Galetti. Filosofo. Emporium.
Grice e Galilei – Eppur si muove -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pisa).
Filosofo. Galileo Galilei. Grice: “His father was, like mine, a musician.” – “La
filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto
innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non
s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto.
Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed
altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne
umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.
Personaggio chiave della rivoluzione scientifica, per aver esplicitamente
introdotto il metodo scientifico (detto anche "metodo galileiano" o
"metodo sperimentale"), il suo nome è associato a importanti
contributi in fisica e in astronomia. Di primaria importanza fu anche il ruolo
svolto nella rivoluzione astronomica, con il sostegno al sistema eliocentrico e
alla teoria copernicana. I suoi principali contributi al pensiero filosofico
derivano dall'introduzione del metodo sperimentale nell'indagine scientifica
grazie a cui la scienza abbandonava, per la prima volta, quella posizione
metafisica che fino ad allora predominava, per acquisire una nuova, autonoma
prospettiva, sia realistica che empiristica, volta a privilegiare, attraverso
il metodo sperimentale, più la categoria della quantità (attraverso la
determinazione matematica delle leggi della natura) che quella della qualità
(frutto della passata tradizione indirizzata solo alla ricerca dell'essenza
degli enti) per elaborare ora una descrizione razionale oggettiva[N 6] della
realtà fenomenica. Sospettato di eresia e accusato di voler sovvertire la
filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, Galilei fu processato e
condannato dal Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura
delle sue concezioni astronomiche e al confino nella propria villa di Arcetri. Nel
corso dei secoli il valore delle opere di Galilei venne gradualmente accettato
dalla Chiesa, e 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992, papa Giovanni Paolo II, alla
sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze, riconobbe "gli
errori commessi" sulla base delle conclusioni dei lavori cui pervenne
un'apposita commissione di studio da lui istituita nel 1981, riabilitando
Galilei. La casa natale di Galilei Abitazione all'800 Abitazione in
via Giusti Dal libretto di battesimo di Galileo riportante come luogo "in
Chapella di S.to Andrea", si credeva fino alla fine dell'800 che Galileo
potesse essere nato vicino alla cappella di Sant'Andrea in Kinseca nella
fortezza San Gallo, il che presumeva che il padre Vincenzo fosse un militare.
In seguito fu identificata casa Ammannati, vicino alla Chiesa di Sant'Andrea
Forisportam, come la vera casa natale. Nacque a Pisa, figlio di Vincenzo
Galilei e di Giulia Ammannati. Gli Ammannati, originari del territorio di
Pistoia e di Pescia, vantavano importanti origini; Vincenzo Galilei invece
apparteneva ad una casata più umile, per quanto i suoi antenati facessero parte
della buona borghesia fiorentina. Vincenzo era nato a Santa Maria a Monte, quando
ormai la sua famiglia era decaduta ed egli, musicista di valore, dovette
trasferirsi a Pisa unendo all'esercizio dell'arte della musica, per necessità
di maggiori guadagni, la professione del commercio. La famiglia di
Vincenzo e di Giulia, contava oltre Galileo: Michelangelo Galilei, che fu
musicista presso il granduca di Baviera, Benedetto Galilei, morto in fasce. Dopo
un tentativo fallito di inserire Galileo tra i quaranta studenti toscani che
venivano accolti gratuitamente in un convitto di Pisa, fu ospitato "senza
spese" da Tebaldi, doganiere della città di Pisa, padrino di battesimo di
Michelangelo Galilei, e tanto amico di Vincenzo da provvedere alle necessità
della famiglia durante le sue lunghe assenze per lavoro. A Pisa, Galilei conobbe
Bartolomea Ammannati che curava la casa del rimasto vedovo Tebaldi il quale,
nonostante la forte differenza d'età, la sposò, probabilmente per metter fine
alle malignità, imbarazzanti per la famiglia Galilei, che si facevano sul conto
della giovane nipote. Successivamente fece i suoi primi studi a Firenze, prima
col padre, poi con un maestro di dialettica e infine nella scuola del convento
di Santa Maria di Vallombrosa, dove vestì l'abito di novizio. Vincenzo iscrisse
il figlio a Pisa con l'intenzione di fargli studiare medicina, per fargli
ripercorrere la tradizione del suo glorioso antenato Galileo Bonaiuti e
soprattutto per fargli intraprendere una carriera che poteva procurare lucrosi
guadagni. Nonostante il suo interesse per i progressi sperimentali di
quegli anni, la sua attenzione fu presto attratta dalla semiotica, la logica, e
la matematica – lo studio del segno -- che comincia a studiare dall'estate del
1583, sfruttando l'occasione della conoscenza fatta a Firenze di Ostilio Ricci
da Fermo, un seguace della scuola matematica di Tartaglia. Caratteristica del
Ricci era l'impostazione che egli dava all'insegnamento della matematica: non
di una scienza astratta o formale, ma di una disciplina materiale che servisse
a risolvere i problemi pratici legati alla meccanica e alle tecniche
ingegneristiche. Fu, infatti, la linea di studio "Tartaglia-Ricci"
(prosecutrice, a sua volta, della tradizione facente capo ad Archimede) a
insegnare a Galileo l'importanza della precisione nell'osservazione dei dati e
il lato ‘prammatico’ della ricerca scientifica. È probabile che a Pisa abbia
seguito anche i corsi di filosofia naturale (fisica) tenuti dall'aristotelico
Bonamici. Durante la sua permanenza a Pisa arriva alla sua prima, personale
scoperta, che chiama l' “iso-cronismo” nelle oscillazioni di un pendolo.
Rinuncia a proseguire gli studi di medicina e anda a Firenze, dove approfondì i
suoi nuovi interessi, occupandosi di meccanica e di idraulica. Trova una
soluzione al "problema della corona" di Gerone inventando uno
strumento per la determinazione idrostatica del peso specifico dei “corpi”. L'influsso di Archimede e dell'insegnamento
del Ricci si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi.
Cerca intanto una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni
private a Firenze e a Siena, andò a Roma a richiedere una raccomandazione per
entrare nello Studio di Bologna a Clavius, ma inutilmente, perché a Bologna gli
preferirono alla cattedra Magini. Su invito dell'Accademia Fiorentina tenne due
Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno, difendendo le ipotesi
già formulate da Manetti sulla
topografia dell'Inferno. Galilei si rivolse allora a Monte, matematico
conosciuto tramite uno scambio epistolare su questioni matematiche. Monte e fondamentale
nell'aiutare Galilei a progredire nella carriera universitaria, quando,
superando l'inimicizia di Giovanni de' Medici, un figlio naturale di Cosimo de'
Medici, lo raccoma al fratello cardinale Francesco Maria Del Monte, che a sua
volta parlò con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici. Sotto la
sua protezione, ebbe un contratto triennale per una cattedra a Pisa, dove
espose chiaramente il suo programma, procurandosi subito una certa ostilità
nell'ambiente accademico di formazione aristotelica. Il metodo che sigue e
quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai
supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno
insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi
filosofi quando insegnano elementi fisici. Per conseguenza quelli che imparano,
non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè
perché le ha dette Aristotele. Se poi sarà vero quello che ha detto Aristotele,
sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché
hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici [...] che una tesi sia
contraria all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla
esperienza e alla ragione”. Frutto dell'insegnamento pisano è “De motu
antiquiora”, che raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar
conto del problema del movimento. Base delle sue ricerche è il trattato,
pubblicato a Torino, “Diversarum speculationum mathematicarum liber d
Benedetti, uno dei fisici sostenitori della teoria dell'impeto come causa del
moto violento. Benché non si sapesse definire la natura dell’impeto impresso a
un corpo, questa teoria, elaborata da Filopono e poi sostenuta dai fisici parigini,
pur non essendo in grado di risolvere il problema, si opponeva alla
tradizionale spiegazione aristotelica del movimento come prodotto del mezzo nel
quale il corpo animato stesso si muove. A Pisa Galilei non si limitò alle sole
occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questo periodo le sue “Considerazioni
sul Tasso” che avrebbero avuto un seguito con le Postille all'Ariosto. Si
tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi
volumi della Gerusalemme e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al
Tasso la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del
verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar
rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico
di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del
fantasma poetico. La morte del padre lo lasciando l'onere di mantenere tutta la
famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, dovette provvedere alla
dote, contraendo dei debiti, così come avrebbe poi dovuto fare per le nozze
della sorella Livia con Galletti, e altri denari avrebbe dovuto spendere per
soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo. Del
Monte intervenne ad aiutare nuovamente, raccomandandolo al prestigioso Studio
di Padova, dove era ancora vacante una catedra dopo la morte di Moleti. Le
autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un
contratto, prorogabile, di quattro anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno.
Tenne a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni cominciò un corso
destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi sarebbe restato
per diciotto anni, che avrebbe definito «li diciotto anni migliori di tutta la
mia età. Arriva a Venezia solo pochi mesi dopo l'arresto di Bruno a
Venezia. Nel dinamico ambiente di Padova (risultato anche del clima di
relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana), intrattenne rapporti cordiali anche con
personalità di orientamento filosofico lontano dal suo, come Cremonini,
filosofo rigorosamente aristotelico. Frequenta anche i circoli colti e gli
ambienti senatoriali di Venezia, dove strinse amicizia con Sagredo, che Galilei
rese protagonista del suo Dialogo sopra i massimi sistemi, e Sarpi, esperto di
semiotica. È contenuta proprio nella lettera
al frate servita la formulazione della legge sulla caduta dei gravi. Gli
spazii passati dal moto naturale esser in proportione doppia dei tempi, e per
conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le
altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di
velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto.
Galileo tiene a Padova lezioni di meccanica: il suo “Trattato di meccaniche” dovrebbe
essere il risultato dei suoi corsi, che avevano avuto origine dalle “Questioni
meccaniche” di Aristotele. A Padova Galileo attrezza con l'aiuto di un
artigiano che abitava nella sua stessa casa, una officina nella quale eseguiva
esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio.
Perla macchina per portare l'acqua a livelli più alti ottenne dal Senato veneto
un brevetto ventennale per la sua utilizzazione pubblica. Da anche lezioni
private e ottenne aumenti di stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente
passa ai 1.000. Una nuova stella fu
osservata d’Altobelli, il quale ne informò Galilei. Luminosissima, fu osservata
successivamente anche da Keplero, che ne fece oggetto di uno studio, il De Stella
nova in pede Serpentarii. Su quel fenomeno astronomico Galileo tenne tre
lezioni, il cui testo non ci è noto, ma contro le sue argomentazioni scrisse un
opuscolo Lorenzini, sedicente aristotelico originario di Montepulciano,su
suggerimento di Cremonini, e intervenne a sua volta con un opuscolo anche
Capra. Interpreta il fenomeno della ‘nuova stella’ come prova della mutabilità
dei cieli, sulla base del fatto che, non presentando la "nuova
stella" alcun cambiamento di parallasse, essa dovesse trovarsi oltre
l'orbita della Luna. A favore della tesi si pubblica “Dialogo de Cecco di
Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova. Ronchitti difende la
validità del metodo della parallasse per determinare la distanza minima di cose
accessibili all'osservatore solo visivamente, quali sono gli astri. Rimane
incerta l'attribuzione del dialogo, se cioè sia opera dello stesso Galilei o di
Spinelli. Compose due trattati sulla fortificazione, la Breve introduzione
all'architettura militare e il Trattato di fortificazione. Fabbricò un compasso,
che descrisse in “Le operazioni del compasso geometrico et militare” (Padova). Il
compasso era strumento già noto e, in forme e per usi diversi, già utilizzato,
né Galileo pretese di attribuirsi particolari meriti per la sua invenzione; ma
Capra lo accusa di aver plagiato una sua precedente invenzione. Ribalta le
accuse di Capra, ottenendone la condanna da parte dei Riformatori dello Studio
padovano e pubblicò una Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar
Capra milanese, dove ritorna anche sulla precedente questione della nuova
stella. L'apparizione della nuova stella crea grande sconcerto nella società e
Galileo non disdegna di approfittare del momento per elaborare, su commissione,
oroscopi personali, al prezzo di 60 lire venete. Peraltro, e messo sotto accusa
dall'Inquisizione di Padova a seguito di una denuncia di un suo
ex-collaboratore, che lo aveva accusato precisamente di aver effettuato
oroscopi e di aver sostenuto che gli astri determinano le scelte dell'uomo. Il
procedimento, però, fu energicamente bloccato dal Senato della Repubblica
veneta e il dossier dell'istruttoria venne insabbiato, così che di esso non
giunse mai alcuna notizia all'Inquisizione romana, ossia al Sant'Uffizio. Il
caso venne probabilmente abbandonato anche perché Galileo si era occupato di
astrologia natale e non di astrologia pro-gnostica o previsionale. La sua
fama come autore di oroscopi gli portò richieste, e senza dubbio pagamenti più
sostanziosi, da parte di cardinali, principi e patrizi, compresi Sagredo,
Morosini e qualcuno che si interessava a Sarpi. Scambia lettere con Gualterotti,
e, nei casi più difficili, con Brenzoni. Tra i temi natali calcolati e
interpretati figurano quelli delle sue due figlie, Virginia e Livia, e il suo
proprio, calcolato tre volte. Il fatto che si dedicasse a questa attività anche
quando non era pagato per farlo suggerisce che egli vi attribuisse un qualche
valore. Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che
credono in quello che vedono. (if you see that p, because you want that p). Non
sembra che, nella polemica sulla "nuova stella", Galilei si fosse già
pubblicamente pronunciato a favore della teoria elio-centrica di Copernico. Si
ritiene che egli, pur intimamente convinto copernicano, pensasse di non
disporre ancora di prove sufficientemente forti da ottenere invincibilmente
l'assenso della universalità dei filosofi. Tuttavia, espressa privatamente la
propria adesione al copernicanesimo a Keplero – che aveva pubblicato il suo
Prodromus dissertationum cosmographicarum scriveva. Ho già scritto molte
argomentazioni e molte confutazioni degli argomenti avversi, ma finora non ho
osato pubblicarle, spaventato dal destino dello stesso Copernico, nostro
maestro. Questi timori, però, svaniranno proprio grazie al cannocchiale, che
Galileo punterà per la prima volta verso il cielo. Di ottica si erano occupati
già Porta nella sua Magia naturalis e nel De refractione e Keplero negli Ad Vitellionem
paralipomena, opere dalle quali era possibile pervenire alla costruzione del
cannocchiale. Lo strumento fu costruito indipendentemente da Lippershey, un
ottico tedesco naturalizzato olandese. Galileo decise allora di preparare un
tubo di piombo, applicandovi all'estremità due lenti, ambedue con una faccia
piena e con l’altra sfericamente concava nella prima lente e convessa nella
seconda. Quindi, accostando l’occhio alla lente concava, percepii l’astro
abbastanza grande e vicino, in quanto essi apparivano tre volte più prossimi e
nove volte maggiori di quel che risultavano guardati con la sola vista
naturale. Presenta l'apparecchio come sua costruzione al governo di Venezia
che, apprezzando l'invenzione, gli raddoppiò lo stipendio e gli offrì un contratto
vitalizio d'insegnamento. L'invenzione, la riscoperta e la ricostruzione del
cannocchiale non è un episodio che possa destare grande ammirazione. La novità
sta nel fatto che Galileo è il primo a portare questo strumento, usandolo in
maniera prettamente logica e concependolo come un potenziamento del sentire –
il vedere. La grandezza di Galileo nei riguardi del cannocchiale è stata
proprio questa. Supera tutta una serie di ostacoli concettuali (cf. Galileo
sees that the star is nice +> without a telescope – I could see the cow from
the window) -- utilizzando suddetto strumento per rafforzare le proprie
tesi. Grazie al cannocchiale, Galileo propone una nuova visione del mondo
celeste. Giunge alla conclusione che, alle stelle visibili ad occhio nudo, si
aggiungono altre innumerevoli stelle mai scorte prima d’ora. L'Universo,
dunque, diventa più grande; Non c’è differenza di natura fra la Terra e la
Luna. Galileo arreca così un duro colpo alla visione aristotelico-tolemaica geo-centrica
del mondo, sostenendo che la superficie della Luna non è affatto liscia e
levigata bensì ruvida, rocciosa e costellata di ingenti prominenze. Quindi, tra
gli astri, almeno la Luna non possiede i caratteri di assoluta perfezione che
ad essa erano attribuiti dalla tradizione. Inoltre, la Luna si muove, e allora
perché non dovrebbe muoversi anche la Terra che è simile dal punto di vista
della costituzione? Vengono scoperti i un satellite di Giove, che Galileo
denomina “la stelle medicea”. Questa consapevolezza l’offre l'insperata visione
in cielo di un modello più piccolo dell'universo copernicano. Le scoperte
furono pubblicate nel Sidereus Nuncius, una copia del quale Galileo invia a
Cosimo II, insieme con un esemplare del suo cannocchiale e la dedica dei
quattro satelliti, battezzati da Galileo in un primo tempo Cosmica Sidera e
successivamente Medicea Sidera («pianeti medicei»). È evidente l'intenzione di
Galileo di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto probabilmente
non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma anche per
ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di fronte al
pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero mancato di sollevare
polemiche. Chiede a Vinta, Primo Segretario di Cosimo II, di essere
assunto allo Studio di Pisa, precisando. Quanto al titolo et pretesto del mio
servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S. A. ci aggiugnesse
quello di “filosofo”, professando io di havere studiato più anni in filosofia,
che mesi in matematica pura. Il governo fiorentino comunica a Galileo
l'avvenuta assunzione come «Matematico primario dello Studio di Pisa et di” “Filosofo”
del Ser.mo Gran Duca, senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello Studio né
nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno, moneta
fiorentin. Galileo firma il contratto e raggiunse Firenze. Qui giunto si
premura di regalare a Ferdinando, figlio del granduca Cosimo, la migliore lente
ottica che aveva realizzato nel suo laboratorio organizzato quando era a Padova
dove, con l'aiuto dei mastri vetrai di Murano confezionava occhialetti sempre
più perfetti e in tale quantità da esportarli, come fece con il cannocchiale
mandato all'elettore di Colonia il quale a sua volta lo prestò a Keplero che ne
fece buon uso e che, grato, concluse la sua opera Narratio de observatis a se
quattuor Jovis satellitibus erronibus, così scrivendo. “Vicisti Galilaee” -- riconoscendo
la verità delle scoperte di Galilei. Ferdinando ruppe la lente. Galilei gli regala
qualcosa di meno fragile: una calamita armata, cioè fasciata da una lamina di
ferro, opportunamente posizionata, che ne aumenta la forza d'attrazione in modo
tale che, pur pesando solo sei once, il magnete sollevava quindici libbre di
ferro lavorato in forma di sepolcro. In occasione del trasferimento a Firenze
lascia la sua convivente, la veneziana Marina Gamba, conosciuta a Padova, dalla
quale aveva avuto tre figli: Virginia e Livia, mai legittimate, e Vincenzio,
che riconobbe. Affida a Firenze la figlia Livia alla nonna, con la quale già
convive l'altra figlia Virginia, e lascia Vincenzio a Padova alle cure della
madre e poi, dopo la morte di questa, a Bartoluzzi. In seguito, resasi
difficile la convivenza delle due bambine con Ammannati, Galileo fece entrare
le figlie nel convento di San Matteo, ad Arcetri (Firenze), costringendole a
prendere i voti non appena compiuti i rituali sedici anni. Virginia assunse il
nome di suor Maria Celeste, e Livia quello di suor Arcangela, e mentre Virginia
Galilei si rassegna alla sua condizione e rimase in contatto epistolare con il
padre, Livia non accetta mai l'imposizione. La pubblicazione del Sidereus
Nuncius suscita apprezzamenti ma anche diverse polemiche. Oltre all'accusa di
essersi impossessato, con il cannocchiale, di una scoperta che non gli
apparteneva, fu messa in dubbio anche la realtà di quanto egli asseriva di aver
scoperto. Sia Cremonini, sia Magini, che sarebbe l'ispiratore del libello “Brevissima
peregrinatio contra Nuncium Sidereum” da Horký, pur accogliendo l'invito di
Galilei a guardare attraverso il telescopio che egli aveva costruito, ritennero
di *non* vedere alcun supposto satellite di Giove. Solo più tardi Magini
si ricredette e con lui anche Clavius, che aveva ritenuto che i satelliti di
Giove individuati da Galilei fossero soltanto un'”illusione” prodotta non
direttamente dal corpo di Galileo mai dalla lente del telescopio. Quest’obiezione
e difficilmente confutabile. Conseguente sia alla bassa qualità del sistema
ottico del primo telescopio, sia all'ipotesi che la lente potessero deformer la
vision natural all’occhio nudo. Un appoggio molto importante fu dato a Galileo
da Keplero, che, dopo un iniziale scetticismo e una volta costruito un
telescopio sufficientemente efficiente, verifica l'esistenza effettiva dei
satelliti di Giove, pubblicando a Francoforte la “Narratio de observatis a se
quattuor Jovis satellitibus erronibus quos Galilaeus Galilaeus mathematicus
florentinus jure inventionis Medicaea sidera nuncupavit”. Poiché i gesuiti del
Collegio Romano sono considerati tra le maggiori autorità scientifiche del tempo,
si recò a Roma per presentare le sue scoperte. Fu accolto con tutti gli onori
da Paolo V e da Cesi, che lo iscrisse nei Lincei. Galileo scrive a Vinta che i
gesuiti avendo finalmente conosciuta la verità dei nuovi Pianeti Medicei, ne
hanno fatte da due mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno
proseguendo; e le aviamo “riscontrate con le mie” e si rispondano giustissime.
Però, a quel tempo non sapeva ancora che l'entusiasmo con il quale anda
diffondendo e difendendo le proprie scoperte e teorie suscita resistenze e
sospetti precisamente in ambito ecclesiastico. Bellarmino incarica i
matematici vaticani di approntargli una relazione sulle nuove scoperte fatte da
un valente matematico per mezo d'un istrumento chiamato cannone overo ochiale e
la Congregazione del Santo Uffizio precauzionalmente chiese all'Inquisizione di
Padova se fosse mai stato aperto, in sede locale, qualche procedimento a carico
di Galilei. Evidentemente, la Curia Romana comincia già a intravedere quali
conseguenze avrebbero potuto avere questi singolari sviluppi della filosofia
sulla concezione generale del mondo e quindi, indirettamente, sui sacri
principi del cristanensimo. Scrisse il Discorso intorno alle cose che stanno in
su l'acqua, o che in quella si muovono, nel quale appoggiandosi alla teoria di
Archimede dimostra, contro Aristotele, che i corpi galleggiano o affondano
nell'acqua a seconda del loro peso specifico non della loro forma, provocando
la polemica risposta del Discorso apologetico d'intorno al Discorso di Galileo
Galilei di Colombe. Al Pitti, presenti il granduca, la granduchessa Cristina e Barberini,
allora suo grande ammiratore, diede una pubblica dimostrazione sperimentale
dell'assunto, confutando definitivamente Colombe. Galilei accenna anche
alle macchie solari, che sosteniene di aver già osservate a Padova, senza però
darne notizia: scrisse ancora, l'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie
solari e loro accidenti, pubblicata a Roma dall'Accademia dei Lincei, in
risposta a tre lettere di Scheiner che, indirizzate a Welser, duumviro di
Augusta, mecenate delle scienze e amico dei Gesuiti dei quali era banchiere. A
parte la questione della priorità della scoperta, Scheiner sosteneva
erroneamente che le macchie consistevano in sciami di astri rotanti intorno al
Sole, mentre Galileo le considerava materia fluida appartenente alla superficie
del Sole e ruotante intorno ad esso proprio a causa della rotazione stessa
della stella. L'osservazione delle macchie consentì, quindi, a Galileo la
determinazione del periodo di rotazione del Sole e la dimostrazione che il
cielo e la terra non erano due mondi radicalmente diversi, il primo solo
perfezione e immutabilità e il secondo tutto variabile e imperfetto. Infatti,
ribadì a Federico Cesi la sua visione copernicana scrivendo come il Sole si
rivolgesse «in sé stesso in un mese lunare con rivoluzione simile all'altre de
i pianeti, cioè da ponente verso levante intorno a i poli dell'eclittica: la
quale novità dubito che voglia essere il funerale o più tosto l'estremo e
ultimo giudizio della pseudofilosofia, essendosi già veduti segni nelle stelle,
nella luna e nel sole; e sto aspettando di veder scaturire gran cose dal
Peripato per mantenimento della immutabilità de i cieli, la quale non so dove
potrà esser salvata e celata». Anche l'osservazione del moto di rotazione del
Sole e dei pianeti era molto importante: rendeva meno inverosimile la rotazione
terrestre, a causa della quale la velocità di un punto all'equatore sarebbe di
circa 1700 km/h anche se la Terra fosse immobile nello spazio. La scoperta
delle fasi di Venere e di Mercurio, osservate da Galileo, non era compatibile
col modello geocentrico di Tolomeo, ma solo con quello geo-eliocentrico di
Tycho Brahe, che Galileo non prese mai in considerazione, e con quello
eliocentrico di Copernico. Galileo, scrivendo a Giuliano de' Medici il 1º
gennaio 1611, affermava che «Venere necessarissimamente si volge intorno al
sole, come anche Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i
Pittagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente[N 36] provata, come
ora in Venere e in Mercurio». Difese il modello eliocentrico e chiarì la sua
concezione della scienza in quattro lettere private, note come "lettere
copernicane" e indirizzate a padre Benedetto Castelli, due a monsignor
Pietro Dini, una alla granduchessa madre Cristina di Lorena. L'horror vacui
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vuoto
(filosofia). Secondo la dottrina aristotelica in natura il vuoto non esiste
poiché ogni corpo terreno o celeste occupa uno spazio che fa parte del corpo
stesso. Senza corpo non c'è spazio e senza spazio non esiste corpo. Sostiene
Aristotele che "la natura rifugge il vuoto" (natura abhorret a
vacuo), e perciò lo riempie costantemente; ogni gas o liquido tenta sempre di
riempire ogni spazio, evitando di lasciarne porzioni vuote. Un'eccezione però a
questa teoria era l'esperienza per la quale si osservava che l'acqua aspirata
in un tubo non lo riempiva del tutto ma ne rimaneva inspiegabilmente una parte
che si riteneva fosse del tutto vuota e perciò dovesse essere colmata dalla
Natura; ma questo non si verificava. Galilei rispondendo a una lettera
inviatagli nel 1630 da un cittadino ligure Giovan Battista Baliani confermò
questo fenomeno sostenendo che «la ripugnanza del vuoto da parte della Natura»
può essere vinta, ma parzialmente, e che, anzi, «lui stesso ha provato che è
impossibile far salire l’acqua per aspirazione per un dislivello superiore a 18
braccia, circa 10 metri e mezzo. Galilei quindi crede che l'horror vacui sia
limitato e non si chiede se in effetti il fenomeno fosse collegato al peso
dell'aria, come dimostrerà Evangelista Torricelli. La disputa con la
Chiesa Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Disputa
tra Galileo Galilei e la Chiesa. La denuncia del domenicano Tommaso Caccini. Il
cardinale Roberto Bellarmino Il 21 dicembre 1614, dal pulpito di Santa Maria
Novella a Firenze il frate domenicano Tommaso Caccini lanciava contro certi
matematici moderni, e in particolare contro Galileo, l'accusa di contraddire le
Sacre Scritture con le loro concezioni astronomiche ispirate alle teorie
copernicane. Giunto a Roma, il 20 marzo 1615, Caccini denunciò Galileo in
quanto sostenitore del moto della Terra intorno al Sole. Intanto a Napoli era
stato pubblicato il libro del teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini, la
Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico, dedicata a Galileo, a
Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei, che intendeva accordare i passi
biblici con la teoria copernicana interpretandoli «in modo tale che non gli
contradicano affatto». Bellarmino, già giudice nel processo di Giordano Bruno,
tuttavia affermava che sarebbe stato possibile reinterpretare i passi della
Scrittura che contraddicevano l'eliocentrismo solo in presenza di una vera
dimostrazione di esso e, non accettando le argomentazioni di Galileo,
aggiungeva che finora non gliene era stata mostrata nessuna, e sosteneva che
comunque, in caso di dubbio, si dovessero preferire le sacre scritture.
L'anno dopo il Foscarini verrà, per breve tempo, incarcerato e la sua Lettera
proibita. Intanto il Sant'Uffizio stabilì, il 25 novembre 1615, di procedere
all'esame delle Lettere sulle macchie solari e Galileo decise di venire a Roma
per difendersi personalmente, appoggiato dal granduca Cosimo: «Viene a Roma il
Galileo matematico» – scriveva Cosimo II al cardinale Scipione Borghese – «et
viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto
calunnie, che gli sono state apposte da' suoi emuli». Il papa ordinò a
Bellarmino di convocare Galileo e di ammonirlo di abbandonare la suddetta
opinione; e se si fosse rifiutato di obbedire, il Padre Commissario, davanti a
un notaio e a testimoni, di fargli precetto di abbandonare del tutto quella
dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non trattarla». Il cardinale Bellarmino
diede comunque a Galileo una dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in
cui si ribadiva la proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli
onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo
nell'illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri era vietato. Comparvero
nel cielo tre comete, fatto che attirò l'attenzione e stimolò gli studi degli
astronomi di tutta Europa. Fra essi il gesuita Orazio Grassi, matematico del
Collegio Romano, tenne con successo una lezione che ebbe vasta eco, la
Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII: con essa, sulla base di
alcune osservazioni dirette e di un procedimento logico-scolastico, egli
sosteneva l'ipotesi che le comete fossero corpi situati oltre al «cielo della
Luna» e la utilizzava per avvalorare il modello di Tycho Brahe, secondo il
quale la Terra è posta al centro dell'universo, con gli altri pianeti in orbita
invece intorno al Sole, contro l'ipotesi eliocentrica. Galilei decise di
replicare per difendere la validità del modello copernicano. Rispose in modo
indiretto, attraverso lo scritto Discorso delle comete di un suo amico e
discepolo, Mario Guiducci, ma in cui la mano del maestro era probabilmente
presente. Nella sua replica Guiducci sosteneva erroneamente che le comete non
erano oggetti celesti, ma puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su
vapori elevatisi dalla Terra, ma indicava anche le contraddizioni del
ragionamento di Grassi e le sue erronee deduzioni dalle osservazioni delle
comete con il cannocchiale. Il gesuita rispose con uno scritto intitolato Libra
astronomica ac philosophica, firmato con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario
Sarsi, attaccava direttamente Galilei e il copernicanesimo. Galilei a
questo punto rispose direttamente: fu pronto il trattato Il Saggiatore. Scritto
in forma di lettera, fu approvato dagli accademici dei Lincei e stampato a
Roma. Dopo la morte di papa Gregorio XV, con il nome di Urbano VIII saliva al
soglio pontificioBarberini, da anni amico ed estimatore di Galileo. Questo convinse
erroneamente Galileo che risorge la speranza, quella speranza che era ormai
quasi del tutto sepolta. Siamo sul punto di assistere al ritorno del prezioso
sapere dal lungo esilio a cui era stato costrett, come scritto al nipote del
papa Francesco Barberini. Galileo resenta una teoria rivelatasi
successivamente erronea delle comete come apparenze dovute ai raggi solari. In
effetti, la formazione della chioma e della coda delle comete, dipendono
dall'esposizione e dalla direzione delle radiazioni solari, dunque Galilei non
aveva tutti i torti e Grassi ragione, il quale essendo avverso alla teoria
copernicana, non poteva che avere un'idea sui generis dei corpi celesti. La
differenza tra le argomentazioni di Grassi e quella di Galileo era tuttavia
soprattutto di metodo, in quanto il secondo basava i propri ragionamenti sulle
esperienze. Galileo scrisse infatti la celebre metafora secondo la quale la
filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto
innanzi a gli occhi “(io dico l'universo)” mettendosi in contrasto con Grassi
che si richiamava all'autorità dei maestri del passato e di Aristotele per
l'accertamento della verità sulle questioni naturali. Giunse a Roma per
rendere omaggio al papa e strappargli la concessione della tolleranza della
Chiesa nei confronti del sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli
da Urbano VIII non ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso. Senza
nessuna assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser
stato onorato da papa Urbano – che concesse una pensione al figlio Vincenzio –
Galileo ritenne di poter rispondere finalmente, nel settembre del 1624, alla
Disputatio di Francesco Ingoli. Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica,
nella sua risposta Galileo dovrà confutare le argomentazioni anticopernicane
dell'Ingoli senza proporre quel modello astronomico, né rispondere alle
argomentazioni teologiche. Nella Lettera Galileo enuncia per la prima volta
quello che sarà chiamato il principio della relatività galileiana: alla comune
obiezione portata dai sostenitori della immobilità della Terra, consistente
nell'osservazione che i gravi cadono perpendicolarmente sulla superficie
terrestre, anziché obliquamente, come apparentemente dovrebbe avvenire se la
Terra si muovesse, Galileo risponde portando l'esperienza della nave nella
quale, sia essa in movimento uniforme o sia ferma, i fenomeni di caduta o, in
generale, dei moti dei corpi in essa contenuti, si verificano esattamente nello
stesso modo, perché «il moto universale della nave, essendo comunicato all'aria
ed a tutte quelle cose che in essa vengono contenute, e non essendo contrario
alla naturale inclinazione di quelle, in loro indelebilmente si
conserva».[65] Dialogo Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Galilei comincia
il suo nuovo lavoro, un Dialogo che, confrontando le diverse opinioni degli
interlocutori, gli avrebbe consentito di esporre le varie teorie correnti sulla
cosmologia, e dunque anche quella copernicana, senza mostrare di impegnarsi
personalmente a favore di nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari
prolungarono la stesura dell'opera. Dovette prendersi cura della numerosa
famiglia del fratello Michelangelo, mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in
legge a Pisa si sposa con Sestilia Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno
dei segretari del duca Ferdinando, e di Alessandra. Per esaudire il desiderio
della figlia Maria Celeste, monaca ad Arcetri, di averlo più vicino, affitta
vicino al convento il villino «Il Gioiello». Dopo non poche vicissitudini per
ottenere l'imprimatur ecclesiastico, l'opera venne pubblicata. Nel
Dialogo i due massimi sistemi messi a confronto sono quello geo-centrico e
quello elio-centrico. Tre sono i protagonisti: due sono personaggi reali, amici
di Galileo, Salviati e Sagredo, nello cui palazzo si fingono tenute la
conversazione. Il terzo protagonista è ‘Simplicio,’ un commentatore di
Aristotele, oltre a sottintendere il suo semplicismo scientifico. Simplicio è
il sostenitore del sistema geo-centrico, mentre l'opposizione elio-centrica è
sostenuta da Salviati e Sagredo. Il Dialogo ricevette molti elogi, ma si
diffusero le voci di una proibizione. Riccardi scrive ad Egidi che per ordine
del Papa il “Dialogo” non doveva più essere diffuso. Gli chiedeva di
rintracciare le copie già vendute e di sequestrarle. Il Papa adirato accusa
Galileo di aver raggirato i ministri che avevano autorizzato la pubblicazione.
L’Inquisizione romana sollecita quella fiorentina perché notificasse a Galileo
l'ordine di comparire a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario
generale del Sant'Uffizio. Galileo, in parte perché malato, in parte perché
spera che la questione potesse aggiustarsi in qualche modo senza l'apertura del
processo, ritarda per tre mesi la partenza; di fronte alla minacciosa
insistenza del Sant'Uffizio, parte per Roma in lettiga. Il processo
comincia con il primo interrogatorio di Galileo, al quale Maculano contesta di
aver ricevuto un precetto con il quale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare
la teoria elio-centrica, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla. Nell'interrogatorio
Galileo nega di aver avuto conoscenza del precetto e sostenne di non ricordare
che nella dichiarazione di Bellarmino vi fossero le parole “quovis modo” (in
qualsiasi modo) e “nec docere” (non insegnare). Incalzato dall'inquisitore,
Galileo non solo ammise di non avere detto cosa alcuna del sodetto precetto, ma
anzi arriva a sostenere che nel detto Dialogo mostra il contrario di detta
opinione del Copernico, e che le ragioni di Copernico sono invalide e non
concludenti. Concluso il primo interrogatorio, Galileo fu trattenuto, pur sotto
strettissima sorveglianza, in tre stanze del palazzo dell'Inquisizione, con
ampia e libera facoltà di passeggiare. Il giorno successivo all'ultimo
interrogatorio, nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Maria
sopra Minerva, presente e inginocchiato Galileo, fu emessa la sentenza dai inquisitori
generali contro l'eretica pravità, nella quale si riassume la lunga vicenda del
contrasto fra Galileo e il cristanesimo, cominciata con lo scritto Delle
macchie solari e l'opposizione dei cristiani al modello Copernicano. Nella
sentenza si sostiene poi che il documento fosse un'effettiva ammonizione a non
difendere o insegnare la teoria copernicana. Imposta l'abiura con cuor
sincero e fede non finta e proibito il Dialogo, e condannato al carcere formale
ad arbitrio nostro e alla pena salutare della recita settimanale dei sette
salmi penitenziali per tre anni, riservandosi l'Inquisizione di moderare, mutare
o levar in tutto o parte le pene e le penitenze. Se la leggenda della frase di
Galileo, «E pur si muove», pronunciata appena dopo l'abiura, serve a suggerire
la sua intatta convinzione della validità del modello copernicano, la conclusione
del processo segna la sconfitta del suo programma di diffusione della filosofia,
fondata sull'osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro verifica sperimentale
– contro il cristenesimo che produce esperienze come fatte e rispondenti al suo
bisogno senza averle mai né fatte né osservate – e contro i pregiudizi del
senso comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque apparenza: una
filosofia che insegna a non aver più fiducia nell'autorità, nella tradizione e
nel senso commune e che vuole insegnare a pensare. La sentenza di condanna
prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di
recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il
rigore letterale fu mitigato nei fatti. La prigionia consistette nel soggiorno
coatto per cinque mesi presso Palazzo Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui,
in Palazzo Piccolomini a Siena. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incarica
di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Livia, suora di clausura.
Piccolomini favore Galileo, permettendogli di incontrare personalità della
città e di dibattere questioni scientifiche. A seguito di una lettera che
denunci l'operato, il Sant'Uffizio provvide, accogliendo una stessa richiesta
avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo nell'isolata villa del
Gioiello, che possede nella campagna di Arcetri. Si l’intima di stare da solo,
di non chiamare ne di ricevere alcuno, per il tempo ad arbitrio di Sua Santita.
Solo i familiari poaaono fargli visita, dietro preventiva autorizzazione: anche
per questo motivo gli fu particolarmente dolorosa la morte di Livia. Poté
tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed estimatori: a Diodati consolandosi
delle sue sventure che l'invidia e la malignità “mi hanno machinato contro” con
la considerazione che l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più
sublime grado dell'ignoranza. Da Diodati seppe della versione in latino che
Bernegger anda facendo a Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di Rocco, purissimo
peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla di filosofia che scrive a Venezia
mordacità e contumelie contro di lui. Questa, e altre lettere, dimostrano
quanto poco Galileo avesse rinnegato le proprie convinzioni copernicane. Dopo
il processo scrive e pubblica “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a
due nuove scienze attinenti la mecanica e i moti locali”, organizzato come un
dialogo che si svolge in quattro giornate fra i tre medesimi protagonisti del
precedente Dialogo dei massimi sistemi: Sagredo, Salviati e Simplicio. Nella
prima giornata si tratta della resistenza dei materiali. La diversa resistenza
deve essere legata alla struttura della particolare materia e Galileo, pur
senza pretendere di pervenire a una spiegazione del problema, affronta
l'interpretazione atomistica di Democrito, considerandola un'ipotesi capace di
rendere conto di fenomeni fisici. In particolare, la possibilità dell'esistenza
del vuoto – prevista da Democrito – viene ritenuta una seria ipotesi
scientifica e nel vuoto – ossia nell'inesistenza di un qualunque mezzo in grado
di opporre resistenza – Galileo sostiene giustamente che tutte le cose
discendeno con eguale velocità, in opposizione con Aristotele che ritiene
l'impossibilità concettuale di un moto in un vuoto. Dopo aver trattato
della statica e della leva nella seconda giornata, nella terza e nella quarta
si occupa della dinamica, stabilendo le leggi del moto uniforme, del moto
naturalmente accelerato e del moto uniformemente accelerato e delle oscillazioni
del pendolo. Intraprende corrispondenza con Bocchineri. La famiglia Bocchineri
di Prato aveva dato una giovane, di nome Sestilia, sorella di Alessandra, per
moglie al figlio di Galilei, Vincenzio. Quando Galilei incontra
Bocchineri, questa è una donna che si è affinata e ha coltivato la sua
intelligenza, sposa di Buonamici, un importante diplomatico che diventerà buon
amico di Galilei. Bocchineri e Galilei si scambiano numerosi inviti per
incontrarsi e Galilei non manca di elogiare l'intelligenza di Bocchineri dato
che sì rare si trovano donne che tanto sensatamente discorrino come ella fa. Con
la cecità e l'aggravarsi delle condizioni di salute è costretto talvolta a
rifiutare gli invite NON *SOLO* per le molte indisposizioni che mi tengono
oppresso in questa mia gravissima età, ma perché son ritenuto ancora in
carcere, per quelle cause che benissimo son note. L'ultima lettera mandata di "non volontaria brevità". «Vide
/ sotto l'etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all'Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento. E tumulato
nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Il Cristenesimo mantenne la
sorveglianza anche nei confronti degli allievi. Quando i seguaci diedero vita
al Cimento, esso intervenne presso il Granduca, e il Cimento e sciolto. Convinto
della correttezza della cosmologia copernicana, Galileo era ben consapevole che
essa fosse ritenuta in contraddizione con il testo cristiano che sostenevano
invece una concezione geocentrica dell'universo. Il cristanesimo considera le
Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la teoria eliocentrica poteva
essere accettata, fino a prova contraria, soltanto come semplice ipotesi (“ex supposition”)
o modello matematico, senza alcuna attinenza con la reale posizione dei corpi
celesti. Proprio a questa condizione il “De revolutionibus orbium coelestium”
di Copernico non e condannato dalle autorità ecclesiastiche e menzionato
nell'Indice dei libri proibiti. Galileo si inserì nel dibattito sul rapporto
fra scienza e fede con la lettera a Castelli. Difese il modello copernicano
sostenendo che esistono *due* verità necessariamente non in contraddizione o in
conflitto fra loro. La Bibbia è certamente un testo sacro di ispirazione divina
e dello Spirito Santo, ma comunque scritto in un preciso momento storico con lo
scopo di orientare il lettore verso la comprensione della vera religione. Per
questa ragione, come già avevano sostenuto molti esegeti tra i quali *Lutero* e
Keplero, i fatti della Bibbia sono stati necessariamente scritti in modo tale
da poter essere compresi anche dagli antichi e dalla gente comune. Occorre
quindi discernere, come già sostenuto da Agostino, il messaggio propriamente
basato nella fede dalla descrizione, storicamente connotata ed inevitabilmente
narrativa e didascalica, di fatti, episodi e personaggi. Dal che seguita, che
qualunque volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono
litterale, splicito, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non
solo contraddizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie
ancora. Poi che sarebbe necessario dare a Dio e piedi e mani e occhi, e non
meno affetti di un corpora quasi-umanio, come d'ira, di pentimento, d'odio ed
anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future.” Lettera
alla granduchessa di Toscana. Il noto episodio biblico della richiesta di
Giosuè a Dio di fermare il Sole per prolungare il giorno era usato in ambito
ecclesiastico a sostegno del sistema geo-centrico. Galileo sostenne invece che
in quel modo il giorno non si sarebbe allungato, in quanto nel sistema geo-centrio la rotazione diurna (giorno/notte)
non dipende dal Sole, ma dalla rotazione del Primum Mobile. La Bibbia deve
essere re-interpretata e bisogna “alterar” il “senso” delle parole, e dire che
quando la Scrittura dice che Dio ferma il Sole, voleva dire che ferma 'l primo
mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei
a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, lo Spirito Santo dice al
contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati. Nel sistema
elio-centrico la rotazione del Sole sul proprio asse provoca sia la rivoluzione
della Terra attorno al Sole, sia la rotazione diurna (giorno/notte) della Terra
attorno all'asse terrestre. Quindi l'episodio biblico ci mostra manifestamente
la falsità e impossibilità del mondano sistema aristotelico e Tolemaico, e
all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.. Infatti se Dio avesse
fermato il Sole assecondando la richiesta di Giosuè, ne avrebbe necessariamente
bloccato la rotazione assiale (unico suo movimento previsto nel sistema
copernicano), provocando di conseguenza - secondo Galileo - l'arresto sia della
(ininfluente) rivoluzione annuale, sia della rotazione terrestre diurna
prolungando quindi la durata del giorno. A questo proposito, è interessante la
critica proposta da Koestler, in cui sostiene che Galileo sape meglio di
chiunque altro che se la terra si fermasse bruscamente, montagne, case, città,
crollerebbero come un castello di carte. Il più ignorante dei frati, senza sapere
nulla del momento di inerzia, sape benissimo quel che succedeva quando i
cavalli e la carrozza frenavano di colpo o quando una nave finiva contro gli
scogli. Se si interpreta la Bibbia secondo Tolomeo, il brusco arresto del Sole
non aveva effetti fisici degni di nota e il miracolo rimaneva credibile al pari
di qualsiasi altro miracolo. In base all'interpretazione di Galileo, Giosuè
avrebbe distrutto non soltanto gli Amorrei, ma la terra intera! Sperando di far
passare queste sciocchezze penose, Galileo rivela il suo disprezzo per gli
avversari. Fece analoghe considerazioni in lettere a Dini, le quali destarono
preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee innovative, il carattere
polemico e l'ardimento coi quali Galilei sostene che alcuni passi della Bibbia
dovessero venir re-interpretati alla luce del sistema copernicano. Le Sacre Scritture
si occupano di Dio. La filosofia naturale, che fa indagini sulla Natura si fondarsi
su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». La Bibbia e la Natura non
possono contraddirsi perché derivano entrambe da Dio. Di conseguenza, in caso
di discordia apparente, non sarà la scienza a dover fare un passo indietro,
bensì gli interpreti del testo sacro che dovranno cercare al di là del “significato”
splicito superficiale (explicatura). Le Sacre Scritture sono conforme soltanto
"al comun modo del volgo", ossia si adatta non già alle competenze
degli "intendenti", ma ai limiti conoscitivi dell'uomo comune,
velando così con una sorta di “allegoria” il “senso più profondo” di un
enunciato.. Se il “messaggio” “letterale” diverge da un enunciato del filosofo
naturale, non lo può mai il suo “contenuto” "recondito" e più
autentico, ricavabile dall'interpretazione delle Sacre Scriture oltre i suoi “significato”
più epidermico. Circa il rapporto tra filosofia e la rivelazione, celebre è la
sua frase: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado,
l'*intenzione* dello Spirito Santo essere d'*in-segn-arci* come si vadia al
cielo, e non come vadia il cielo», usualmente attribuita Baronio. Si noti che,
applicando tale criterio, Galileo non avrebbe potuto usare il passo biblico di
Giosuè per cercare di dimostrare un presunto accordo tra testo sacro e sistema
copernicano o la supposta contraddizione tra la Bibbia e il modello tolemaico.
