempre nel secolo
Xvir, si andò tanto oltre, che si raggrupparono insieme perfino gli architetti
del duomo di Milano per farne un'Accademia;laqualesarebbe cominciata verso
l'anno 1380, mentre Giovan Galeazzo Visconti andava pensando di gettar le
fondamenta del D u o m o: vi si sarebbe atteso « a quella maniera di
fabricare,che i moderni chiamano Alemana »; avrebbe àvuto sede « nella Corte
ducale compiacendosi in estremo quello stesso Duca del fabricare e dell'udirne
talvolta discorrere i m a g giori architetti di que'tempi, ch'erano Giovannuolo
e Miche lino, da'quali furono ammaestrati i compagni di Bramante » 3 Non
occorre certamente fermarci piú a lungo per dimostrare l'as surdità di queste
affermazioni:basti il dire che questa volta a base di esse non sta il più
piccolo dato di fatto.4 1Cfr.ANGELO BATTAGLini:Della corte letteraria di
Sigismondo Pan dolfo Malatesta Signore di Rimini in Basinii Parmensis poetae
Opera prae stantiora. Tomo II,parte I. Rimini 1794,p. 46-47 e Lettera di
Coluccio Sa lutati a Carlo Malatesta del 10 settembre 1401 in Epistolario di
Coluccio Sa. lutatiacuradiFRANCESCONOVATI.VolumeIV.Roma 1896,p.538:«Velim igitur,simichicredideris,eum
(GiovannidaRavenna)decernasintertuos recipere et in locum magistri tui, viri
quidem eruditissimi, quondam Jacobi de Alegrettis et in eius provisionem
acceptes et loces ». 3 Cfr. GiroLAMO BORSIERI Il supplimento della Nobiltà ili
Milano. Milano, 1619,p.37,eZANON,Catalogoetc.inl.c.p.305. 4 Si dia in proposito
la più semplice scorsa alla prima parte di Il Duomo di Milano di Camillo Boito,
Milano 1889.Jacopo
Allegretti. Giacomo Allegretti. Allegretti. Keywords: colloquenza, dialettica,
villa, villa Allegretti a Rimini, Bucolicon, Andrea Speranzi, i filergiti, “De
propositionibus”, scuola di Firenze, dialettica a Firenze, accademie italiane
dall’A alla Z, Andrea Speranzi, il primo accademico italiano a Firenze. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Allegretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716223001/in/photolist-2mRkgtK-2mMZakg-2mKR4wJ-2mKiPND
Grice ed Allievo –
filosofia italiana –
Luigi Speranza (San Germano Vercellese). Grice: “I love Allievo; of course he
reminds me of all those scholars back in the day that I relied on for my
philosophising on ‘intending’ – since isn’t this an act of the ‘soul’ – I mean
Stout, and the rest – I once was a Stoutian, and then for better or worse, I
became a Prichardian!” -- Grice: “Now
Oxford never knew what to do with people like Stout – surely ‘the Wilde’
readership was a possibility, but Lit. Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy
always considered ‘mind’ – (as in the journal, ‘a journal of psychology and
philosophy’) secondary to metaphysics! We thought The Aristotelian Society had
more prestige than the Mind Association, and we still do!” – Grice: “So
Allievo, like myself, was fascinated by Stout and Spencer and Bain and – in the
continent, closer to Allievo, and always having more prestige than the
barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the charm of his italinanness
versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is unpronounceable to
Allievo – and you get to the heart of his philosphising on ‘psicofisiologia’ –
where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having studied the philosophical
tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which obviously needs to be
psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!” – Giuseppe Allievo (San Germano Vercellese)
filosofo. Frequentò la facoltà di
filosofia dell'Torino e seguì l'insegnamento di Giovanni Antonio Rayneri,
sacerdote e filosofo di matrice rosminiana.
Laureatosi il 18 luglio 1853 insegnò pedagogia a Novara, a Domodossola,
dove conobbe Rosmini, e a Ivrea e nel Collegio di Ceva. A Domodossola pubblicò
i suoi primi saggi e scrisse articoli per la Rivista contemporanea di Luigi
Chiala. Arrivò alla cattedra di
pedagogia a Torino (1869). Cattolico spiritualista, fu propugnatore del cosiddetto
sintesismo degli esseri, principio secondo il quale «nessuna parte di un ente
può sussistere divisa dal tutto dell'ente stesso, e nessun essere può
sussistere né operare diviso dagli enti che costituiscono l'universo». Il 13 gennaio 1895 divenne socio
dell'Accademia delle scienze di Torino.
Pensiero Critico dell'hegelismo, soprattutto per motivi religiosi,
Allievo sosteneva doversi rifare alla tradizione filosofica spiritualista
italiana per combattere sia la dottrina hegeliana che quella positivista che
nella pedagogia si stava in quegli anni diffondendo in Italia. Rimase fino al 1912 nell'Torino insegnando
pedagogia e dedicandosi a ricerche di antropologia e pedagogia. Fu autore anche
di un'opera di vaste proporzioni dedicata a Il problema metafisico studiato
nella storia della filosofia, dalla scuola ionica a Giordano Bruno (Torino
1877). Opere principali: “Saggi
filosofici”; “Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia”; “Studi
antropologici”; “L’uomo e il cosmo”; Si espone e si disamina l'opinione
del Brothier. Si espone e si giudica la teoria di G. A. Hirn. Segue
l'esposizione critica della teoria di G. A. Hirn -- Luigi Büchner -- Si pone la
questione e si accenna il come risolverla -- Si accenna la differenza tra
l'uomo ed il bruto. Concetto definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza
dell'antropologia -- Del metodo in antropologia Divisione dell'antropologia --
Concetto della persona umana -- Analisi della persona umana -- La virtù
intellettiva -- Della coscienza personale -- La coscienza di sè e la conoscenza
esteriore -- Individualità soggettiva della conoscenza esteriore --
Universalità oggettiva della conoscenza esteriore -- Il potere animatore ed
affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle sue attinenze col potere animatore
-- L'organismo esanime ed il potere animatore -- Unità sintetica della persona
umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La vita latente anteriore alla nascita --
L'infanzia -- Le prime origini dei problemi psico-fisiologici. L'attività
volontaria -- La suprema libertà dello spirito -- Varie forme della personalità
umana derivanti dall'attività volontaria -- Attinenze tra la facoltà
conoscitiva e l'attività volontaria -- Corrispondenza dell'organismo col potere
affettivo -- Trapasso dalla teorica dell'essenza umana alla teorica della vita
umana -- Il corso della vita umana -- Della conoscenza esteriore -- Mente e
corpo distinti ed uniti nella persona umana -- La gioventù -- La virilità -- I
poteri della vita -- Teorica della sensitività -- L'atteggiamento
esteriore dell'organismo ed il potere animatore -- Concetto comprensivo della
persona e dell'essenza umana La vita maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze
in riguardo all'oggetto -- Delle potenze in rapporto col soggetto umano -- Delle
potenze umane in particolare -- Specie del potere affettivo -- Del potere
animatore -- Distinzione essenziale tra la mente e l'organismo corporeo --
Unione personale della mente coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo --
Carattere universale ed ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita
umana -- La vita propria e la vita comune -- Divisione del corso temporaneo
della vita ne'suoi periodi fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei
periodi della vita umana in particolare -- Considerazioni generali in torno i
periodi della vita -- La vita oltremondana -- Delle potenze umane in generale
-- Delle potenze considerate nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita
mentale -- Del senso fisico e delle sensazioni -- Del senso spirituale e de'
sentimenti -- Del sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva
-- Della fantasia sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione
e della memoria. Dell'intelligenza in riguardo al soggetto conoscente --
Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto pensabile -- L'esperienza e --
L'intelligenza umana e LA PAROLA -- Dell'immaginazione. Concetto generale
dell'immaginazione. Specie dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione.
Delle potenze estetiche. Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare
della volontà. La libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL
TEMPERAMENTO -- Ragione e genesi del carattere -- Concetto generale del
carattere id. Dell'intuizione. Dell'attenzione intermedia tra l'intuizione e la
riflessione -- Della riflessione -- Dell'istinto in ordine all'oggetto --
Trapasso dalla teorica della sensitività alla teorica dell'intelligenza --
Concetto generale dell'intelligenza -- Dell'intelligenza in riguardo al
soggetto pensante -- La libertà del volere e la scuola positivistica -- Critica
del determinismo positivistico -- La libera volontà e l'ambiente Art.7.
Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso -- Dell'istinto rispetto allo
scopo la ragione -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto conosciuto -- Del
carattere in ispecie -- Del carattere riguardato nella sua fonte -- Del
carattere rispetto alle potenze ed alle forme dell'attività umana -- Del
carattere morale -- Il carattere umano nella specie, nelle stirpi, nelle
nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare -- De'temperamenti
in rapporto fra di loro
“Studi pedagogici”; “Attinenze tra l'antropologia e la pedagogia”; Il
linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva --
Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del
senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici
dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione --
La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica
infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame dell'hegelianesimo”; “Il ritorno
al principio della personalità”. Note Fonte: Francesco Corvino, Dizionario biografico
degli Italiani alla voce corrispondente
in F. Corvino, Op. cit. ibidem
Giuseppe ALLIEVO, su accademia delle scienze. Giuseppe Allievo, su
Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe
Allievo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe Allievo, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Giuseppe Allievo, su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Giuseppe Allievo, Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi iSan
Germano Vercellese Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di Torino. L'intelligenza
umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno
verso l'altro armonica corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e
s'illustrano, come lo spirito ed il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere
umano ritrae dalla ‘parola’, che lo riveste, una peculiare impronta, che lo
distingue dal conoscere proprio degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra
mentale. L'intelligenza infantile si schinde dal suo germe in grazia della ‘parola’,
con essa va via via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni le vicende
e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo pensare,
all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’, ed in
essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole,
vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le
percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse,
indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si
possono in certo qual modo fissare colle immagini, le quali rimangono anche
nell'assenza degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur sempre *individuali*,
come gli oggetti, cui si riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri
pensieri e vere cognizioni propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’.
E e questa torna tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o
segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’
(Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti della facoltà di
generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla
percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della
riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a
segno che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia
specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega
la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del
volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la
necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non
solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più
acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che
congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima
della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo
corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente
rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento
del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi
altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì
pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti
e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza
di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile
desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra,
appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di
elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e
sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma
sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’
ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel
linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due
potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal
semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo
umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna.
Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un
sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè
riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il
gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa
dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo.
Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE] sensibile e l'e lemento intelligibile [IL
SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi
costitutivi dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e
la mente [il segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo
spirito, quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto
l' idea significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti,
destituiti di mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non
basta la dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati
ad unità, essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un
intelligibile. -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto
delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad
essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’.
Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la
sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire
nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente
nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che
eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare
[O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli.
Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox
principium a mente ducens (De natura Deorum, lib.2). Nella parola adunque il
segno O SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili
tanto, quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed il corpo. Da siffatto interiore e naturale
compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare.
Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le
medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion
spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi
di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il
pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi
cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del pensiero
umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di tal modo
il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di errori. Lo
stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o tempra singolare
di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la lingua genericamente
presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e conoscere da quello di
altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i differenti idiomi in
particolare sono note altresì distintive, che differenziano le une dalle altre
le menti umane individue e nazionali. Tuttavia in mezzo a questa tra grande varietà
di lingue etnografiche apparisce un fondo comune, su cui tutte sono intessute,
e, direi, uno spirito universale, che tutte le informa e le solleva ad una
unità superiore, essendochè la mente umana, se si manifesta molteplice e varia
nelle molteplici nazioni e nei varii individui, risguardata nella suas pecifica
essenza è una ed identica, perchè, governata dalle medesime leggi logiche e
rivolta all'universalità del vero. E quest’unità radicale delle lingue
riverberata dall'unità specifica della mente umana arguisce logicamente l'unità
originaria e specifica del genere umano, come la loro moltiplicità arguisce la varietà
delle razze,in cui esso è distribuito sulla faccia della terra. Consegue ancora
dal principio stabilito, che il tradizionalismo, il quale pronuncia, che l'uomo
riceve dalla società insieme colla ‘parola’ anche le idee e la virtù dello intendimento,
apparisce erroneo, siccome quello, che disconosce il primato dell'idea sul
segno vocale, e l'ingenita virtù della mente di elevare la voce a dignità dinunzia
del pensiero. Se l'uomo impara dalla società il linguaggio, ciò è dovuto
alla virtù, che possiede la sua intelligenza, di intenderne il significato o
SEGNATO. Infine discende quest'altro corollario, che non manca della sua
importanza pedagogica. Vera istruzione non è, quando il discepolo riceva
passive la parola del maestro, come se questa dia bell'e fatta all'alunno
l'idea, la quale invece vuol essere un portato del suo lavoro mentale, e quindi
si deve cooperare alla forma zione della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola
e meccanicamente ripeterla, altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui
ha sempre alcunchè di vago, di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre
presenta un SENSO FERMO e più o men
definito per chi se la forma, come si avvera nella formazione di un neologismo
come ‘implicatura’. Il linguaggio umano trae le sue prime origini da
quell'impulso spontaneo della NATURA, che spinge l'infante a significare O
SEGNARE mercè di una GRIDA INARTICOLATA il suo BISOGNO, il suo desiderio, la
sua sensazione, e già abbiamo chiarito altrove, come a poco a poco egli ne
abbia svolto il suo linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida primitiva, onde si svolse
il linguaggio articolato e convenzionale, non costituiscono tutto quanto il
linguaggio naturale, spontaneo o di azione, il quale abbraccia altresì IL
GESTO, il movimento, la fisionomia ed altri segni ed atteggiamenti esteriori
della persona. Ora GESTO può anch'esso svolgersi e perfezionarsi, o come
complemento del linguaggio o accompagnando e compiendo il linguaggio
articolato, o da sè solo sotto forma di linguaggio mimico, quale lo scenico dei
drammatici e lo educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato primeggia
sul naturale, perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato
dall’organo auditivo,è più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile,più
acconcio ad esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o
parlato, o scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA,
più animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge
vole e mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle
forme progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si
distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro
della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il
linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico,
metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno
concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli
colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare
è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi
impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo
imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce
per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda,
si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna,
ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo
alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto
desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute,
unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore
vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il
nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga
analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma
non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La
lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo,
siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con
precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma
che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza
l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di
intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che
sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa
prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO
DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua
greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra
lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche
anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa
parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in
se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche),
e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare
questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della
lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de
romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed
eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto
in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a
ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un
riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire dello
scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I suoi
accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’, separa
e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata insegna a
scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in modo
continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai più
che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più che
un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai sovrasta
alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce animata
dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la ascolta,
mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è che una
debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il fanciullo a
scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli i temi
comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza, del maestro di scuola,dei
governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento, quanto la mancanza
di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata unicamente
dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa una morta
apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se fate scrivere
lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un determinato
oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza assai più che
il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia scrivere con un
po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro periodi continuati
[2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che l'attenzione,riguardata non in
generale,ma specialeerivolta ad un particolare oggetto,non va raccomandata,nè
suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali sarebbero il premio od il
castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che all'oggetto proposto
all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che lo attrae, od al
castigo minacciato. Pongasi mente, che esso non è atto a sostenere un'atten
zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete, che anche
trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua attenzione
in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri regolamenti
scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per l'attenzione, m a per
ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le medesime cose sicchè
diventino monotone e stucchevoli. ] . Chi dovrà un giorno fare
giustizia e scrivere veramente la storia del pensiero filosofico italiano
nell’ultimo secolo, non potrà non dare una gran parte allo spiritualismo: del
quale certo uno dei più illustri e combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le
parole di Calò attestano una realtà difficilmente discutibile per chi si
approcci anche alle vicende della pedagogia italiana nel mezzo secolo
successivo all’Unità. Nato a San Germano Vercellese il 14 settembre 1830,
Giuseppe Allievo2 compì gli studi secondari al seminario Arcivescovile di VGiuseppe
Allievoercelli. Vinta una borsa al Collegio Carlo Alberto di Torino, si
iscrisse nella Facoltà di filosofia della Regia Università. Si distinse per la
preparazione e l’applicazione negli studi. In un articolo pubblicato
sulla«Rassegna Nazionale», Giacomo Cottini riportò una lettera scritta da
Aporti che comunicava al giovane Allievo la vincita di un premio che ammontava
a trecento lire per i suoi meriti universitari3, segno premuni tore di una
carriera accademica di primo piano. Laureato nel 1853, già lo stesso anno fu
chiamato alla direzione di una scuola di metodo presso Novara, dove teneva
anche il corso di pedagogia. Iniziò così una lunga serie di esperienze
educative che lo portarono in diversi centri piemontesi: nel 1854 fu trasferito
a Domodossola, poi per due anni ad Ivrea, quindi nel collegio di Ceva e
successivamente a Casale Monferrato dal 1858 al 1860. L’anno seguente fu
destinato sempre all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a
Milano, l’attuale Liceo Parini, dove rimase per sei anni. Nel centro lombardo
insegnò anche Filosofia teoretica, 1 G. Calò, Giuseppe Allievo Filosofo, in
Vita e mente di Giuseppe Allievo, Torino, Scuola Tipografica Salesiana, 1913,
p. 13. 2 G. B. Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo decimonono,
Torino, Paravia, 1910, pp. 707- 708; P. Braido, Allievo Giuseppe, in Dizionario
Enciclopedico di Pedagogia, Torino, S.A.I.E., 1958, vol. I, pp. 59-60; M. P.
Biagini, Allievo Giuseppe, in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La Scuola,
1989, vol. I, pp. 377-381. 3 G. Cottini, Giuseppe Allievo, «Rassegna
Nazionale», I settembre 1913, p. 66. 22 logica e metafisica, all’Academia
Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere rapporti con alcune delle
personalità di spicco della cultura milanese: Pestalozza, Poli, Cantù, Tullio
Dandolo. Continuò a tenere i rapporti con l’università torinese, dove nel 1857
aveva superato l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con giudizi
molto positivi del Mamiani e del Rayneri4. Furono anni di intenso studio e
anche segnati dalla sofferenza, dopo la morte di uno dei suoi figli5. Nel 1867
poté tornare a Torino poiché fu nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo
Cavour e incaricato del corso di pedagogia all’Università, dopo la morte del
Rayneri. Continuò ad insegnare nella scuola sino al 1869, quando fu nominato
titolare della cattedra di Pedagogia. Divenne ordinario solo nel 1878, ed
insegnò ininterrottamente all’Università di Torino sino al 1912. La sua
produzione pedagogica fu copiosa. Scrisse più di cento pubblicazioni tra
monografie e saggi. Le sue opere più importanti furono: Saggi filosofici
(1866), Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867), L’antropologia e
l’hegelismo (1868), L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868), L’educazione e la
nazionalità (1875), L’educazione e la Scienza (1882), Del positivismo in sé e
nell’ordine pedagogico (1883), Delle idee pedagogiche dei Greci (1887), Studi
pedagogici (1889), Riforma 4 Cottini riportò un ricordo di Antonio Parato,
risalente al giorno Allievo passò il concorso per l’aggregazione a Torino:
«Antonino Parato, anch’esso decoro e vanto della scuola pedagogica italiana,
disse nella sua Vita Magistrale, che avendo nel giorno stesso della pubblica
prova incontrato Giovanni Antonio Rayneri, allora professore di Pedagogia nel
Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia che
il Collegio Universitario aveva allora allora accolto nel suo seno una sicura
speranza della Filosofia italiana» G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 69. 5
Nel suo articoli, Cottini trascrive una lettera di Allievo indirizzata
all’abate e professor Bernardo Raineri, rinvenuta dallo studioso e sacerdote
Alessandro Roca tra le carte che il Raineri affidò agli archivi dei padri
rosminiani. Si tratta di pagine molto significative, scritte poco dopo la morte
del figlio Giulio, deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo,
Vi sonon grato e riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e
grave ferita, che mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di
cuore gli uomini del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi
accompagna dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La
mia mente è con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione
delle sue povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni
passo che faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se
io avessi la sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto
finito in un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare
anch’io alla vita in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa
forte nella lotta tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri
di Dio. La natura mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il
corpo in poca polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e
mi assicura che quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho
voluto che la salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più
ai poveri morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri,
dove riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare
per sempre Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi
solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di
Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non
chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio
fratello ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non
bastasse, ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre
miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono
infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora
quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo
Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al
mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene» Ibid., pp. 67-68. 23
dell’educazione mediante la riforma dello Stato (1897), Esame dell’hegelismo
(1897), La pedagogia antica e contemporanea (1901), Opuscoli pedagogici (1909),
G. G. Rousseau filosofo e pedagogista (1910). Scrisse anche alcuni manuali per
le scuole secondarie come il Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’
licei (1862), Elementi di pedagogia ad uso delle Scuole normali del Regno
(1885) e il Compendio di Etica ad uso dei Licei (1899), con più edizioni e
ampiamente adottati nelle scuole italiane. Allievo collaborò attivamente alla
pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo6. Nel 1867 con Carlo Passaglia
fu il principale animatore del «Gerdil», organo dei giobertiani e spiritualisti
torinesi, che ebbe però breve durata non riuscendo a superare l’anno. Vi
scrissero, tra gli altri, Giovanni Maria Bertini e Francesco Bertinaria. Dal
1868 al 1873, Allievo diresse «Il campo dei filosofi», un periodico fondato a
Napoli nel 1863 da Gaetano Milone, poi trasferito a Torino nel 1867. Si tratta
di un’esperienza pubblicistica che ebbe una certa rilevanza nel dibattito
filosofico e pedagogico italiano, come ha già sottolineato Eugenio Garin7. Vi
collaborarono autori come Di Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri,
Tagliaferri, Bonatelli, Marsella, Tiberghien, Bosia, 6 Cfr. G. Chiosso (ed.),
La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), Brescia, La Scuola,
1997, pp. 340, 347-348, 378, 398-399, 438, 563-564, 573, 586, 611-612, 705. 7
Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin osserva: «“Il Campo dei
Filosofi Italiani”, la rivista vissuta a Napoli dal 1864 al ’67, e poi passata
a Torino (1868-1872) sotto la direzione dell’Allievo, si proponeva di
combattere soprattutto “l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte” –
come scriveva l’Allievo nel programma del ’68, continuando del resto l’attività
iniziata a Napoli dal barnabita Gaetano Milone. Oltre i saggi di critica
all’hegelismo già citati, altri ve ne comparvero, dell’Allievo nel ’72, del Di
Giovanni nel ’64, del Donati nel ’66, del Selvaggi nel ’67, del Tagliaferri nel
’70. E l’attività della rivista in questo settore meriterebbe di essere
studiata, tanto più che non è privo d’interesse il legame subito stabilito fra
hegelismo e positivismo, quasi gemelli nemici». Dopo aver ricordato la facilità
con cui diversi idealisti si «convertirono» al positivismo negli anni seguente
all’Unità, Garin spiega questo fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi
dell’Allievo che vedeva in queste due teorie apparentemente distanti, un comune
denominatore: «Quell’onesto studioso che fu Giuseppe Allievo, professore di antropologia
e pedagogia a Torino, che aveva alimentato una vivace ma seria discussione
intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che nel ’68 aveva
messo insieme un onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita,
pubblicando quasi trent’anni dopo, nel ’97, a Torino, un Esame
dell’hegelianismo, che voleva essere un bilancio, credeva di poter individuare
una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. “L’Hegelianismo –
scriveva – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine
diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un
punto di contatto intimo e profondo.” Assoluta immanenza, realtà come processo
e sviluppo, celebrazione della ‘scienza’ (Wissenschaft): ecco alcuni dei punti
su cui insisteva l’Allievo, pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque
si valuti la sua disamina, e al di là dei ‘casi’ degli hegeliani passati al
positivismo, una cosa certa l’Allievo coglieva esattamente: l’esistenza di una
‘riforma’ in atto della dialettica del senso dell’evoluzionismo, con tutto
quello che una veduta del genere implicava, “in metafisica, in politica, in
diritto, in morale, in religione” – per usare le sue parole. Proprio dentro
questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità feurbachiana, si muoverà
fra tensioni e polemiche Antonio Labriola: contro l’evoluzionismo spenceriano
al posto del moto dialettico della storia, contro il socialismo
neokantiano-positivistico al posto del marxismo, per una rinnovata filosofia
della prassi, ma anche – lo dichiarerà a Engels – per una sostituzione del
metodo genetico a quello dialettico, il che non era solo ‘questione di parole’»
E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari,
De Donato, 1983, pp. 56-57. 24 Bertini, Polla, Leonardi, Naville,
Passaglia e altri. In seguito pubblicò una serie di articoli sulla «Rivista
filosofica». Nel 1883, quando era ormai divenuto uno tra i principali
protagonisti del dibattito pedagogico nazionale, Allievo assunse la direzione
de «Il Baretti»8, un foglio dedicato a questioni scolastiche e pedagogiche, che
guidò sino al 1885. Qui vi apparvero perlopiù una serie di articoli utili a
lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà d’insegnamento e, più in
generale, alla politica ministeriale. Nella sua lunga carriera, Allievo
rappresentò una delle personalità di primo piano della pedagogia spiritualista
italiana. Le sue opere e il suo pensiero divennero un punto di riferimento per
la riflessione e il mondo educativo cattolico9, trovando una considerevole
«circolazione pedagogica», per riprendere una categoria riproposta da
Prellezo10. La Bertoni Jovine ne parlò come il maggiore esponente del
«neospiritualismo»11, sino a considerarlo, esagerando, come la guida della
corrente cattolica12. Il ruolo assunto nella discussione pedagogica del tempo è
senza dubbio legato alla posizione privilegiata avuta per quasi mezzo secolo in
ambito accademico. Va tenuto conto che allora i docenti di pedagogia
incardinati nelle Università italiane erano relativamente pochi. Serafini,
riprendendo un brano di Cesca, rileva come nel 1890 si contassero solo cinque
professori di pedagogia nelle tredici facoltà italiane di Lettere e Filosofia,
e di questi solo tre erano gli ordinari13. Allievo era uno di loro, ed insegnava
in un Ateneo come quello torinese che oltre ad avere con quello napoletano il
primato per il numero di studenti iscritti, rappresentava in quei decenni uno
dei poli principali del dibattito pedagogico italiano, sia in campo accademico,
che in quello pubblicistico e scolastico. 8 Cfr. G. Chiosso (ed.), La stampa
pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., pp. 90-91. 9 G. Chiosso, I
giornali scolastici torinesi dopo l’Unità, in Id. (ed.) Scuola e Stampa
nell’Italia liberale. Giornali e riviste per l’educazione dall’Unità a fine
secolo, cit., p. 17. 10 In uno studio dedicato a Rayneri, a cui ne seguì uno
analogo su Allievo, Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza
dei pedagogisti più impegnati teoreticamente con la realtà educativa. Egli
parla della «necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire
limiti e portata dell’incidenza delle dottrine pedagogiche, non solo
nell’ambito delle riforme dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in
quello dell’azione educativa dei fondatori e primi membri delle congregazioni
religiose dedicate all’insegnamento» J. M. Prellezo, Pensiero pedagogico e
politica scolastica. Il caso di G. A. Rayneri (1810- 1867), in «Annali di
Storia dell’Educazione e delle Istituzioni scolastiche», n. 1, 1994, Brescia,
La Scuola, p. 149. 11 D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della
scuola italiana, Roma, Editori riuniti, 1961, p. 25. 12 «Il neo spiritualismo
dell’Allievo se riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come
il Conti e l’Alfani e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ebbe la
capacità intrinseca di operare un capovolgimento della pedagogia e neanche
quella di combattere efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto
di vista speculativo, era portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai
partiti democratici» D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 a nostri
giorni, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 63. 13 G. Serafini, L’idea di pedagogia
nella cultura italiana dell’Ottocento, Roma, Bulzoni Editore, 1999, p.
83. 25 Riguardo alla «circolarità» di Allievo nella corrente
cattolica, merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani14. Il
docente vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della
congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città
di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco
frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò
al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre
più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice,
partecipò alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in
città15, fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo
piemontese. Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria
amicizia tra Don Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta
significativo nella ricostruzione di questo rapporto. Quando alla fine degli
anni ’70 l’oratorio di Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti
voluti dal Ministro Correnti, Allievo si offrì per cercare di salvare
l’istituto. Aiutò don Bosco nella compilazione dell’istanza da inviare al
Ministero e si impegnò per inoltrare un ricorso al Consiglio di Stato. Negli
anni seguenti mantenne stretti i rapporti con gli altri salesiani più giovani,
soprattutto con don Durando, direttore generale degli studi delle scuole
salesiani. Il pensiero dello studioso vercellese ispirò anche alcune opere dei
primi pedagogisti salesiani17. Prellezo documenta l’influenza della pedagogia
di Allievo sulla Storia della pedagogia (1883) di Cerruti e sugli Appunti di
pedagogia (1897) di Barberis18. Una certa influenza è anche rilevabile nelle
Lezioni di pedagogia di don Vincenzo Cimatti19. In 14 Sul tema si rinvia al
documentato e approfondito studio di: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli
scritti pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici», n.3, maggio-giugno
1998, pp. 393-419. 15 Proverbio ricorda la presenza dell’Allievo alla seconda
rappresentazione del Phasmatonices di Rosini nel 1868. «Le insistenza per la
replica furono tali che il sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti
torinesi, tra cui il professor G. Allievo, docente di pedagogia alla Università
di Torino, il quale “andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone
ragguardevoli”, mentre negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane
di G. Cagliero» G. Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del
latino (1850-1900), in F. Traniello (ed.), Don Bosco nella storia della cultura
popolare, Torino, Sei, 1987, p. 172. 16 Trat tando del santo piemontese,
Braido ha osservato: «reali furono le relazioni, perfino di cordialità e di
amicizia, con alcuni teorici della pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, G.
A. Rayneri, G. Allievo» P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel
secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella
storia, cit., p. 313. Si veda anche: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli
scritti pedagogici salesiani, cit., p. 413. 17 Su tale legame Pietro Braido ha
rilevato: «Giannantonio Rayneri e Giuseppe Allievo esercitarono un palese
influsso diretto su due note figure di studiosi salesiani di pedagogia,
rispettivamente D. Francesco Cerruti e D. Giulio Barberis; gli inediti Appunti
di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente dipendenza. Allievo,
benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente per la
sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in difesa
della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo burocratico
del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel
secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella
storia, cit., p. 313. 18 J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti
pedagogici salesiani, cit., pp. 406-412. 19 Ibid., p. 413. 26
verità, anche altri manuali pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione
dell’Allievo20. Se l’opera del vercellese fu accolta subito con favore dal
circuito cattolico liberale e da quello salesiano, il gruppo intransigente non
sembrò accorgersi del suo contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la
dialettica interna nel mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La
Civiltà cattolica» lo menzionò per le sue posizioni a favore della libertà
d’insegnamento21. Sebbene l’opera di Allievo mantenne una dimensione
prevalentemente nazionale, egli attirò l’attenzione di alcuni studiosi
stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una lunga esistenza spesa
interamente alle riflessione educativa si spense a Torino il 24 giugno 1913. I.
1. Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema
pedagogico e filosofico dell’Allievo, contribuirono molteplici scuole e
sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno
rilevato un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva
sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale
influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella
cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento.
L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri
di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un
afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25.
Allievo trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un
contesto permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano
discepoli rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, Allievo poté avere
un primo contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano
un breve scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo
dopo, Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano,
sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un
classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente
influenzato dalla pedagogia di Allievo. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione
ed educazione in Italia (1860-1873), cit., p. 118. 21 G. Chiosso, Editoria e
stampa scolastica tra otto e novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici,
educazione e trasformazioni socio – culturali in Italia tra Otto e Novecento,
cit., p. 505. 22 G. Chiosso, Novecento pedagogico, Brescia, La Scuola, 2012, p.
151. 23 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I
platonici, Messina, Principato, 1917, pp. 363-376. 24 Cfr. A. Gambaro, Antonio
Rosmini nella cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», n.2, 1955, pp. 143- 157;
F. Traniello, Cattolicesimo conciliarista, cit., p. 74. 25 Si veda: Antonio
Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane,
1994. 27 apprezzò il lavoro pur sottolineando i limiti dello
scritto di Allievo, allora solo ventiduenne26. Pochi anni dopo, nel 1854, il
pedagogista vercellese ebbe anche l’occasione di conoscere personalmente il
Rosmini, poichè allora dirigeva un corso di Metodica a Domodossola, frequentato
da alcuni allievi dell’Istituto di Carità. Del roveretano ebbe una impressione
eccezionale. Ricordando quella circostanza, ne parlò come di una persona dotata
di una «modestia pari alla sua grandezza»27, ma anche di una profonda serenità,
probabilmente legata, in quel periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere.
Il legame con il rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da
cui Allievo ereditò la cattedra all’Università di Torino. Professore e
sacerdote, il Rayneri rappresentò un protagonista nel fermento educativo e
pedagogico piemontese tra gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema
pedagogico si innestava sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì
un’organica riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di
vitale importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana28. La lezione
del suo predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’Allievo. Lo
studioso vercellese curò nel 1869 la pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica,
una summa in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e
mezzo, che mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si
tratta di un’opera considerata da Allievo come una delle maggiori confutazioni
agli errori della pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più
importanti,: L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868) si trova una dedica molto
significativa al suo maestro31. 26 In una lettera datata 17 febbraio 1852, il
Rosmini scrisse al Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato lo scritto del
signor Giuseppe Allievo. L’ho letto con piacere e confermo pienamente il
giudizio favorevole da lei portato e mi congratulo colla R. Università se fa di
tali allievi, mi congratulo con Lei e coll’autore del detto scritto, che mi par
l’ugna del leone. Quello che può mancare alla proprietà del linguaggio verrà in
appresso, essendo cosa che solo s’impara cogli anni... Queste sottili
osservazioni però non impediscono che il lavoro favoritomi sia degnissimo di
lode» Citata in G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, Torino, Tipografia
S. Giuseppe degli artigianelli, 1904, p. 8. 27 G. Allievo, Il concetto
pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano, Cogliati, 1897,
vol. II, p. 523. 28 G. Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel dibattito pedagogico
e scolastico in Piemonte (1832-1855) in Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e
Testimonianze, cit., p. 102. 29 G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 71. 30
Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi apparisce una
spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella tutto è
semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è sconnesso,
incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo pensiero,
misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il ginevrino scatta
fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri sublimi, grandi
originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore; [...] Un’altra idea
della vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed operoso
concetto del dovere, sono questi i principi filosofici, che informano la
Pedagogica del RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli dell’umanismo
contemporaneo, che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. Allievo, Commemorazione del
primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in
Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare Astigiana, 1910, pp. 14-15. 31 La dedica
recita: «Alla cara e venerata memoria di Gioanni Antonio Rayneri, Che primo fra
gl'italiani tentò elevare all'unità sistematica della scienza la. Pedagogica da
lui per un ventennio professata all'Università di Torino questo tenue lavoro
con riverenza di discepolo piamente consacro». 28 Nel 1910, il
vercellese fu invitato a tenere un discorso in occasione del centenario dalla
nascita di Rayneri32. Ormai prossimo alla pensione, ripercorrendo quasi
cinquant’anni di insegnamento universitario, ricordò con queste parole il
maestro: «Gran parte della mia vita pedagogica sta collegata col nome di lui,
essendochè negli anni miei giovanili, sedendo sui banchi dell’Università io
ascoltava la sua magistrale parola, e che egli ha illustrato per poco più di un
ventennio quella cattedra, che io tengo da quasi mezzo secolo»33. Durante gli
anni del suo magistero, Allievo rimase sempre in contatto con gli ambienti
rosminiani, collaborando anche ad alcune riviste ad esso legato34. Diversi
concetti e posizioni del sistema del vercellese sono chiaramente mutuati
dall’alveo rosminiano. Un primo elemento è l’idea della personalità, che
Allievo pone al centro della sua pedagogia35. In questo campo, accolse gran
parte dell’impianto psicologico e antropologico del roveretano, riproponendo la
tripartizione delle facoltà: senso, volontà e intelletto, largamente utilizzate
e approfondite dal professore piemontese. Al Rosmini lo legano anche ragioni e
argomenti di critica alla filosofia moderna. Al pari del roveretano, ma anche
di altri autori spiritualisti, Allievo riunì Kant e i pensatori idealisti sotto
la stessa etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda l’unità di
filosofia e pedagogia, di cui Allievo si fece araldo di fronte agli eccessi di
metodologismo cui erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36. All’idea di
unità, è collegato un altro concetto rosminiano accolto da Allievo, vale a dire
quello del «sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia»,
considerato nodale per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza
motivo, Berardi riassunse la teoria della personalità dell’Allievo come una
«traduzione del sintetismo di origine 32 G. Allievo, Commemorazione del primo
Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola, cit.