Deriva invece proprio da tale criterio la teoria di Galileo secondo la quale
esistono *due* sorgenti di *conoscenza* che sono in grado di rivelare la stessa
verità che proviene da Dio. Il primo è le
Sancte Scritture, scritte dal spirito santo in termini comprensibili al
"volgo", che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione
dell'anima, e richiede quindi un'attenta inter-pretazione delle affermazioni relative
ai fenomeni naturali che in essa sono descritti. Il secondo è questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico
l'universo), scritto in simboli», che va letto (decifrato) secondo la ragione
(non la fede) e non va pos-posto alle Sancte Scriture ma, per essere *ben* o
corretamente interpretato, deve essere studiato con gli strumenti di cui Dio –
nostro genitore -- ci ha dotati: sentire, il giudicare, il discorrire. Nella
disputa filosofica di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla
autorità di luoghi delle Sancte Scritture, ma dall’esperienza sensata (a
posteriori) e dalla di-mostrazioni necessaria (dall’assiomi, a priori): perché,
procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la Natura – la fisi
dei grecchi --, quella come ‘dettatura’ (dictature – dettato ed impiegato) dello
Spirito Santo, e questa ‘dettatura’ come osservantissima esecutrice de gli
ordini di Dio, nostro genitore.” La filosofia – regina scientiarum – La
‘materia’ della filosofia la rende d'importanza primaria (metafisica come
filosofia prima, filosofia naturale come filosofia seconda. La flosofia non pretendere
di pronunciare giudizi su una verità specifica (la porta e chiusa). Al contrario,
se una certa esperienza non si accorda con un assioma, allora e quest’assioma
che deve essere ri-letti alla luce della experienza. Non vi può essere, in
definitiva, dis-accordo tra ragione ed experienza, essendo, per definizione,
entrambe vere. Ma, in caso di *apparente* contraddizione su un fenomeno
naturale, occorre modificare l'interpretazione dell’assioma per adeguarla
all’esperienza. Aristotele – con il suo geo-centrimo -- non differe
sostanzialmente da Galileo. Aristotele ammetteva la necessità di rivedere
l'interpretazione dell’esperienza. Ma nel caso del sistema elio-centrico, Bellarmino
sostenne, ragionevolmente, che non vi fossero una prova conclusive a suo
favore. Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro
del mondo (o nostro sistema pianetario) e la terra nel terzo cielo, e che il
sole (elio) non circonda la terra (gea), ma la terra circonda il sole, allhora
bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono
contrarie, e più tosto dire che “non l'intendiamo” – cf. Grice on metaphor and
‘My neighbour’s three-year old is an adult”), che dire che sia “falso” (‘You’re
the cream in my coffee”, “My neighbour’s three-year old understands Russell’s
Theory of Types”) quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal
dimostratione, fin che non mi sia mostrata. L’ esperienzia di visione –
osservazione -- con gli strumenti allora disponibili, della parallasse stellare
(che si sarebbe dovuta riscontrare come l’effetto dello spostamento della Terra
rispetto al cielo delle stelle fisse) costituiva invece evidenza contraria alla
teoria elio-centrica. In tale contesto, Aristotele ammetteva quindi che si
parlasse di una teoria o ipotesi o modello elio-centrico solo “ex suppositione”
(come ipotesi matematica geometrica o aritmetica). La difesa di Galileo ex
professo (con cognizione di causa e competenza, di proposito e intenzionalmente)
della teoria geo-centrica quale “reale” descrizione fisica del sistema solare e
delle orbite dei pianete si scontrò quindi, inevitabilmente, con la posizione
ufficiale d’Aristotele. Tale contrapposizione sfociò nel processo a Galilei, che
si concluse con la condanna per veemente sospetto di eresia" e l'abiura forzata
delle sue concezioni astronomiche. RiAl di là dal giudizio storico,
giuridico e morale sulla condanna a Galilei, le questioni di carattere
epistemologico filosofico e di “ermeneutica” che furono al centro del processo
sono state oggetto di riflessione da parte di Grice. che spesso ha citato la
vicenda di Galileo per esemplificare, talora in termini volutamente
paradossali, il suo pensiero in merito a tali questioni. Contro Feyerabend,
sostenitore di un'anarchia epistemologica, Grice sostenne che Aristotele si
attenne alla ragione più che Galilei, e prese in considerazione anche le
conseguenze etiche e sociali della teoria elio-centrica. La sentenza
aristotelica contro Galilei e razionale e giusta, e solo per motivi di
opportunità politica se ne può legittimare la revision. Questa provocazione sarà
poi ripresa da Ratzinger, dando luogo a contestazioni da parte dell'opinione
pubblica. Ma il vero scopo per cui Grice espresso tale provocatoria
affermazione e "solo mostrare la contraddizione di coloro che approvano
l’eliocentrismo di Galileo e condannano il geo-centrismo aristotelico, ma poi
verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo erano
gl’aristotelichi ai tempi di Galileo. Nel corso dei secoli che seguirono,
l’aristotelismo modifica la propria posizione nei confronti di Galilei. Il Sant'Uffizio
concesse l'erezione di un mausoleo in suo onore nella chiesa di Santa Croce in
Firenze. Benedetto XIV olse dall'Indice i libri che insegnavano il moto della
Terra (“e pur si muove”) con ciò ufficializzando quanto già di fatto aveva
fatto Alessandro VII con il ritiro di un dicreto. La definitiva
autorizzazione all'”in-segna-mento” del moto della terra e dell'immobilità del
sole arriva con un decreto della Sacra Congregazione dell'inquisizione
approvato da Pio VII. Particolarmente significativo risulta il contributo
di Newman, a pochi anni dalla abilitazione dell'insegnamento dell'eliocentrismo
e quando le teorie di Newton sulla gravitazione risultavano ormai affermate e
provate sperimentalmente. Newman riassume il rapporto dell'elio-centrismo con Aristotele.
«Quando il sistema copernicano comincia a diffondersi, quale aristotelico non
sarebbe stato tentato dall'inquietudine, o almeno dal timore dello scandalo,
per l'apparente contraddizione che esso implicava con una certa autorevole tradizione?
Generalmente si accetta che la terra e immobile e che il sole, fissato in un
solido firmamento, ruota intorno alla terra. Dopo un po' di tempo, tuttavia, e
un'analisi completa, si scoprì che Aristotele non aveva deciso quasi niente su
questioni come questa e che la scienza fisica poteva muoversi in questa sfera
di pensiero quasi a piacere, senza timore di scontrarsi con l’adagio, “Master
dixit””. Newman compie della vicenda Galileo come conferma, e non negazione, di
Aristotele. E certamente un fatto molto significativo, considerando con quanta
ampiezza e quanto a lungo fosse stata sostenuta dai aristotelichi una certa
interpretazione di questa affermazione fisica geo-centrica, che Aristotele non
l'abbia formalmente riconosciuta (la teoria del geocentrismo, ndr). Guardando
alla questione da un punto di vista umano, e inevitabile che essa dovesse far
propria quell'opinione. Ma ora, accertando la nostra posizione rispetto
all’esperienza, troviamo che malgrado gli abbondanti commenti che fin
dall'inizio essa ha sempre fatto su Aristotele, com'è suo compito e suo diritto
fare, tuttavia, è sempre stata indotta a spiegare formalmente Aristotele o a
dar loro un senso di autorità che l’esperienza può mettere in discussione. Paolo
VI fece avviare la revisione del processo e con l'intento di porre una parola
definitiva riguardo a queste polemicheGiovanni Paolo II auspicò che fosse
intrapresa una ricerca interdisciplinare sui difficili rapporti di Galileo con
la Chiesa e istituì una Commissione per lo studio della controversia
tolemaico-copernicana nella quale il caso Galilei si inserisce. Il papa ammise,
nel discorso in cui annuncia l'istituzione della commissione, che"Galileo
ebbe molto a soffrire, non possiamo nasconderlo, da parte di uomini
aristotelichi. Si cancella la condanna e chiarì la sua interpretazione sulla
questione teologica scientifica galileiana riconoscendo che la condanna di Galilei
fu dovuta all'ostinazione di entrambe le parti nel non voler considerare le
rispettive teorie come semplici ipotesi non comprovate sperimentalmente e,
d'altra parte, alla mancanza di perspicacia, ovvero di intelligenza e
lungimiranza, dei filosofi aristotelichi che lo condannarono, incapaci di
riflettere sui propri criteri di interpretazione di Aristotele e responsabili
di aver inflitto molte sofferenze a Galilei. Come dichiara Giovanni Paolo II, come
la maggior parte dei suoi avversari aristotelichi, Galileo non fa distinzione
tra quello che è l'approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione
sulla natura, di ordine “filosofico”, che esso generalmente richiama. È per
questo che Galilei rifiutò il suggerimento che gli era stato dato di presentare
come un'ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse
confermato da prove irrefutabili. Era quella, peraltro, un'esigenza del metodo
sperimentale di cui egli fu l’iniziatore. Il problema che si posero dunque i
aristotelichi era quello della compatibilità dell'eliocentrismo e Aristotele.
Così l’esperienza, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi
suppongono, obbligava gl’aristotelichi ad interrogarsi sui loro criteri di
interpretazione di Aristotele. La maggior parte non seppe farlo. Il giudizio
pastorale che richiedeva la teoria copernicana e difficile da esprimere nella
misura in cui il geocentrismo sembrava far parte dell’insegnamento stesso
d’Aristotele. Sarebbe stato necessario contemporaneamente vincere delle
abitudini di pensiero e inventare una pedagogia capace di illuminare il popolo.
La storia del pensiero scientifico del Medioevo e del Rinascimento, che si
comincia ora a comprendere un po' meglio, si può dividere in due periodi, o
meglio, perché l'ordine cronologico corrisponde solo molto approssimativamente
a questa divisione, si può dividere, grosso modo, in tre fasi o epoche,
corrispondenti successivamente a tre differenti correnti di pensiero: prima la
fisica aristotelica; poi la fisica dell'impetus, iniziata, come ogni altra
cosa, dai Greci ed elaborata dalla corrente dei Nominalisti; e infine la fisica
galileiana. Fra le maggiori scoperte che Galilei fece guidato dagli
esperimenti, si annoverano un primo approccio fisico alla relatività, poi noto
come “relatività galileiana”, la scoperta delle quattro lune principali di
Giove, dette appunto “satelliti galileiani” (Io, Europa, “Ganimede” e
Callisto), il principio di inerzia, seppur parzialmente. Compì anche
studi sul moto di caduta dei gravi e riflettendo sui moti lungo i piani
inclinati scoprì il problema del "tempo minimo" nella caduta dei corpi
materiali, e studia varie traiettorie, tra cui la spirale paraboloide e la
cicloide. Nell'ambito delle sue ricerche di matematica – geometria ed
aritmetica -- si avvicinò alle proprietà dell'infinito introducendo un celebre
paradosso di Galileo. Galilei incoraggiò Cavalieri a sviluppare le idee del
maestro e di altri sulla geometria con il metodo degli indivisibili, per
determinare aree e volumi: questo metodo rappresentò una tappa fondamentale per
l'elaborazione del calcolo infinitesimale. Quando Galilei fece rotolare le
sue sfere su di un piano inclinato con un peso scelto da lui stesso, e
Torricelli fece sopportare all’aria un peso che egli stesso sapeva già uguale a
quello di una colonna d’acqua conosciuta fu una rivelazione luminosa per tutti
gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò
che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che essa deve costringere
la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir
così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e
senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria. Galilei
fu uno dei protagonisti della fondazione del metodo scientifico espresso con
linguaggio matematico e pose l'esperimento come strumento a base dell'indagine
sulle leggi della natura, in contrasto con Aristotele e la sua analisi
qualitativa del cosmo. Hanno sin qui la maggior parte dei filosofi creduto che
la superficie della luna fosse pulita tersa e assolutissimamente sferica, e se
qualcuno disse di credere, che ella fusse aspra e muntuosa fu reputato parlare
più presto favolusamente, che filosoficamente. Ora io questa istessa lunare asserisco
il primo, non più per immaginazione, ma per sensata esperienza e necessaria
dimostrazione, che egli è di superficie piena di innumerevoli cavità ed
eminenze, tanto rilevate che di gran lunga superano le terrene montuosità. Già
nella lettera a Welser a proposito della polemica sulle macchie solari, Galilei
si domandava che cosa l'uomo nella sua ricerca vuole arrivare a
conoscere. «O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l'essenza vera
ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in
notizia d'alcune loro affezioni» Ed ancora: per conoscenza intendiamo
l'arrivare a cogliere i principi primi dei fenomeni o come questi si
sviluppano? «Il tentar l'essenza, l'ho per impresa non meno impossibile e
per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime
e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che
della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che
nell'intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de'
particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando,
trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall'uno all'altro. La ricerca dei
principi primi essenziali comporta dunque una serie infinita di domande poiché
ogni risposta fa nascere una nuova domanda: se noi ci chiedessimo quale sia la
sostanza delle nuvole, una prima risposta sarebbe che è il vapore acqueo ma poi
dovremo chiederci che cos'è questo fenomeno e dovremo rispondere che è acqua,
per chiederci subito dopo che cos'è l'acqua, rispondendo che è quel fluido che
scorre nei fiumi ma questa «notizia dell'acqua» è soltanto «più vicina e
dependente da più sensi», più ricca di informazioni particolari diverse, ma non
ci porta certo la conoscenza della sostanza delle nuvole, della quale sappiamo
esattamente quanto prima. Ma se invece vogliamo capire le «affezioni», le
caratteristiche particolari dei corpi, potremo conoscerle sia in quei corpi che
sono da noi distanti, come le nuvole, sia in quelli più vicini, come l'acqua. Occorre
dunque intendere in modo diverso lo studio della natura. «Alcuni severi
difensori di ogni minuzia peripatetica», educati nel culto di Aristotele,
credono che «il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica
sopra i testi di Aristotele» che portano come unica prova delle loro teorie. E
non volendo «mai sollevar gli occhi da quelle carte» rifiutano di leggere
«questo gran libro del mondo» (cioè dall'osservare direttamente i fenomeni),
come se «fosse scritto dalla natura per non esser letto da altri che da
Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità.
Invece i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra
un mondo di carta.A fondamento del metodo scientifico quindi ci sono il rifiuto
dell'essenzialismo e la decisione di cogliere solo l'aspetto quantitativo dei
fenomeni nella convinzione di poterli tradurre tramite la misurazione in numeri
così che si abbia una conoscenza di tipo matematico, l'unica perfetta per
l'uomo che la raggiunge gradatamente tramite il ragionamento così da eguagliare
lo stesso perfetto conoscere divino che la possiede interamente e
intuitivamente. Però...quanto alla verità di che ci danno cognizione le
dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina. Il
metodo galileiano si dovrà comporre quindi di due aspetti principali: sensata
esperienza, ovvero l'esperimento distinto dalla comune osservazione della
natura, che deve infatti seguire a un'attenta formulazione teorica, ovvero a
ipotesi (metodo ipotetico-sperimentale) che siano in grado di guidare
l'esperienza in modo che essa non fornisca risultati arbitrari. Galileo non
ottenne la legge di caduta dei gravi dalla mera osservazione, altrimenti ne
avrebbe dedotto che un corpo cade più rapidamente tanto più è pesante (un sasso
nell'aria arriva prima a terra di una piuma per via dell'attrito). Studiò
invece il moto dei corpi in caduta controllandolo con un piano inclinato,
costruendo cioè un esperimento che gli permettesse di ottenere risultati più
precisi. Anche l'esperimento mentale può essere un utile strumento di
dimostrazione e permise a Galileo di confutare le dottrine aristoteliche sul
moto. necessaria dimostrazione, ovvero un'analisi matematica e rigorosa dei
risultati dell'esperienza, che sia in grado di trarre da questa risultati
universali e ogni conseguenza in modo necessario e non opinabile espressi dalla
legge scientifica. In questo modo Galileo concluse che tutti i corpi nel vuoto
precipitano con una velocità proporzionale al tempo di caduta, anche se
chiaramente non aveva effettuato esperimenti considerando tutti i possibili
corpi con differenti forme e materiali. La dimostrazione va ulteriormente
verificata, con ulteriori esperienze, ovvero il cosiddetto cimento che è l'esperimento
concreto con cui va sempre verificato l'esito di ogni formulazione teorica. Sintetizzando
la natura del metodo galileiano, Rodolfo Mondolfo infine aggiunge che:
«Il vincolo stabilito da Galileo tra osservazione e dimostrazione le esperienze
fatte mediante i sensi e le dimostrazioni logico-matematiche della loro
necessità – era un vincolo reciproco, non unilaterale: né le esperienze
sensibili dell’ osservazione potevano valere scientificamente senza la relativa
dimostrazione della loro necessità, né la dimostrazione logica e matematica
poteva raggiungere la sua "assoluta certezza oggettiva" come quella
della natura senza appoggiarsi all’ esperienza nel suo punto di partenza e
senza trovare la sua conferma in essa nel suo punto d’ arrivo. È questa
l'originalità del metodo galileiano: avere collegato esperienza e ragione,
induzione e deduzione, osservazione esatta dei fenomeni e elaborazione di
ipotesi e questo, non astrattamente ma, con lo studio di fenomeni reali e con
l'uso di appositi strumenti tecnici. La terminologia scientifica in
Galilei Fondamentale è stato il contributo di Galileo al linguaggio
scientifico, sia in campo matematico, sia, in particolare, nel campo della
fisica. Ancora oggi in questa disciplina molto del linguaggio settoriale in uso
deriva da specifiche scelte dello scienziato pisano. In particolare, negli
scritti di Galileo molte parole sono tratte dal linguaggio comune e vengono
sottoposte ad una "tecnificazione", cioè l'attribuzione ad esse di un
significato specifico e nuovo (una forma, quindi, di neologismo semantico). È
il caso di "forza" (seppur non in senso newtoniano),
"velocità", "momento", "impeto",
"fulcro", "molla" (intendendo lo strumento meccanico ma
anche la "forza elastica"), "strofinamento",
"terminatore", "nastro". Un esempio del modo in cui Galileo
nomina gli oggetti geometrici è in un brano dei Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze: «Voglio che ci immaginiamo esser
levato via l'emisferio, lasciando però il cono e quello che rimarrà del
cilindro, il quale, dalla figura che riterrà simile a una scodella, chiameremo
pure scodella. Come si vede, nel testo ad una terminologia specialistica
("emisferio", "cono", "cilindro") si accompagna
l'uso di un termine che denota un oggetto della vita quotidiana, cioè
"scodella". Galilei è ricordato nella storia anche per le sue
riflessioni sui fondamenti e sugli strumenti dell'analisi scientifica della
natura. Celebre la sua metafora riportata nel Saggiatore, dove la matematica
viene definita come il linguaggio (o la semiotica, o i ‘signi’ – il segno -- in
cui è scritto libro della natura: La filosofia è scritta in questo
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico
l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la
lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua
matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche,
senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi
è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. In questo brano Galilei mette
in collegamento le parole "matematica", "filosofia" e
"universo", dando così inizio a una lunga disputa fra i filosofi
della scienza in merito a come egli concepisse e mettesse in relazione fra loro
questi termini. Ad esempio, quello che qui Galileo chiama "universo"
si dovrebbe intendere, modernamente, come "realtà fisica" o
"mondo fisico" in quanto Galileo si riferisce al mondo materiale conoscibile
matematicamente. Quindi non solo alla globalità dell'universo inteso come
insieme delle galassie, ma anche di qualsiasi sua parte o sottoinsieme
inanimato. Il termine "natura" includerebbe invece anche il mondo
biologico, escluso dall'indagine galileiana della realtà fisica. Per
quanto riguarda l'universo propriamente detto, Galilei, seppur
nell'indecisione, sembra propendere per la tesi che sia infinito:
«Grandissima mi par l’inezia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto
l’universo più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso che
all’immensa, anzi infinita, sua potenza» Egli non prende una posizione
netta sulla questione della finitezza o infinità dell'universo; tuttavia, come
sostiene Rossi, «c'è una sola ragione che lo inclina verso la tesi dell'infinità:
è più facile riferire l'incomprensibilità all'incomprensibile infinito che al
finito che non è comprensibile». Ma Galilei non prende mai esplicitamente in
considerazione, forse per prudenza, la dottrina di Giordano Bruno di un
universo illimitato e infinito, senza un centro e costituito di infiniti mondi
tra i quali Terra e Sole che non hanno alcuna preminenza cosmogonica. Lo
scienziato pisano non partecipa al dibattito sulla finitezza o infinità
dell'universo e afferma che a suo parere la questione è insolubile. Se appare
propendere per l'ipotesi della infinitezza lo fa con motivazioni filosofiche in
quanto, sostiene, l'infinito è oggetto di incomprensibilità mentre ciò che è
finito rientra nei limiti del comprensibile. Il rapporto fra la matematica di Galileo
e la sua filosofia della natura, il ruolo della deduzione rispetto
all'induzione nelle sue ricerche, sono stati riportati da molti filosofi al
confronto fra aristotelici e platonici, al recupero dell'antica tradizione
greca con la concezione archimedea o anche all'inizio dello sviluppo nel XVII
secolo del metodo sperimentale. La questione è stata così ben espressa dal
filosofo medievalista Moody. Quali sono i fondamenti filosofici della fisica di
Galileo e quindi della scienza moderna in genere? Galileo è sostanzialmente un
platonico, un aristotelico o nessuno dei due? Si limitò, come sostiene Duhem, a
rilevare e perfezionare una scienza meccanica che aveva avuto origine nel
Medioevo cristiano e i cui principi fondamentali erano stati scoperti e formulati
da Buridano, da Nicola Oresme e dagli altri esponenti della cosiddetta
"fisica dell’ impetus" del XIV secolo? Oppure, come sostengono
Cassirer e Koyré, voltò le spalle a questa tradizione dopo averla brevemente
processata nella sua dinamica pisana e ripartì ispirandosi ad Archimede e
Platone? Le controversie più recenti su Galileo sono consistite in larga misura
in un dibattito circa il valore fondamentale e l’ influsso storico che su di
lui avevano esercitato le tradizioni filosofiche, platoniche e aristoteliche,
scolastiche e antiscolastiche. Galileo viveva in un'epoca in cui le idee del
platonismo si erano diffuse nuovamente in tutta Europa e in Italia e
probabilmente anche per questa ragione i simboli della matematica vengono da
lui identificati con entità geometriche e non con numeri. L'uso dell'algebra
derivato dal mondo arabo nel dimostrare relazioni geometriche era invece ancora
insufficientemente sviluppato ed è solo con Leibniz e Isaac Newton che il
calcolo differenziale divenne la base dello studio della meccanica classica.
Galileo infatti nel mostrare la legge di caduta dei gravi si servì di relazioni
e similitudini geometriche. Da una parte, per alcuni filosofi come
Alexandre Koyré, Ernst Cassirer, Edwin Arthur Burtt (1892–1989), la sperimentazione
fu certamente importante negli studi di Galileo e giocò anche un ruolo positivo
nello sviluppo della scienza moderna. La sperimentazione stessa, come studio
sistematico della natura, richiede un linguaggio con cui formulare domande e
interpretare le risposte ottenute. La ricerca di questo linguaggio era un
problema che aveva interessato i filosofi sin dai tempi di Platone e
Aristotele, in particolare rispetto al ruolo non banale della matematica nello
studio delle scienze della natura. Galilei si affida a esatte e perfette figure
geometriche che però non possono mai essere riscontrate nel mondo reale, se non
al massimo come rozza approssimazione. Oggi la matematica nella fisica
moderna è utilizzata per costruire modelli del mondo reale, ma ai tempi di
Galileo questo tipo di approccio non era affatto scontato. Secondo Koyré, per
Galileo il linguaggio della matematica gli permette di formulare domande a
priori prima ancora di confrontarsi con l'esperienza, e così facendo orienta la
stessa ricerca delle caratteristiche della natura attraverso gli esperimenti.
Da questo punto di vista, Galileo seguirebbe quindi la tradizione platonica e
pitagorica, dove la teoria matematica precede l'esperienza e non si applica al
mondo sensibile ma ne esprime la sua intima natura. La visione aristotelica
Altri studiosi di Galilei, come Stillman Drake, Pierre Duhem, John Herman
Randall Jr., hanno invece sottolineato la novità del pensiero di Galileo
rispetto alla filosofia platonica classica. Nella metafora del Saggiatore la
matematica è un linguaggio e non è direttamente definita né come l'universo né
come la filosofia, ma è piuttosto uno strumento per analizzare il mondo
sensibile che era invece visto dai platonici come illusorio. Il linguaggio
sarebbe il fulcro della metafora di Galileo, ma l'universo stesso è il vero
obbiettivo delle sue ricerche. In questo modo secondo Drake, Galileo si
allontanerebbe definitivamente dalla concezione e dalla filosofia platonica per
accostarsi invece alla filosofia aristotelica per cui ogni realtà deve avere in
sé stessa le leggi del proprio costituirsi. La sintesi tra platonismo e
aristotelismo Secondo Eugenio Garin Galileo invece, con il suo metodo
sperimentale, vuole identificare nel fatto osservato
"aristotelicamente" una necessità intrinseca, espressa
matematicamente, dovuta al suo legame con la causa divina "platonica"
che lo produce facendolo "vivere". Alla radice di gran parte della
nuova scienza, da Leonardo a Galileo, accanto al desiderio tutto rinascimentale
di non lasciare intentata via alcuna, è viva la certezza che il sapere ha
aperta innanzi a sé la possibilità di una salda cognizione. Se noi
ripercorriamo la Teologia platonica, vi troviamo al centro questa tesi,
largamente e minutamente discussa nel libro secondo: alla mente di Dio sono
presenti tutte le essenze; la divina volontà, che poteva non creare, ha
manifestato la sua generosità col dare concreta e mondana realizzazione alle
eterne idee facendole vivere. La fecondità del concetto di creazione si rivela
nel dono della vita che Dio ha dato, e poteva non dare. Ma la volontà non tocca
quel mondo razionale che costituisce l'eterna ragione divina, il verbo divino,
cui dunque si conforma e si adegua questo mondo il quale, platonicamente,
rispecchia l'ideale razionalità per il tramite dell'intermediario matematico:
"numero, pondere et mensura". La mente umana, raggio del Verbo
divino, è nelle sue radici impiantata essa pure in Dio; è in Dio partecipe in
qualche modo dell'assoluta certezza. La scienza nasce così per il corrispondersi
di questa struttura razionale del mondo, impiantata nell'eterna sapienza
divina, e della mente umana partecipe di questa luce divina di ragione. Studi
sul moto La descrizione quantitativa del movimento Rappresentazione
dell'evoluzione moderna dei diagrammi utilizzati da Galileo nello studio del
moto. Ad ogni punto di una linea corrisponde un tempo e una velocità (segmento
giallo che termina con un punto blu). L'area gialla della figura così ottenuta
corrisponde quindi allo spazio totale percorso nell'intervallo di tempo
(t2-t1). Dilthey vede Keplero e Galilei come le massime espressioni nel loro
tempo di "pensieri calcolatori" che si disponevano a risolvere,
tramite lo studio delle leggi del movimento, le esigenze della moderna società
borghese: «Il lavoro degli opifici urbani, i problemi sorti
dall’invenzione della polvere da sparo e dalla tecnica delle fortificazioni, i
bisogni della navigazione relativamente ad apertura di canali, a costruzione e
armamento di navi, avevano fatto della meccanica la scienza preferita del
tempo. Specialmente in Italia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra, questi bisogni
erano assai vivaci, e provocarono la ripresa e continuazione degli studi di
statica degli antichi e le prime ricerche nel nuovo campo della dinamica, specialmente
per opera di Leonardo, del Benedetti e dell'Ubaldi. Galilei fu infatti uno dei
protagonisti del superamento della descrizione aristotelica della natura del
moto. Già nel medioevo alcuni autori, come Giovanni Filopono nel VI secolo,
avevano osservato contraddizioni nelle leggi aristoteliche, ma fu Galileo a
proporre una valida alternativa basata su osservazioni sperimentali.
Diversamente da Aristotele, per il quale esistono due moti
"naturali", cioè spontanei, dipendenti dalla sostanza dei corpi, uno
diretto verso il basso, tipico dei corpi di terra e d'acqua, e uno verso
l'alto, tipico dei corpi d'aria e di fuoco, per Galileo qualunque corpo tende a
cadere verso il basso nella direzione del centro della Terra. Se vi sono corpi
che salgono verso l'alto è perché il mezzo nel quale si trovano, avendo una
densità maggiore, li spinge in alto, secondo il noto principio già espresso da
Archimede: la legge sulla caduta dei gravi di Galileo, prescindendo dal mezzo,
è pertanto valida per tutti i corpi, qualunque sia la loro natura. Per
raggiungere questo risultato, uno dei primi problemi che Galileo e i suoi
contemporanei dovettero risolvere fu quello di trovare gli strumenti adatti a
descrivere quantitativamente il moto. Ricorrendo alla matematica, il problema
era quello di capire come trattare eventi dinamici, come la caduta dei corpi,
con figure geometriche o numeri che in quanto tali sono assolutamente statici e
sono privi di alcun moto. Per superare la fisica aristotelica, che considerava
il moto in termini qualitativi e non matematici, come allontanamento e
successivo ritorno al luogo naturale, bisognava dunque prima sviluppare gli
strumenti della geometria e in particolare del calcolo differenziale, come
fecero successivamente fra gli altri Newton, Leibniz e Cartesio. Galileo riuscì
a risolvere il problema nello studio del moto dei corpi accelerati disegnando
una linea ed associando ad ogni punto un tempo e un segmento ortogonale
proporzionale alla velocità. In questo modo costruì il prototipo del diagramma
velocità-tempo e lo spazio percorso da un corpo è semplicemente uguale all'area
della figura geometrica costruita. I suoi studi e le sue ricerche sul moto dei
corpi aprirono inoltre la via alla moderna balistica. Sulla base degli studi
sul moto, di esperimenti mentali e delle osservazioni astronomiche, Galileo
intuì che è possibile descrivere sia gli eventi che accadono sulla Terra che
quelli celesti con un unico insieme di leggi. Superò quindi in questo modo
anche la divisione fra mondo sublunare e sovralunare della tradizione
aristotelica (per la quale il secondo è governato da leggi diverse da quelle
terrestri e da moti circolari perfettamente sferici, ritenuti impossibili nel
mondo sublunare). Il principio d'inerzia e il moto circolare Sfera sul
piano inclinato Studiando il piano inclinato, Galilei si occupò dell'origine
del moto dei corpi e del ruolo degli attriti; scoprì un fenomeno che è
conseguenza diretta della conservazione dell'energia meccanica e porta a
considerare l'esistenza del moto inerziale (che avviene senza l'applicazione di
una forza esterna). Ebbe così l'intuizione del principio di inerzia, poi
inserito da Isaac Newton nei principi della dinamica: un corpo, in assenza
d'attrito, permane in moto rettilineo uniforme (in quiete se v=0) fino a quando
forze esterne agiscono su di esso. Il concetto di energia non era invece
presente nella fisica del Seicento e solo con lo sviluppo, oltre un secolo più
tardi, della meccanica classica si arriverà ad una precisa formulazione di tale
concetto. Galileo pose due piani inclinati dello stesso angolo di base θ,
uno di fronte all'altro, ad una distanza arbitraria x. Facendo scendere una
sfera da un'altezza h1 per un tratto l1 di quello a SN notò che la sfera,
arrivata sul piano orizzontale tra i due piani inclinati, continua il suo moto
rettilineo fino alla base del piano inclinato di DX. A quel punto, in assenza
d'attrito, la sfera risale il piano inclinato di DX per un tratto l2 = l1 e si
ferma alla stessa altezza (h2 = h1) di partenza. In termini attuali, la
conservazione dell'energia meccanica impone che l'iniziale energia potenziale
Ep = mgh1 della sfera si trasformi - man mano che la sfera discende il primo
piano inclinato (SN) - in energia cinetica Ec = (1/2) mv2 sino alla sua base,
dove vale mgh1 = (1/2) mvmax2. La sfera si muove quindi sul piano orizzontale
coprendo la distanza x tra i piani inclinati con velocità costante vmax, fino
alla base del secondo piano inclinato (DX). Risale poi il piano inclinato di
DX, perdendo progressivamente energia cinetica che si trasforma nuovamente in
energia potenziale, fino a un valore massimo uguale a quello iniziale (Ep =
mgh2 = mgh1), al quale corrisponde velocità finale nulla (v2 = 0).
Rappresentazione dell'esperimento di Galileo sul principio d'inerzia. Si
immagini ora di diminuire l'angolo θ2 del piano inclinato di DX (θ2 < θ1),e
di ripetere l'esperimento. Per riuscire a risalire - come impone il principio
di conservazione dell'energia - alla medesima quota h2 di prima, la sfera dovrà
ora percorrere un tratto l2 più lungo sul piano inclinato di DX. Se si riduce
progressivamente l'angolo θ2, si vedrà che ogni volta aumenta la lunghezza l2
del tratto percorso dalla sfera, per risalire all'altezza h2. Se si porta
infine l'angolo θ2 ad essere nullo (θ2 = 0°), si è di fatto eliminato il piano
inclinato di DX. Facendo ora scendere la sfera dall'altezza h1 del piano
inclinato di SN, essa continuerà a muoversi indefinitamente sul piano
orizzontale con velocità vmax (principio d'inerzia) in quanto, per l'assenza del
piano inclinato di DX, non potrà mai risalire all'altezza h2 (come prevederebbe
il principio di conservazione dell'energia meccanica). Si immagini infine
di spianare montagne, riempire valli e costruire ponti, in modo da realizzare
un percorso rettilineo assolutamente piano, uniforme e senza attriti. Una volta
iniziato il moto inerziale della sfera che scende da un piano inclinato con
velocità costante vmax, questa continuerà a muoversi lungo tale percorso
rettilineo fino a fare il giro completo della Terra, e ricominciare quindi
indisturbata il proprio cammino. Ecco realizzato un (ideale) moto inerziale
perpetuo, che avviene lungo un'orbita circolare, coincidente con la
circonferenza terrestre. Partendo da questo "esperimento ideale",
Galileo sembrerebbe erroneamente ritenere che tutti i moti inerziali debbano
essere moti circolari. Probabilmente per questo motivo considerò, per i moti
planetari da lui (arbitrariamente) ritenuti inerziali, sempre e solo orbite
circolari, rifiutando invece le orbite ellittiche dimostrate da Keplero.
Dunque, ad essere rigorosi, non pare essere corretto quanto afferma Newton nei
"Principia" - fuorviando così innumerevoli studiosi - e cioè che
Galilei avrebbe anticipato i suoi primi due principi della dinamica. Misura
dell'accelerazione di gravità File:Isocronismo.webm Spiegazione del
funzionamento dell'isocronismo nella caduta dei gravi lungo una spirale su un
paraboloide. Galileo riuscì a determinare il valore che egli credeva costante
dell'accelerazione di gravità g alla superficie terrestre, cioè della grandezza
che regola il moto dei corpi che cadono verso il centro della Terra, studiando
la caduta di sfere ben levigate lungo un piano inclinato, anch'esso ben
levigato. Poiché il moto della sfera dipende dall'angolo di inclinazione del
piano, con semplici misure ad angoli differenti riuscì a ottenere un valore di
g solamente di poco inferiore a quello esatto per Padova (g = 9,8065855 m/s²),
nonostante gli errori sistematici, dovuti all'attrito che non poteva essere
completamente eliminato. Detta a l'accelerazione della sfera lungo il
piano inclinato, la sua relazione con g risulta essere a = g sin θ per cui,
dalla misura sperimentale di a, si risale al valore dell'accelerazione di gravità
g. Il piano inclinato permette di ridurre a piacimento il valore
dell'accelerazione (a < g), facilitandone la misura. Ad esempio, se θ = 6°,
allora sin θ = 0,104528 e quindi a = 1,025 m/s². Tale valore è meglio
determinabile, con una strumentazione rudimentale, rispetto a quello
dell'accelerazione di gravità (g = 9,81 m/s²) misurato direttamente con la
caduta verticale di un oggetto pesante. Misura della velocità della luce
Guidato dalla similitudine con il suono, Galileo fu il primo a tentare di
misurare la velocità della luce. La sua idea fu quella di portarsi su una
collina con una lanterna coperta da un drappo e quindi toglierlo lanciando così
un segnale luminoso ad un assistente posto su un'altra collina ad un chilometro
e mezzo di distanza: questi non appena avesse visto il segnale, avrebbe quindi
alzato a sua volta il drappo della sua lanterna e Galileo vedendo la luce
avrebbe potuto registrare l'intervallo di tempo impiegato dal segnale luminoso
per giungere all'altra collina e tornare indietro.Una misura precisa di questo
tempo avrebbe consentito di misurare la velocità della luce ma il tentativo fu
infruttuoso data l'impossibilità per Galilei di avere uno strumento così
avanzato che potesse misurare i centomillesimi di secondo che la luce impiega
per percorrere una distanza di pochi chilometri. La prima stima della
velocità della luce fu opera, nel 1676, dell'astronomo danese Rømer basata su
misure astronomiche. Apparati sperimentali e di misura Termometro di
Galileo, in un'elaborazione successiva. Gli apparati sperimentali furono
fondamentali nello sviluppo delle teorie scientifiche di Galileo, che costruì
diversi strumenti di misura originalmente o rielaborandoli sulla base di idee
preesistenti. In ambito astronomico costruì da sé alcuni esemplari di
cannocchiale, provvisti di micrometro per misurare quanto distasse una luna dal
suo pianeta. Per studiare le macchie solari, proiettò con l'elioscopio
l'immagine del Sole su un foglio di carta per poterla osservare in sicurezza
senza danni alla vista. Ideò anche il giovilabio, simile all'astrolabio, per
determinare la longitudine usando le eclissi dei satelliti di Giove. Per
studiare il moto dei corpi si servì invece del piano inclinato con il pendolo
per misurare intervalli temporali. Riprese anche un rudimentale modello di
termometro, basato sulla dilatazione dell'aria al variare della temperatura. Il
pendolo Schema di un pendolo Galileo scoprì nel 1583 l'isocronismo delle
piccole oscillazioni di un pendolo; secondo la leggenda l'idea gli sarebbe venuta
mentre osservava le oscillazioni di una lampada allora sospesa nella navata
centrale del Duomo di Pisa, oggi custodita nel vicino Camposanto Monumentale,
nella Cappella Aulla. Questo strumento è semplicemente composto da un grave,
come una sfera metallica, legato ad un filo sottile e inestensibile. Galileo
osservò che il tempo di oscillazione di un pendolo è indipendente dalla massa
del grave e anche dall'ampiezza dell'oscillazione, se questa è piccola. Scoprì
anche che il periodo di oscillazione {\displaystyle T}T dipende solo dalla
lunghezza del filo {\displaystyle l}l:[135] {\displaystyle T=2\pi {\sqrt
{\frac {l}{g}}}}T=2\pi {\sqrt {\frac {l}{g}}} dove {\displaystyle
g}g è l'accelerazione di gravità. Se ad esempio il pendolo ha {\displaystyle
l=1m}{\displaystyle l=1m}, l'oscillazione che porta il grave da un estremo
all'altro e poi di nuovo indietro ha un periodo {\displaystyle
T=2,0064s}{\displaystyle T=2,0064s} (avendo assunto per {\displaystyle g}g il
valore medio {\displaystyle 9,80665}{\displaystyle 9,80665}). Galileo sfruttò
questa proprietà del pendolo per usarlo come strumento di misura di intervalli
temporali. La bilancia idrostatica Galileo nel 1586, all'età di 22 anni quando
era ancora in attesa dell'incarico universitario a Pisa, perfezionò la bilancia
idrostatica di Archimede e descrisse il suo dispositivo nella sua prima opera
in volgare, La Bilancetta, che circolò manoscritta, ma fu stampata postuma
«Per fabricar dunque la bilancia, piglisi un regolo lungo almeno due braccia, e
quanto più sarà lungo più sarà esatto l'istrumento; e dividasi nel mezo, dove
si ponga il perpendicolo [il fulcro]; poi si aggiustino le braccia che stiano
nell'equilibrio, con l'assottigliare quello che pesasse di più; e sopra l'uno
delle braccia si notino i termini dove ritornano i contrapesi de i metalli
semplici quando saranno pesati nell'acqua, avvertendo di pesare i metalli più
puri che si trovino. Viene anche descritto come si ottiene il peso specifico PS
di un corpo rispetto all'acqua: {\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname
{peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname
{peso\;in\;acqua} }}}{\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname
{peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname
{peso\;in\;acqua} }}}. Ne La Bilancetta si trovano poi due tavole che riportano
trentanove pesi specifici di metalli preziosi e genuini, determinati
sperimentalmente da Galileo con precisione confrontabile con i valori moderni. Il
compasso proporzionale Una descrizione dell'uso del compasso proporzionale
fornita da Galileo Galilei. Il compasso proporzionale era uno strumento
utilizzato fin dal medioevo per eseguire operazioni anche algebriche per via
geometrica, perfezionato da Galileo ed in grado di estrarre la radice quadrata,
costruire poligoni e calcolare aree e volumi. Fu utilizzato con successo in
campo militare dagli artiglieri per calcolare le traiettorie dei proiettili. Galilei
e l'arte Letteratura Gli interessi letterari di Galilei Durante il periodo
pisano Galileo non si limitò alle sole occupazioni scientifiche: risalgono
infatti a questi anni le sue Considerazioni sul Tasso che avranno un seguito
con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note sparse su fogli e annotazioni a
margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme liberata e dell'Orlando
furioso dove, mentre rimprovera al Tasso «la scarsezza della fantasia e la
monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo
lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità
del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine
l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico. Galilei scrittore.
D'altro più non si cura fuorché d'essere inteso» (Giuseppe Parini) «Uno
stile tutto cose e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni
maniera, in quella forma diretta e propria in che è l'ultima perfezione della
prosa.» (Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana) Dal
punto di vista letterario, Il Saggiatore è considerata l'opera in cui si
fondono maggiormente il suo amore per la scienza, per la verità e la sua
arguzia di polemista. Tuttavia, anche nel Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo si apprezzano pagine di notevole livello per qualità della scrittura,
vivacità della lingua, ricchezza narrativa e descrittiva. Infine Italo Calvino
affermò che, a suo parere, Galilei è stato il maggior scrittore di prosa in
lingua italiana, fonte di ispirazione persino per Leopardi. L'uso della lingua
volgare L'uso del volgare servì a Galileo per un duplice scopo. Da una parte
era finalizzato all'intento divulgativo dell'opera: Galileo intendeva
rivolgersi non solo ai dotti e agli intellettuali ma anche a classi meno colte,
come i tecnici che non conoscevano il latino ma che potevano comunque
comprendere le sue teorie. Dall'altro si contrappone al latino della Chiesa e
delle diverse Accademie che si basavano sul principio di auctoritas,
rispettivamente biblico ed aristotelico. Si viene a delineare una rottura con
la tradizione precedente anche per quanto riguarda la terminologia: Galileo, a
differenza dei suoi predecessori, non trae spunti dal latino o dal greco per
coniare nuovi termini ma li riprende, modificandone l'accezione, dalla lingua
volgare. Galileo, inoltre, dimostrò atteggiamenti diversi nei confronti delle
terminologie esistenti: terminologia meccanica: cauto accoglimento;
terminologia astronomica: non respinge i vocaboli che l'uso abbia già accolto o
tenda ad accogliere. Li utilizza, però, come strumenti, insistendo sul loro
valore convenzionale ("le parole o imposizioni di nomi servono alla
verità, ma non si devono sostituire a essa). Lo scienziato poi segnala gli
errori che nascono quando il nome travisa la realtà fisica o che nascono dalla
suggestione esercitata dagli usi comuni di un vocabolo sul significato figurato
assunto come termine scientifico; per evitare questi errori, egli fissa
esattamente il significato dei singoli vocaboli: sono preceduti o seguiti da
una descrizione; terminologia peripapetica: rifiuto totale che si manifesta con
la sua messa in ridicolo, servendosene come puri suoni in un gioco di
alternanze e rime. Arti figurative «L'Accademia e Compagnia dell'Arte del
Disegno fu fondata da Cosimo I de' Medici nel 1563, su suggerimento di Giorgio
Vasari, con l'intento di rinnovare e favorire lo sviluppo della prima
corporazione di artisti costituitasi dall'antica compagnia di San Luca. Annoverò
tra i primi accademici personalità come Buonarroti, Bartolomeo Ammannati,
Agnolo Bronzino, Francesco da Sangallo. Per secoli l'Accademia rappresentò il
più naturale e prestigioso centro di aggregazione per gli artisti operanti a
Firenze e, al tempo stesso, favorì il rapporto fra scienza e arte. Essa
prevedeva l'insegnamento della geometria euclidea e della matematica e pubbliche
dissezioni dovevano preparare al disegno. Anche uno scienziato come Galileo
Galilei fu nominato membro dell'Accademia fiorentina delle Arti del Disegno. Galileo,
infatti, prese pure parte alle complesse vicende riguardanti le arti figurative
del suo periodo, soprattutto la ritrattistica, approfondendo la prospettiva
manieristica ed entrando in contatto con illustri artisti dell'epoca (come il
Cigoli), nonché influenzando in modo consistente, con le sue scoperte
astronomiche, la corrente naturalistica. Superiorità della pittura sulla
scultura Per Galileo nell'arte figurativa, come nella poesia e nella musica,
vale l'emozione che si riesce a trasmettere, a prescindere da una descrizione
analitica della realtà. Ritiene inoltre che tanto più dissimili sono i mezzi
usati per rendere un soggetto dal soggetto stesso, tanto maggiore l'abilità
dell'artista. Perciocché quanto più i mezzi, co' quali si imita, son lontani
dalle cose da imitarsi, tanto più l'imitazione è maravigliosa.” Ludovico Cardi,
detto il Cigoli, fiorentino, fu pittore al tempo di Galileo; ad un certo punto
della sua vita, per difendere il suo operato, chiese aiuto al suo amico
Galileo: doveva, infatti, difendersi dagli attacchi di quanti ritenevano la
scultura superiore alla pittura, in quanto ha il dono della tridimensionalità,
a discapito della pittura semplicemente bidimensionale. Galileo rispose con una
lettera. Egli fornisce una distinzione tra valori ottici e tattili, che diventa
anche giudizio di valore sulle tecniche scultoree e pittoriche: la statua, con
le sue tre dimensioni, inganna il senso del tatto, mentre la pittura, in due
dimensioni, inganna il senso della vista. Galilei attribuisce quindi al pittore
una maggiore capacità espressiva che non allo scultore poiché il primo, tramite
la vista, è in grado di produrre emozioni meglio di quanto faccia il secondo
mediante il tatto. “A quello poi che dicono gli scultori, che la natura fa
gli uomini di scultura e non di pittura, rispondo che ella gli fa non meno
dipinti che scolpiti, perché ella gli scolpe e gli colora.” Il padre di Galileo
era un musicista (liutista e compositore) e teorico musicale molto noto ai suoi
tempi. Galileo fornì un contributo fondamentale alla comprensione dei fenomeni
acustici, studiando in modo scientifico l'importanza dei fenomeni oscillatori
nella produzione della musica. Scoprì anche la relazione che intercorre fra la
lunghezza di una corda in vibrazione e la frequenza del suono emessa. Nella
lettera a Lodovico Cardi, Galileo scrive: «Non ammireremmo noi un musico,
il quale cantando e rappresentandoci le querele e le passioni d'un amante ci
muovesse a compassionarlo, molto più che se piangendo ciò facesse?... E molto
più lo ammireremmo, se tacendo, col solo strumento, con crudezze et accenti
patetici musicali, ciò facesse...» (Opere XI) mettendo sullo stesso piano
la musica vocale e quella strumentale, dato che nell'arte sono importanti solo
le emozioni che si riescono a trasmettere. Dediche Banconota da 2.000
lire con la raffigurazione di Galileo 2 euro commemorativi italiani per
il 450º anniversario della nascita di Galileo Galilei A Galileo sono stati
dedicati innumerevoli tipi di oggetti ed enti, naturali o creati
dall'uomo: la Galileo Regio, una regione della superficie del satellite
Ganimede; l'asteroide 697 Galilea; una sonda spaziale, la Galileo; un sistema
di posizionamento spaziale, il sistema Galileo; il gal (unità di
accelerazione); il Telescopio Nazionale Galileo (TNG), situato sull'isola di La
Palma (Spagna); l'aeroporto internazionale "Galileo Galilei" di Pisa;
un gruppo musicale giapponese, Galileo Galilei; un album degli Haggard dal
titolo "Eppur si muove"; una canzone scritta e interpretata dal
cantautore pugliese Caparezza intitolata "Il dito medio di Galileo";
il sottomarino Galileo Galilei; una nave da guerra italiana, la Galileo
Galilei; la banconota da 2.000 lire; una canzone Messer Galileo cantata da
Edoardo Pachera durante la 52ª edizione dello Zecchino d'Oro; una società,
produttrice di strumenti scientifici, ottici ed astronomici e denominata
Officine Galileo; una moneta commemorativa da 2 euro nel 2014 per il 450º
anniversario della sua nascita; un supercomputer di potenza di calcolo pari a
circa 1 PetaFlop, installato presso il consorzio interuniversitario CINECA e
classificato per diverso tempo fra le prime 500 strutture di calcolo al mondo;
una cattedra di storia della scienza dell'Università di Padova, detta appunto
cattedra galileiana, istituita per Enrico Bellone a cui poi successe William R.
Shea che la resse fino al 2011, più la Scuola Galileiana di Studi Superiori
della stessa università, nonché l'Accademia galileiana di scienze, lettere ed
arti di Padova. Galileo Day Galileo Galilei viene ricordato con celebrazioni
presso istituzioni locali il 15 febbraio, il Galileo Day, giorno della sua
nascita. Altre opere: La bilancetta (postuma), Tractatio de praecognitionibus
et precognitis and Tractatio de demonstration. Le mecaniche, Le operazioni del
compasso geometrico et militare, Sidereus Nuncius, Discorso intorno alle cose che stanno in su
l'acqua, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti
(pubblicato dall'Accademia dei Lincei), 1613 (su archive.org, BEIC) Discorso
sopra il flusso e il reflusso del mare, Roma, Il Discorso delle Comete, Il
Saggiatore, Roma, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Firenze, Due
nuove scienze, Leida, Trattato della sfera, Roma 1656 (su BEIC) Lettere Lettera
al Padre Benedetto Castelli, Lettera a Madama Cristina di Lorena, Lettera a Pietro
Dini, Edizione nazionale Opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, a cura
di Antonio Favaro, Firenze, G. Barbera, Le opere di Galileo Galilei. Edizione
nazionale sotto gli auspicii di Sua Maestà il Re d'Italia. Firenze, Tipografia di G. Barbera, Le opere di
Galileo Galilei, Edizione Nazionale, Appendice, Firenze, Giunti, 2013 ss. in
quattro volumi: Vol. 1: Iconografia galileiana, a cura di F. Tognoni, Carteggio,
a cura di M. Camerota e P. Ruffo, con la collaborazione di M. Bucciantini, Testi,
a cura di A. Battistini, M. Camerota, G. Ernst, R. Gatto, M. Helbing e P.
Ruffo, Documenti, a cura di M. Camerota e P. Ruffo (Edizione digitale delle
Opere Letteratura e teatro Vita di Galileo è il titolo di un'opera teatrale di Brecht
in più versioni, a partire dalla prima risalente agli anni 1938-39. Gli ultimi
anni di Galileo Galilei è il titolo di un'opera teatrale giovanile di Ippolito
Nievo. Galileo è uno spettacolo teatrale del 2010 di Francesco Niccolini e
Marco Paolini. Film Galileo Galilei è un cortometraggio sullo scienziato
pisano. Galileo è un film di Cavani. Galileo si chiama anche il film di Joseph
Losey tratto dal dramma Vita di Galileo di Bertolt Brecht. Per testuali parole
di Puccianti, Galileo fu veramente cultore e propugnatore della Natural
Filosofia: in effetti egli fu matematico, astronomo, fondatore della Fisica nel
senso attuale di questa parola; e queste varie discipline considerò sempre e
trattò come intimamente connesse tra loro, e insieme ad altri studi vari, come
diversi aspetti e atteggiamenti di una stessa attività dello spirito: filosofo
dunque, anche perché portò su questa attività la riflessione e la critica; ma
non incurante delle conseguenze o, come ora si direbbe, delle applicazioni
pratiche. I problemi più importanti e centrali lo impegnarono per tutta la
durata della sua vita scientifica, non con continua opera su ciascuno di essi,
ma con ritorni successivi sempre più approfonditi e più generali, e in fine
risolutivi» (da: Luigi Puccianti, Storia della fisica, Firenze, Felice Le Monnier,
Fondamentali furono inoltre le sue idee e riflessioni critiche sui concetti
fondamentali della meccanica, in particolare quelle sul movimento. Tralasciando
l'ambito prettamente filosofico, dopo la morte di Archimede, il tema del
movimento cessò di essere oggetto di analisi quantitativa e discussione formale
allorché Gerardo di Bruxelles, vissuto nella seconda metà del XII secolo, nel
suo Liber de motu riprese la definizione di velocità, già peraltro considerata
dal matematico del III secolo a.C. Autolico di Pitane, avvicinandosi alla
moderna definizione di velocità media come rapporto fra due quantità non
omogenee quali la distanza e il tempo (cfr. Gerard of Brussels, "The
Reduction of Curvilinear Velocities to Uniform Rectilinear Velocities",
edito da Clagett, in Grant, A Source Book in Medieval Science, Cambridge (MA),
Harvard University Press, e Mazur,
Zeno's Paradox. Unraveling the Ancient Mystery Behind the Science of Space and
Time, New York/London, Plume/Penguin Books, Ltd., Achille e la tartaruga. Il
paradosso del moto da Zenone a Einstein, a cura di Claudio Piga, Milano, Il
Saggiatore, Grazie al perfezionamento del telescopio, che gli permise di
effettuare notevoli studi e osservazioni astronomiche, fra cui quella delle
macchie solari, la prima descrizione della superficie lunare, la scoperta dei
satelliti di Giove, delle fasi di Venere e della composizione stellare della
Via Lattea. Per maggiori notizie, si veda: Luigi Ferioli, Appunti di ottica
astronomica, Milano, Editore Ulrico Hoepli, Cfr. pure Vasco Ronchi, Storia
della luce, IBologna, Nicola Zanichelli Editore, Dal punto di vista storico,
un'ipotesi autenticamente "eliocentrica" fu quella di Aristarco di
Samo, poi sostenuta e dimostrata da Seleuco di Seleucia. Il modello copernicano
invece, contrariamente a quanto generalmente ritenuto, è
"eliostatico" ma non "eliocentrico" (vedi nota seguente).
Il sistema di Keplero, poi, non è né "eliocentrico" (il Sole occupa
infatti uno dei fuochi dell'orbita ellittica di ciascun pianeta che gli ruota
attorno) né "eliostatico" (a causa del moto di rotazione del Sole
attorno al proprio asse). La descrizione newtoniana del sistema solare, infine,
eredita le caratteristiche cinematiche (i.e., orbite ellittiche e moto
rotatorio del Sole) di quella kepleriana ma spiega causalmente, tramite la
forza di gravitazione universale, la dinamica planetaria. ^ A proposito del
modello copernicano: «È da notare che, sebbene il Sole sia immobile, tutto il
sistema [solare] non ruota intorno ad esso, ma intorno al centro dell'orbita della
Terra, la quale conserva ancora un ruolo particolare nell'Universo. Si tratta
cioè, più che di un sistema eliocentrico, di un sistema eliostatico.» (da G.
Bonera, Dal sistema tolemaico alla rivoluzione copernicana, E non più
soggettiva, come era stata fino ad allora condotta. ^ Secondo Giorgio Del
Guerra, nella casa sita al n. 24 dell'attuale via Giusti in Pisa (G. Del
Guerra, La casa dove, in Pisa, nacque Galileo Galilei, Pisa, Tipografia
Comunale. Verosimilmente, Galileo non dovette avere buoni rapporti con la madre
se non ricorda mai gli anni della sua infanzia come un periodo felice. Il
fratello Michelangelo ebbe occasione di scrivere a questo proposito a Galileo,
quasi augurandosene l'ormai imminente dipartita: «[...] di nostra madre
intendo, con non poca meraviglia, che sia ancora così terribile, ma poiché è
così discaduta, ce ne sarà per poco, sì che finiranno le lite.» Un Tommaso
Ammannati fu fatto cardinale da Clemente VII nel 1385, mentre il fratello Bonfazio
Ammannati ottenne la porpora da uno dei successori di Clemente, l'antipapa
Benedetto XIII; quanto a Giacomo Ammannati Piccolomini, cardinal, fu umanista,
continuatore dei Commentarii di Pio II e autore di una Vita dei papi che è
andata perduta. ^ Si ricorda un Tommaso Bonaiuti, che fece parte del governo di
Firenze dopo la cacciata del Duca di Atene e un Galileo Bonaiuti, medico noto
al suo tempo e gonfaloniere di giustizia, il cui sepolcro nella Basilica di
Santa Croce divenne la tomba dei suoi discendenti; a partire da Galileo
Bonaiuti, il cognome della famiglia cambiò in Galilei. ^ Così scriveva Muzio
Tedaldi a Vincenzo Galilei: «per la vostra ho inteso quanto havete concluso con
il vostro figliuolo [Galileo]; et come, volendo cercar di introdurlo qua in
Sapienza, vi ritarda il non esser la Bartolomea maritata, anzi vi guasta ogni
buon pensiero; et che desiderate che la si mariti, e quanto prima. Le
considerationi vostre son buone, et io non ho mancato né manco di far
quell'opera che si ricerca; ma sino a qui son venuti tutti partiti, per non dir
obbrobriosi, poco aproposito per lei… Per concludere, ardisco di dire che credo
che la Bartolomea sia così casta come qual si vogli pudica fanciulla; ma le
lingue non si possono tenere; pure io crederrò, con l'aiuto che do loro, di
levar via tutti questi romori et farli supire; per il che a quel tempo potrete
facilmente mandare il vostro Galileo a studio; et se non harete la Sapienza,
harete la casa mia al vostro piacere, senza spesa nessuna, et così vi offero et
prometto, ricordandovi che le novelle son come le ciriegie; però è bene credere
quel che si vede, e non quel che si sente, parlando di queste cose basse.» Obbligatoriamente
l'iscrizione doveva avvenire per gli studenti toscani in quell'Università. Chi
voleva andare in un'altra Università avrebbe dovuto pagare una multa di 500
scudi stabilita da un editto granducale per scoraggiare la frequenza in un
ateneo diverso da quello pisano (In: A. Righini, Op. cit.). ^ Lo
testimonierebbe la coincidenza di argomentazioni esistente tra gli Juvenilia, gli
appunti di fisica abbozzati da Galileo in questo periodo, e i dieci libri del
De motu del Bonamico. (In: Storia sociale e culturale d'Italia, La cultura
filosofica e scientifica, La filosofia e le scienze dell'Uomo, La storia delle
scienze, Milano, Bramante Editrice, Ne descrive i dettagli nel breve trattato
La bilancetta, circolato prima fra i suoi conoscenti e pubblicato postumo nel
1644 (Annibale Bottana, Galileo e la bilancetta: un momento fondamentale nella
storia dell'idrostatica e del peso specifico, Firenze, Leo S. Olschki Editore).
Studi riportati nel Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, pubblicato
in appendice ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove
scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali. ^ Galileo sottopose a
Clavius una sua insoddisfacente dimostrazione della determinazione del
baricentro dei solidi. (Lettera a Clavius). Giovanni de Medici aveva progettato
una draga per il porto di Livorno. Su questo progetto il granduca Ferdinando
aveva chiesto una consulenza a Galilei che dopo aver visto il modellino affermò
che non avrebbe funzionato. Giovanni de Medici volle comunque costruire la
draga che in effetti non funzionò. (Giovan Battista de Nelli, Vita e commercio
letterario di Galileo Galilei, Losanna, con tale Benedetto Landucci che Galilei
raccomandò a Cristina di Lorena riuscendo a fargli ottenere nel 1609 il posto
di pesatore al saggio; il lavoro, consistente nel pesare gli argenti che
venivano venduti, procurava un guadagno di circa 60 fiorini. Lettera a Cristina
di Lorena (Ed. Naz., Vol. X, Lettera N., Alla dote per la sorella Livia avrebbe
dovuto contribuire anche il fratello Michelangelo. (Lettera a Michelangelo
Galilei, Michelangelo... fu versatissimo nella musica e la esercitò per
professione; essendo stato buon liutista non v'è dubbio che fosse allievo egli
pure di suo padre Vincenzo. visse in Polonia al servizio di un conte palatino;
nel 1610 era a Monaco di Baviera ove insegnava musica, e in una lettera datata
del 16 agosto di quell'anno, egli pregava il fratello Galileo, di acquistargli
grosse corde di Firenze per suo bisogno et dei suoi scolari...» (Dizionario
universale dei musicisti, Milano, Casa Editrice Sonzogno). Le spese per i
viaggi in Polonia e Germania furono sostenute da Galileo. Michelangelo appena
sistematosi in Germania volle sposarsi con Anna Chiara Bandinelli e, anziché
saldare il debito per la dote che aveva con il cognato Galletti, spese tutto il
denaro che aveva in un lussuoso ricevimento nuziale. ^ «Mi dispiace ancora di
veder che V.S. non sia trattata second'i meriti suoi, e molto più mi dispiace
che ella non habbi buona speranza. Et s'ella vorrà andar a Venetia questa
state, io l'invito a passar di qua, che non mancarò dal canto mio di far ogni
opera per aiutarla e servirla; chè certo io non la posso veder in questo modo.
Le mie forze sono deboli, ma, come saranno, io le spenderò tutte in suo
servitio. (Lettera di Guidobaldo Del
Monte a Galilei. In: Ed. Naz., Vol. X, Lettera N. 35, Ancora vivente, Galileo
fu ritratto da alcuni dei più famosi pittori del suo tempo, come Santi di Tito,
Caravaggio, Domenico Tintoretto, Giovan Battista Caccini, Francesco Villamena,
Ottavio Leoni, Domenico Passignano, Joachim von Sandrart e Claude Mellan. I due
ritratti più famosi, visibili alla Galleria Palatina di Firenze e agli Uffizi
sono invece di Justus Suttermans che rappresenta Galileo ormai anziano come
simbolo del filosofo conoscitore della natura. (In "Portale Galileo")
^ Per moto «naturale» s'intende quello di un grave, ossia di un corpo in caduta
libera, diversamente dal moto «violento», che è quello di un corpo che sia
soggetto ad un «impeto». ^ L'esatta formulazione della legge è stata data da
Galileo nel successivo De motu accelerato: «Motum aequabiliter, seu
uniformiter, acceleratum dico illum, qui, a quiete recedens, temporibus
aequalibus aequalia celeritatis momenta sibi superaddit», ove l'accelerazione
di gravità è indicata essere direttamente proporzionale al tempo e non allo spazio.
(Ed. Naz.) ^ Con lettera da Verona, l'Altobelli riferiva a Galileo, senza dar
credito, che la stella, «quasi un arancio mezzo maturo», sarebbe stata
osservata. In verità, dietro Antonio Lorenzini (da non confondere col vescovo
Antonio Lorenzini) si celava il Cremonini; cfr. Uberto Motta, Antonio
Querenghi. Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento,
Pubblicazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Vita e
Pensiero, «Nacque in Padova intorno al 1580. Poco più che ventenne professò i
voti nell’Ordine Benedettino, e nei primi anni del secolo XVII si trovava nel
monastero di S. Giustina di Padova, legato in molta intimità col Castelli,
insieme col quale fu discepolo di Galileo, prendendo le parti del Maestro nelle
questioni relative alla stella nuova dell’ottobre 1604.» (Da Museo Galileo). Usus
et fabrica circini cuiusdam proportionis, per quem omnia fere tum Euclidis, tum
mathematicorum omnium problemata facili negotio resolvuntur, opera & studio
Balthesaris Capræ nobilis Mediolanensis explicata. (In: Patauij, apud Petrum
Paulum Tozzium, 1607) ^ Alcuni calcoli astrologici, anche risalenti al periodo
fiorentino, furono conservati da Galileo e compaiono nel volume 19 dell'Opera
omnia (sezione "Astrologica nonnulla", pp. 205-220). Da notare che
per lo più si tratta di calcoli del tema natale, solo in qualche caso
accompagnati da interpretazioni o pronostici. ^ È stata ritrovata una lista
della spesa dove Galilei, insieme a ceci, farro, zucchero, ecc., ordinava di
acquistare anche pezzi di specchio, ferro da spianare e quanto di utile per il
suo laboratorio ottico. (Da una nota di una lettera di Ottavio Brenzoni conservata nella Biblioteca Centrale di
Firenze) ^ Espressione tradizionalmente attribuita da scrittori cristiani
all'imperatore pagano Flavio Claudio Giuliano che in punto di morte avrebbe
riconosciuto la vittoria del Cristianesimo: «Hai vinto o Galileo» riferendosi a
Gesù nativo della Galilea. ^ Il comportamento di Galileo è stato variamente
giudicato: vi è chi sostiene che egli le chiuse in convento perché «doveva pensare
a una loro sistemazione definitiva, cosa non facile perché, data la nascita
illegittima, non era probabile un futuro matrimonio» (come se egli non potesse
legittimarle, come fece con il figlio Vincenzio e come se una monacazione
coatta fosse preferibile a un matrimonio non prestigioso; cfr. Sofia Vanni
Rovighi, Storia della filosofia moderna e contemporanea. Dalla rivoluzione
scientifica a Hegel, Brescia, Editrice La Scuola), mentre altri ritengono che
«alla base di tutto stava il desiderio di Galileo di trovare per esse una
sistemazione che non rischiasse di procurargli in futuro alcun nuovo carico
[...] tutto ciò nascondeva un profondo, sostanziale egoismo» (cfr. Ludovico
Geymonat,). ^ «quel mirare per quegli occhiali m'imbalordiscon la testa», avrebbe
detto Cremonini secondo la testimonianza di Paolo Gualdo. (Da una lettera del
Gualdo a Galilei. Scheiner pubblicò ancora sull'argomento il De maculis
solaribus et stellis circa Iovem errantibus. La priorità della scoperta
andrebbe all'olandese Johannes Fabricius, che pubblicò a Wittenberg, il De
Maculis in Sole observatis, et apparente earum cum Sole conversione. Cioè con i
sensi, con l'osservazione diretta. ^ «Egli pensava infatti che una colonna
d’acqua troppo alta tendeva a spezzarsi sotto l’azione del suo stesso peso,
così come si spezza una fune di materiale poco resistente quando, fissata in
alto, viene tirata dal basso. Fu quindi proprio questa analogia fondata
sull’esperienza osservativa a portare il Galilei fuori strada.» (in IL VUOTO – Elisa
Garagnani – Isis Archimede). Salmi che la figlia di Galileo, suor Maria
Celeste, s'incaricò di recitare, con il consenso della Chiesa. Baretti, in una
sua ricostruzione, avrebbe fatto nascere la leggenda di un Galilei che una
volta alzatosi in piedi, colpì la terra e mormorò: "E pur si muove!"
(In Giuseppe Baretti, The Italian Library). Tale frase non è contenuta in alcun
documento contemporaneo, ma nel tempo fu ritenuta veritiera, probabilmente per
il suo valore suggestivo, a tal punto che Berthold Brecht la riporta in
"Vita di Galileo", opera teatrale dedicata allo scienziato pisano
alla quale egli si dedicò a lungo. ^ In Paschini è riportato che: «secondo le
norme del Sant'Offizio» questa condizione «era equiparata ad una prigionia per
quanto egli facesse per ottenere la liberazione. Si ebbe il timore
probabilmente ch'egli riprendesse a fare propaganda delle sue idee e che un
perdono potesse significare che il Sant'Offizio si fosse ricreduto a proposito
di esse» (cfr. pure Alceste Santini, "Galileo Galilei", L'Unità). Conceditur
habitatio in eius rure, modo tamen ibi in solitudine stet, nec evocet eo aut
venientes illuc recipiat ad collocutiones, et hoc per tempus arbitrio Suae
Sanctitatis.» (Ed. Naz.) ^ A Galileo era infatti proibito stampare qualunque
opera in un paese cattolico. ^ Fonti di questa corrispondenza si trovano in:
Paolo Scandaletti, Galilei privato, Udine, Gaspari editore, Antonio Favaro,
Amici e corrispondenti di Galileo Galilei, Alessandra Bocchineri, Venezia,
Pubblicazioni del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Valerio Del
Nero, Galileo Galilei e il suo tempo, Milano, Simonelli Editore, A. Righini,
Galileo: tra scienza, fede e politica, Bologna, Editrice Compositori, 2008, p.
150 e sgg.; Geymonat, Giorgio Abetti, Amici e nemici di Galileo, Milano,
Bompiani, Banfi, «Galileo fu invitato
alla villa di S.Gaudenzio, sulle colline di Sofignano, alla fine di luglio del
1630, ospite di Giovanni Francesco Buonamici, che con lo scienziato vantava una
parentela da parte della moglie Alessandra Bocchineri: la sorella di lei,
Sestilia, aveva sposato a Prato l'anno prima il figlio di Galileo, Vincenzo.»
(In Comune di Vaiano) Fu permessa a Galilei l'assistenza del giovane allievo
Vincenzo Viviani e, dall'ottobre 1641, anche di Evangelista Torricelli. ^ «La
prego a condonare questa mia non volontaria brevità alla gravezza del male; e
le bacio con affetto cordialissimo le mani, come fo anche al Signor Cavaliere
suo Consorte.» (In Le Opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri,
Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1848, p. 368) Anfossi
pubblicava–anonimamente–in Roma un libro in cui le leggi di Keplero e di Newton
erano presentate come «cose che non meritano la menoma attenzione» e si
chiedeva come mai «tanti uomini santi» ispirati dallo Spirito Santo, «ci han
detto ottanta e più volte che il Sole si muove senza dirci una volta sola che è
immobile e fermo?» (Sebastiano Timpanaro, Scritti di storia e critica della
scienza, Firenze, G.C. Sansoni, L'edizione curata da Favaro si basava sulle
copie allora disponibili, perché l'originale non era stato ritrovato (Avvertimento.
Il manoscritto originale è stato scoperto nell'agosto 2018 e pubblicato come
appendice a Michele Camerota, Franco Giudice, Salvatore Ricciardi, "The
reapparance of Galileo's original letter to Benedetto Castelli". L'effetto
di parallasse stellare, che dimostra la rivoluzione della Terra attorno al
Sole, sarà misurato da Friedrich Wilhelm Bessel solo nel 1838. Per il testo
della condanna, vedi: Sentenza di condanna di Galileo Galilei, su
it.wikisource.org. Per il testo dell'abiura, vedi: Abiura di Galileo Galileisu
it.wikisource.org. ^ Questa frase è stata citata in un intervento molto
criticato di Joseph Ratzinger (cfr. "La crisi della fede nella
scienza" in Svolta per l'Europa? Chiesa e modernità nell'Europa dei
rivolgimenti, Roma, Edizioni Paoline. Ratzinger aggiunge da parte sua che:
«Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa
apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della
razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in
una ragionevolezza più grande. Qui ho voluto ricordare un caso sintomatico che
evidenzia fino a che punto il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto
oggi la scienza e la tecnica.» ^ Già chiaramente indicati nella Lettera a
Madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana. L'Accademia del Cimento, fra
le più antiche associazioni scientifiche al mondo, fu la prima a riconoscere
ufficialmente, in Europa, il metodo sperimentale galileano. Fu fondata a
Firenze da alcuni allievi di Galileo, Evangelista Torricelli e Vincenzo
Viviani. Si lasci alla storiografia stabilire, caso fosse mai possibile, se
Galileo concepisse il moto inerziale unicamente come circolare [...] o se
ammettesse anche la possibilità in natura della prosecuzione indefinita del
moto rettilineo, anche perché in Galileo non si può sensatamente parlare di
formulazione del principio d'inerzia come se fossimo nell'ambito della moderna
fisica newtoniana, ma solo di alcune considerazioni preliminari al principio
della relatività del moto.» Portale Galileo, su portalegalileo.museogalileo.it.Testi
non compresi nella prima edizione dell'Edizione Nazionale curata da Antonio
Favaro, ma in quella curata da William F. Edwards e Mario G. Helbing, con
Introduzione, Note e Commenti di William A. Wallace, per Le opere di Galileo
Galilei. Edizione Nazionale, Appendice al Volume III: Testi, Firenze, G.C.
Giunti. Bibliografiche Abbagnano, Albert Einstein, Leopold Infeld,
L'evoluzione della fisica. Sviluppo delle idee dai concetti iniziali alla
relatività e ai quanti, Torino, Editore Boringhieri, Mario Gliozzi,
"Storia del pensiero fisico", in: Luigi Berzolari (a cura di),
Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi, Vol. III, Parte II, Milano,
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Galileo Galilei nobile fiorentino, lettore delle matematiche nello studio di
Padova, contro alle calunnie & imposture di Baldessar Capra milanese,
usategli sì nella «Considerazione astronomica sopra la Nuova Stella del
MDCIIII» come (& assai più) nel pubblicare nuovamente come sua invenzione
la fabrica & gli usi del compasso geometrico & militare sotto il titolo
di «Usus & fabrica circini cuiusdam proportionis & c.» (In: Venetia,
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anni di Galileo Galilei, a cura di Maurizio Bertolotti, Venezia, Marsilio
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stesso argomento in dettaglio: Bibliografia su Galileo Galilei. Nicola
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Reale, Dario Antiseri, Manuale di filosofia, Editrice La Scuola, Paolo Rossi
Monti, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Editori Laterza, Accademia
galileiana di scienze, lettere ed arti Arcetri Astronomia Bibliografia su
Galileo Galilei Cannocchiali di Galileo Casa di Galileo Galilei Domus
Galilaeana Fisica Galilei (famiglia) Isocronismo La favola dei suoni Meccanica
Metodo scientifico Micrometro di Galileo Museo Galileo Niccolò Copernico Ostilio
Ricci Processo a Galileo Galilei Relatività galileiana Rivoluzione astronomica
Rivoluzione scientifica Termometro galileiano Trasformazione galileiana Villa
Il Gioiello Vincenzo Galilei Virginia Galilei Vita privata di Galileo Galilei. Treccani.it
– Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Galileo Galilei,
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Liber.openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Galileo Galilei, su Open Library,
Internet Archive. Opere di Galileo Progetto Gutenberg. LibriVox. Pubblicazioni
di Galileo Galilei, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la
Recherche et de l'Innovation.Bibliografia di Galileo Galilei, su Internet
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galileo.rice.edu. Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org.
Archivio integrato di risorse galileiane, su galileoteca.museogalileo.it. Museo
Galileo – Firenze, Italia, su museogalileo.it. Conserva gli strumenti
scientifici originali di Galileo European Cultural Heritage Onlinesu
echo.mpiwg-berlin.mpg.de. Scheda su Galileo Galilei accademico della Crusca sul
sito dell'Accademia, su adcrusca.it.Fondo "Antonio Favaro", su
domusgalilaeana.it. Archivio "Scienza & Fede", su disf.org.
Laboratorio storico "G. Galilei", su
illaboratoriodigalileogalilei.it. Lo scherzo d'un uomo di genio dice cose
più serie che non le cose serie dell'uomo volgare; anzi primo indicio della
superiorità è il sorriso. Il volgo andava ripetendo che la caduta di un pomo
preannunziò la scoperta della gravitazione universale: e Byron scherzando di
ceva essere stata la prima volta, da Adamo in qua, che un pomo e una caduta
dessero qualche vantaggio al genere umano. Altro che pomo ! voleva dire il
poeta: esatte premesse occorrono alle grandi scoperte e non il caso. Il
pensiero è una catena e ciò che ai più par caso entra nella serie. Togliete
Galilei e Keplero e avrete soppresso le premesse immediate a Newton. Togliete
Copernico, e li avrete soppressi tutti. Togliete le tradizioni pitagorichealle
univer sità italiane e sparisce Copernico. Dov'è il caso? Il pomo no: una serie
di grandi pensieri che furono grandi scoperte sgombrò le vie del firmamento
all' anglo. Un fatto può essere occasionale, ma per quegli uomini che portano
nel cervello quella preparazione, che rias sumendo la serie, afferra il fatto e
lo trasforma. Così nell'astronomia e così proprio in tutte le altre scienze. To
gliete Bruno e Campanella, e non troverete Vico. Togliete Telesio, e li perdete
tutti. Togliete le tradizioni naturalistiche dell'antica scuola italica— già
greca di origine —e sparisce Telesio. È la me desima serie ed è una riprova
della cognatela tra tutte le scienze. E questa serie non si smentisce neppur
dove la reazione crede spennare le reni agl'ingegni alati. Non fu una reazione
il libro della Ragion di Stato —che creò tanti discepoli-contro il Principe,
che aveva già tutta una scuola, cioè Bottero non ebbe il disegno aperto di
reagire trionfalmente contro Machiavelli? Ebbene, mentre il prete Bottero
mandava ad uno de'più grandi e sventurati ingegni 215 italiani quante
maledizioni gli erano ispirate dalla triplice reazione di Parigi, di Madrid e
di Roma, era nel tempo istesso tirato dalla logica a prendere da Machiavelli la
teorica de’ mezzi, come il secre tario di Firenze aveva preso la teorica
de'fini pubblici da Dante e da Petrarca, ispirati — alla loro volta
—dall'antica tradizione ro mana. Ed ecco la reazione entrare nella serie, come
appunto la santa alleanza insinuava ne 'codici tanti principii della
rivoluzione. E ciò non accade soltanto rispetto ai sistemide'quali l'uno
suppone l'altro anche dove il secondo reagisce al primo, ma alle singole teo
riche di ciascuno, le quali non segnano un progresso che non sia una
conclusione di ciò che si era pensato prima. A che mira, infatti, la critica di
Galilei? A reintegrare l'unità della natura. Ma se Bacone lo chiama filosofo
telesiano, voi dovete ricordare che Telesio non solo aveva propugnato il metodo
sperimen tale, ma tentato comporre il dissidio lasciato aperto da Aristotile
tra materia e forma, come Pomponazzi e Campanella avevano troncato il dualismo
tra intelletto e senso, e Bruno tra natura e Dio. Non è un gruppo, è una catena
nella quale il nome di ciascuno s’inanella nel precedente, e tutti insieme
presentano il disegno della rinnovata natura. Per questi il risorgimento fu
naturalismo, fu ita liano, mentre la scolastica era stata europea. Se dalla
serie e dal proprio posto nella serie voi spiccate il nome di Galilei, vi
accorgerete che resterà il nome di un astronomo più o meno insigne, di un
improvvisatore di qualche teorica, dello scopri tore fortunato di qualche astro
e di qualche istrumento, ma che cosa egli abbia aggiunto al pensiero, per quale
via e con quali effetti voi non saprete dire. Ammirerete un mito e sarà volgare
ammirazione. Voi, in somma, assisterete ai miracoli di un prestigiatore non
alle scoperte del genio. Or sospettate voi che io vi voglia esporre ad una ad
una le pre messe di Galilei e di Klepero per arrivare sino a Newton? che
io voglia indicarvi da quali parti specialmente della meccanica terre stre
emerse la meccanica celeste e come la dimostrazione de'quadrati de' tempi delle
rivoluzioni che stanno fra loro come i cubi degli assi maggiori delle orbite
abbia aperto a Newton la conclusione che la forza era proporzionale alla massa?
Sarebbe riuscire, pel cammino peggiore, a nessuna meta. I dotti · non
imparerebbero una sillaba di nuovo e vedrebbero in espressioni difettive
snaturate quelle forme che chiedono un'analisi esatta, e i meno dotti si
allontanerebbero storditi e infastiditi. Io, dunque,. 216 senza guastare la
serie, debbo dirvi quel che penso io intorno ad al cuni pensieri di quell'uomo
sommo e scelgo — non a caso —i punti seguenti: 1.º Come intese Galilei il
metodo sperimentale? 2. ° Quale valore oggettivo dette egli alla conoscenza? 3.
° Quale fu il risulta mento scientifico e morale delle sue dottrine? Non è
poco, e più che nella cortesia --cosa mediocre— confido nella serietà con la
quale voi ed io vogliamo che sia discusso il pa trimonio glorioso della mente.
II. « Non vogliamo costruzioni scientifiche, non metodi aprioristici, vogliamo
il metodo sperimentale: » Così gridano, e vogliamolo pure, io scrivevo, ma
vogliamolo davvero. Non fu forse proclamato ed eser citato con diverso intento
e diversa fortuna? Non fu fecondo o arido, secondo l'intelletto e la mano che
presero a trattarlo? Non si distin gue dall'empirismo? Bisogna dunque sapere
che è veramente me todo sperimentale. Galilei si trova a pari distanza tra
Telesio e Bacone, due che pro pugnarono il metodo sperimentale senza scoprire
nulla nel mondo naturale, e si trova ad un secolo di distanza da Leonardo da
Vinci, che, professando il metodo sperimentale, strappò più di un segreto alle
cose reali. Perchè dunque l'istesso metodo, arido nelle mani di Telesio e di
Bacone, diventa fecondo nelle mani di Leonardo e di Ga lilei? Ecco il punto. E
la risposta è chiara: — Perchè il metodo non è veramente lo stesso. Per Telesio
e Bacone comincia e resta nel fenomeno e dove al fenomeno aggiunge qualche ipotesi,
è soggettiva, cioè puro ri torno all'antico. Per Leonardo e Galilei comincia
dal fatto e sale alle alte sfere della ragione, mediante il linguaggio stesso
delle cose che è la matematica. La matematica è formale come la logica —dice
Bacone. La matematica è reale come le cose afferma Galilei. Con la matematica
sei arrivato a far girare la terra -è un frizzo di Bacone contro Galilei. E la
terra gira -- grida il pisano. Pur tu ti sei disdetto —rincalza Bacone. Stolto
! dice Galilei -- potevo disdirmi cento volte, e la prova re sta e la terra
continua il suo giro. 217 Ma chi ti malleva la realtà della matematica? Il
fatto stesso che misuratamente si move, misuratamente per corre il tempo e lo
spazio, nella misura costituisce l'ordine. -La misura è aggiunta. - La misura è:
io la colgo: chi non la coglie non vede il fatto. Telesio non lo dice. Leonardo
lo disse, e scoprì. Telesio e tu non avete scoperto. Il fatto a voi è stato
muto; a noi ha parlato. Fermiamoci. Il divario è grande. Potete voi dire che
sia l'istesso metodo? Fu Bacone l'anglo che intese Galilei o un altro? Quando
si parla di metodo sperimentale, di senso, di fatto, biso gna cogliere tutto il
fatto, il quale non è qualità soltanto, è quan tità; e questi due termini
s'integrano a vicenda, in modo che la quantità si qualifica, e la qualità si
quantifica. Questo pro cesso graduale ed intimo delle cose è l'evoluzione, e la
legge che la traveste, affaticandola di moto in moto, è la causalità, che in
Newton si determina come gravitazione universale. Il fatto dunque non è
fenomeno soltanto, è fenomeno e legge. Così Galilei lo intuisce e così lo
intuisce intero; Bacone coglie un termine solo e mutila il fatto. L'esperienza
che in Galilei è piena, in Bacone è unilaterale; quel metodo che in Galilei è
sperimentale, in Bacone diventa empirico; e quel processo che nell'uno è
fecondo di scoperte, nell'altro è gonfio di precetti pom posi. Ha un bel
rimuovere Bacone tutti quelli ch'ei chiama idoli, se innanzi agli occhi gli
rimane fisso l'idolo peggiore, il fatto eslege. Così aveva fatto Leonardo da
Vinci notando nel fenomeno la legge, e così fa Galilei, entrambi con pochi
precetti e con effetti amplissimi, tirandone l'uno applicazioni mirabili alla
meccanica, e specialmente all'idraulica, l'altro al sistema planetario. E si
ripeta pure che in Galilei l'esperienza naturale è senso pieno, ma quì un fatto
contemporaneo ci deve fermare e impensie rire. Bruno senza i computi di
Copernico, senza il metodo speri mentale e il teloscopio di Galilei, e senza il
calcolo superiore di Newton, non era pervenuto per sola forza di pensiero, alle
medesi me anzi a più larghe conclusioni che non si trovino nell'astronomo
tedesco, nell'italiano e nell'inglese, affermando cose che facevano sgomento a
Klepero e furono trovate poi vere dal progresso poste riore? Il pensiero, da
solo, non valse altrettanto che l'esperienza, e 218 ciò che lo scienziato
induceva computando, il genio non poteva co struire? L'esempio di Bruno, non
bene inteso, potrebbe inficiare la cri tica di Galilei, nè per il genio vale
ricorrere ad eccezioni, che com plicano la quistione e non spiegano nulla. Il
vero è che Bruno intese il fatto e l'esperienza come Galilei, e movendo dal
medesimo punto, l'uno giunse con la logica dove l'altro con la matematica. La
conseguenza è che la matematica è la logica delle cose, e che se rispetto alla
mente, come dice Leibintz, pensare è calcolare, rispetto alle cose moversi
misurata mente vuol dire evolversi razionalmente. Bruno è la riprova, non
l'eccezione. Appena, infatti, il nolano intese il sistema copernicano,
n'esultò, cercò alla matematica la riprova della logica, e come Campanella
scrisse l'apologia di Ga lilei, così Bruno di Copernico. Era dal medesimo punto
di partenza la medesimezza del pensiero logico e del pensiero matematico, con
medesimezza di disegno e di effetti. E-ora si dirà-Cartesio non intese fare la
medesima cosa, cioè costruire la fisica col pensiero, come il nolano,
introducendovi la matematica, come Galilei, e perchè egli riuscì a costruire
una fi sica falsa, disconoscendo Bruno in tutto e in gran parte il disegno di
Galilei? Perchè egli non muove come que due dal fatto, bensì dall'idea astratta,
dal puro cogito, che non è la cosa, ma l'ombra della cosa, e l'ombra ei tratta
come cosa salda. Perciò non solo non giunse per forza di logica, agl’infiniti
mondi del nolano, ma nep pure per forza di matematica a riconoscere
l'importanza del siste ma eliocentrico dimostrato da Copernico e da Galilei.
Bacone errò, mutilando il fatto e attenendosi al solo fenomeno, Cartesio errò,
correndo dietro l'ombra del fatto e improvvisando la legge. L'uno cadde
nell'empirismo l'altro nell'apriorismo. In Bacone riconosciamo il merito di
avere insistito sulla indu zione, e in Cartesio, come dice Comte, il merito di
aver convertito la qualità in quantità, e la quantità continua nella discreta.
Ma l'uno e l'altro, non avendo colto il punto di partenza, non aggiun sero
nulla alla scienza della natura. Justus Liebig, parlando dell'intima gioia
degli scopritori - ne gata a Bacone - nomina Galilei, Klepero, Newton. E perchè
non ricorda Bruno? Quanta non è la sua gioia dove saluta le comete come
testimoni della sua filosofia, e parlando di Copernico, ag giunge qualche
felicità essere toccata al secolo suo, quando dai 219 lidi dell'oceano
germanico un grande astronomo sorse a con forto della sua filosofia. In quella
gioia c'è — come ho detto— l’unità del pensiero logico col matematico, e nella
medesimezza de' risultati c'è la cognatela tra la natura e il pensiero, la
quale vuol essere riaffermata, supe rando da una parte il vecchio idealismo
metafisico e dall'altra il positivismo empirico. Ed ora, dopo il metodo
sperimentale, dobbiamo esaminare in Ga lilei il valore che egli dà alla
conoscenza. III. Non è di piccolo momento questo esame; involge il massimo pro
blema della filosofia ed è un punto importante della mente, e dirò, del
carattere di Galilei. Si può formularlo così: Il metodo speri mentale condusse
Galilei a quel relativismo filosofico che dà alla conoscenza un valore
precario, cioè o relativo al soggetto pensante (sofistica) o relativo ad un
certo tempo e luogo (empirismo)? In altre parole: per Galilei nulla di
permanente, di assoluto, di uni versale entra nella conoscenza, o c'è invece
delle conoscenze che per loro necessità intrinseca s' impongono a tutti gli
uomini, e alla natura come agli uomini, e a Dio come alla natura? Ci sono— risponde
il Pisano - e il fatto ci dice che sono, e ci dice che sono le conoscenze
matematiche sian pure o applicate, perchè non mutano per variare di luogo e di
tempo, e perchè tali si riscontrano nelle cose quali si trovano nella mente. La
natura le impone, la mente le sugella, neppur Dio potrebbe negarle, ma o il
sofista o il pazzo. L'affermazione è solenne, e bisogna lasciargli la parola.
Quanto alla verità, egli dice di che ci danno cognizione le dimostrazioni
matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina. Nessun divario,
dunque, in questo tra la sapienza divina e umana? Di vario di modo, egli dice,
lo ammettiamo, perchè in Dio è sapienza intuitiva quella che nell'uomo è
discorsiva; di numero pure, perchè Dio le sa tutte quelle verità, e l'uomo una
parte; ma di necessità no: sono del pari necessarie per lui e per noi, e mille
Demosteni e Aristotili e-voleva dire—mille Dei non potrebbero scemare la
certezza di una sola di quelle. Partecipa di questa certezza la scienza della
natura, le cui leggi sono matematiche. E il processo fu questo: Telesio affermò
che il 220 libro della filosofia è la natura; Bruno aggiunse che quel libro è
scritto in carattere assoluti: Galilei conchiuse che i caratteri sono
matematici. Anche Cartesio disse come Galilei: Apud me omnia sunt ma thematice
in natura; ma lo disse dopo e timidamente, essendoci questa differenza tra’due
pensatori, che per Galilei le verità mate matiche leggibili nella natura hanno
l'istesso valore per la mente sia divina o umaņa, e per Cartesio niente è
limite alla onnipotenza di Dio, neppure il principio di contraddizione. Se lo
disse davvero o per vivere tranquillo, specialmente dopo le persecuzioni fatte
a Galilei, non - so; ma, certo, l'italiano lo a vanza di tempo e di fermezza.
Delle altre scienze che non sono le naturali Galilei dubitò, perchè si
sottraggono alle matematiche e l'uomo vi mette del suo. Le abbandonò al
relativismo. Ma se tutto è evoluzione e tutto procede da natura, noi ben pos
siamo affermare che i suoi Dialoghi delle Scienze Nuove saranno quasi
prefazione di una Scienza Nuova intorno alla comune natura delle nazioni. Le
teoriche sulla psico-fisi e sulla fisica sociale hanno assai allargato il campo
di applicazione alle matematiche. Noi, è vero, non possiamo mutare le leggi naturali,
ma possiamo forse mutare le leggi sociali e costruire a nostro talento le
società umane? La storia non rientra ogni giorno più nelle leggi della natura e
però della misura? La morale par certo la cosa più im ponderabile, ed è pure
altrettanto graduale e necessaria nel suo processo che il suo moto si potrebbe
dire uniformemente accelerato. Dal pensiero si traduce nella volontà,
dall'azione alle istituzioni, e se rea, dal fastigio all ' imo (1 ). Signori,
ho esaminato quelli che nella scienza di Galilei mi parevano i punti principali
ed ho tentato liberare dagli equivoci volgari il metodo sperimentale. Non a
pompa letteraria mi sono giovato di rapidi raffronti ma per delineare quello
che fu il cervello più equilibrato di quanti al mondo furono scienziati. Le
conse guenze scientifiche e morali di quella profonda rivoluzione intel
lettuale io ve le ho segnate senza orgoglio nazionale e con pura coscienza di
uomo. Era cosí alto il tema, così pieno di pensiero, di (1 ) Qui manca qualche
pagina intorno all'applicazione delle matematiche ai fenomeni sociali e morali,
non potuta trovare. 221 poesia, di storia, di gloria e di dolori che a me non
che il tempo, mancò il volere di divagare. Abbasserei l'occhio da Telesio, da
Co pernico, da Galilei per posarlo sulla politica? Farei allusioni, rim
proveri, programmi? Mail monumento che divisate è mondiale; una sillaba
aggiunta al tema macchierebbe la prima pietra: e, per rien trare nella
mediocrità de ' Parlamenti, invidieremmo a noi questa breve fortuna che ci
solleva a colloquio coi legislatori degli astri. Che sono i nostri codici, i
nostri statuti, i disegni nostri, che durata hanno e che sapienza di fronte
alle leggi onde Galilei sta biliva il ritmo dei cieli, Machiavelli la vicenda
degli Stati, e Vico il corso dell'umanità? C'è qualcosa al di sopra dei codici
ed è la pa rola dei fondatori delle religioni, che lasciano libri sacri e
parlano ai millenarii. Pur viene il secolo che mette nella pagina più au
tentica di quei libri il tarlo del pensiero. Ma qualcuno c'è stato che senza
chiamarsi messia nè profeta misurò una parola a lettere di stelle, la pose nel
firmamento, e nessuno la cancellerà. Come chia mate un uomo che vi trasmette un
libro più duraturo di una bib bia? Alzate il monumento e non mi chiedete altro.
The principle of relativity states that it is im- possible to determine
whether a system is at rest or moving at constant speed with respect to an
inertial system by experiments internal to the system, i.e., there is no
internal observation by which one can distinguish a system moving uniformly
from one at rest. This principle played a key role in the defence of the
heliocentric syst- em, as it made the movement of the Earth com- patible with
everyday experience. According to common knowledge, the prin- ciple of
relativity was first enunciated by Galileo Galilei (1564–1642; Figure 1) in
1632 in his Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo (Dialogue Concerning
the Two Chief World Syst- ems) (Galilei, 1953), using the metaphor known as
‘Galileo’s ship’: in a boat moving at constant speed, the mechanical phenomena
can be described by the same laws holding on Earth. Many historical aspects of
the birth of the rel- ativity principle have received little or scattered
attention. In this short paper we put together some evidence showing that
Giordano Bruno (1548–1600; Figure 2) largely anticipated Gal- ilei’s arguments
on the relativity principle (Bruno, 1975). In addition, we briefly discuss
Galilei’s silence about Bruno, and the con- nection between the lives and
careers of the two scientists. Figure 1: A portrait of Galileo Galilei by
Ottavio Leoni (en.wikipedia.org). Figure 2: An eighteenth century egrav- ing of
Giordano Bruno (http://www. the history blog . com / wp - content / up-
loads/2012/02/bruno-giordano.jpg). Page 241
Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle
of Relativity 2 GALILEI AND THE PRINCIPLE OF RELATIVITY The Dialogo Sopra
i Due Massimi Sistemi del Mondo is the source usually quoted for the enun-
ciation of the principle of relativity by Galileo Galilei. However, its
publication in 1632 was certainly not a surprise, as Galilei had expres- sed
his views much earlier, in particular when lecturing at the University of
Padova from 1592 to 1610. Some aspects of the evolution of Galilei’s ideas,
from the Trattato della Sfera ... (D’Aviso, 1656) in which the Earth is still
placed at the centre of the Universe, towards the Dia- logo, and passing
through his heliocentric cor- respondence with Kepler from 1597 onwards
(Galilei, 1890 –1907), are examined, for ex- ample, by Barbour (2001), Crombie
(1996), Cla- velin (1968), Giannetto (2006), Martins (1986) and Wallace (1981;
1984). In February 1616, the Roman Inquisition condemned the theory by Nicolaus
Copernicus (1473–1543) as being foolish and absurd in philosophy. One month
before, the inquisitor Monsignor Francesco Ingoli (1578 –1649) ad- dressed
Galilei in the essay Disputation Con- cerning the Location and Rest of Earth
Against the System of Copernicus (Ingoli, 1616). This letter listed both
scientific and theological arg- uments against Copernicanism. Galilei only
responded in 1624, and in his lengthy reply he introduced an early version of
the ‘Galileo’s ship’ metaphor, and discussed the experiment of dropping a stone
from the top of the mast. Both arguments, as we shall see, had previously been
raised by Bruno, and later were used again by Galilei, although with small
differences, in the Dialogo. In the Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del
Mondo, Galilei discusses the arguments then current against the idea that the
Earth moves. The book is a fictional dialogue be- tween three characters. Two
of these, Salviati and Sagredo, refer to figures in the ok that disappeared a
few years after the publication of the book. Salviati plays the role of the
defender of the Copernican theory, putting forward Gali- lei’s point of view.