33 Ibid., p. 4-5. 34 Tra le altre, offrì la sua collaborazione alla rivista La
Sapienza, Rivista di filosofia e di Lettere, diretta da don Vincenzo Papa e
pubblicata dal 1879 al 1886. Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e
Testimonianze, cit., p. 65. 35 Giovanni Calò sostenne come, in fondo, «Quella
del Rosmini è una pedagogia della personalità» G. Calò, Pedagogia del
Risorgimento, Sansoni, Firenze, 1965, p. 679. 36 Commentando un breve
intervento dello studioso vercellese sulla pedagogia del Rosmini, Cavallera ho
osservato come «l’Allievo individua nel concetto di unità la forza del pensiero
pedagogico rosminiano uscendo dai consueti schemi della illustrazione della
metodica, ma non va oltre tale precisazione» H. A. Cavallera, Rosmini nella
Pedagogia dell’Ottocento, cit., p. 117. 37 Come conferma Mazzantini: «Rimasero
sempre per lui fari di orientamento, nella sua vita di studioso, le dottrine
ontologiche (già in gioventù manifestateglisi evidenti) della gradualità e del
sintetismo degli esseri» C. Mazzantini, I capisaldi del sistema filosofico
pedagogico di G. Allievo, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 702. 38 In
merito la Quarello, che ha dato alle stampe uno dei lavori più precisi ed
elaborati sull’Allievo, ha osservato: «Nella dottrina pedagogica dell’Allievo
la legge fondamentale è dunque l’armonia, legge che necessariamente deriva da
quella suprema filosofica: “Il sintetismo universale”» V. Quarello, G. Allievo,
studio critico, Lanciano, Carabba, 1936, p. 121. 29 rosminiana»39.
Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia
alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali
elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più
attenta delle opere di Allievo emerge tuutavia anche una serie di differenze
con il roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del
professore piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio,
rispetto al quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di
differenziarsi. Si tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti
pedagogisti di scuola rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo
positivo40. Già Francesco Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere
postume del Rosmini e suo ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio
Rosmini, recentemente ripubblicato, nel disegnare la geografia del
rosminianesimo in Italia sottolineava la dissonanza tra l’Allievo e il
roveretano41. Questa precisazione di Paoli, peraltro in un libro con toni
marcatamente apologetici, denota come tra i seguaci «osservanti» del
roveretano, l’Allievo non fosse considerato un rosminiano «ortodosso»,
nonostante la riconosciuta prossimità. La distanza tra i due pensatori è
documentata dal fatto che nelle opere del vercellese i richiami e le influenze
dell’opera rosminiana si diradano. La maggior parte dei espliciti riferimenti
al roveretano, infatti, si riscontrano nei primi lavori dell’Allievo, in specie
nei Saggi filosofici (1866), con chiari rinvii all’ontologia, alla metafisica e
alla logica. Ma già in un’opera dell’anno seguente, Della pedagogia in Italia dal
1846 al 1866, il legame con il sistema del roveretano appare più distaccato. In
particolare, si coglie un certo ridimensionamento dell’apporto del Rosmini.
Delineando l’itinerario della pedagogia italiana del primo Ottocento, sebbene
non manchino apprezzamenti positivi, Allievo sottolinea come il vero innovatore
della pedagogia italiana fu il Rayneri. Si tratta, senza dubbio, di
un’interpretazione impensabile per qualsiasi studioso rosminiano42. 39 R.
Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di
G. Allievo, «Quaderni di cultura e storia sociale», febbraio 1953, p. 62. 40
Cottini rileva come: «Circa la discordia fra l’Allievo e il sommo Roveretano,
osservò giustamente il mio quondam condiscepolo Prof. Giuseppe Morando, che il
dissenso aperto e leale dell’Allievo porge maggiore rilievo alla riverenza
sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio, ch’egli gli rese in ogni
occasione» G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 67. 41 Scrive il pedagogista
di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia è sostenuto
nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe Allievo, che se non professa del
tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora colla
esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche» F.
Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di P.P. Ottonello), cit., p. 38.
42 Scrive: «Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente
intesa, non si aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di
poche pagine. I lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine,
pensieri, desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi
scientifici, ma un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene
in guardia dalla mania de’ sistemi anche in 30 In alcune opere
degli anni ’70, quando il sistema dell’Allievo si consolidò, il vercellese si
discostò esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana.
Nell’opera in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a
dire Il problema della metafisica (1877), si affranca dal roveretano in merito
alla dottrina dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della
metafisica sia l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica
nella realtà infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle
«vicendevoli loro attinenze»43. Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di
pensare il primo noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza
di tale idea in Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, Allievo contesta
inoltre la teoria secondo cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere
ideale universalissimo. Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce
la realtà confusa ed indeterminata45, opponendosi così ad uno degli elementi
caratterizzanti la gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre
contese con la filosofia neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione
esposta negli Studi psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto
tra anima e corpo: «In che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È
assai malagevole impresa il cogliere su questo punto della psicologia
capitalissimo il suo pensiero; tanto parmi intricato, inconsistente,
incerto!»46. E poi motiva: «Il concetto psicologico del Rosmini oscilla incerto
tra questi tre pronunciati: 1° l’anima umana è sentimento dell’Io e niente di
più: il sentire animale sta all’infuori di essa, ossia non è contenuto nella
sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto, siccome suoi essenziali costitutivi,
il principio sensitivo animale ed il principio intellettivo; 3° il principio
sensitivo è virtualmente contenuto nelle intellettivo»47. Contrario a tali
posizioni considerate equivoche, proporrà un duo dinamismo coordinato su cui
avremo modo di trattare in seguito. La valenza delle critiche mosse al
pensatore roveretano dall’Allievo, è confermata dalle dure repliche di alcuni
dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo proposito, sono molto
significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso, che stampò
due severi pamphlet contro l’Allievo. pedagogia, e crede che addestrando in
maniera variata il pensiero si serva, meglio che con severe teoriche, all’unità
dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e svariati lavori parziali de’
pedagogisti, che lo precedettero, coll’intendimento di ricondurli all’unità
della scienza» G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea,
Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G.
Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola ionica a Giordano Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44
Ibid., p. 47. 45 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina,
1891, p. 298. 46 G. Allievo, Studi psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio
degli artigianelli, 1911, p. 60; 47 Ibid., 62; 31 Nel 1883,
pubblicò La teorica rosminiana dello sviluppo graduato della ragione umana
difesa da P. De Nardi contro la traccia di contradditoria che ad essa ha dato
G. Allievo. In questo saggio lo studioso rosminiano considerava «gravissima
nella sostanza»48 la critica mossa da Allievo riguardo lo sviluppo della mente
nell’opera del roveretano, esposta ne Il positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò Due sillogismi di Giuseppe
Allievo contro la percezione intellettiva come viene percepita da A. Rosmini49,
nel quale contestava al pedagogista vercellese prima il merito di un appunto
sulla filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima sensitiva e
intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese secondo il
quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro. Una prima
risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891), dove
Allievo confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo
1887, sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato
l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a
certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia
tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto,
bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più
chiaramente il rapporto tra Allievo e Rosmini, è inoltre indispensabile citare
i due testi in cui l’Allievo trattò specificatamente dell’opera del roveretano:
il brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più
sostanzioso articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista
universitaria «Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure
breve, appare tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato
Per Antonio Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al
congresso commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo,
organizzato dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P.
De Nardi, La teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana
difesa da Pietro De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha dato
Giuseppe Allievo, professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti, 1883,
p. 3. 49 P. De Nardi, Due sillogismi di Giuseppe Allievo, Professore
all’Università di Torino, contro la percezione intellettiva come viene
concepita da Antonio Rosmini esaminati da Pietro De Nardi, Professore di
Filosofia nel Collegio Internazionale Italiano di Torino, con appendice del
medesimo in risposta a T. Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. Allievo,
L’uomo e il cosmo, cit., pp. 417-418. 51 G. Allievo, Il concetto pedagogico di
Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, cit., vol. II, pp. 521- 523. 52
G. Allievo, Antonio Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32
Nel suo intervento Allievo riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di
Rosmini53, attestando l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità
dell’educazione e Del supremo principio della metodica per lo studio della
filosofia e della pedagogia. Tra i principali meriti, individuò l’aver difeso
l’idea che l’educazione è vera, efficace e perfetta solo quando è
«schiettamente cristiana». Un concetto che, secondo Allievo, intuirono in tanti
ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla risplendere di quella lucentezza
ideale, che scaturisce dalla ragione speculativa»54. Nella stessa sede,
tuttavia, Allievo volle sottolineare le differenze tra il suo sistema e quello
di Rosmini55. Questa precisazione in un consesso con chiari intenti apologetici
a pochi anni dal Post obitum, conferma con limpidità la volontà di Allievo di
smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il secondo saggio citato, Antonio
Rosmini, è molto più consistente e permette di approfondire le idee di Allievo
circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa notare la grande risonanza che
ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi discepoli Tommaseo, Cantù,
Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte, Rayneri. Conduce poi
un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e pedagogica del Rosmini,
muovendo una serie di critiche e «correzioni» al pensiero del roveretano.
Riguardo l’articolazione delle scienze nel sistema del roveretano, parla di
un’ambiguità del Rosmini circa il legame tra la psicologia e l’antropologia56.
In seguito contesta la seguente definizione di uomo tratta dall’Antropologia di
Rosmini: «l’uomo è un soggetto animale, dotato dell’intuizione dell’essere
ideale indeterminato e operante secondo l’animalità e l’intelligenza». Allievo
trova in questo enunciato un eccessivo risalto per la parte «naturale»
dell’uomo. Nel definire la persona, Allievo preferisce mettere l’accento sulla
natura spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è subordinata alla
spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è poi smussata
tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la scienza
antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione primaria
dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice Allievo - è un
pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non
è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da
tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di
«sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo
risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità comprensiva
raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo sistema» G.
Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini,
cit., vol. II, p. 521. 54 Ibid., vol. II, p. 521. 55 «Ed io, sebbene da lui
discorde in alcuni punti delle sue dottrine filosofiche, mando questo mio
lavoruccio in attestato della mia scienza sincera e profonda ammirazione verso
tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 8.
57 Ibid., 9-10. 58 Ibid., p. 10. 33 Allievo dovrebbe essere «senso
corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso
intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte
nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo
pedagogico, fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità
dell’educazione sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato
approfondimento del concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata
riguarda il rapporto tra le affezioni casuali e l’ordine interiore. Allievo
riporta senza rinvii al testo originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il
suo spirito all’ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le
cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le
distanze, «correggendo» le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento,
commentando poco dopo la parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa
all’«Unità degli oggetti» sostiene che è «alquanto sconnessa». Allievo fa
notare come il Rosmini abbia dedicato molto spazio all’analisi
dell’apprendimento e dell’educazione durante l’infanzia, soffermandosi sullo
sviluppo delle facoltà del bambino. Il pensatore vercellese, tuttavia, fa
notare come un corretto sistema pedagogico debba tener conto dell’intervento
educativo, e del fatto che spesso si insegnino cose che il bambino non sa
ancora, e che quindi lo studio delle naturali facoltà del bambino non sia
sufficiente ma debba essere integrato dai metodi educativi esterni62. Anche se
riconosce al Rosmini il contributo sulla libertà d’insegnamento, a dispetto per
esempio di un Gioberti giudicato eccessivamente statalista, l’Allievo contesta
al Rosmini l’affermazione secondo cui la scuola dovrebbe «guardarsi dallo
spirito individuale siccome 59 Ibid., p. 12. 60 «L’autore ripone nell’unità la
legge suprema dell’educazione; nel che io non convengo pienamente con lui.
L’unità vera, effettiva, feconda non può andare disgiunta dalla varietà, né
questa può andare scissa da quella. Unità senza varietà è arida, sterile, priva
di moto e di vita; varietà senza unità è sparpagliata, dissipata, che si sciupa
nel vuoto. L’uno nel vario, il vario nell’uno, ossia l’armonia è la legge
suprema della vita in ogni ordine di cose. Epperò all’umana educazione l’unità
e la varietà tornano essenziali amendue ad un modo. Certamente l’autore non
esclude, né perde di vista la varietà, giacché riconosce la molteplicità delle
dottrine, che si insegnano, e delle potenze, che vanno educate; ma occorreva
che avesse in modo esplicito riconosciuta e formulata la varietà accanto
all’unità, siccome egualmente necessaria» G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p.
17. 61 «Però in riguardo alla dottrina del Rosmini, a me par giusto
l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro spirito affezioni casuali,
le quali vanno acconciate e conformate all’ordine oggettivo delle cose fuori di
noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi hanno accidentalità e
turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro non che adattarsi, deve
seguire una reazione, conservando intatta la sua indipendenza. Anche nel nostro
spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla nostra natura, sicché la formula
del Rosmini sembra bisognevole di essere corretta e parmi più conforme a verità
l’affermazione che il supremo principio pedagogico dimora nel mantenere in
perfetta armonia l’ordine oggettivo dello spirito dell’alunno coll’ordine
oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da sé, che quest’armonia importa
il riconoscimento di un principio superiore divino, ed inoltre supremo, in cui
l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine oggettivo interiore hanno il loro
centro di unità e la loro cagione efficiente» Ibid., p. 19. 62 «Il Rosmini,
intento, alla legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e
per segno i momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la
mente infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi
fanciulli una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma
avrebbero compreso col tempo» Ibid., p. 29. 34 da suo capitale
difetto», e osserva: «Questa opinione dell’autore parmi bisognevole di essere
ritoccata. Sta bene che l’educazione pubblica non debba tener conto delle
singole famiglie e de’ singoli individui, ma se non vuole incorrere nel dispotismo
e trasmodare, occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito informatore della
famiglia e la personalità individuale di ciascun uomo, essendochè lo stato è
fatto per le famiglie e per le persone singolari, non questo per quello»63.
Oltre alle critiche, emergono anche una serie di considerazioni positive.
Allievo considera di vitale importanza il contributo di Rosmini nell’aver
mostrato la conciliabilità tra lo spiritualismo e la realtà naturale
dell’uomo64, di aver riportato la pedagogia ad un metodo realista65, il
richiamo all’armonia come principio educativo, valorizza il tentativo di
salvare l’unità della persona, l’idea di sviluppo armonico delle facoltà umane
ed elogia il merito di aver unito didattica ed l’educazione. Vivo apprezzamento
egli esprime circa il legame tra pensiero e nazionalità. Allievo scrive che «è
meritevole di nota il rapporto, che il Rosmini istituisce fra il metodo
filosofico e la diversa tempra degli ingegni proprii delle singole nazioni».
Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme di autarchia culturale, il
vercellese sostenne l’importanza di conservare le tradizioni della filosofia
italiana. In questo senso cita la lezione III Del metodo filosofico in cui
Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia: il carattere dell’ingegno
italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea l’importanza66. Altri autori
spiritualisti influenzarono Allievo. Tra questi esercitò un considerevole
ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente alla conversione
razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una filosofia della vita,
rappresentò un momento importante nello sviluppo del pensiero di Allievo. Il
pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo teologico, vale a dire
Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il Primo cosmologico e cioè
che il creato è l’essere che partecipa della potenza, amore di Dio, e 63 Ibid.,
p. 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente spiritualistica, così il
carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è lo spiritualismo, non però
lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica la materia allo spirito,
bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che riconosce come parte anch’essa
essenziale dell’umano composto l’organismo corporeo, ma lo vuole subordinato
all’impero dell’anima razionale» Ibid., p. 41. 65 Trattando del contributo
pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva: «Un secondo
punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo: “prima regola
del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione precede il
ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento, che deve
tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Ibid., p. 32. 66 Ibid., p.
33. 67 Sull’influenza del Bertini sull’Allievo, Virginia Quarello che pubblicò
nel 1936 uno dei lavori più completi e attenti sulla filosofia dell’Allievo
scrisse: «L’influenza del Bertini sull’Allievo, specie nel campo religioso, è
stata fortissima tanto che il pensiero dell’uno non solo si connette, ma
perfettamente aderisce a quello dell’altro» V. Quarello, G. Allievo, studio
critico, cit., p. 62. 35 quindi il Primo enciclopedico per cui
«l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre che il Rosmini,
proprio al Bertini, Allievo dovrebbe la fondazione del suo sistema
filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi
filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno
riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul
toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e
quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal
filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. Allievo condivide una serie di
concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la
filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei
criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore
e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono riconoscere
diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo citato, Allievo
sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia della filosofia
debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la filosofia perenne,
l’importanza attribuita alla biografia e al contesto culturale per cogliere la
filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il Conti conduce la narrazione
della storia della filosofia guidati da cause di relazione e connessione.
L’unico appunto mosso dall’Allievo al Conti riguarda la questione degli
universali71. Allievo fu anche un buon conoscitore del panorama culturale
europeo e dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si tratta di un
elemento non così comune tra gli autori della seconda metà dell’Ottocento.
Nonostante diffidasse di una certa esterofilia, che contestava 68 G. Calò, Il
pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, «La Cultura filosofica»,
n. 5, Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula giobertiana «l’ente
crea l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e passando attraverso
all’Idea di una filosofia della vita del Bertini, che all’ALLIEVO era parsa
un’opera provvidenziale per la filosofia italiana dopo i traviamenti a cui
l’aveva esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto cristiano – cattolico
della creazione, per cui da una parte è Dio infinito creatore libero,
dall’altra gli enti finiti e reali che trovano in quella la loro causa prima»
G. Vidari, Giuseppe Allievo, Torino, Stamperia Reale Paravia, 1914, p. 6. 70
«Ripudiando il criticismo come propedeutica della filosofia, egli vuole che il
conoscere sia fin dalle prime tenuto per vero, e come tale riconosciuto ed
esaminato dappoi, e non già posto in problema. La natura umana, perché
ragionevole, è nella verità, opperò il conoscere naturale è di per sè evidènte,
non già problematico nè bisognevol di prova. In questa evidenza del vero o del
conoscere ci ripone il supremo ed intrinseco criterio della filosofia, dal
quale fluiscono poi e nel quale si appuntano come criterii secondarii ed
estrinseci l'affetto della verità, il senso comune, la tradizione scientifica e
la rivelazione» G. Allievo, Saggi filosofici, Milano, Gareffi, 1866, p. 384. 71
Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al concetto filosofico del nostro Autore,
sebbene mi paja più comprensivo assai e più conforme a verità che non altri
parecchi, durerei tuttavia non poca fatica ad accoglierlo come definitivo e
perfetto. E veramente (per tacere qui di altri argomenti in contrario ) io non
so fare buon viso a quella ontologia scolastiso-wolfiana non ancora abbandonata
a' di nostri, che egli pone come parte integrale, anzi sublimissima della
filosofia; giacché l'essere astrattissimo e onninamente indeterminato, in cui
si vogliono concentrati i sommi universali di essa ontologia, ove si pigli da
sè, disgiuntamente da Dio e dalle realtà finite, convertasi in un aereo ed
inconsistente fantasma, che mal reggendosi di per sè è quindi impotente ad
ammanire un saldo fondamento alla protologia, cardine di tutto il sapere»
Ibid., pp. 359-360. 36 soprattutto ai positivisti e agli hegeliani,
accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri: «Dello
spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug (l’io
riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per l’originaria
armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in concetto del
Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il principio
personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi sia la ragione
con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal finito a Dio) con il
processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel Krug apprezzò la
capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello studioso riprese
nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a priori, nel
tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto. Si tratta di
un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini. Allievo
raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le antinomie
dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia
intellettuale di Allievo fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di
Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie
physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. Allievo lo cita
nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il
suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi
sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il
legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la
persona umana e la persona divina, Allievo oltre che il principio de
«l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich
Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla
pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un
«pestalozziano». L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine
«organismo», al quale Allievo preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G.
Allievo, studio critico, cit., p. 28. 73 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza,
la vita, Milano, Agnelli, 1868, p. 42. 74 G. Allievo, Saggi filosofici, cit.,
p. 30. 75 «E dirò che, con il Krause e con il Jacobi, proprio lo Stahl fu
sempre presente all’Allievo, nella sua opposizione decisa all’idealismo
post-Kantiano» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 83. 76 A
riguardo, la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente, fu l’influsso di
Lotze specie nel campo psicologico, benché, a mio credere, si possa pure far
risalire al Lotze il concetto di Dio come suprema realtà personale, che crea il
mondo degli spiriti personali» Ibid., p. 82. 77 H. Lotze Principes généraux de
psychologie physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A.
Penjon, Paris, Bailliere, 1881. Si tratta di una traduzione del
primo capitolo del testo H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie
der Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung, 1852. 78 G. Allievo, Studi psicofisiologici,
cit. 79 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 29. 37
Altri autori hanno sottolineato il ruolo del vercellese nella ricezione
dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò «più herbartiano di quello
ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in seguito emendato82. L’opera
dell’Allievo è anche segnata dall’opera del Naville, a cui lo accomuna la
convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere l’antropologia e non
l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come per molti
positivisti. Nella voce sull’Allievo, presente nell’Enciclopedia Filosofica di
Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta Allievo perfino a
Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il vercellese aveva
una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno infinito pone fuori di
sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il concetto di armonia
dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di esseri che cooperano
sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In sintesi, ci sembra di poter
ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi apporti e «contaminazioni»
con diversi autori, il professore piemontese abbia preferito smarcarsi da
discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di Pestalozzi, di Rayneri, egli
si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo italiano». Egli considerava
questa corrente come la più genuina tradizione nazionale85, oltre che in linea
con la più autentica pedagogia e 80 In merito alla crisi del positivismo
iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento, Malatesta e la Bertoni Jovine
commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e l’Allievo poi e in ultimo il
Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile negli studi introducendo
nella pedagogia i princìpi più validi dell’herbartismo» D. Bertoni Jovine, F.
Malatesta, Breve storia della scuola italiana, cit., p. 43. 81 G. Calò, Il
pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, Prato, Tipografua Carlo
Collini, 1910, pp. 34-35. 82 G. Calò, Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba,
1932, p. 262. 83 Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp.
192-193. 84 Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, 2006, vol. I, p. 297. 85
Nel testo già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867)
ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le opere pedagogiche
chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che tutte le segna di
una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il carattere dominante e
tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino da Feltre al Rayneri.
Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la preccelenza del principio
spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità personale dello spirito umano
e la dipendenza di esso da Dio risguardato come spirito conscio di sé, distinto
sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e finale di quanto sussiste. Essa
considera la nostra temporanea esistenza siccome tirocinio e preludio di una
esistenza oltremondana, e conseguentemente vuol preparare il fanciullo alla sua
duplice destinazione, vuol educare in lui l’uomo temporaneo che passa quaggiù
soffrendo, e lo spirito immortale fatto per una seconda vita. Essa ripudia
siccome offensiva della dignità della persona umana la dottrina che vuole il
fanciullo esclusivamente allevato per la patria e pel reggimento politico
dominante, facendolo così, di essere avente ragione di fine, un semplice mezzo
agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale dell’uomo perfetto che la
natura ha preformato nell’infante, essa lo addita vivente in Cristo, assegnando
per iscopo all’opera educativa la virtù cristiana, non la virtù naturale, né la
civile, né lo sterile misticismo. Per lei non si da istruzione vera ed efficace
senza l’educazione dell’animo; non vera educazione morale senza religiosità;
non religiosità vera senza Cristianesimo cattolico, sicché l’educazione ha da
abbracciare tutto l’uomo e con tale universalità ed armonia, che i sensi
vengano subordinati alla ragione, il corpo allo spirito, la libertà a Dio, la vita
temporanea alla oltremondana. Mercé questo carattere dello spiritualismo la
pedagogia italiana contemporanea mantiensi fedele alle sue tradizioni secolari
e si ricongiunge colla scuola spiritualistica platonica di Firenze, perché
discepolo ed amico di Giovanni di Ravenna, il grande scuolaro del Petrarca» G.
Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 158.
38 filosofia greca86. Allievo era convinto che fosse una tradizione che
andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal positivismo, considerate
teorie di «importazione» aliene allo spirito filosofico italiano. I. 2.
Gnoseologia e metafisica I testi in cui Allievo affronta i problemi più
specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi filosofici (1866), Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola Jonica a
Giordano Bruno (1877) e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo (1891). Non si
può affermare che su tali questioni il contributo di Allievo abbia avuto una
reale originalità. Lo studioso si è limitato piuttosto alla ricerca di alcune
basi teoretiche che gli permettessero di fondare la sua pedagogia su una
prospettiva «realistica», com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza
di approfondimenti è stata oggetto delle critiche di alcuni studiosi
dell’Allievo come la Quarello89 e Mazzantini90. Sebbene il contributo di
Allievo non abbia apportato novità rilevanti nel discorso gnoseologico e
metafisico del tempo, espose comunque il suo pensiero in modo organico e
coerente. Egli considera la Metafisica come il momento fondamentale della
ricerca filosofica, caratterizzata dall’universalità e dalla trascendenza. La
definisce come «scienza del Primitivo»91 o «Scienza de’ supremi principii del
sapere e dell’essere»92. Contro gli orientamenti antimetafisici di marca
positivista e scettica, considerava l’abrogazione del problema del senso e del
«tutto» come un tradimento della filosofia. Essa trovava la sua ragion d’essere
in quel mandato della persona umana, che strutturalmente e spontaneamente interroga
l’Universo e ne pretende un significato. In questo senso la metafisica
collocava la sua origine nel desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo
86 G. Allievo, Studi pedagogici, Torino, Tipografia Subalpina, 1889, p. 33. 87
Accusato di nazionalismo, Allievo si difese: «Noi siam lontanissimi
dall'assumere il nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del Vero; che
anzi arditamente sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è
universalmente ammesso v'è del troppo e del vano assai da tor via, e gli
bisogna essere ricondotto entro a più ragionevoli e modesti confini. Noi invece
propugniamo l'italiana filosofia non per ciò solo che è italiana, ma primamente
e precipuamente perché fondata sulla verità del Teismo cristiano, siccome
ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il Positivismo di A. Comte perché disformi
entrambi dal Vero, e non già perché l'uno di tedesca, l'altro di francese
origine» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 14. 88 V.
Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, «Educare», maggio - giugno
1952, p. 151. 89 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 21. 90 C.
Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec.
XIX, «Archivio di Filosofia, organo del R. Istituto di Studi Filosofici», Roma,
1942, n. 1-2, pp. 35-36. 91 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 284. 92 G.
Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 5. 39 gran tutto, che
dicesi universo»93, un’esigenza che non può essere soppressa, pena la negazione
dell’identità umana. Sulla scorta del rosminianesimo e di molta filosofia
cristiana, Allievo rileva come la crisi della metafisica fu prima inaugurata
dal soggettivismo di Cartesio e poi consacrata dal criticismo di Kant. La
gnoseologia moderna era soggiogata, a suo giudizio, da un equivoco legato alla
volontà di condurre in dubbio il valore veritativo e orientativo dei criteri
dell’evidenza e del senso comune insiti nell’uomo. Si tratterebbe di un cortocircuito
conoscitivo dai corollari disparati. Se, infatti, da un lato si svaluta la
ragione riducendone il dominio (kantismo), dall’altra si arriva a «divinizzare»
l’Io (idealismo), attribuendo alla razionalità umane quasi gli stessi
attribuiti che i teologi avevano sino ad allora riservato al Creatore. Per
superare l’impasse, Allievo sollecitò in coro con il resto degli spiritualisti
una correzione radicale della prospettiva. La filosofia non poteva uscire dalla
palude dello scetticismo, se non «attestando» e «accettando» dei criteri
conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era considerata l’unica
possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno. Le sue posizioni gli
costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle origini della filosofia
contemporanea, inserisce l’Allievo tra i «mistici», cioè tra quei filosofi che
continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà «esterna» all’Io
pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e spiegare il suo
rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano in modo
fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di Allievo è
«una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa e
approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della
relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era
considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione
tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica
dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia
della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi
idealiste «mancate». 93 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella
storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., pp. 2-3. 94
G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici,
cit., p. 366. 95 V. Quarello, G. Allievo, sudio critico, cit., p. 20. 96 «Il
sintetismo dell’Allievo, dunque, non vale più dell’ordine del Conti. Anche per
l’Allievo basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare tutti gli
enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero con
l’essere, per l’Allievo è prima risoluto che formulato. Criticismo o
scetticismo? Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con
l’altro? Ma il sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e
ciascuna forza opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e
l’oggetto vorranno essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un
armonia, che non sia per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile,
Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit., p.
366. 40 Il filosofo siciliano riconobbe in ogni caso nell’Allievo «una
certa inquietudine circa la saldezza del suo principio filosofico»97, originata
dal confronto con la logica hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel
corso della sua opera. Di fronte alla tesi idealista, Allievo reputava
l’accettazione dell’essere come l’atto più consono alla natura razionale
dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione «misteriosa», ma non per questo
irrazionale99. Il primo dato della coscienza è la percezione di un mondo fuori
di noi, tale dato si può o accettare o rifiutare, non si può dimostrare.
Secondo l’Allievo la filosofia trova il suo fondamento nella constatazione
dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista sollecita perciò a tornare ad un
sano realismo, a ripartire dal mondo delle cose, dal dato semplice della sua
esistenza, dal mistero del sé, per giungere solo dopo all’Eterno. Ciò ha
conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali il fatto che stando
all’Allievo il ruolo iniziale nel ragionamento risiede nell’intuito che si
muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema metafisico studiato nella
storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, egli traccia una
serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un pensiero filosofico
compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la constatazione
dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di norma si valuta e
si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico che si interroga
sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il pensiero
speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’Allievo,
la riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è
strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella
persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della
metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur
mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa
rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze
della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose
aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità»100.
97 Ibid, p. 368. 98 Osserva a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto
e l’oggetto si compenetrano misteriosamente l’un l’altro senza però smettere
ciascuno la sua la propria ed individua natura» G. Allievo, Saggi filosofici,
cit., p. 14. 99 In un brano molto significativo, quasi replicando a tale
obbiezione, Allievo enuclea la sua concezione del mistero: «La ragione ha
certamente il diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo ripugna, ma non
ha diritto di respingere il mistero, perché il mistero è una proposizione, di
cui si conoscono i singoli termini, che la compongono e non si comprende bene
il nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo affermare che
in ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto accessibile alla
ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione umana vi è
sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» G. Allievo,
Appunti di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, 1906, pp. 33-34.
100 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia
dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 38. 41 Allievo
identifica nel «primo noto», evidente e concreto, la base della sua
speculazione metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama anche Io
penso, da cui nasce la constatazione che l’essere esista e che possa essere
riconosciuto nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero e il
reale, si pone in continuità con il concetto di sintetismo esposto da Rosmini.
Allievo ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati i
singoli universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e
dell’armonia101. Il suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che
vorrebbero la causa del reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme
di spiritualismo che identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo
Allievo sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si
identifica con esse. E anche qui applica una delle regole classiche della sua
filosofia, il «Distinguere per unire», enunciato già nei primi libri, e posto
alla base della sua gnoseologia102. In questo senso, avversa sia
l’identificazione del pensiero con l’essere di origine idealista, sia il
monismo materialista. La Quarello ha considerato insufficiente la spiegazione
della relazione tra l’Io e il non Io nel pensiero del Vercellese: «Il punto
debole del sistema dell’Allievo è proprio qui, in sede gnoseologica,
nell’avere, cioè, posto a base della speculazione puramente filosofica
l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il sapere filosofico
non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività della conoscenza)
ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione” fra ragione ed
esperienza»103. E ribadisce «L’Allievo non ci spiega il come dell’atto
conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di una
corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da essere
considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine
universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità
di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da
formare una totalità armonica»104. I. 3. Il principio della personalità 101
Suraci spiega con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla
vera conoscenza: «L’Allievo nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico,
descrive un circolo non vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico,
l’universale oggetto dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della
cognizione determinata, distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si
passa poi alla visione comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale
dell’Uno ideale. Dialetticamente la mente umana, secondo l’Allevo, non fa che
“discorrere dalla cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla
cognizione riflessa o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione
attuale del molteplice ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”.
Questa formula del movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella
enunciata dal Rosmini nel n. 701 della sua Logica, al quale l’Allievo si
attiene, citandolo spesso nel corso di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte
le sue Opere» V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 158.
102 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 3. 103 V. Quarello, G. Allievo,
studio critico, cit., p. 21. 104 Ibid., p. 23. 42 Il 18 novembre
1903 Giuseppe Allievo lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo,
Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse
l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine
di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno
dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il
contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia
del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio
della personalità come il più importante contributo di Allievo alla storia del
pensiero pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza
pedagogica, osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva
prima di lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e
illuminatane vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo
principio, Allievo affronta la più profonda questione antropologica, vale a
dire la specificità dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla
domanda «chi è l’uomo?» Allievo parla della persona come «una mente informante
un organismo corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo
la mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra
il corpo è animato, l’anima è 105 G. Allievo, Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903,
Torino, Tipografia degli Artigianelli, 1904. 106 Citò la prima prolusione letta
all’Università nel 1870, in cui già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo
nuovo concetto, che allora mi era balenato alla mente, fece la sua prima
apparizione nella mia Prolusione universitaria del 1870, intitolata appunto Il
principio della personalità, base della scienza e della vita. “Questo principio
(io scriveva allora) è quel centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra
le dissidenti scuole filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli
elementi sociali nel mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e
della vita insieme composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di
contatto e di armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola
questo concetto, poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico
della personalità, non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel
punto questo principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema
perpetuo delle mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle
mie lezioni, la mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in
tanto volgere di anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e
di dottrine, l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei
sistemi che inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni
sensibili, senza uno spirito che li animi e li illumini» Ibid., p. 4. 107
«Tutti i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana educazione si
riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il concetto della
personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in esso si
ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una
comprensiva e potente unità» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, Torino,
Tipografia del Collegio degli Artigianelli, 1909, p. 5. 108 Cannella, che
peraltro afferma come il pedagogista piemontese non sia stato «in Italia
conosciuto ed apprezzato abbastanza» scrive sul principio di personalità:
«Lasciando da parte le sue critiche storiche, acute, precise, e bene spesso
pregevolissime, io credo, per esempio, che la sua idea fondamentale pedagogica
dell’educazione della personalità meriti molta considerazione e racchiuda in sé
il nucleo vero, intorno a cui si deve aggirare una dottrina pedagogica. E così
si può dire di molte sue opinioni sui problemi pratici, dove tanta confusione
regna oggi, e dove l’Allievo ha già disegnato soluzioni assai giuste» G.
Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe Allievo, in «Rivista
di Filosofia Neoscolastica», n. 2, 20 aprile 1910, p. 209. 109 G. Calò,
Dottrine e Opere, cit., pp. 261-262. 110 G. Allievo, La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, Torino, Tipografia Subalpina, 1904, p. 3. 43
incorporata»111. L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di
un corpo organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una
mente informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come
sinonimo di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico
scaturisce dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente
sostanziale è persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità
di essere è personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra
personalità complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta
di una prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo
principio Mazzantini ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in
quanto rivela l’uomo a se stesso, ma in quanto altresì offre un principio
supremo interpretativo della realtà universale, compresa la stessa realtà
divina»114. Su questo versante, è stato osservato come il principio della
personalità sia imprescindibile dal teismo di Allievo115. Per il vercellese,
infatti, il concetto di persona trova la sua ragion d’essere e il suo
compimento nella relazione con la Persona infinita116. In una radicale e
metafisica indagine antropologica, Allievo individuava la questione nodale
della scienza pedagogica: «Ora l’idea fra tutte la più comprensiva, la più
feconda, la generatrice di tutto il sapere speculativo, è, se io ben veggo,
l’idea della personalità. Il moto riformatore della scienza debbe esordire da
lei»117. Il destino della pedagogia era legato al rispetto di questo principio,
che invece considerava minacciato dalle teorie coeve. Nel saggio già citato
Sulla personalità umana, elenca una serie di orientamenti che 111 Ibid., pp. 49-50.
112 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Piscologia, cit., p. 3. 113 G.
Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 78. 114 C. Mazzantini, Due filosofi
spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, cit., p. 33. 115 Ha
scritto in merito Suraci: «Il principio “personalistico” serve all'Allievo per
affermare senz'altro in sede pedagogica, che, “la personalità finita
dell'educatore e quella dell'educando si reggono sulla personalità infinita di
Dio, trovano in questa la loro ragione sulla personalità infinita di Dio,
trovano in questa la loro ragione di essere la loro causa efficiente”. Ebbene,
bisogna porsi da questo punto di vista ontologico ed essenzialmente religioso
per intendere a pieno il valore e il vero significato della pedagogia
dell'Allievo, nella quale convergono con ricchezza di argomenti e di ampia e,
spesso, di esauriente trattazione scientifica, tutti i temi relativi
all'essenza e allo svolgimento della natura umana e della educazione dell'uomo.
La religiosità, la credenza di Dio e nella immortalità dell'anima, rimane, per
il nostro autore, il punto di partenza e di arrivo dell'azione educativa, il
cardine essenziale in cui si radica e gira la pedagogia; è luce inoffuscabile
che deve rischiare l'idea e il fatto dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio,
principio della sua vita, fine supremo della sua esistenza”» V. Suraci,
Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 9. 116 «La coscienza
personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la scienza. La
persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto il corporeo
universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita divina. Non
bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali, che si
richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane
oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda,
si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più
selvaggia indipendenza. L’uomo riconosce l’esistenza di un essere personale
infinito, dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si congiunge con
un vincolo d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce la religione,
la quale forma l’oggetto della disciplina religiosa» G. Allievo, Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18
novembre 1903, cit., p. 11. 117 G. Allievo, Sulla personalità umana,
Torino, Fina, 1884, p. 4. 44 reputava nocivi a tale principio118. Divide
queste teorie in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che disconoscono la
persona nella vita speculativa: il panteismo, il calvinismo, il fatalismo, il
materialismo e l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate dalla
svalutazione dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita. Nel
secondo raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona nella
vita pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume. Si
tratta di teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento
del progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del
costume, Allievo si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien
tratto a conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui
come a norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese
denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a
discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa
tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della
filosofia: il positivismo e l’idealismo. Secondo Allievo la mente non è quella
degli idealisti, staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche
quello dei positivisti e di certi psicologi sperimentali che riducevano il
pensiero ad un’espressione materiale. Anche se non si confonde con essa, la
vita della mente e dello spirito è intimante connessa con quella carnale120. La
loro relazione non deve condurre all’assimilazione di una delle due nature che
compongono l’uomo121. Entrambi i livelli sono distinti in una stretta «collaborazione»:
«l’essere umano possedendo un corpo organato alla vita materiale non può essere
spiegato tutto quanto senza la materia, ma neanco può essere spiegato colla
sola materia, dacchè il suo organismo è informato di una sostanza
spirituale»122. Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo rimanga un
«mistero»123, non è ammissibile assimilare su questo presupposto la persona al
resto della natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti, emergono
proprietà irriducibili alle dinamiche delle entità 118 Ibid., pp. 54-57. 119
Ibid., p. 57. 120 «L’uomo è siffattamente costituito, che non vi ha parte del
suo essere, la quale non viva congiunta coll’universo corporeo esteriore.
Sentire, pensare, volere, sono i tre supremi attributi costitutivi dell’umano
soggetto; e tutti e tre si svolgono in intima ed operosa corrispondenza colla
natura, fuor della quale rimarrebbero atrofizzati» G. Allievo, L’uomo e la
natura, Torino, Carlo Clausen, 1906, p. 4. 121 La natura e lo spirito sono
uniti «ma sarebbe gravissimo errore il credere, che siffatta unione si converta
in una identità, negando così ogni sostanziale distinzione fra l’uno e l’altra,
e confondendoli in una comune essenza. La distinzione esiste e non distrugge
l’unione. Poiché nel mondo esteriore le sostanze sono corporee, e quindi i
fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo interiore la sostanza è l’anima, i
fenomeni sono psichici, le forze sono facoltà o potenze. Ma il punto più
spiccato, che distingue questi due mondi, malgrado la loro cospicua armonia,
sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’suoi fenomeni, il dominio delle sue
potenze; e questa coscienza di sé, questo dominio di sé manca alla natura»
Ibid., p. 6. 122 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 4.
123 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 11. 45 fisiche. Come
osserva Allievo: «il punto più spiccato che distingue questi due mondi malgrado
la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’ suoi
fenomeni, il dominio delle sue potenze»124. Negando la natura spirituale
dell’uomo, la realtà effettiva della persona sfugge alla comprensione: «È un
dogma del senso comune ed un pronunciato della sapienza filosofica tradizionale,
che l’uomo non è tutto quanto materia organata, come non è neppure uno spirito
puro, bensì una sintesi stupenda, un’armonia vivente di questi due distinti
principii insieme composti ad unità di persona: ponete che tutto il suo essere
si risolva in un composto di molecole organate a vita materiale, e voi non
capirete più nulla dei solenni problemi, che agitano la coscienza dell’umanità,
più nulla delle sublimi aspirazioni, che fervono indomabili nei penetrati dello
spirito umano»125. Per il vercellese, è lo spirito che dà dignità all’uomo,
sollevandolo dal resto della natura. La persona esprime il grado sommo
dell’essere e lega l’individuo all’eterno. La coscienza dell’esistere colloca
la persona in una dimensione irraggiungibile per qualsiasi altro essere della
natura. L’esigenza di sottolineare il primato spirituale lo portò il docente
piemontese a criticare in una serie di lavori la definizione aristotelica
dell’uomo come animale politico126, che reputava ambigua. Data la confusione
antropologica coeva, Allievo non reputava conveniente indicare primariamente
nell’uomo la natura animale. Si rischiava di avallare le tesi dei materialisti
positivisti e di un certo evoluzionismo127, che volevano ridotto l’uomo ad un
«bruto», per usare le parole di Allievo128. Il pedagogista avvertiva il rischio
di ridurre lo studio della persona, al solo aspetto materiale: «Per conseguente
l’antropologia, anziché scienza distinta e superiore, apparirà niente più che
una parte della zoologia, parte la più sublime, se vuolsi, ma pur sempre una
parte»129. 124 Ibid., p. 15. 125 Ibid., p. 9. 126 G. Allievo, L’uomo e il
cosmo, cit., p. 80. 127 Osserva: «La tristissima definizione, l’uomo è animal
ragionevole, non solo capovolge l’ordine naturale, che regna tra questi due
elementi, ma soppianta ben anco la stessa personalità umana, la quale ha la sua
propria sede e radice nella mente imperante sull’organismo corporeo e fornita
di una perenne sussistenza, mentre essa pone l’animalità siccome soggetto, di
cui la ragionevolezza apparisce un mero e semplice predicato, tantochè venendo
meno la prima, cessa issofatto la seconda, né questa può spiegare altra virtù,
che non sia compresa nella cerchia di quella»127. In seguito ribadisce che
accoppiare «all’animalità la ragionevolezza come ad un soggetto un attributo
suo è un disconoscere il primato dello spirito sulla materia e della mente
sull’organismo corporeo nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo
spirito, al corporeo organismo sul principio pensante» G. Allievo, Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, Genova, Tipografia
del R. Istituto dei sordo – muti, 1874, p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per
impulso irresistibile di cieco istinto, l’uomo opera consapevole di sé e del
fine a cui mira, ed è arbitro delle sue azioni. Questa potenza, per cui l’umano
soggetto si determina da sé ad operare per un fine conosciuto, è la volontà» G.
Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle
scuole normali maschili e femminili, cit., p. 46. 129 G. Allievo, Della
vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 6. 46
Per riscoprire l’autentica alterità umana, era invece compito dell’antropologia
evidenziare nello sviluppo della persona quegli aspetti irriducibili al divenire
determinato. Allievo richiama all’osservazione dell’uomo, delle sue facoltà, e
della sua azione. Egli afferma che in ogni uomo inizia, prima o dopo, la «vita
spirituale» che consiste nella coscienza del sé e del mondo: «Io sono: con
questo pronunciamento un essere personale si desta alla vita, annunzia la
propria esistenza, afferma se stesso, rivela sé a se medesimo, e specificamente
si differenzia dagli esseri impersonali che esistono, pur non sapendo di
esistere. Questa coscienza di sé può essere più o meno viva, più o meno ampia e
potente, ma è pur sempre necessaria all’io, poiché una incoscienza assoluta
ripugna alla natura di un essere intelligente, qual è la persona»130. Nella
visione di Allievo, l’affiorare dell’Io, diviene così la prova della natura spirituale
della persona: «Il vocabolo io chiude esso solo in sé la più decisiva
confutazione del materialismo, essendochè il ripiegarsi che fa l’io sopra di sé
ed il riconoscersi siccome sostanzialmente identico nella dualità del soggetto
riflettente e dell’oggetto riflettuto è dote propria dello spirito ed affatto
ripugnante all’essenza medesima della materia, che è di sua natura
impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare interiormente sé stessa e
tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto: chè in tal caso
cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della individualità personale
all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della coscienza alla scoperta
della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente in due connotati propri,
vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133. In questo senso
definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza, mercé cui ha
coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua propria distinta
dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività volontaria, per
cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua in ordine al
fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134. Questi due
attributi sono l’espressione della coscienza, in 130 G. Allievo, Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18
novembre 1903, cit., pp. 4-5. 131 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p.
17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé a se medesimo. Ora quali
sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io sente di essere uno od
identico con se medesimo, di possedere un’esistenza effettiva e reale, si
riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva, semovente, operosa,
che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di pensieri, di affetti, di
voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» G. Allievo, Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre
1903, cit., p. 6. 133 «Lo studio della personalità umana è lo studio dela mente
contemplata primariamente in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo
corporeo. La mente, sede della personalità, emerge da due supremi costitutivi,
che sono l’intelligenza conoscitiva e l’attività volontaria» G. Allievo, Sulla
personalità umana, cit., p. 16. 134 Ibid., p. 55. 47 cui l’uomo
trova la sua indipendenza, alterità e potenza rispetto al resto della
natura135. Con altre parole, Allievo osserva: «Dovunque c’è la persona, cioè un
soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là vi è lo spirito. La
persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca, ma intelligente e
conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora di sé, lo domina e
lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la materia non conosce né se
stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è irrepugnabilmente dominata
dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo, infatti, la volontà è radicata
nell’intelligenza137. Solo una prospettiva simile, per Allievo, è capace di
comprendere la vita della persona, e salvare la sua unità138. Commentando una
parte del celebre libro di Smiles, Self – help, tradotto in Italia con il
titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, Allievo scrive che ognuno: «sente di essere
un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio operare, una forza morale,
che si muove all’atto non per esteriore costringimento, ma per intrinseco
impulso intelligente e libero. “Se ciò non fosse (scrive lo Smiles nel capitolo
VIII della sua opera Chi si aiuta Dio l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità?
A che gioverebbe lo insegnare, l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che
servirebbero le leggi, ove non fosse la credenza universale, come è un fatto
universale, che gli uomini obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono
individualmente?”»139. 135 «La persona è un tutto individuo e sostanziale, che
afferma sé come distinto dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé
stesso mercè il pensiero e la volontà; una monade, che è conscia sui et compos
sui, è presente a sé ed è tutta in ciascuna delle molteplici sue forme,
determinazioni, momenti e stati, sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora
nel conservare la propria individualità personale in mezzo alle forze contrarie
padroneggiandole; una sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un
centro o principio supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo
contenuto compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere
e di volere» Ibid., p. 54. 136 G. Allievo, Lo spirito e la materia
nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p.
15. 137 Secondo Allievo l’attività volontaria è «la fonte secreta,
inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente della vita umana, ed a cui
rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio pronunciato dall’io
attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il lavoro. S’intende da
sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non è una volontà cieca,
inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza, essendochè chi dice
coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di sé» G. Allievo, Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 8. 138 «La coscienza è la rivelazione
dell’anima a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella sua sostanza
e ne’ suoi modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo essere e nelle
sue manifestazioni. Così il concetto della personalità umana, vale a dire di un
soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera volontà, è il solo,
che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del loro comune soggetto,
sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana si mantengano
indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. Allievo, Studi
psicofisiologici, cit., p. 74. 139 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 47. 48 L’esistenza nella persona di una unità tra mente e
corpo, rappresenta una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso
antropologico e pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe
disconoscere un dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di
scienza appare contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della
coscienza141. Allievo dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione
spirituale e quella corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra
persona e corpo, due nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo.
In questo senso egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona
incorporata». Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano
coordinati tra loro. Come premessa a questo problema, Allievo scrive che
«nell’uomo non vi sono due esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze
mentali dell’anima e le funzioni animali del corpo si svolgono complicate
insieme, sicché non si può tracciare una linea di separazione tra i fenomeni
psichici ed i fisiologici»143. Contro i positivismi chiarisce in più di
un’occasione che la vita della mente va distinta da quella materiale. Osserva:
«L’anima non trae la sua origine dagli organi del corpo, ma (dicevano i
pitagorici) vien dal di fuori nel corpo è un’emanazione dell’etere, simbolo
dell’anima universale, ossia di Dio animatore supremo»144. Nel testo Studi
psicofisiologici, si occupa in specie della relazione tra la natura spirituale
e quella fisiologica, citando diverse opere di studiosi tra cui Marat, Lèlut,
Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen. Polemico contro il monismo
scientista, propone una teoria chiamata duodinamismo, che spiega in questo
modo: «Mentre il monodinamismo concentra la vita umana tutta quanta in una
sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola materia componente l’organismo
corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo due centri di vita
sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza vitale, e da quella
fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni fisiologici ed
animali»145. La teoria si 140 Per Allievo l’uomo è «La persona, sostanza
individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è l’identità
dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi fenomeni; la vita
intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e comune; la vita mentale
svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le rivelazioni della coscienza
personale, rivelazioni, che costituiscono le prime, spontanee intuizioni dello
spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora da ciascuna di queste rivelazioni
la ragione vede spuntare una serie ordinata di problemi, che ammaniscano la
materia, su cui la scienza ordisce le sue trame e compie il suo lavoro
speculativo» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione
letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 10. 141 «Così
coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della
speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce
di questo principio la ragione costruisce la scienza» Ibid., p. 10. 142 G.
Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit.,
p. 14. 143 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 26. 144 G. Allievo,
Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo, Tipografia Subalpina di Pietro Oggero
e C., 1887, p. 18. 145 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 69.
49 rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa «concilia
insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io individuale.
Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma congiunto colla
materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo principio ed animatore:
così il principio corporeo produce i fenomeni della vita fisica ed animale, ma
in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la quale in tal modo produce
direttamente e per se stessa i fenomeni della vita mentale, ed indirettamente,
ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita corporea»146. Al naturalismo e
al positivismo contestò, come già accennato, la riduzione dell’antropologia a
un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della zoologia»147. Allievo chiarisce
è che non è contrario alla fisiologia, ma al «fisiologismo». Negli Studi
pedagogici cita il caso dei fisiologi come Salvatore Tommasi, che sostengono
come la disciplina non porti necessariamente al materialismo148. Inoltre
osserva come anche alcuni positivisti abbiano ammesso una serie di difficoltà
nello spiegare la vita mentale con la sola fisiologia. Per suffragare la sua
tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e l’attività celebrale, nel quale lo
studioso riconosce quanto sia ancora lontana la possibilità di chiarire aspetti
fondamentali del funzionamento della mente umana. Allievo trae queste
conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del positivismo contemporaneo riconoscono
l’ignoto, che giace in fondo al problema dell’unione tra la vita fisica e la
vita mentale dell’uomo. Certamente la fisiologia moderna co’suoi luminosi ed
incontestabili progressi ha sparso molta luce su questo problema, ma non ha
svelato il mistero che lo avvolge»149. Allievo si poneva come obiettivo di
salvare insieme le esigenze spirituali e i dati fisiologici. Osserva: «Il
principio antropologico da me propugnato è antico quanto l’uomo, il quale
intuisce per natura la personalità del suo essere, ma è pur fecondo di novità e
di progressivo sviluppamento, perché ammette insieme armonizzati i due supremi
fattori della scienza, voglio dire l’esperienza, che apprende la fenomenalità
delle cose, e la ragione, che coglie il loro essere sostanziale»150. Nel
principio della personalità si palesa lo spiritualismo di Allievo, che viene
spiegato così dalla Quarello: «Realismo spiritualistico e spiritualismo
teistico: tale è la filosofia dell’Allievo. È realismo in quanto il pensiero è
l’ “attività” di un essere reale (io = persona); è spiritualismo in quanto la
persona è essere uno, sostanziale cosciente di sé (“lo 146 Ibid., p. 72 147 G.
Allievo, L’uomo e la natura, cit., pp. 13-14. 148 G. Allievo, Studi pedagogici,
cit., pp. 42-43. 149 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 12. 150 G.
Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 14. 50
spiritualismo, egli scrive, proclama la personalità umana”); è teismo in quanto
Dio è pensato come persona (“il teismo proclama la personalità infinita di
Dio”)»151. Lo spiritualismo dell’Allievo trae alimento dal principio della
personalità. Se da una parte, infatti, si afferma una dimensione irriducibile
alle dinamiche nell’uomo, e dall’altra l’attestazione di questa «natura»
dell’uomo conferma il suo spiritualismo. «Preso nel suo ampio senso – osserva
il pedagogista vercellese - lo spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza
di sostanze immateriali, che cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le
proprietà della materia, quali sono la figura, la grandezza, l’estensione, la
divisibilità, il movimento locale, bensì sono fornite di intelligenza e di
libera volontà»152. In questa duplice difesa dello spirito e della realtà
materiale, sembra di poter affiancare Allievo al personalismo nato in Francia
diversi decenni dopo, a cui lo accomunò la volontà di «evitare che la persona
umana fosse schiacciata dal materialismo positivistico o assorbita nel vortice
del monismo idealistico»153. I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo Allievo, la
pedagogia deve fare i conti con la realtà educativa e le sue dinamiche154. La
riflessione teorica e la vita formativa rappresentano due poli indispensabili
l’uno all’altro155. Allievo prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca
pedagogico sia empirico che razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto
«contempera insieme l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La
storia della pedagogia documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione,
abbia sempre fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo
ideale. Anche per Allievo, l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157
si 151 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 79. 152 G. Allievo,
Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 153 Pedagogie personalistiche
e/o della Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p. 15. 154
«Siccome l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la Pedagogia, che
ne rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte. Essa è scienza
perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché ideale tipico di
quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una teoria speculativa
intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi pedagogia pratica» G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la scienza pedagogica è
la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica dell’educazione;
scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una dell’altra. Poiché la mera
pratica dell’educazione, non illuminata dalla scienza pedagogica, non è vera
arte, bensì cieco empirismo; la scienza pedagogica alla sua volta, non tradotta
in pratica, né fecondata dal magistero dell’arte, rimane una vana e sterile
teoria» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, Pavia,
Bizzoni, 1901, p. 2. 156 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 55. 157 G.
Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 1. 51 prospetta come uno
studio di fondamentale importanza tanto per la teoria quanto per la pratica
educativa158. Allievo colloca l’antropologia al centro dell’organigramma di
tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo nella conoscenza dell’essenza
unitaria della persona159. L’Allievo non pensa all’antropologia come ad una
etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo» connotata da un orizzonte
metafisico. Dallo studio generale sull’uomo, discendono due gruppi di
discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione individuale, e quante ne
approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che studiano l’uomo sotto
l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri due gruppi. Del primo
fanno parte tutte le discipline che si occupano della mente: logica, estetica,
etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo gruppo afferiscono le scienze
che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia, anatomia umana, patologia,
terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che riguardano l’uomo sociale sono
secondo l’Allievo la politica, la giuridica, l’economia pubblica colle scienze
industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la filosofia della storia.
Tutte queste discipline sono legate all’antropologia, che permea e fonda
qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo Allievo, la prospettiva sulla
natura e il senso della persona, permea le possibili soluzioni avanzate
riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue prospettive, il suo
sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico, vuoi artistico, vuoi
religioso, cova in sé un problema antropologico»161. Questa relazione è ancora
più evidente per quanto concerne la scienza pedagogica, con la quale
l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo studioso piemontese,
infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia nell’affrontare dei
problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava necessario il
contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e integrare la
ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia filosofica poiché
necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo presuppone la conoscenza
dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza dell’educare e la didattica o
scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento nell’antropologia, o scienza
che studia l’essere umano» G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 3. 159 Allievo sostiene che l’antropologia studia «l’uomo nella sua
intima e generalissima essenza, ossia nell’integrità e pienezza complessiva del
suo essere» G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 6. 160 Cfr. G.
Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 161 G. Allievo,
Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 4.
162 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 39. 163 Nel seguente brano elenca le
discipline ausiliarie alla pedagogia, che sono: «1° L’antropologia generale,
che studia l’uomo nella dualità di anima e di corpo e nella unità della sua
persona; 2° la psicologia, che studia l’anima umana nelle proprietà della sua
natura e nella varietà delle sue potenze; 3° la logica riguardata siccome la
teorica della verità e della scienza; 4° l’etica, che studia il Buono, norma ed
oggetto della libertà morale umana; 5° la cosmologia, che è una spiegazione
scientifica del mondo; 6° la metafisica, 52 la natura e il fine
dell’educando, e quindi dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di ricerca
«tra l’antropologia e la pedagogia intercedono le due fondamentali attinenze
della distinzione e dell’unione»164. Se il principio della personalità è il
fulcro dell’opera di Giuseppe Allievo, l’antropologia è il centro della
pedagogia. Non a caso, quando il professore vercellese sostituì Rayneri sulla
cattedra di pedagogia all’Università di Torino, cambiò il nome
dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e Pedagogia». Il carattere di
ciascun sistema pedagogico dipende dalla prospettiva antropologica: «le diverse
e contrarie teorie pedagogiche professate dai cultori di questa disciplina
traggono appunto la loro ragione e origine dai diversi e contrari concetti
antropologici, da cui essi hanno preso le mosse, e su cui hanno costrutto il
sistema»165. Per capire e pensare l’educazione occorre una chiara idea su cosa
sia l’uomo, se ci sia e quale debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni
dottrina pedagogica ritrae dai principi antropologici su cui si regge, la virtù
peculiare, che la informa, e lo stampo singolare, che la individua»166. Non si
possono slegare questi due aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua
educazione sono due termini insieme compenetrati, come un principio e la
conseguenza sua, e che li disgiunge, è mente piccina che né l’uno, né l’altra
intende. L’uomo spiega se stesso nell’educazione e l’educazione riflette se
stessa nell’uomo; e sempre il concetto antropologico ed il concetto pedagogico
serbano l’uno coll’altro rispondenza esatta o veri o fallaci che siano
entrambi»167. La correlazione è necessaria. In un altro brano chiarisce gli
scopi delle due discipline: «La distinzione delle singole scienze origina dalla
distinzione dei loro oggetti: l’una non è l’altra, perché versa sopra un
oggetto suo proprio, che non è quello dell’altra. Per conseguente la scienza
antropologica dalla pedagogica si differenzia essendochè quella ha per oggetto
suo l’essere umano, questa l’educazione umana, l’una studia l’uomo
nell’integrità e compitezza dell’esser suo, l’altra sotto il peculiare riguardo
della sua educabilità; la prima si propone di rispondere alla domanda: Che cosa
è l’uomo; la seconda ha per ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che l’educazione
e come l’uomo va educato. Ecco il rapporto di distinzione, ma da questo stesso
già si rileva il vincolo unitivo, che stringe l’una all’altra le due
discipline, essendochè l’uomo e la educazione sua sono due termini
inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia un vincolo così intimo e
necessario, che trova in questa il fondamento e che studia l’Essere primitivo
in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» G. Allievo, Del positivismo in
sé e nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di Stefano Marino,
1883, p. 246. 164 G. Allievo, Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia,
«Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, p. 308. 165 Ibid., p. 310.
166 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 31. 167 G.
Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., 1909, p. 10. 53 la ragion sua
ed in ogni punto del suo processo si regge sui principii supremi della scienza
antropologica»168. Per fare pedagogia occorre dunque possedere una «conoscenza
scientifica dell’origine, della natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere
conto del fatto che nella temperie culturale in cui Allievo sosteneva queste
posizioni, porre l’antropologia filosofica a fondamento della pedagogia, non
era un’ovvietà, soprattutto quando essa era collocata entro un contesto
metafisico. Porre il baricentro del discorso pedagogico sulla questione
antropologica, era considerato da Allievo come la risposta emergente ad una
problematica educativa reale. Si trattava di un problema radicale che faceva da
discriminante tra le varie teorie. Le risposte alla questione circa la natura
dell’uomo, non erano infatti da considerare secondarie per la qualità della
relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le virtù insite dell’uomo
fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol educare? Forse l’uomo
di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla predominanza del fosforo
pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni naturalisti? O l’uomo de’
panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O l’uomo de’ razionalisti
trasformato in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici che lo spiritualeggiano
per intero, mentre i materialisti lo abbruttiscono?»170. Per l’Allievo, si
trattava di domande impellenti. La pedagogia esigeva nuova chiarezza sull’idea
di persona: «Oggi più che mai essa reclama un supremo principio vitale, che
risponda al suo altissimo compito, ricomponga ad unità di organismo potente la
sua squilibrata compagine e le additi l’ideale suo, verso cui cammina franca e
sicura»171. Secondo il pedagogista, la domanda circa la natura dell’uomo non
poteva essere affrontata con gli strumenti epistemologici delle scienze esatte,
incapaci di cogliere l’essenza della persona. Tale compito spetta alla
filosofia, che diviene la prima interlocutrice della pedagogia. In più di una
occasione chiarì che la sua era una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda
sopra un principio essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della
natura umana riposta nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera
non la sola esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta,
che disdegna la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze
conoscitive, e l’una in armonia coll’altra»173. 168 G. Allievo, Attinenze tra
l’antropologia e la pedagogia, cit., pp. 308-309. 169 Ibid., p. 309. 170 G.
Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 125. 171 G.
Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 12. 172 G. Allievo, La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen, 1905,
p. 3. 173 Ibid., p. 8. 54 Stando a Calò, uno dei punti centrali
nell’opera dell’Allievo è questo: «Non trascurare le esigenze dell’esperienza
né quelle della ragione; ecco, secondo l’Allievo, il primo canone del metodo
filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le catene del
misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero della
persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima razionale
non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità di
persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue
energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole
un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue
sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla
futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non
si possono risolvere con il metodo scientifico176. Allievo non portò
sostanziali novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva
pedagogica spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo
antropologico. Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al
quale egli lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come
scienza pratica (quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina
complessa) che si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico
particolarmente per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un
altro carattere distintivo della pedagogia di Allievo è l’idea della
specificità nazionale della pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare
in continuità con la storia del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su
questo tema trovò una consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo
«La scuola pedagogica nazionale», non senza motivo diverse volte citato
dall’Allievo. I. 5. L’educazione 174 G. Calò, Il pensiero filosofico –
pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 175 G. Allievo, La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 10. 176 Spiega Allievo: «La
pedagogia è la scienza dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere
convenientemente educato se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che
la pedagogia dipende ed attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto
la conoscenza ragionata dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà
universale. Ciò posto, che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si
congiungono in lui ad unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si
compiono quaggiù o in una vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a
cui aspira la sua intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera
volontà? Che cos’è questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a
vivere? Qual concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito,
che è l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo
di lui?» G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., pp.
245-246. 177 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana
dell’Ottocento, cit., p. 130. 55 In più di un’opera, il pedagogista
vercellese denunciò una grave crisi educativa, che egli imputava alla
confusione imperante circa i caratteri di una formazione adeguata178. Sulla
base del principio della personalità, egli considerava l’efficacia educativa
legata alla previa soluzione data al senso della perfettibilità dell’uomo179.
Mancando, come già si è accennato, una concezione adeguata sulla natura dalla
persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori menomata. Tra i fondamenti
pedagogici di Allievo si colloca questa massima: «Sul sentimento e sul rispetto
della dignità della persona si fonda l’arte dell’educare»180. Al pari di un
ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il docente vercellese era convinto
che non si dà autentico sviluppo della persona senza un intervento
formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se stessa educativa nel
senso rigoroso della parola, bensì tale diventa allorquando il fanciullo in sé
accogliendola l’accompagna e la feconda colla coscienza del suo sviluppo»182.
Per tratteggiare i caratteri precipui dell’educazione, Allievo si rifà alla
lezione di Rayneri, che nella Pedagogica enumerò cinque attributi
imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità rispetto a tutte le
facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate, Armonia tra le
potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo – personalizzazione
dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro considerava la
«convenienza» come la più importante di queste leggi, Allievo sostiene il
primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per un’educazione
efficace185. 178 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 21-22. 179 «L’opera
educativa si modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo
educhiamo, e per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla
sopra una dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura
originaria dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo
della sua vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di
perfezione, a cui intende sollevarlo» G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista,
Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. Allievo, La scuola
educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali
maschili e femminili, cit. p. 185. 181 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp.
67-68. 182 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 68. 183 G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 106. 184 Ibid., pp. 109-112; 185
L’educazione deve essere armonica rispetto a tutte le facoltà della persona
«Che l’alunno debba essere educato in armonico accordo colla natura fisica
circostante, colla famiglia e colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento
sociale, in cui vive, col grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è
una verità già riconosciuta e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché
l’alunno non è una monade solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione
esteriore, bensì abbisogna della convivenza di altri esseri, a fine di
espandere la sua vitalità interiore e compiere il suo esplicamento. Ma egli
possiede una personalità sua, che non può essere sacrificata al mondo fisico
sociale; è fornito di una libertà interiore, che gli conferisce il dominio di
sé medesimo, sicché egli è quale vuole essere, non quale lo fa la necessità
insuperabile dell’ambiente; non potrebbe vivere una vita comune nel consorzio
con altri esseri se anzi tutto non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua
propria; non potrebbe mettersi in conformità di accordo coll’ambiente, se da
prima non fosse in concorde armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi
alle impressioni del grande organismo 56 Sebbene guidata da un
criterio unitario, l’educazione può essere analizzata nella sua molteplicità.
Allievo parla di un’educazione fisica, intellettuale, estetica, morale,
religiosa. Distingue tra quella naturale, che segue lo sviluppo delle facoltà
della persona, e quella esterna, guidata da modelli valoriali, culturali e
intellettuali dal discente. Il perno dell’educazione della persona è la sua
razionalità ed intelligenza. Riprendendo la tripartizione rosminiana delle
facoltà umane186, Allievo ricorda come l’interiorità della persona sia il vero
oggetto dell’educazione, mistero non materiale187, ed eccedente i meccanismi
fisiologici188. I fenomeni dell’interiorità sono governati da leggi come quella
di associazione, simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle
potenze umane, tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in
corporee o fisiche e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di
sviluppare le potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come
desiderio spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può
essere se stesso, questa va rivolta a chiunque. Allievo considerava necessario
offrire a qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni
per le condizioni economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i
positivisti che negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi
dell’educazione e dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli
Pedagogici191 sostiene la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i
balbuzienti, i ciechi, ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i
quali sia meglio educarli, richiamando a prendere esempio da altre nazioni
europee come la Francia. Nel saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa
nell’Emilio, secondo cui i della natura, se anzi tutto non sentisse il vitale
influsso dell’organismo corporeo suo proprio; infine egli aspira ad un ideale della
vita futura, il quale non può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente della
natura tutto circoscritto ad un punto del tempo e dello spazio» G. Allievo, La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., pp. 19-20. 186
«Sentire, intendere e volere, in questa triplice classe di fenomeni psicologici
si raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere spirituale» G. Allievo, La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit., p. 6. 187 «I fenomeni interni o psicologici
non si veggono cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono, non si
odorano: un pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura, non
divisione o dimensione, non grandezza o misura: essi soltanto alla coscienza si
mostrano e sono oggetti di osservazione interiore» Ibid., p. 7. 188 «I fenomeni
interni sono di loro natura superiori all’organismo; i sentimenti, i pensieri,
i propositi deliberati sono manifestazioni esclusivamente proprie dello
spirito, al cui compiuto sviluppo i fenomeni dell’organismo corporeo
intervengono bensì, ma come condizione soltanto, non some causa» Ibid., pp.
7-8. 189 «Ciò posto, siccome i fenomeni interni ci vennero superiormente
distribuiti in tre classi supreme, affettivi cioè, intellettivi e volitivi,
così siamo condotti ad ammettere tre supreme potenze umane corrispondenti, la
sensitività, l’intelligenza e la volontà, intendendole con tale larghezza, che
la sensitività comprende tanto la sensazione animale, quanto il sentimento
spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o fantasia sensitiva
quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della volontà si mostri
preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata» Ibid., p. 12. 190
«Come l’istinto animale provvede alle esigenze della nostra vita fisica, così
l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che le sono proprii.
Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si sente portato da
naturale istinto, il quale viene così a distinguersi in intellettivo, estetico
e morale» Ibid., p. 29. 191 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp.
94-97. 57 diversamente abili, Allievo parla di «storpi», non abbiano
diritto all’istruzione e all’educazione192, ribadendo la convinzione che
l’educazione sia un diritto per tutti. Tutti gli uomini sono persone, qualunque
sia la loro condizione, e ognuno merita di essere educato e istruito, anche se
ciò deve essere fatto secondo le inclinazioni e le potenzialità di ciascuno.
Analogamente contestò Platone quando estromette i «malconformati di corpo»
dalla cerchia degli educabili. Inoltre fa notare come «anche lo Spencer a’ di
nostri muove rimprovero alla società che si prende cure dei miserabili, dei
poveri, degli infermi, fino a dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli
inetti a spese dei capaci degli operosi»193. Allievo considera questa
prospettiva come una diretta conseguenza del materialismo: disconoscendo il
valore assoluto dell’uomo, non ha più senso la cura di quanti non «funzionano»,
non «producono», quanti insomma sarebbero solo un peso per il sistema
economico. Secondo Allievo solo il riconoscimento della dignità suprema
dell’individuo permette il rispetto di ciascuno e la sua valorizzazione.