The second character, Sa- gredo, is a Venetian aristocrat who is educated and
liberal, and he is willing to accept new ideas. Thus, he acts as a moderator
between Salviati and the third character, Simplicio, who fiercelysupportsAristotle.
Thenameofthislast character (reminiscent of ‘simple-minded’ in Ital- ian) is in
itself a clear indication of Galilean dia- lectics, which are designed to
destroy oppon- ents. Despite being a famous commentator of Aristotle, Simplicio
manifests himself with an embarrassing simplicity of spirit. Galilei uses
Salviati and Simplicio as spokespersons for the two clashing world views;
Sagredo represents the discreet reader, the steward of science, the one to whom
the book is addressed, and he intervenes during the discussions, asking for
clarification, contributing conversational topics and acting like a science
enthusiast. On the second day, Galilei’s dialogue con- siders Ingoli’s
arguments against the idea that the Earth moves. One of these is that if the
Earth is spinning on its axis, then we would all be moving eastward at hundreds
of miles per hour, so a ball dropped from a tower would land west of the tower
that in the meantime would have moved a certain distance to the east- wards.
Similarly, the argument goes that a cannonball shot eastwards would fall closer
to the cannon compared to a ball shot to the west since the cannon moving east
would partly catch up with the ball. To counter such arguments Galilei propos-
es through the words of Salviati a gedanken- experiment: to examine the laws of
mechanics in a ship moving at a constant speed. Salviati claims that there is
no internal observation which allows them to distinguish between a
smoothly-moving system and one at rest. So two systems moving without
acceleration are equivalent, and non-accelerated motion is rel- ative: Salviati
– Shut yourself up with some friend in the main cabin below decks on some large
ship, and have with you there some flies, but- terflies, and other small flying
animals. Have a large bowl of water with some fish in it; hang up a bottle that
empties drop by drop into a widevesselbeneathit. Withtheshipstanding still,
observe carefully how the little animals fly with equal speed to all sides of
the cabin. The fish swim indifferently in all directions; the drops fall into
the vessel beneath; and, in throwing something to your friend, you need throw
it no more strongly in one direction than another, the distances being equal;
jumping with your feet together, you pass equal spaces in every direction. When
you have observed all these things carefully (though doubtless when the ship is
standing still everything must happen in this way), have the ship proceed with
any speed you like, so long as the motion is uniform and not fluctuating this
way and that. You will discover not the least change in all the effects named,
nor could you tell from any of them whether the ship was moving or standing
still. In jumping, you will pass on the floor the same spaces as before, nor
will you make larger jumps toward the stern than toward the prow even though
the ship is moving quite rapidly, despite the fact that during the time that
you are in the air the floor under you will be going in a direction opposite to
your jump. In throwing something to your companion, you will need no more force
to get it to him whether he is in the direction of the bow or the stern, with
yourself situated op- posite. The droplets will fall as before into the Page
242 Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano
Bruno and the Principle of Relativity vessel beneath without dropping
toward the stern, although while the drops are in the air the ship runs many
spans. The fish in their water will swim toward the front of their bowl with no
more effort than toward the back, and will go with equal ease to bait placed
any- where around the edges of the bowl. Finally the butterflies and flies will
continue their flights indifferently toward every side, nor will it ever happen
that they are concentrated toward the stern, as if tired out from keeping up
with the course of the ship, from which they will have been separated during
long intervals by keeping themselves in the air. And if smoke is made by
burning some incense, it will be seen going up in the form of a little cloud,
remaining still and moving no more toward one side than the other. The cause of
all these correspondences of effects is the fact that the ship’s motion is
common to all the things contained in it, and to the air also. That is why I
said you should be below decks; for if this took place above in the open air,
which would not follow the course of the ship, more or less noticeable
differences would be seen in some of the effects noted. (Galilei, 1953: 217).
Note that Galilei does not state that the Earth is moving, but that the motion
of the Earth and the motion of the Sun cannot be distinguished (hence the name
‘relativity’): There is one motion which is most general and supreme over all,
and it is that by which the Sun, Moon, and all other planets and fixed stars –
in a word, the whole universe, the Earth alone excepted – appear to be moved as
a unit from East to West in the space of twenty-four hours. This, in so far as
first appearances are concerned, may just as logically belong to the Earth
alone as to the rest of the Universe, since the same appear- ances would
prevail as much in the one sit- uation as in the other. (Galilei, 1953: 132). 3
RELATIVITY AND CELESTIAL MOTIONS BEFORE COPERNICUS The possibility that the
Earth moves had been discussed several times, in particular by the Greeks,
mostly as a hypothesis to be rejected. Also an annual motion of the Earth
around the Sun had been considered by Aristarchus of Samos (c. 310 – c. 230
BC). Later, some medi- eval authors discussed the possibility of the Earth's
daily rotation. The first was probably Jean Buridan (c. 1300–1361; Figure 3),
one of the ‘doctores parisienses’—a group of profes- sors at the University of
Paris in the fourteenth century, including notably Nicole Oresme. Buridan’s
example of the ship, which was lat- er used by Oresme, Bruno and Galilei, is
con- tained in Book 2 of his commentary about Aris- totle’s On the Heavens
(1971): It should be known that many people have held as probable that it is
not contradictory to appearances for the Earth to be moved circu- larly in the
aforesaid manner, and that on any given natural day it makes a complete
rotation from west to east by returning again to the west – that is, if some
part of the Earth were designated [as the part to observe]. Then it is
necessary to posit that the stellar sphere would be at rest, and then night and
day would result through such a motion of the Earth, so that motion of the
Earth would be a diurnal motion. The following is an example of this: if anyone
is moved in a ship and imagines that he is at rest, then, should he see another
ship which is truly at rest, it will appear to him that the other ship is
moved. This is so because his eye would be completely in the same relationship
to the other ship regardless of whether his own ship is at rest and the other
moved, or the contrary situation prevailed. And so we also posit that the
sphere of the Sun is totally at rest and the Earth in carrying us would be
rotated. Since, however, we imag- ine we are at rest, just as the man on the
ship Figure 3: Jean Buridan (www.buscabio- grafias . com / biografia /
verDetalle / 576 / Jean %Buridan). moving swiftly does not perceive his own mo-
tion nor that of the ship, then it is certain that the Sun would appear to us
to rise and set, just as it does when it is moved and we are at rest. (Buridan,
1942: Book 2, Question 22). Here we agree with Barbour (2001), that what
Buridan is referring to is kinematic relativity. To Barbour, ... we have [here]
a clear statement of the principle of relativity, certainly not the first in
the history of the natural philosophy of motion but perhaps expressed with more
cogency than ever before. The problem of motion is beginning to become acute.
We must ask our- selves: is the relativity to which Buridan refers kinematic
relativity or Galilean relativity? There is no doubt that it is in the first
place kinematic; for Buridan is clearly concerned with the condi- tions under
which motion of one particular body can be deduced by observation of other bod-
ies. (Barbour, 2001: 203). Page 243 Alessandro De
Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of
Relativity Later, Buridan (1942) writes: But the last appearance which
Aristotle notes is more demonstrative in the question at hand. This is that an
arrow projected from a bow directly upward falls to the same spot on the Earth
from which it was projected. This would not be so if the Earth were moved with
such velocity. Rather, before the arrow falls, the part of the Earth from which
the arrow was projected would be a league’s distance away. But still supporters
would respond that it happens so because the air that is moved with the Earth
carries the arrow, although the arrow appears to us to be moved simply in a
straight line motion because it is being carried along Figure 4: A miniature
portrait of Nicole Oresme included in his Traité de la sphère. Aristotle, Du
ciel et du monde (n.d.) (en.wikipedia.org). with us. Therefore, we do not
perceive that motion by which it is carried with the air. Buridan already
expresses some concerns about the dynamics involved, but his conclusion is that
... the violent impetus of the arrow in ascend- ing would resist the lateral
motion of the air so that it would not be moved as much as the air. This is similar
to the occasion when the air is moved by a high wind. For then an arrow pro-
jected upward is not moved as much laterally as the wind is moved, although it
would be moved somewhat. (ibid.). Thus, the theory of impetus is not pushed to
the limit in which one would identify it with the prin- ciple of inertia, nor
with a dynamical concept of relativity. A further step was implicitly taken a
few years later by Nicole Oresme (c. 1320 –1382; Figure 4). Oresme first states
that no observation can disprove that the Earth is moving: ... one could not
demonstrate the contrary by any experience ... I assume that local motion can
be sensibly perceived only if one body appears to have a different position
with re- spect to another. And thus, if a man is in a ship called a which moves
very smoothly, irrespective if rapidly or slowly, and this man sees nothing
except another ship called b, moving exactly in the same way as the boat a in
which he is, I say that it will seem to this person that neither ship is
moving. (Oresme, 1377; our English translation). Oresme also provides an
argument against Buridan’s interpretation of the example of the arrow (or stone
in the original by Aristotle) thrown upwards, introducing the principle of
composi- tion of movements: ... one might say that the arrow thrown up- wards
is moved eastward very swiftly with the air through which it passes, with all
the mass of the lower part of the world mentioned above, which moves with a
diurnal movement; and for this reason the arrow falls back to the place on the
Earth from which it left. And this appears possible by analogy, since if a man
were on a ship moving eastwards very swiftly without being aware of his
movement, and he drew his hand downwards, describing a straight line along the
mast of the ship, it would seem to him that his hand was moved straight down.
Following this opinion, it seems to us that the same applies to the arrow
moving straight down or straight up. Inside the ship moving in this way, one
can have horizontal, oblique, straight up, straight down, and any kind of
movement, and all look like if the ship were at rest. And if a man walks
westwards in the boat slower than the boat is moving eastwards, it will seem to
him that he is moving west while he is going east. (ibid.). Also, Nicolaus
Cusanus (1401–1461) stated later, without going into detail, that the motion of
a ship could not be distinguished from rest on the basis of experience, but
some different argu- ments need to be invoked—and the same ap- plies to the
Earth, the Sun, or another star (Cu- sanus, 1985). All this happened before
Copernicus: a dis- cussion of how things could be, not so much
abouthowthingsreallyare. Thisviewpointwould change after Copernicus. 4 GIORDANO
BRUNO AND THE PRINCIPLE OF RELATIVITY In April 1583, forty years after the
publication of the book by Copernicus and nine years before Page
244 Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo
Giordano Bruno and the Principle of Relativity the 28-year old Galilei
was called to the Uni- versity of Padova, Bruno went to England and lectured in
Oxford, unsuccessfully looking for a teaching position there. Still, the
English visit was a fruitful one, for during that time Bruno completed and
published some of his most important works, the six ‘Italian Dialogues’,
including the cosmological work La Cena de le Ceneri (The Ash Wednesday Supper,
1584) (see Bruno, 1975). This latter book consists of five dialogues between
Theophilus, a disciple who exposes Bruno’s theories; Smitho, a character who
was probably real but is difficult to identify, possibly one of Bruno’s English
friends (perhaps John Smith or the poet William Smith)—the English- man has
simple arguments, but he has good common sense and is free of prejudice; Pru-
dencio, a pedantic character; and Frulla, also a fictional character who, as
the name in Italian suggests, embodies a comic figure, provocative and somewhat
tedious, with a propensity to- wards stupid arguments. In the third dialogue,
the four mostly com- ment on discussions heard at a supper attend- ed by
Theophilus in which Bruno—called in the text ‘il Nolano’ (the Nolan), because
he was born in Nola near Naples—was arguing in part- icular with Dr Torquato
and Dr Nundinio, re- presenting the Oxonian faculty. Bruno starts by discussing
the argument relating to the air, winds and the movement of clouds, and he
largely uses the fact that the air is dragged by the Earth: Theophilus ... If
the Earth were carried in the direction called East, it would be necessary that
the clouds in the air should always appear moving toward west, because of the
extremely rapid and fast motion of that globe, which in the span of twenty-four
hours must complete such a great revolution. To that the Nolan replied that
this air through which the clouds and winds move are parts of the Earth, be-
cause he wants (as the proposition demands) to mean under the name of Earth the
whole machinery and the entire animated part, which consists of dissimilar
parts; so that the rivers, the rocks, the seas, the whole vaporous and turbulent
air, which is enclosed within the high- est mountains, should belong to the
Earth as its members, just as the air does in the lungs and in other cavities
of animals by which they breathe, widen their arteries, and other similar
effects necessary for life are performed. The clouds, too, move through
happenings in the body of the Earth and are based in its bowels as are the
waters ... Perhaps this is what Plato meant when he said that we inhabit the
con- cavities and obscure parts of the Earth, and that we have the same
relation with respect to animals that live above the Earth, as do in re- spect
to us the fish that live in thicker humid- ity. This means that in a way the
vaporous air is water, and that the pure air which contains the happier animals
is above the Earth, where, just as this Amphitrit [ocean]1 is water for us,
this air of ours is water for them. This is how one may respond to the argument
referred to by Nundinio; just as the sea is not on the surface, but in the
bowels of the Earth, and just as the liver, this source of fluids, is within
us, that turbulent air is not outside, but is as if it were in the lungs of
animals. (Bruno, 1975: 117). The Dialogue then moves to discussing the motion
of projectiles, and Bruno starts by ex- plaining the Aristotelian objection to
the stone thrown upwards: Smitho – You have satisfied me most suffic- iently,
and you have excellently opened many secrets of nature which lay hidden under
that key. Thus, you have replied to the argument taken from winds and clouds;
there remains yet the reply to the other argument which Aristotle submitted in
the second book of On the Heavens2 where he states that it would be impossible
that a stone thrown high up could come down along the same perpendicular
straight line, but that it would be necessary that the exceedingly fast motion
of the Earth should leave it far behind toward the West. Therefore, given this
projection back onto the Earth, it is necessary that with its motion there
should come a change in all relations of straightness and obliquity; just as
there is a difference between the motion of the ship and the motion of those
things that are on the ship which if not true it would follow that when the
ship moves across the sea one could never draw something along a straight line
from one of its corners to the other, and that it would not be possible for one
to make a jump and return with his feet to the point from where he took off.
(Bruno, 1975: 121). In Theophilus’ speech, Bruno then gives the following reply
(in reference to the ship shown in Figure 5): Theophilus – With the Earth move
... all things that are on the Earth. If, therefore, from a point outside the
Earth something were thrown upon the Earth, it would lose, because of the
latter’s motion, its straightness as would be seen on the ship AB moving along
a river, if someone on point C of the riverbank were to throw a stone along a
straight line, and would see the stone miss its target by the amount of the
velocity of the ship’s motion. But if some- one were placed high on the mast of
that ship, move as it may however fast, he would not miss his target at all, so
that the stone or some other heavy thing thrown downward would not come along a
straight line from the point E which is at the top of the mast, or cage, to the
point D which is at the bottom of the mast, or at some point in the bowels and
body of the ship. Thus, if from the point D to the point E someone who is
inside the ship would throw a stone straight up, it would return to the bottom
along the same line however far the ship mov- Page 245
Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the
Principle of Relativity ed, provided it was not subject to any pitch and
roll. (Bruno, 1975: 121). He then continues with the statement that the
movement of the ship is irrelevant for the events occurring within the ship,
and he explains the reasons for this: If there are two, of which one is inside
the ship that moves and the other outside it, of which both one and the other
have their hands at the same point of the air, and if at the same place and
time one and the other let a stone fall without giving it any push, the stone
of the former would, without a moment’s loss and without deviating from its
path, go to the prefixed place, and that of the second would find itself
carried backward. This is due to nothing else except to the fact that the stone
which leaves the hand of the one supported by the ship, and consequently moves
with its mo- tion, has such an impressed virtue, which is not had by the other
who is outside the ship, Figure 5: The ship referred to in the dialogue; note
that the letters are missing (math.dartmouth.edu). because the stones have the
same gravity, the same intervening air, if they depart (if this is possible)
from the same point, and arc given the same thrust. From that difference we
cannot draw any other explanation except that the things which are affixed to
the ship, and belong to it in some such way, move with it: and the stone
carries with itself the virtue of the mover which moves with the ship. The
other does not have the said participation. From this it can evidently be seen
that the ability to go straight comes not from the point of motion where one
starts, nor from the point where one ends, nor from the medium through which
one moves, but from the efficiency of the originally impressed virtue, on which
depends the whole differ- ence. And it seems to me that enough consid- eration
was given to the propositions of Nun- dinio. (Bruno, 1975: 123). The
experiments carried out in the ship are thus not influenced by its movement
because all the bodies in the ship take part in that move- ment, regardless of
whether they are in contact with the ship or not. This is due to the ‘virtue’
they have, which remains during the motion, after the carrier abandons them.
Bruno thus clearly expresses the concept of inertia, using the word ‘virtu`’,
in Italian meaning ‘quality’, which is carried by the bodies moving with the
ship—and with the Earth. Bruno’s arguments certainly constitute a step towards
the principle of inertia. 5 DISCUSSION AND CONCLUDING REMARKS We have seen that
in La Cena de le Ceneri Giordano Bruno anticipates to a great extent the
arguments of Galileo Galilei on the principle of relativity. In fact, his
explanation contains all of the fundamental elements of the principle. The idea
that the only movement observable by the subject is the one in which he does
not take part, was presented earlier by Jean Buridan and Nicole Oresme,
together with the notion of the composition of movements, which was alien to
Aristotelian mechanics (see Barbour, 2001). Sim- ilar arguments were used by
Nicholas Copern- icus (1543). The main missing ingredient was the idea of
inertia, which explains the fact that projectiles move along with the Earth. In
fact, while there is a continuous line between Buri- dan, Oresme, Copernicus,
Bruno and Galilei, the arguments of Bruno on the impossibility of detecting
absolute motion by phenomena in a ship constitute a significant step towards
the principle of inertia and providing a dynamical context for relativity. What
is new in Bruno, and what brings him almost exactly to where Galilei stood, is
a clear understanding of the concept on inertia. The arguments and metaphors
used in dis- cussions concerning the world systems were common to different
authors, and were largely derived from Aristotle, Ptolemy and their com-
mentators. Often they were used without ref- erencing, and sometimes they were
attributed to the wrong source. For example, in his On the Heavens, Aristotle
uses as experimental argu- ment the one about the stone that is sent upwards.
In their comment on this work, Bur- idan and Oresme used a modified version of
this experiment in which an arrow is sent upwards in a ship—although this was possibly
introduced by an earlier unidentified commentator/translator. Nevertheless, the
description by Galilei of exact- ly the same ship experiment that Bruno used in
the Cena makes it very likely that Galilei knew this work. The use of the
dialogue form with a similar choice of characters can also be seen as a
possible sign that Bruno influenced Galilei. Page 246
Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the
Principle of Relativity However, Galilei never mentions Bruno in his
works, and in particular there is no reference to him in Galilei’s large corpus
of letters, even though he references the ‘doctores parisienses’ in his MS 46
(Galilei, c. 1584),3 a 110-page long manuscript containing physical
speculations bas- ed upon Aristotle’s On the Heavens. Some authors (e.g.
Clavelin, 1968) have commented on Galilei’s silence about Bruno, putting
forward reasons of prudence, but as pointed out by Mar- tins (1986) this can
hardly explain the absence of any mention also in his personal correspond-
ence. Furthermore, although Galilei himself never mentions Bruno’s name in his
personal notes and letters, several of his correspondents do mention the Nolan.
In a letter to Galilei dating to 1610, Martin Hasdale tells him that Kepler had
expressed his admiration for Galilei, although he regretted that in his works
the latter failed to mention Copernicus, Giordano Bruno and sever- al Germans
who had anticipated such discov- eries—including Kepler himself: This morning I
had the opportunity to make friends with Kepler ... I asked what he likes about
that book of yourself and he replied that since many years he exchanges letters
with you, and that he is really convinced that he does not know anybody better
than you in this profession ... As for this book, he says that you really
showed the divinity of your genius; but he was somehow uneasy, not only for the
German nation, but also for your own, since you did not mention those authors
who intro- duced the subject and gave you the opportun- ity to investigate what
you found now, naming among these Giordano Bruno among the Ital- ians, and
Copernicus, and himself. Thus, we can say that Galileo Galilei was probably
aware of Giordano Bruno’s work on the Copernican system. When Galilei arrived
in Padova in 1592 it is also possible that the two scientists met, because
Bruno was a guest of the nobleman Giovanni Mocenigo in Venice at the time and
Galilei shared his time between Padova and Venice. In 1591, Bruno had unsuc-
cessfully applied for the Chair of Mathematics that was assigned to Galilei one
year later. Although it might be impossible to prove that the two astronomers
met, it is hard to believe, given the motivations and characters of the two men
and the circumstances of their lives during those years, as well as the small
size of the Italian scientific community in those days, that they failed to
discuss their respective arguments con- cerning the defence of the Copernican
system. 6 NOTES 1. Amphitrite was in Greek mythology the wife of Poseidon, and
therefore the Goddess of the Sea. 2. See Aristotle (1971: Section 296b). 3.
Although Antonio Favaro, the Curator of the National Edition of Galilei’s
works, dates it to 1584, Crombie (1996) and Wallace (1981; 1984) prefer a date
of around 1590. 7 ACKNOWLEDGEMENTS We wish to thank Luisa Bonolis, Alessandro
Bettini, Alessandro Pascolini, Giulio Peruzzi and Antonio Saggion for useful
suggestions, and the anonymous referees for directing us to some important
aspects that we neglected to mention in the first draft of this paper. 8
REFERENCES Aristotle, 1971. On the Heavens. Cambridge (Mass.), Harvard
University Press (Loeb Classic Greek Lib- rary English translation of the c.
350 BC Greek original). Barbour, J., 2001. The Discovery of Dynamics, Ox- ford,
Oxford University Press. Bruno, G., 1975. The Ash Wednesday Supper. The Hague,
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Latin original). Clavelin, M., 1968. Galileo‟s Natural Philosophy. Paris, Colin
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Science from Augustine to Galileo. New York, Dover. Cusanus, N., 1985. On
Learned Ignorance. Minne- apolis, The Arthur J. Banning Press (English trans-
lation by J. Hopkins of the 1440 Latin original). D’Aviso, U., 1656. Treatise on
the Sphere of Galileo Galilei. Rome, N.A. Tinassi (apparently written in Padova
in 1606, in Latin). Galilei, G., c. 1584. MS 46. In Collezione Nazionale
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principle of relativity. Cadernos de História e Filosofia da Ciência, 9, 69–86
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Chapter 25 (manuscript). Paris, National Library. Oresme, N., n.d. Traité de la
sphère. Aristote, Du ciel et du monde. In the National Library, Paris, fonds
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247 Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo
Giordano Bruno and the Principle of Relativity Medieval and
Sixteenth-Century Sources of Galileo‟s Thought. Dordrecht, Reidel. Wallace,
W.A., 1984. Galileo and His Sources: Heri- tage of the Collegio Romano in
Galileo‟s Science. Princeton, Princeton University Press. 4
Volgareelatino nel carteggio galileiano Sommario 4.1 Galileo
epistolografo: volgare e latino. – 4.2 Un confronto con Descartes e Mersenne. –
4.3 Le lingue dei corrispondenti. – 4.4 Le lettere latine di Galileo. 4.1
Galileo epistolografo: volgare e latino Per le consuetudini della respublica
litterarum lo scambio epistolare europeo riveste un ruolo importantissimo,
anche in considerazione della censura, in quanto «la lettre n’a pas besoin
d’imprimatur ni de ‘privilège’» (Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999,
52).1 Non esistendo ancora i periodici scientifici, le lettere svolgevano anche
tale funzione. Allievi e simpatizzanti, protettori, principi e cardinali,
eruditi ita- liani e stranieri, colleghi ed ecclesiastici, artisti e letterati,
amici e familiari: il carteggio galileiano comprende tutto questo.2 I
destinatari di Galileo sono per lo più in Italia, ma non mancano corrispondenti
stranieri, specialmente in Francia (Parigi e Lione), in Baviera, a Praga e nei
Paesi Bassi: «Per quanto la giurisdizione del 1 Sulla respublica litterarum e
la corrispondenza tra i savants cf. Fumaroli 1988; Bots, Waquet 1994 (in
particolare i saggi di Johns, Fumaroli, Waquet, Frijhoff); Waquet 1998;
Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999 (in particolare l’intervento di Marta
Fattori); Jau- mann 2001; Bots, Waquet 2005; Fumaroli 2015. 2 Breve, ma
puntualissimo, Bucciantini in Irace 2011, 344-9; si veda anche Garcia 2004,
257-65. All’epistolario galileiano è dedicato Ardissino 2010; la studiosa ha
cura- to un’antologia delle lettere italiane dello scienziato (Galilei 2008),
con introduzione di Battistini (L’umanità di uno scienziato attraverso le sue
lettere). Sul registro polemico nell’epistolario si veda Ricci 2015.
Filologie medievali e moderne 23 | 19 10.30687/978-88-6969-450-9/004
57 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano suo epistolario
sia di estensione europea, Galileo si rivolge soprat- tutto alla classe
dirigente degli Stati italiani, laica ed ecclesiastica» (Battistini in Galilei
2008, 13).3 In che lingua scriveva Galileo le sue lettere? Ci si aspetterebbe
che, nonostante la programmatica scelta del volgare per le sue opere, egli
utilizzasse nella corrispondenza con gli stranieri il latino, lingua franca
dell’aristocrazia del sapere. Una verifica integrale nei volumi dell’EN riserva
invece la sorpresa di una situazione affatto diversa, che riportiamo in
tabella: Vol. EN 10 11 12 13 14 15 16 17 18 18suppl. 20 suppl. 1 20
suppl. 2 Suppl. 2015 TOT. Anni Lettere di cui scritte in latino da Galileo
1574-1610 89 3 1611-13 42 0 1614-19 47 0 1620-28 51 1 1629-32 49 1 1633 18 0
1634-36 50 2 1637-38 33 1 1639-42 49 1 2 0 2 0 3 0 10 0 445 9 2 a Kepler (4
agosto 1597, EN 10, 67; 19 agosto 1610, EN 10, 421) 1 a Brengger (8 novembre
1610, EN 10, 466) a Kepler (28 agosto 1627, EN 13, 374) a Fortescue [Aggiunti]
(febbraio 1630, EN 14, 83) 1 a Bernegger [Aggiunti] (16 luglio 1634, EN 16,
111) 1 agli Stati generali dei Paesi Bassi (agosto 1636, EN 16, 468-9) a
Boulliau(d) (1 gennaio 1638, EN 17, 245) a Boulliau(d) (30 dicembre 1639, EN
18, 134) 3 Cf. anche
Garcia 2004, 257: «l’espace de cette république semble se réduire, dans son
esprit, à la seule Italie – c’est-à-dire aux trois villes de la Péninsule les
plus actives culturellement, Rome, Venise et Florence». Filologie medievali e
moderne 23 | 19 58 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e
latino nel carteggio galileiano Su un totale di 445 lettere – manteniamo i
criteri di Favaro, che in- clude anche le epistole-trattato, quali le tre sulle
macchie solari, e le dedicatorie – sono latine soltanto 9 (il 2,02 %). Si
tratta delle lettere superstiti, ma, anche supponendo che la sorte ne abbia
distrutto un numero maggiore in latino che in italiano, i dati sono
inequivocabili. Sappiamo poi che di quelle 9, 2 sono state composte da Niccolò
Ag- giunti su commissione dello scienziato (v. infra). Ne restano dunque 7. 4.2
Un confronto con Descartes e Mersenne Il confronto con Descartes è eloquente.
Charles Adam ricostruisce che nel carteggio superstite «sur un total de 498
lettres, 63 sont en latin» (Adam 1910, 22), cioè il 12,65%. Del resto la familiarità
del fi- losofo con il latino era profonda: Il apprit le latin à fond, non
seulement comme une langue morte, mais comme une langue vivante qu’il pourrait
avoir à parler et à écrire. Il la parla, en effet, quelquefois en Hollande, et
même en France à une soutenance de thèses; et il l’écrivit dans trois ou quatre
de ses ouvrages et un certain nombre de lettres. Quelques- unes de ses notes
mêmes, rédigées pour lui seul et à la hâte, sont en latin. Il maniait cette
langue aussi bien et souvent mieux que le français, le plus souvent avec
vigueur et sobriété, parfois aus- si pourtant avec quelques gentillesses de
style qui rappellent les leçons des bons Pères; lui-même avoue qu’il a fait des
vers, sans doute des vers latins, et une fois avec Balzac il se piqua de bel
esprit et lui écrivit dans un latin élégant ‘à la Pétrone’. (Adam 1910, 22)4 Il
latino fu ancor più abituale per Marin Mersenne (1588-1648), che anche in
quanto ecclesiastico (ordine dei Minimi) era più legato alla lingua antica: su
308 epistole da lui redatte e conservateci sono la- tine il 38, 64% (119), in
francese le restanti.5 Sarebbe interessante uno studio dell’uso linguistico in
tale epistolario che analizzi il tipo di missiva, la provenienza e la
formazione dei destinatari. Accenniamo qui soltanto al fatto che Mersenne, a
cui furono rivolte alcune lette- 4 Al carteggio di Descartes è dedicato l’ampio
volume di Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999; vi si veda in particolare il
saggio di Torrini che compara l’epistolario di Descartes e di Galileo: per il
primo il carteggio fu un luogo privilegiato di discussione filosofica, ben più
che per Galileo. 5 Conteggio nostro dai 17 volumi della corrispondenza
dell’erudito (Mersenne 1945- 1988). Divergono leggermente dalla nostra la somma
indicata nel vol. 17 a p. 107 (330) e quella che si ricava dall’indice delle
missive a pp. 145-9 (317). La lettera nr. 1691 a Baliani ci è tradita in
italiano da una stampa secentesca delle opere di questi, ma si tratta
probabilmente di una traduzione dall’originale latino o francese (cf. il
commen- to di de Waard, Beaulieu). Filologie medievali e moderne 23 | 19 59
Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel
carteggio galileiano re in italiano, non rispose mai in quella lingua; i
curatori del carteg- gio affermano, seccamente, che «Mersenne savait très mal
l’italien» (commento alla lettera nr. 1691). Troppo seccamente, perché egli
comprendeva in verità assai bene l’italiano, come dimostra la tradu-
zione-rielaborazione di pagine galileiane (Les Méchaniques de Gali- lée, Les
nouvelles pensées de Galilée).6 Interessante sarebbe valutare affermazioni di
comprensione o incomprensione di una lingua stra- niera come quelle di Giovanni
Battista Baliani, in cui la grafia sem- bra giocare un grande ruolo. Per esempio,
ha ricevuto da Mersenne una lettera «in lingua francese, ma tanto chiara ché io
l’ho intesa leg- gendola correntemente» (missiva nr. 1429), cioè è riuscito a
legger- la nonostante fosse in francese e nonostante la grafia. Un mese pri- ma
aveva spiegato al corrispondente: «Rispetto alla lingua, in che V. P. mi deve
scrivere, confesso, che mi è più caro che mi scriva in lat- tino, che già hò
preso un poco la pratica del suo carattere. Il france- se però intendo meno,
ancorche intenda assai bene i libri stampati» (missiva nr. 1417; in nota i
curatori ricordano che Torricelli aveva lo stesso problema). Galileo non
leggeva il francese.7 Contrariamente a ciò che era consuetudine e norma nella
respublica litterarum, Galileo fece uso parchissimo del latino per l’epistolografia.
Anche se dobbiamo precisare che era ormai scontata a quell’altezza cronologica,
almeno in Francia e Italia, l’utilizzo della lingua mater- na per comunicare
con connazionali,8 e il carteggio stricto sensu ga- lileiano – lettere composte
o ricevute dallo scienziato – non presenta quasi eccezioni.9 Anche tra le
lettere che nell’EN fanno corona all’epi- stolario galileiano propriamente
detto, ma che fornendo informazioni sullo scienziato furono raccolte da Favaro,
sempre o quasi gli italia- ni scrivono a un connazionale (foss’anche il papa)
in italiano. Analo- gamente si comportano i dotti francesi (pur con qualche
eccezione): Mersenne, Fermat, Descartes si scrivono in francese. Ricorrono in-
vece non infrequentemente al latino i dotti tedeschi per comunicare tra loro:
nell’EN si veda Scheiner che scrive a Kircher, e Bernegger a tutti i propri
connazionali.10 Analogamente, l’olandese Hugo de Gro- 6 Sul rapporto
Mersenne-Galileo (e Descartes-Galileo) si veda almeno Bucciantini 2009. 7 Cf.
anche Favaro 1983, 1392. 8 Pantin 1996, 58: «À la fin de la Renaissance, les
langues vernaculaires (surtout s’il s’agissait du français et de l’italien)
étaient devenues le premier moyen de s’exprimer et même de raisonner (dans la
correspondances scientifiques du début du XVIIe siècle les allemands sont
souvent presque les seuls à parler latin)». Di diverso parere Battis- tini in
Galilei 2008, 13: «pur essendo ancora il latino la lingua abituale nel trattare
ma- terie scientifiche ed erudite, anche tra connazionali». 9 Paolo Maria
Cittadini, che si firma teologo dello Studio bolognese, si rivolge in la- tino
a Galileo (EN 10, 389). 10 Per un’indagine sulla corrispondenza dei dotti
tedeschi nel Cinquecento si veda Lefèbvre 1980. Cf. anche Leonhardt 2011, 213.
Filologie medievali e moderne 23 | 19 60 Galileo in Europa, 57-70
Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano ot (Grotius) scrive
in latino a Maarten van den Hove (Martino Orten- sio nell’EN) e a Gerhard Voss
(Vossius). 4.3 Le lingue dei corrispondenti Galileo non si allinea al costume
della comunicazione latina con stra- nieri, mostrando una forte tendenza a
evitare la lingua antica.11 D’al- tra parte, l’adozione dell’italiano da parte
di stranieri testimonia la fortuna della nostra lingua e il suo prestigio.12
Galileo instaura una comunicazione italiana paritetica – nel senso che entrambi
i corri- spondenti scrivono in italiano – non solo con Clavius e Faber, che vi-
vevano stabilmente in Italia da molti anni (si noti però che in alme- no due
lettere il principe Cesi aveva scritto al secondo in latino), ma anche con
Markus Welser,13 l’ingegnere militare Antoine de Ville (al- lora in servizio
della Serenissima),14 Carcavy, Peiresc, Reael, Lowijs Elzevier,15 Ladislao IV
di Polonia, Massimiliano di Baviera, Jean de Beaugrand. L’effettiva conoscenza
dell’italiano da parte dei corri- spondenti non si può misurare solo dalle
missive, per alcune delle quali va postulato l’intervento di un madrelingua
(certamente nel caso di principi e regnanti, ma anche le lettere di Reael sono
troppo ben scritte per non supporre almeno un correttore).16 Significativo il
caso di François de Noailles (1584-1645).17 Già sco- laro di Galileo a Padova,
ufficiale militare e poi non troppo abile am- basciatore francese a Roma (1634-36),
attivo nel chiedere alla Chie- sa clemenza per l’antico maestro, lo incontrò a
Poggibonsi sulla via del ritorno in Francia e ricevette una copia manoscritta
delle Nuove scienze, delle quali fu dedicatario. Restano 8 lettere da lui
inviate a Galileo dall’ottobre 1634 al novembre 1638. Le prime cinque sono in
italiano e risalgono al tempo in cui era diplomatico a Roma: di esse soltanto
una è interamente autografa (EN 16, 144), ma probabilmente 11
Nell’inopportunità di riportare dettagliate rassegne biografiche sui molti
personag- gi che nomineremo, rimandiamo una volta per tutte all’Indice
biografico dell’EN (anche del supplemento 2015) e agli indici di Drake 1995 e
di Heilbron 2010, nonché al rege- sto di nomi propri curato dal Museo Galileo
di Firenze, disponibile online e continua- mente aggiornato. Daremo qui
solamente qualche informazione utile al nostro discorso. 12 Cf. Stammerjohann
2013. 13 Cf. cap. 2, § 5. Quando questi è malato, anche il fratello Matthäus
scrive in ita- liano a Galileo. 14 Cf. Pernot 1984 e Vérin 2001. 15 Scrive in
italiano anche a Micanzio. Bonaventure e Abraham Elzevier si erano in- vece
rivolti a Galileo in latino. 16 Diodati scrive a Reael in italiano (EN 16,
492). 17 Su di lui cf. Favaro 1983, 1317-45. Per i corrispondenti francesi di
Galileo riman- diamo a Baumgartner 1988 e ai riferimenti bibliografici ivi
contenuti. Filologie medievali e moderne 23 | 19 61 Galileo in Europa,
57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano
composta o almeno rivista da un madrelingua. Le altre quattro han- no soltanto
la sottoscrizione di pugno del diplomatico. Il 15 gennaio 1636, in un punto
morto delle discrete manovre per il mitigamento della condanna di Galileo,
Noailles si scusa con questi del ritardo nel- lo scrivere: «Potrà similmente
attribuire la cagione dell’haver tardato a scriverli all’assenza del mio
secretario italiano» (EN 16, 377). È al- meno in parte un pretesto, ma ci
informa delle abitudini linguistiche della corrispondenza. La stessa lettera
riporta un breve poscritto au- tografo, che può dare l’idea della competenza
linguistica dell’amba- sciatore, buona, ma nettamente inferiore alla lingua e
allo stile esibi- to nelle altre lettere a Galileo: «Il latore de la presente
li darà nove di me, et quanto gran stima fo de le sue virtù et come sto con
desiderio di servirla in ogni occorrenza». Di fatto, l’uso dell’italiano
sembra, non solo in Noailles, un piacere e un omaggio al maestro degli anni
pado- vani e al grande scienziato. Dopo il rientro in Francia (1636) Noailles
gli scriverà personalmente – cioè senza aiuto di segretari – in france- se
(restano tre lettere autografe). Lettere che – l’ambasciatore dove- va certo
esserne al corrente – Galileo non poteva intendere e di cui restano tra i
manoscritti galileiani le traduzioni italiane.18 A Grienberger e de Groot che
gli si rivolgono in latino, Galileo ri- sponde in italiano. In latino gli
scrivono anche Gassendi (con l’ec- cezione di una missiva italiana composta
insieme a Peiresc), Tycho Brahe, Mersenne, Morin, Abraham e Bonaventure
Elzevier, l’avver- sario Scheiner e parecchi altri.19 Ma non sono conservate le
risposte del nostro (a Tycho non rispose affatto) 20 e dunque non sappiamo in
quale lingua fossero composte. Gli scrissero invece in italiano Martin Hasdale
(tedesco, fu a lun- go in Italia per divenire poi potente consigliere alla
corte di Rodolfo II); David Ricques (polacco o tedesco), Thomas Segget
(scozzese, fu a lungo in Italia; poi a Praga), il greco Demisiani, il cardinale
François de Joyeuse, Krzysztof Zbaraski (nell’EN Cristoforo di Zbaraz), Ri-
chard White (allievo di Castelli, scrive da Londra e si scusa per gli errori di
lingua), Giovanni di Guevara (spagnolo, ma nato a Napoli), Philippe de
Lusarches (maestro di camera degli ambasciatori fran- cesi a Roma), Johannes
Riijusk (cugino del Reael, scrive da Venezia), Francesco van Weert (olandese al
servizio della Serenissima), Justus 18 Cf. l’introduzione di Favaro alle
missive e il supplemento di EN 18, 436. Al ruo- lo dei segretari nella respublica
litterarum accenna Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999, 57-8. 19
Raymund Schorer (mercante tedesco attivo anche a Venezia), Theophilus Mül- ler
(tedesco, linceo, da Roma), Beaulieu (non meglio identificato), John Welles (da
Lon- dra), Jan Friedrich Breiner, Michel Coignet, Marek Lentowicz (che fu
studente a Pado- va), Bartholomäus Schröter (tedesco), Jean Tarde, Filippo
d’Assia, Jan Brozek (polac- co), Maarten van den Hove (Hortensius,
olandese). 20 Bucciantini 2003, 87. Filologie medievali e moderne
23 | 19 62 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel
carteggio galileiano Weffeldich (agente degli Elzevier a Venezia), Jean-Jacques
Bouchard (dotto francese che visse molti anni a Roma), Henry Robinson (ingle-
se, fu a Livorno per commercio e abitò per alcuni anni a Firenze). Restano
alcune epistole italiane che Galileo inviò a Leopoldo d’Au- stria (Innsbruck),
a Pedro de Castro conte di Lemos (Madrid), agli Stati Generali delle Province
Unite dei Paesi Bassi (ve n’è un’altra in latino, EN 468-69, di cui parleremo
tra qualche pagina), a Francisco de Sandoval duca di Lerma (Madrid), a Maarten
van den Hove (matematico olandese). Scrivono a Galileo sia in latino che in
italiano Leopoldo d’Austria, Jacques Jauffred21 (una missiva privata è in
volgare, una pubblica è stampata in latino), Benjamin Engelcke (di Danzica, fu
per alcuni an- ni in Italia).22 Gli Stati Generali delle Province Unite dei
Paesi Bassi si rivolgono a Galileo sia in latino che in francese (Reael traduce
per Galileo; una deliberazione dell’assemblea sulla proposta galileiana del
calcolo della longitudine è redatta in olandese e Reael la tradu- ce in latino
per Galileo). Il francese è peraltro usato anche in altre occasioni dagli
olandesi, come quando Huygens si rivolge a Diodati. Il quadro generale
dell’epistolario è dominato dall’italiano, anche perché la maggioranza degli
stranieri aveva vissuto per un periodo abbastanza lungo in Italia durante gli
studi universitari o per altri motivi. Sono dunque stranieri con una vasta
conoscenza personale della Penisola e della sua lingua.23 4.4 Le lettere latine
di Galileo Si esaminerà ora il ristretto gruppo di epistole latine di Galileo
rima- steci. Della corrispondenza tra Galileo e Kepler, di importanza capi-
tale, restano poche lettere, 7 da parte del tedesco, 3 da parte del pi- sano.
Non si incontrarono mai di persona. La comunicazione si svolse sempre in latino
e coprì, per quanto è conservato, un arco tempora- le che va dal 1597 al 1627
(ma le lettere scritte da Kepler non vanno oltre il 1611). I rapporti
scientifici e personali tra i due scienziati so- no illustrati nel dettaglio e
nell’ampio quadro culturale del tempo in Bucciantini (2003), a cui ci
rifacciamo per la nostra analisi. Al tempo del primo contatto epistolare (1597)
nessuno dei due è famoso: Gali- leo è niente più che il solido matematico dello
Studio di Padova; Ke- pler, dopo aver rinunciato alla carriera teologica e
pastorale, è mate- matico a Graz. I due non si conoscono neppure di nome. Per
tramite 21 Su di lui vedi DBI (s.v. «Gaufrido, Jacopo»). 22 Cf. infra in questo
capitolo. 23 Cf. Favaro 1983, 1320-2. Una testimonianza in senso contrario
(ovvero scarsa com- petenza dell’italiano da parte di studenti stranieri a
Padova) è riferita da Mikkeli 1999, 81; ci sembra tuttavia un’eccezione di
fronte alle tante altre. Filologie medievali e moderne 23 | 19 63 Galileo in
Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio
galileiano dell’amico Paul Homberger, Kepler fece arrivare in Italia il suo My-
sterium cosmographicum (1596). «Probabilmente fu lo stesso Keple- ro a
suggerirgli [a Homberger] di destinare una copia allo Studio di Padova, ovvero
di consegnarla a chi in quel tempo occupava la catte- dra di matematica in una
delle università più prestigiose d’Europa» (Bucciantini 2003, 22). E Galileo,
letta solo la prefazione dell’opera, nella quale Kepler dichiara la sua
adesione al Copernicanesimo, de- cise di inviare una lettera di ringraziamento
all’autore per tramite dello stesso Homberger che stava per fare ritorno in
Austria.24 È la missiva del 4 agosto 1597 (EN 10, 67), che contiene
l’importantissima di dichiarazione di Copernicanesimo da parte di Galileo (in
Copernici sententiam multis abhinc annis venerim).25 Importantissima anche in
base alla doppia considerazione che a fine Cinquecento i copernicani si
contavano sulle dita (oltre a Kepler e Galileo, erano Bruno, Roth- mann,
Mästlin, Digges, Harriot, Stevin, de Zúñiga)26 e che prima del- le scoperte del
1610 «le copernicianisme était une opinion extrava- gante et ridicule, et donc
non dangereuse ni ne méritant même d’être condamnée» (Bucciantini 2009, 20). Si
capisce dunque l’entusiasmo di Galileo nell’apprendere che un tale Kepler aveva
le sue stesse idee e pubblicava opere per difenderle e diffonderle, mentre lui,
Galileo, non aveva avuto il coraggio – afferma – di pubblicare le sue osserva-
zioni in difesa del sistema eliocentrico per non fare la fine di Coper- nico,
lodato da pochissimi e deriso dai più. Il latino di questa lette- ra ci sembra
un poco più elevato di quello del Sidereus nuncius, con più frequente
subordinazione (soprattutto frasi relative e infinitive). La gioiosa risposta
di Kepler, contento anch’egli di aver trovato un compagno, è più lunga e
stilisticamente superiore, per quanto non brillante: esclamazioni e
interrogative retoriche vivacizzano il det- tato, che è molto fluido e senza
imbarazzi; vi sono finezze umanisti- che, come l’inserzione di una parola in
caratteri greci (αὐτόπιστα). La strategia culturale di Kepler per l’affermazione
del Copernicane- simo prevede innanzitutto il convincimento dei matematici ed
egli si dichiara disponibile a far pubblicare in terra tedesca gli scritti di
Galileo, se questi teme di farlo in Italia. Ma Galileo, non condividen- do la
strategia proposta, non rispose a questa lettera.27 Stupito del silenzio,
Kepler ritentò attraverso Edmund Bruce di avere nuove di Galileo nel 1599.28 24
Cf. anche Biancarelli Martinelli 2004. 25 Una dichiarazione di poco precedente
(maggio 1597), ma appena accennata e di- messa, diversamente dalle righe
indirizzate a Kepler, è in una lettera a Jacopo Mazzo- ni (EN 2, 197-202; cf.