Dimenticata la persona nell’uomo, si elimina la ragione dell’eguaglianza degli
esseri umani e dunque il diritto all’educazione per tutti. Sulla base del
principio della personalità, il pedagogista vercellese fu altresì un difensore
dell’istruzione e dell’educazione delle donne. Anche per l’Allievo, come per
molti altri studiosi della seconda metà dell’Ottocento, era necessario
concepire l’educazione della donna in armonia con l’ufficio della maternità e
la cura della famiglia, compiti a cui secondo il pedagogista la donna era
naturalmente destinata. Dopo aver difeso il ruolo della donna nella famiglia,
spiega: «Né altri di qui inferisca, che la donna circoscrivendo nel recinto
della casa il suo genere peculiare di vita debba crescervi e passarvi i suoi
giorni solitari, ignorante, incolta, spregiata e negletta. Anch’essa possiede
per natura tutte le facoltà costitutive della specie umana, a cui appartiene;
epperò ha, quanto l’uomo, diritto alla verità, alla felicità, alla virtù, al
rispetto della dignità umana, che in lei rifulge, al perfezionamento suo
proprio. E se abbia da natura sortito qualche raro pregio di mente e di
spirito, qualche felice attitudine al culto di qualche disciplina, od arte, o
nobile professione sociale, chè non venga mai meno alla sua prima e natural
missione, alla quale è chiamata nel santuario domestico»194. Allievo reputa che
sia necessario offrire un percorso educativo e di istruzione anche alle donne
meno abbienti. Dopo aver analizzato le opere della Saussure, contesta il fatto
che si parli dell’educazione solo per i ceti sociali più alti: «Però io non
posso passare sotto 192 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista,
cit., p. 160. 193 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p.
113. 194 Ibid., pp. 117-118. 58 silenzio, che in questo eletto
lavoro pedagogico della Saussure è tutto rivolto alla coltura della donna di
agiata e civil condizione, come lo sono altresì le opere pubblicate dalle due
egregie donne italiane, la Colombini e la Ferrucci intorno l’educazione
femminile. Eppure anche l’educazione della donna popolana ed operaia può e deve
fornire al cultore della pedagogia bello e grande argomento di studio e di
meditazione, per quantunque debba essere discorso sott’altra forma ed in
proporzioni più modeste»195. Nonostante l’inciso finale, il discorso
dell’Allievo sembra innovativo rispetto alle comuni pratiche e teorie
pedagogiche. La donna inoltre, in quanto persona, non poteva essere considerata
proprietà di alcuno. Per questo motivo critica Rousseau che aveva fatto di
Sofia una moglie totalmente asservita al marito. Al contrario: «La donna non è
nata per essere la schiava né dello Stato, né dell’uomo»196. L’attività
dell’educatore e della scuola deve anche essere in armonia con quella
familiare. La famiglia è l’inizio e il paradigma dell’educazione. Chi si occupa
di educazione deve avere come modello l’istituzione familiare. Allievo sostiene
la necessità di una famiglia generosa, laboriosa e aperta. Contesta la famiglia
rappresentata nell’Emilio, considerata isolata ed egoista. Invero, persistono
nella sua opera ancora alcuni stereotipi sul sesso femminile. Allievo parla di
un’inferiorità fisica197, e sostiene che «nella donna il sentimento e l’affetto
predominano sull’intelligenza e sulla volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi
di questa caratterustica femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di
sottomettere la volontà alla ragione199. Secondo Allievo la durata
dell’educazione abbraccia tutta la vita. L’uomo ha sempre da essere
perfezionato. Il suo cammino verso il compimento di se stesso è costante200. È
tuttavia vero che la vita è composta da diverse fasi, ognuna ha delle
particolari esigenze educative. Allievo contesta cesure nette nella
teorizzazione dello sviluppo della persona. 195 G. Allievo, Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1884,
p. 222. 196 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 159.
197 «Insegna la fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più
robusto nell’uomo, più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di
struttura deve naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche
del sentire e del muoversi corporeo» G. Allievo, La scuola educativa, principi
di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., pp. 16-17. 198 «Essa pensa più col cuore, che col cervello. La verità la
sente più che non la mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza
avvolgerla fra le tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed
intiera senza dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e
riconosce Dio come un bisogno del cuore, anziché come un principio della
ragione; posa il suo pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge
alle aride astrattezze, alle generalità trascendetali» Ibid., p. 17. 199
«Venendo alla volontà, anch’essa nella donna soggiace alla influenza del
sentimento, nell’uomo procede a tenore della ragione» Ibid., p. 18. 200
«L’educazione comincia colla vita e mai non cessa, perché la nostra
perfettibilità dura quanto la nostra mortale esistenza; però essa muta tenore
ed ufficio ed indirizzo secondo il mutare delle diverse età» G. Allievo, Delle
idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 33. 59 La vita non può
essere divisa in tappe con demarcazioni rigide, dato che la crescita è graduale
e soggettiva. A tal proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto l’uomo (e
con esso l’educazione) in tre pezzi, che spuntano non si sa come, l’un dopo
l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il giovinetto: e sotto il taglio della
sua anatomia psicologica la personalità è finita»201. Tale istanza è legata ad
uno dei principi cardine dell’educazione in Allievo, vale a dire l’armonia. «Se
la virtù e l’anima e l’universo e Dio medesimo e tutto quanto esiste è armonia,
appar manifesto, che anche essa l’educazione deve posare e reggersi tutta
quanta sull’armonia, come suo fondamentale principio, val quanto dire
essenzialmente ed integralmente ordinata all’armonico sviluppo delle forze del
corpo e delle facoltà dell’anima»202. Importanti appaiono alcune annotazioni
sul rapporto educatore-educando. Se la persona è libera e tende alla sua
libertà, l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di questo
aspetto proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà ridurre
l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza, non
chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale
principio l’Allievo riprende fortemente il modello della paideia greca,
contrapposto alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e
dunque sulla sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto
e disumano. Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui
Rousseau è il più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza.
Nonostante sia giusto assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si
può privare dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che
nell’educazione umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura
medesima, sicché nulla mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi
principii, nulla si dimentichi, né si trascuri, che torni opportuno o
necessario a secondarlo nel suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa
potenza educatrice della natura Gian Giacomo Rousseau, ma di troppo la esaltò
fino a bandire siccome inutile e nocivo il magistero dell’arte. Aristotele non
disconobbe la virtù educatrice, che giace nella consuetudine o costume, e nella
coltura della ragione o disciplina. Poiché i germi del Bello e del Buono
deposti in noi da natura non crescono già né maturano mercé l’opera dei beni
esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi diventiamo onesti; bensì
richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del volere e del sapere»203.
201 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina
Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 117. 202 G.
Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 34. 203 Ibid., p.
155. 60 Per questo stesso motivo mette in guardia da una
sopravvalutazione dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e
quindi fornito di una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente
e liberamente alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco
l’origine ed il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana
individua è limitata per natura, e quindi bisognevole di un intervento
esteriore: ecco la ragione dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204.
La persona ha bisogno di altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In
un altro brano, Allievo individua nella «nuova psicologia» l’origine
dell’equivoco: «L’autodidattica si regge tutta quanta sulla personalità
dell’io, riguardato come un soggetto sostanziale fornito di una individualità
singolare, per cui è consapevole che l’energia pensante, di cui è fornito, è
tutta sua propria, e che gli atti intellettivi, in cui si svolge, vengono da
lui ed a lui appartengono come loro principio originario e comune soggetto. Ora
i fautori della nuova psicologia rinnegano apertamente la libera attività e la
personalità dell’io umano riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni
mentali, che non appartengono a nessun soggetto e si succedono a tenore di
leggi ineluttabili, facendo dell’anima umana una mera funzione dell’organismo
corporeo»205. La prima regola del maestro è il rispetto per il discente, che è
l’attore principale dell’atto educativo. Una vera educazione è contraddistinta
dal rispetto e dalla pazienza. L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è
inoltre insegnamento quando l’insegnante non impara a sua volta: «Il maestro
deve di sicuro sovrastare al discepolo per ampiezza di dottrina, per coltura e
sviluppo mentale, ma non dimentichi mai, che in faccia all’immensità dello
scibile quel tanto, che egli sa, è poco meno che nulla, e gli bisogna perciò
imparare sempre, ed imparare nell’atto medesimo, che istruisce gli altri»206.
Allievo riprende la celebre frase di Plutarco che critica l’insegnamento come
«riempimento», e sostiene che «Il vero imparare è un lavorare colla propria
mente ed avere consapevolezza della verità scoperta e del come siamo giunti a
scoprirla; il vero insegnare è un accendere la scintilla del pensiero e
mantener viva la fiamma della riflessione. La parola del maestro riesce
all’alunno necessaria in quella guisa, che ad un seme l’aria e la luce
esteriore del sole, il quale destando la virtù sopita in esso lo schiude dal
suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare le sue forme. L’acquisto della
scienza è un martirio per uno spirito giovanile abbandonato alle solitarie ed
isolate sue forze, come il possesso materiale 204 G. Allievo, La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 16. 205 Ibid., p. 17. 206 G. Allievo,
Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 83. 61 della
scienza non conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido
patrimonio avito, eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque
far cresce armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa
entrare nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far
essere se stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le
capacità umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza
di conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una
frase della Marchesa di Lambert citata dall’Allievo nello Studio Storico
critico di pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La
più grande scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a
condurre l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una
continua interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione
di Calò, secondo cui l’Allievo puntava ad un’azione educativa che «correggesse
con un movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento
centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di
dentro, non dal di fuori». 209. In questo «stare in sé» l’uomo scopre una
dimensione infinita che lo interroga, lo spiazza. La persona sente in sé il
richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui si sente inesorabilmente legato:
«Dovunque si muova l’educazione trovasi in faccia all’infinito sempre, perché
l’educando è persona finita sì, ma che pur si muove e gravita verso
l’infinito». Su questi presupposti, Allievo è convinto che non si possa negare
l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto dell’intelligenza, e
dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la personalità finita
dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità infinita di Dio, e
trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua cagione
efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi questi
riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità dell’uomo,
l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo, che nega
all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una medesima
sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è negazione
della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia
tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla
personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della
vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui Allievo
riprende un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è
definito come «quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207
Ibid., pp. 84-85. 208 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 106.
209 G. Calò, Dottrine e Opere, cit., p. 25. 210 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 31. 62 ciascuna natura umana»211. Con questo
concetto intende l’universalità dell’essere persona nella particolarità del
singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e
l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale
relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma del
carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare
l’individualità della persona214. Secondo l’Allievo: «l’uomo di carattere è
colui, che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e
conforma le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando
all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere
bisogna educare, non basta istruire. Allievo definisce l’educazione del
carattere come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione.
All’educatore spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua
coltivazione, e l’aiuto verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il
fanciullo è persona, cioè sostanza individua, che in sé armonizza la virtù
conoscitiva, fonte della vita operativa, congiunta con un organismo corporeo,
sede della vita fisica e ministro della vita spirituale. La vita speculativa si
sviluppa mercé l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la
vita operativa mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione
civile, morale, religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e
la destrezza del corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste
forme di educazione deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità
dell’umano soggetto le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin
dalla prima infanzia, e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice
della formazione è il carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di
obbedire esclusivamente alla legge morale insita nell’uomo. Allievo considerava
il rispetto e obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che
certo non riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. Allievo, L’uomo e il
cosmo, cit., p. 357. 212 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 336. 213 G.
Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 357. 214 «La formazione del carattere è
opera nostra, sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra il sussidio
dell’arte educativa» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia
e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 50. 215
G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 4.
216 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 322. 217 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì come per
incanto nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che sorge da
piccoli inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e progredisce con
lento lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera concorde
dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo periodo
educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al termine della gioventù»
G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso
delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 91. 63
soggetto219. Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere
liberamente il dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine
morale»220. Per un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della
capacità di volere e seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel
carattere. Plasmare nel fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la
santità della vita in sé, nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte educativa
il supremo, altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in classe dice
che «ogni atto educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta della sua
individualità personale. Così si forma il carattere, così l’alunno impara a
diventare uomo maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue
sorti»222. L’ultima opera dell’Allievo, datata 1913, è dedicata allo studio
comparato tra Giobbe e Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo,
e al disimpegno del secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui
che nonostante le circostanza si spende per la verità. Osserva Allievo:
«L’operosità della vita, perché si compia con efficacia, con dignità e decoro,
richiede in noi la coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un ideale
supremo, il sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso dello
spirito pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile
costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di grande, di
nobile, di sacro, di divino»223. L’Allievo critica la riduzione dell’intervento
educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica della pedagogia
spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo etico di certo
positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito dell’educazione
all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione del carattere, e
quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio ha come
premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e quindi di insegnabile,
fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A questo proposito può
essere utile richiamare un aneddoto raccontato da Allievo riferito ad una
visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto che il Padre
Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con queste parole: “È
mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu criticato da Santoni
Rugiu: «L’Allievo ha della moderna pedagogia una concezione normativa (come
sempre, d’altronde, nella concezione cattolica), la vede cioè non come
un’indagine libera e obiettiva sulla natura e sulle condizioni reali in cui si
svolge la formazione dei soggetti, ma come l’elaborazione di un insieme di
indiscusse norme, appunto, che guidino alla perfezione morale e spirituale.
Guai a lasciarsi travolgere dal «gran movimento sociale» e ritenere che esso
indichi sempre la via del progresso e della civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia
sociale dell’educazione, Milano, Principiato, 1987, p. 528. 220 G. Allievo, Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico,cit., p. 89. 221 G. Allievo,
Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 222 G. Allievo, Principi fondamentali di
Scienza Pedagogica, in «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 687. 223 G.
Allievo, Giobbe e Schopenhauer, Torino, Tipografia Subalpina, 1912, p.
41. 64 alunni non tengano per vero, tranne ciò solo, che possa
essere loro dimostrato come due e due fan quattro”. Al che il Girard rispose:
“Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno un solo ve ne affiderei ad essere
ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di dimostrargli come due e due fan
quattro, che io sono suo padre, e che egli è tenuto di amarmi»224. Le parole di
Padre Girard erano utili a spiegare quali fossero i rischi dell’ipertrofia
della ragione scientifica e matematica. Limitando il veritativo al
«misurabile», infatti, si escludevano dall’educazione tutta una serie di
apprendimenti e principi morali indispensabili alla vita e alla formazione del
carattere. Anche su questo punto Allievo esorta a distinguere ma senza dividere.
L’educatore deve far crescere tutte le capacità umane, sia quelle del «cuore»
che quelle della «mente». Era convinto che «la natura non si riforma, bensì va
riconosciuta e rispettata»225. E la natura della persona non può essere ridotta
alla pura istruzione, ma ha bisogno della certezza morale, dei principi, dei
criteri per distinguere bene e male. I. 6. Critica all’idealismo e al
positivismo Una parte considerevole delle opere di Allievo è destinata alla
critica dell’idealismo e del positivismo. A tali correnti, sin dai primi
lavori, Allievo addossò le responsabilità della profonda «crisi»226 e
confusione che ammorbava la filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di
studi dedicati a questi sistemi, anche negli altri saggi di Allievo appaiono
frequenti incisi polemici contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa
ricorrente confutazione e polemica del positivismo e dell’idealismo,
rappresentò un tratto specifico del pensiero del pedagogista vercellese
«L’atteggiamento critico contro le due correnti suddette forma la
preoccupazione costante e costituisce, insieme con il principio della
personalità, svolto dall’Allievo in tutti i suoi aspetti, il motivo
fondamentale e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo alcuni
studiosi Allievo avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un
atteggiamento difensivo ed eccessivamente «polemista»228. Caramella, un
gentiliano che certo non concordava con le critiche dell’Allievo all’hegelismo
e ai suoi epigoni, fu molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il
contributo, riducendolo ad una lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai
risultati effettivi della sua vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G.
Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di
Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 89. 225 G. Allievo, Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 261. 226 G. Allievo,
L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 6. 227 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 4. 228 S. Caramella, Lo
spiritualismo pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14, 1921, p.
9. 65 qual è il significato storico dell’Allievo? Niente di meno ma
niente di più che un’ostinata battaglia cattolica contro lo scientifismo, senza
che dal cozzo si generasse mai una scintilla nuova»229. Una critica analoga gli
venne mossa da Vidari230. È facile riscontrare nell’opera di Allievo toni duri,
se non apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose non solo alla
pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In molti saggi
mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono spesso risolute
e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che le
critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e suffragate da una
conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’Allievo non fa mai
la critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso, quello di
dimostrare e di salvare certi principi e certe verità filosofiche»231. All’interno
del lungo itinerario delle opere dell’Allievo possiamo distinguere due momenti.
Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in particolare sull’idealismo,
mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente del positivismo, data
l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla pedagogia e filosofia
italiana. Già alla fine degli anni ’60, Allievo notava come il positivismo si
accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli studi
filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai margini
del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò: «Il campo
filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto opposte,
l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il positivismo
anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della scienza e della
vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi esclusivamente a
Napoli grazie a Spaventa e Vera. Allievo, peraltro docente in una sede dove
l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto con i
positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si concentrano
in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi filosofici
(1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, (1868) e nell’ Esame
dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello precedente dove riprende
pressappoco le stesse tematiche. 229 Ibid., p. 9-10. 230 «In tutti questi
lavori la mente dell’ALLIEVO si presenta sempre nell’atteggiamento di chi,
incrollabilmente fermo e sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno
studio severo e diuturno, vede nell’avversario e nelle dottrine da lui
rappresentate un pericolo esiziale per la società e per la scuola, in cui esse
si diffondano. Onde non tanto Egli mira a penetrare ed esporre l’idea
dell’avversario nella sua genesi e nelle sue eventuali giustificazioni, quanto
a metterne in rilievo le deficienze o le contraddizioni o le inaccettabili
conseguenze» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 231 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 447. 232 G. Allievo, Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 3. 66 Alcuni cenni polemici
contro l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e
l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia (1873),
L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo
spirito del tempo (1878), Il problema metafisico studiato nella storia della
filosofia (1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni (1878) Sulla
personalità (1878). Il testo in cui espone in modo più articolato le sue tesi
contro l’idealismo è L’hegelianismo la scienza e la vita, un lavoro giudicato
da Eugenio Garin «onestamente espositivo»233. L’opera fu scritta in occasione
del concorso Ravizza del 1865-1866, che chiedeva agli scrittori di cimentarsi
con questo tema: «Quali pratiche conseguenze derivino dall’idealismo assoluto
di G. Hegel nella morale, nel diritto, nella politica e nella religione?». Il
testo, che vinse il premio, fu poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’Allievo
delinea l’origine dell’hegelismo, mettendo in luce l’humus kantiano da cui
nacque l’idealismo. Il pedagogista enuclea i passaggi che portarono dalle
posizioni del filosofo di Königsberg ad Hegel. Allievo ricorda come Kant fosse
allora considerato il nuovo «Socrate» per aver salvato la scienza dallo
scetticismo, mentre egli pensava che il kantismo fosse stato la «tomba» della
scienza e della filosofia234. L’errore di Kant fu quello di disconoscere il
primo dato filosofico, vale a dire l’evidenza dell’essere. Egli perpetuò quella
torsione prospettiva cartesiana che si piegò sull’affidabilità della ragione,
dimenticando lo stupore e l’attestazione del mondo. Allievo osserva che l’uomo
neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori». Così Kant aveva «condannato il
soggetto ad un perpetuo e violento celibato segregandolo dalla realtà
oggettiva»235. Osserva Allievo: «Scienza assoluta intorno il pensiero umano,
ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due poli del Criticismo
di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima domanda. Con questo
suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su salda base il sapere
speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli sconvolgevano il
regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui Tacito), pacem
appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la scienza, egli
superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere il senso e i
motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli sviluppi successivi
della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la pubblicazione della Critica
della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831, la Germania visse un
radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant si arrivò attraverso
Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E. Garin, Tra due
secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, cit., p. 56. 234 G. Allievo,
L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 22. 235 Ibid., p. 31. 236 Ibid., p.
29. 67 assoluto di Hegel, che secondo Allievo non fa altro che
trarre le nefande conseguenze di quel divorzio tra l’io e il mondo, che se
aveva portato Kant allo scetticismo, conduceva Fichte alla tesi dell’Io
assoluto, origine e creatore del mondo. Si trattò di una deriva di quelli che
chiamò in un altro testo i «trascendetalisti tedeschi», i quali «estendendo
fuor di misura il potere dell’io umano, lo posero creatore dell’essere e del
sapere, e finirono collo spogliarlo della soggettività ed individualità sua,
confondendolo col massimo degli universali»237. Nel saggio Allievo dedica
diversi capitoli a questi passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte e
Schelling. In ultimo affronta in modo analitico la figura e la filosofia di
Hegel, introducendo il suo pensiero con un’accurata esposizione della vita,
oltre che un’analisi degli apporti e delle influenze che ne condizionarono il
pensiero. Successivamente, ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi
articolata. Allievo parte dal concetto generale di filosofia, quindi affronta
il metodo dialettico, il concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi
tratta della Logica, della filosofia della Natura e infine della filosofia
dello Spirito. In conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo.
Il seguente brano compendia la critica di Allievo: «Il nome di Idealismo
assoluto con cui viene designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo
spirito e ne compendia il contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due
parole: Idea assoluta, od in altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza
dell'Assoluto è un esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come
per Condillac tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea
trasformante. L'idea essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo
diventare universale spiega successivamente tutto l'essere, perché
riproducendolo rivela le intime essenze delle singole cose, sicché l'Idea assoluta
si manifesta ad un tempo siccome il sistema della scienza e l'insieme della
realtà, identità universale delle idee e delle cose, del pensiero e
dell'essere. Datemi materia e moto, diceva Cartesio, ed io creerò l'universo.
Hegel pigliando in senso trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto
ripeterlo dicendo: Datemi Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata
la realtà universale»238. L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva
l’idealismo a numerose antinomie ed epicicli, elencati dall’Allievo. Il
pedagogista fa notare come Hegel, mentre tacciava di misticismo i realisti,
chiedeva un atto di fede nel riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione,
Allievo ripropone la ragionevolezza del realismo. Secondo il pedagogista
vercellese, il reale anticipa, sporge e supera il razionale. Una frase
dell’Amleto di 237 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 18. 238 G.
Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 59. 68
Shakespeare è ripresa dall’Allievo come legge della filosofia, «v'hanno cose e
in cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La
diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli
evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua
fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di
quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto
con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati
della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale;
dunque è insussistente»240. Per questa ragione, Allievo definisce Hegel come
uno «spietato Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende
l’analisi rosminiana e considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici.
Osserva: «La scienza è la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora
la realtà va anzitutto schiettamente osservata quale si presenta alla nostra
percezione, e non già indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del
nostro cervello. Una teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non
fondata sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di
astruserie, che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi
l’ha costrutta. L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha
sacrificato l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le
mosse dal concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla
virtù di quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà
universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’Allievo
una conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il
pedagogista vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge
un confronto nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori,
come il Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto
mai acuta e serrata»245. Anche per altre teorie, Allievo non bada ad una
erudizione pedante sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato
delle sue principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo
alcuni lavori dedicati all’idealismo, Allievo diede largo spazio alla critica
del positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera
seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo
nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si
diffusero era proprio quello 239 Ibid., p. 143. 240 G. Allievo, Saggi
filosofici, cit., p. 6. 241 Ibid., p. 372. 242 G. Allievo, Antonio Rosmini,
cit., p. 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia. I platonici, cit., p. 370. 244 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico,
cit., pp. 128-129. 245 V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista,
cit., p. 84. 69 di Torino, che era stata sino a pochi anni prima
una roccaforte del rosminianesimo e dello spiritualismo cristiano. Come ha
ricordato Giorgio Chiosso: «Proprio a Torino la cultura positivista stava compiendo
il massimo sforzo con Moleschott, Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una
antropologia incentrata su esclusivi tratti fisio – psichici e fortemente
condizionata dalla cultura evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto
Bobbio, Torino rappresentava sul finire dell’Ottocento «la citta più
positivista d’Italia»247. Allievo individuava come ragione della diffusione di
tale corrente un forte appoggio politico, che era diventato come abbiamo già
rilevato, il braccio ideologico dei gruppi anticlericali che spesso sedevano
nelle poltrone più importanti del neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva
una chiara percezione di tale egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a
proposito «Il partito iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione
italiana del 47 appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco
forme più spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso
solo il campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne
bandiscono i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune
parlamentari, dalle officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica,
il suo dogma supremo è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano
razionalizzato. E la critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si
spiegò con forze maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di
autorità nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali
e religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del
cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia
italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei
citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso
quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere
una inaspettata diffusione. Come denunciò Allievo: «Ai seguaci e promotori
della nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e
sotto la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei
del positivismo meritarono, da parte dell’Allievo, delle analisi approfondite e
alcuni, rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto
severa. Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più organici
come Spencer, Comte, Bain. Allievo si limitò ad affrontarne in modo sbrigativo
la produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia italiana antica e
contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione rosminiana di
Giuseppe Allievo, «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N. Bobbio,
Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura italiana,
Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., pp. 161-162. 249 Ibid., p. 168. 70 esse il
pedagogista si lasciò andare a valutazione in parte ingenerose e tranchant.
Affrontò le teorie di Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti
minori. Il primo è considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in
Italia. Viene definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non
originale»250 che ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque
tutti i suoi errori. La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le
basi del pensiero di Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha
negato e che s’impone inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a
ricorrere ad una novità di linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed
involuta, ad un ritornello di espressioni stereotipate, che spargono una nebulosa
caligine sul tutt’insieme della sua dottrina»251. Un altro errore a cui lo
conduce la negazione del principio della personalità è la statolatria nel campo
dell’istruzione pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di eclettismo e di
aver mal combinato istanze inconciliabili, producendo un sistema contradditorio
e instabile. In una prelazione risalente al 1882, rammentò il cambio di
opinione sul positivismo, prima criticato e poi elogiato252. Del sistema del
Siciliani l’Allievo denunciò l’incapacità di giustificare sui presupposti
positivisti l’esistenza della libertà e i fondamenti della morale. Negli
Opuscoli lo accusa di trasformismo e scrive che «muta di dosso i panni a tenor
della moda»253. Stando ad Allievo, questa «accozzaglia» di principi spuri condanna
alla mediocrità la pedagogia del Siciliani: «Egli non si afferma né
spiritualista, né materialista, né idealista, né ontologista, né trasformista,
né positivista, e lascia capire che vuol essere qualche cosa di più e di meglio
di tutto ciò; ma non ci presenta un principio superiore a tutti questi sistemi,
che impronti il suo pensiero e lo determini per quello che è»254. Si occupò
anche di altri autori come Emanuele Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in
cui rileva sostanzialmente gli stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli.
Saluta invece con soddisfazione il ritorno allo spiritualismo di Ausonio
Franchi, al secolo Cristiano 250 Ibid., p. 169. 251 Ibid., p. 174. 252 Nel
saggio cita direttamente le parole di Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici,
noi Italiani abbiamo bisogno di fede: troppo anneghittiti dal positivismo,
abbiamo bisogno di sacro entusiasmo nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei
principii di giustizia, nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi
stessi, nell’Italia. Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come
sistema, il Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non
ha principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole
nelle sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol
possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla
mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre
tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P.
Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste
righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato
il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una
celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza
medesima, con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. Allievo,
L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18
novembre 1881, Torino, Marino, 1882, pp. 14-15. 253 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 122. 254 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., p. 177. 71 Bonavino, di cui esalta le Lezioni
di pedagogia che viene indicato come un testo fondamentale per la pedagogia
spiritualista. Le considerazioni dell’Allievo restarono severe. Valuto le
teorie positiviste «disumane e liberticide»255. Inoltre avversò una certa
indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano sordi agli appunti delle
altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione Allievo lamentò la loro
indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà intellettuale256 Come già
accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto sui fondatori del
positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose opere dedicate a questa
corrente, rappresentano una prima sistematica reazione dello spiritualismo
italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e sistematico su tale
corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), definito
dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata critica di questo
sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico 1881-1882, Allievo
annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a combattere il
positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della scienza, siccome
un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle lezioni pubblicò
poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali: nella prima tratta
delle origini del positivismo e ne mette in discussione i fondamenti filosofici,
nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed educative. Allievo
identifica come causa prima del positivismo, la stessa dell’idealismo, vale a
dire la crisi della metafisica avvenuta con la modernità, che Kant sancì nella
Critica della ragion pura, sostenendo la sostanziale inconoscibilità del non
sperimentalmente. Il metodo scientifico si dogmatizzò, pretendendo di
estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e pubblica tutto ciò che non
è misurabile. Il positivismo si configurò come una nuova prospettiva
epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla negazione di tutte
le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo senso, si oppone a
qualsiasi 255 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. I. 256
Nel saggio su La scuola educativa, Allievo riporta una critica fattagli da
Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il
professore vercellese di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi
difeso, critica anche una evidente storture delle sue posizioni, avendolo
assimilato all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del mio critico è questo:
io non sono punto quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver
letti i miei lavori filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado
la loro conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io
ripongo le origini prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e
superiori ad ogni realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G. Allievo,
La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit., p. 218. 257 Linee di pedagogia moderna, «La
Civiltà Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G. Allievo,
L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18
novembre 1881, cit., p. 15. 72 considerazione metafisica, di cui è
«la sua negazione assoluta ed esclusiva»259. In questo rifiuto consiste, per il
pedagogista vercellese, anche «il carattere direi negativo del positivismo»260.
Va tenuto conto, che Allievo riconosce l’apporto positivo delle scienze
sperimentali e della metodologia scientifica. Senza alcun timore verso gli
esiti della ricerca empirica, il pedagogista attribuisce alla scienza (non al
positivismo) il merito di aver accresciuto notevolmente la conoscenza del mondo
e il benessere materiale. Tuttavia, Allievo individua proprio nell’euforia per
gli esiti della tecnologia la presunzione di certo positivismo. Galvanizzata
dalle scoperte scientifiche: «esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e
suprema ed assoluta fonte di tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni
tutto ciò, che trascende i suoi confini, assegnò unico oggetto della scienza i
fenomeni disgiunti dalle sostanze e respinse la ragione siccome facoltà
trascendente che contempla la sostanzialità delle cose»261. Allievo ricorda
come il metodo sperimentale non possa racchiudere tutto il campo dello scibile,
pena l’esclusione di ambiti conoscitivi fondamentali per la vita umana.
Rivolgendosi ai positivisti Allievo scrive: «No, la mente umana non può
fermarsi ai confini dell’esperienza, come alle colonne di Ercole: i grandi
problemi dell’esistenza, soffocati dalla vostra dottrina, risorgono davanti
alla ragione e le si impongono irremovibili. Voi non riuscirete mai a
cancellare dalla coscienza del genere umano questo indestruttibile sentimento,
che noi non siamo sfuggevoli fenomeni, quasi ombre erranti alla ventura nel
deserto, bensì persone vive, forniti di una ragione che trascende la cerchia
dell’esperienza sensibile e si innalza alle supreme idealità della vita. Gli
ingegnosi apparecchi meccanici, di cui avete forniti i vostri laboratori di
psicologia sperimentale, potranno procacciarsi nuove ed interessanti notizie
intorno la vita sensitiva dell’uomo esteriore, ma non ci sapranno dir nulla
intorno i misteri dell’anima, il secreto lavorio della sua vita intima, le sue
sublimi aspirazioni»262. La scienza esatta e sperimentale non può esaurire
tutto il campo della conoscenza dell’uomo. Inoltre, secondo Allievo,
l’esautorazione della metafisica dal campo dello scibile danneggia la stessa
scienza. Essa, infatti, nasce da domande metafisiche, si nutre di concetti e di
una logica che non può essere rinvenuta nella esperienza materiale, ma solo in
quella spirituale. L’antimetafisica getta il positivismo in un paradosso: lo
scientismo, 259 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico,
cit., p. 13. 260 Ibid., p. 10. 261 G. Allievo, Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903,
cit., p. 14. 262 Ibid., pp. 14-15. 73 infatti, nega le premesse
della scienza. Con l’affermazione «non esistono che fatti» si esprime un
giudizio generale e veritativo sul mondo, portando avanti un discorso
propriamente metafisico. Scrive Allievo: «Dicono infine che, seguendo la
dottrina evoluzionistica, le teorie non sono più campate in aria quali sono
foggiate dall’apriorismo, ma riescono l’interpretazione oggettiva dei fatti.
Sta bene: i fatti vanno adunque interpretati; ma con quale criterio? Certamente
con qualche concetto o principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché
questi per sé sono lettera morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e
la illustri. Eccon quindi chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla
formazione della psicologia e della pedagogia»263. Il positivismo si
autodefinisce teoria delle scienze positive, ma secondo Allievo, la costruzione
di un sistema filosofico accede già ad una dimensione della riflessione che
travalica i confini dell’esperienza empirica. Si tratta di una «astrazione» che
si serve della logica, del giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i
positivisti volessero essere coerenti con le loro posizioni, dovrebbero
«liberarsi da concetti «metafisici» come quelli di causalità, identità, o di
non contraddizione. In questo senso, per il pedagogista vercellese, l’assoluta
antimetafisica del positivismo, si traduce in un suicidio della scienza stessa:
«Dacchè dunque l’antropologia studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla
materia e possiede in sé i principi ideali necessarii alla costruzione del
sapere, consegue che essa è lo spirito informatore delle discipline positive e
naturali, e che il naturalismo, che la impugna, distrugge le stesse scienze
della natura e contraddicendo a se medesimo fa della metafisica col proclamare
che la materia è l’essenza universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre
tutto questo trascende i limiti dell’esperienza e dell’osservazione
sensibile»264. Allievo giudica la posizione gnoseologica dei positivisti
fondamentalmente scettica, in quanto le loro premesse conducono all’inevitabile
dissoluzione della conoscenza: «Una critica priva di principii universali ed
assoluti, che la rischiarino, è una critica, che pretende di essere fine a se
stessa, anziché mezzo potente per giungere al Vero, ossia è criticismo
scettico. Il positivismo contemporaneo ha menato un gran guasto nel campo della
critica odierna, la quale è insorta a dissolvere e disfare quelle medesime
verità universali, che è tenuta a rispettare siccome fondamento della sua
esistenza»265. A proposito di tali nefande conseguenze, Allievo ebbe modo di
criticare il Romagnosi, che vicino a posizioni simili 263 G. Allievo, Gli
evoluzionisti e il metodo in pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti,
1897, vol. I, pp. 305-306. 264 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., p. 17. 265
G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker
di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 9. 74
sosteneva che è sano solo colui che la pensa come la maggior parte dei suoi
concittadini, non avendo più un riferimento metafisico su cui fondare la
validità delle posizioni266. Inoltre il materialismo non può che portare ad una
confusione nella scienza, in quanto se la conoscenza è un prodotto necessario
dell’esperienza personale, e nasce da questa in modo spontaneo e
incontrollabile, perde di significato la valutazione delle teorie che non sono
né vere né false, ma unicamente frutto della determinazione. Scrive a
proposito: «Ora se il pensiero è sempre di necessità quale lo forma
l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione fisiologica, in cui versiamo,
allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un falso pensiero, e così il
pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure dovrebbe negarsene
l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre l’evoluzionista lo piglia
ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza della scienza conferma la
presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo la persona ha coscienza
del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile per il positivismo è
l’esistenza della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato Kant, non può
attestare la sua esistenza, e il materialismo e determinismo di certi
positivisti la negano. Se l’uomo non è più libero, si chiede Allievo, come lo
potrà essere la scienza? Inoltre ad Allievo pare pretestuoso l’uso della
scienza contro la metafisica e la religione. Le scienze naturali «anziché
escludere di loro natura la metafisica, rinvengono in questa sola la loro
suprema ragione, sì che non lasciano più luogo alla filosofia positiva.
Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo, può ammettere i pronunciati del
teismo e dello spiritualismo, senza punto rinunciare ad un solo dei teoremi
della propria scienza (valga l’esempio di Newton, del Galilei, del Padre
Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del positivismo è l’antropologia,
che da tale corrente viene snaturata. La negazione della metafisica ha notevoli
ripercussioni sulla scienza dell’uomo, poiché getta nell’indecifrabile la sua
essenza personale. Il positivista non può conoscere la vera essenza dell’uomo,
in quanto la persona non può essere raggiunta e compresa nell’esprit del
finesse. Scrive Allievo «Colla loro antropometria non giungeranno mai a
misurare le profondità dell’anima, a scandagliare gli immensi problemi, che si
agitano nelle intimità dello spirito umano»269. La persona non è rilevabile
nell’esperienza come se fosse un fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella
riflessione oltre il sensibile. Occorre, stando ad Allievo, sollevarsi dal
fatto, per constatare l’Io: «Il positivista vuol fatti, nient’altro che fatti,
né vuol saperne di esseri individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e
chi nol 266 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 29. 267 G. Allievo,
Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, cit., pp. 304-305. 268 G. Allievo,
Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 16. 269 G. Allievo, Lo
spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, cit., p.
6. 75 sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un
participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere,
che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista
separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto
in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente
di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad
unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici,
diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei
già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non
penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo
e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano
aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle
aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano
quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi
per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette
in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva Allievo: «il
sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo,
ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un
grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è
«trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema
dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di
particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che
enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’Allievo: «Per
quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile,
e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed
adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico,
pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora
di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio
formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno
ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra
ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la
conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276.
270 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 271 G.
Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 243. 272 G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 13. 273 G. Allievo, Della vecchia e della
nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 13. 274 Ibid., p. 12. 275
G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 58. 276 G.
Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 315.
76 Il filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo
antropologico. Scrive ancora Allievo: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che
stupirne) l’osservazione di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita
occorre primamente essere un buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile
per l’Allievo, secondo cui l’uomo è strutturalmente differente dal resto della
natura: «L’umano soggetto, insino dal primissimo istante della sua mortale
esistenza, è non solo di grado, ma di specie differente dal bruto, perché la
mente, ossia l’anima razionale, che lo costituisce uomo, ei la possiede per natura,
e non l’acquista punto col tempo, non la vede allo sviluppo progressivo
dell’organismo corporeo. Questo giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene
risponde al sentimento naturale della dignità umana, sta diametralmente opposto
alla moderna dottrina del positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che
nel neonato l’animalità si viene a poco a poco trasformando in unità in virtù
delle leggi fisiologiche dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima
infanzia della vita si manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso
fisico e del cieco istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la
virtù di esercitare esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del
ragionare e del volere, sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che
tanto ci sublima e ci differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza
diversa dall’organismo corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo
l’animalità stessa che funziona sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è
ontologicamente differente rispetto al resto della natura. Il positivismo al
contrario «afferma che l’io umano non è un’energia vivente, un’attività libera
e conscia della sua personalità sostanziale, bensì un mero complesso di
fenomeni che non appartengono a nessuno»279. Queste posizioni antropologiche,
denuncia Allievo, portano ad inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni
nostri e nella nostra Italia in fatto di pubblica educazione si trascorre agli
estremi, sicché questa gran legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione
fisica si attribuisce una importanza esorbitante, e assai più di quanto le
convenga ed in suo servizio si lavora in tutti i rami ed in tutte le guise,
mentre la formazione del carattere che è di tutta l’umana educazione la parte
più nobile e più prestante, giace pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer
esaltando sopra misura la cultura dell’organismo corporeo ha asserito che
l’uomo debb’essere anzi tutto e soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato
che si può essere un buon animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277
Ibid., p. 322. 278 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., pp.
28-29. 279 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 5-6. 280 G. Allievo,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, cit., p. 680. 77
Invece la persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e
a ciò deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione
dell’uomo ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di
bene e di male e la responsabilità personale. Allievo individua le conclusioni
di queste premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella
sua psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed
assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui
i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio
indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare,
che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed
astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono
per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di
una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la
libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di
responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono
tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai
positivisti. Allievo ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano
della necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo
sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di
pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto
filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e
rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze
pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con
chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del
fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè
porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco
l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. Allievo
critica ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e
fisica riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione
che se è 281 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit.,
p. 309. 282 Ibid., p. 109. 283 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 5. 284 Scrive sull’argomento: «I propugnatori della
nuova scuola positivistica vanno proclamando la somma importanza
dell’autodidattica e dell’educazione del carattere, e se ne fanno banditori
come di una loro scoperta; ma con ciò non si avvedono, che danno una smentita
alla loro dottrina, la quale facendo dell’io umano un mero fenomeno senza
sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà dello spirito, toglie di mezzo
quella personalità, per cui l’alunno colla sua interiore energia conquista le
conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile del volere» G. Allievo, Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 13. 285 G. Allievo, Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 262. 78 spiegabile col suo
darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di una prassi
educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un fine ultimo
non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche modo
abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera
educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così
compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non
sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia,
l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha
conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il
valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della
formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico
interesse e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità.
Nella prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del
carattere, della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui
risiede secondo Allievo lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione,
come contesta Allievo al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre
funzionali alla produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun
riferimento all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla
formazione del carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine
e della direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire
condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in
quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità
svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel
soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo
arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di
educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei
principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. Allievo denuncia che «Le
scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la
psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro
propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze
naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi
fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie,
un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio,
che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289.
286 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 183. 287
G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 27.
288 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo
nell’uomo, cit., p. 4. 289 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 8. 79 Il primo dato necessario alla pedagogia
che il positivismo confonde è la natura non materiale della persona: «La nuova
scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella cerchia della scienza
altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega alcuni fatti di
singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile, che l’educatore e
l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non già meri fenomeni
insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno ciascuna affetti,
intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro individualità col
vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli di sé, arbitre del
proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii questi due solennissimi
fatti, che sono il fondamento primo dell’opera educativa». L’antimetafisica mette
in discussione un altro elemento necessario per la pedagogia, vale a dire
l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile. Questo concetto semplicissimo
ed elementare trascende la sfera dell’esperienza»290, e non può dunque essere
incastonato nell’architettura positivista. La persona inoltre ha bisogno di un
ideale, di un fine a cui piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da
uomo, non si vive personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la
quale insegni che la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di
fisiologia, non ci viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono
di fatto, o integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello
che io debbo essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa,
del punto che scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e
dello spazio»291. In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che
è di fatto, non quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene
realmente educato, ma non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che
muovendo dal concetto della persona umana ne argomenta che l’educazione le è
necessaria ed essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la
verità universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di
un ideale. Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se
il soggetto educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione
efficiente degli atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni,
i quali non appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro
alunno non già una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù
interiore, bensì un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza
dell’abitudine; 2° che la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale
torna impossibile, perché i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le
nostre risoluzioni 290 Ibid., p. 6. 291 G. Allievo, Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre
1903, cit., p. 15. 292 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 6. 80 volontarie sarebbero una risultante di
fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che anch’essa l’educazione
religiosa non ha più ragione di essere, perché il positivismo è la negazione
della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto, e la negazione della
religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere divino»293. La
pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si fregia di aver
portato fondamentali novità per la pratica educativa. Allievo chiarisce che: «I
positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo e della sua
educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso il suo vero
indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come se tutti i
grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due discipline,
avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale vanno altieri,
sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e della pedagogia
allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi, indipendentemente
da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in cui essi fatti
hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed armonizzatore»294. Ne
La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i positivisti si prendono il
merito di aver apportato alla pedagogia: metodo intuitivo, autodidattica e
adattamento. Allievo fa notare come siano tutte intuizioni e nozioni assai note
prima della nascita del positivismo e prima ancora della comparsa della
pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, Allievo contesta la
trasformazione positivistica della psicologia in una branca della fisiologia.
Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della personalità umana e
della sua libertà. Ciò che Allievo intendeva difendere era l’idea che i fatti
psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente spirituali. Il mentale
non può essere trattato come il biologico, per cui l’oggetto della psicologia
deve essere l’io sostanziale e non la sua espressione fisiologica o fenomenica.
Per tale motivo la psicologia deve seguire, a detta di Allievo, un metodo
filosofico e non scientifico, con cui invece si può indagare l’uomo da un punto
di vista anatomico o fisiologico. Così per l’Allievo «la psicologia è quella
parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima umana studiata ne’ suoi fenomeni
e nel suo essere sostanziale mediante la coscienza perfezionata dalla
riflessione al ragionamento»295. Tale concezione deve essere contestualizzata
in un periodo in cui la scienza italiana era parecchio lontana dagli approcci e
dai risultati dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e francesi. Questa
difesa del collocamento della psicologia nella filosofia da quanti la volevano
ridotta a pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. Allievo, Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 409. 294 G. Allievo, Delle idee
pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 295 G. Allievo, Appunti di
Antropologia e Psicologia, cit., p. 24. 81 che tale prospettiva
avallasse la riduzione dell’essere umano a un mero meccanismo biologico.
Occorre inoltre far notare che Allievo tenne in grande considerazione le
scienze sperimentali, anche se denunciò l’alto rischio dello scadimento della
scienza in scientismo. Osserva «Non vi è amatore del vero sapere, che non
riconosca e non ammiri i grandi progressi fatti dalle scienze naturali, e lo
splendido avvenire, a cui sono chiamate, proseguendo per la retta via
dell’osservazione sincera e compiuta dei fatti fisici, fecondata da una lenta e
prudente induzione verificata mediante la prova e riprova di ben condotto
esperimento. Questo successo e sicuro progredire del pensiero nella scoperta
delle leggi e delle forze della natura avvantaggia le sorti dell’umanità e
conferisce potentemente alla civiltà ed al perfezionamento sociale, essendochè
l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento del suo ideale. Se non che mentre
per una parte il progresso delle scienze naturali conforta l’animo di liete
speranze, per l’altra si nota con rincrescimento la tendenza di alcuni illustri
ingegneri contemporanei a trascendere i confini proprii di esse scienze e
riguardarle siccome la vera e sola scienza, a cui tutte le altre vanno
sacrificate, come se in esse sole fosse incarnato lo spirito scientifico»296.
Appare dunque poco fondato l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’Allievo,
che criticò al vercellese una presunta ostilità nei confronti della scienza e
del suo valore educativo. Secondo la studiosa emiliana, per Allievo: «Tutte le
scienze che si valgano di questo metodo e che inducono l’educando
all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze
diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono
soltanto le suggestioni che rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo
provò a giustificare la supposta contrarietà all’insegnamento della scienza,
con l’esigenza di difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al
progresso sociale e civile298. 296 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., pp.
12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino,
Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni modo, pur attraverso una prosa gonfia e
nello stesso tempo reticente, è opportuno districare il filo delle
argomentazioni del pedagogista torinese. Il punto sostanziale della sua
polemica è la critica del valore educativo della scienza. La scuola moderna si
fa un feticcio della scienza sottovalutando altri elementi formativi dello
spirito umano. Ma di quale scienza parla Allievo? Lo chiarirà in una nota
inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si tratta soprattutto si
quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa sotto il nome di
“sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita moderna, compresi
quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato tanto rivoluzionarie
le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello storicismo, se tutte
insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata l’esigenza di dare un
nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in altri settori della
vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con necessità fatte
sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso che una struttura
economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della scuola. In questo
legame l’Allievo trova il punto più pericoloso delle nuove dottrine pedagogiche
che segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale egli si richiamava
con nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico italiano,
richiamando gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare quel metodo
positivistico che 82 Nel testo Studi Psico fisiologici (1896)
riprese diverse scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i meriti e
la valenza pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne l’importanza
per la pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il senso e
l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò la
critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo
dell’Allievo vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento
della realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio
di Vidari che fa dell’Allievo un osteggiatore della psicologia, sostenendo che
il principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti –
sociologico»301. Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro
“accordo”, era proprio ciò a cui Allievo puntava. Le due discipline, psicologia
e fisiologia, non dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio
sull’uomo. Scrive a proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla
fisiologia, ma ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la
prima ha per oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la
seconda l’organismo corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite
insieme da quel medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed
il corpo organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di
ciò Allievo non può essere considerato come un nemico della psicologia
sperimentale, ma contro quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La
critica del positivismo e del materialismo è connessa a quella
sull’evoluzionismo. Allievo fa notare come il darwinismo non sia una necessaria
conseguenza del positivismo, ciò è confermato dal fatto che non fosse condivisa
da autori come Auguste Comte o Stuart Mill. Nella Nuova scuola pedagogica (1905)
Allievo osserva: «La nuova scuola pedagogica annovera nel suo seno alcuni
seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali accusano la distruggerà il
metodo dogmatico [in nota: G. Allievo, L’indirizzo storico e sociologico della
pedagogia contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le scienze che si valgono di
questo metodo e che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei
fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno
non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che
rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in
Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. Allievo, Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, cit., p. 14. 300 «Forse l’Allievo si lasciò trascinare nella sua vita
dal desiderio di porre la sua psicologia in maggiore armonia con le teorie
scientifiche sull’emozione che allora si diffondevano in seguito all’indirizzo
di studi del Wundt; volle dimostrare la possibilità di coordinare il suo
sistema coi risultati della scienza più moderna; ma naturalmente non poté
riuscire bene nel suo intento, perché l’eclettismo è il più difficile di tutti
i sistemi» E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà
del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p.
281. 301 Vidari sostiene che l’Allievo è contrario alla «psicologia
fenomenistica, che è per la Pedagogia rovinosa, negando essa il principio
fondamentale della sostanzialità e unità della Persona» G. Vidari, Giuseppe
Allievo, cit., pp. 8-9. 302 G. Allievo, Appunti di Antropologia e
Psicologia, cit., p. 26. 83 vecchia pedagogia di posare sopra una
psicologia astratta e dualistica, per cui mancava di salde basi scientifiche,
adoprava un metodo puramente soggettivo ed astratto e toglieva di mezzo ogni
raffronto tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli degli animali. Tutte
queste accuse presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia una
verità scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra,
dacché il Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo
scambiano per un teorema scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura
ipotesi bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere
i difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di
sana pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue
attinenze sociali»303. In tale testo conferma una considerazione fatta già nel
1874: «L’alterazione della specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che
va ogni di più perdendo valore e seguaci»304. Di certo la previsione è
risultata sbagliata. Tuttavia, il fatto che Allievo considerasse la teoria
dell’evoluzionismo come una probabilità appare giustificabile sulla base delle
conoscenze scientifiche e delle prove addotte dal darwinismo alla fine
dell’Ottocento. Va peraltro tenuto conto che la critica dell’Allievo fu
abbastanza superficiale e incentrata su questioni filosofiche più che
scientifiche (non ne aveva gli strumenti). L’idea che il pedagogista vercellese
difendeva era comunque la stessa, l’irriducibilità dell’uomo alla natura. Nel
testo L’uomo e la natura (1906) si interroga: «possiamo noi ammettere che la
specie umana abbia avuto origine dalla materia universale diffusa nello spazio
per via di una lenta e progressiva trasformazione degli organismi viventi? Lo
asseriscono i seguaci dell’evoluzionismo materialistico, ma non lo hanno mai
dimostrato seriamente né punto, né poco; né dimostrare lo possono perché nemo
dat, quod non habet, e la materia bruta primitiva non racchiudeva certamente in
sé il germe di quella sublime razionalità, che è il carattere costitutivo della
specie umana. Carlo Vogt nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare,
che le diverse razze umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma
ristrinse tutto il suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con
quello scimmiesco, e non disse verbo delle facoltà mentali proprie dell’umanità:
che veramente avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se avesse preteso
che la mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della scimmia»305 Stando
all’Allievo il positivismo non è perdente solo sul piano teoretico. È la vita a
condannare questo sistema. Nell’introduzione degli Studi Pedagogici, Allievo
riprende il 303 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 12. 304 G. Allievo, Della vecchia e della nuova
antropologia di fronte alla società, cit., p. 10. 305 G. Allievo, L’uomo e la
natura, cit., p. 10. 84 romanzo di Dickens, Duri tempi per questi
tempi, e cita diversi brani al fine di mostrare la confusione a cui porta il
positivismo nella vita reale, infatti è inevitabile che venga svilito il
compito dell’educatore, svalutata l’immaginazione, sminuito il sentimento e
l’amore. Il positivismo soffoca l’esistenza. Anche se Allievo ricorda che «il
cuore è tal forza che più di ogni altra della natura scoppia irresistibile
quanto più lungamente e violentemente repressa»306, il positivismo conduce
inevitabilmente alla «ruina e lo sfacelo della vita domestica e sociale»307.
Allievo contesta anche le posizioni positivistiche sulla scuola. Critica Comte
che impone alle prime classi un quadro orario composto quasi esclusivamente con
materie matematico scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le
critiche Allievo riconosce alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli
apporti importanti del positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza pedagogica
all’analisi e all’osservazione degli aspetti empirici dell’educazione.309
Comunque se Allievo dopo gli anni ’70 risultava preoccupato per l’avanzata del
positivismo, alla fine della sua carriera ebbe occasione di esultare per la sua
decadenza. Nel 1909 Allievo poteva scrivere che «Il positivismo pedagogico
attraversa una grandissima crisi e va via via smarrendosi in mezzo a diversi e
contrari indirizzi. La mancanza assoluta di critica, la cieca fidanza si sé, il
dogmatismo sostituito al ragionamento ed alla discussione, la noncuranza delle
dottrine contrarie, il disprezzo della tradizione, tolgono a questo sistema
ogni efficacia scientifica e segnano il suo decadimento»310. 306 G. Allievo,
Studi pedagogici, cit., pp. 8-9. 307 Ibid., p. 12. 308 «Nessuno mai, che abbia
fior di senno, rigetterà siccome sciupato, fallito e contrario al vero tutto il
lavoro della nuova scuola pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e
commendevoli accanto alle malsane e morbose; ha messo in bella luce alcuni
punti, che non erano stati sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo
alcuni fatti educativi mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un
nuovo impulso all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il
principio fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò
tutte le verità, che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente
ammettere, se non a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la
pedagogia filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel
principio che le è proprio» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 9. 309 «Il positivismo (sarebbe ingiustizia il
disconoscerlo) ha recato non poco giovamento agli studi antropologici
coll’averli ritirati dalla via dell’incompiuto ed esclusivo metodo
trascendentale dell’antica scuola e condotti su quella dell’osservazione e
della storia; ma è solenne errore quel suo fermarsi alla nuda osservazione dei
fatti e delle loro leggi senza punto assorgere allo studio delle origini, della
natura e della destinazione dell’uomo che è causa efficiente e ragione
spiegativa di quei medesimi fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente
dimostrerebbe ingiusto verso la nuova scuola chi le negasse il merito di avere
efficacemente contribuito all’incremento della scienza pedagogica; ma
dall’altro lato è giuoco – forza riconoscere, che nel corso delle sue indagini
ha passato sotto silenzio argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo»
Ibid., p. 27. 310 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 6. 85
Concludendo, si può rilevare come Allievo abbia scovato nelle critiche al
positivismo e all’idealismo un errore comune. Entrambe mancano infatti di
realismo, e riducono sia il campo dello scibile che quello dell’esistente311.
I. 7. Il contributo alla storia della pedagogia Gli studi di storia della
pedagogia costituiscono una parte cospicua nella produzione di Allievo, che
nella sua lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla
pedagogia antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra
il XVIII e il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano.
L’importanza data agli studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi
in cui Allievo espone il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di
storia della pedagogia, vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il
problema metafisico. Tra le opere più importanti vi è il già citato Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), che non si limita ad una
critica sui contenuti ma riprende con precisione lo sviluppo delle teorie
pedagogiche di Comte, Spencer, Bain. Sulla stessa corrente, è particolarmente
significativo il testo La psicologia di Herbert Spencer: studio
espositivo-critico (1898). Al contributo della pedagogia svizzera dedica il
libro: Delle dottrine pedagogiche di E. Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F.
Naville e G. Girard (1884). Un altro testo importante è Delle idee pedagogiche
presso i Greci (1887). Nel 1901 pubblicò La pedagogia italiana antica e
contemporanea in cui in un capitolo è riportato un testo pubblicato quaranta
anni prima: Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli
pedagogici (1909) presenta saggi su l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant,
Herbart, Blackie ed altri. Importante anche lo studio sul fondatore della
pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista (1910) e l’ultima
opera che rappresenta il testamento pedagogico dell’Allievo: Giobbe e
Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu la traduzione e
l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de Biran e la sua
dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due teorie scrive:
«Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni in cui
convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse
differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia
illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi
che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il
mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza
la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene
una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in
razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel
proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo,
disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con
Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli
soggiace. disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo
differenziasi in antropoteismo ed in naturalismo» G. Allievo, L’Hegelismo e la
scienza, la vita, cit., pp. 9-10. 86 Uno dei periodi più studiati
dall’Allievo fu la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, (1884), innalza la scuola svizzera come un momento
importante per l’intera scienza e storia della pedagogia, una scuola che seppe
integrare le spinte della modernità con una prospettiva antropologica
spiritualista. Un altro testo molto significativo è il già citato Della
pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Questo saggio ripercorre con precisione
lo sviluppo della cultura pedagogica e della legislazione scolastica in
Piemonte e in Italia, in un decennio decisivo per la costruzione della scuola
italiana. Commentando questo saggio Gerini ha scritto: «La monografia, composta
per incarico del Ministro della P.I., è il primo saggio di storia pedagogica
scritto in Italia, che sarà sempre consultato da quanti vorranno conoscere il
nostro risorgimento educativo»312. Dello stesso avviso anche Arcomano, che
commenta: «È una rassegna delle situazioni, delle attività e delle opere del
ventennio 1846-1866, in fatto di istruzione ed educazione, e si può considerare
un capolavoro di chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti e nella
presentazione delle idee che circolavano»313, anche se poi rileva come il testo
è forse troppo concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel
dibattito pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri autori314,
abbastanza rare sono le critiche315. In questo saggio Allievo esalta i
protagonisti di quella stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza
Garelli, Carlo Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma
della scuola, e trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana
nella metà dell’Ottocento i due laboratori della nuova scuola e della nuova
pedagogia. È molto significativo il peso dato dall’Allievo alla «Società
pedagogica» e anche alle riviste del tempo. Questo testo, contribuì a
dimostrare come fosse solo un mito l’idea propagandata dai positivisti secondo
la quale la pedagogia precedente alla loro non avesse avuto nulla da dire.
Allievo fa risaltare la pedagogia spiritualista risorgimentale e quel clima di
liberalismo educativo che sarà tradito e defraudato dalla statolatria e dal
positivismo. 312 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 44.
313 A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia (1860-1873),
cit., p. 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di pedagogia e didattica: ad
uso delle scuole e delle famiglie, Torino, Libreria scolastica di
Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio gli appunti negativi di
Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia contemporanea è il
Saggio dell’Allievo, il quale porta in esso il contributo delle sue proprie
memorie e impressioni; ma anche qui il senso della vita storica, cioè della
interiore unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine, è quasi del
tutto assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali dell’autore» G.
Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, cit., p.
4. 87 Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno tra i
primi storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei lavori
pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e delle metodologie
di ricerca. Allievo espone il suo pensiero circa il fine e il metodo della
Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della storia e
della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi altri
saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come fatto
e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono
imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler
vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità
di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione
naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno
statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto
dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione
critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due
discipline317. Allievo distingue anche la storia dell’educazione in generale,
vale a dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla
storia dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi
studi richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio
approfondito delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione
debba essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi
sempre a «fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori
dell’Allievo è il peso dato allo studio del contesto e della personalità
dell’autore320. 316 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia,
cit., p. 1. 317 «La storia dell’educazione ha per ufficio suo proprio di
esporre le diverse forme, che prese l’educazione presso i diversi popoli
antichi e moderni; per contro la storia della pedagogia espone le origini e lo
sviluppo di questa scienza attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’
pensatori, che la coltivarono. [...] Per certo queste due specie di storie sono
fra di loro congiunte da intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro
distinzione va tenuta in conto per non confondere due ordini di cose affatto
diversi, quali sono le idee pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative
degli istitutori» Ibid., p. 3. 318 «La storia dell’educazione, riguardata
rispetto alla sua estensione, viene a diversi in universale, particolare e
singolare. La storia universale si estende all’educazione di tutti i tempi dai
più remoti ai contemporanei, di tutti i popoli e barbari e civili, e antichi e
moderni. La particolare comprende un periodo storico generale, quale sarebbe la
storia dell’educazione antica, o parte di un periodo storico, come ad esempio
la storia dell’educazione dal 1500 a noi. In entrambi i casi abbraccia
l’educazione presso tutti i popoli ristretti però ad un tempo determinato. È
altresì particolare quella, che espone l’educazione di una nazione considerata
o in tutta la durata della sua esistenza (quale l’educazione presso i romani) o
in uno de’ suoi periodi storici (quale l’educazione dei romani nel periodo
repubblicano). Infine è singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la
storia dell’educazione ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto
educativo, quale l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da
Feltre; ed allora piglia più propriamente nome di monografia storica» Ibid., p.
3-4; 319 Ibid., p. 4. 320 Già in uno dei primi saggi esponeva con chiarezza
tale principio: «La critica ha da descrivere la genealogia del genio
speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo periodo evolutivo ricordando i
sentieri e le vie riposte per cui è passato prima di giungere al suo ideale
definitivo; ha da studiare il movimento speculativo dell'epoca in mezzo al
quale si svolse; ha da sceverare nelle pagine della storia le idee di cui ha
elementato il proprio sistema e significare come queste nel proprio sistema
s'intrecciarono e vi ricevettero un'impronta peculiare e sistematica. Tale è
l'ufficio narrativo della critica. Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo
giusto 88 Come la storia dell’educazione, anche la storia della
pedagogia si può dividere in generale e particolare. Il suo fine non si limita
ad una narrazione asettica della riflessione educativa, ma trova il suo senso
nella valutazione delle teorie pedagogiche rispetto all’autentica scienza
pedagogica. Scrive Allievo: «Da queste generali considerazioni intorno al come
si forma e si va svolgendo la pedagogia emerge da sé il concetto della sua
storia, la quale apparisce una ordinata e razionale narrazione dello svolgimento
progressivo della scienza pedagogica attraverso i tentativi fatti dai pensatori
di tutti i tempi e luoghi a fine di determinare l’ideale tipico dell’umana
scienza»321. In particolare, sono significativi alcuni brani presenti negli
Studi pedagogici (1889)322 e ne La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti (1905)323, in cui mostra come lo scopo dell’approfondimento
storico è strettamente connesso al fine della scienza pedagogica. L’Allievo
sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo svolgimento pratico o
da un punto di vista speculativo. La pratica educativa può essere di tre tipi:
quella che normalmente le persone attuano, quella di una determinata società, e
la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la teoria pedagogica sembra connaturale
alla vita umana. Per tale motivo in ogni epoca l’uomo si è fatto un’idea circa
il miglior modo di educare. Così, secondo Allievo, esistono tre tipi di teorie
pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del singolo pensatore, e la scienza
pedagogica. Il compito della storia della pedagogia quello di individuare il
differenziale tra quanto pensato in passato e la scienza pedagogica. La storia
ha così un valore fondamentale della riflessione pedagogica, poiché propone
agli studiosi interlocutori di vaglia, anche sé Allievo ricorda di distinguere
la scienza dalla storia324. Il seguente brano ben lumeggia la distanza tra ciò
che si è pensato e la scienza: «Fu detto che la storia universale è tutta una
congiura contro la verità: nell’ipotesi che stiamo valore il punto iniziale da
cui un sistema piglia le mosse, il processo a cui s'informa il suo
sviluppamento, il termine finale in cui si è chiuso; pronunziare se nella
storia del pensiero speculativo esso segni un periodo di sosta o di progresso;
giudicare se il problema filosofico sia stato concepito in tutta la sua
integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se siano state
convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo senza punto
disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi
armonizzandoli colle conclusioni della ragion filosofica: ecco l'altro ufficio
della critica che discute» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit.,
p. 18. 321 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p.
6. 322 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 28-31. 323 G. Allievo, Delle
dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 7. 324 «I cultori della pedagogia
trovano nella storia una saggia maestra, che additando gli errori dei pensatori
che li precedettero, da un lato, e dall’altro le verità da essi scoperte e
lumeggiate, li consiglia a procedere ammisurati e guardinghi nei loro
tentativi, li anima e li sorregge all’amore ed alla conquista del vero, ed
allarga l’orizzonte del loro pensiero. Riconoscendo l’utilità e l’importanza
della storia della pedagogia, guardiamoci però dall’ingrandirla oltre il
convenevole.» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit.,
p. 8. 89 discutendo, bisognerebbe ripetere, che anch’essa la storia
della pedagogia è tutta una congiura contro la scienza pedagogica»325. Nel
stesso saggio critica il Siciliani e il suo testo Storia critica delle teorie
pedagogiche nel quale sostiene che la scienza pedagogica si fonda sulla
esperienza storica dell’educazione326. Se per Siciliani la scienza pedagogica è
frutto di evoluzione, per lo spiritualista Allievo la «vera» scienza pedagogica
è una, e ad essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra poi in merito a come
si fa la storia della pedagogia. Spesso si è costretti a raccogliere le «idee
slegate e frammentate» in opere non propriamente pedagogiche, scovando le
«teorie particolari intorno a qualche punto di educazione, o sia che esse
formino un tutto da sé distinto da ogni altro, o sia che giacciano implicata ed
involte in opere di altra natura», ma anche «i trattati che abbracciano un
compiuto sistema pedagogico, dove l’educazione è contemplata in tutta
l’integrità del suo organismo, quali ce ne porge in copia moderna». Bisogna
quindi studiare le opere dell’autore, i frammenti della sua opera presente in
altri autori, la tradizione su di lui. «Gli scritti originali di un pedagogista
sono essi soli le vere fonti, da cui si attinge limpida e netta la sua
dottrina, mentre i frammenti registrati nelle opere di altri scrittori, e la
tradizione scritta od orale, anziché fonti, sono rivi più o meno puri». Dai
suoi scritti occorre innanzitutto cogliere in concetto centrale di un autore,
cercandone poi le cause. Occorre comunque valutare la pedagogia degli autori
studiati: «Ma il compito più elevato, più grave e ad un tempo più arduo della
critica storica risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte vera dalla
erronea, la certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo,
particolare, relativo, dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può
passare nel dominio della scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare
attento ad ancorarsi sempre alla scienza pedagogica328. In conclusione
sintetizza così il compito dello storico della pedagogia: «Ai quattro uffici
propri della storia pedagogica ora accennati fanno natural corrispondenza
quattro distinte e successive forme speciali, che essa può rivestire nel suo
progressivo sviluppo. La storia della pedagogia rintraccia primamente i
materiali, che entrano a comporla, ed in questo suo primo studio riveste la
forma di memorie e frammenti. Poi si accinge ad esporre e descrivere le
raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca, alla quale succede la forma
di storia propriamente detta, 325 Ibid., p. 9. 326 Ibid., p. 10. 327 Ibid., p.
15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da un lato la troppa fidanza di
sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee, dall’altro l’incostanza e la
volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere trascinato dallo spettacolo di
tanti sistemi diversi e contrari» Ibid., p. 16. 90 che corrisponde
all’ufficio etiologico od inquisitivo, finché s’innalza alla sua più perfetta
forma, quale è la filosofia della storia, che risponde all’ufficio critico e
speculativo»329. Il senso della Storia della pedagogia ha appunto lo scopo di
rilevare il differenziale presente sia tra i modi che le popolazioni che ci
hanno preceduto avevano di educare in confronto con la vera arte di educare, sia
il confronto tra le varie teorie pedagogiche e la vera scienza pedagogica.
Osserva Allievo: «Quindi ancora ne consegue, che introno al medesimo oggetto
conoscibile (ad esempio intorno l’essenza dell’educazione, od al suo fine, od
alle sue leggi) possono darsi e si danno di fatto molte teoriche, e quel che è
più le une dalle altri discordi ed avverse, mentre una sola è la scienza e
sempre a se stessa concorde, perché una sola è la verità, in quella guisa che
nell’ordine geometrico tra due punti dati non può correre che una sola linea
retta, mentre di linee curve se ne possono condur chi sa quante». Il senso
della Storia della pedagogia è analizzare i sistemi pedagogici confrontandoli
con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La storia de’ sistemi pedagogici è
sostanzialmente la storia de’ tentativi felici od infelici, retti o traviati,
fatti dai cultori dell’arte educativa per giungere al Vero siccome fondamento
di essa; per lo contrario la storia della scienza pedagogica è la storia della
Verità educativa riguardata nel suo progressivo esplicamento»330. Sulla base di
questa prospettiva, i numerosi studi di storia della pedagogia di Allievo, sono
un dialogo rispetto a determinati principi pedagogici con gli autori trattati,
più che un’esposizione oggettiva del loro pensiero. Lo studio della storia
della pedagogia secondo Allievo può condurre a una migliore comprensione
dell’educazione e a quei tratti unici e particolari che la caratterizzano. Per
tale ragione nelle sue ricerche spesso trova degli spunti per confermare alcune
delle sue tesi o muove critiche agli altri sistemi pedagogici, in primis ai già
citati positivisti. I testi sono dunque ripetutamente accompagnati da
valutazioni personali, commenti, paragoni, e non pochi giudizi sferzanti. Ha
scritto puntualmente Vidari «Si comprende da tutto questo come l’Allievo nei
suoi studii di storia delle dottrine antropologiche e pedagogiche fosse guidato
e mosso più che dal proposito di comprenderle nel loro processo di formazione,
di inquadrarle nel momento storico a cui appartennero, di seguirle nei loro
sviluppi, nelle loro irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di
saggiarle e 329 Ibid., p. 16. 330 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di
Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio
Girard, cit., p. 6. 91 giudicarle in rapporto a quei principi
fondamentali di scienza dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il
resto della sua produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al
«laboratorio della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema
pedagogico di Allievo. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta
a cogliere il cuore e le preoccupazioni pedagogiche dell’Allievo. Il tema
principale su cui Allievo si confronta è per la maggior parte legato a
prospettive antropologiche e alle loro conseguenze in campo educativo e
scolastico. Giustamente Valdarnini osserva: «qual criterio adotta l’Allievo per
giudicare della verità o della falsità delle dottrine di cui è intessuta la storia
della Pedagogia? Questo: il sentimento e il concetto della dignità propria
della specie umana»332. Da Seneca a Rousseau ciò che l’Allievo valuta è quale
l’idea di uomo essi comunicano e difendono. Ma tale prospettiva ha secondo
alcuni studiosi portato a esiti negativi. La Quarello, ad esempio, critica il
fatto che certi giudizi storici siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che
alcune valutazioni dell’Allievo partono «talora da “presupposti dommatici” più
che da dimostrazioni convincenti»334. Tra le altre, critica la scarsa
considerazione data al Kant della Critica della ragion pratica. Di un’idea
contraria è Vidari quando osserva che «alcune delle osservazioni critiche che
l’Allievo muove alla dottrina morale di Kant, per quanto non nuove, sono giuste
e fondate»335. Come già accennato, sempre stando alla Quarello, Allievo non
avrebbe colto il contenuto della filosofia di Hegel, riducendo la portata dello
Spirito e dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri, il principio della libertà
d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le teorie pedagogiche. Nel
testo Delle idee pedagogiche presso i greci la questione della libertà
d’insegnamento decide della divisione degli autori. Allievo affronta prima
Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di un’educazione libera, e
poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera difensori di una visione
spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando tali autori esprime la sua
idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco non separa la famiglia dallo
Stato, né la confonde con esso. Per lui la famiglia non è solo un grado della
gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha uno sviluppo suo proprio. 331 G.
Vidari, Il contributo di G. Allievo alla Storia della Pedagogia, «Rivista
Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A. Valdarnini, Giuseppe Allievo storico
della pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe Allievo, cit., 1913, p. 56. 333 V.
Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 124. 334 Ibid., p. 124. 335 G.
Vidari, Il contributo di G. Allievo alla Storia della Pedagogia, cit., p. 692.