Bucciantini 2003, 29). 26 Bucciantini 2003, 53. 27 Bucciantini
2003, 73. 28 Bucciantini 2003, 103. Filologie medievali e moderne 23 | 19
64 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio
galileiano Giunse poi la stagione del Sidereus nuncius, durante la quale Ke-
pler fu il solo grande interlocutore straniero cui Galileo si rivolse e la cui
conferma delle scoperte ebbe importanza paragonabile soltanto a quella degli
studiosi del Collegio Romano. Oltre alla presa di posizio- ne ufficiale con la
Dissertatio cum Nuncio sidereo, Kepler invia a Ga- lileo una lettera privata il
9 agosto 1610, chiedendo, in sostanza, altri elementi a sostegno delle scoperte
e del cannocchiale. La risposta di Galileo, datata 19 agosto (EN 10, 421), è
significativa. Il nostro è an- cora a Padova, ma ha già ottenuto il posto alla
corte di Toscana e la lettera è pervasa da un’esuberante soddisfazione del
proprio succes- so, «con toni che sfiorano l’autocelebrazione» (Bucciantini
2003, 190): il racconto delle ricompense e dello stipendio ricevuto dopo la
scoper- ta, la protezione e la garanzia del Granduca quanto alle scoperte, il
ti- tolo di filosofo aggiunto ora a quello di matematico, che Kepler non gli
riconoscerà. Galileo non ha molto tempo per scrivergli (paucissimae enim
supersunt ad scribendum horae). Lo stile è solido e non più impac- ciato come
nella lettera del 1597; la scrittura è più fluida, c’è più mo- vimento, con
interrogative e riferimenti eruditi (seppur scolastici, co- me oblatrent
sicophantae) e quasi con affetto per il suo alleato lontano che, pur chiedendo
chiarimenti e testimoni, lo ha appoggiato. In par- ticolare è insolita, in Galileo,
una conclusione come me, ut soles, ama. Con la pubblicazione della Dioptrice
nel 1611 (Kepler fu il padre dell’ottica moderna), termina uno scambio
frequente tra i due: essi non hanno più avvertito il bisogno di confrontarsi e
collaborare rego- larmente, a causa sia di progetti e attitudini scientifiche
differenti, sia di piccole incomprensioni (per es. la stima riposta da Kepler
in Simon Mayr, che dispiacque al nostro).29 Certo, Galileo si informerà su co-
me stia e che cosa faccia l’altro e Kepler prenderà posizione nelle po- lemiche
legate al Saggiatore con l’Hyperaspistes (1625), ma non è più in gioco una
collaborazione stabile e duratura. Le lettere superstiti, in ogni caso, saltano
dal 1611 al 4 settembre 1627 (EN 13, 374-5), al- lorché Galileo raccomanda
Giovanni Stefano Bossi al dotto corrispon- dente perché questi lo accetti come
scolaro. La missiva, non molto in- teressante quanto al contenuto (una
raccomandazione), testimonia il tentativo di riallacciare la relazione. Nel
poscritto Galileo aggiunge: Mitto, cum his complicatam litteris, Orationem
Nicolai Adiunctii, adolescentis in omni humaniore et severiore literatura
excultissi- mi: eam sat scio te magna cum voluptate lecturum, et mirifice fu-
turam ad tuum palatum et gustum. Si tratta dell’Oratio de mathematicae
laudibus, uscita a Roma nello stesso anno dalla penna del giovane Aggiunti,
notevole non solo per 29 I motivi del distacco sono scandagliati in Bucciantini
2003, 198-205. Filologie medievali e moderne 23 | 19 65 Galileo in Europa, 57-70
Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano lo stile
latino brillante di cui l’autore dava prova, ma anche per la celebrazione della
matematica come modo di vedere la realtà (una Geometria nos in rerum notitiam
perducit, et sola complectitur studia universa).30 Dopo di che, morto Kepler
nel 1630, il Dialogo lo accuse- rà, pur «con rispetto» (così la didascalia a
margine), di aver creduto a «predominii della Luna sopra l’acqua, ed a
proprietà occulte, e simi- li fanciullezze» (4, 54): come è noto, un attacco
che si ritorce contro Galileo. A rendere incompatibili le posizioni dei due
grandi vi erano idee radicalmente diverse sul cosmo e la posizione dell’uomo in
esso.31 Veniamo agli altri corrispondenti. Johann Georg Brengger (1559- 1630
ca.), medico di Augsburg, si interessava di problemi scientifici.32 Per tramite
di Welser pone a Galileo alcune questioni sui monti lu- nari, cui Galileo
risponde con una lunga epistola in un latino asciut- to l’8 novembre 1610. A
sua volta Brengger risponderà estesamente in latino il 13 giugno 1611 (EN 11,
121). Una delle due lettere composte in latino da Niccolò Aggiunti su incarico
di Galileo si legge in EN 14, 83 (datata febbraio 1630) ed è la risposta a
George Fortescue.33 Il 15 ottobre 1629 (EN 14, 47) que- sti gli aveva
indirizzato una pomposa lettera latina annunciandogli la pubblicazione delle
sue Feriae academicae (1630), nelle quali, di- scorrendo di ottica, catottrica,
matematica e astronomia, adduceva nonnulla [...] experientia comprobata mea.
Lettera pomposa in cui gli elogi a Galileo, iperbolici, sono intessuti di
riferimenti eruditi (il mi- to di Cefeo e la costruzione del faro di
Alessandria su progetto di So- strato). La notizia più saliente che il mittente
vuole comunicare è l’a- ver fatto di Galileo un personaggio del libro
annunciato: In his usus sum artificio Marci Tullii aliorumque, qui, ut sibi in
dicendo auctoritatem concilient, inducunt colloquentes Catones, Crassos,
Antonios, similesque palmares homines. [...] Igitur ignosce, Vir sapientissime,
si disputantem in scriptis meis temet repereris, 30 Il passo è riportato in
Camerota 2004, 570. Secondo Peterson 2015, 130, inviando a Kepler il testo di
Aggiunti, Galileo inviterebbe il corrispondente a rivolgere un’‘atten- zione
matematica’ non solo ai cieli, ma anche alla realtà terrestre. 31 «L’abbandono
[da parte di Galileo] di ogni visione antropocentrica è certamente una delle
caratteristiche della sua filosofia che più lo allontana non solo da Keplero ma
an- che da Copernico» (Bucciantini 2003, 322). «Il progetto galileiano di
fondazione di una scienza copernicana del moto fu fin dall’inizio antitetico e
concorrente alla nuova dina- mica celeste kepleriana. La forza e la tenacia con
cui Galileo proseguì in ogni momento della sua vita le sue ricerche sul moto
inerziale all’interno di una prospettiva cosmolo- gica gli impedirono di
accettare le ‘assurde’ leggi kepleriane» (Bucciantini 2003, 336). 32 Laureato
in medicina a Basilea, ebbe scambio epistolare con Clavio e Kepler su problemi
scientifici (cf. Reeves, van Helden 2010, 43, 220-1; Keil 2002, 610-11; Buc-
ciantini 2003, 230-3). 33 Pochissimo si sa di lui: cf. la voce di Ross Kennedy
nell’Oxford Dictionary of National Biography (2004), con bibliografia; Favaro
1883b, 203-10; Besomi, Helbing 1998b, 3-4. Filologie medievali e moderne 23 |
19 66 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e latino
nel carteggio galileiano illos inter qui exquisitis suis artibus occiduum hunc
sustentant orbem. Alle pp. 122-59 delle Feriae è allestito un dialogo (con
narratore) tra Ga- lileo, Clavio, Grienberger – astrologorum huius aevi facile
principes – e Ferdinando Gonzaga. Con la missiva Fortescue ne informa lo
scienziato e si scusa per non avergli chiesto il permesso (Ergo da veniam,
serius petenti licet, Vir spectatissime, quod, inconsulto te, cum tuo egerim
nomine). Nella risposta – che commenteremo – lo scienziato dichiara, con
accenti che corrispondono del tutto ai moduli dello stile encomia- stico, che
nostram [...] enim mirifice incendisti cupiditatem, pregando- lo di inviargli
copia del libro non appena stampato (Cum typographi suam operam absolverint,
tuique libri editionem perfecerint, unum vel alterum exemplar ad nos primo
quoque tempore perferendum cures). Non escludiamo che la parte ‘galileiana’ delle
Feriae34 abbia potuto ispirare Galileo e suggerirgli quell’unicum narrativo che
è la sua appa- rizione come personaggio nel Dialogo sopra i due massimi sistemi
(3, 176). In tale passo, per ribadire la priorità galileiana su Scheiner ri-
guardo alla scoperta della correlazione tra macchie solari e l’inclina- zione
dell’asse solare, Galileo si è servito di un fine stratagemma reto-
rico-narrativo, unico nell’opera: Salviati ricorda dettagliatamente una
discussione con Galileo e ne riporta in modo diretto (con due punti e
virgolette) le parole. Un intervento ‘diretto’ dell’autore all’interno del
Dialogo dei personaggi. Lo stratagemma è interessante anche perché è un falso
creato ad hoc da Galileo, come hanno acutamente ricostruito Besomi, Helbing
(1998b, 720-37) e come era noto a collaboratori di Ga- lileo: Benedetto
Castelli parlò del passo in questione come «testimonio falso delle macchie del
sole» (lettera del 29 maggio 1632 a Galileo, EN 14, 358). L’influenza di
Fortescue su tale episodio è indimostrata, ma possibile anche in base alla
cronologia della composizione del Dialogo.35 Contrariamente alle sue abitudini,
Galileo volle rispondere a For- tescue in latino (questi era stato al Collegio
inglese di Roma dal 1609 al 1614; non sappiamo tuttavia se Galileo ne fosse al
corrente), e si affidò per questo al provetto latinista Niccolò Aggiunti
(1600-1635). Allievo di Castelli a Pisa, al quale succedette nel 1626 sulla
cattedra di matematica, Aggiunti fu anche precettore di corte, dove conobbe e
divenne discepolo fidato di Galileo, tanto che fu tra coloro che du- rante il
processo del 1633 asportarono da casa del maestro le carte giudicate
pericolose. Studiò in particolare i fenomeni capillari. Uni- ca sua opera a
stampa è la già menzionata Oratio de mathematicae 34 Accenni in Favaro 1883b,
203-10; Besomi, Helbing 1998b, 3 e Camerota 2004, 206. 35 La parte dell’opera
sui movimenti delle macchie solari (3, 172, 10-187) è stata com- posta
«probabilmente dopo il settembre del 1631, dopo che Galileo aveva letto la Rosa
Ursina [opera di Scheiner]» (Besomi, Helbing 1998b, 47). Filologie medievali e
moderne 23 | 19 67 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 •
Volgare e latino nel carteggio galileiano laudibus (1627), che fu la prolusione
al suo insegnamento universi- tario; restano manoscritti alcuni altri suoi
testi.36 Ebbe fama di otti- mo latinista e per questo Galileo chiese la sua
collaborazione. Ciono- nostante difese anche l’uso del volgare nella
trattazione filosofica.37 Il 30 gennaio 1630 Aggiunti scrisse a Galileo: «Credo
che V. S. Ecc.ma volentieri mi perdonerà così lunga dilazione, vedendo che io
gli pago il debito e in oltre qualche usura: io parlo della rispo- sta al Sig.r
Giorgio [Fortescue], la quale mando a V. S., fatta con quella maggior
accuratezza che ho potuto. Harò caro intender quan- to gli sodisfaccia. Nella
soprascritta basterà fare: Eruditiss.o Viro Georgio de Fortiscuto. Londinum»
(EN 14, 71). Della missiva ci resta la copia autografa di Galileo. In essa,
datata da Favaro febbraio 1630, si ringrazia ampollosamente, anche con richiami
eruditi, per l’onore di comparire come personaggio inter eximios viros e di
essere così celebrato. La lettera è ben nota agli studiosi galileiani, perché
Gali- leo dichiara di lavorare a un arduum opus: magnum mundi systema, quod
trigesimum iam annum parturiebam, nunc tandem pario. E di- chiarandone il tema
(in hoc opere abditissimas maris aestuum causas [...] inquiro, et, nisi mei me
fallit amor, mirabiliter pando), prega il cor- rispondente di inviargli dati
sull’osservazione delle maree: Proinde siquid habes circa hasce alternas
aequoris agitationes diligenti nec divulgata observatione notatum, ad me
perscribere ne graveris. L’altra lettera latina composta da Aggiunti su
commissione di Galileo (16 luglio 1634; EN 16,111) è indirizzata a Matthias
Bernegger (1582- 1640), dotto residente a Strasburgo e traduttore in latino del
Dialogo. Alcuni mesi prima egli aveva scritto a Galileo annunciandogli la
tradu- zione (10 ottobre 1633; EN 15, 299).38 Favaro ricostruisce che probabil-
mente tale epistola non fu consegnata allo scienziato, perché Benjamin Engelcke
(1610-1680), che avrebbe dovuto portarla di persona, la spedì a Galileo ed essa
andò perduta (noi leggiamo oggi la minuta dello scri- vente); l’Engelke scrisse
poi a Galileo informandolo della traduzione. La lettera di Bernegger è stesa in
un latino sicuro e curato, ma non af- fettato, con la sola iperbole finale di
Galileo non Italiae modo tuae, sed orbis, quem immortalibus tuis scriptis
illustrasti, lucidissimum sidus, che rispecchia lo stile encomiastico. Per la
risposta Galileo volle affidarsi anche in questa occasione ad Aggiunti, che
così scriveva allo scienziato il 12 aprile 1634: «Questa qui alligata è la
lettera che, in esecuzione del suo cenno, ho fatta al Bernechero, del quale non
sapendo il nome non ho potuto porvelo. Se le paresse lunga, potrà scorciarla et
acconciarla a modo suo. Io l’ho scritta con mia gran fatiga, perché il
considerare in 36 Su Aggiunti, oltre alla voce del DBI, si vedano Favaro 1983;
Camerota 1998; Ca- merota 2004, 21-2 e passim; Peterson 2015, 128-36.
37 Cf. Camerota 1998. 38 Commenteremo questa lettera nei cap. 8.
Filologie medievali e moderne 23 | 19 68 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi
4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano nome di chi io scrivevo mi
sbigottiva. V. S. nel mio mancamento accusi il suo comandamento» (EN 16, 82).
Ciò testimonia inequivocabilmente che Aggiunti non ha semplicemente tradotto in
latino una risposta re- datta da Galileo in volgare, ma composto in toto la
lettera. Essa sfoggia uno stile brillante, retorico, erudito. Aggiunti parago-
na Bernegger traduttore a un egregius pictor che abbellisce la figura della
persona ritratta: con i latinae elegantiae colores egli riprodurrà le
philosophicae lucubrationes dello scienziato. L’acme retorico-erudita è
raggiunta paragonando la traduzione del Dialogo al ritratto di Antigo- no
sapientemente realizzato da Apelle: essendo il sovrano privo di un occhio – era
appunto soprannominato μονόφθαλμος –, il pittore sfruttò i vantaggi del tre
quarti per nascondere il difetto fisico, come ricorda un passo dell’Institutio
oratoria (2, 13, 12): Habet in pictura speciem tota facies: Apelles tamen
imaginem Antigoni latere tantum altero ostendit, ut amissi oculi deformitas
lateret. Aggiunti si rifà direttamente a Quintilia- no e inscena una ‘cecità’
di Galileo, non fisica, come avverrà più tardi, ma metaforica (difetti di stile
e improprietà di espressione del Dialogo): tuum artificium hoc pollicetur, ut,
citra similitudinis detrimentum, me pulchriorem quam sum ostendas, et, imitatus
Apellem, qui Antigoni faciem altero tantum latere ostendit, ut amissi oculi
deformitas occultaretur, tu quoque, si quid in me mutilum vel deforme offendes,
ab ea parte convertas qua speciosius apparebit. È evidente la soddisfazione e
l’orgoglio per la traduzione latina dell’o- pera che tante umiliazioni aveva
portato a Galileo, soddisfazione e orgoglio accresciuti dai dolori fisici e
dalla perdita della figlia, man- cata pochi mesi addietro (ma di ciò non si
accenna nella lettera): Ceterum deierare liquido possum, post tot turbas et
corporis animique vexationes, quas mihi pepererunt primum studia ipsa, quae
radices artium amarae sunt, deinde studiorum fructus, qui multo ipsis radicibus
amariores fuerunt, hoc tuo erga me studio nullum mihi maius solatium
contigisse. Passi come questo attestano l’alto livello della prosa latina di
Aggiunti: sottolineamo la naturalezza stilistica con cui l’immagine degli studi
co- me radici delle scienze – radici amare perché intrise di fatica – si tramu-
ti nel paradosso dei frutti più amari delle radici, paradosso in cui sono
adombrate le sofferenze e umiliazioni del processo e dell’abiura. Alle quali
Galileo reagisce con nuovi studi e la stesura delle Nuove scienze: Non tamen
his angustiis eliditur aut contrahitur animus, quo liberas viroque dignas
cogitationes semper agito, et ruris angustam hanc solitudinem, qua
circumcludor, tanquam mihi profuturam aequo animo fero. Filologie medievali e
moderne 23 | 19 69 Galileo in Europa, 57-70 Bianchi 4 • Volgare e
latino nel carteggio galileiano Bernegger fu sbalordito dall’eleganza di tale
lettera e non subodo- rò che non venisse dalla penna di Galileo; scrisse
infatti a Diodati: Valde me terruit ipsius [Galileo] epistola, longe tersissima
et elegantissima; quam elegantiam cum vel mediocriter assequi posse desperem,
verendum habeo ne magnus ille vir ingenii sui divini foetum in commodiorem
interpretem incidisse velit. Sed iacta est alea (EN 16, 176-7). Aggiunti morì
nel dicembre 1635. Meno interessanti le ultime tre lettere di cui dobbiamo
occuparci. Il 30 ottobre 1637 il dotto Ismaël Boulliau(d) (1605-1694)39 inviò a
Ga- lileo una copia del suo De natura lucis40 accompagnandola con una lettera
latina in cui si dichiarava amico di Gassendi e di Diodati (EN 17, 207-8) e in
cui annunciava l’imminente pubblicazione del Philolaus sive Dissertatio de vero
Systemate Mundi (1639). È una missiva di ac- compagnamento, piuttosto breve e
spedita quanto a stile. La risposta di Galileo (1 gennaio 1638; EN 17, 245),
pure in latino, ha lo stesso te- nore: con un dettato puramente comunicativo
informava di aver già perso la vista e di non poter quindi formarsi un giudizio
sulle dimo- strazioni del De natura lucis che contengano figure; ha però apprez-
zato ciò che gli è stato letto e si interessa del Philolaus. Infine si scu- sa
per la brevità e sommarietà della risposta: Breviter admodum ac ieiune scribo,
praestantissime vir: plura enim scribere me non patitur molesta oculorum
valetudo. Quare me velim excusatum habeas. Una seconda lettera di Boulliau(d)
risale al 16 settembre 1639 (EN 18, 103): un puro accompagnamento all’invio del
Philolaus, con l’augurio retorico che utinam Deus, qui alligat contritiones
suorum, restituat oculorum lumen tibi ademptum, nobisque tale damnum resarciat,
ut ipse legas libellum, et rationum seriem sine alienorum oculorum opera
dispicias. La risposta latina del nostro, in data 30 di- cembre 1639 (EN 18,
134), è del tutto analoga alla precedente: rin- grazia il corrispondente e
apprezza quanto gli è stato letto, ma non potendo vedere le figure non può
giudicare bene. È latina, infine, una missiva di Galileo agli Stati generali
dei Pae- si Bassi, in cui chiede che sia esaminata la sua proposta per il
calco- lo della longitudine in mare. È una lettera non retorica, per quanto
contenga alcuni elementi topici come l’elogio del destinatario: 39
40 Celsitudinum Vestrarum, qui per omnia maria et terras celeberrimas suas
peregrinationes et navigationes cum gloria maxima iam instituerunt et quotidie
porro instituunt, et commercia amplissima ubique quotidie dilatant [...] (EN
16, 469). Su di lui vedi Beaulieu 1984, 377) e Hockey et al. (2007). L’opera a
stampa reca la data 1638; non sappiamo dire se Boulliau(d) ne abbia invia- to
un esemplare (cui poi fu apposta una datazione posteriore) o una copia
manoscritta. Filologie medievali e moderne 23 | 19 70 Galileo in Europa, 57-70Galileo
291. MARTINO HASDALE a GALILEO in Padova. Praga, 15 aprile 1610. Bibl.
Naz. Fir. Mss. Gal., P. VI, T. VII, car. 120. – Autografa. mor mo Essendo un
pezzo che disegnavo di ritornare in Italia, et particolarmente a Padova et
Venetia, più per godere quella gentilissima conversatione di V. S. che per
altro; et tanto più me ne cresce il desiderio, quanto che veggo nuovi parti del
suo felicissimo et divino ingegno: delli quali l'ultimo, intitolato Nuntius
Sydereus, ha rapito ultimamente tutta questa Corte in ammiratione et stupore,
affaticandosi ogniuno di questi ambasciatori et baroni di chiamare questi
matemathici di qua per sentire se vi sanno fare alcuna oppositione alle
demostrationi di V. S. Però vanno procurando di havere di quelli occhiali
doppiii, per vederne l'esperienza. re re Io mi truovai, XII giorni fa, a
desinare dal Sig. Ambasciatore di Spagna, dove il Sig. Velsero portò al detto
Ambasciatore uno di questi libbri, mostrandogli molti luoghi notabili di r
quello libro. Il Sig. Ambasciatore mi domandò delle qualità di V. S. Io gli
risposi quello che potei, non già quanto V. S. merita. Mi disse che voleva
sentire l'openione del Kepplero(658) sopra questo libro, sì come credo che
habbia fatto chiamarlo. Ma io questa mattina ho havuta occasione di fare
amicitia stretta con il Kepplero, havendo egli et io mangiato con
l'Ambasciatore di Sassonia; et domattina siamo invitati da quel di Toscana,
dove io vado familiarmente di continuo, essendo quel Signor mio padrone
vecchio. Hora gli ho domandato quello che gli pare di quel libro et di V. S. Mi
ha risposto che sono molti anni che ha prattica con V. S. per via di lettere,
et che realmente non conosce maggiore huomo di V. S. in questa professione, nè
manco ha conosciuto; et che con tutto che il Tichone fosse tenuto per
grandissimo, nondimeno che V. S. l'avanzava di gran lunga. Quanto poi a questo
libro, dice che veramente ella ha mostrata la divinità del suo ingegno; però,
che ella viene havere data qualche occasione non solo alla natione Todesca, ma
anco alla propria, non havendo fattone mentione(659) alcuna di quegli autori
che le hanno accennato et(660) porta occasione di investigare quello che hora
ha truovato, nominando fra questi Giordano Bruno per Italiano, et il Copernico
et sè medesimo, professando di havere accennato simili cose (però senza pruova,
come V. S., et senza demostrationi): et haveva portato seco il suo libro, per
mostrar allo Ambasciatore Sassone il luogo. Ma in quello ch'eramo in questi
ragionamenti, è sopragionto un estraordinario di Sassonia al detto
Ambasciatore, che ha disturbata la conversatione. Ma domattina, piacendo a Dio,
ci rivederemo, che senz'altro porterà il medesimo suo libro con quello di V.
S., come ha fatto hoggi, per mostrarlo all'Ambasciatore di Toscana. Seppi poi
la morte del Cl.mo nostro Sig.r Cornaro(661), con mio grandissimo dispiacere,
che me mo Vostro Aff. Fratello lo Michelag. Galilei. (658) (659) (660)
(661) de Kepplero – [CORREZIONE] non havendo fattione mentione – [CORREZIONE]
Tra accennato e et si legge, cancellato, quelle cose. – [CORREZIONE] Un LORENZO
di MARCANTONTO CORNARO era morto il 25 settembre del 1609 (Necrologio Nobili,
nell'Archivio di 252 r lo scrisse il S. Ottavio Pamfilio, quale desidero
sapere se si truova ancora costì, perchè gli vorrei scrivere. Et la prego,
havendo occasione, di fare un cordialissimo baciamano al Padre Maestro Paolo et
Padre Maestro Fulgentio(662), suo compagno, et che spero fra alcuni mesi
lasciarmi rivedere con qualche carico. Con che fine le bacio le mani. Di Praga,
alli XV d'Aprile 1610. Di V. S. Ecc. ma re mo Serv. Devot. Martino Hasdale. Io
mando questa per via dell'Ambasciatore di Venetia. Mi ricordo degli suoi
melloni Turcheschi. mor mo Fuori: All'Ecc. Sig. P.rone Oss. r Il Sig. Gallileo
Gallilei, Mattematico di Padova.Galilei. Galilei. Keywords: “the sun rises in
the east” “the sun sets in the west” “you’re the cream in my coffee”
‘disimplicature’ -- esperienza, observazione, visione, nature, aristotele,
filosofia naturale, fisis, natura, interpretazione, semiotica, segno naturale,
il padre di Galileo – Some like Galileo Galilei, but Vincenzo Galilei is MY
man” – Galileo e Bruno. Refs: Luigi Speranza, “Galileo, Grice e il saggiatore,”
The Swimming-Pool Library, Villa Grice. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51713841789/in/photolist-2mMLXtT-2mMN3uy-2mLLZRD-2mLQ1Vx-2mKHfUW-2mLMaMX-2mKR9ZM-2mPsUUV-2mKGUth-2mKN13V-2mKBDtr-2mKQW9n-2mKGTYe-2mPBcdN-2mPEECV-2mKCfz1-2mKyJgk-2mKiNkD-2mJwx6n-2mJwx4P-2mJzYWx-2mJxNBT-2mJxNLf-2mJzYYg-2mJB4gi-2mJB4hW-2mJB48H-2mJwx4U-2mJsq3i-2mJzYWs-2mJxNJ1-2mJB48s-2mJzYWY-2mJsq3Z-2mJxNAf-2mJzYmE-2mJzZ4g-2mJB4ag-2mJspX3-2mJB5vc-2mJsw72-2mJwyqm-2mJsq69-2mJzZ7H-2mJxV5n-2mJA6g1-2mJB5uR-2mJxQ19-2mJA6fe-2mJBawe
Grice e Galimberti – l’imaginario sessuale –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza).
Filosofo. Grice: “I like Galimberti: he has philosophised on amore, amicus,
amicizia – all topics of my interest – while I am into vyse, he is into the
seven capital vyses! He also has spoken about speech: the ‘parole nomade,’ and
the ‘equivoci’ of the ‘anima.’ – In general his philosophy is about nihilism
and the idea of man in the age of ‘techne’ (ars).” Il suo maggior contributo riguarda
lo studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso come la base primeva
e più autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce a Monza, la mamma
maestra di elementari e il padre deceduto. Le necessità della famiglia l’obbligano
a lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario. Terminati gli studi
liceali classici, si iscrive al corso di
laurea in Filosofia a Milano. Si laurea quindi con Emanuele Severino con lode,
con “La logica di Jaspers”. Fra i suoi maestri, anche Bontadini. Studia
fenomenologia del corpo con Borgna a Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia
con Trevi.“E se "filo-sofo" non volesse dire "amante del
sagio" ma "saagio dell'amore", così come "teo-logo"
vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’, o come "metro-logo"
vuol dire scienzato delle misure e non misura della scienza?” “Perché per la
forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione* della morfologia nella implicatura?
Perché il filosofo greco si struttura come un logico che formalizza il
reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nell’academia, dove,
tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo quesso che lo face un
‘sagio,” e che non ha nessun impatto sull'esistenza e sul modo di condurla. E
per questo cheda Socrate, che indica come la sua condotta "l'esercizio di
morte", ad Heidegger, che tanto insiste sull' “essere-per-la-morte”, il
filosofo si e innamorato più del saper morire che del saper vivere. Al centro
della sua riflessione sta il corpori degli uomini, che, in un mondo sempre più
dominato dalla tecnica, si sentono un "mezzo" nell'"universo dei
mezzi", riuscendogli sempre più difficile trovare e dare un senso alla sua
vita, alla sua esistenza. Si deve trovare un senso al radicale disagio, alla
tragicità del suo esistere, anche attraverso il recupero dell'ideale antico
greco-romano, evitando mitologie. Il suo maggior contributo consiste nel
porre la dimensione del simbolo (coniactum – the idea is that you throw two
things together so that the recipient may compare them, one becomes the
‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice on Peirce on symbol) alla base
primordiale della ragione conversazionale, che ha inteso ordinare il simbolo
(mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle cose ma non l’equivalenza
generale di significati. Il simbolo (coniactum) è il sustratto pre-razionale.
Rappresenta un caos originario che ragione tenta di arginare. Siamo razionali
(apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto fondamentale del
simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza. Riprende Freud e Jung,
fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante è stato il costante
riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione”
(verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang
for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia
filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una
trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze
naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale,
fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria. Contrario, poi, al
dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo
fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia
filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di
quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al
significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad
abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e
”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale
fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia,
cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera
coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza
e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due
invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi
in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e
sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata
rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi
per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di
questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente
l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza
naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una
risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione
strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un
animale sui generis. Riconosce la cristianità come il carattere di una
scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il
presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo
semplice modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme
occidentali, fra le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi
(disturbo, terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione,
scoperta). La triade è il "coefficiente a-storico" necessario a
profilare la possibilità di un progresso, che si esercita eminentemente nello
scenario tecnico. Qui, l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della
sopravvivenza, del parto e del lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha
modo di riscattare la propria difficoltà attraverso mezzi che ne purificano
endemicamente l'opera, al costo di un esaurimento delle risorse naturali. Ma,
in fondo, la loro esistenza è preposta a questo. Non si definisce né
"credente" (in senso cattolico) né "non-credente", ma
"greco-romano", nel senso di colui che vuole recuperare la visione del
mondo della civiltà greco-romana, in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda
anche Il detto di Anassimandro, un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco
arcaico), fondendola però con la pur antitetica visione cristiana: la morte e
la vita vanno pertanto prese sul serio, e non minimizzate pensando a un'altra
vita ultraterrena. La ragione è importante perché, come nel detto "Conosci
te stesso", fornisce all'uomo il senso del proprio limite. Approfondisce
molto la tematica del concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua
indagine evidenzia come nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica
-- non si pensasse al tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era
associata l'idea di progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo
ciclico, l’eterno ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è
destinato a ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che
l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i
propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei
cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel
ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la
forza propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon,
l'opera, ciò che è compiuto. Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi
dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e
maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il
dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute
in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza
divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei
vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria
e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare
il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal
greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo
vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi.
Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di
gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria
esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se
l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti
posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli
si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto
dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita
il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e
nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre
l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i
mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento
che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos,
il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno
l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il
tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza
favorevole, e in essa espandere sé stesso. Questo equilibrio tra tempo
naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della
tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad
annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos,
l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul mondo,
che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per portare a
compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della tecnica
abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato, determinando il
trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco ananke) della natura,
fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è più strumento nelle
mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione di mero
ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico. Riflettendo
sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di
‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano
antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma
sema -- mette in contrasto le diverse
modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora
– corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza
lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per
la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come
supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere
per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un
corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica.
L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una
implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo
significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre
assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo
sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria
psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex
di senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito.
Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano,
significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i corpori
di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità
o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui
i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa,
ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il
significatum griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione
tra significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva
infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una
legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma
anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron). In questo modo i corpori conservano la sua
oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi
tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente,
il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito
conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla
restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro
effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì
quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza. Si è sempre
schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi
inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a
volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri
autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli
in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso
che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha
ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò
non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto
un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare
del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su
Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva
l'ammissione da parte di Galimberti dell'indebita appropriazione intellettuale
nelle successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non
tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati
testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione
però, c'è uno scatto di novità". L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha
accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati
copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si
accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi
per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a
farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e
che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli
accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere Galimberti, nel suo
interesse, a chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a
specificare le sue posizioni.”Nel giugno
la rivista L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un
lungo articolo su altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è
stato indicato come costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi
scritti precedenti, per il restante 25%, una ristesura di intere frasi e
paragrafi, presi da altri autori, quasi identici agli originali. Le accuse
mosse a Galimberti sono poi diventate un saggio, “La mistificazione
intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci, elenca i nomi dei pensatori da
cui avrebbe tratto parti di testi senza citare la fonte. Vattimo ha dichiarato
al Corriere della Sera: «si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la
spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle
frasi che ricorda anche senza virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico.
Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati
saccheggiati da tutti. Nella filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli
altri e chi da sé stesso».Altre opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire
(Milano, Apogeo); Amore. Assisi,
Cittadella Editrice,.Tra il dire e il fare. – dire e una forma di fare -- Il viandante della filosofia, con Marco
Alloni, Roma, Aliberti,.Parole d'ordine, Milano, Apogeo,. Amore. Milano, AlboVersorio. Amante, amato,
amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,. “Il bello” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,.
Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella Editore. Fenomenologia del corpo,
Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ – in “Personal Identity” “I fell from
the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano,
Feltrinelli); Parole nomadi, Milano, Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi
vizi, Milano, Feltrinelli. Amore, Milano, Feltrinelli. Treccani. Umberto
Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato
di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia
della Storia. Dal 1999 è professore ordinario all'università Ca' Foscari di
Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia. Titolo opera: Le
cose dell'amore. Il libro è di: saggistica, cioè appartiene al genere
letterario dei saggi. Sommario: A) Riassunto per capitoli: I CAPITOLO
“Amore e trascendenza”: La metafora di Dio è sempre stata collegata alla
metafora dell'amore, nel senso che senza la presenza della trascendenza, cioè
che è al di là dei limiti di ogni conoscenza possibile e quindi superiore alla
ragione umana, l'amore perde la sua forza e la sua capacità di leggere il
mondo. Rimane un enigma dove l'amore vede in Dio la sua trascendenza, e Dio
vede nell'amore la sua natura,e questo intreccio non presenta sentimentalismi
ma solo il nesso tra amore e trascendenza. II CAPITOLO “Amore e
sacralità”: La sacralità è dovuta dal desiderio dell'uomo di immortalità
e quindi dal desiderio di conservare la sopravvivenza dell'individuo e della
totalità dell'essere. Oltre al sacrificio, un altro modo di sperimentare la
morte della propria individualità è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale,
durante il quale l'Io e il Tu si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla
fiducia reciproca. III CAPITOLO “Amore e sessualità”: Il sesso non è qualcosa
di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone l'Io, aprendolo così alla
crisi. Nella sessualità, la meta non è il godimento dell'Io, ma il suo perdersi
negli abissi dell'anima, i quali si pensa siano rimasti disabitati, e che
invece possono riapparire durante quel rinnovamento della vita a cui l'Io cede
ogni volta che ha un rapporto sessuale e quindi nesso con l'altra parte di sé.
IV CAPITOLO “Amore e perversione”: La perversione è sempre stata
giudicata negativamente, perché concepita come sinonimo di devianza,
degrado, ribrezzo e ripugnanza. Il perverso non cerca la trasgressione, ma la
sua aspirazione è di raggiungere uno stato dove è soppressa ogni nozione di
organizzazione, struttura, separazione e dl'universo di differenze da cui
prende avvio ogni principio d'ordine. Il godimento del perverso non deriva
dalla sessualità, ma dalla sessualità portata a quel limite oltre il quale c'è
l'incontro con la morte. V CAPITOLO “Amore e solitudine”: La mitologia
greca aveva divinizzato la masturbazione, perché era espressione di
autosufficienza e indipendenza dagli altri. Ma questo atto venne condannato,
nell'età dei Lumi, dalla scienza medica e dall'economia: la prima sosteneva che
essa provocava malattie, mentre la seconda affermava che era uno spreco.
Osservando invece il fenomeno della masturbazione da un'ottica diversa da
queste due discipline, questo "vizio dell'adolescente" non appare
come un qualcosa da combattere, ma un qualcosa su cui fare leva per integrare
gradualmente la sessualità. VI CAPITOLO "Amore e denaro": La
prostituzione è uno scambio di sesso e denaro che caratterizza il regime
sessuale della nostra società, e che viene alimentato da un desiderio di rapido
miglioramento delle proprie condizioni economiche. Infatti, di fronte al denaro
tutto diventa merce: quando un uomo paga una donna, non le riconosce alcuna
interiorità sua propria, arrivando a considerarla più come un
"genere" che come "individuo". VII CAPITOLO "Amore e
desiderio": L'amore è un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento
necessita novità, mistero e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la
quotidianità e la familiarità. infatti, la ricerca della sicurezza e
della stabilità porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non
prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la
passione. VIII CAPITOLO "Amore e idealizzazione": La percezione della
realtà è una costruzione attiva, dove l'immaginazione, la fantasia, il desiderio,
di cui l'idealizzazione amorosa è una figura, intervengono a trasfigurare i
dati della realtà. Da ciò si deduce che l'oggettività è un'ideale impossibile,
e infatti la convinzione di conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle
tante illusioni create dalla passione per evitare la delusione. IX CAPITOLO
"Amore e seduzione": Nella vita quotidiana, la trasparenza riesce ad
allargare l'orizzonte e lo scenario dischiuso dall'immaginazione. Infatti il
desiderio si trova in ogni fessura della realtà che lascia trasparire
un'ulteriore senso: quello dell'irreale e de-reale. Il corpo dell'altro diviene
così uno specchio che riflette il nostro desiderio, e questo corpo non deve
essere mai nudo, perché la seduzione si esprime attraverso le vesti, gli
accessori, i gesti, la musica. X CAPITOLO "Amore e pudore": L'amore
prevede che ad amare e ad essere amato sia il nostro Io, una delle due
soggettività presenti in ogni individuo e che, contro la sessualità generica,
impone la barriera del pudore. Essa però non limita la sessualità ma la
individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere senza
riconoscere l'individualità. E' importante sottolineare che il pudore non è un
sentimento esclusivamente sessuale, ma ha anche una valenza sociale che si pone
alla difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato. XI CAPITOLO
"Amore e gelosia": Nella nostra società, dove la sussistenza dipende
sempre meno dalla solidità dei vincoli familiari, la gelosia è vista come
un sentimento arretrato che ostacola la libertà e la sincerità dei singoli.
Essa, cha affonda le sue radici nell'infanzia non per la progressiva rinuncia
da parte del bambino al possesso esclusivo del padre o della madre, ma
perché durante questo periodo chiunque ha provato sentimenti come la solitudine
e la paura di essere abbandonati, altera la percezione, l'attenzione, la
memoria, il pensiero e il comportamento. Per avere controllo su questo potente
stato d'animo, bisogna separare progressivamente l'amore dalla ossessività,
cioè civilizzarla. XII CAPITOLO "Amore e tradimento": Il tradimento
risiede nella fiducia originaria, dove non c'è traccia neppure del sospetto,
perché non sorgono ne l'interrogazione ne il dubbio. Ma la scoperta di
quest'ultimo segna la nascita della coscienza, e questo atto è indicato dal
tradimento. Sono presenti diverse reazioni al tradimento: 1)la vendetta, che
non emancipa l'anima ma la irrigidisce; 2) la negazione, in cui l'individuo che
ha subito una delusione tenta di negare il valore dell'altro; 3) il cinismo,
che fa credere che l'amore sia sempre una delusione; 4) il tradimento di sé,
che porta a tradire sé stessi e le proprie esperienze emotive; 5) la scelta
paranoide, un atteggiamento legato più alla sfera del potere che a quella
dell'amore. XIII CAPITOLO "Amore e odio": L'odio è il compagno
inevitabile dell'amore, e la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non
dipende tanto dalla capacità di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello
stato di pericolo in cui si trova la persona che ama, quanto dalla capacità di
viverla e oltrepassarla. In amore, l'individuo può accettare la dipendenza
verso la persona amata, oppure per riscattarla trasforma la passione amorosa in
passione aggressiva, carica di odio, dove il messaggio finale è che non si può
fare a meno di questa persona. XIV CAPITOLO "Amore e passione":
A differenza dell'amore, la passione non segue le regole, ignora il
governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per questo è
possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana. La
passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita,
rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare
e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il destino
e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per la sua
creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e
dell'incertezza. XV CAPITOLO "Amore e immedesimazione": L'alienazione
nell'altro per amore di sé approda o nell'assimilazione con la persona amata,
che porta alla perdita della propria identità, o nel possesso della persona
amata, con la tendenza ad escluderla dal mondo. Gli amanti chiamano amore
questa reciproca immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria
libertà non esprime solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria
condizione di alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non
solo evita l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di
se stesso. XVI CAPITOLO "Amore e possesso": La passione, quando non
approda nell'immedesimazione con la persona amata, si indirizza verso il
possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in cui l'amante non
ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita sull'altro. Dunque,
chi ama per possesso non si accontenta del possesso del corpo e del godimento
sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata lasci per lui tutto il
suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente identità, ma per le sue
qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio di possesso è
soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione si estingue,
perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé. XVII CAPITOLO
"Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata
dall'individualismo, in cui l'individuo vive in base alla sua personale
idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali.
Attualmente, l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e religioso,
e si sta diffondendo la figura de "l'uomo della passione", che
attende dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in generale.
Da una parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal mondo per
raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione che fonda
il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio impegno.
XVIII CAPITOLO "Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per
dare espressione a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del
linguaggio dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la
normalità e la quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso,
l'insolito, e non può farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo
eccesso concede all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce
quando è totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la
totalità, dove odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro. XIX
CAPITOLO "Amore e follia": L'amore è quasi sempre stato considerato
come un qualcosa posseduto dall'Io. Freud smentisce ciò sostenendo che non
esiste una ragione onnipotente che guida la volontà che governa le ragioni, in
quanto la psiche umana non è razionale. Fu Platone il primo ad interessarsi
alle regole della ragione e agli abissi della follia. Egli con il termine
follia indica un'esperienza dell'anima che sfugge a qualsiasi tentativo che
cerchi di fissarla e disporla in successione. B) Tesi dell'autore: I
CAPITOLO: L'amore non può esistere senza un raggio di trascendenza. II
CAPITOLO: C'è una profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore. III
CAPITOLO: L'amore non rinnega il sesso e l'erotica. IV CAPITOLO: L'amore deve
sapere accettare anche la perversione. V CAPITOLO: La masturbazione è segno di solitudine.
VI CAPITOLO: Con la prostituzione ciò che si vuole comprare non è il
sesso ma il potere su un altro essere umano. VII CAPITOLO: E' importante saper
conciliare il bisogno di sicurezza (l'amore) e il desiderio di avventura (la
passione). VIII CAPITOLO: L'idealizzazione amorosa influenza la nostra
percezione della realtà. IX CAPITOLO: La vera seduzione è possibile solo quando
il corpo non si riduce a quel significato univoco che è il sesso. X CAPITOLO:
Il pudore è quel sentimento che difende l'individuo dall'angoscia di perdersi
nella genericità animale. XI CAPITOLO: La gelosia è il rovescio della passione,
dell'intimità e della dedizione che caratterizzano l'amore. XII CAPITOLO: Il
tradimento è il lato oscuro dell'amore, che però è ciò che gli conferisce il
suo significato e che lo rende possibile. XIII CAPITOLO: L'odio è il compagno
inevitabile dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è
l'amore. XIV CAPITOLO: A differenza dell'amore, la passione non conosce limite
e regole. XV CAPITOLO: L'amore non prevede la rinuncia di sé. XVI CAPITOLO:
L'amore come passione è il desiderio di potenza assoluta su di una persona.
XVII CAPITOLO: Il matrimonio non è supportato da alcuna buona ragione, perché
nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in capitolo. XVIII CAPITOLO:
L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della nostra anima.
XIX CAPITOLO: L'amore è un cedimento dell'Io per liberare in parte la follia
che lo abita. C) Impressioni riportate nella lettura: A mio parere, il libro
"Le cose dell'amore" è stato molto coinvolgente per i temi trattati:
l'autore, grazie alla sua esperienza di vita e alla sua abilità di scrivere che
non è da sottovalutare in uno scrittore, riesce a descrivere tutte le sfumature
dell'amore senza cadere nella banalità e nella monotonia, tendendo sempre
accesa nel lettore la voglia di proseguire la lettura. Ciò è favorito anche dal
fatto che molti dei temi affrontati si riscontrano nella vita quotidiana di
ognuno di noi, cioè ci riguardano da vicino perché fanno parte della società in
cui viviamo: l'amore legato al denaro, e quindi al fenomeno della
prostituzione, che è un problema diffuso in Italia; l'amore legato al pudore,
un aspetto necessario per vivere in comunità, che quindi ha una valenza
sociale; l'amore legato alla gelosia, la quale è vista come un sentimento che,
in una società in cui sta avvenendo l'emancipazione dell'individuo, ostacola la
libertà e la sincerità dei singoli; l'amore slegato dal matrimonio, in quanto
nella nostra società si sta diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate
nella lettura: Durante la lettura del libro "Le cose dell'amore", ho
riscontrato delle difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In
qualsiasi lettura è fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta
scorrendo sotto i nostri occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver
appreso tutto in maniera corretta. Se si tralascia anche un solo particolare
perché non lo si riesce a comprendere fino in fondo, andando avanti nella
lettura si svilupperanno sempre più problemi di condiscendenza. In questo libro
ho riscontrato più di una frase, o semplicemente delle parole, che hanno
sollevato delle difficoltà nella comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio,
prima di continuare lalettura mi sono dovuta soffermare su parole di cui non
conoscevo il significato e che ostacolavano la mia interpretazione di questo
testo, alcune delle quali sono: ambivalenza, assedio, avvedutezza,
dissoluzione, ineffabilità, millanteria, parossismo, prevaricazione. In
particolare, ho dovuto cercare informazioni relative al significato di due
parole, trascendenza e alienazione, perché entrambe sono temi importanti
affrontati rispettivamente nel capitolo I e nel capitolo XV. Era dunque
necessario approfondire il concetto contenuto in queste due espressioni per
raggiungere l'obiettivo di questa lettura: accrescere le nostre conoscenze.
Inoltre ho avuto modo di riflettere in modo più attento e accurato sul termine
"immedesimazione", che era già stato per me oggetto di studio in
alcune discipline, ma non era mai stato così legato alla quotidianità, così
vicino al nostro ambiente di vita. In conclusione, questo libro mi ha dato
l'opportunità di ampliare il mio sapere, e soprattutto mi ha dato l'occasione
di approfondire il concetto di alcune parole, elencate precedentemente, prima a
me estranee. Scheda del libro Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende
a definire l’amore legandolo a significati che, in realtà, non gli
appartengono completamente. Galimberti, attraverso un’attenta analisi,
s’introduce all’interno del sentimento più incomprensibile ed equivocato di
tutti i tempi. Egli non definisce l’amore, ma associa a questo i tanti falsi
sinonimi che gli vengono attribuiti, cercando di dimostrare che i termini
non sono equivalenti ma solo in relazione. Graficamente, dunque, l’amore
e i falsi sinonimi potrebbero essere rappresentati da due insiemi, con un’ampia
parte compenetrata, ma non sovrapposti. Il risultato evidente
risulta essere un passaggio dalla amore è… ad una più ricca ed attenta
osservazione di amore e… definizione abituale di Amore e... L’amore viene
analizzato in tutte i suoi aspetti, dalla trascendenza, sacralità alla
perversione, seduzione, denaro, dal pudore al tradimento, dall’immedesimazione,
possesso al matrimonio, dal linguaggio alla follia. Il sentimento più
oscuro sembra nascere da un incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un
essere la persona amata e cessare con il tempo che, favorendo la realtà,
finisce col produrre una disillusione delle aspettative, trasformando la
passione, l'idealizzazione, iniziale in un affetto privo di partecipazione e
trasporto. Le conseguenze, talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da
tramutare la passione in una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli
psicologi. La vicenda divina è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo
trasgredisce, eccede, cadendo sotto il peso della passione che non rappresenta
solo uno smarrimento del desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio patire.
"il desiderio, per quel che ancora le parole significano, rimanda alle
stelle: de-sidera" (Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore, l'amore e
la trascendenza vanno di pari passo e dal momento che il significato della
parola desiderio rimanda alle stelle, quando esso con il tempo si estingue, non
c'è più elevazione dell'anima che è in grado, trascendendosi, di lasciarsi
superare. L'amore e la trascendenza, dunque, sono legati non da un rapporto
reciproco, ma dal sentimento che viene sviluppato per le cose che non è
possibile possedere. D ANALISI E COMMENTO: Il libro risulta essere molto
interessante nelle tematiche e negli accostamenti tra gli argomenti e permette,
attraverso l'uso di un linguaggio comune di poter essere compreso da diversi tipi
di lettore, trattando ,infatti, un tema senza età e senza la necessità di
particolari conoscenze umane o scientifiche permette a tutti di immedesimarsi,
interrogarsi ed interagire conil testo ed è proprio questa compenetrazione del
lettore che crea una polisemia di significati e sempre diverse chiavi di
lettura sia da altre persone sia dal tempo che muta le circostanze della vita.
L'autore riesce a non abbandonarsi mai in trattati banali o superficiali
finendo in discorsi pesanti ed inconsistenti ma inserisce diverse tonalità che
mantengono viva la curiosità e la voglia di proseguire la lettura. La
contemporaneità in cui vive gli permette di rapportare al testo l'esperienza
personale, permettendo che venga identificata o differenziata da quella altrui.
Le tematiche attuali, lo stile concreto e il narratore in cui è possibile
identificarsi mostrano, dunque, l'ottima riuscita del libro. "Amore non è
solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante
ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo,
sconfitta." (Le cose dell'amore, 19). conseguenza si tende ad
innamorarsi solo delle persone che la fantasia porta a sognare ed idealizzare e
a cadere in depressione o nel deprezzamento di se stessi se il sentimento non è
ricambiato, poiché, senza l'immaginazione, che influenza la percezione ed
esalta la realtà il desiderio di sicurezza potrebbe far cessare sul nascere
l'amore per la paura di non essere corrisposti. L'amore, tuttavia, nelle sue
molteplici identificazioni ha anche un lato oscuro, riconosciuto nel
tradimento. Esso rappresenta sia il dolore per fine della fiducia, che l'inizio
dello sviluppo della coscienza, infatti, solo chi si concede senza avere la
sicurezza di non essere tradito può provare il vero amore. La coscienza può,
emancipandosi, portare al perdono e decidere di passare oltre oppure può
svilupparsi in vendetta, cinismo, svalutazione o malattia, e dal momento che
questa è la strada più percorsa generalmente è bene che non si realizzi come
pratica insincera ma come reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non
cerca scuse e chi ha subito prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento
poiché tradire qualcuno, qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una
possessione che inizia il processo di arresto della propria crescita. L'amore e
l'odio, invece, coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare
e solo chi odia veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che,
per vivere bene, non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e
veri sentimenti. "Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un
rapporto con l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi
stessi" l'amore e le caratteristiche che gli vengono associate mettono in
relazione l'uomo con la parte folle del proprio essere da cui si era discostato
nel tempo. " Ora che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne
sappia più di voi: il ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me.
L'unica differenza è che lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede
ancora a ciò che lo tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di
esperienza, cerchiamo di affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre
illusioni. Eppure con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M. Chebel
"Il libro delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera con
questa breve citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato
dell'amore. Un sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né
completamente né in modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che
gratifica i bambini, poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e
ansietà pur conoscendola come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore
delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un
abisso spaventoso" (le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più
importante tra tutti i sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a
tutti gli altri. Esso è difficile da trovare e spesso viene confuso con altri
molto simili ma mai uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di
mettersi in gioco, di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in
ogni caso non vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che
cercano continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La
fatica di condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale,
più complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire
grandi sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente
non è in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene
non sempre è il vero bene. Nella Introduzione al suo celebre libro del
1983 Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si
esprimeva: È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se
stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone
come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la
grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora
sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica. Ma
pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo
terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe.
Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici,
scavando il fondo su cui si impianta il radicamento. Questa operazione
che rimuove la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è
data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine
storica. Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e
precisamente in quel momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta
all'ambivalenza delle sue espressioni corporee per essere riassunta in
quell'unità ideale, la psyche, che da Platone in poi, per tutto l'Occidente,
sarà il luogo del riconoscimento dell'unità del soggetto, della sua identità.
Ma questo luogo di identificazione contiene già il principio della
separazioneperché, come coscienza di sé, la psyche incomincia a pensare per sé,
e quindi a separarsi dalla propria corporeità. La prima operazione metafisica è
stata un'operazione psicologica. Nata con un significato semplicemente
classificatorio per designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo
(µ?ta) i libri di fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto
e coerentemente un significato topico che designa un al di là della natura,
quindi una scienza dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi
perché, contro il loro divenire e mutare, rappresenta l'immutabile e
l'eterno. L'idea platonica è il modello di questa separazione e
contrapposizione, e la psyche, essendo «amica delle idee, incomincerà a
considerare il corpo come suo carcere e sua tomba. Una volta che la
verità è posta come idea, l'opposizione tra ideale e sensibile , tra anima e
corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra bene e male. Valori logici e
valori morali nascono da questa contrapposizione che la metafisica ha creato e
la scienza moderna ha mantenuto, rivelando così la sua profonda radice
metafisica se è vero, come dice Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei
metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori». A questo punto per
la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo
della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi di valori
che non la realtà, ma lo sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato
se stessa, ha instaurato. È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato
di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente
come suo lungo errore. Da questo errore la filosofia si è emancipata con
Nietzsche che ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là inventato per
meglio calunniare l'al di qua», ma non la psicologia, che così rimane la più
occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica
intendiamo il pensiero della separazione, il puro d?a ß???e??, da cui
nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal
discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia.
Fattasi carico della logica della separazione inaugurata dalla disgiunzione
platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere coerente a se
stessa, non può parlare del corpo se non impropriamente, se non per
un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda
l'idea di corpo che come scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui
questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato,
non è luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia
potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo
statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia
è nata, ha fondato se stessa come scienza, e ancora si conserva.(…)
Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel
senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra
separazione, quella tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova il
rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero' significato di ciò che si
manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal corpo
inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra significa mettere assieme,
s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come
storicamente s'è pensata in Occidente, la sradica dalle sue radici
storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la costringe a
pensarsi contro se stessa. Questo pensiero che è contro, perché pensa
fino in fondo, fino alle radici, incontra la corporeità che, nel suo sorgere
immotivato e nel suo ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche
quello. L'ambivalenza così dischiusa non è ambiguità, ma è quell'apertura di
senso a partire dalla quale anche la ragione può fissare l'opposizione dei suoi
significati ,e quindi quell'antitesi dei valori in cui si articola la sua
logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene dal male, il bello
dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima dal corpo.
Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la realtà corporea
originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano bifronte, per
instaurare quella bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo si
rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da cui traggono origine tutte
le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la realtà non può mai di per sé
essere negativa se non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo è da
interpretare semplicemente come il «valutato negativamente», allora la
negatività attiene essenzialmente al giudizio di valore. Proponendosi come
questo, ma anche quello, il corpo, come significato fluttuante, che si concede
a tutti i giudizi di valore, ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa
tutti oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio
geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di
irradiazione simbolica nella comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato
in Occidente «il negativo di ogni valore» che il gioco dialettico delle
opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del corpo di Platone alla
«maledizione della carne» nella religione biblica, dalla «lacerazione»
cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della scienza, il corpo
vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a «forza-lavoro»
nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel segno
dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo
sul registro dell'ambivalenza. Qui «sfida» non significa che il corpo si
oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una
pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che
qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché
quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da
un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità,
dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che
dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché
questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il
corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura
metafisica del sapere psicologico l'ha confinato. Questo recupero è
possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere
metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo,
questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco
conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può
sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e
fermarlo per sempre. Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è
una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha
individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno,
una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso
ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché
in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di
ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla
costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere
psicologico s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della
rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la
sovrabbondanza dei segni produce. Se ciò non accade, se la psicologia non
si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca
in cui ha preso avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non
giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà
costretta ad errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua
fondazione epistemica, della sua nascita come scienza. Si tratta di un
errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale
quando, sottraendosi alla polisemia della realtà corporea, si afferma come
asserzione incontrovertibile su di essa. In questo passaggio dalla verità come
ambivalenza alla verità come decisione del vero sul falso, il sapere razionale
dimentica di essere una procedura interpretativa tra le molte possibili per
porsi come assoluto principio, dimentica di essere un inganno necessario per
dirimere l'enigma dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno
perverso. Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura
polisemica rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come
forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere,
all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne
da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo
rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie,
che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro
senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario,
abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile
ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta
l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche l'altra,
per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o l'ambivalenza
del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente dissolvimento del
loro valore accumulato. Per sfuggire a questa alternativa, che è
inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi
una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la
delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il terreno su cui il
sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole riappropriazione non è una
regressione, non è l'abbandono del solido terreno del sapere, al contrario, è
la ricostruzione genealogica del suo significato. Riproporre
l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere razionale, né
tanto meno accettarne la resa, ma significa andare alle radici di questo sapere
e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di più che un tentativo per far fronte
all'ambivalenza della realtà corporea che, così riscoperta, è ciò che dà
ragionedelle molteplici ragioni. Queste ragioni che i saperi tendono a
soddisfare non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è
scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa,
ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea
custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche. Si tratta
di un senso che sta prima di ogni significato, e che nessun significato
promosso dalla decisione scientifica può abolire, perché è prima di ogni inizio
e continua oltre ogni conclusione. Ne consegue che alla metafisica
dell'equivalenza produttrice di quei significati con cui in Occidente si sono
fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di iscrizioni che di
volta in volta li de-terminavano, e sulle cui determinazioni sino nati i vari
campi del sapere, il corpo sostituisce il gioco dell'ambivalenza, ossia di
quell'apertura di senso che, venendo prima della decisione dei significati, li
può mettere tutti in gioco col corredo delle loro iscrizioni in quell'operazione
simbolica in cui il sapere perde la sua presa, perché la delimitazione dei
campi in cui da sempre si è esercitato si è simbolicamente con-fusa.
Questa è la sfida del corpo, una sfida che è già iniziata se c'è da dar credito
a quella «crisi delle scienze europee» denunciata da Husserl. Niente di più
benefico. Sono i primi effetti di quella violenza simbolica rispetto a cui
quella razionalistica è in ritardo di una generazione, perché ancora crede in
una controparte, e quindi non sa che ogni parte e ogni controparte altro non
sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in
atto per affermare il proprio sapere. Ma quando la realtà immaginaria,
prodotta dalle opposizioni polari in cui si articola ogni sapere razionale, non
riesce più a farsi passare per realtà vera, in quel gioco di specchi che si
frantumano a contatto con la polisemia della realtà corporea, allora si è più
vicini all'ambivalenza, non per una contrapposizione dialettica o per
un'opposizione organizzata, ma perché là dove tutte le maschere sono cadute,
compresa quella della bivalenza codificata, ogni termine che ruota su se stesso
si s-termina. Questo è l'esito simbolico che attende l'ordine strutturale di
ogni sapere. E già se ne vedono le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni
ontologia e ogni deontologia alla geo-grafia, alla grafia della terra, la più
dicente, la più descrittiva, quella che non accorda privilegi metafisici,
perché non conosce la mono-tonia del discorso, ma l'ambi-valena della
cosa. Fra tutte le numerose pubblicazioni di Galimberti,
questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato visibilità e lo ha
designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della filosofia italiana
contemporanea. È anche un'opera caratteristica, perché in essa
Galimberti, curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate,
si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di
scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in
fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo
rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità. Il punto
da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che
quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è
nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone,
percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo
l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue
espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della
psyche, divenuta l'elemento fondamentale della sua identità. Ma il corpo,
per Galimberti, è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene
a precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli
non si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli -
evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita
dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto
vaga del «questo» e «quello»), grazie alla quale la ragione ha la possibilità
di fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei
valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal falso,
il bello dal brutto, il buono dal cattivo. Tale antitesi dei valori è,
per Galimberti, la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo il
concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e della
schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce panoramica
per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo, deplorevole
errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo. E il
dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là, dal
quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più
razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di
sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del Diavolo,
«colui» che separa). Questo, dunque, è un punto centrale della
argomentazione di Galimberti: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo;
dunque, tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e
dalla metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze.
La ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare,
la logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e
anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può
essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la
psicoanalisi è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché
reintroduce, attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la
lacerazione platonica e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e
fornisce una immagine distorta dell'uomo. È a partire da questo punto che
il ragionamento di Galimberti si fa propriamente filosofico, oltrepassando il
campo ristretto della psicologia. Invece di accettare l'ambivalenza del
corpo, la logica disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e
della psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo
si rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida
contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché
interpretazioni? Perché, per Galimberti, non esistono il positivo e il
negativo, bensì la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e
situazioni che potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti
punti di vista. Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante,
dove le cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo)
che esse siano. Come in un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e
Pirandello, noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci
confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un
modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca
d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da
Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un
giudizio di valore. Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di
pensiero irrazionalistica, Galimberti sostiene che ogni ragione si serve di una
logica disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere.
Così, la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter
affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica
afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per
poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).
Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in realtà,
«immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella
dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa
realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà
(immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non
essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa
considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei
valori». Galimberti non affronta esplicitamente la questione, ma sembra
intuire la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che,
quando il pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza,
che è tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini
alla loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione
«realtà»; glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto
auto-evidente; gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente,
non riesca a farsi passare per la «realtà vera». Ma questa «realtà vera»,
in ultima analisi, esiste o non esiste? Galimberti non risponde, l'abbiamo già
detto; si limita ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si
attardano nel pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno
di essere in ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora
in una controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non
sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto
per affermare il proprio sapere». Vi sono echi minacciosi in questa
affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove
precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po'
patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla
per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una
razza che si è estinta. Si tratta di una posizione quanto mai radicale,
poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale,
da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è
un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene
condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso».
Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono
le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque
non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi
sono sempre strumentali, parziali, relativi. È incredibile: siamo in
piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa
ventitré secoli fa; ma Galimberti ci presenta le sue conclusioni come se
fossero qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un
continuatore radicale dell'opera di Nietzsche. «Queste ragioni che i
saperi tendono a soddisfare - afferma Galimberti con la massima disinvoltura
-non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che
la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura
nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come
luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si
tratta di un senso che sta prima di ogni significato»; ma, di novo, non ci
spiega in che modo egli arguisca l'esistenza di questo «senso originario», dato
che tutti i sensi che noi diamo alle cose forzano la loro vera essenza.
Arrivati a questo punto, possiamo fare alcune osservazioni
conclusive. Punto primo: che il pensiero idealistico sia stato tutto un
lungo errore, forse bisognava sforzarsi di dimostrarlo e non darlo per scontato
al principio di un libro interamente dedicato alla discussione degli effetti
negativi di un tale errore. Punto secondo: che non esista alcun criterio
di verità, è posizione filosoficamente rozza e semplicistica. Altro è affermare
che la verità è difficilmente accessibile, altro è affermare che ogni verità è
una forma di violenza che i «saperi» cercano di imporre per fondare se stessi.
La filosofia è frutto di sottili distinzioni, di una particolare sensibilità
per le sfumature; ma qui, sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente
a colpi di martello (e non è un complimento). Punto terzo: che il corpo
sia il luogo privilegiato in cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente,
aiutandoci a liberarci dalle pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è -
ancora una volta - posto ma non discusso, e tanto meno dimostrato. Eppure
è fin troppo facile osservare che, se l'introduzione della psyche ha relegato
il corpo al ruolo di «negativo», l'esaltazione del corpo che fa Galimberti
sembra ribaltare la prospettiva, senza modificarla «alle radici» (come egli
sostiene di voler fare). Ossia, a questo punto è la psyche che rischia di
diventare il negativo o, quanto meno, il luogo dell'errore, dell'illusione,
della disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente inutile muovere una simile
obiezione a Galimberti: egli vi risponderebbe, come ha fatto in più occasioni,
che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa, perché tutto è
corpo. La sua intera filosofia non è che una assolutizzazione della
corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva a sostenere, senza
batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani, avvenuta nel IV
secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo Umberto gGlimberti e la
morale del cristianesimo, sempre sul sito di Arianna Editrice). Ma
davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare l'antitesi dei valori e
restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?) ambivalente, dove le
cose sono finalmente se stesse e non quello che noi giudichiamo che esse
siano? Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello immediato e
quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso affrettati, imprecisi,
immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia, non discende che il
rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i valori e l'inesistenza
di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si dice curare il mal di
testa con le decapitazioni. Esistono altri livelli di esistenza - non
solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con Galimberti -, ai quali è
possibile accedere, e nei quali si può intravedere, pur senza possederlo
interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le cose al gioco degli
specchi della loro incessante mutevolezza. Se non credessimo a questo,
dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a ogni
possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole, dovremmo
ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma anche
filosofia. Queste, e non altre, sono le conclusioni coerenti
del ragionamento di Galimberti: per cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe
dichiarare non la riforma della psicologia, ma la sua soppressione radicale; e,
quanto alla filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è possibile
continuare a ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere atto che non
esistono controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e
ora in là, secondo il nostro umore del momento? Si badi: quello che
propone Galimberti non è un pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il
taoismo, il quale, giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo
senza freddo, gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e
semplice: io dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò
anch'io, domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e
due. Io ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che
entrambe possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno. Il
relativismo è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare
filosofia. Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della
cultura odierna.Umberto Galimberti. Galimberti. Keywords: il sessuale,
l’immaginario sessuale, sesso, Why did the Romans need to distinguish between
‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore, follia, jung, simbolo, sole-fallo, simbolo,
simboli di jung, I corpi d’amore, I corpi d’amore sessuale – immaginario
sessuale, immaginario collettivo sessuale, cose dell’amore, platone, il
convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Galimberti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690260374/in/photolist-2mRdKdB-2mQ81kz-2mPZ2Vc-2mPkobg-2mPnrMV-2mN8ym7-2mKyyDD-2mKG8fP-2mKG6xL-2mKDZmL-2mF2HcQ
Grice e
Galli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carru). Filosofo.
Celestino Galli. Interesting philosopher. Not to be confused with Galli.
Grice e Galli – sull’amore -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Montecarotto). Filosofo. Compiute gli
studi classici con assoluta regolarità, si iscrive alla Facoltà di Filosofia a Roma,
dove ha come maestri, tra gli altri,
Varisco e Barzellotti. Da Varisco apprende il rigore del metodo negli
studi filosofici. Da Barzelotti aprende la passione per le ricerche storiche e
le vaste esplorazioni letterarie. Si laurea sotto Barzellotti con il massimo
dei voti dopo aver discusso “Kant e Rosmini” (Lapi, Citta di Castello); Insegna
a Senigallia, Bologna, e Firenze. In “I principii della scuola, con particolare
riguardo alla scuola elementare” (Il Risveglio Scolastico, Milano). Insegna a
Cagliari e Torino. Figura centrale della filosofia italiana, Galli esordisce
con una ricerca sullo sviluppo della filosofia kantiana e quella di Rosmini;
temi che non solo non si stanca mai di ampliare ma affina in ulteriori indagini.
Esegue vaste indagini sulla storia della filosofia. Socrate, Platone,
Aristotele, Cartesio, Bruno, Leibniz, e Renouvier. «L'uno e i molti” (Chiantore, Torino) certifica
la teoria. Gli procura l'interesse di larga parte del mondo filosofico italiano
per le conclusioni sui rapporti tra il sentimento e la reflessivita. Ampie le
discussioni, e talora vivacissime, su autori contemporanei, dai quali esige
rigore, chiarezza e intransigenza speculativa. Organo di polemiche e di
interventi nella vita della cultura italiana contemporanea è «Il Saggiatore»,
da lui fondata, Privo di ambizioni mondane, sempre affabile, ama la compagnia
delle persone colte e la conversazione delle anime semplici, destinate al bene
e alla verità. Confida soprattutto nella scuola, veicolo ideale per dare alle
generazioni nuove volontà, serietà, cultura adeguata ai tempi. Una scuola che
studia, senza divagare e che sappia attingere costantemente alle fonti del
sapere, ama ripetere. Grazie al suo ininterrotto lavoro di studioso, il mondo
accademico italiano ha beneficiato di un numero impressionante di sue
pubblicazioni, fatto di saggi, manuali per le scuole, opuscoli e articoli per riviste
specializzate. Si dedica all'arte e alla religione, completando, in questa
maniera, il panorama delle sue indagini. La Scuola media statale di
Montecarotto ha aggiunto all'intestazione il nome di "Gallo
Galli". Altre opere: La filosofia
teoretica dei manuali, Oderisi, Gubbio, Dialettica dello spirito” (I., Oderisi,
Gubbio); “Lineamenti di filosofia, Azzoguidi, Bologna; La dimostrazione
dell'esistenza del mondo esterno e il valore pratico delle qualità sensibili
secondo Cartesio, Oderisi, Gubbio); Renouvier. II. La legge del numero, D. Alighieri,
Milano, Le prove dell'esistenza di Dio in Cartesio (Valdes, Cagliari);:La
dottrina cartesiana del metodo, D. Alighieri, Milano); “La filosofia di Leibniz:
Facoltà di Magistero, Torino, Statuto, Torino); “Studi cartesiani, Chiantore,
Torino); “Cartesio, Chiantore, Torino, “Dall'essere alla coscienza, Chiantore,
Torino); “L’idealismo” (Gheroni, Torino); “PComenio, Gheroni, Torino); “La Filosofia
greca: I sofisti, Socrate, Platone. Torino. Facoltà di Magistero. heroni,
Torino, Leibniz, Milani, Padova); “Carlini ed altri studi; da Talete al
"Menone" di Platone; il problema di Cartesio, per la fondazione di un
vero e concreto immanentismo, Gheroni, Torino, Corso di storia della Filosofia:
Aristotele, Gheroni, Torino, Da Talete al menone di Platone, Gheroni, Torino, Tre
studi di filosofia: pensiero ed esperienza, sulla persona, su Dio e sull'immortalità,
Gheroni, Torino Socrate ed alcuni dialoghi platonici: Apologia, Convito,
Lachete, Eutifrone, Liside, Jone, Giappichelli, Torino, Linee fondamentali
d'una filosofia dello spirito, Bottega d'Erasmo, Torino, L'idea di materia e di
scienza fisica da Talete a Galileo, Giappichelli, Torino, L'uomo nell'assoluto,
Giappichelli, Torino, La vita e il pensiero di Giordano Bruno, Marzorati,
Milano Sguardo sulla filosofia di Aristotele, Pergamena, Milano, Platone,
Pergamena, Milano 1974. Di carattere pedagogico Filosofia (Oderisi, Gubbio). Idealismo,
spiritualismo ed esistenzialità nella metafisica in Galli; Cartesio, in Italia.
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 51, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Persée. Portail de revues en
sciences humaines et sociales, su persee.fr. There is another Galli, who also
did philosophical studies – but his brother was more famous, the author of
Tabula philologica. Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il
figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho
passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il
consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le
strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i
portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto
pare. FEDRO: Sì , alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al
tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non
vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai
tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla
con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia
una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE:
Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché
il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore.
Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha
comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene
infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E
bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco,
un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e
alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e
utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi
la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura
tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate?
Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che
Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto
tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto
oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me
stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un
discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte
sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri.
Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha
esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene
seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata,
conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che
non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo.
Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e
nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e
lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato
di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine
avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu
dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto.
FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come
sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima
che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO:
Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola
per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti
con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella
di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE:
Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello;
ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente
che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente
intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo!
FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di
esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e
andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto
tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto;
tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci
i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a
quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo
sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è
ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se
vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio
da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito
Orizia?(9) SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque
appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi
vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume
per andare al tempio di Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2
Platone Fedro FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu,
Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci
credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora,
facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle
rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la
voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche
questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero
queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e
impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è
giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi
gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero
di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non
credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa
uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho
proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono
ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13)
quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro
ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto
comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non
queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più
intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più
semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità
fumosa.(14) Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui
volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per
sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è
bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il
luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di
acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle
e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E
se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una
melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di
tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per
distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a
un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una
persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto
da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti
oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE:
Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non
vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che
tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che
conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o
qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri,
sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo
vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu
scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi.
FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che
ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro
passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare
parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione,
ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose.
Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa
dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno
che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro
amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa
cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni
trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché,
tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che
pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di
tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al
sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a
rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere
che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si
innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi
faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una
cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto,
potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere
malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi;
di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene
ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il
migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi
quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più
speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi,
secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo
venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli
altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per
ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non
amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama
presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano
gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando
li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro
desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto
ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è
necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se
poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro
che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li affliggono, e
credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche
dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li
superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza;
in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un
qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti queste persone,
ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato
di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere
nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che
chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che
rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai
beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa
nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti
hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto
esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro
se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto
riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici
anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti
sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che
sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me
piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche
al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi,
dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro
desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna
fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro
che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che
agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me,
innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente,
ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso,
senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco
e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e
cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia
che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere
amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran
conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici
fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma
da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha
bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori,
ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la
massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è
il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di
essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno,
verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca
gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi
è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo
chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua
giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno
partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne
vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non
coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo
stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16)
FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io
scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma
dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra
i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli,
Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha
tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che
nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle
dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e
sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per
farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato
cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro
che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da
qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In
qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire
cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me
niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo,
che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un
vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite.
FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi
riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo
proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno
diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime;
quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una
statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei
carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha
sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò,
credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per
incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo
che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano,
abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza
degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è
necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a
chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la
disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da
lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò
che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così:
ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non
ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di
maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a
Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul
serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi
che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto
dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione
per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei
capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da
commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar
fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato
anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma
tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò
che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io
sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti
dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE:
Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi
argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO:
Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di
avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora
non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un
giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano
qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a
questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di
nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere
un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai
tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE:
Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi
coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non
trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu
parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce
melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate
dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il
racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto,
fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto:
bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai
più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro
cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio
della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si
accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò
che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se
si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama,
stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza
abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento,
esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un
desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose
belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama?
Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci
governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato,
è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo
bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo,
talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro.
Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale,
la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori
di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato
dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte
membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a
chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né
meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla
ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà
sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia
nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale
epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi che
designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben
evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto
tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente
più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio
irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una
volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente
dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo
trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23) Ma caro
Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino?
FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola,
contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo
sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso
sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono
lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la
causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente
potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare
col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui
bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente
questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno
presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi
favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile
rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò
che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari
a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore
o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è
l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa
parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi
è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci
sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri
altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì
inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da
molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo,
danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie
alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina
filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di
essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in
modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa
condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo
danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova
amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve
considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne
diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché
il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta
alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di
secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di
colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle
attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori
discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un
corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i
nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò
questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare
invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai
nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma
soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che
l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe
che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa
d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se
possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da
conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente
che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze,
e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza
moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di
cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6 Platone Fedro
sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior
parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile
e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo
di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre
creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere
occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le
proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più
assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai
ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto,
ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante
non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi;
come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo
è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il
discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso
uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e
indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non
ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi,
proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa
credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle
quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico
che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad
essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo
discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che
gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di
essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate,
non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno,
l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo
detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi
sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i
discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te,
o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a
pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci
di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo
discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo
discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è
manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene
sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa
voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se
avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino,
per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo
per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche
l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche
prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice
Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece
tra gli umani».(27) Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa
dici? 7 Platone Fedro SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il
discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire!
FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale
discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il
vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una
creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia,
né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da
te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto
un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se
fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros.
Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano
né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando
alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho
la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei
confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma
Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena,
non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e
subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti
sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver
composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista.
Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di
incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la
mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna.
FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE:
Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i
due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile
e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in
precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi
inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro
amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in
mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi
dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus,
forse sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per
timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il
mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere
il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più
un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai
pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da
me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in
ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla.
SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche
questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per
non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto
vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni
presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di
Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio
di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo
il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non
ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è
assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice,
sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto
in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di
Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi
vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o
nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi
dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi
indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose
note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto
che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una
cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato
"manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro,
applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca
per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti
del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così
anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo
degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto
procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza
umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei,
volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31)
Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il
nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più
bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio
rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e
profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche
dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su
alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto
degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la
possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai
mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo
giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse,
che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore
bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere
degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia
senza 8 Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un
poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è
oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora,
sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare.
Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che
cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo
assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare
la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato
dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo
invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la
nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i
valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna
intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana,
considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è
il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è
immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita
quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento
che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di
movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però
non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un
principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un
principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio
perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa
deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se
stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la
terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da
cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si
muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è
l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in
movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà
proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura
dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può
essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.
Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire
quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina
sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di
un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si
immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata
e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati
da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi
guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli
d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la
guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi
bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e
immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto
il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in
alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù
finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e
assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da
sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il
soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato
con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera
adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di
un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si
dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita
delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca
questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è
pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa
del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente,
buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e
accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è
brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo,
procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si
prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici
schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi,
quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la
propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e
i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente
felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi
sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando
poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità
della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da
guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo
che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso
l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la
prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte
alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui
rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta
fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in
modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti
avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità):
l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può
essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale
verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la
mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella
di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo
un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché
la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel
giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la
scienza, 9 Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e
neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da
quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che
è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri
che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del
cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i
cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere
del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una,
seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il
capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua
rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora
solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a
forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che
aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono
sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e
cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una
lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli
aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne;
tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la
contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo
dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è
sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima
viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui
l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che,
divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno
fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per
sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto,
e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a
causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non
si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima
che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo
destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o
incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re
rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che
viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le
ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi
ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita
di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la
vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione,
alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di
un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra
tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte
migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti
ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché
non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che
ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo
filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre
volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere
dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al
termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate
le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le
altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in
modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le
une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono
quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale,
e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che
non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve
comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una
molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la
reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere
assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il
capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo
mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è
sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo
che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a
misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si
distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso
dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo
dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania,
quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera
bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace
guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così
subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine
questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva
dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è
chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha
contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente.
Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla
portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per
breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al
punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà
che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in
misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù,
restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano,
perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della
temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è
splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle
immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del
modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo
splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro
dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a
quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in
perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano
attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica
visioni perfette, semplici, immutabili e 10 Platone Fedro beate in
una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo
corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica.
Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio
delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza,
come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati
qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in
quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta
delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di
vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla
nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà
degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò
che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o
è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza
in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza
quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a
montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza
non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è
iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un
volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma
ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle
paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti,
ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è
presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta.
In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la
stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare;
ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare
ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui
che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso
d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa
di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di
questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene
in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di
tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina
perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di
cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con
lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio;
infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza
l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge
il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi
invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti
metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi
da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non
del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros
alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere
oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio
questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a
sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli
che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono
presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e
pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua
vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per
quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza
quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le
altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il
proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e
l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro
amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per
natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono
innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si
erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e
imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le
tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono
stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando
entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne
assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo
partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa
all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le
Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il
più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era
cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose.
Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo
il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una
volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione
e 11 Platone Fedro l'ammaestramento portano l'amato ad assumere
l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza
comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma
cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con
il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente
amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle
e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in
stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo.
Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna
anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga,
questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli
diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il
vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque,
quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e
ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli
occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama
veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e
la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio
e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di
sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede
a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la
visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed
è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce
docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene
dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli
dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza,
e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li
costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri
d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti
ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al
male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare
quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione
folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla
natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo
assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che
le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le
redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno,
spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro
voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta
l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla
caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare,
coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e
debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di
nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di
rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi
fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e
trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i
medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la
coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora
più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al
cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del
cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a
terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo
malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza,
umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo,
muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante
segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere
pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non
simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico
di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone
che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a
chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del
tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia;
infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un
buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere
accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza
dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che
tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a
confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò
nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri
luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di
Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante
dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un
soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano
partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli
occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la
incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle
crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama,
ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di
dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in
grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso
nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa
esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed
è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto:
però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come
l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo,
giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando
dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire
all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante
fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio
e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua
grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da
rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare;
ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12 Platone Fedro si
oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti
migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla
filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché
sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male
dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e
leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la
temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più
grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di
filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro
momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le
anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la
scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta
che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente,
poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono
in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne
sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più
grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe
all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col
desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro
mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il
cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino
sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il
viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme
per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti
darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama,
mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere,
dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù,
la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila
anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa
palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a
causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole
poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per
queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera
l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei
fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo
detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del
discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla
filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo
amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros
in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera,
Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il
tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che
Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso.
Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo
proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò
forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo,
la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi
che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava
dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva,
Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il
massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a
lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere
chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso
il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli
uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare
propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a
tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li
devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non
capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico
per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il
consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o
entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita
se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare,
mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto
assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso
scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge,
l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere
discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni.
FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa
attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o
un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario
(45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse
egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la
stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi
allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia,
lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO:
Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il
proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé
lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe
questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e
disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene
e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo
proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia
pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore?
FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire,
vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui
bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti
i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati
servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in
questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e
discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi
due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci
lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci
deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo
luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se
invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza
essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per
concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che
hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un
uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo
le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando
poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti
dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza
accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale,
che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin
dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino
alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di
quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che
l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha
onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha
ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei,
riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro
musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani,
emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a
mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare.
SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come
è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro.
SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono
forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui
intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo:
per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è
realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non
ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere
il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da
buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare
se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar
cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo
dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a
difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un
cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un
cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe
ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per
convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo
cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata
sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il
combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre
cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio
essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare.
SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a
persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non
l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male
come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la
persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in
seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono.
14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse
svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse
dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno
che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale
qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la
cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come
sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà
cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi che si presentano
le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni
discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una
pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità,
afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di
questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo.
SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50)
che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di
parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica,
in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo
nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle
private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è
affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle
di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus,
assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con
arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie.
SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle
arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di
tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di
Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e
Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi
piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra
loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al
giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo
con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora,
quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare
farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive?
FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava
con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e
dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque
l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea
popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola
arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa
simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di
mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che
senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che
ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono
di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che
differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere
arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi
passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro
senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la
somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma
se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la
somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose?
FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie
alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si
insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è
possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di
un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al
suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia
ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui
che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte
dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì .
15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia
che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo
prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi
parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per
un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che
recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa
condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa
agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra
la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo
partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega
ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO:
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...»
SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte,
non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno
questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre?
FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più
chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento",
non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si
tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi
in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e
persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su
alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo
più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in
cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a
praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e
aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è
inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO:
Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella.
SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba
lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie
appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora?
Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no?
FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato
possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia
per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE:
Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa
dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato
una definizione dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile.
SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le
Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può
darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso
sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica
che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto
il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il
caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti
proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che
ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro
passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che
cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando
supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato
quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia
testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone
il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano
state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che
per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un
altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo
scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu
sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale
lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei
troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo
così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni
discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo
proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di
mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al
tutto. FEDRO: Come no? 16 Platone Fedro SOCRATE: Esamina dunque il
discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che
non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla
tomba di Mida il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di
particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di
Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba
di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci
senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene
recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso,
Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi
sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione,
cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In
essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è
conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano
opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO:
E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con
mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è
una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di
mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento
divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro
parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito
l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa
è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa,
forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada,
abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo
levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in
onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E
almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE:
Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal
biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il
resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a
caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a
coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel
ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in
uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui
si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa
su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o
male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato
chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici,
SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le
idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna
parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa
concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da
un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico;
quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici?
Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti
si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso
dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte,
non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita
da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi
vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente
uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro?
SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una
confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo
Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55)
alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per
esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare
Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto
più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è
piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario
nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità
infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me
queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi
di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto
sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite
eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei
Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il
parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui
Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le
opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE:
Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto
ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che
l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario
nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto
adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e
sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra
tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di
riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli
ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati?
SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei
discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE:
Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale
potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una
potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE:
Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra
anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora
dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e
dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e
raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e
persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho
queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico
un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero
dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e
quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se
allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso
queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»?
FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato
un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina,
non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che
direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della
dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza
di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte,
hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri
ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i
loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre
ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme,
come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia
proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini
insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia
detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è
veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un
perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario,
che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai
un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di
una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò,
non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e
Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo,
che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica.
FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di
discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa
capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui.
E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo:
imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi
celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno
ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era
utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo
di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come?
SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo,
nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico,
ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine
e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù
offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile
che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere
la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura
dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli
Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la
natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il
discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO:
Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il
discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di
qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere
esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o
multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua
natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da
che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per
ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è
portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire,
che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo
privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece
persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un
sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte,
dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi
discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE:
Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre
persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e
chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà
e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e
tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo
è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo
luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in
virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE:
In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro
proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
19 Platone Fedro FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto
pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo
non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento.
Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono
scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare;
perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere
da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE:
Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è
possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte.
FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida
delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia
quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di
conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che
le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche
le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini
di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo
su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo
motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve
innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il
loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di
seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai
niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando
sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali
discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se
stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a
suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi
discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta
che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti
giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia
discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o
indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è
realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi
di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte,
vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro
scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro
modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo,
Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per
questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche
parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non
procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne
una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato
da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo.
FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso.
SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni
che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro,
si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così
anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e
levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come
abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere
sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità
circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione,
poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su
queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui
si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna
neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile,
ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi
parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità;
poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta
quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono
quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono
ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e
sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose.
SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci
dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che
sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a
quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e
coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il
mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve
dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo
uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli,
e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia
condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non
ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà
subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le
cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro?
FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale
di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si
compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO:
Cosa? 20 Platone Fedro SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi,
prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile
viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato
che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai
qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo
credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le
nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli
esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai
esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà
mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente
dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per
poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro
gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia,
dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni
di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da
uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per
raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu.
D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime
grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando
in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per
chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi
di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e
della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come
no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza
della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no?
FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai
acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole?
FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata
dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci
importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una
domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito
dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi
dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della
divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la
geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine
anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella
grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre
chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti
e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale
fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo
ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza,
o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa
è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re
rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa
giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende
servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il
contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di
esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la
dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori
mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai
scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della
sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando
per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte
cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché
sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci
con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa
che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio
di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non
erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una
quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza
chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se
le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che
riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora
chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve
nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo,
dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di
Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare
alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE:
Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile
alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma
se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima
cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se
avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che
dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21
Platone Fedro solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il
discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così
come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve
parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre
bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di
venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime.
SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo
di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente
di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è
quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende;
esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi
tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale
quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per
l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente
d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli stessero a cuore e da cui
volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o
farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece
a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura
e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato
giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio
per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire
che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno
dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non
le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme
a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare
in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE:
Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura
per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria
per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque
segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli
altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti
fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la
vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che
dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi
coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli.
SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa,
credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende
un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che
siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non
siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di
altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo
sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO:
Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo,
Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle
che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia
esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i
discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è
conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito
opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta
come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a
ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa
in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue
specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver
scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie
adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo
procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena
armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto
è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per
insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha
chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE:
Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere
discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha
forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto?
SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse
privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella
convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il
biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere
realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero
evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse.
FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su
qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso
con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e
neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere
sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22 Platone
Fedro ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la
memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul
giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far
apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e
pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti
suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel
caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo,
sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e
ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che
sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi
auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda
i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che
noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato
dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga
discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in
terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi
con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è
il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e
quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è
stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di
costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO:
Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra
che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece
filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente.
FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di
maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù
per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a
buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no?
SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non
bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui?
FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo
definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò
che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali
sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di
un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col
procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più
che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre
questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più
grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di
filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio
amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma
andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene
rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come
no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di
diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò
che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro
quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via.(70)
Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta
misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono
comuni. SOCRATE: Andiamo! 23 Platone Fedro NOTE: 1) Celebre oratore
ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano 34
orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel
dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia,
aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica.
2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore democratico; Morico,
forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per
le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici.
4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di
Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita
"salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel
Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano
caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre
vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9)
Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio
concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata
poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo
dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove
aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di
carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati
dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera
era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di
serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime
due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo
sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato
dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto
Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto
scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del
Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al
termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo
mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine
il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco
c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene
paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare',
'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a
"tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa
uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella
traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei
fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre
ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una
locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la
famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C.,
autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in
nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e
parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del
sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui
restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa
si allude nel passo. 18) Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica,
giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a
Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di
Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui
si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro
intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21)
Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco
gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús"
'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente
alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. 23)
Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e
"róme" ('forza'). 24) Il ditirambo, componimento lirico corale
associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui
il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non
ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25)
L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una
parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un
colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire
o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge
l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli
interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale
del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro,
poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la
vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò
per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride
non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze;
questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non
avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà
una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio
dalle accuse che gli aveva mosso. 24 Platone Fedro 29) A Delfi, in
Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca
della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di
Zeus. 30) Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di
Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla
di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene
fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto
"oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a
"oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal
volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere
ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento
della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga
alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga
rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei
due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui
il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva,
e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che
Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che
anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli
fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il
fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e
che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è
preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate
comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per
trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica
veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo
essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le
dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo
'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera
dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile,
esso è raggiungibile solo dell'anima. 35) Adrastea, letteralmente
'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in
Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il
destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che
ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della
Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente
determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della
verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di
verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato
su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per
assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri"
('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'),
"ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano
una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo
stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude
ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra
"Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós"
('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi
403-404; libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi
chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare
nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e
l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. 39)
Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di
Ganimede, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo,
e ne fece il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su
"imeros", la nota 36. 41) L'espressione significa che né la
temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a
costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta
mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del
mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare,
allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare
l'avversario tre volte. 42) Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima
delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. 43) Ad Atene la frequenza
dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o
l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la
professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su
commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono
appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel
contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a
sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i
sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un po'
enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una
difficile. 45) Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la
tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i
sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma
dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base
al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della
prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione
platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre
discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene
ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le
cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla
scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno
nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con
Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25 Platone
Fedro 48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si
intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e
lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli
altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era
famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore
era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di
Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità
oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto
vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica;
a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano
pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto
nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in
modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro
di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un
trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo
a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i
concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e
di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per
avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro
tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere
diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma
citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. 55) Poeta e
sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore,
assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei
più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di
Socrate. 58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due
dialoghi di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli
di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si
allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a
proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo
dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale
esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo
religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo,
sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane
delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione
dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile
oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8
Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio
contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto
secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al
massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità
oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni
ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale
del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al
mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos,
vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina
antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui
e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel
cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un
emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio
dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la
testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone
assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la
considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione
del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66) «La regione
superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene
considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità
egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con
Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata
«vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano recipienti in cui
d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano;
il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato
da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i discorsi
scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi
latori di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione poetica di
autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338 a.C.) fondò ad Atene una scuola
in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano 21 orazioni. Isocrate
era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo
di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. 70) Pan, figlio di
Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata
soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era
rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo
assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva.
«Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza.Convito
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Platone
Il Convito 1 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org I APOLLODORO Credo proprio di essere bene informato di
quello che mi chiedete. Infatti, l'altro giorno, me ne stavo venendo in città,
da casa mia, dal Falero, quando uno che conoscevo, vedendomi di spalle, mi
chiamò da lontano e, con tono scherzoso, mi fa: «Apollodoro il falerese,
m'aspetti un momento?» lo mi fermo e l'aspetto e quello: «Ti stavo cercando
ansiosamente, Apollodoro, perché volevo sapere qualcosa di preciso sui discorsi
che fecero Agatone, Socrate, Alcibiade e tutti gli altri, al banchetto,
discorsi d'amore, a quanto pare; me ne ha accennato un tizio che ne aveva
sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo, ma mi disse che ne eri al
corrente anche tu. Lui, in realtà, non ne sapeva molto. Raccontami tutto tu,
quindi, perché nessuno meglio di te, può ripetermeli, i discorsi del tuo amico.
Ma, prima di tutto, c'eri o non c'eri a quella riunione?» «Si vede proprio che
questo tizio ti ha male informato se credi che quella riunione di cui stai
parlando è avvenuta poco tempo fa e che io, quindi, vi abbia potuto
partecipare.» «Credevo di sì.» «E come hai fatto a pensarlo, Glaucone? Non sai
che da parecchi anni, ormai, Agatone non s'è più visto qui e che, d'altra
parte, non ne son passati ancora tre da quando io me la faccio con Socrate, che
gli sto sempre dietro, per conoscere quello che dice e quello che fa? Prima
d'allora gironzolavo qua e là e mi pensavo di far chissà che cosa, mentre ero
l'essere più miserabile che c'era sulla faccia della terra, come te, adesso,
che credi ci siano altre cose da fare meglio della filosofia.» «C'è poco da
prendere in giro. Dimmi, piuttosto, quand'è che c'è stata questa riunione.»
«Eravamo ancora ragazzi e fu quando Agatone s'ebbe il premio per la sua prima
tragedia, precisamente il giorno dopo i sacrifici che lui e quelli del coro
vollero fare per festeggiare la vittoria.» «Allora ne è passato del tempo! Ma a
te chi te n'ha parlato. Proprio Socrate?» «Magari. Fu, invece, la stessa
persona che ne parlò a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di Cidateneo,
uno mingherlino, sempre scalzo. Era presente alla riunione perché era un patito
di Socrate, più di tutti, a quel tempo. Ad ogni modo, di quanto mi riferì
costui volli chiederne anche a Socrate che mi confermò quanto l'altro m'aveva
raccontato.» «E, allora, perché non me lo racconti anche a me? Questa strada
che porta in città è proprio fatta apposta per conversare.» Strada facendo,
così, ci mettemmo a parlare di questo ed ecco perché, come vi ho detto in
principio, sono al corrente della cosa. Se devo, quindi, raccontarla anche a
voi, eccomi pronto, anche perché, quando si tratta di filosofia, sia che ne
parli io o che ne senta parlare, provo sempre un immenso piacere, a prescindere
dal vantaggio che penso di ricavarne. Quando, invece, sento certi discorsi, i
vostri specialmente, discorsi di gente ricca, di persone d'affari, che barba,
ma anche che pena, amici miei, che vi credete di far chissà cosa e poi non fate
il resto di nulla. Può essere che voi, da parte vostra, mi crediate un povero
diavolo e supponiate che, in effetti, io lo sia, ma di voi, io non lo suppongo
soltanto, ne sono convinto. AMICO Sei sempre lo stesso tu, Apollodoro, sempre
che dici male di tutti e di te stesso; io credo che per te, tranne Socrate,
tutti gli altri siano soltanto dei disgraziati, tutti quanti, a
2 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org
cominciare da te. Perché poi ti chiamino «il Tranquillo», questo proprio non
riesco a capirlo, con tutti i tuoi discorsi sempre così aspri verso gli altri e
te stesso, tranne, appunto, che per Socrate. APOLLODORO Ah, sì? Io, dunque,
bellezza, dato che penso così di voi e di me, sarei un pazzo e un esagitato?