336 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., pp. 128-129. 92
L’educazione, senza punto dimenticare di preparare il fanciullo a divenire buon
cittadino, ha sovra tutto per compito suo di formare in lui l’uomo mercè il
culto della famiglia»337. Sugli «avversari» della libertà scrive invece:
«Platone aveva confuso la famiglia collo Stato fino ad introdurre il Governo
nei penetrali del santuario domestico, e colla famiglia anch’esso l’individuo
veniva assorbito nella comanza politica. Aristotele giunse a distinguere la
famiglia dallo Stato, ma il suo pensiero su questo grave argomento mostrasi
perplesso ed oscuro, tant’è che l’uomo in sua sentenza non è tale, perché
persona individua, perché padre o marito, o figlio, ma perché cittadino»338. Un
altro brano su Platone mostra la pertinenza tra il concetto di persona e quello
della libertà d’insegnamento, e come la perdita del primo faccia
necessariamente scivolare nello statalismo: «Il massimo e capitale errore, che falsa
la politica e conseguentemente la pedagogia di Platone e scorre e s’inviscera
in tutte le parti della sua teoria, questo è di avere sacrificato l’attività
personale dell’individuo all’onnipotenza dello Stato, di avere assorbito l’uomo
nel cittadino. La dottrina politica di Platone è un esplicito socialismo
governativo: l’individuo esiste e vive in servigio esclusivo dello Stato, è
niente più che una molla, un ordigno del gran meccanismo sociale, giacché
nell’assoluta ed oppressiva unità della comunanza politica si perde ogni
libertà personale. Epperò l’educazione riesce essenzialmente ed onninamente
politica, mentre dovrebb’essere primamente e sostanzialmente personale: l’umana
persona, spogliata della sua dignità finale, viene educata come semplice mezzo
e strumento della civil società»339. Concludendo la parentesi greca scrive: «Lo
Stato adunque non prevale sull’individuo, bensì gli sottostà come effetto della
sua cagione; e quando Aristotele a sostenere la supremazia naturale dello Stato
sulla famiglia e sui singoli uomini osserva, che il tutto trionfa sulla parte,
perché distrutto quello, anche questa vien meno, possiamo ritorcere il suo
argomento contro di lui avvertendo che la parte congregandosi con altre parti,
forma essa il tutto, e se quella scompare, anche questo ruina. In una parola
non l’individuo è fatto per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per tutti e per
ciascuno, epperò l’educazione debb’essere umana e personale, prima che politica
e civile»340 In alcuni punti le valutazioni dell’Allievo sono decisamente
esagerate. Nel testo su Giobbe e Schopenauer apre una parentesi molto sommaria
contro il popolo ebraico341, rasentando il razzismo. In altre occasioni il suo
giudizio è palesemente sproporzionato. 337 G. Allievo, Delle idee pedagogiche
presso i greci, cit., p. 163. 338 Ibid., p. 162. 339 Ibid., pp. 131-132. 340
Ibid., p. 148. 341 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer, cit., pp. 36-37.
93 Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee pedagogiche
presso i greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono gloriosi
campioni di una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni ressura
governativa, sorretta da un ideale divino, che consacra la persona, santifica
il dovere, suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed Aristotele
ci si mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’ singoli
uomini la dignità della persona individua, trae con sé a perdimento tutta la
Grecia»342. Anche Santamaria Formiggini contesta all’Allievo la scarsa
precisione su taluni lavori, in particolare fa riferimento agli studi su
Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene che l’Allievo non riuscì a «penetrare
oggettivamente nel pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi
ammette che «Come pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la
larga informazione storica, che è uno degli elementi essenziali per la
trattazione ponderata ed illuminata delle questioni educative, è condizione per
un vero progresso delle teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi
pedagogisti che abbiano indirizzato gli studiosi italiani a mettere in
raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati del pensiero pedagogico
straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e più nuova la verità,
perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e superate»344. Oltre ad
imprecisioni, i lavori dell’Allievo risultano approfonditi e curati. Lo studio
su Rousseau criticato dalla Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma
soprattutto offre una chiave di lettura molto interessante del pensatore
ginevrino non temendo di evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le
ambiguità e i rischi. Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che
nonostante la sterminata bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di
Allievo risulta ancora oggi ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di
Allievo come storico della pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai
lavori coevi di storia della pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento
alle fonti e immedesimazione. Senza dubbio si può affermare che Allievo può
essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia italiani. I. 8. La
scuola educativa 342 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit.,
p. II. 343 E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà
del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, cit., p. 12. 344 Ibid., pp.
322-323. 94 Nel corso della sua carriera, Allievo diede ampio spazio alla
riflessione sulla scuola, cui attribuiva un ruolo decisivo per il destino delle
nazioni345. Se riferimenti e accenni su questioni scolastiche sono disseminati
in molti dei suoi libri, in un saggio del 1904, La scuola educativa, è presente
una sistematizzazione più articolata e completa delle sue posizioni.
Riflettendo sulla funzione di questo istituto, Allievo racchiude le questioni
più importanti del problema in quattro semplici domande: «1° in servizio di chi
è ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di governarla? 3° in quale
giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla società? 4° come
debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella scuola?»346. Allievo è
convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia lo sviluppo
perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una appassionata
ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse animata da un
vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il determinismo di certa
didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il rispetto della vera libertà
potesse divenire il fine e lo stile della vita educativa349. Su queste
prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e dell’educazione, che
dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo integrale della
personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano potenziarsi a vicenda. In
questo senso considerava l’istruzione anche come un aspetto necessario per la
formazione solida del carattere351. 345 «La casa dunque, il tempio, la scuola
sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre solenni convegni sacri alla
comune educazione. La scuola segnatamente apparisce il santuario del sapere, il
tirocinio della vita sociale, il vivaio della civiltà; epperò essa racchiude
nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e collo splendore o
coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o di decadenza di
una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente si misura la
necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che risponda al suo
intimo organismo ed al suo ideale» G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 68. 346 Ibid., p. 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e
del Buono, ciò è dire è il santuario della sapienza, essendochè questa
congiunge in sé il lume speculativo della scienza e la pratica onestà della
vita. Oggidì il carattere educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha
cacciato fuor della scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio
tra l’istruzione della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola,
educazione in casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi
l’albero della scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero
germogli e si spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose.
Quest’eresia pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi
alla famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio,
è tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che
pensa, è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un
semenzaio di socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra
enciclopedica, quanto vuoti di ogni principio morale e religioso, e
riversandosi nella gran società diffondono la corruzione, che portano in seno,
pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua
e là il disordine e lo scompiglio» Ibid., p. 78. 348 Ibid., p. 70. 349 «Se
l’alunno non è lui il primo educatore di se medesimo, che spiega la personalità
sua e la afferma spiegandola, gli altri educatori persona la vera loro ragione
di essere, perché non formano più una persona, ma foggiano una macchina» Ibid.,
p. 67. 350 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 65-67. 351 «Lo studio è un
dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il carattere» G. Allievo, La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit., p. 92. 95 Uno degli errori
maggiori individuati da Allievo era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a
dire la riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle
menti degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore
delle nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. Allievo auspica che
l’accumulo di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e
creativo: «L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del
giovine: la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo
accalora, l’immaginazione, che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il
pedagogista osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di
una biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria
dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un
traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista
questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole
elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco
l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle
loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’
figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori
fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante
della sua efficacia356. Allievo si sofferma a considerare come l’insegnamento
sia un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si
impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le
coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire
costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, Allievo
sottolinea come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla
parola, la quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La
parola si impone così come 352 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 14.
353 Ibid., p. 425. 354 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
cit., p. 250. 355 Ibid., p. 249. 356«Pestalozzi, Girard, De la Salle furono
grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la santità del
loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni. Senza cuore
non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si impara con senno;
e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in quella guisa che le
istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e finiscono, quando
sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata dei reggitori, dal
dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti scolastici anche meglio
organati languiscono e cadono giù, quando nei governanti che li dirigono e nei
maestri che professano, sottentra l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e
la cupidigia del guadagno, la vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore»
in G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso
delle scuole normali maschili e femminili, cit., pp. 182-183. 357 G. Allievo,
Studi pedagogici, cit., pp. 102-107. 358 G. Allievo, La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, cit., p. 44. 96 «necessità pedagogica», da indirizzare
verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è
la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo Allievo, anche dalle
difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un
grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione:
«Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta
con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più
deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non
vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza
dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde
la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è
punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa
tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla
vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da Allievo soprattutto
nella scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio
alla vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo
limitata all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta
nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del
sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e
morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i
vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di
un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della
persona era reputato da Allievo impossibile, fu variamente ripresa: «Questa
idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica
istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della
scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto
teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa
specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia
oggidì l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni
preferite erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è
tana» e il motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359
«La parola è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che
unisce le intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore
e dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce
intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la
faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca
contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola
l’ufficio di significare un’idea» Ibid., p. 45. 360 «Il programma governativo
è, per così dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne
mostra le giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo
porge l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è
la vita, che circola per entro l’organismo» Ibid., p. 103. 361 Ibid., p. 98.
362 G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di
Torino il dì 18 novembre 1881, cit., p. 6. 363 G. Allievo, G. G. Rousseau
filosofo e pedagogista, cit., p. 59. 97 della verità, la scuola doveva
infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva essere staccata da essa364.
Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era prevista la formazione
professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo critica la proposta
educativa di Platone365, considerata eccessivamente spiritualista. La scuola
deve preparare soprattutto alla partecipazione alla società, della quale essa
può diventare importante fermento di progresso e umanizzazione. In questo
senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che mettevano in evidenza le
ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica, invece che i suoi aspetti
formativi366. Allievo sottolinea il rapporto virtuoso tra educazione e società.
Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità. Giustamente Allievo ricorda
che «La personalità umana giustamente intesa ed educata a dovere porta la
floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia, essere vista come
funzione della società, e soprattutto del suo potere politico368. Il controllo
sociale esercitato mediante la scuola rischiava di tradire il principio della
personalità369. Il legame con la vita e l’unità dell’educazione, doveva essere
corroborato da una stretta collaborazione tra gli istituti scolastici e la famiglia.
Per questa ragione propone l’abolizione dei convitti, preferendo che gli
allievi restassero nella loro famiglia370. In caso di necessaria lontananza
dalla propria casa, Allievo indica come modello le pensioni libere inglesi in
cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa vivono con un’altra famiglia,
a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società esige che nell’ordinamento
delle discipline scolastiche si abbia speciale riguardo a quelle che sono
peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai bisogni sociali,
dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato, che la scuola,
pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe servire alle
medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni umano
consorzio» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 37. 365 G. Allievo, Delle
idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 103. 366 «Il mio concetto della
persona umana, in servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal
concetto della natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo
della educazione. Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza
ed attività volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia
la virtù di stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre
persone, mentre l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a
snaturar l’uomo, spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel
tutto» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 71. 367 Ibid., p. 71.
368 «La scuola non può, non debb’essere una funzione della società, perché ne
verrebbe essenzialmente snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di
persone, ossia di creature intelligenti e libere, e non già una agglomerazione
di bruti o di cose. Ora la persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è
una creatura sacra, fornita di diritti, che vanno rispettati da qualunque
potere sociale, da qualunque autorità umana, il diritto all’esistenza, alla
verità, alla felicità, alla virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un
popolo intiero costasse la schiavitù o la distruzione di una sola creatura
umana, già per ciò stesso dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene,
ponete che la scuola sia una funzione,una proprietà, un’appartenenza della
società e soggiaccia al suo assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno
più educati siccome persone, che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un
fine, da cui hanno diritto di non essere deviate, bensì come mancipii del
volere sociale, come cose o strumenti in servizio della società» G. Allievo, La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 23. 369
«L’individualismo egoistico ed il socialismo oppressivo sono due estremi, che
contraddicono agli intendimenti della natura, la quale mentre chiama gli uomini
alla convivenza sociale, vuole ad un tempo salva la personalità di ciascuno».
G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 99. 370 G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 333-335. 98 volte la stessa dei
propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori, che deve
rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come «seconda
famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una serie di
proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli
fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di
censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola
classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per
rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la
nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica,
un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio
spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero
di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di
valutazione negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli
apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche
per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di
licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro
orario in cui si affermi il 371 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 86. 372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio
nazionale e per un trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il
1860 entrarono in lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero
coll’intendimento di atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini
fröbeliani. I novatori lottarono e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola,
nelle Conferenze pedagogiche e nei privati convegni, con ardore sempre vivo,
invocando ben anco in loro aiuto la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo
Società dei giardini d’infanzia di Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il
Ministero non nascose la sua simpatia pel fröebelismo. Già nel regolamento del
188°, all’art. 28, esso sostituiva alla denominazione asili d’infanzia il
vocabolo giardini; poi impose ai professori di pedagogia presso le scuole
normali l’obbligo di insegnare alle allieve maestre in teoria ed in pratica il
metodo di Fröebel, prescrivendo lo stesso metodo alle scuole italiane aperte
all’estero, e nella sua Circolare del 27 gennaio 1889 manifestava
l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi asiloi, secondo vecchi
metodi governativi, in istituti educativi informati a una dottrina che prenda
il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da entrambi; tal fine si può ben
dire ci abbia segnata la via, nella quale dobbiamo metterci». Nel fervore della
lotta non mancarono valenti istitutori, che, come l’Uttini a Piacenza, il
Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a Venezia, si adopravano con saggio
accorgimento a riparare gli abusi ingenerati nelle scuole aportiane da
sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i difetti ed introdurvi le
ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il principio interiore della
loro origine» Ibid., pp. 127-128. 373 Attacca quanti volevano fare una scuola
per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si fa necessaria una
scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella coltura, la quale
occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione di sorta. La
scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola elementare,
così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura umana. Da
questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i figli
dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la stessa
per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va ordinata in
servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed aristocratica, rurale ed
urbana, popolare e borghese» Ibid., pp. 139-140. 374 «Alle corte, intendete voi
che la scuola elementare accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le
classi sociali, o quelle soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la
trasformazione, che propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso,
create un dualismo irragionevole» Ibid., p. 140. 99 «primato» alla
pedagogia, mentre nei licei, legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni,
fu fautore della centralità della filosofia375. Da un punto di vista
metodologico richiama alla necessità di conoscere le facoltà psicologiche
dell’allievo e denuncia l’ignoranza della classe magistrale su tali tematiche.
Gli insegnanti sembrano essere più preoccupati di offrire agli alunni
conoscenze precise e copiose, rispetto a capire quanto i loro alunni possano
imparare. Un altro aspetto avversato dall’Allievo è un’idea caporalesca della
disciplina, che dimentica l’importanza della libertà e del consenso per
un’educazione efficace. Voleva che la scuola educasse al patriottismo. Ciò non
deve far pensare ad un Allievo nazionalista e sciovinista, il pedagogista era
però convinto che la scuola dovesse difendere la tradizione, la cultura e la
filosofia italiana376, di cui i giovani avrebbero dovuto acquisire
consapevolezza e orgoglio. Inoltre considerava importante l’assimilazione
dell’idea di nazione, intesa come comunità a cui appartenere e da servire. Per
questo propose di sostituire all’ «educazione civile», la materia di
«educazione italiana». Riguardo al tema dell’obbligo scolastico, che coinvolse
il dibattito pedagogico durante la costruzione del sistema scolastico
nazionale, Allievo si oppose alla sua applicazione, perché lo considerava
illiberale. Il pedagogista non intendeva restringere il diritto all’educazione
ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo non fosse un mezzo adatto per la
diffusione dell’istruzione e dell’educazione377. Egli era altresì convinto che
bisognasse convincere alla scuola e non costringere378. Come non si possono
obbligare le persone ad essere virtuose o a lavorare, così non le si può
costringere ad istruirsi, mentre può moltiplicare le scuole e formare bravi
insegnanti che attirino le famiglie ad iscrivere i figli nelle scuole379. Dove
c’è costrizione, secondo l’Allievo, non può esserci una vera educazione. I. 9.
La libertà d’insegnamento e la riforma della scuola 375 «Nelle scuole normali
spetta alla pedagogia il posto supremo ed intorno ad essa vanno coordinate
tutte le altre materie. Nei licei la filosofia deve tenere il campo, siccome
quella, che in virtù del suo carattere universale è atta a collegare in
armonico accordo tutte le altre discipline» Ibid., p. 116. 376 Cfr. G. Allievo,
Studi pedagogici, cit., p. 36. 377 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria,
Torino, Tipografia Subalpina, 1893, p. 5. 378 Sull’argomento, in un saggio cita
Lambruschini, che in una relazione presentata al Ministro Berti scrisse
»L’istruzione e l’educazione son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere
desiderata e cercata per se medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il
pregio agli occhi si chi deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro
canto, comechè si adoperi il Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da
tutte le famiglie, non riuscirà mai nell’intelletto, se nelle famiglie non
nasce l’amore dell’istruzione”, dopo di ciò commenta “In Prussia erasi
organizzato un sistema di polizia, per cui allorquando un fanciullo si
rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo mandava egli stesso, un
poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola come un pubblico
malfattore» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 137.
379 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria, cit., p. 12. 100 Le
posizioni di Allievo sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in
parte già oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di
rilevante importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo
Ottocento. Le opere più importanti in cui affronta tali questioni sono:
L’educazione e la nazionalità (1875)381, La legge Casati e l’insegnamento
privato secondario (1879)382, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia
fröbeliani (1888)383, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, (1889)384,
Della istruzione obbligatoria (1893)385 e La scuola educativa (1893)386, poi
rivisto e pubblicato nel 1904387. A questi vanno aggiunti altri come: La
Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato (1879)388, Il
Classicismo nelle scuole (1891)389, Esposizione critica delle opinioni di
illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica
(1898)390 Delle condizioni presenti della pubblica educazione (1886)391,
raccolti negli Opuscoli pedagogici (1909). In realtà, l’intera produzione
dell’Allievo è disseminata di richiami e rilievi su tali questioni392. 380 I
lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori studi e considerazioni.
Il testo di R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà d’insegnamento,
«Cultura», n. 19-20, 1889, p. 603, è scritto nel vivo delle polemiche
scolastiche del tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il
lavoro di R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un
saggio storico di G. Allievo, cit., pp. 60-74, prende in esame una sola opera
del pedagogista, vale a dire Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867),
e soffre di una conoscenza parziale dell’opera del pedagogista; il saggio di A.
Consorte, Scuola e Stato in Giovanni Allievo, «Ricerche Pedagogiche», n. 12,
1969, pp. 52–65, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche
tra lo studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto
solo di alcune sue opere. 381 G. Allievo, L’educazione e la nazionalità,
Torino, Tip. del giornale Il Conte Cavour, 1875. 382 G. Allievo, La legge
Casati e l’insegnamento privato secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383
G. Allievo, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbelliani,
Torino, Tip. Subalpina,1888. 384 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro
Boselli, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1889. 385 G. Allievo,
Della istruzione obbligatoria, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 386 G. Allievo, La
scuola educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare,
Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. Allievo, La scuola educativa. Principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., 1904. 388 G. Allievo, La Riforma dell’educazione moderna mediante la
riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. Allievo, Il
classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, 1891. 390 G. Allievo,
Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto
tra l’educazione privata e la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2,
1898. 391 G. Allievo, Delle condizioni presenti della pubblica educazione.
Prolusione letta nella R. Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino,
Tip. Subalpina, 1886. 392 In tutte le opere dell’Allievo sono ricorrenti degli
incisi nei quali lo studioso propone parallelismi con le condizioni scolastiche
coeve. Il seguente brano pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto
i caratteri della pedagogia romana, ad esempio, Allievo riporta un passo di una
lettera scritta da Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel
quale le suggerisce di scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il
figlio. Subito dopo, Allievo chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di
Plinio ed i nostri in riguardo ai pubblici studi! Allora la scuola si muoveva
libera da ogni potere governativo, epperò la scelta dei maestri spettava ai
genitori come un sacro e coscienzioso dovere. Ora invece lo Stato impone alle
famiglie i maestri da lui solo fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una
radicale riforma intorno a questo rilevantissimo punto della vita civile e
sociale è una necessità pedagogica. La libera attività dei cittadini, su cui
posa in gran parte la civiltà moderna, non consente che essi vengano trattati
come fanciulli, i quali hanno nel governo il loro supremo educatore ed assoluto
maestro. La libertà non è privilegio esclusivo di nessuno. 101 Il
problema della libertà d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera
di Allievo. Quest’attenzione è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema
scolastico italiano, di cui il pedagogista vercellese denunciò la deriva
monopolistica ed un assetto contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo
studioso, tali politiche avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In
particolare, erano la conseguenza da una parte della crisi del concetto di
libertà, e dall’altra, del «mito» dello Stato nato con la modernità. Lo sbriciolamento
della metafisica, inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione circa
l’esistenza e il ruolo della libertà personale. Ciò portò ad una certa sfiducia
verso l’iniziativa privata, preferendo al rischio educativo la gestione del
processo formativo. D’altra parte con la modernità si impose il profilo di uno
Stato simile al «Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il governo di
pochi si arrogava il diritto di fagocitare e sacrificare le singole
individualità in nome del bene della collettività. Un «mostro», come lo definì
Allievo, ingombrante, fatto di meccanismi politici e burocratici. Da ciò la
scuola e l’educazione non erano più considerate una responsabilità della
famiglia, ma dello Stato393. Il vercellese definiva questo statalismo anche «socialismo
governativo». In una sua opera spiega: «socialismo dico ogni istituzione che la
santa autonomia della persona e della famiglia disconosca in qualsiasi modo,
rimestando ad arbitrio quella convivenza sociale che ha da posare sicura sulle
leggi eterne dell’umanità»394. In un altro saggio commenta: «Socialismo
governativo è lo Stato moderno; socialismo pedagogico è l’educazione moderna.
Lo vuole la logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è lo Stato? Dunque
onnisciente. Creazione sua la società? Dunque suo feudo la scuola. Esso, che si
reputa l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono io»395. Secondo Allievo,
da tale pretesa nacque il controllo sul sistema scolastico, sui programmi, sul
reclutamento degli insegnanti, sull’organizzazione degli esami, sui libri di
testo. La monopolizzazione della scuola era sentita dall’Allievo in modo
catastrofico: «Là dove l’educazione propria della famiglia viene sacrificata
all’educazione dello Stato, vano è lo sperar bene delle sorti di una
nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino senza il governo di sé, né si
da governo Governi lo Stato le sue pubbliche scuole; ma siano libere le
famiglie di associarsi insieme per fondare istituti educativi ed imprimere ad
essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni egualmente che allo spirito
del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui la pubblica educazione
trarrebbe singolare e felice incremento», in G. Allievo, La pedagogia italiana
antica e contemporanea, cit., p. 40. 393 Commentando il progetto di legge di
Baccelli sul riordinamento degli studi universitari, lo studioso vercellese
scrive: «Il Ministro, che l'ha proposto, sente che nella coscienza universale
ferve irrefrenabile l'aspirazione alla libertà; ma ad un tempo è imbevuto del
dominante pregiudizio, che il Governo è lui il primo e sovrano motore di tutta
la vita pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto maestro ed educatore della
nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV proclamava sé lo Stato» G. Allievo,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe Allievo, Torino, Tip. Subalpina, 1899, p. 5. 394 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 11. 395 Ibid., pp. 11-12. 396 G. Allievo, G. G. Rousseau
filosofo e pedagogista, cit., p. 89. 102 di sé quando lo Stato
siede arbitro e donno di tutte le attività umane. Tolta di mezzo l’autonomia
personale de’ singoli cittadini anche l’indipendenza della nazione diventa
ingannevol menzogna; e verrà giorno in cui suprema battaglia per un popolo
quella sarà che esso combatterà non per l’indipendenza dalla straniero, ma
dalla statolatria»397. Va notato che nella prospettiva di Allievo, il concetto
di Stato è ben separato da quello di Nazione, come giustamente ha rilevato
polemicamente la Bertoni Jovine398. Per il pedagogista la Nazione è espressione
della civiltà, di valori, di tradizioni, di una storia, mentre lo Stato non
necessariamente ne rappresenta e asseconda gli interessi. La famiglia
rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo e la Nazione, e ad essa lo
Stato deve rispondere nell’organizzazione della scuola. Lo stato è nato per
servire la famiglia, e suo compito è garantirne la libertà. Secondo Allievo: «È
necessario far penetrare nella coscienza sociale questa gran verità, che
principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la famiglia, che fondamento
e centro unificatore della vita pubblica e civile è la vita domestica, e che
perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i genitori, che lo Stato
non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo
soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste ragioni: «Il Governo non può
avere altro diritto scolastico, se non quello, che gli venga implicitamente o
esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a dire un diritto relativo, non
assoluto, secondario e non supremo, partecipato e non originario»400. Non
sembrano dunque fondate le critiche mosse ad Allievo, circa la connessione tra
l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine del principio della
personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non professava una totale
anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal diritto assoluto
sull’educazione. 397 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 398 «Uno dei
più forti oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu Giuseppe
Allievo, dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione”
distinguendolo da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare,
mentre la nazione che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi
elementi sullo sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due
fatti inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione
l’Allievo collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni
elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza
di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa
ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che
divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre
pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i
liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano
l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione
religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista
ottenuta con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione
dell’insegnamento del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia
della scuola italiana, cit., p. 25. 399 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit.,
p. 43. 400 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 73. 401
«In fondo l’impronta fortemente individualistica, un po’ derivata dal principio
della persona, ma molto anche da una deficienza del senso della continuità e
unità storica nella vita dello spirito, è prevalente in tutta la pedagogia
dell’Allievo; e si presenta poi in forma estrema là dove, applicando alla
politica e al diritto i 103 Sulla paternità della responsabilità
educativa, famiglia o stato, si giocò il dibattito pedagogico sul tema,
considerato tale non solo in ambito spiritualista402. Allievo attribuisce alla
famiglia la responsabilità educativa. La famiglia è il nucleo che solo può
permettere il futuro della Nazione e una vera educazione delle giovani
generazioni. Sugli stessi principi, critica aspramente anche Fröbel per non
aver riconosciuto il primato della famiglia sulla società.403 Sotto questo
profilo sono evidenti i richiami alla tradizione del cattolicesimo liberale,
che attribuiva alla famiglia un valore educativo centrale, nelle opere di
autori come Berti, Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la libertà d’insegnamento
proprio sul principio della libertà e sul protagonismo educativo della famiglia.
Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come Spaventa e i positivisti come
Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati fiancheggiatori della
statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee: «Riponendo nella famiglia
la suprema autorità scolastica noi ci troviamo collocati nel giusto punto di
mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno attribuisce al Governo un
assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro gli niega ogni e qualunque
siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede bensì un’autorità
nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della famiglia e de’ privati
cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla libertà della scuola,
e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione di ammettere, oltre
le scuole pubbliche governative, anche le scuole private, le quali però non
devono essere una storpiatura, una copia forzata e stereotipata delle scuole
governative, ma hanno diritto di muoversi libere e spontanee dentro un’orbita
loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più
splendide forme della libertà politica e civile, che informa la scuola
moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo educativo, ma uno Stato
meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha fatto notare Giorgio
Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato regolatore»405. Egli,
infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi concetti, arriva a
concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente antistatale, così da
affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico
assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia”» G. Vidari,
Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, cit., pp. 86-87. 402
Non è un caso che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari nel
Dizionario Illustrato di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che rappresenta
uno spaccato della pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca il tema con
la domanda «A chi appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari, Libertà
d’istruzione, in A. Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario illustrato di
Pedagogia, Milano, Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. Allievo, Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, cit., p. 117. 404 G. Allievo, Lo Stato educatore ed
il Ministro Boselli, cit., pp. 24-25. 405 G. Chiosso, Alfabeti d’Italia,
Torino, Sei, 2011, p. 93. 104 sull’istruzione406. Nonostante la
comune rivendicazione della libertà di insegnamento, le tesi dell’Allievo si
discostavano da quelle allora prevalenti nel mondo cattolico, in particolare
negli ambienti dell’intransigentismo. In questo caso il principio della libertà
d’insegnamento era alquanto strumentale e sostenuto più per ragioni pragmatiche
che per la sua validità pedagogica. La vera scuola era quella «cristiana» e in
nome di questa si avvertì l’esigenza di creare una scuola cristiana parallela a
quella statale, in linea con quella logica «separatista» dal “paese legale” che
ebbe largo corso dopo Porta Pia. Per questo motivo era chiaro che una
rivendicazione simile sarebbe stata immotivata in uno Stato rispettoso
dell’educazione religiosa e cristiana407. Per Allievo invece, la libertà
rappresentava un valore effettivo per la scuola. In questo senso contestava la
contraddizione di molti sedicenti liberali, che in molti paesi europei negavano
la «lotta»408, cioè la concorrenza, proprio in campo educativo. Secondo il
pedagogista il concorso di soggetti privati all’istruzione del popolo, il
confronto e il «gareggiamento» tra le diverse realtà, rappresentava un volano
per il miglioramento della scuola. Per mostrare i vantaggi dell’applicazione di
tale principio, Allievo approfondì con appositi studi i sistemi di istruzione
di Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i principali liberali avevano
forgiato anche le istituzioni scolastiche. Un altro stato indicato come modello
da Allievo per quanto riguarda l’autonomia scolastica è il Belgio, di cui cita
ed elogia gli articoli della Costituzione concernenti la libertà
d’insegnamento409. Alla realtà educativa degli Stati Uniti dedicò un saggio
dettagliato intitolato Dell’educazione pubblica negli Stati Uniti D’America410.
In esso sostiene come la peculiarità del sistema scolastico americano fosse la
libertà dei cittadini di fondare e 406 Sempre criticando il citato progetto di
legge Baccelli sull’Università scrive: «Ecco il primo articolo della sua
proposta: “Alle regie Università e a tutti gli altri Istituti d'istruzione
superiore è concessa personalità giuridica ed autonomia didattica,
amministrativa, disciplinare sotto la vigilanza dello Stato”. È cosa manifesta,
che autonomia e vigilanza sono i due concetti supremi, a cui s'informa questo
disegno di legge; ma è pur evidente, che il giusto significalo dell'autonomia
dipende dai limiti, che vengono segnati alla vigilanza. Che lo Stato vegli,
bene sta: ma la vigilanza sua va circoscritta entro determinati confini, sicché
non trasmodi in un illimitato ingerimento e soppianti la libertà» G. Allievo,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe Allievo, cit., p. 5. 407Luciano Pazzaglia ha rilevato come,
soprattutto dopo l’Unità, più che la difesa del principio della libertà
d’insegnamento in quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione della
sua prerogativa educativa. Commentando la significativa allocuzione di Pio IX
alla Gioventù italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica osserva:
«Pur continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della Chiesa e a
condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio che mal si
conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero sarebbe l’autentico
interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà d’insegnamento potesse
diventare per i cattolici uno strumento essenziale al raggiungimento dei loro
obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel programma dell’Opera dei
Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia nell’età umbertina, cit.,
p. 426. 408 G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro
Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 409 G. Allievo, Lo Stato
educatore, in Opuscoli pedagogici, cit., pp. 68-69. 410 Il saggio è inserito
negli Opuscoli pedagogici, cit., pp. 380-406. 105 mantenere delle
scuole. Secondo Allievo ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche
non statali che hanno accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane
nazione, che seppur fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà
e nella preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che
l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur
finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano
frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che
venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se
le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti
gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di
studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter
frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di
scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si
diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che
il monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello
stesso liberalismo. Allievo sostiene che «Il libero insegnamento va
riconosciuto siccome una delle più splendide forme della libertà politica e
civile, che informa la società moderna»411, i liberali italiani erano
incoerenti con i loro stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La
libertà delle scuole è la suprema necessità del momento, se già non fosse un
principio sacrosanto scritto nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di
salvamento nel presente naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione
dominante su questo vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di
idee. Propugnatori del libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno
fare buon viso i novatori e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato
in tale strettoie governative da farne un monopolio per sé e per i loro
seguaci. Ingrato spettacolo di gente che vela con una mano la statua della
libertà dopo di averla coll’altra levata alla pubblica venerazione»412. Ma le
posizioni dell’Allievo erano in controtendenza rispetto agli indirizzi del
Ministero. La lobby massonico liberale che tenne le fila della Minerva nei
decenni successivi all’Unità contrastava la battaglia per la libertà
d’insegnamento dietro la quale vedeva la mano della Chiesa preoccupata di non
perdere l’egemonia sull’istruzione e sull’educazione, messa in seria
discussione dopo l’Unità. L’istruzione pubblica e l’Università resteranno sotto
il totale controllo del Ministero, le scuole libere saranno tollerate, ma
discriminate sotto il profilo giuridico ed economico. Niente fu fatto per una
vera parità nell’erogazione dei titoli di studio, una delle questioni da 411 G.
Allievo, Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, cit., p. 68. 412 G.
Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., pp. 164-165.
106 cui dipende l’effettiva libertà d’insegnamento. Lo statalismo
scolastico, infatti, è primariamente un monopolio di «abilitazioni»,
controllando le quali il governo «obbliga» e i giovani a frequentare le sue
scuole. D’altra parte, costringeva le scuole libere ad adeguarsi ai dettami
governativi. In un testo osserva: «Bella concorrenza davvero sarebbe quella di
Istituti privati ridotti ad una storpiatura o miserevole copia dei governativi!
Bella libertà scolastica quella di chi fosse legato mani e piedi ai ceppi
dell'Autorità ufficiale»413. Paradossalmente il percorso di statalizzazione
della scuola e di riduzione degli spazi di autonomia per le iniziative
educative libere iniziò in un periodo in cui la pedagogia sembrava andare in
una direzione opposta. La libertà d’insegnamento fu, infatti, un tema
largamente sviluppato nella riflessione cattolico liberale che aveva
caratterizzato la stagione risorgimentale. Lambruschini, Rosmini, Tommaseo,
Gioberti, con le dovute differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo da
supervisore nell’educazione pubblica, non quello di gestore e macchinatore
dell’istruzione e dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei
principi di libertà caratteristici del clima culturale del ’48. Allievo
denunciò questa inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società
pedagogica: «Il primo Congresso generale tenuto dalla Società in Torino
nell’ottobre del ‘49 rivelava in modo solenne l’unità di disegno e
l’universalità del concetto che la governava: senatori del Regno e deputati del
Parlamento, autorità ministeriali e scolastiche, membri di Accademie
scientifiche e reggitori di istituti educativi, professori e dottori di
Università e maestri elementari, sacerdoti e laici, esuli degli altri Stati
della patria comune illustri per sapere, intelligenti promotori della pubblica
educazione, là convenivano a pubblica discussione, e nella arena del
dibattimento discendevano insieme affratellati i cultori degli studi classici e
speculativi coi maestri dell’istruzione tecnica e professionale, i reggitori di
pubblici e governativi istituti scolastici ed i favoreggiatori del privato e
libero insegnamento. Così il Piemonte, appena sorto a nuova vita, adoperava in
servigio di nobilissima causa il diritto di libera associazione allora sancito
nel nuovo Statuto Carlalbertino, ma, prima che negli stati politici, scritto a
caratteri indelebili nel gran codice della natura; così esso porgeva uno
splendido esempio di attività cittadina e di privata entratura, che sole sanno
a tenere a modo la podestà del governo così lesta ad invadere diritti non suoi.
E si fosse mantenuta costante quell’attività e quell’entratura privata, e
propagatasi più rigogliosa e compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la
pubblica istruzione del nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni
sotto lo strettoio del potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del
1868 attribuì a 413 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato
secondario, cit., p. 8. 414 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea,
cit., p. 90. 107 Cavour e al «cavourinismo» la colpa per il profilo
illiberale della scuola italiana415. Una simile lettura del pensiero e delle
responsabilità dello statista piemontese sembra essere confermata dall’iter
della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi della legge Casati degli
aspetti positivi, poi traditi dalle politiche successive417. I. 10. Le
polemiche con la Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si limitò a
teorizzare i princìpi intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la libertà
scolastica, ma entrò in diretta polemica con gli esponenti politici più o meno
«statolatri» che, tra la sua giovinezza e la maturità, governarono il Dicastero
dell’Istruzione Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per alcune pubblicazioni,
Allievo fu incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio sulla scuola e
la pedagogia italiana in occasione della mostra universale della Arti e delle
industrie a Parigi del 1867. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia dal
1846 al 1866418 (1867), che, tuttavia, non incontrò il parere positivo del
ministero, motivo per il quale il libro non fu presentato alla fiera419.