AMICO Ma ora lasciamo perdere questo, Apollodoro, piantiamola di litigare, e,
come t'abbiamo pregato, raccontaci quali furono questi discorsi. APOLLODORO E
va bene, presso a poco furono questi... ma, aspettate, sarà meglio che
incominci dal principio, come me li ha riferiti Aristodemo. 3
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Egli mi
riferì di aver incontrato Socrate tutto bello lisciato, con un paio di sandali ai
piedi (cosa stranissima) e di avergli chiesto dove stesse andando tutto così
bello. E Socrate: «A pranzo da Agatone; ieri, infatti, alla premiazione per la
sua vittoria, riuscii a svignarmela perché tutta quella folla mi dava fastidio,
ma gli promisi che, oggi, sarei andato da lui. Ecco perché mi son fatto bello:
lui è un bello e, sai com'è. Ma perché non vieni anche tu, che fa, anche se non
sei stato invitato?» Ed io, così mi riferì Aristodemo: «Va bene, come vuoi.» «E
allora andiamo,» fece, «e cambieremo il proverbio dicendo che ‹a, pranzo, dal
buon Agatone, van senza invito le brave persone›. Del resto, Omero, non solo
l'ha modificato, questo proverbio, ma l'ha addirittura capovolto: infatti,
mentre ci ha sempre descritto Agamennone come un guerriero in gamba e Menelao,
invece, come uno smidollato, ecco che ti fa presentare quest'ultimo, senza
essere invitato, a pranzo da Agamennone, che aveva allora allora fatto un
sacrificio e si stava mettendo a tavola, lui, un mediocre, alla mensa di un
valoroso.» E Aristodemo: «Ma Socrate, corro anch'io, allora, questo rischio,
non come dici tu ma nel senso che scrive Omero, di andare, cioè, io, uomo da
nulla, senza essere invitato, a pranzo da un sapiente. Vedi tu, che mi ci
porti, come devi metterla per giustificarti, perché io non dirò che son venuto
da me, ma che sei stato tu ad invitarmi.» «Ma sì, andiamo, ci penseremo per la
strada a quello che dobbiamo dire.» Si dicevano questo, mi raccontava
Aristodemo, quando si posero in cammino. Ma, lungo la strada, Socrate si fece
pensieroso, meditando chissà su che cosa, e restandosene indietro e quando lui
si fermava per aspettarlo, gli diceva di andare pure avanti. Quando Aristodemo
giunse alla casa di Agatone, trovò la porta aperta e qui, mi disse, gli capitò
un fatto curioso: un servo gli corse subito incontro e lo condusse dove i
convitati erano già tutti seduti, in procinto di mettersi a pranzo. Appena
Agatone lo vide: «Oh, Aristodemo,» fece, «arrivi proprio al momento giusto, per
mangiare un boccone con noi; se è per qualche altro motivo che sei venuto,
lascialo per dopo. Ieri ti ho cercato, proprio per invitarti, ma non sono
riuscito a trovarti. E Socrate? Come mai non è con te?» «Io mi volto indietro,»
continuò a raccontarmi, «e, infatti, non lo vedo più. Dissi, allora, che ero con
lui e che, appunto da lui ero stato invitato a quel pranzo.» «Hai fatto
benissimo, ma dov'è che s'è cacciato?» «Un attimo fa era dietro di me; sarei
proprio curioso di sapere anch'io dove può essere andato.» «Suvvia, ragazzo,
non ti sbrighi?» fece Agatone, «va a vedere dov'è Socrate e tu, Aristodemo,
siediti là, vicino a Eressimaco.» II 4 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Continuò a raccontare così, che
mentre un servo gli dava da lavarsi per mettersi a tavola, un altro venne a
dire che quel bel tipo di Socrate se ne era andato nell'atrio della casa vicina
e se ne stava lì tutto immobile: «L'ho chiamato,» riferì, «ma lui non vuol
venire.» «Ma che sciocchezze stai dicendo?» gridò Agatone. «Torna a chiamarlo,
insisti.» «Allora, intervenni io,» mi raccontò sempre Aristodemo, «pregandolo
di lasciarlo tranquillo perché era una sua abitudine quella di isolarsi tutt'a
un tratto, e di restarsene immobile dovunque si fosse trovato: ‹Vedrete che
verrà, ne sono certo, ma ora non lo disturbate, lasciatelo tranquillo›.» «Ah,
va bene, va bene, se lo dici tu,» commentò Agatone. «Però voi, ragazzi, ora
portateci da mangiare. Voi mi mettete in tavola sempre quello che vi passa pel
capo, se non vi si sta addosso, ed io non me ne son mai presa troppo la briga;
ma oggi, fate conto come se foste stati voi ad invitare queste persone e me e
quindi, trattateci bene e fatevi onore.» Così mi raccontò che si misero tutti a
mangiare e che Socrate, intanto, non si faceva vivo. Spesso Agatone insisteva.
perché lo mandassero a chiamare, ma lui lo sconsigliava. Finalmente Socrate
fece la sua comparsa e non s'era mica fatto aspettare poi tanto tempo, come di
solito faceva: cioè quando il pranzo era circa a metà. E Agatone che stava
seduto in fondo: «Qua, qua,» esclamò, «Socrate vieniti a sedere vicino a me,
così, gomito a gomito, con un sapiente, io potrò godere della grande scoperta
che hai fatto davanti ai portoni; è chiaro che qualcosa l'hai dovuta pur sempre
scoprire, altrimenti mica ti saresti mosso, tu.» E Socrate, sedendosi: «Sarebbe
una bella cosa, Agatone, se la sapienza potesse scorrere da chi ne ha di più a
chi ne ha di meno, soltanto che ci si mettesse uno vicino all'altro, come
l'acqua che attraverso un filtro passa dal bicchiere pieno a quello vuoto. Se
anche per la sapienza è così io sarò onoratissimo di starmene al tuo fianco;
sono convinto che sarò colmato da parte tua di tanta e bella sapienza, perché,
vedi, la mia, seppure ne ho, è ben misera, assai discutibile, vaga come un
sogno, mentre la tua, invece, così luminosa, così ricca di possibilità, tanto
che, proprio ieri, nonostante la tua giovane età, s'è rivelata e ha brillato in
tutto il suo fulgore davanti a più di trentamila greci.» «Sei un mascalzone tu,
Socrate,» fece Agatone, «ma fra poco ce la vedremo, io e te, in fatto di
sapienza e giudice sarà Dioniso. Intanto, per ora, pensa a mangiare.»
III 5 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org E così, continuò a raccontarmi Aristodemo, Socrate si sedette
e quando ebbe finito di mangiare, insieme agli altri, fece le libagioni, poi
cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti dovuti e poi si
misero a bere. A un tratto, mi riferì Aristodemo, Pausania se ne uscì in queste
parole: «Ehi, amici, non possiamo andarci più piano? Francamente devo dirvi che
mi sento male dopo la gran bevuta di ieri e che devo pigliare un po' di
respiro; e così, penso anche per molti di voi: ieri c'eravate un po' tutti.
Guardate, dunque, com'è che ci possiam moderare un po'.» E Aristofane:
«Pausania ha ragione. Non scherziamoci troppo col vino; io mi sento ancora come
una spugna zuppa, per ieri.» E allora intervenne Eressimaco, il figlio di
Acumeno: «Ottima idea. Su, coraggio, voglio sentirne qualche altro; e a te,
Agatone, come va col vino?» «Macché, anch'io niente bene.» «Benissimo,»
s'infervorò Eressimaco; «è proprio una fortuna per me, per Aristodemo, per
Fedro e per tutti quanti gli altri se voi, che in fatto di bere ce la mettete
tutta, oggi non vi sentiate in forma: di fronte a voi, infatti, siamo dei
pivellini. Per Socrate è un altro discorso: lui se la cava benissimo sempre;
sia che oggi si beva o meno, lui è sempre a posto. Ma, dato che, mi pare, qui,
oggi, nessuno ha troppa voglia di bere, io credo che se vi parlassi dell'ubriachezza
e del male che fa, la cosa non vi sarebbe sgradita; come medico, è chiaro, devo
dirvi che ubriacarsi fa male e che io non vorrei mai bere più di un tanto e
darei lo stesso consiglio agli altri, specie quando il giorno prima s'è alzato
un po' troppo il gomito.» «Sicuro,» intervenne Fedro, quello di Mirrinunte;
«sai che ti ascolto sempre, specie quando parli da medico; e farebbero bene ad
ascoltarti anche questi altri, se hanno un po' di giudizio.» E così si
trovarono tutti d'accordo di evitare una sbornia, per quella volta e bere
ciascuno per quel che gli andava. IV 6 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E poiché, ora,» riprese Eressimaco,
«siamo d'accordo che ognuno potrà bere solo quello che vuole senza che nessuno stia
lì ad obbligarlo, io propongo di mandare a spasso la suonatrice di flauto, che
è entrata ora (che se ne vada a suonare per conto suo o, dentro, dalle donne) e
noi, invece, di restare un po' qui, oggi, a chiacchierare insieme; potrei anche
dirvi di cosa, se volete.» Tutti, allora, almeno così riferì Aristodemo,
approvarono e lo esortarono a proporre l'argomento. E così, Eressimaco,
incominciò: «Inizio come la Melanippe di Euripide, non sono mie le parole che
sto per dirvi, infatti sono di Fedro. È Fedro che ogni volta, tutto sdegnato,
mi dice: ‹Non è una indecenza, Eressimaco, che i poeti si mettano a comporre
inni e canti a tutti gli dei e che per Amore, invece, per un dio di quella
specie, per un dio così grande, non ce ne sia uno, tra tanti, che abbia scritto
un solo verso di lode? Se pigliamo i sofisti di fama, quello stesso grand'uomo
di Prodico, per esempio, ti scrivono in prosa di Ercole o di altri; e questo
sarebbe niente se non mi fosse capitato tra le mani il libro di un gran
cervellone nel quale, costui, non faceva niente po' po' di meno che l'elogio
sperticato del sale e della sua utilità: di questi elogi ne puoi trovare
dovunque, in abbondanza. E pensare che si spreca tanta fatica per simili
argomenti e, poi, per Amore non s'è ancora trovato nessuno, almeno fino ad
oggi, che s'è sentito di celebrarlo degnamente: ecco come si tratta un dio
simile.› Secondo me Fedro ha proprio ragione. Quindi, è mio desiderio fargli
questo regalo e mostrarmi compiacente e, nello stesso tempo, profittando dell'occasione,
niente di meglio, a mio avviso, per tutti noi, di rendere onore a questo dio.
Se siete d'accordo anche voi potremmo passare il tempo così: ognuno di noi,
cioè, io penso, per esempio partendo da destra, dovrebbe fare un discorso in
lode di Amore, si capisce meglio che può; e che cominci proprio Fedro che è il
primo della fila e che, d'altro canto, è stato lui proprio a darci l'idea per
un simile argomento.» «Nessuno sarà contrario, Eressimaco,» intervenne Socrate,
«a cominciare da me che affermo di essere un esperto soltanto in cose d'amore,
né Agatone, né Pausania, figuriamoci poi Aristofane che tra Bacco e Venere, ci
passa la vita, e nemmeno questi altri a quanto vedo. C'è un fatto però, che noi
che siamo seduti quaggiù, per ultimi, veniamo a trovarci in svantaggio;
comunque, se i primi diranno quel che devono dire e lo diranno bene, a noi
basterà. E, allora, buona fortuna, Fedro, comincia a fare le lodi di Amore.» Al
che tutti quanti approvarono e fecero eco alle parole di Socrate. Ora, quello
che ciascuno disse, Aristodemo non lo ricordava bene e, dal canto mio, io
stesso, ora, non ricordo più, tutto quello che lui mi riferì, tranne le cose
più importanti e, perciò, vi potrò ripetere solo quei discorsi che mi parvero
più degni di ricordo. V 7 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org E, così, il primo a parlare, mi raccontò, fu
Fedro che incominciò presso a poco col dire che Amore è un dio possente,
meraviglioso, tanto fra gli uomini che fra gli dei per molte e tante ragioni
ma, soprattutto, per quel che riguarda la sua nascita: «Egli ha il vanto,»
continuò Fedro, «di essere, fra tutti, il dio più antico e, prova di questo è
il fatto che non ha genitori e mai nessuno ne ha parlato, prosatore o poeta che
fosse. Esiodo ci dice che ci fu dapprima il Caos: la Terra dall'ampio petto,
sicura sede e poi per tutti sempre e, poi, Amore Insomma, secondo questo poeta,
dopo il Caos ci furono queste due divinità: Terra e Amore. E Parmenide così
narra la genesi: Primo di tutti gli dei creò Amore Con Esiodo concorda
Acusilao. Quindi, da più fonti, si conviene che Amore è antichissimo. E, così
com'è il più antico, è fonte, per noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so
se vi sia un bene maggiore che avere, fin da giovani una persona virtuosa da
amare o anche viceversa, che ci ami. E, in effetti, niente come Amore può dare
all'uomo quei principi che valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la
nascita, non gli onori, non la ricchezza, niente di questo. Ma a quali principi
voglio alludere?, mi chiedo: alla vergogna per le brutte azioni e al desiderio
di buone, senza dei quali né stati né individui possono mai realizzare qualcosa
di grande e di bello. E, inoltre, io dico che un uomo innamorato, sorpreso a
commettere una brutta azione o a subirla, se la sua viltà non gli consente di
difendersi, non proverà mai tanto dolore se lo vede il padre o l'amico o
chiunque altro, quanto se lo vedesse la persona amata, E lo stesso è per
quest'ultima, che se fa qualcosa di male si vergogna soprattutto se è vista da
chi la ama. Oh, se ci potesse essere una città o un esercito composto tutto di
innamorati, non vi sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini
rifuggire dal male e rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi,
messi uno al fianco dell'altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero
il mondo intero. Perché l'uomo innamorato sarebbe disposto ad abbandonare il
suo reparto, a gettare le armi sotto gli occhi di tutti, ma non dinanzi alla
persona amata, piuttosto preferirebbe centomila volte morire; e, d'altronde,
abbandonare la persona cara, non prestarle il suo aiuto se è in pericolo, non
c'è nessun uomo tanto vile cui Amore non riesca ad infondere il necessario
coraggio, come se fosse posseduto da un dio e renderlo uguale a chi è
coraggioso di natura. Insomma, lo stesso soffio divino che, a quanto dice
Omero, un dio infonde in taluni eroi, Amore, come un suo dono, suscita in
quelli che amano. VI 8 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org «E poi, solo quelli che amano sono pronti a
morire per gli altri e non solo gli uomini ma anche le donne. Vedi Alcesti, per
esempio, la figlia di Pelia che per noi greci è la più bella prova di ciò che
dico, la quale fu la sola a voler morire al posto del suo sposo che aveva pure
un padre e una madre; costei fu tanto più sublime, nel suo cuore di donna,
acceso, appunto dall'amore, da far apparire i parenti di lui quasi degli
estranei al loro stesso figliolo, legati a lui soltanto dal nome. E questo
gesto fu giudicato così bello non solo dagli uomini ma anche dagli dei, che
questi, pur concedendo solo a pochi, tra i tanti che compiono belle imprese, il
privilegio di vedersi restituita alla luce la loro anima, consentirono a questa
fanciulla il ritorno alla terra, commossi del suo gesto; questo dimostra che
gli dei apprezzano moltissimo lo zelo e la virtù che nascono dall'amore. Orfeo,
invece, il figlio di Eagro, te lo rimandarono fuori dall'inferno senza che
avesse ottenuto nulla, mostrandogli solo la falsa immagine della sua donna, per
la quale egli era sceso nell'Ade e non gliela restituirono, considerandolo un
debole (suonatore di cetra com'era) perché non aveva avuto il coraggio di
morire per amore, come Alcesti, ma, vivo, era riuscito a penetrare nell'Ade e con
l'astuzia. Ecco perché gli inflissero questa punizione e lo fecero morire per
mano di donne. Non così Achille che onorarono invece e mandarono alle isole dei
beati perché per quanto egli fosse già stato avvertito dalla madre che se
avesse ucciso Ettore sarebbe morto mentre se l'avesse risparmiato sarebbe
ritornato in patria e lì avrebbe finito vecchio i suoi giorni, preferì scendere
in campo per Patroclo, per l'amico che amava e vendicarlo e morire per lui, non
solo, ma per lui morto; per questo gli dei profondamente ammirati gli resero
onori grandissimi, come quello che aveva tenuto così alto nel suo cuore l'amico
amato. Eschilo dice un'inesattezza quando afferma che era Achille l'amante di
Patroclo, lui che non solo era più bello di Patroclo ma di tutti gli altri
eroi, imberbe ancora e quindi molto più giovane di lui come dice Omero. La
verità, però, è che gli dei pur onorando assai questo sentimento d'amore,
volgono più la loro ammirazione, le loro lodi a colui che ricambia l'amore di
chi lo ama, piuttosto che a quest'ultimo. Colui che ama è cosa più divina di
chi si lascia amare, perché un dio lo possiede; per questo gli dei onorarono
maggiormente Achille che non Alcesti e gli dischiusero le isole dei beati. Per
concludere io affermo che Amore è il più antico degli dei, il più degno di
onori, quello che più può infondere agli uomini virtù e felicità, sia mentre
vivono che dopo la loro morte.» VII 9 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Questo, presso a poco, a quanto mi
riferì Aristodemo, fu il discorso di Fedro. Dopo di lui parlarono altri, però
non ricordava molto. E così passò a riferirmi il discorso di Pausania che prese
a dire: «Non mi pare che tu abbia ben impostato il tuo discorso, Fedro, così
come hai troppo semplicisticamente fatto le lodi di Amore. Se, infatti, Amore
fosse uno solo, la cosa sarebbe potuta anche passare; ma il fatto è che non è
uno soltanto e quindi è più giusto precisare prima qual è che bisogna lodare.
Ed è a questo errore che io cercherò di rimediare, in primo luogo dicendo quale
Amore convenga lodare e poi facendone in modo degno l'elogio. Tutti riconoscono
che non si può concepire Venere senza Amore. Se di Venere ce ne fosse una sola,
lo stesso dovrebbe dirsi di Amore, ma poiché due sono le Veneri, due saranno
anche gli Amori. Non sono forse due le dee? Una, la più antica, che non ebbe
madre, la figlia del Cielo, che appunto chiamiamo Celeste, l'altra, più
giovane, figlia di Giove e di Dione, che chiamiamo Pandemia. Ne consegue che
l'Amore che convive con quest'ultima, giustamente vien chiamato Pandemio,
l'altro, Celeste. Gli dei, in verità, bisogna onorarli tutti, ma ora, di questi
due, occorre pur dire quali sono gli attributi. Intanto, ogni azione ha questo
di caratteristico: che per se stessa non è mai bella o brutta. Per esempio:
quello che noi ora stiamo facendo, cioè bere, cantare, discutere, in se stesso,
non è che sia bello, ma lo diventa dal modo con cui questa azione viene
compiuta: onestamente e rettamente, è bella, altrimenti, la stessa azione è
cattiva. Lo stesso è quando si ama: non ogni Amore è bello o degno di lode, ma
solo quello che spinge a nobilmente amare. VIII 10 Biblioteca
Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Orbene, l'Amore che
convive con la Venere Pandemia, è ovvio che sarà anch'egli Pandemio, cioè
volgare e si comporta un po' alla carlona; questo tipo d'Amore vien prediletto
dai mediocri che non fan differenza a giacersi con donne o giovincelli di cui
amano, oltretutto, più il corpo che l'animo, anzi preferiscono gli esseri
sciocchi, tutti presi come sono dall'atto carnale, senza un briciolo di buon
gusto, e accade così che finiscono per comportarsi come capita, bene o male che
sia. Questo perché un simile Amore deriva dalla Venere più giovane che, nascendo,
s'ebbe i caratteri della femmina e, insieme, quelli del maschio. L'altro Amore,
invece, deriva dalla Venere Celeste che anzitutto non partecipa della natura
femminile ma solo di quella maschile (e questo è l'amore per i giovinetti) e,
in secondo luogo è più antica e immune da ogni forma di libidine. Così, quelli
che sono infiammati da questo Amore, volgono le loro predilezioni al sesso
maschile presi come sono da ciò che, per natura, è più vigoroso e dotato di più
aperto intelletto. E in questa passione per i giovani è facile riconoscere
quelli che sono nobilmente infiammati da questo Amore; costoro, infatti, non si
legano ai giovani se non quando questi hanno già una loro maturità
intellettuale e vedono spuntare la prima barba. Io penso, infatti, che chi per
amarli attende che essi giungano a questa età, lo fa per poter convivere poi
tutta la vita con loro in una dolce intimità e non per ingannarli, per
approfittare della loro ingenuità e sbeffarli, piantandoli poi in asso per
correre dietro a un altro. Anzi ci vorrebbe proprio una legge che vietasse di
aver relazioni amorose con i minorenni, per evitare che si sciupi tempo e
fatica per un esito incerto; con i ragazzi, infatti, non si sa mai come vada a
finire, se faranno una buona riuscita o meno, sia per quel che riguarda le doti
fisiche che per quelle morali. I galantuomini se la pongono da sé questa legge,
ma per i dongiovanni da quattro soldi, sarebbe proprio necessario far qualcosa
in proposito, così come abbiamo impedito, meglio che s'è potuto, che avessero
rapporti intimi con donne di condizione libera. Sono questi che han fatto
degenerare la cosa a tal punto che ora c'è gente che afferma che è brutto
corrispondere chi ci ama; e lo dice proprio perché ha davanti agli occhi
l'esempio di questi tipi, privi affatto di buon gusto e di un minimo di pudore,
giacché nessuna cosa, se è fatta nei dovuti limiti e secondo onestà, può
giustamente tirarsi dietro un qualche biasimo. Negli altri Stati, intanto, le
leggi sull'amore non sonio di difficile interpretazione, regolate da principi
assai semplici, così come concettosi e ingarbugliati sono da noi. Nell'Elide,
per esempio o a Sparta o anche in Beozia, dove la gente non è abituata a far
bei discorsi, viene, molto semplicemente, riconosciuto che è bello corrispondere
chi ama e nessuno, giovane o vecchio che sia, si sognerebbe di dire che è cosa
brutta; questo, a mio avviso, perché non vogliono pigliarsi troppo la briga di
persuadere i giovani, inesperti come sono nell'arte del dire. Nella Ionia,
invece, e in molte altre parti dove predominano popolazioni non greche, la cosa
è ritenuta vergognosa; presso i popoli stranieri, del resto, proprio per i loro
regimi tirannici, anche l'amore che uno può portare alla sapienza o alla
ginnastica, è cosa disonesta. Infatti, io penso che ai governanti non convenga
che sorgano tra i sudditi nobili e forti proponimenti o salde amicizie o
identità di vedute, tutte cose, queste, che è proprio l'amore, di solito, a
far IX 11 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org nascere. E questo l'hanno imparato anche qui da noi i
nostri tiranni, come l'amore di Aristogitone e l'intrepida amicizia di Armodio,
abbiano distrutto il loro potere. Pertanto, là dove si ritiene che è cosa
disonesta corrispondere chi ama, ciò è dipeso dalla mediocrità dei legislatori,
dall'arroganza dei governanti e dalla viltà dei sudditi; laddove, invece, la
cosa è ritenuta senz'altro bella, in linea assoluta, è stato per la pigrizia di
chi ha fatto la legge. Quindi, da noi, vige una consuetudine più bella che
altrove ma, come dicevo prima, non è facile, però, interpretarla.
12 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «Si pensi, infatti, che da noi si reputa più bello amare
alla luce del sole che di nascosto, amare, poi, soprattutto, chi è virtuoso e
nobile anche se è più brutto degli altri e che si dà un incoraggiamento
straordinario a chi ama, non ritenendo affatto che la sua sia un'azione
vergognosa, anzi è motivo di orgoglio riuscire nel proprio intento ed è quasi
un disonore, invece, fallire nella conquista e che la legge accorda all'amante,
per le sue imprese amorose, la libertà di fare cose addirittura straordinarie e
di riceverne lode, cosa che se uno facesse con altre intenzioni e per altri
fini, si tirerebbe addosso il biasimo di tutti. Se uno, infatti, volendo farsi
dare del denaro da qualcuno o desiderando ottenere un pubblico impiego o
qualche carica, si mettesse a fare quel che gli amanti fanno per i loro
fanciulli, suppliche, scongiuri, per ottenere quello che bramano, i giuramenti
che fanno, tutte le notti che passano fuori davanti all'uscio del loro amore,
tutti i servizi a cui si piegano, quelli più infimi, cui nessuno schiavo
s'adatterebbe, costui si vedrebbe ostacolato in questo suo modo di fare, non
solo dagli amici ma anche dai suoi avversari che gli rimprovererebbero queste
smancerie e questo servilismo, richiamandolo al dovere e vergognandosi per lui;
se tutto questo uno, invece, lo fa per amore, acquista addirittura pregio e la
nostra legge glielo consente, senza che su di lui ricada biasimo alcuno, come
se, in effetti, compisse una cosa bellissima. Ma quello che è ancora più
straordinario è che, a quanto dicono i più, solo a chi ama è concesso, quando
giura e poi non mantiene il giuramento, di ottenere il perdono degli dei
perché, a quanto si dice, in amore non c'è giuramento che valga. È per questo
che sia gli dei che gli uomini hanno concesso, a chi ama, un'assoluta libertà,
come ci provano le nostre leggi. Tutto questo autorizzerebbe a credere che in
questa nostra patria, amare e corrispondere chi ama è ritenuta cosa bellissima.
Eppure quando i genitori ti mettono alle calcagna dei loro figlioli un
pedagogo, col preciso incarico di tenerli lontani dai loro corteggiatori,
quando i compagni e i coetanei fanno quasi succedere uno scandalo se si
accorgono di qualcosa del genere, mentre i più anziani lasciano che dicano e
non intervengono a queste esagerate reazioni, a guardar bene tutto questo
sembrerebbe proprio che qui da noi l'amore sia considerato cosa del tutto
disonesta. Il fatto è, a mio avviso, che la cosa sta invece così: non c'è nulla
di assoluto, come accennai prima, e niente è bello o brutto per se stesso, ma
diventa l'uno o l'altro a seconda che sia fatto bene o male. Così, l'amore diventa
cosa spregevole se, senza alcun buon gusto, uno si concede a un essere
spregevole, è cosa bella, invece, quando lo si fa onestamente con persona
onesta. Ed amante del tutto indegno, volgare, è colui che ama più il corpo che
l'animo, perché costui, infatti, non è costante, preso com'è da cosa che non
dura. Quando, infatti, sfiorisce la bellezza del corpo, di quel fiore che
amava, egli ‹fugge lontano, scompare› e addio promesse e belle parole. Chi,
invece, ama qualcuno per la bellezza del suo animo, gli resta fedele per tutta
la vita, perché s'è congiunto a cosa che dura. Perciò le nostre leggi si
prefiggono di ben individuare tutti costoro per accordare, agli uni, ogni
favore e mettere al bando gli altri e per questo si esortano gli amanti a
insistere nelle loro profferte e gli amati a schermirsi, cercando così, per
questa specie di gara, di stabilire a quale delle due categorie appartengano
gli uni e gli altri. Per questo X 13 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org motivo è ritenuta gran brutta cosa,
prima di tutto, lasciarsi sedurre, così, in quattro e quattr'otto, senza dar
tempo al tempo, che, in fondo, si sa, per tante cose è un gran maestro; in
secondo luogo, lasciarsi incantare dal denaro o dalle prospettive di cariche politiche,
sia che il giovane per qualche violenza subita si intimorisca e si metta in
condizione di non reagire, sia che, prospettandogli la possibilità di far
denaro o di avere successo in politica, egli non vi rinunci sdegnosamente:
infatti, nessuna di queste cose è sicura e durevole, oltre al fatto, poi, che
da esse non potrà mai nascere una lunga amicizia. Quindi, secondo la nostra
legge, non c'è che una strada perché l'amato possa onestamente corrispondere e
compiacere l'amante, ed è questa: come non è affatto vergognoso e umiliante,
per chi ama, sottoporsi per il suo amore, a ogni sorta di schiavitù, così c'è
una sola servitù volontaria, non indecorosa o infamante: quella che ha per
oggetto la virtù. 14 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ed è norma ancora, da noi, che se uno si
mette al servizio di un altro ritenendo che ciò possa contribuire a renderlo
migliore nel campo del sapere o in qualche altra virtù, questa sottomissione
volontaria non è vergognosa, né servile. Occorre, pertanto, che queste due
norme, quella sull'amore dei giovinetti e quella sul desiderio di acquistar
sapienza o qualsiasi altra virtù, si fondano insieme se si vuole che sia
veramente una cosa bella che il giovane conceda le sue grazie a un amante.
Infatti quando l'amante e la persona amata s'incontrano, ciascuno, ligio a una
sua precisa condotta, cioè l'uno disposto a servire il giovane che gli ha
concesso i suoi favori e a servirlo onestamente, l'altro, con la stessa onestà,
a seguire la volontà di chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia
veramente capace di dare senno e virtù e l'altro veramente desideroso di
educarsi e d'acquistar, in ogni modo, sapienza, quando questo avviene, quando
queste due direttrici convergono a un unico fine, oh, allora, si è cosa bella
che la persona amata conceda i suoi favori a chi l'ama, altrimenti niente da
fare. In questo caso essere ingannati non è nemmeno mortificante; in tutti gli
altri casi, ingannati che si sia o meno, c'è da arrossir di vergogna. Se un
giovane, infatti, in un miraggio di ricchezza, si è lasciato sedurre per denaro
e poi resta ingannato perché s'accorge che il suo seduttore è povero, questo
giovane, compie un'azione molto spregevole, perché s'è rivelato quel che egli
era: un uomo capace di darsi a chiunque per sete di denaro e questo non è
bello. E per un ragionamento analogo, se lo stesso giovane, invece, si fosse
concesso a persona virtuosa, riconoscendo che sarebbe divenuto migliore proprio
in virtù di quella corrispondenza e poi fosse stato ingannato perché il suo
amante s'è rivelato persona del tutto mediocre, priva di qualsiasi virtù,
ebbene questa delusione è motivo di compatimento; infatti, egli ha dimostrato
di esser pronto a dar tutto se stesso a chiunque, ma per la virtù e pur di
diventar migliore, e questo, certo, è tra tutte, cosa bellissima. In
conclusione, il concedersi per ottenere, in cambio, virtù, è bello. Questo è
l'Amore della dea celeste, celeste egli stesso, degno in tutto di venerazione
da parte dello stato come dei singoli individui, che spinge gli amanti e le
persone amate, ciascuno per quel che gli compete, a preoccuparsi soltanto
d'essere virtuosi. Quanto agli altri amori, provengono tutti dalla Venere
Pandemia, volgare. Questo è quanto ho improvvisato, Fedro, così su due piedi, a
proposito di Amore.» Dopo la pausa di Pausania (guarda un po' che giochetti di
parole ti sto a fare, che m'insegnano i dotti), a quanto ebbe a riferirmi
Aristodemo, toccava ad Aristofane, senonché, vuoi per la pienezza di stomaco, vuoi
per qualche altra causa, costui aveva il singhiozzo e, quindi, era
nell'impossibilità di parlare. Si rivolse, allora a Eressimaco, il medico, che
gli era seduto accanto: «Cerca di liberarmi da questo singhiozzo, Eressimaco,»
gli disse, «o, almeno, prendi tu la parola, finoa quando non si sarà calmato.»
«Cercherò di venirti incontro in un modo e nell'altro; parlerò io al tuo posto
e poi interverrai tu quando ti sarà passato; intanto cerca di trattenere il
respiro per qualche minuto e vedrai che il singhiozzo se ne andrà, oppure bevi
un sorso d'acqua, fai dei gargarismi e, se persiste, prendi qualcosa che ti
solletichi il naso e cerca di starnutire e vedrai che, con un paio di starnuti,
per quanto XI 15 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org ostinato, ti passerà.» «Sì, ma tu sbrigati a parlare,»
insistette Aristofane, «intanto io cercherò di fare come tu dici.»
16 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org E così Eressimaco incominciò: «A mio avviso, mi par
necessario che cerchi di concludere il discorso che Pausania ha iniziato così
bene ma che poi non ha portato a termine. Che Amore sia duplice, ci sembra
distinzione esatta; ma che esso non alberga solo negli uomini attratti dalle
belle creature, ma in tutti gli altri esseri, a loro volta presi per altre
forme, negli animali, per esempio, nelle piante e comunque in tutte le creature
viventi, io credo di averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte e, altresì,
come Amore sia grande e meraviglioso iddio, presente ovunque in ogni cosa umana
e divina. Comincerò, quindi, a trattar l'argomento da un punto di vista medico,
anche in omaggio a questa arte. La natura dei corpi è tale che essi hanno in sé
questo duplice Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute sono, come tutti
sanno, due condizioni diverse e contrarie e, come tali, perciò, non appetiscono
e non desiderano mai le stesse cose. In poche parole, altro è il desiderio che
prova la parte sana, altro quello che sente la parte malata. E come Pausania
diceva poco fa che è bello concedersi a un amante virtuoso e vergognoso è,
invece, darsi a un dissoluto, lo stesso è anche per i corpi per cui è cosa
bella, anzi doverosa, favorire lo sviluppo delle parti sane di ciascun
organismo (e, in fondo, proprio questo è il compito del medico) ed è male,
invece, farlo per le parti malate per le quali occorre agire con intransigenza,
se si è veramente capaci nell'arte medica. Infatti, la medicina, per dirla in
breve, è la scienza che studia le tendenze affettive dell'organismo nel suo
riempirsi e svuotarsi e chi sa distinguere in queste tendenze, le buone dalle
cattive, costui è un gran medico; chi, poi, queste tendenze le sappia anche
modificare o suscitarne una al posto dell'altra o stimolarne qualcuna laddove
non ve ne siano e invece dovrebbero esservi o, addirittura, cancellare quelle
che vi sono, costui, allora, sarà proprio un maestro eccellente. Bisogna,
infatti, che le parti di un organismo che sono tra loro incompatibili si
riconcilino e trovino una loro reciproca armonia. E gli elementi più
incompatibili sono quelli contrari, freddo e caldo, amaro e dolce, secco e
umido e così via; e poiché ad aver saputo conciliare ed armonizzare tutti
questi contrari è stato nostro padre Asclepio, egli, come dicono questi poeti e
come anch'io sono convinto, è il fondatore di questa nostra scienza. Tutta la
medicina, dunque, come vi sto dicendo, è governata da questo dio, come del
resto la ginnastica e l'agricoltura. Quanto alla musica, poi, basta un minimo
di riflessione perché tutti comprendano che essa si comporta alla stessa
stregua delle altre arti, come anche Eraclito, del resto, forse vuol dire,
sebbene non si esprima in termini molto chiari: ‹L'unità in sé discorde,› dice,
‹con se stessa s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira.› Ora, è
assurdo pensare che l'armonia sia mancanza di accordi o che nasca da elementi
ancora discordanti tra loro. Egli, forse, voleva dire che essa nasce da
elementi prima discordanti, l'acuto e il grave, per esempio, che si son poi accordati
per virtù della musica; infatti, non è certo possibile che l'armonia risulti da
suoni tuttora discordi tra loro quali l'acuto e il grave. In verità, l'armonia
è consonanza e la consonanza è accordo; non è possibile, ora, che vi sia
accordo da cose discordi finché restino tali, come impossibile è che vi sia
armonia quando gli elementi discordanti non abbiano trovato il loro accordo;
così come anche il ritmo, del resto, che risulta dal veloce e dal lento prima
discordi tra loro ma poi XII 17 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org armonizzati insieme. E l'accordo fra
tutti gli elementi, come per quelli di prima era dato dalla medicina, così per
questi è dato dalla musica che produce, quindi, tra loro, reciproca armonia e corrispondenza.
La musica, quindi, per quanto riguarda il ritmo e l'armonia, è scienza d'amore.
Non è difficile, poi, individuare nella stessa costituzione del ritmo e
dell'armonia questa sua peculiarità, in quanto in essa non vi sono le due
specie d'amore. Quando però si compongono ritmi e armonie per la gente (ed è
questa, propriamente, ciò che si chiama composizione musicale) o si eseguono
fedelmente melodie e partiture altrui (e questo è virtuosismo), allora sì che
viene il difficile e occorre un bravo artista. E qui si torna al discorso di
prima, cioè che bisogna compiacere alle persone per bene o a quelle che ancora
non lo sono ma vogliono diventarlo e conservarsi il loro amore che è poi quello
bello, quello celeste, l'amore di Afrodite Urania; quello di Polimnia, invece,
è l'amore pandemio, volgare, cui bisogna concedersi con prudenza e che
dobbiamo, a nostra volta, con prudenza concedere per goderne senza tuttavia
farne abuso. Del resto, anche nella nostra scienza è molto importante sapersi
ben destreggiare con i desideri per la buona cucina in modo da saperla gustare
senza poi ammalarsi. E così nella musica, nella medicina e in tutto il resto,
sia nelle cose umane come in quelle divine, occorre tener presenti, per quanto
possibile, l'uno e l'altro amore, dovunque contenuti entrambi.
18 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «E anche le stagioni dell'anno, nella loro successione,
son colme di questi due amori e quando gli elementi contrari di cui parlavo
prima, il caldo e il freddo, il secco e l'umido, cadono sotto l'influenza
dell'amore benigno che li armonizza e li compone sapientemente, allora le
stagioni recano abbondanza e salute agli uomini, agli animali e alle piante e
non portano alcun danno. Quando, invece, ha il sopravvento l'altro amore, con
tutta la sua violenza, ecco, allora, rovine e distruzione ovunque, ecco la
causa di pestilenze e di molti altri simili morbi per gli animali e le piante;
e, infatti, il gelo, la grandine, la rubigine derivano dalla violenza e dal disordine
con cui si manifestano queste tendenze d'amore. La scienza che, attraverso il
moto degli astri e il succedersi delle stagioni indaga questi fenomeni, si
chiama astronomia. Inoltre, tutti i sacrifici e i riti a cui presiede l'arte
profetica, nel loro insieme (sono essi a mantenere un rapporto tra gli uomini e
le divinità) non hanno altro scopo che di custodire e salvaguardare l'Amore;
ogni scelleratezza, infatti, nasce perché non si dimostra buona disposizione
nei riguardi dell'amor benigno, né, in quel che si fa, lo si tiene nella dovuta
stima e lo si onora. Cose, invece, che si concedono tutte all'altro amore, sia
per quel che riguarda i rapporti con i propri genitori, vivi o morti che siano,
sia quelli con gli dei. A queste cose, appunto, l'arte profetica è destinata,
per cui deve sorvegliare gli amori e apprestarne i rimedi; e la divinazione è
all'origine dell'amicizia tra gli dei e gli uomini in quanto, delle tendenze
umane, conosce quelle che si volgono alla giustizia e alla pietà. Dunque, tanto
grande e vasta, anzi, universale è la forza d'Amore, ma quello che si volge al
bene con saggezza e giustizia sia nei nostri rapporti umani che in quelli degli
dei tra loro, ha forza ancora maggiore e ci dà la felicità e ci fa vivere nella
concordia e nell'amicizia con tutti e con chi è migliore di noi, cioè con gli
dei. Forse anch'io ho tralasciato molte cose, mio malgrado, in questo elogio
d'Amore; se l'ho fatto, è compito tuo Aristofane rimediarvi; se, invece, vuoi
onorare il dio in altro modo, fallo pure, dato che il singhiozzo t'è passato.»
E così, mi riferì Aristodemo, cominciò a parlare Aristofane che disse:
«Veramente è passato ma solo con lo starnuto, tanto che io mi meraviglio come
il corpo umano, così ben fatto, abbia proprio bisogno di tanto rumore e
solleticamenti, come lo starnuto. Sta di fatto, però, che il singhiozzo è
cessato appena ho starnutito.» «Ma, mio caro Aristofane,» ribatté Eressimaco,
«sta un po' attento a quel che fai; ti metti a far dello spirito proprio ora
che devi parlare e così mi costringi a stare sul chi va là per ogni tua parola,
nel caso ti saltasse in mente di dirle grosse, e sì che potresti parlar
tranquillamente.» «Hai ragione, Eressimaco,» ammise Aristofane, ridendo, «fingi
come se non avessi detto nulla. Ma non stare sul chi va là mentre parlo perché
io ho proprio paura, non tanto perché, forse, con quello che sto per dire, farò
ridere, il che potrebbe essere anche piacevole e coerente con la mia musa, ma
perché mi farò invece deridere.» «Sì, sì, va bene, Aristofane, tu prima lanci
il sasso e poi nascondi la mano; mettici attenzione, invece, e parla come se
dovessi dar conto di quello che dici; da parte mia, intanto, vedrò di lasciarti
tranquillo.» XIII 19 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org «Per dir la verità, Eressimaco,» cominciò
Aristofane, «io avrei in mente di fare un discorso diverso da quello tuo e di
Pausania. Io credo, infatti, che di tutta questa potenza dell'Amore, gli uomini
non se ne siano accorti per niente, altrimenti gli avrebbero innalzato templi
grandiosi, altari, gli farebbero sacrifici magnifici e, invece, nulla di tutto
questo mentre sarebbe la prima cosa da fare. Nessuno come lui, tra tutti quanti
gli dei, è amico degli uomini, viene in loro aiuto, cerca di curarne i mali, la
cui guarigione, forse, sarebbe la più grande felicità del genere umano. Quindi,
io cercherò di svelarvi la sua potenza e voi, a vostra volta, la rivelerete
agli altri. Per prima cosa, dovete rendervi conto cosa sia la natura umana e
quali siano state le sue vicende; per il passato, infatti, essa non era quella
che è oggi. Nel principio, tre erano i sessi dell'uomo, non due, il maschio e
la femmina, come ora: ce n'era un terzo che aveva in sé i caratteri degli altri
due, ma che oggi è scomparso e del quale resta soltanto il nome: l'ermafrodito.
Esso, infatti, era un essere a sé stante che, nell'aspetto esteriore e nel
nome, aveva dell'uno e dell'altro, cioè, del maschio e della femmina; oggi,
ripeto, non resta che il nome che, per di più, ha un significato infamante.
Inoltre, la figura di questo essere umano era arrotondata, dorso e fianchi
formavano come un cerchio; aveva quattro mani e quattro erano pure le gambe;
aveva anche due facce, piantate su un collo anch'esso rotondo, completamente
uguali e attaccate, in senso opposto, a un unico cranio; aveva quattro
orecchie, doppi gli organi genitali e, da tutto questo, possiamo immaginarci il
resto. Camminavano in posizione eretta, come noi, volendo potevano spostarsi in
qualunque direzione e, quando correvano, facevano un po' come i nostri
saltimbanchi che gettano in aria le gambe e capriolettano su se stessi: e
poiché gli arti erano otto, appoggiandosi su di essi, procedevano, a ruota,
velocemente. I sessi erano tre, perché quello maschile aveva avuto origine dal
sole, quello femminile dalla terra e l'altro, con i caratteri d'ambedue, dalla
luna, dato che quest'ultima partecipa del sole e della terra insieme: perciò
avevano quell'aspetto e si spostavano rotolando, perché somigliavano a quei
loro progenitori. Avevano una resistenza e una forza prodigiosa, nonché
un'arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con gli dei e quel che
dice Omero di Efialte e di Oto, che tentarono di scalare il cielo, va riferito
a costoro. XIV 20 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «E così Giove e gli altri dei si consigliarono sul da
farsi ma non seppero risolversi: non era il caso di ucciderli, infatti, come i
Giganti, e di estinguerne la specie a colpi di fulmine (il che sarebbe stato
come far sparire onori e sacrifici agli dei da parte degli uomini) e del resto
non era possibile continuare a sopportare oltre la loro tracotanza. A furia di
pensare, Giove, finalmente, ha un'idea: ‹Ho trovato il sistema,› esclamò,
‹perché gli uomini sopravvivano ma, nello stesso tempo, divengano più deboli e
la smettano con la loro prepotenza. Ecco che li taglierò, ciascuno, in due,›
continuò, ‹così diventeranno più deboli, e, dato che aumenteranno di numero
potranno esserci anche più utili. Cammineranno su due gambe e, se non si
metteranno tranquilli e faranno ancora i prepotenti, li taglierò ancora e cosi
impareranno a camminare su una gamba sola, come nel gioco degli otri.› Detto
fatto, si mise a tagliare gli uomini in due come si tagliano le sorbe quando si
mettono a seccare, o come si divide un uovo col crine. E via via che tagliava,
poi, raccomandava ad Apollo che a ciascuno gli rivoltasse il viso e la metà del
collo dalla parte del taglio in modo che l'uomo, vedendosi sempre la sua
spaccatura, diventasse più mansueto; Apollo, infine, provvedeva a chiudere le
altre parti. Girava la faccia e, tirando la pelle, tutta verso quel punto che
noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per chiudere coi lacci una borsa, faceva
una specie di groppo, che legava proprio in mezzo alla pancia, quello che noi
chiamiamo ombelico. Spianava, poi, le molte rughe e modellava il petto usando
un arnese un po' simile a quello che adoperano i sellai per spianare, sulla
forma, le grinze del cuoio: ne lasciava, però, qualcuna, nei paraggi del ventre
e intorno all'ombelico, in ricordo dell'antico castigo. Fu così che gli uomini
furono divisi in due, ma ecco che ciascuna metà desiderava ricongiungersi
all'altra; si abbracciavano, restavano fortemente avvinti e, nel desiderio di
ricongiungersi nuovamente, si lasciavano morire di fame e di accidia, non
volendo far più nulla, divise com'erano, l'una dall'altra. Quando, poi, una
delle due metà, moriva, quella rimasta in vita, se ne cercava un'altra e le si
avvinghiava, sia che le capitasse una metà di sesso femminile (che oggi noi
chiamiamo propriamente donna) che una di sesso maschile; e così, morivano.