Commentando quell’episodio Gerini osservò come mentre il positivismo fosse una
dottrina «protetta in alto», «agli avversari della pedagogia spiritualistica
furono prodigati tutti i favori del Ministero, a lui l’oblio»420. Le posizioni
espresse dall’Allievo, considerando le quali non desta meraviglia la censura
ministeriale, sono utili per introdurre le sue critiche alla politica
scolastica post unitaria. Già nello scritto del 1867, l’Allievo nel
ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza,
la vita, cit., p. 7. 416 M. C. Morandini, Da Boncompagni a Casati:
l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario (1848 – 1859), in F. Pruneri (ed.), Il cerchio e
l’ellisse, centralismo e autonomia nella storia della scuola dal XIX al XXI
secolo, cit., p. 50. 417 Tale lettura è confermata in un opera della fine del
secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel
riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro
insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha
inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non
era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita,
lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie
istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea
dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano
splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più.
Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo
Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini
comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» G. Allievo,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe Allievo, cit., 1899, p. 3. 418G. Allievo, Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866, cit.; poi in G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., pp. 84-168. 419 Lo stesso pedagogista racconta la vicenda
in G. Allievo, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit., pp. 99-100.
420 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 126. 108
pedagogico subalpino all’origine della riforma Boncompagni del 1848421,
lamentava che gli ideali originari – ispirati al principio della libertà
scolastica – fossero stati in seguito gravemente compromessi dalle iniziative
successive che avevano invece rafforzato il ruolo dello Stato422. Secondo
Gerini, l’ostilità del ministero ebbe delle conseguenza nella progressione di
carriera dell’Allievo: Straordinario nel 1871, ottenne la promozione ad
Ordinario solo nel 1878423. In un’altra occasione sembrò al pedagogista
vercellese di aver subito un torto dalle autorità politiche, quando cioè,
eletto consigliere comunale, fu volutamente escluso dall’assessorato
all’istruzione424. La lettura di Allievo sull’evoluzione del sistema scolastico
italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e l'insegnamento privato
secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’Allievo denunciava la
contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica prevista dal
testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del principio politico
secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela della morale,
dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine pubblico»425. Per
quanto la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua «concorrenza degli
insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e gli atti successivi
andarono contro questo principio. Per Allievo era evidente che politiche simili
fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza educativa, ma ciò non
poteva minimamente giustificare la soppressione della libertà427. 421Va
sottolineato come il principale redattore del testo legislativo, fu il
sacerdote Giovanni Antonio Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati:
l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario (1848- 1859), cit., p. 42. 422G. Allievo, La pedagogia
italiana antica e contemporanea, cit., p. 90. 423Secondo Gerini, genero
dell’Allievo (ne aveva sposato la figlia), curatore di numerosi saggi sul
pedagogista, il ritardo non fu casuale. Citando una lettera dello stesso
Allievo al ministro De Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli sostiene
che ci fu una ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese, motivata
dal suo credo spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei confronti delle
politiche ministeriali. Cfr. G.B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit.,
pp. 10-12. 424 Come racconta Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895,
essendo riuscito con bella votazione consigliere (il 20° su 80), l’Allievo
venne chiamato a far parte della Giunta. Costituita la quale “l’opinione
generale e più favorevole, specie nel corpo insegnante di tutti i gradi
d’istruzione, dalla elementare alla universitaria, era che nella distribuzione
dei varii rami di amministrazione fra gli assessori, al prof. Allievo sarebbe
toccato il governo dell’istruzione, essendo egli la persona meglio indicata,
per attitudini particolari ben note, a tenerlo: invece venne destinato dal
sindaco alla direzione della Biblioteca dei Musei”. Naturalmente l’Allievo con
sua lettera in data 5 luglio rinunziava all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui
non menziono in questo luogo a titolo d’onore, non gli affidava l’ufficio
dell’istruzione perché non si conoscevano ancora abbastanza le sue idee intorno
al governo delle scuole, pur essendo disposto a commetteglielo quanto avesse
avuto campo di far conoscere il suo modo di pensare (Osservatore scolastico di
Torino, 13 luglio 1895). Il fatto non abbisogna di commenti. Basti il dire, che
qualche tempo dopo il Rignon chiamava all’assessorato dell’istruzione un
avvocato, il quale non aveva mai dimostrato d’intendersi d’amministrazione
scolastica. – Nelle successive elezioni l’Allievo declinò in modo irremovibile
la candidatura» Ibid., pp. 11-13. 425 R. D. 13 novembre 1859, n. 3725, art. 3.
426 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p.
12. 427 “La potenza che voi paventate nel clero; non la distruggerete colla forza
dei divieti, ma la fortificate colla mostra della persecuzione e colla vostra
sfiducia nella libertà. Voi la volete la libertà, ma per voi e per 109
Nell'appendice l’Allievo dimostra tale tesi, analizzando nel dettaglio i
diversi provvedimenti elaborati dai successori di Casati, tra cui Natoli,
Coppino e Correnti, criticandone lo scarto rispetto ai principi della legge
fondativa del ’59. E così icasticamente conclude: «Da vent'anni e più anni la
legge riconobbe e sancì il principio del libero insegnamento: da quasi venti
anni il Governo continua a misconoscerlo, la burocrazia a manometterlo»428. La
stessa lettura dell'evoluzione dell'ordinamento scolastico italiano è
confermata in un altro testo di vent’anni dopo429. Un caso esemplare del
«tradimento della Casati» riguarda la figura dell’istitutore libero. Come
spiega Allievo, secondo la legge: «L’istitutore è governativo o libero,
secondochè la scuola, in cui esercita il suo magistero educativo, è retta dallo
Stato o da privati cittadini. All’uno il governo prescrive la sostanza e la
forma del suo insegnamento, la misura, il procedimento, il criterio direttivo.
Dall’altro la vigente legge 13 novembre 1859 esige i titoli, che lo
autorizzano, ed il rispetto dell’igiene, della morale e delle patrie istituzioni,
epperò la sua libertà non è assoluta; ma non concede al Governo di sindacare,
se e quanto, e come egli educhi e insegni; chè altramente la libertà
dell’istitutore si risolverebbe in una vana parola»430. Ma alla libertà
riconosciuta dalla Casati, conclude l’Allievo, corrisposero norme restrittive
che di fatto compromisero l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non meno severa
era la denuncia dei rischi dell’ingerenza statale sull’identità delle scuole
private: «Dalle recenti statistiche – così scriveva nel 1879 – si rileva come
gli istituti secondari liberi affidati alle provincie, ai comuni alle
corporazioni religiose, ai privati, gareggino per numero con quelli del
Governo; il che è splendido argomento del grande amore, che nutrono i
cittadini, per l’incremento degli studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma
non si può non provare ad un tempo un sentimento increscevole e doloroso in
veggendo come tanti nobili sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato
ingerimento del Governo, il quale introduce la monotona e rigida uniformità de’
suoi gli amici vostri; a siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii
potrebbero fare buon viso, anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona
ne avete fatto una brutta ed intollerabile Megera.” G. Allievo, La legge Casati
e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo
di un saggio del 1899 conferma la lettura di Allievo: «Or fa mezzo secolo fa
veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora
oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta
l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di
grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa
realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata
col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella
grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo
italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci
riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china
del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato
all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie
individuali» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro
Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 3. 430G. Allievo, La scuola
educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, cit., p.
86. 110 metodi, de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove
dovrebbe lasciare, che si svolga libera, varia e feconda la vita
scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista piemontese, dal
monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il Governo
disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il «pareggiamento»
delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a quelli statali,
era regolamentato da norme restrittive e obbligava all’omologazione con il
sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A chiunque si muova fuori
dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso irrevocabilmente l’adito
alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura scientifica e
letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur sempre di un carattere
pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento dell’animo e nulla più»432.
Allievo leggeva bene la situazione della concorrenza tra scuole statali e non
statali. La Talamanca, riprendendo il dibattito parlamentare su tali argomenti,
fa notare come le scuole private cattoliche avessero un numero maggiore di
studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore Menabrea che nel maggio
del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano sostenuto la licenza
liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e seminari433. Ma come
dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla Casati avrebbe portato,
come denunciato dall’Allievo, all’assottigliamento delle scuole private. Sulla
volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento è particolarmente
significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia universitaria proposta
dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo434. Il testo non riporta
la data di pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che sia stato dato
alle stampe nel 1899. Allievo critica nel testo della legge una profonda
ipocrisia. Da una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma nei fatti
esso rimaneva un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal resto della
legge. Infatti il progetto non segnava i limiti della “vigilanza” governativa;
sanciva che i confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal
Consiglio Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli
atenei); affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o Scuole
d'istruzione superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per
decreto; attribuiva al Ministero il potere di respingere le 431 G. Allievo,
Opuscoli pedagogici, cit., p. 25. 432 Ibid., p. 25. 433 A. Talamanca, La scuola
tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità
(1861-1878), cit., vol. I, p. 365. 434G. Allievo, L’autonomia universitaria
proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p.
3. 111 proposte di nomina o di conferma dei professi ordinari e
straordinari avanzate dalle Università. In questo modo, ironizza Allievo, «il
Governo lascia alle Università il governarsi da sé, purché si governino a modo
suo»435. Il pedagogista guarda così al modello medioevale, tornando a contestare
l’idea secondo cui gli istituti nascano per legge e non dalla libera
associazione436. Conclude citando Villari, correlando la mancanza di autonomia
con la crisi dell’Università437. Un altro aspetto che Allievo considerava
illiberale e nefasto era il controllo dei libri di testo, con cui il Ministero
poteva indirizzare politicamente e culturalmente l’insegnamento. Lo stesso
pedagogista pubblicò un pamphlet nel quale difese un saggio di un professore
siciliano438 che, stando alla sua narrazione, incorse ingiustamente nella
censura ministeriale439 a motivo del suo orientamento filo cattolico440. 435
Ibid., p. 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del disegno di legge, passiamo
all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove Università, Istituti o Scuole
d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o sezioni, non potrà avvenire se non
per legge”. Anche qui abbiamo un segno del tempo. Sentendo proclamare
l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il nostro pensiero corre
spontaneo alle gloriose Università medioevali, che sorsero e fiorirono non per
decreti di Stato, ma per libero valore di insigni maestri, di studiosi
discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della scienza, e ci
immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica libertà. Illusione!
A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà universitarie, o
Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o parlamentare. Non si osa
proclamare francamente e incisamente il principio, già sancito dal Belgio
coll'articolo 17 della sua Costituzione: “L'insegnamento è libero; ogni misura
preventiva è vietata”» Ibid., p. 7. 437 «Io potrei proseguire più oltre la mia
critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo,
emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è
irretita fra tali e tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza,
mentre la vigilanza dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha
norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza
governativa, non è qui luogo da ciò: questo solo panni di potere
ragionevolmente affermare, che questo disegno di legge conferisce al Governo
poteri assolutamente inconciliabili colla autonomia universitaria veramente
intera. Qualche anno fa Pasquale Villari scriveva: “Dal 1850 fino ad oggi,
colle libertà, eolie nuove leggi, regolamenti e mutamenti, con nuovi professori
italiani e stranieri, noi non siamo ancora riusciti a far nascere nelle nostre
Università una vera vita scientifica: esse non rispondono all'aspettazione
giustissima del paese. E perché, dimando io? Perché il Ministero arrogandosi il
diritto supremo ed assoluto della pubblica istruzione ed educazione, ha
governato a sua posta le Università invece di mostrarsi ossequente alla legge del
1850 non mai abolita, informata ai più larghi o giusti principii di libertà /in
nota cita il libro di Martelli, La decadenza dell’Università italiana”» Ibid.,
p. 10. 438Si tratta del libro di G.B. Santangelo, La Famiglia e la Scuola,
letture proposte alle allieve delle classi femminili, esercizi fondamentali di
lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo, Tip. M. Amenta, 1887. 439
G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G.
B. Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da
Giuseppe Allievo, Palermo, Tip. delle letture domenicali, 1888. 440 Nella
relazione del Ministro in cui si valutava negativamente il testo difeso
dall’Allievo, si accusava il libro di un certo «odore di sagrestia». A tale
accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah finalmente ecco qui la chiave
omerica, che apre l’arcano di una critica spigolistra, permalosa, assassina!
L’Autore per ragione pedagogica e per debito di programma ha qua e là nei suoi
libri (e non dalla prima all’ultima parola, come, bugiardamente asserisce il
Relatore) parlato di Dio e delle cose sante: dunque giù botte da orbo sulla sua
mal battezzata cervice! In verità addolora il vedere il Ministero suggellare
coll’autorità sua il giudizio di chi parla un linguaggio tanto plateale e
lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale del Regno e l’articolo 315
della vigente legge organica della pubblica istruzione! Ma già il sentimento
religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va proscritto in nome della nuova
Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni sclamava: “Parlatemi di Dio, sento
ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida: Non parlatemi di Dio, sento che mi si
guasta la digestione. Se il Santangelo fosse stato un prete spretato, che
avesse gettato il tricorno alle ortiche, o 112 L’unico momento in
cui sembrò potersi fermare la parabola monopolistica, fu la nomina a Ministro
dell’istruzione del senatore palermitano Perez nel luglio 1879. Il neoministro
mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della scuola volta a difendere
il principio della libertà d’insegnamento. L’Allievo prese subito le difese del
Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta piemontese del 20 agosto e
stese il saggio La riforma dell’educazione moderna mediante la Riforma dello
Stato, che trovò l’apprezzamento del neoministro441. Gerini documenta come
Perez avesse l'intenzione di chiamare Allievo stabilmente al Ministero, con lo
scopo di redigere una riforma della scuola e dell’Università incentrata sulla
libertà d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica intrapresa dai
suoi predecessori442. L’Allievo fu infatti presto coinvolto nella compilazione
di un nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di quello
precedente definito dal ministero Correnti nell’aprile 1870. Il nuovo
regolamento, nel quale Allievo ebbe «non poca e vivissima parte»443, intendeva
ricondurre gli esami di licenza liceale alla loro «primiera forma legale,
allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque
pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale
e del percorso triennio»444. Il suo scopo era quello di restituire più ampia
libertà agli studenti delle scuole non statali445. Il pedagogista documentò nel
saggio sulla legge Casati come il testo trovò il consenso della maggior parte
dei provveditori e dei presidi sui quali era stato fatto un sondaggio
preliminare446. Ma il progetto suscitò anche numerose polemiche447. Accusato
dagli ambienti liberal-democratici di voler favorire la scuola libera (e quella
cattolica in specie), a pochi mesi dal suo insediamento, già nel novembre 1879,
il Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse bruciato il
convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero incontrato ben
altro giudice ed altro mecenate» in G. Allievo, Clericalismo e liberalismo,
ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, cit., p. 19. 441 In un
autografo del 9 agosto 1879 il Ministro scrisse ad Allievo «...m’accorgo come
Ella sia fra quei pochi cui non travolge la mente l’idolatria dello Stato
onnipotente e onnisciente» in A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni Allievo,
cit., p. 53. 442 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., pp. 11-12.
443 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit, p.
36. 444 Ibid., p. 35. 445 Così il professore piemontese sintetizza i punti
salienti del Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso Regolamento,
che avrebbero radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di licenza,
sono: il quinto, che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in cui esse
furono svolte nel terzo anno, quando si siano superati gli esami di promozione
dei due primi anni; il settimo, che lascia libero il candidato privato di
iscriversi presso qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che lo
proscioglie dall'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso
triennio; il dodicesimo, che incarica i professori liceali della preparazione
di temi per le prove scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale»
Ibid., p. 36. 446 Ibid., pp. 36-37. 447 «Eppure quel regolamento era un
semplice richiamo alla legge Casati: si intendeva di ricondurre gli esami d
licenza liceale alla loro primiera forma legale, allorquando l'alunno privato
si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e
senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. E se
ne fece una questione di clericalismo, mentre era una questione di legalità»
Ibid., p. 35. 113 dicastero448. Il caso sembra confermare quanto
annotato da Giuliana Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere
fatale per la sorte di taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche
volta per la sorte degli stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad
incidere effettivamente negli indirizzi della scuola, la sua collaborazione con
il Ministero continuò negli anni seguenti. Come ricorda Prellezo: «nel 1884
esprime il suo parere sui programmi delle Scuole normali; nel 1885 viene
incaricato dal Ministro Coppino dell’ispezione delle Scuole normali del
Piemonte e della Liguria; nel 1887 lo stesso Ministro Coppino lo chiama a far
parte della Commissione reale per il riordinamento della scuola popolare»450.
Molto più duro fu il rapporto con il Ministro Paolo Boselli, che guidò la
Minerva dal 17 febbraio 1888 al 6 febbraio 1891, durante i due primi governi
Crispi. Qualche mese dopo il suo insediamento, Allievo criticò il Boselli a
motivo della censura di un testo già citato451. Questo iniziale contrasto probabilmente
convinse il pedagogista piemontese, chiamato a far parte della commissione
presieduta da Pasquale Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole
elementari, a non partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la
convinzione di rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione,
formata in larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista.
Qualche tempo dopo l’Allievo attaccò più severamente il Ministro con il
pamphlet dal titolo Lo Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di
un saggio con toni molto 448Così commentò l’Allievo: «Il Ministro Perez, rara
avis, ritornando al concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare
le scuole private ed a redimere gli istituti governativi da quel formalismo
artifiziato e da quel enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare
gl’intelletti giovanili e sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo
del lavoro la mano ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili
e subdole manovre, la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo
precipitarono ben presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano
adoprato alcuni anni prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di
libertà» in G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., p. 4.
449G. Limiti, Momenti e motivi della legislazione sulla scuola non statale in
Italia, in S. Valitutti (ed.), Scuola pubblica e scuola privata, Bari, Laterza,
1965, p. 133. 450 J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici
salesiani, cit., p. 396. 451Introducendo il lavoro Allievo denuncia: «Questa
turba liberalesca altro non vede e non adora che se medesima, e va gridando:
l’Italia siamo noi, noi siamo il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo
Stato: chiunque non ci appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è
contro di noi. Sì, i clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria
siete voi, voi i demolitori delle franchigie costituzionali e della
indipendenza politica, gli oppressori della libera attività dei privati
cittadini. Oh benedette rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava,
anelando, un ideale di unità e di floridezza sociale, di dignità e di
indipendenza nazionale, di vera e larga libertà politica e civile, sorretta dalla
religiosità e dall’integrità del costume! In omaggio a quell’ideale languivano
nelle carceri del dispotismo austriaco o cadevano decapitati sul palco i
martiri italiani; cimentavano sui campi lombardi la vita contro gli stranieri i
prodi. Orta quel santo ideale conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di
danaro, è buttato nel fango da una turba di affamati, di ambiziosi e di
settarii» in G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura
del prof. G. B. Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e
difesi da Giuseppe Allievo, cit. 452 Solo la prima parte del saggio, intitolata
Lo Stato educatore, è stata ripubblicata in G. Allievo, Opuscoli pedagogici,
cit., pp. 50-70. 114 aspri, ma composto da critiche precise e circostanziate
come è stato notato da Bonghi453. Nel saggio ribadì le accuse al sistema
statolatrico italiano e stigmatizzò una serie di provvedimenti emanati dal
Ministro: criticò il decreto 9 maggio 1889 il quale prescriveva che, per le
sole scuole statali, la licenza elementare fosse titolo sufficiente per
l’ammissione alla prima classe del ginnasio e della scuola tecnica; contestò la
circolare dell’8 agosto 1889 con cui, in mancanza di maestri legalmente
abilitati, dava la possibilità ai militari congedati che avevano superato
l'esame prescritto per gli aspiranti sergenti, di insegnare nelle scuole
assicurando la metà della copertura con fondi ministeriale, al contrario di
quanto avveniva per gli altri insegnanti; protestò contro una circolare
ministeriale nella quale, a dispetto dell’art. 325 della legge Casati,
s’impediva ai parroci di presiedere gli esami di istruzione religiosa;
recriminò che il corso di pedagogia non risultasse tra i corsi obbligatori per
il conseguimento della laurea in Lettere e Filosofia454. Criticò, inoltre, i
toni di una circolare del 20 febbraio 1889 finalizzata al riordino degli
Orfanotrofi e dei Conservatorii e stigmatizzò la «faziosità» con cui il
Ministro gestì i trasferimenti tra le diverse Università per influenzare le
vicende concorsuali. Questi elementi condussero Allievo a tacciare Boselli di
«cesarismo scolastico». In conclusione avanzò una proposta provocatoria e
risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero della pubblica istruzione va
annullato»455. La proposta dell'abolizione del dicastero, peraltro avanzata già
in Parlamento il 18 giugno 1867 dal deputato libertario e socialista Salvatore
Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di Allievo la condizione
ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale
soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana456.
Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi
osserva: «L’Allievo è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha
scritto della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si
trattano, da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia
dell’educazione, teorica e pratica, non passi inosservato. Quello che
annunciamo, è diviso in due parti. Nella prima tratta la questione se e quale
parte spetti allo Stato nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera,
che la suprema autorità scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta
un ufficio complementare e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e
talvolta, il che non è bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di
Pubblica Istruzione. Né si può negare che una buona parte dele osservazioni sia
giusta, e a ogni modo consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi,
che, prima o dopo, non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al
concetto e alla condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari,
come appaiono nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli
vi rivolga la sua attenzione» R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà
d’insegnamento, cit., p. 603. 454 Sullo stesso tema il pedagogista aveva già
scritto un pamphlet: G. Allievo, Il ministro Coppino e la pedagogia, Torino,
Borgarelli, 1878. 455 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit.,
p. 44. 456 Concludendo il saggio Allievo ricorda la sua fedeltà alle
istituzioni dello Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso
di venir meno ala ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne
fa prova manifesta il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello
Stato, per le patrie istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la
nazionale indipendenza. Ho censurato gli atti governativi adoperando quella
crudezza di forma, che risponde alla gravità del male, esercitando un diritto,
che lo Statuto conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere
impostomi dalla carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho
parlato il linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca
chi deve. 115 articolo del 1910, intitolato Salviamo la scuola!,
nel quale dopo essersi soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo
ordinamento illiberale ritornò a prospettare la soppressione del Ministero457.
Un attacco così diretto non restò senza conseguenze. All’opuscolo del
pedagogista replicò infatti un libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore –
botte di un educatore – risposte di un educato458 che, stando al Gerini,
sarebbe stato redatto negli uffici del ministero. La risposta alle critiche è
non solo pungente quanto, del resto, le denunce dell’Allievo, ma scade a
livello di attacco personale. Oltre a difendere ogni singolo provvedimento
annotato dallo studioso vercellese, l’autore si abbandona alla denigrazione
della sua attività didattica e scientifica: «Ha una famiglia pedagogica
l’Allievo? No. E la ragione è una sola, ed è naturale e chiara, non si può dar
famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma l’Allievo non ha amore, se non
verso sé medesimo»459 [...] «Il sentimento che noi scorgiamo nel prof. Allievo
non è, no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo muove a far
troppo di sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza forse
accorgersene, l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e rigirandosi, egli
nella sua vaga visione si esalta così, che gli par di poggiare su, ad un punto
superiore a quello di chi nella scala sociale e nella realtà dei fatti è più
alto di lui»460. L’acida polemica continuò con un ulteriore passaggio in una
replica dell’Allievo nel breve saggio: Risposte di un educato: un educato. Fin
dalla prima pagina lo scritto era poco conciliativo, sia nel difendere le sue
tesi sia nel contestare le accuse, così chiosando ironicamente lo statalismo
ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti da un governo così raccolto
ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle leggi ed ordinato in ogni atto
suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso della libera attività
de’ cittadini All'educazione nazionale peggior ventura che quella del Ministero
di Paolo Boselli non è toccata mai» Ibid., p. 45 457 «Il dilemma si affaccia
irrevocabile. Delenda Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica
istruzione si impone imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra
grande ammalata, che è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si
giunge a smantellare la roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla
Minerva. Dacchè il parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di
un Ministero, liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di
leggi e regolamenti e decreti e circolari scolastiche, che intralciano il
regolare processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli
studi» Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino
trimestrale della “Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D, n. 2,
1910, pp. 14-15. 458Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un
educato, Roma, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1890. 459 Ibid., p. 54. 460
Ibid., p. 55. 116 segnatamente nel campo pedagogico, che alla
famiglia non venga impedito di comporsi nell’ordine suo ed adempiere la sua
missione educatrice»461. L’anno seguente tornò a criticare il Ministro Boselli
sulle pagine de Il nuovo Risorgimento462. Alle accuse precedenti ne aggiunse
altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla scuola dell’infanzia,
la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore scolastico di prima
classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua ordinanza deferiva
l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la proposta dei temi per le
prove scritte della licenza liceale, offendendo l’articolo 38 del R.
regolamento 23 ottobre 1884 allora vigente»463. Si trattava secondo l’Allievo
della persistenza di una serie di «abusi del potere esecutivo», in cui scorgeva
il tradimento dello Stato di diritto e della libertà: «L’Italia è tutta infesta
da una turba di pseudo-liberali, che la libertà fanno strumento di servitù, e
della patria, delle franchigie costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno
sgabello per salire in alto sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il
pubblico costume e le istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un
altro episodio che segnò lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di
Allievo, quando il dicastero era guidato dall’onorevole Credaro. Nel corso del
1912 il pedagogista, ormai anziano e con poche forze, chiese al Ministero che
gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il pedagogista Romano, «ex»
spiritualista e cattolico convertito al positivismo. Lo studioso era già stato
bocciato in una serie di concorsi per conseguire la libera docenza a Torino,
Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti e cinque membri della
commissione esaminatrice diedero esito negativo. La nomina di un candidato
simile come suo supplente, peraltro agli antipodi rispetto alla sua linea
pedagogica, portò l’Allievo a prendere dura posizione contro la Facoltà e il
preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in pensione, per
impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo una serie di
articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione di Vercelli,
Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium, fu pubblicato
un pamphlet sulla vicenda465. Furono inserite anche due lettere inviate da
Allievo a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà
dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva
ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di Allievo sulla vicenda è
molto significativa: 461G. Allievo, Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina,
1890, p. 7. 462 G. Allievo, Il Ministro Boselli e la legge, «Il nuovo
Risorgimento», 1890-1891, pp. 165-172. 463 Ibid., p. 168. 464 Ibid., p. 171.
465 Giuseppe Allievo e la sua cattedra, Torino, Tip. S, Giuseppe degli
artigianelli, 1912. 117 emergono sia un vivo attaccamento
all’impegno pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente
universitario. Nelle sue ricostruzioni Allievo attribuì a Giovanni Vidari,
allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la
responsabilità dello smacco subito467, collegando l’appoggio da parte del
preside del Romano e un generale poco rispetto dimostrato anche con altri
episodi, in virtù della sua aderenza ai principi spiritualisti e alla sua
fede468. Un altro testo in cui attacca il Ministero è il testo Del realismo in
pedagogia469, nel quale contesta le posizioni espresse da De Sanctis in uno
scritto del 1878 pubblicato ne la «Gazzetta letteraria di Torino», in cui lo
statista napoletano sosteneva come la classe magistrale dovesse ispirarsi ad un
realismo di impronta pragmatista. L’Allievo era invece convinto che l’anima
della scuola poteva essere un solido ideale umano. Senza valori certi, 466 Si tratta
di una lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in
sua difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia
rapito alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia
vita universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei
continuato nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un
rifiuto di tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai:
Basta così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla
dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona.
[...] Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di
cinquant’anni mi fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della
verità, e vedendo scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di
giovani studiosi che nel volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera
parola, mi pare quasi che la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si
spegne, ma semplicemente si trasforma. [...] Veggo che la mia più che
attuagenaria esistenza volge al tramonto, ma io mi esalto pensando al Divino
Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo vivente, al Redentore dell’umanità»
Ibid., pp. 6-7. 467 Dopo aver accennato i concorsi falliti da Romano, Allievo
commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente disastroso, non
avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro stessi fra i
miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e difeso a spada tratta,
in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo liquidato! Ma che? Questi
medesimi lo proposero per mio supplente e poi riuscirono ad insediarlo sulla
Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante. Viva la libertà del dire e del
disdire! Il Romano deve il presente suo splendido successo al Presidente
Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la scelta del mio
supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei altri professori
presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero voto contrario) che
fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i concorsi universitari di
pedagogia specie in quel disastroso di Catania» Ibid., cit., p.12. 468 Allievo
riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in
occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: «Egli mi rivolse un
saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il
menomo rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le
mie dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero
ritirate. L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io
possa lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei
studi prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul
teismo cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra
per fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio
a me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli
studi tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella
realtà della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del
soprannaturale, nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti
magni di Ferrante Aporti e di Giovanni Antonio Rayneri. Sì, io serberà sempre
viva la mia ragione filosofica sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi
vi vantate razionalisti e calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi
non la possiede; voi esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le
dottrine, fossero pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano
non trova grazia presso di voi.» Ibid., p. 21. 469 G. Allievo, Del realismo in
pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878 inserito in Id., Opuscoli pedagogici,
cit., pp. 422-426. 118 si sarebbero abbandonate le giovani
generazioni a progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste,
condannandole all’alienazione. All’inizio del Novecento la battaglia
dell’Allievo in favore della libertà d’insegnamento si tradusse – per quanto
egli fosse già avanti negli anni – nel sostegno alla fondazione, nel 1907,
dell’associazione «Unione pro schola libera. Società nazionale per la libertà
d’insegnamento», fermamente voluta da don Giuseppe Piovano e dal prof. Rodolfo
Bettazzi, finalizzata diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo
statalismo e i suoi fautori. Allievo fu scelto come «presidente generale
effettivo», carica che ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontanò
progressivamente dal nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui
continuarono a legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Nel 1910
iniziò ad essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà
d’insegnamento470, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato
inizialmente in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio
ebbero notevole risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà
scolastica che stava registrando in quegli anni una notevole ripresa471. In un
convegno svoltosi a Genova tra il 28 e il 30 marzo 1908, dal titolo Istruzione
ed educazione cristiana del popolo italiano gli eredi dell’Opera dei Congressi,
confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono l’iniziativa dell’Allievo e nella
seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto rapporto con l’Unione
torinese. «La Civiltà Cattolica» – che a lungo aveva praticamente ignorato le
tesi dell’Allievo – dedicò al Convegno un articolo, riportando le conclusioni
dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’Allievo e dell’«Unione pro
schola libera»472. Appaiono significative le affermazioni conclusive
dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più importanti
rappresentanti del cattolicesimo liberale francese473. 470 G. Chiosso (ed.), La
stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., p. 398. 471 G.
Chiosso, Gentile, i cattolici e la libertà di insegnamento nei primi anni del
Novecento, in G. Spadafora (ed.), Giovanni Gentile. La pedagogia, la scuola,
Roma, Armando, 1997, pp. 309-315. 472 Nella seconda delle tre risoluzioni fu
scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera sorta in Torino
sotto gli auspici del venerando prof. Allievo, e a tutte le altre istituzioni
aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa voti che
l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata dai padri
di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente dall’azione
illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare all’Unione stessa
l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che valgano a salvare
quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente legislazione e di
ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti, che servano a
sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro l’insegnamento
privato» Il congresso cattolico di Genova, «La Civiltà Cattolica», quaderno
1388, 1908, vol. II. pp. 140-150. 473 Scrive l’autore dell’articolo: «Dopo
queste semplici osservazioni intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai
lettori di apprezzare l’importanza della seconda risoluzione del congresso; in
cui si traggono con un senno pratico degno di ogni encomio, le conseguenze
legittime del principio fissato nella prima. Quale campo fecondo di attività,
non meno benefica che urgente nelle singole deliberazioni di questa
seconda 119 Fu a partire da questo periodo che il pensiero
pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere apprezzato e diffuso
anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale. Lo confermano una
serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica»474, l’attenzione delle
«Rivista di Filosofia neoscolastica»475, i meriti riconosciutigli da Filippo
Meda476, e un celebre saggio di Giuseppe Monti, La libertà della scuola (1928)
in cui si trovano citati gli scritti di Allievo e si ricordano le sue battaglie
scolastiche477. Nel frattempo Giuseppe Allievo aveva lasciato questo mondo, il
24 giugno 1913. risoluzione! Le ponderino attentamente i cattolici
italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi sacerdoti, in Chiesa e
fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro apostolato, finché il popolo
se ne impossessi e ne sappia fare buon uso specialmente in tempo di elezioni:
da ciò dipende la salvezza della gioventù e della patria! Noi ne siamo sì
profondamente persuasi, che non possiamo fare a meno di mandare da queste
pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro schola libera di Torino e
al suo venerando presidente prof. Giuseppe Allievo, il più illustre pedagogista
che oggi vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed
educative veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al
merito, perché ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo –
sassone e teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo
nome tramandarsi ai posteri con quelli del Montalembert, del Falloux e del
Dupanloup per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento
per l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova, cit.. pp. 147-148. 474In tre
articoli pubblicati nel 1915 sulla pedagogia contemporanea sono citate le opere
di Allievo e le sue critiche al positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna,
cit., pp. 530-543; Finalità educative, quaderno 1568, 1915, vol. IV, pp.
129-146; L’opera educativa positivista, quaderno 1570, 1915, vol. IV, pp.
397-411. 475 G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe
Allievo, cit., pp. 208-209. 476 F. Meda, Universitari cattolici italiani, cit.,
pp. 197-214. 477 G. Monti, La libertà della scuola, principi, storia,
legislazione comparata, Milano, Vita e Pensiero, 1928, pp. 4, 7, 206.
Antropologia e di pedagogia nell'Università di Torino
Torino,Carlo,Clausen 1896. In un'opera assai importante pubblicata nel 1891 (1)
dall'illustre prof. Allievo, della quale ho a suo tempo discorso in questa
autorevole Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime origini dei problemi
psico. fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria, la quale
richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più gravi
problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine storica e
psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei limiti,l’A.poneinsodo
ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per dichiarare quindi l'ana.
logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo interiore del l ' a n i m
a. M a s e il m o n d o e s t e r n o e d il m o n d o p s i c o l o g i c o i
n t e r i o r e si rispecchiano e si rassomigliano sotto certi riguardi, tra
l'anima ed il corpo nell'uomo, intercedono analogie assai più intime, spiccate
e na• turali, intorno alle quali si trattiene a lungo l'Allievo. Ora uno dei
più cospicui punti di corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo
di sviluppo attraverso le successive età della vita umana: parallelismo però,
che non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra
corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada
edilcorposano,tralemalattiedell'anima oquelledel corpo.L'A.
(1)Studiantropologici– L'uomoedilCosmo Unvol.in8gr.dipag.450circa Torino
Tipogr.Subalpina editrice. Psicologia. Studi psico-fisiologici. Memoria
di GiusePPE ALLIEVO, professore BOLLETTINO PEDAGOGICO E FILOSOFico.
89 ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo della
medesima,elasanitàdelcorpo,nell'equilibriooperosodelle funzioni fisiologiche.
Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di patologia e di
terapeutica,corrispondenti alle due sostanze componenti l'essere umano.Anche
iduestati dellavegliae delsonno sicorrispon dono fra di loro, essendochè su
ciascuno di essi le potenze dell'anima
elefunzionidell'organismosimostranosottoforme specialiedana. loghe.Lo
spiritopoiedilcorpointuttoilcorsoascensivodelloro perfezionamento si prestano
vicendevoli uffici, poichè lo spirito deve ai sensi esterni la prima conoscenza
del mondo sensibile corporeo; alla parola, che è un segno sensibile ordinato ad
esprimere un intel ligibile,losvilnppodelsuopensiero;alla mano
(nellacuistruttura Elvezio non dubitava di riporre la superiorità dell'uomo sul
bruto) lo strumento della sua attività artistica e morale. Lo spirito alla sua
volta ricambia dei suoi servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria
della persona umana,e conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua
costitutiva essenza. Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo
governa, è reso capace di compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti,
sia che venga riguardato nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo
si consideri nella speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi
sensi particolari.A questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la
molteplice varietà dei fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro
essere, e che forniscono argomento di una
specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee
generali,nonsenzaavvertirechediessaainostri tempitrovansicenai nelSaggio
sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale del Cerice,
e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Ermannu Lotze.
La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la
psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce
l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a
studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana
che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due
soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni
riponsi in una sostanza o n e i f e n o m e n i s t e s s i: n e l p r i m o c
a s o a b b i a m o il d i n a m i s m o, n e l s e condo ilfenomenismo.Iiprimo
può essere monodinamismo,se ricon duce tutti i fenomeni umani ad una sola
sostanza, la quale potendo essere o l'anima od ilcorpo, bipartisce il
monodinamismo in animismo e materialismo: duodinamismo se pone una differenza
essenziale tra ifenomeni mentali ed ifisiologici. Il fenomenismo
si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e voluzionistico,secondo che
riconosce una linea di distinzione traidue ordini di fenomeni, ovvero sostiene
che sitrasformano gli uni ne gli altri. L'Allievo esamina con siogolare
lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste diverse classi di
sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti rappresentanti; ed
è degno di consi derazione l'esame della dottrina di Rosmini su questo punto.
Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il duodinamismo e s c
l u s i v o d a l t e m p e r a t o. O r a s e il p r i m o n o n r i s o l v e
il p r o b l e m a p e r c h è separa l'uno dall'altro idue principii
costitutivi dell'uomo, per guisa
chel'animarazionaleècausaunicaessasoladituttiesoliifenomeni mentali e non
interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio
logiciedanimali,ilprincipiovitalepoièessosolo ilgeneratore dei fenomeni della
vita corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali; il secondo pel
contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi dell'uomo,
e riconosce ad un tempo la loro
vicendevoleinfluenza,talchèifenomenimentalisicompenetrano coi fenomeni animali
e si condizionano a vicenda, dà un'equa soluzione al problema. a C o s i, c o n
c h l u d e l ’ A., il c o n c e t t o d e l l a p e r s o n a l i t à u m e n
a, v a l e a dire di un soggetto sostanziale fornito d'intelligenza e di libera
volontà, èilsolo,checonciliila'molteplicitàdei fenomoni coll'unitàdelloro umano
soggetto, sicchè questi due termini nello sviluppo della vita umana, si mantengono
indiegiungibili, e si rischiarano l'un l'altro. Su questo concetto si fonda
appunto la notissima divisione della psi cologia in empirica e razionale.» Tale
è nelle sue linee generali lo studio dell'insigne filosofo subal pino che
mostra un ingegno vigoroso sempre ed acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza
fatta alle altre opere di lai, sarà rinnovata per questa memoria,nella quale si
scrutano ipiù ardui problemi della scienza dell'uomo.Giuseppe Allievo.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Allievo” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689459788/in/photolist-2mLHHHe-2mLGJnr-2mLJQmk-2mLDz3J-2mLCQLJ-2mLF5SC-2mKR9ZM-2mLGjg5-2mKQDnb-2mKLVA3-2mKBGvU-2mKNBXW-2mKwwoA-2mKBEmt-2mKHtgX-2mKQ5j7-2mKGGCy-2mPsh7f-2mKLYZ2-2mKGTYe-2mKF6Rp-2mKNjCv-2mKJPBV-2mKBLhJ-2mKAoGK-2mKN88B-2mKRu2r-2mPNG7N-2mKyErQ-2mKuZ8r-2mKwdUT-2mKAsyK-2mPMdNs-2mKEJsY-2mKEPgR-2mKbpiZ-2mKbok1-2mKj2vX-2mKgT2F-2mKbkhx-2mKbfaU-2mKjVho-2mJLMNt-2mJpFSS-2mJqjKS-2mGnP2f-2mKBZyy-2mKyJgk-E4u3XA-BUPaNy
Grice ed Allmayer –
colloquenza – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo).
Filosofo. Grice: “I like Allmeyer; especially his rambles on Roman philosophy
when he taught at Rome – ‘La filosofia romana’ has a very datable beginning: that
infamous embassy that terrified the old Romans but charmed the younger ones,
such as Scipione!” -- Grice: “Due to
Gentile, Allmaayer was forced to focus on Italian philosophy, and Gentile
allowed him to call Galileo a ‘filosofo’! – Grice: “Allmayer’s pragmatics is
Griceian: there is a colloquium, when a ‘soggeto’ empirico recognises another
soggesto empirco (il tu del’io) – and they shape a ‘noi’ – for this he appeals
to concepts of objectivity as intersubjectivity – If I imply, it is the
UTTERE’s expression and implication that is primary, but I INTEND my
implicature to be reccognised by the ‘tu’ – and this does not ‘alienate’ my
concrete subjectivity – it does not vanish – it is merely re-invoked by the
other – ‘invoke’ being a linguistic term – vox –: this is what the ‘assoluto’
stands for, that terrified Bradley!” -- Grice:
“I love the fact that Allmayer taught the history of logic, with a focus on
‘stoic’ logic – and it’s only natural that ‘stoicismo’ was his favourite stage
in Roman philosophy!” – Grice: “Oddly, Allmayer has a genial commentary on my
favourite of Arisotlte’s treatises and the foundation of my method in
philosophical psychology – “De Anima””! Fu insieme a Gentile, e altri filosofi,
uno degli esponenti di spicco della corrente filosofica detta attualismo. Nacque
a Palermo da Giuseppe Emanuele Fazio, originario di Alcamo (ex garibaldino e in
servizio presso il Museo nazionale di Palermo) e da Felicina Allmayer, di
origine tedesca, ma residente in Italia. Fin da ragazzo si interessò alla
storia dell'arte; a 23 anni si laureò in giurisprudenza ma poiché era
appassionato alla filosofia, iniziò subito gli studi filosofici e a frequentare
la Biblioteca filosofica di Palermo, dove ebbe modo di conoscere Giovanni Gentile.
Nel 1910 l'Allmayer si laureò in filosofia e iniziò la carriera come
professore: nel 1914 passò al liceo "Umberto I" di Palermo, dove
cominciò la sua ricca produzione saggistica che lo rese famoso in Italia.
La sua carriera continuò a Roma; subito dopo la caduta del fascismo, nel
novembre 1943, il Fazio Allmayer fu sospeso dall'insegnamento; per essere
reintegrato dopo la fine della guerra. Dopo un periodo travagliato della
sua vita, negli anni Cinquanta riprese la molteplice attività di saggista e critico,
oltre che di docente. Nel 1915 si era sposato con Concettina Carta, con
cui ebbe tre figli. Nel 1953, rimasto vedovo, si sposò in seconde nozze con
Bruna Boldrini che, conosciuta col cognome acquisito, è stata tra i maggiori
critici del Fazio e ne ha promosso un'edizione completa delle Opere (I-XXII,
Firenze 1969-1991). L'Allmayer, colpito da infarto tre anni prima, morì a
Pisa nel 1958. In memoria di questo insigne filosofo e pedagogista di
origine alcamese, il Liceo Statale delle Scienze Umane, Economico Sociale,
Linguistico, Musicale (ed autorizzato per le Arti coreutiche) è stato
intitolato al suo nome. Carriera 1910: Professore presso il liceo di
Matera 1911: professore al liceo di Agrigento, vinse nello stesso anno una
borsa di studio per perfezionamento presso l'Roma 1914 docente presso il liceo
"Umberto I" di Palermo 1918: libero docente di storia della filosofia
a Roma 1919: trasferito a Palermo, fu condirettore del Giornale critico
della filosofia italiana, fondato da Gentile e diretto dallo stesso prima di
essere ministro. 1921-1922: docente di filosofia presso l'Palermo 1922-1924:
docente di storia della filosofia (con corsi su Bacone e sui sofisti e Platone)
presso l'Roma, in sostituzione di Gentile e incaricato di pedagogia al magistero
di Roma. 1924: collaboratore di Gentile per la riforma scolastica e, con
l'incarico di ispettore centrale degli istituti medi di istruzione, ebbe
affidata la redazione dei programmi della scuola media. 1925: professore non
stabile di storia della filosofia medievale e moderna 1929: ebbe la cattedra di
filosofia teoretica in sostituzione di Pantaleo Carabellese 1939: preside della
facoltà di lettere 1925-1931: commissario per l'amministrazione straordinaria
della sezione arti decorative, annessa alla Scuola artistica e industriale di
Palermo dal 1931 in poi: commissario governativo per l'Accademia di Belle Arti.
1943: sospeso dall'insegnamento e reintegrato dopo la fine della guerra 1951:
cattedra di storia della filosofia dell'Pisa 1954: direttore dell'istituto di
filosofia. Pensiero filosofico Il tramonto del Positivismo e l'amicizia con
Gentile lo portarono a un impegno ideologico a favore dell'attualismo che
sembrava poter portare a un rinnovamento culturale e civile; secondo
l'attualismo, era l'atto del pensare in quanto percezione, e non il pensiero
creativo in quanto immaginazione, a definire la realtà. Assieme a Gentile
e Guido De Ruggiero, fu uno dei sostenitori di quell'attualismo che "aveva
tutta la seduzione romantica e tutta la fiducia ottimistica a trarre a sé... i
migliori dei giovani scontenti, quelli che non si muovevano verso D'Annunzio o
Marinetti", e nel 1914-15 appoggiò apertamente, anche con conferenze,
l'intervento dell'Italia nel conflitto mondiale, ma venne riformato alla visita
militare. Nelle parole di Bruna Boldrini, moglie del filosofo, che
tendeva a sottolineare la sostanziale autonomia della ricerca del Fazio dalla
metafisica di Gentile, il Fazio-Allmayer giunge a giustificare l'esperienza
storica come vita concreta, in cui le molteplici e diverse forme confluiscono
in un rapporto intersoggettivo, sintesi etico-estetica, nella specificità di
ciascuna (p. 35). D'altronde, anche Benedetto Croce, fin dal 1922, in una
recensione del saggio Contributo alla teoria della storia dell'arte (poi in
Opere, IV, 103-113), metteva in dubbio
che si potesse parlare ancora di idealismo attuale per il Fazio. Nel
secondo dopoguerra, in un momento denigratorio dell'idealismo, e maggiormente
dell'attualismo, che era accusato di connivenza col fascismo, la posizione del
Fazio fu di aperta difesa dell'attualismo e di un fedele sviluppo del proprio
pensiero. Insegnare è non morire Insegnare vuol dire non morire, ma
entrare in un processo di vita che ci precede e ci prosegue nel tempo: su
questa certezza di Vito e Bruna Fazio-Allmayer, si basa una spinta pedagogica
di tipo socratico, per cui il maestro si sente un uomo tra uomini, lui più
esperto, e loro più giovani, ma protesi verso il nuovo. L'educatore, nel
suo farsi persona, diventa storico di se stesso, nel rapporto con i propri
alunni li deve riconoscere nella loro singolarità, piuttosto che livellarli.
Aprirsi agli altri è il contributo al vivere: allorché viene meno questo senso
di solidarietà col tutto, si crea in noi il disagio dell'angoscia. Quindi
il senso della vita è quello della speranza e dell'amore: gli altri individui
non sono antitetici al proprio io, ma un indispensabile sbocco del proprio io.
Ognuno di noi si fa compossibile agli altri per ciò che dà e per quello che
ripiglia dagli altri, così il particolare si risolve nell'universale e
quest'ultimo nel particolare. Per Vito Fazio-Allmayer la speranza è nella
certezza che il futuro è nel presente: sono vecchi, quindi, gli insegnanti che,
presi dal passato, trovano disprezzabile tutto ciò che si produce nel presente,
e sciocchi i giovani, e sbagliato ogni nuovo pensiero. La scuola è vecchia se
non riesce a vedere il mondo nuovo e in rinnovamento; l'insegnante che si
racchiude nelle memorie del passato, manifesta la malattia mortale che si
chiama vecchiaia. Fondazione La Fondazione Nazionale "Vito
Fazio-Allmayer” è sorta a Palermo nel 1975, creata da Fanny Giambalvo e Bruna
Fazio-Allmayer, che venne in Sicilia dalla Toscana per insegnare Filosofia
morale e Storia della Pedagogia; tale istituzione è stata fondata per onorare
il ricordo del marito e per suscitare nelle giovani generazioni l'interesse per
la filosofia. Opere Su: La Sicile illustrée, articoli e saggi (1905-1908)
Su: Rassegna d'arte, articoli e saggi (1905-1908) Studi sul pensiero antico;
Sansoni, 1974 Galileo Galilei; R. Sandron, 1911 Galileo Galilei, Palermo 1912,
poi in Opere, X, 51-209; Galileo
Galilei; Sansoni, 1975 Novum organum: Bacon, Francis; Laterza & Figli, Dell'anima
Aristoteles; Laterza, la formazione del
problema kantiano, in Annali della Bibl. filosofica di Palermo, fasc. I, 43-89, poi in Opere, IV, 191-235) La scuola popolare e altri discorsi
ai maestri: 1912 e 1913; Francesco Battiato, 1914 Introduzione allo studio
della storia della filosofia; Zanichelli; 1921 Materia e sensazione (Sandron,
Palermo 1913, poi in Opere, II) Materia e sensazione; Sansoni, 1969
Introduzione alla filosofia; Sansoni, 1970 La teoria della libertà nella
filosofia di Hegel (Messina 1920, poi in Opere, XIV) Saggio su Francesco Bacone
(Palermo 1928, poi in Opere, XI) Saggio su Francesco Bacone; 1979 Il problema
morale come problema della costituzione del soggetto, e altri saggi (Firenze,
Le Monnier, 1942, poi in Opere, IV, 952)
Il problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri saggi;
Sansoni, 1971 Il significato della vita; Sansoni, 1955 Il significato della
vita; 1988 Divagazioni e capricci su Pinocchio; G.C. Sansoni, 1958 Divagazioni
e capricci su Pinocchio; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1989 Ricerche
hegeliane; G. C. Sansoni, 1959 Ricerche hegeliane; Fondazione nazionale Vito
Fazio-Allmayer, 1991 Storia della filosofia; G.B. Palumbo, 1942 Storia della
filosofia; Sansoni, 1981 I vigenti programmi della scuola elementare: Commento
e interpretazione; Firenze, F. Le Monnier, 1954 Morale e diritto; Sansoni, 1955
Discorsi, lezioni; Sansoni, 1983 Saggi e problemi; Sansoni, 1984 Recensioni e
varie, 1986 La Pinacoteca del Museo di Palermo e altri saggi; notizie dei
pittori palermitani, Palermo 1908 Prolusioni e discorsi inaugurali; Sansoni,
1969 Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, 1982 Alcune lezioni edite e
inedite; Sansoni, 1983 Spunti di storia della pedagogia Moralita dell'arte:
rievocazione estetica e rievocazione suggestiva (con 53 postille); Sansoni,
1953 Moralita dell'arte e altri saggi; Sansoni. 1972 Logica e metafisica;
Sansoni, 1973 La storia; Sansoni, 1973 Lettere a Bruna; Fondazione nazionale
Vito Fazio-Allmayer, 1992 Lettere a Gentile; Fondazione nazionale Vito
Fazio-Allmayer, 1993 Introduzione allo studio della storia della filosofia e
della pedagogia; Sansoni, 1979 La teoria della liberta' nella filosofia di
Hegel; Giuseppe Principato, 1920 Opere; Sansoni, 1969 Commento a Pinocchio; G.
C. Sansoni, 1945 Il problema Pirandello; Firenze, Belfagor, 1957
Note //treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/ E. Garin, Cronache di filosofia italiana...,
I-II, Bari 1966, ad Indicem; //fazio-allmayer/index//
treccani,//treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/.
fazio-allmayer,//fazio-allmayer/index//. Vita e pensiero di V. F., Firenze
1960; 2 ediz., Palermo 1975, con degli
scritti del e sul F., alle 205-224; A.
Massolo: Fazio e la logica della compossibilità, in Giornale critico della
filosofia italiana, XXXVI (1957),
478-487; C. Luporini, Ricordo di V. F., in Belfagor, XIII (1958), 360 s.; Giardina Francesco: Intenzionalità
ermeneutica e compossibilità nell'attualismo comunicazionale di Vito
Fazio-Allmayer: implicazioni pedagogiche; Edizioni della Fondazione nazionale
Vito Fazio-Allmayer1996 A. Guzzo, V. F. e Guido Rossi, in Filosofia, IX
(1958), 494-499; Giornale critico della
filosofia italiana, (scritti di G. Saitta, A. Massolo, S. Caramella, F.
Albeggiani, M. F. Mineo Fazio, B. Fazio-Allmayer Boldrini); A. Santucci:
Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna 1959, 169 s.; A. Negri, In ricordo di V. F., in
Filosofia, XIII (1962), 527-530; E.
Garin, Cronache di filosofia italiana..., I-II, Bari 1966, ad Indicem; B.
Fazio-Allmayer: Esistenza e realtà nella fenomenologia di V. F., Bologna 1968;
L. Sichirollo, Filosofia e storia nella più recente evoluzione di F., in Per
una storiografia filosofica, II, Urbino 1970,
461-484; E. Giambalvo, La metafisica come esigenza in Bergson e
l'esigenza della metafisica in V. F., Palermo 1972; Carlo Sini: Studi e
prospettive sul pensiero di V.F. Allmayer; estratto da "il Pensiero"
ist. editoriale Cisalpino, Milano-Varese Atti del 1º Congresso nazionale di
filosofia "V. F., oggi", Palermo 1975. Atti del Convegno nazionale su
l'estetica come ricerca e l'impegno dell'artista nel suo mondo, Palermo 1984
(con interventi di L. Lugarini, U. Mirabelli, L. Russo Attualismo (filosofia) Giovanni Gentile Guido
De Ruggiero Alcamo treccani, http://treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani
del XXI secoloPedagogisti italianiInsegnanti italiani del XX secoloInsegnanti
italiani Professore. Vito Fazio Allmayer. Allmayer. Keywords: colloquenza,
colloquio, dialettica, dialogo, hegel – fascism – he was forced to retire after
the fall of fascism, altmeyer wurd allmeier Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Allmayer” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51792902874/in/dateposted-public/
Grice ed Alminusa – i nobili siciliani –
filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania).
Filosofo. Grice: “Cutelli is like Hart, a jurisprudent, rather than a
philosopher!” Si laurea a Catania. Un saggio e il “Patrocinium pro regia
iurisdictione inquisitoribus siculis concessa”. Vuole escludere dal
"privilegium fori" numerosi delitti come la resistenza a pubblico
ufficiale, ed omicidio anche tentato.
Altro saggio: “Codicis legum sicularum libri quattuor” dove manifesta
un'idea di politica amministrativa che mira a creare un centro unificatore e un
ministro superiore, cui fosse affidato il compito di amministrare e dirigere la
monarchia, ottenendo il rilancio economico, la riduzione delle spese e il
riequilibrio del conto fiscale. Si recò a Napoli. Acquista il feudo di Mezza
Mandra Nova. Altro saggio: “Catania
restaurata”. Altro saggio: “Supplex libellus.”Acquistò il feudo di Alminusa e
il borgo già creato da Giuseppe Bruno, figlio del fondatore Gregorio, per atto
del notaro Pietro Cardona di Palermo. Ad Aliminusa dota la chiesa di Santa Anna
e stabilisce un legato di maritaggio di dieci onze l'anno in favore di una
figlia dei suoi vassalli, come si scorge dal suo testamento redatto innanzi al
notaio Giovanni Antonio Chiarella di Palermo. Acquista il feudo di Cifiliana. Il suo testamento rivela la volontà di
destinare una parte dei suoi possedimenti alla fondazione di un collegio
d'huomini nobili in cui si dovesse studiare filosofia: il Convitto Cutelli, o
Cutelli.A Catania gli sono dedicati una piazza sita sul percorso della centrale
via Vittorio Emanuele II e il Liceo Classico "Mario Cutelli". Dizionario biografico degli italiani. Una utopia di governo. La formazione
dell'élite in Sicilia tra Settecento ed Ottocento. Il "Collegio
Cutelliano" di Catania, in "Quaderni di Intercultura". Conte di
Villa Rosata. Conte Mario Cutelli di Villa Rosata e signore dell’Alminusa.
Alminusa. Keywords: i nobili, i nobili siciliani, homosocialite, boys-only,
male-only, Convitto Cutelli, élite filosofica, all-male establishment, Oxford
as non-co-educational – the coming of Somerville! – Grice’s play group as an
all-male play group, the idea of nobilita, nobility. --. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Alminusa” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791557822/in/dateposted-public/
Grice ed Altan –
soggeto, simbolo, valore – ermeneutica antropologica – filosofia italiana –
Luigi Speranza (San Vito al Tagliamento). Filosofo. Grice: “I like Altan; he is
of course an anthropologist and not a philosopher, although his first rambles
were on Croce and philosophy as synthesis of history! – but then I lectured on
Peirce’s misuse of ‘symbol,’ and Altan, not a philosopher, just like Peirce was
not – repeats the mistake – Welby should possibly know better – Grice: “Altan
fails to explain why the Romans felt the need to borrow ‘symbolum’ from the
Greeks, and never return it!” Grice: “The examples in Short and Lewis for the
Roman use of ‘symbol’ are extravagant – Peirceian almost!” – Grice: “Altan’s
point is that a ‘soggeto,’ to communicate via ‘logos’ with another ‘soggeto’ in
a colloquium, must rely on this or that symbol, which means that he must rely
on this or that ‘valore’ – and unless you share those values, you don’t quite
grasp the implicatum in the use of the symbol.” Nato da un'antica famiglia
friulana di San Vito al Tagliamento, Carlo Tullio-Altan è stato uno dei massimi
esperti di antropologia culturale in Italia. Destinato dalla famiglia
alla carriera diplomatica, si laurea nel 1940 in giurisprudenza a La Sapienza
di Roma con una tesi in diritto internazionale. Inviato in Albania
durante la seconda guerra mondiale, partecipa successivamente alla Resistenza,
militando nel Partito d'Azione. Dopo le vicende belliche, conosce
Benedetto Croce grazie a cui fa il suo ingresso nel panorama culturale
italiano. L'incontro con Croce, avvicina il suo pensiero all'idealismo
crociano ed allo spiritualismo etico, come testimoniano le sue prime opere di
questo periodo. Trascorre quindi, a partire dai primi anni '50, dei periodi di studio
e di ricerca a Vienna, Parigi e Londra, dove si accosta pure all'antropologia e
all'etnologia. Dal 1953, grazie all'influsso di Ernesto De Martino, di
Remo Cantoni (di cui sarà anche assistente volontario, a partire dal 1958) e di
Tullio Tentori, si dedica all'antropologia, secondo un approccio che non si
basi esclusivamente sulla ricerca sul campo e l'etnografia ma che faccia
soprattutto ricorso al pensiero filosofico, alla storia delle religioni,
all'epistemologia, alla sociologia, alla psicologia. Inoltre, influenzato pure
dall'opera di Bronisław Malinowski, si oppone allo strutturalismo, aderendo
successivamente al funzionalismo nonché a un marxismo mediato dalla scuola
francese degli Annales. Nel 1961, gli viene assegnato, per la prima volta
in Italia, l'incarico di insegnamento di Antropologia culturale alla Facoltà di
Lettere e Filosofia dell'Pavia, successivamente ricoperto alla Facoltà di
Sociologia dell'Trento. Poi, come ordinario della stessa disciplina, ha
lavorato alla Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri"
dell'Firenze e, dal 1978 fino al collocamento a riposo (nel 1991), nella
Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Trieste, della quale è stato poi nominato
professore emerito. Nel 1987, organizza a Roma, insieme ai maggiori
antropologi italiani di allora, il primo "Convegno nazionale di
antropologia delle società complesse", che, negli anni, verrà
riorganizzato più volte. Negli ultimi anni, ha vissuto tra Milano e
un'antica casa rurale tra Aquileia e Grado, la stessa dove lavora il figlio
Francesco Tullio-Altan. Sulla base della sua iniziale formazione
universitaria in discipline storico-giuridiche nonché della sua vasta
conoscenza filosofica e culturale, dopo una prima fase di originali ricerche
sulla fenomenologia religiosa ed il simbolismo, volge la sua attenzione verso i
metodi antropologici applicati all'analisi sociologica, quindi si dedica allo
studio dei comportamenti e dei valori della gioventù italiana negli anni
'60-'70, che lo hanno poi condotto ad approfondire, da una prospettiva
storico-culturale e con una visione alquanto critica, la dimensione identitaria
degli italiani. Altan ha poi cercato di far capire sia all'opinione
pubblica che ai politici italiani l'importanza e la necessità di dare al loro
paese una "religione civile". In questo progetto, vanno inserite
alcune fra le sue opere più recenti come La coscienza civile degli italiani e
il manuale di Educazione civica. L'ultimo periodo della sua attività di
ricerca, lo dedicò allo studio delle basilari componenti simboliche
dell'identità etnica, concentrandosi, a tale scopo, sulla categoria
dell'ethnos, individuandone ed analizzandone le sue cinque principali
componenti, ovvero l'"epos" (cioè, la memoria storica collettiva),
l'"ethos" (cioè, la sacralizzazione delle norme e delle regole in
valori), il "logos" (cioè, il linguaggio interpersonale), il
"genos" (cioè, l'idea di una comune discendenza) ed il
"topos" (cioè, il simbolo di una identità collettiva comunitaria
stanziata su un dato territorio), allo scopo di trovare una possibile soluzione
razionale, dal punto di vista dell'antropologia, ai conflitti tra i vari
etnocentrismi. Altre opere: “La filosofia come sintesi esplicativa della
storia. Spunti critici sul pensiero di B. Croce e lineamenti di una concezione
moderna dell'Umanesimo” (Longo & Zoppelli, Treviso); “Pensiero d'Umanità.
Sommario breve d'una moderna concezione speculativa dell'Umanesimo” (D.
Del Bianco e Fratelli, Udine); “Parmenide in Eraclito, o della personalità
individuale come assoluto nello storicismo moderno, Udine); “Lo spirito
religioso del mondo primitivo” (Il Saggiatore, Milano); “Proposte per una
ricerca antropologico-culturale sui problemi della gioventù” (Società editrice
il Mulino, Bologna); “Antropologia funzionale, Bompiani, Milano); “La sagra
degl’ossessi: il patrimonio delle tradizioni popolari italiane nella società
settentrionale” (Sansoni, Firenze); “Personalità giovanile e rapporto
inter-personale” (ISVET, Roma); “Le origini storiche della scienza delle
tradizioni popolari” (Sansoni, Firenze); “Atteggiamenti politici e sociali dei
giovani in Italia” (Società editrice il Mulino, Bologna); “I valori difficili.
Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia”
(Bompiani, Milano); “Comunismo e società” (Società editrice il Mulino,
Bologna); “Valori, classi sociali, scelte politiche. Indagine sulla gioventù”
(Bompiani, Milano); Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo”
(Bompiani, Milano); “Modi di produzione e lotta di classe in Italia” (Arnoldo Mondadori
Editore-Isedi, Milano); “Tradizione e modernizzazione: proposte per un
programma di ricerca sulla realtà del Friuli, Editrice cooperativa Il Campo,
Udine); “Antropologia. Storia e problemi” (Feltrinelli, Milano); “La nostra
Italia: arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo
dall'Unità ad oggi” (Feltrinelli, Milano); “Populismo e trasformismo. Saggio
sull’ideologie politiche italiane” (Feltrinelli, Milano); “Per una storia
dell'Italia arretrata” (Le Monnier, Firenze);
“Una modernizzazione difficile. Aspetti critici della società italiana”
Liguori Editore, Napoli); “Soggetto, simbolo e valore. Per un'ermeneutica
antropologica, Feltrinelli, Milano); “Un processo di pensiero, Lanfranchi,
Milano); “Ethnos e Civiltà. Identità etniche e valori democratici” (Feltrinelli,
Milano. Italia: una nazione senza religione civile. Le ragioni di una
democrazia incompiuta, IEVF-Istituto editoriale veneto friulano, Udine); “La
coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale,
Gaspari Editore, Udine); “Religioni, simboli, società: sul fondamento umano
dell'esperienza religiosa” (Feltrinelli, Milano); “Gl’italiani in Europa.
Profilo storico comparato delle identità nazionali europee, Il Mulino,
Bologna); “Per un dialogo fra la ragione e la fede, Leo S. Olschki, Firenze); “Le
grandi religioni a confronto. L'età della globalizzazione, Feltrinelli,
Milano); Identità etniche, web.archive.org/ web/20091004210216/http://
emsf.rai/biografie/ anagrafico.asp?d=328 Una religione
civile per l'Italia d'oggi, web.archive.org/web/2
0091004210216/http:// emsf.rai/biografie/
anagrafico.asp?d=328 Il crogiolo, web. archive.org/web/20091004210216/http://emsf.rai/biografie/anagrafico.asp?d=328;
“L'esperienza dei valori” web.archive. org/web/ 20091004210216/ http://emsf.rai/ biografie/anagrafico.asp?d=328,
“Identità etniche e valori universali” web.archive.org/ web/20091004210216/http://emsf.rai/
biografie/anagrafico.asp?d=328 Modelli concettuali antropologici per un
discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in: Psicoterapia
e scienze umane, polser.wordpress.com/2009/02/25/carlo-tullio-%e2%80%93-altan-modelli-concettuali-antropologici-per-un-discorso-interdisciplinare-tra-psichiatria-e-scienze-sociali-in-psicoterapia-e-scienze-umane-n-1-Citazioni
«Per la destra l'antropologia è roba per selvaggi; la sinistra pensa solo
all'economia; altri sono ancorati a schemi anglosassoni, che vedono le
strutture politiche come realtà a sé», da un'intervista rilasciata a Paolo
Rumiz e pubblicata in La secessione leggera, Roma, Editori Riuniti, 1997202.
Note Cfr. il saggio autobiografico: C.
Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rivista di varia
umanità, nonché il testo autobiografico
Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, Dizionario di
Antropologia. Etnologia, Antropologia Culturale, Antropologia Sociale,
Zanichelli Editore, Bologna, 1997, voce "Tullio-Altan, Carlo"772.
Cfr.//controluce/notizie-old-html/giornali/a14n03/18-culturaecostume-altan.htm
Cfr.//segnalo/TRACCE/NONPIU/tullio-altan.htm Frutto di questo nuovo programma di ricerca,
fu peraltro la monografia Lo spirito religioso nel mondo primitivo (1960). Cfr. A. Rigoli, Lezioni di etnologia, II
edizione, Renzo e Reau Mazzone editori/Ila Palma, Palermo (IT)/San Paolo (BRA),
1988, Parte III, Cap. 1, 65-71. Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit. Fra cui Armando Catemario, Giorgio Raimondo
Cardona, Matilde Callari Galli, Vittorio Lanternari, Gavino Musio, Francesco
Remotti, Aurelio Rigoli, Luigi Lombardi Satriani, Tullio Tentori. Cfr. Tullio Tentori, Antropologia delle
società complesse, A. Armando Editore, Roma, 1999. Da un punto di vista storico, è da ricordare
come l'antropologia culturale abbia avuto origini giuridiche. Invero, molti dei
maggiori antropologi della seconda metà Professoreerano giuristi o, quantomeno,
avevano una formazione giuridica. Ciò fondamentalmente è dovuto al fatto
basilare per cui nessuna società umana è priva di una qualche forma di diritto,
anzi tutte le istituzioni sociali hanno una imprescindibile dimensione
giuridica; cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit., voce "Antropologia
giuridica". Cfr. I. Ignazi,
"Populismo e trasformismo nell'analisi di Carlo Tullio-Altan", il
Mulino. Rivista di cultura e politica fondata nel 1951, 5 (1989) 864-870.
Cfr. Giulio Angioni, "Obituary. Carlo Tullio-Altan: un antropologo
"anti-italiano". Familismo amorale e clientelismo tra i mali del
Paese", in: Il Sole 24 Ore, 20/02/2005
Cfr. Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche Archiviato il 4 ottobre 2009 in. Cfr. C. Tullio-Altan, "La dimensione
simbolica dell'identità etnica", in: G. De Finis, R. Scartezzini,
Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra
identità e culture, Franco Angeli Editore, Milano, 1996, 318-339.
Qui, per regola, si intende una norma, in genere non necessariamente
codificata, suggerita dall'esperienza o stabilita per convenzione o consuetudine,
spesso in riferimento al modo usuale di vivere e di comportarsi, sia
individualmente che collettivamente; cfr.
Cfr. C. Tullio-Altan, Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori
democratici, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1995, nonché i ricordi di
Umberto Galimberti e di Marcello Massenzio comparsi su La Repubblica del 16
febbraio 2005 e reperibili all'indirizzo
Archiviato il 1º marzo in. Cfr.
pure A. Rigoli, cit., Parte I, Cap. 1,
11-12. C. Tullio-Altan, Un
processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, 1992 (testo autobiografico).
C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rassegna di
varia umanità, 51 (3) (1996) 303-319. G.
Ferigo, " di Carlo Tullio-Altan", Metodi & Ricerche. Rivista di
studi regionali, 24, Fasc. 2,
Luglio-Dicembre 2005. Atti del Convegno Storia comparata, antropologia e
impegno civile. Una riflessione su Carlo Tullio Altan, Udine-Aquileia, 17-19
maggio 2006, i cui sunti sono stati pubblicati, Liza Candidi, sulla rivista
Italia Contemporanea, 243, giugno 2006
(cfr., per esempio, ). Fascicolo speciale dedicato a Tullio-Altan: 16, N. 1, Anno 2005 della rivista Metodi
& Ricerche. Rivista di studi regionali.
L'antropologia italiana. Un secolo di storia, Editori Laterza,
Roma-Bari, 1985. E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia
1869-1975, SEID Editori, Firenze,. C. Tullio-Altan, C. Signorelli, "A
proposito di alcune critiche: dibattito Tullio Altan-Signorelli", in
Rivista della Fondazione Italiana dei Centri Sociali, Roma, A. Forniz, "Il Palazzo Tullio-Altan in S.
Vito al Tagliamento: dimore illustri nel Friuli occidentale", in
Itinerari, Numero IV, Fascicolo 3, settembre 1970. Altri progetti Collabora a
Wikiquote Citazionio su Carlo Tullio-Altan
Carlo Tullio-Altan, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Carlo
Tullio-Altan, in Dizionario biografico dei friulani. Nuovo Liruti online,
Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in Friuli. Biografia [collegamento interrotto], su
feltrinellieditore. Biografia, su blog.graphe. Convegno in memoriam, su
qui.uniud. Ricordo biografico, su controluce. Filosofia Sociologia Sociologia Categorie: Antropologi italianiSociologi
italianiFilosofi italiani Professore1916 2005 30 marzo 15 febbraio San Vito al
Tagliamento PalmanovaAccademici italiani del XX secoloStudenti della
SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori
dell'Università degli Studi di Trento. Carlo Tullio-Altan. Altan. Keywords: soggeto,
simbolo, valore – ermeneutica antropologica, Croce, filosofia come sintesi,
Velia, la porta rossa di Velia, fascismo, ideologia politica italiana,
ideologie politiche italiane, simbologia, simbolismo, ermeneutica, mercurio,
ermete, mercurio, humano, uomo, umanesimo, Altan e Passolini, Palazzo Altan –
Altan nobile friulese, il conte Carlo Tullio-Altan – la etnia friulese,
‘friulese, non italiano’ – dizionario biografico dei friulesi – friul – la lingua
friulese – la base romana – la occupazione romana 221 a. C. – Aquileia – i
friulesi durante il fascismo – contro il friulese, italisazzione – Altan e la
resisenza – etnia e italianita, -- romanita ed italianita – friulesita -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Altan” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691606946/in/photolist-2mMwTke-2mKNZQw-2mKJUkx-2mKDLrD
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