Allora Giove, impietosito, ricorse a un nuovo espediente: spostò il loro sesso
sul davanti; prima, infatti, l'avevano dalla parte esterna e generavano e si
riproducevano non unendosi tra loro, ma alla terra, come le cicale. Dunque,
trasferì questi organi sul davanti e, così facendo, rese possibile la
procreazione attraverso l'unione del maschio nella femmina; lo scopo era quello
di far generare e di perpetuare la specie grazie a un simile accoppiamento tra
maschio e femmina; se, invece, l'unione fosse stata fra maschi, dopo un po'
sarebbe venuta sazietà da questo connubio e così, una volta separatisi,
sarebbero potuti ritornare al lavoro e alle altre cure della vita. Da tempi
remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle
origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando, così, l'umana
natura. XV 21 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «Quindi, ciascuno di noi è come la metà di un unico
contrassegno, dal momento che fu tagliato in due, come le sogliole, e va
continuamente in cerca dell'altra metà. Ora, tutti quegli uomini che son
derivati dalla divisione di quel doppio essere, cioè, dall'ermafrodito, come
l'abbiamo appunto chiamato, sentono tutti l'attrazione per le donne e da lì
provengono anche la maggior parte degli adulteri; così pure hanno la stessa
origine le donne che vogliono il maschio e le adultere. Invece, le donne che
son derivate dalla divisione di un essere di sesso femminile, sono frigide nei
riguardi dell'uomo e sentono, piuttosto, attrazione per le altre donne e da qui
sono nate le lesbiche. Quegli uomini, infine, che son nati dalla divisione di
un essere maschile, van dietro ai maschi e, finché son ragazzi, per il fatto
che son parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacersi stretti
abbracciati con loro. Questi sono i ragazzi, i giovinetti più in gamba, dotati
di un'indole virile; c'è della gente che dice che costoro sono degli
svergognati, ma sbaglia: non per impudenza, infatti, fanno questo ma perché
sono arditi, valorosi e virili e, come tali, cercano il loro simile. E questa è
la prova migliore: in età matura, soltanto costoro diventano dei veri uomini e
partecipano alla vita politica. Da adulti, poi, sono loro ad amare i fanciulli
e se non fosse perché la consuetudine un po' ve li costringe, se dipendesse
dalla loro natura, certo non penserebbero affatto a sposarsi e ad avere dei
figli, anzi sarebbero contentissimi di vivere così da scapoli. Insomma, da qui
nascono quelli che amano gli uomini o si lasciano da essi amare, preferendo
sempre chi ha la loro stessa natura. E quando uno incontra quella che fu la sua
metà, non solo chi si sente attratto verso i fanciulli, ma anche ogni altro,
sente allora nascere in sé quel sentimento di amicizia, di intimità, di amore
per cui non sa più vivere separato dall'altro, nemmeno un istante, tanto per
dire. E questi che passano insieme la loro vita non ti saprebbero nemmeno più
dire quello che vogliono per loro; e io penso che nessuno crederà che sia
soltanto l'attrazione fisica a tenerli così appassionatamente uniti; è certo
che l'anima loro cerca qualcos'altro, che non sa definire ma che vagamente
intuisce. Se, per esempio, mentre stanno dolcemente insieme, comparisse Efesto,
con gli strumenti del suo potere e chiedesse loro: ‹Cosa vorreste, uomini,
l'uno dall'altro?› e vedendoli incerti chiedesse ancora: ‹Non desiderate,
forse, diventare una cosa sola in modo che non possiate mai separarvi, né di
giorno né di notte? Se è questo che volete, io vi unirò, vi fonderò in una
stessa natura così che da due voi diventiate uno e la vostra vita la viviate
come un essere solo e quando morrete, anche laggiù, nell'Ade, possiate essere
uno solo invece di due, uniti da un'unica morte. Vedete un po', allora, se è
questo che desiderate, se è questo che vi basta ottenere.› Dunque. se udissero
queste parole, siamo convinti che nessuno dei due rifiuterebbe, nessuno
mostrerebbe di voler altro, anzi, ognuno penserebbe di aver finalmente udito le
parole che da tanto tempo sognava di ascoltare, diventare cioè di due una sola
cosa, unirsi, confondersi nella creatura amata. E la ragione di tutto questo è
che tale era la nostra antica natura e che noi eravamo uniti; e lo struggimento
per quella perduta unità, il desiderio di riottenerla, si chiama amore. Ripeto,
noi, prima eravamo un essere solo ma poi, per i nostri falli, da dio siamo
stati divisi, un po' come gli Arcadi lo XVI 22 Biblioteca
Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org sono stati dagli
Spartani. E c'è da temere che se non saremo obbedienti verso gli dei, verremo
ancora tagliati e vagheremo un po' simili a quelle figure in bassorilievo,
segate in due lungo la linea del naso, che si vedono sulle steli, ridotti come
dadi a metà. Occorre, perciò, che ogni uomo consigli gli altri ad essere pii
verso gli dei, sia per evitare questo male, sia per ottenere quel bene al quale
Amore ci volge e ci guida. Nessuno sia ostile ad Amore (chi lo è, è inviso agli
dei); perché se gli saremo amici, se ci riconcilieremo con questo dio, noi
riusciremo a trovare e a congiungerci con la nostra anima gemella, cosa che
oggi capita a pochi. E non insinui Eressimaco, canzonandomi per questo che sto
dicendo, che io voglio alludere a Pausania e ad Agatone (molto probabilmente
essi sono tra questi pochi e hanno entrambi natura virile). Ad ogni modo io
dico, in generale, di tutti, uomini e donne, che la razza umana sarà felice
nella misura in cui ciascuno realizzerà il suo amore e troverà la sua creatura
amata, ritornando così all'antica condizione. Se questo è il bene più grande,
ne consegue che, nelle presenti condizioni, la cosa migliore è quella che più
gli si avvicina: incontrare l'amante che meglio ci sappia corrispondere. Se,
dunque, vogliamo levar lodi al dio che ci può dar tutto questo, è ad Amore che
dobbiamo inneggiare il quale, per ora, favorisce il nostro incontro con chi ci
è affine e, un domani, ci darà le più grandi speranze che, se noi ci mostreremo
riverenti verso gli dei, ci restituirà l'antica natura e, risanandoci, ci
renderà felici e beati. Questo, o Eressimaco,» concluse, «il mio discorso su
Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a
canzonare, dato che dobbiamo ancora sentire quel che diranno gli altri, anzi
gli ultimi due, perché non sono rimasti che Agatone e Socrate.»
23 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «E va bene, t'accontento,» rispose Eressimaco, «anche perché
il tuo discorso m'è proprio piaciuto; anzi, se non sapessi che Socrate e
Agatone son ferratissimi in fatto d'amore, avrei proprio paura, con tutto quel
che s'è detto, che rimanessero a corto d'argomenti. Ma, nonostante questo,
invece, mi sento sicuro.» E Socrate, intervenendo: «Eh, già, Eressimaco, perché
tu hai già detto la tua e bene anche; ma se ti trovassi qui, al mio posto o
meglio nella posizione in cui mi troverò quando Agatone avrà finito anche lui
di fare il suo bel discorso, saprei immaginare la tua paura, e quanta anche,
come ce l'ho io adesso.» «Non m'incanti, Socrate,» fece, di rimando, Agatone,
«tu vuoi proprio confondermi facendomi credere che queste persone son tutte qui
ad aspettare chissà cosa dal mio discorso.» «E io, allora, sono uno smemorato,
Agatone,» replicò Socrate, «se credessi che ora tu hai paura di noi che siam
qui in pochi. Ho visto il tuo coraggio, la tua sicurezza quando sei salito sul
podio con gli altri attori e hai abbracciato con uno sguardo tutto il teatro
pieno zeppo, poco prima di rappresentare la tua opera.» «Ma che c'entra,
questo, Socrate?» ribatté Agatone. «Non mi crederai mica tanto infatuato per
una rappresentazione teatrale, da non capire che per uno che abbia un po' di
buon senso, poche persone intelligenti fan più paura di una folla di sciocchi?»
«Non sarebbe bello da parte mia, Agatone,» insisté Socrate, «se ti pensassi
capace di un pensiero volgare. So benissimo che se ti venissi a trovare fra
persone che tu ritenessi sapienti, ne saresti preoccupato più che se fossi in
mezzo a un mucchio di gente; il fatto è che noi non siamo tali e, del resto,
c'eravamo anche noi, lì, non più che folla tra la folla. Se tu, invece, ti
incontrassi veramente con dei sapienti, ti vergogneresti davanti a loro, se ti
accorgessi di far qualche brutta figura, non credi?» «Certo, dici bene,»
ammise. «E se tu la brutta figura la facessi davanti alla folla, non ti
vergogneresti?» A questo punto intervenne Fedro e: «Mio caro Agatone,» disse,
«se stai lì a rispondere a Socrate, te le saluto le cose che stavamo dicendo,
ma tanto a lui non gliene importa niente, basta che abbia qualcuno con cui
discutere, specie poi se è un bel ragazzo. Con questo non è che io non ascolti
volentieri una discussione di Socrate, ma certo che ora mi sta più a cuore
l'elogio di Amore e avere, da ciascuno di voi, il rispettivo discorso. Pagate
al dio il vostro debito e poi discuterete come vi pare.» «Dici proprio bene,
Fedro,» esclamò Agatone; «niente mi impedisce di parlare; con Socrate non
mancheranno certo le occasioni per discutere.» XVII 24
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Io desidero
prima dirvi com'è che intendo impostare il mio discorso, dopo entrerò nel vivo
della questione. A me pare che tutti quelli che hanno parlato finora non
abbiano celebrato il dio ma soltanto posto l'accento su quanto gli uomini siano
felici per quei beni di cui, appunto, quel dio è la causa; nessuno ha detto chi
sia propriamente costui che ci offre tutti questi beni. Orbene, l'unico metodo
giusto per far qualsiasi elogio, di qualunque cosa, è quello di illustrare
prima chi sia, in effetti, quello di cui si parla e poi di quali beni sia la
causa. Ecco perché noi dobbiamo prima lodare Amore per quel che egli è, poi per
i doni che ci reca. Intanto io affermo che tra tutti i beatissimi dei (se m'è
lecito dirlo e non è peccato) Amore è il più beato perché è il più bello e il
più buono. Il più bello soprattutto perché è il più giovane degli dei, Fedro.
Egli stesso ce ne dà la prova migliore fuggendo dinanzi alla vecchiaia che,
tutti sanno, è veloce e ci casca addosso più presto di quel che dovrebbe.
Naturalmente Amore la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Giovane
com'è, invece, sta sempre con i giovani e ha ragione l'antico detto che il simile
s'accompagna sempre al suo simile. Ed io, pur consentendo con Fedro in molte
cose, non condivido il fatto che Amore sia più antico di Crono e di Giapeto.
Ripeto, invece, che è il più giovane di tutti gli dei, eternamente giovane e
tutti quei vecchi fatti tra gli dei che raccontano Esiodo e Parmenide,
accaddero per opera di Necessità, non di Amore, ammesso pure che quei due
abbiano detto il vero. Non ci sarebbero state, infatti, mutilazioni, catene e
tutte quelle altre violenze se Amore fosse stato in mezzo a loro, ma solo
amicizia e concordia come è ora, da quando egli regna sugli dei. Dunque egli è
giovane e non solo, è gentile. Il fatto è che gli manca un poeta, un poeta come
Omero che ne esalti la delicata bellezza. Di Ate, per esempio, Omero dice non solo
che è una dea ma che, appunto, è delicata (almeno i suoi piedi sono tali),
quando scrive: morbidi sono i suoi piedi che non accosta alla terra ma ella
procede sfiorando le teste degli uomini. E mi pare che egli ci abbia dato una
bella prova della sua delicatezza col dirci che non cammina sul duro ma sul
morbido. Serviamoci, anche noi, per Amore, dello stesso indizio a conferma che
è delicato; egli, infatti, non cammina per terra e nemmeno sulle teste degli
uomini che, poi, tanto morbide non sono, ma tra le più tenere delle cose che
esistono egli procede e dimora: egli, infatti, ha posto la sua sede nel cuore e
nell'animo degli uomini e degli dei; non però in tutte le anime
indistintamente. Se, infatti, ne trova una rozza, fila via, se gentile invece,
vi resta. Dato, quindi, che egli è sempre a contatto, e non solo con i piedi ma
anche con tutto se stesso, con le più tenere tra le tenerissime cose,
necessariamente deve essere delicatissimo. Il più giovane, dunque, e il più
delicato; ma oltre a questo è duttile. Non potrebbe piegarsi in tutte le
direzioni e entrare di soppiatto nelle anime e così uscirne se fosse rigido; la
leggiadria, per consenso comune, è la prova evidente delle fattezze armoniche e
flessuose che Amore possiede. Infatti, fra l'amore e la bruttezza c'è sempre
reciproca guerra. La bellezza del suo incarnato ci dice che egli
XVIII 25 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org indugia tra i fiori, poiché Amore non resta dove non v'è
cosa in fiore o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro, ma dove
tutto è fiorito e olezzante, là si posa e dimora. 26
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Sulla
bellezza del dio può anche bastare, per quanto ce ne sarebbe ancora da dire. Ma
ora parliamo delle sue virtù. La cosa che prima di tutto bisogna notare è che
Amore non fa torti a nessuno, né a uomini né a dei e nemmeno ne riceve. Egli
non subisce violenza (ammesso che subisca qualcosa), perché essa non lo tocca,
né con prepotenza fa quel che fa, ma ognuno serve Amore spontaneamente in ogni
cosa; e quando c'è accordo reciproco tra due volontà, ‹le Leggi che sono le
regine degli Stati›, dicono che è giusto. Oltre che la giustizia, Amore
possiede in sommo grado anche la temperanza. Tutti son d'accordo nell'affermare
che la temperanza consiste nel dominio delle passioni e dei piaceri. Ma non c'è
nessun piacere più intenso dell'Amore e quindi se tutti gli altri sono meno
intensi, sono inferiori a lui che, perciò, trionfa e ha il dominio sulle passioni
e sui piaceri e, come tale, è in sommo grado, temperante. Per quanto riguarda
la forza, ad Amore ‹neanche Marte può stargli a fronte›. Non è, infatti, Marte
che conquista Amore, ma Amore che seduce Marte, amore di Venere a quanto si
dice; e chi possiede è più forte di chi si lascia possedere: quindi, vincendo
chi è più forte degli altri, egli è il più forte di tutti. Della giustizia,
quindi, della temperanza e della fortezza del dio, s'è già detto; resta ora da
dire della sua sapienza: per quanto è possibile, bisogna cercare di non
tralasciare nulla. Intanto, per prima cosa per rendere onore alla nostra arte,
come Eressimaco ha fatto per la sua, dirò che questo dio è poeta cosi sapiente
da far diventare tali anche gli altri; in effetti, ognuno diventa poeta se è
toccato da Amore, anche se non ha mai avuto prima a che fare con le Muse. Da
qui possiamo trarre la conferma che Amore, in generale, è buon poeta in ogni
genere di produzione artistica. Infatti, ciò che uno non ha e non conosce, non
può certo darlo, né insegnarlo a nessuno. E, infatti, chi è che vorrà
contestare che la creazione di tutti gli esseri viventi non avvenga per la
sapienza d'Amore che genera e fa crescere tutte le creature? E, inoltre,
nell'attività artistica non sappiamo forse che chi ha per maestro questo dio
diviene famoso e illustre, chi invece non è toccato da Amore resta oscuro?
L'abilità nel tiro dell'arco, la sapienza nella medicina, l'arte profetica,
Apollo le ha scoperte sotto l'impulso del desiderio e dell'amore, così che anch'egli
può dirsi discepolo di questo dio, come le Muse per le loro arti, Efesto per
l'arte di forgiare metalli, Minerva per quella del tessere e Giove, infine, per
quella di governare sugli dei e sugli uomini. Fu cosi che tutte le questioni
tra gli dei si appianarono, da quando Amore comparve in mezzo a loro, si
capisce, Amore della bellezza, perché delle cose brutte non c'è amore; mentre,
come ho detto, prima d'allora, molte e orribili cose, a quanto si dice,
accadevano tra gli dei, perché regnava Necessità. Ma dopo che nacque questo
dio, si amarono le cose belle e ne venne per gli dei e per gli uomini
abbondanza di beni. Così, Fedro, mi sembra proprio che Amore, bellissimo e
buonissimo com'è, rechi anche agli altri bellezza e bontà. Quasi quasi mi vien
da dire in versi quello che fa, per esempio così: pace agli uomini reca, calma
sul mare tregua ai venti e, nel dolore, il sonno. XIX 27
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Egli ci
libera dal timore di essere estranei a noi stessi, ci dà un senso di calda
intimità, ci invita a partecipare a riunioni come questa, a feste, a danze, a
sacrifici di cui diventa un po' l'auspice, assicura la benevolenza, allontana
ogni rancore, largo in favori, incapace di malvagità, benigno, buono, esempio
ai saggi, ammirato dagli dei, invidiato dagli infelici, posseduto dai
fortunati, padre della Delizia, dell'Eleganza, del Fasto, della Grazia, del
Desiderio, della Bramosia, sollecito verso i buoni, incurante dei malvagi,
nelle fatiche, nelle paure, nelle passioni, nelle conversazioni, è guida,
guerriero, compagno di lotta, salvezza provvidenziale, ornamento di tutti gli
dei e di tutti gli uomini, duce meraviglioso e perfetto che ognuno deve seguire
e celebrare con inni degni di lui, partecipando al suo canto col quale egli
ammalia il cuore degli uomini e degli dei. Questo, Fedro, il mio discorso in
omaggio al dio, svolto un po' celiando, un po' con ben dosata gravità, secondo
le mie capacità.» 28 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org Quando Agatone ebbe finito di parlare, raccontò
Aristodemo, ci fu uno scroscio di applausi da parte di tutti i presenti che
riconobbero come il discorso del giovane fosse stato degno di lui e del dio. E,
allora, Socrate volgendosi ad Eressimaco: «E così, figlio di Acumeno, ti sembra
ancora fuori posto il mio timore di prima o non ho forse previsto giusto, poco
fa, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato benissimo e che io mi sarei
trovato in un bell'imbarazzo?» «Per il primo punto,» rispose Eressimaco, «ti do
anche ragione, cioè quando dici di aver previsto che Agatone avrebbe parlato
bene, ma che tu, poi, ti trovi nell'imbarazzo questo proprio non lo credo.» «Ma
come faccio a non esserlo, mio caro, e come me chiunque altro dovesse parlare dopo
un discorso così bello e così interessante? Certo in qualche parte non è stato
stupendo come nel resto, ma verso la fine chi non sarebbe rimasto sbalordito di
fronte a tanta bellezza di vocaboli e di espressioni? Quasi quasi, pensando che
non sarei mai stato capace di dire qualcosa che solo si avvicinasse a tanta
bellezza, stavo per fuggirmene dalla vergogna. Perché il suo discorso m'ha
fatto venire in mente Gorgia, tanto da farmi sentire nella stessa situazione di
cui parla Omero, temevo proprio, cioè, che alla fine Agatone con il suo
discorso, gettasse sul mio la testa di Gorgia, di quel formidabile oratore,
togliendomi l'uso della favella e facendomi diventare di pietra. E ho capito,
allora, di essere stato proprio un ingenuo quando ho accettato di celebrare,
insieme a voi, Amore, dicendo che ero un, esperto su questo argomento, mentre
invece, e me ne accorgo adesso, non sapevo un bel niente, persino come si fa un
elogio qualunque. Da quell'ingenuo che sono credevo che nel fare l'elogio di
chicchessia o di qualcosa si dovesse dire la verità e che questa era la cosa
fondamentale; poi pensavo che bisognasse scegliere, tra le cose vere, le più
belle e disporle nel modo migliore; ed ero tutto contento del fatto mio,
sicurissimo che avrei fatto un figurone dato che conoscevo esattamente il modo
di imbastire un elogio. E, invece, a quanto pare, non è così che si fa un
bell'elogio: bisogna al contrario fare le lodi più sperticate e più belle,
corrispondano o meno al vero: si vede che eravamo d'accordo di lodare Amore,
così, per burla, non di farne l'elogio seriamente. Ed è per questo, credo, che
voi tirate in ballo ogni sorta di argomenti e li affibbiate ad Amore e
affermate che egli è questo e quello ed è la causa di un sacco di cose in modo
che appaia bellissimo e perfettissimo ma, è chiaro, a chi non lo conosce, non a
quelli che ne sanno qualcosa. Sfido io che, così, il bel panegirico è presto
fatto. Ma io non conoscevo un simile sistema di far gli elogi e proprio per
questo fui d'accordo con voi di pronunciarne uno anche io, seguendo il mio
turno: la lingua lo promise, non il cervello. E, allora, statevi bene, perché
io un elogio con questo sistema non ve lo faccio, è più forte di me. La verità,
invece, se volete, eccomi qua, pronto a dirvela, a modo mio, senza far gare con
nessuno perché non ho proprio voglia di farmi ridere dietro. Vedi tu, quindi,
Fedro se è proprio necessario un discorso di questo genere e sentire come
veramente stanno le cose, a proposito dell'Amore, con quei termini e con quello
stile poi che lì per lì mi passeranno per la mente.» Ma Fedro e gli altri, mi
riferì Aristodemo, lo invitarono a parlare come volesse. «E va bene, Fedro,
però lasciami prima fare una piccola domanda ad Agatone, perché voglio mettermi
un po' XX 29 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org d'accordo con lui e poi parlerò.» «Ma figurati,» commentò
Fedro, «fa pure.» E allora Socrate cominciò presso a poco così:
30 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org
«Dunque, mio caro Agatone, m'è parso proprio buono l'inizio del tuo discorso
quando hai detto che prima di tutto bisogna esporre quale sia la natura d'Amore
e poi passare alle sue opere; un esordio che mi è proprio piaciuto. Ma ora,
dato che hai così magnificamente parlato su tutto quel che riguarda la natura
d'Amore, dimmi una cosa: Amore, è amore di qualche cosa o amore di nulla? Bada
che non ti chiedo se amore per una madre o per un padre (sarebbe ridicolo
chiedere se Amore sia amore verso la madre o il padre), ma come se ti chiedessi
a proposito del padre: il padre è padre di qualcuno o no? tu, certo, mi
risponderesti, se volessi darmi una risposta appropriata, che il padre deve
essere necessariamente padre di un figlio o di una figlia, non ti pare?» «Ah,
certamente,» ammise Agatone. «E la stessa cosa è per una madre?» Era d'accordo
anche in questo. «E rispondimi ancora,» proseguì Socrate, «a una piccola cosa
per capire meglio dove voglio arrivare: se ti chiedessi: e allora, un fratello,
come tale, è fratello di qualcuno?» «Sicuro che lo è.» «Fratello di un fratello
o di una sorella?» «D'accordo.» «Prova a dire la stessa cosa a proposito di
Amore: Amore è amore di qualcosa o amore di nulla?» «Certo amore di qualcosa.»
«Ebbene,» riprese Socrate, «questo tientelo per te bene a mente e dimmi,
invece: Amore desidera o meno ciò di cui è amore?» «Certo,» rispose. «E quel
che egli desidera e ama, l'ama e lo desidera perché lo possiede o proprio
perché, invece, gli manca?» «Probabilmente perché non lo possiede,» rispose. «Sta
attento,» insisté Socrate, «che non si tratta di probabilità, ma è
necessariamente logico che si desidera quello che non si possiede; quando si ha
una cosa, invece, non la si desidera affatto. Di qui non si scappa ed io ne
sono assolutamente convinto, tu no, invece?» «Ah, anch'io lo sono,» fece. «Ben
detto. Ed effettivamente uno che lo è già potrebbe desiderare di essere grande?
E essere forte uno che è già tale?» «Dopo quel che s'è convenuto, è
impossibile.» «Effettivamente, non può essere privo di queste qualità chi le ha
già.» «È chiaro.» «Eppure,» osservò Socrate, «se uno che è forte, volesse esser
forte o se è veloce, volesse essere veloce o, ancora, se è sano, volesse esser
sano, dato che qualcuno potrebbe pensare, di fronte a un esempio simile o a casi
del genere, che vi siano persone che pur possedendo tutte queste qualità,
tuttavia le desiderano sempre (ti sto dicendo questo per non lasciarci trarre
in inganno); ebbene, Agatone, se ci pensi, costoro che al momento posseggono
queste qualità, è inevitabile che le abbiano, lo vogliano o meno, e se le
posseggono già, come possono desiderarle? Ma se uno dicesse: ‹lo che son sano
voglio essere sano o, pur essendo già ricco, voglio essere ricco e desidero
questo che già posseggo,› gli potremmo rispondere: ‹Tu, caro mio, che hai già
ricchezze, salute, forza, vuoi continuarle ad avere anche per l'avvenire,
giacché, per il momento, tu voglia o non voglia, già le possiedi; pensa un po'
se, quando dici che desideri le cose che hai, tu non voglia dire, invece, semplicemente,
che desideri di possedere anche per l'avvenire quello che oggi già possiedi.›
Credi che non sarebbe d'accordo?» E Aristodemo mi riferì che Agatone lo ammise.
Socrate allora proseguì: «E desiderare che per l'avvenire ci siano preservate
le cose che noi già possediamo oggi, non vuol forse dire amare quel che ancora
non si possiede o di cui tuttora non si dispone?» «Certo,» ammise. «E quindi,
se Tizio o Caio desiderano qualcosa, sarà sempre ciò di cui ancora non
XXI 31 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org dispongono, che ancora non hanno o quelli che essi stessi
non sono o di cui si sentono privi; non è tutto qui il loro desiderio e il loro
amore?» «Senza dubbio,» fece. «Bene, ricapitoliamo, allora, quanto s'è convenuto.
Amore, prima di tutto è amore di qualcosa e, in secondo luogo, di ciò di cui si
è privi?» «Sì, sempre.» «E adesso ricordati quello che hai detto poco fa, che
cioè l'Amore tende a qualcosa. Se credi cercherò io di ricordartelo: se non
sbaglio, tu hai detto, su per giù, che le questioni tra gli dei s'aggiustarono
grazie all'Amore del bello e che per le cose brutte non c'è amore; non è questo
che hai detto?» «Sì, questo,» ammise Agatone. «E l'hai detto molto
opportunamente, mio caro,» riprese Socrate; «e se le cose stanno così, Amore,
che altro è se non amore del bello e non del brutto?» «D'accordo.» «Ma non
abbiam detto che si ama ciò di cui si è privi, ciò che non si ha?» «Sì,» fece.
«Dunque, l'Amore, non ha la bellezza, ne è privo.» «Per forza.» «E allora? Chi
è privo di bellezza, chi non ne ha, tu lo chiami bello?» «Affatto.» «Se le cose
stanno così, tu sei sempre del parere che Amore sia bello?» «Temo proprio,
Socrate, di non capir più niente di quel che ho detto,» esclamò Agatone.
«Eppure hai parlato bene, Agatone,» incalzò Socrate. «Ma dimmi un'altra
cosetta: quello che è buono, secondo te, non è anche bello?» «Per me sì.» «Se,
dunque, Amore non ha la bellezza e se quello che è bello è anche buono, egli
sarà anche privo di bontà.» «Io non sono in grado di contraddirti, Socrate e
quindi sia pure come tu dici.» «È la verità, Agatone carissimo, e tu non puoi
contestarla; Socrate, invece, sì, lo puoi contraddire e la cosa non è per
niente difficile.» 32 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «Ma sì, via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò,
piuttosto, quello che sull'Amore, mi disse un giorno una donna di Mantinea,
Diotima, molto dotta sull'argomento e su un'infinità di altre questioni.
Figuratevi che una volta, con i sacrifici che fece fare agli ateniesi, prima
della peste, riuscì a ritardare l'epidemia di dieci anni. Fu lei a erudirmi
nelle questioni d'amore e quindi, partendo dalle conclusioni che Agatone ed io
abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come posso, a parole mie, il discorso
che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu dicevi, Agatone, bisogna definire
prima chi sia Amore, quale la sua natura e poi le sue opere. Ora io penso che
la cosa più facile per me, sia quella di seguire lo stesso metodo che usò
quella straniera quando discusse con me. Anch'io, infatti, le dicevo un po' le
stesse cose che ora mi ha ripetuto Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che
è amore di cose belle ed ella cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti,
precisamente, che io ho usati ora con costui, cioè che Amore non è né bello
(per usare le mie parole) né buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima?
Allora Amore è brutto e malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?»
fece lei. «Credi forse che ciò che non è bello debba necessariamente essere
brutto?» «Sicuro, io sì.» «E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante?
Ma non ti accorgi che c'è sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza?» «E
quale?» «Avere un'opinione giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione;
non sai,» fece «che questo non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa
dare una spiegazione?), ma non è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe
se coglie nel vero?). Insomma, la retta opinione è qualcosa di simile, una via
di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io.
«E quindi non insistere a credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti
i costi, brutto e ciò che non è buono, debba esser malvagio. E così anche a
proposito di Amore, visto che anche tu sei d'accordo che non è buono né bello,
non pensare che debba essere malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra
questi due estremi.» «Eppure,» obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio
potente.» «Tutti chi?» ribatté lei, «quelli che non sanno o anche quelli che
sanno?» «Tutti quanti.» «Ma come fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece
lei, ridendo, «se affermano che non è nemmeno un dio?» «E chi sono questi?»
«Uno, intanto, sei tu, l'altra sono io.» «Ma come fai a dir questo?» «Semplice.
E tu, infatti, rispondimi: non affermi che gli dei son tutti beati e belli?
avresti il coraggio di dire che qualcuno non è bello o non è beato?» «Santo
cielo, io no,» risposi. «E beati, secondo te, non sono quelli che hanno bontà e
bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che Amore desidera le cose buone e
belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.» «E, allora, come può essere un
dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no, assolutamente.» «Vedi, dunque,»
concluse, «che anche tu affermi che Amore non è un dio.» XXII
33 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ma,
allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente affatto.»
«Ma allora?» «Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale e
l'immortale.» «E cioè, Diotima?» «Un demone possente, Socrate, che come tutti i
demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello
di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e,
agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel
suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli
altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta
l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i
sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la
magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli
parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il sonno;
e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende d'altro,
esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è che un
manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo padre e
sua madre,» chiesi, «chi sono?» «È, una cosa lunga,» fece, «ma te la racconterò
ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto e, tra gli
altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di pranzare,
quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il banchetto
e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il vino
infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e, mezzo
ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue
angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si
stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e
ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è,
nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto,
per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa
condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i
più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo,
vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle
strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la
miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e
buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre
pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita
dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista.
Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso
alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù
della natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così
che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e
ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar
sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla
filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né ambiscono
a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non è né
bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente;
naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello
di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli
che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?»
«Ma è XXIII 34 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che
son quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e,
tra questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e
Amore ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale,
sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto
questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è
affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu
immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire
dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama.
Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente
bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha
un altro aspetto, quale io ti ho descritto.» 35 Biblioteca
Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Ed io: «E sia,
straniera, tu parli bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini?»
«È questo che ora cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così
è nato: Amore del bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che
senso, Socrate e Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi
ama le cose belle, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventino sue,» risposi. «Ma
questa tua risposta,» mi precisò, «esige che si ponga un'altra domanda, di
questo genere, per esempio: ‹Che cosa gliene viene a chi possiede le cose
belle?›» Io risposi che, a una domanda simile, non sapevo sul momento che dire.
«E immaginiamo, allora, incalzò, che uno al posto del bello mettesse il bene e
che chiedesse: ‹Via, Socrate, chi ama il bene, ama, ma ama che cosa?›» «Che
diventi suo,» risposi. «E che cosa gliene viene a chi possiede il bene?» «A
questo,» dissi, «mi è più facile rispondere: sarà felice.» «E, infatti,
concluse, è proprio per il possesso del bene che le persone felici sono tali e
non è proprio il caso di star lì a chiedersi perché uno vuole essere felice. Mi
pare che la domanda abbia già avuto la sua risposta definitiva.» «È vero quello
che dici,» ammisi. «E allora, questo desiderio e questo amore, credi siano un
po' comuni a tutti gli uomini e che tutti desiderano sempre possedere il bene o
pensi diversamente?» «Sì, io credo proprio che siano comuni a tutti,» feci. «E,
allora, Socrate,» continuò, «come mai non diciamo che tutti quanti gli uomini
amano dato che tutti desiderano sempre le stesse cose, ma diciamo, invece, che
solo alcuni amano ed altri no?» «Anch'io me ne meraviglio,» ammisi. «E non devi
stupirtene,» riprese, «siamo noi, infatti, che prendiamo, dell'amore, soltanto
un aspetto e a questo solo diamo il nome generico di ‹amore›, mentre per il
resto usiamo altri appellativi.» «Cioè,» chiesi. «Ecco, tu sai che la poesia è creazione
ed ha un significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti per cui qualcosa
passa dal non essere all'essere, è poesia e, quindi, ogni attività creativa è
poesia e tutti i creatori sono poeti.» «È vero.» «Ma intanto,» continuò lei,
«sai che non tutti sono chiamati poeti, ma con altri nomi; di tutte le attività
creative, solo alcune e precisamente quelle che si occupano della musica e
della metrica, noi chiamiamo poesia; solo questa è poesia e poeti, solo quelli
che si dedicano a questo particolare aspetto della poesia.» «È vero,» ammisi.
«E così è anche per l'amore. In genere ogni desiderio di bene e di felicità è,
per ognuno, ‹possente e ingannevole amore›, ma mentre quelli che cercano di
realizzarlo per altre vie, come per esempio attraverso i guadagni o
l'educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che amano né che sono
amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono un particolare
tipo d'amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare, amanti.»
«Sembra proprio che tu abbia ragione,» confermai. «Eppure va in giro un certo
discorso secondo il quale gli amanti sono quelli che cercano la loro metà. La
mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per l'intero, a
meno che, mio caro, non si tratti di un bene; perché gli uomini si lascerebbero
tagliare volentieri e mani e piedi se li credessero dannosi per loro, perché io
credo che nessuno ami le cose proprie a meno che ciò che ci appartiene non sia
il bene e ciò che ci è estraneo, invece, il male; infatti, gli uomini non amano
altro che il bene. Non pare anche a te?» «Per Giove, a me sì,» ammisi. «E,
dunque, possiamo senz'altro affermare che gli uomini amano il bene?» «Sì,»
confermai. «Ebbene, XXIV 36 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org non bisogna aggiungere che essi, questo bene,
desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non solo possederlo per un momento,
ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna aggiungere,» feci. «Per
concludere, l'amore è possesso perenne del bene.» «È verissimo quello che
dici,» feci. 37 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «Ora, se questo è l'amore,» proseguì, «quando è che la
sollecitudine e lo sforzo di quelli che, in ogni modo e in ogni azione, lo
perseguono, può chiamarsi, appunto, amore? Quand'è, insomma, che questo
succede? Sai rispondere?» «Se lo sapessi, Diotima, non sarei così pieno di
meraviglia per la tua sapienza, né sarei venuto da te per imparar tutto
questo.» «E, allora, te lo dirò io: quando si concepisce nel bello, sia da
parte del corpo che da parte dello spirito.» «Bisognerebbe essere indovini,»
azzardai io, «per capire quello che dici ed io, proprio non lo sono.» «Mi
spiegherò più chiaramente,» fece. «Tutti gli uomini, Socrate, hanno in loro,
nel corpo come nell'anima, un seme fecondo e quando giungono a una certa età,
come per un bisogno naturale, desiderano produrre qualcosa; concepire nel
brutto, però, non è possibile, nel bello, invece, sì. Così l'unione dell'uomo
con la donna è procreazione ed è veramente quest'atto una cosa divina, questo
concepire e generare è veramente ciò che di immortale ha la creatura che pure
ha vita mortale. Ma tutto ciò non può avvenire nella disarmonia; e disarmonia,
rispetto a tutto ciò che è divino, è il brutto, come il bello è armonia. Quindi
la bellezza fa da Parca e da Ilitia al miracolo della vita. Per questo, quando
chi ha dentro di sé un seme fecondo, si avvicina al bello, diventa sereno,
atteggia a letizia l'animo suo e allora crea, produce; quando, invece, s'accosta
al brutto, allora, s'incupisce, si chiude in se stesso tutto afflitto, si
ritrae, si ravvolge e non genera ma resta col suo seme fecondo e ne soffre. Di
qui, nella creatura feconda e già ricca, sorge un intenso desiderio per tutto
ciò che è bello perché il bello soltanto libera chi lo possiede da atroci
doglie. Infatti, Socrate,» concluse, «Amore non è amore del bello, come tu
credi.» «Ma, allora, cos'è?» «produrre e creare nel bello.» «E sia,» ammisi.
«Sicuro,» confermò lei. «E perché questo generare? Perché generare è quanto di
sempre rinascente e immortale vi possa essere in una creatura mortale. E
l'immortalità è naturale che si desideri come il bene, almeno da quel che
abbiamo convenuto se è vero che amore è possesso perenne del bene; ne consegue,
inoltre, da tutto questo discorso che l'amore è amore di immortalità.»
XXV 38 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org Queste cose ella mi insegnava, quando indugiava a
parlarmi di questioni d'amore e, un giorno, mi chiese: «Quale pensi, Socrate,
sia la causa di tutto questo amore, questo desiderio? Non vedi in che terribile
stato son tutti gli animali, sia quelli che camminano sulla terra che quelli
che volano nel cielo, quando son presi dal desiderio di generare, malati tutti
d'amore, prima per il desiderio d'accoppiarsi tra loro, poi per la cura e per
l'allevamento dei loro nati, e son pronti a combattere per essi, perfino i più
deboli contro i più forti e a dare la vita oppure a lasciarsi morire di fame
per nutrirli e a far qualunque altra cosa. Gli uomini, si può dire, che
facciano tutto questo perché dotati di ragione ma, negli animali, donde
proviene questa disposizione all'amore? Sai dirmelo?» E io ancora ad ammettere
di non saperlo. «E credi,» continuò ella, «allora di diventare un esperto nelle
questioni d'amore se non sai nemmeno questo?» «Ma proprio per questo, Diotima,
come t'ho già detto, io son qui, perché so che ho bisogno di maestri. Dimmela
tu, dunque, la causa di queste cose e di tutto ciò che riguarda l'amore.» «Orbene,
se tu sei convinto che l'amore, per natura, tende a ciò su cui più volte s'è
discusso, non devi meravigliarti; anche ora vale il discorso di prima che cioè
la natura mortale tende, sempre, per quanto le sia concesso, di essere
immortale. E le è possibile in un modo soltanto, attraverso la procreazione,
per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto del vecchio, il che succede
anche nella vita di ogni creatura, quando si dice che resta sempre la stessa;
si dice, per esempio, che uno è sempre la stessa persona, da quando è bambino
fino a che è vecchio; in effetti, si dirà che è sempre lo stesso individuo,
benché in lui molte cose si mutino; ma si rinnova continuamente, perdendo
sempre qualcosa, nei capelli, nelle sue ossa, nel suo sangue, insomma in tutto
il suo corpo. E non solo nel corpo, ma anche nell'animo: sentimenti, abitudini,
modo di pensare, desideri, piaceri, dolori, timori, ognuna di queste cose non
resta sempre la stessa in un individuo, ma si rinnova e poi muore. Ma quel che
è ancora più straordinario è che anche le nostre cognizioni non solo nascono e
periscono e quindi noi non siamo sempre gli stessi nemmeno per quel che
riguarda il nostro sapere, ma ciascuna, presa in se stessa, segue, anch'essa
sempre la stessa sorte. Infatti quel che si dice esercitarsi nello studio
presuppone che qualche cognizione possa sfuggire; dimenticare, infatti, vuol
dir perdita di cognizioni, l'esercizio nello studio, invece, suscita un nuovo
ricordo al posto di quel che s'è perduto e salva il sapere in modo che esso
appaia sempre eguale. Del resto è in questo modo che si perpetua tutto ciò che
è mortale, non col rimanere sempre e immutabilmente se stesso, come ciò che è
divino, ma lasciando - ciò che invecchia e vien meno - qualcosa di nuovo al suo
posto in tutto simile ad esso. Ecco, Socrate,» concluse, «in che modo tutto ciò
che è mortale, sia esso corpo od altro, ha la possibilità di partecipare
dell'immortalità; diversamente non c'è altro mezzo. Non stupirti, quindi, se
ogni creatura, per legge naturale, cura e protegge il suo seme, perché in
tutti, questo zelo e questo amore nascono dal desiderio
dell'immortalità.» XXVI 39 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org Ed io sentendola parlare così, tutto stupito,
le chiesi: «Ma sapientissima Diotima, sono proprio vere queste cose?» Ed ella
con un fare tipicamente cattedratico: «Persuaditi pure, Socrate, che è proprio
così; basta che tu faccia caso al desiderio di onori che hanno gli uomini; se
tu non riflettessi a quel che ho detto, ti meraviglieresti della loro follia,
considerando quanto grande è il loro desiderio di diventar famosi e acquistar
gloria immortale per l'eternità e come per questo siano disposti a correre
tutti i rischi, più che per i loro figli e sperperare ricchezze, sopportare
fatiche, sacrificare perfino la loro vita. Credi proprio che Alcesti sarebbe
morta per Admeto o Achille per Patroclo o il vostro Codro per conservare il
regno ai figli, se essi non avessero creduto che sarebbe rimasta immortale la
loro memoria, quale oggi noi la serbiamo? Assolutamente,» disse. «Invece, credo
che ognuno faccia di tutto per ottenere merito imperituro le fama gloriosa (e
questo quanto più si è migliori) affascinato com'è dall'immortalità. E così
quelli che han fecondo il corpo si volgono essenzialmente alle donne e il loro
modo d'amore si risolve nel generare figli e così procurarsi secondo loro,
immortalità, memoria e felicità per tutto il tempo a venire. Quelli, invece,
che han feconda l'anima (e ve ne sono fecondi spiritualmente più di quanto non
lo siano nel corpo), di una fecondità, beninteso che si addice all'anima, ma
quale? la saggezza e ogni altra specie di virtù,» diceva, «di cui tutti i poeti
sono gli artefici, insieme a quegli artigiani che hanno il nome di inventori;
la più alta e più bella forma di saggezza è quella relativa all'ordinamento
dello Stato e di ogni organismo sociale, quella che prende il nome di prudenza
e di giustizia. Dunque, quando uno di quelli, quasi esseri divini, fin da
giovane, ha l'animo fecondo di tali cose e quando, giunto all'età giusta,
desidera creare e produrre, io credo che anche lui vada alla ricerca del bello
in cui generare; perché nel brutto non lo farà mai. Quindi, fecondo com'è,
sentirà maggiore attrazione per le belle sembianze che per le brutte,
figuriamoci poi se, in più, incontra un'anima bella e gentile; quando si
rallegra di questo felice connubio, accanto a una simile creatura egli sentirà
tutto un fervore di ammaestramenti sulla virtù e sul come un uomo per bene
debba comportarsi, iniziando, così, la sua opera di educatore. Infatti, penso
che a contatto con una bella creatura, convivendole accanto, egli esprima e dia
alla luce ciò che da tempo custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le
stia lontano, sempre la porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è
nato dalla loro unione; e tra loro nasce un'intimità, un legame molto più
profondo di quello che lega i genitori ai figli, un affetto più intenso dato
che hanno in comune figlioli più belli e immortali. Ognuno preferirebbe figli
simili piuttosto che creature umane e guardando a Omero o a Esiodo o agli altri
grandi poeti non può non provare invidia pensando quale progenie, immortale
essa stessa, essi hanno lasciato, che ha loro assicurato memoria e gloria
eterna o, se tu vuoi, diceva, figli come quelli che Licurgo lasciò a Sparta, a
salvezza di Sparta o meglio ancora di tutta la Grecia; così presso di voi è
onorato Solone per avervi dato le leggi e così altrove, altri grandi uomini,
sia in XXVII 40 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org Grecia che nei paesi stranieri, che hanno compiuto molte
e belle opere, realizzando ogni sorta di virtù. Per questi loro fieli sono già
stati tributati ad essi molti onori, il che mai nessuno s'ebbe per quelli di
carne e di ossa.» 41 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ebbene, Socrate, io penso,» continuò, «che
anche tu potresti essere iniziato alle cose d'Amore, ma fin qui; a un grado più
alto, a quello contemplativo, cui si giunge appunto passando attraverso questi
stadi, sempre che si proceda sulla via giusta, non credo tu sia adatto.
Tuttavia te ne parlerò egualmente e farò del mio meglio,» disse; «tu cerca,
intanto, di seguirmi come puoi. Dunque,» incominciò a dire, «è necessario,
prima di tutto che chi vuol tendere a questo fine, debba, fin da giovane,
avvicinarsi alla bellezza fisica e, sin dall'inizio, se chi lo guida lo dirige
bene, amare una sola persona e ad essa rivolgere i migliori discorsi;
successivamente dovrà pur rendersi conto che la bellezza che alberga nel corpo
di una persona, è sorella di quella che può esservi in ogni altra e che quindi
se bisogna ricercare quella bellezza che è insita nelle forme visibili, sarebbe
sciocco pensare che essa non sia identica e uguale per tutti i corpi; convinto
di questo deve, allora, sentire trasporto per tutti quelli che hanno belle
sembianze e frenare un po' la sua passione nei riguardi di una sola persona,
riconoscendo come ciò sia meschino e mediocre. Ma, infine, deve ben comprendere
che la bellezza spirituale ha pregi assai maggiori di quella fisica, di modo
che se dovesse incontrare una creatura dall'anima bella ma dal corpo non
florido, se ne contenti egualmente ed ugualmente se ne innamori e le mostri
sollecitudine e sia l'autore di discorsi tali che rendano migliori i giovani,
per cogliere poi, da qui, la bellezza che è nelle azioni e nelle istituzioni
umane e comprendere come essa sia, ovunque, sempre se stessa e persuadersi come
la bellezza fisica sia ben piccola cosa. Dopo le attività umane, si rivolga
alla scienza per conoscerne la bellezza e ammirarne l'ampio dominio sul quale
ormai ella si spande: così non sarà più come uno schiavo, preso d'amore per un
sol giovinetto o per un solo uomo o per una sola attività, non sarà più succube
inetto e meschino ma, rivolto allo sterminato oceano della bellezza e
contemplandolo, potrà dar vita a molti e bei discorsi, a splendidi pensieri
concepiti nell'amore infinito per la sapienza finché egli stesso, rinvigorito e
arricchito, non riuscirà a scorgere che una scienza unica che ha per oggetto la
stessa bellezza. Ma cerca, ora,» continuò, «più che puoi, di farmi
attenzione. XXVIII 42 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org «Chi è stato, via via, guidato fin qui nelle
questioni d'amore attraverso la contemplazione delle cose belle, quando sarà
giunto al termine di questa iniziazione, scorgerà, Socrate, a un tratto, una
meravigliosa bellezza, quella stessa che era un po' la ragione di ogni sua
precedente fatica, una bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine,
che non cresce né si consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un
altro brutta o che a volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e
brutta da un altro, né bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per
altri no, né, questa bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né
come qualcosa che possa riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come
discorso o come dottrina, né come quella che possa esistere in qualche altra
cosa, in altri esseri viventi, per esempio, o nella terra o nell'aria o
altrove, ma quale essa è, in sé e per sé, sempre uniforme e mentre tutte le
altre cose belle che di quella partecipano, nascono e periscono, essa non ha
alterazione di sorta, in più o in meno, non subisce mutamento. E così, quando
sollevandosi dalle cose terrene, in virtù anche dell'amore che si porta ai
giovinetti, uno comincia a scorgere questa bellezza, allora potrà dire di
essere vicino alla meta. Infatti questo è il retto cammino per procedere da
soli o insieme a una guida verso le questioni d'amore, cominciare, cioè, dalle
cose belle di quaggiù e, avendo come fine ultimo questa bellezza, innalzarsi
continuamente, come su una scala, da uno a due, da due fino a tutti i bei corpi
e da questi alle belle occupazioni e poi alle belle scienze, finché non si
giunga a quella scienza che di null'altro è scienza che della stessa bellezza e
finché non si conosca, giungendo, così, alla meta, il Bello in sé. Questo, caro
Socrate,» diceva la straniera di Mantinea, «è il momento della vita che più di
ogni altro, per un uomo, val la pena di vivere: quando giunge alla
contemplazione della Bellezza in sé. Se una volta sola tu riuscirai a vederla,
oh, ti sembrerà assai più preziosa dell'oro o di una veste o degli stessi bei
fanciulli e giovinetti che ora guardi non senza un palpito e per i quali, tu e
molti altri, se fosse possibile, rimarreste anche senza mangiare e senza bere,
pur di poterveli sempre contemplare e stare in loro compagnia. Cosa
succederebbe allora,» continuava a dire, «se uno riuscisse a vedere la Bellezza
in sé, in tutta la sua adamantina purezza e non già quella offuscata dalla
carne, dai colori, da tutte le altre vanità terrene, se gli riuscisse, insomma,
di scoprire la Bellezza in sé, divina e uniforme? Credi forse che sarebbe
miserabile la vita di quest'uomo che fissasse quel punto, lassù e lo
contemplasse come va contemplato, congiunto con esso? Ed è soltanto in quel
punto,» continuava, «contemplando la bellezza con quella facoltà che la rende
visibile, che egli potrà dar vita non a parvenze di virtù, dato che non è a una
falsa immagine di bellezza che egli si è accostato, ma a una virtù vera, per il
fatto che egli è nella verità; non pensi, del resto, che avendo dato vita alla
virtù vera e avendola continuamente alimentata, costui potrà diventare caro
agli dei ed essere anch'egli immortale, se mai altro uomo lo è stato?» Queste
cose, Fedro e anche tutti voi, Diotima mi ha detto ed io ne sono rimasto
persuaso e come tale, quindi, cerco ora di persuadere gli altri che per il
conseguimento di tanto bene, non è facile che l'uomo trovi chi possa meglio
soccorrerlo dell'Amore. Per questo io affermo che ogni uomo deve onorare Amore,
come io stesso faccio, XXIX 43 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org esercitandomi nelle sue discipline
ed esorto gli altri a fare altrettanto ed ora e sempre esalto la potenza e la
forza d'Amore, nel modo che ne sono capace. Ed ora, Fedro, questo discorso
giudicalo, se credi, come un elogio d'Amore, altrimenti definiscilo pure come
meglio ti piace.» 44 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org Quando Socrate ebbe concluso, continuò a
riferirmi Aristodemo, e mentre tutti ne elogiavano il discorso, Aristofane
stava per intervenire, perché Socrate aveva a un certo punto, fatto
un'allusione sul suo conto a proposito di una certa teoria. Ma ecco che, a un
tratto, si sentì picchiare alla porta dell'atrio e, poi, un gran vociare, come
di gente allegra e la voce di una suonatrice di flauto. «E, allora, ragazzi,
non correte a vedere?» esclamò Agatone ai servi; «se è gente di casa, fatela
pure entrare, altrimenti dite che abbiam già finito di bere e stiamo
riposando.» Dopo un po' si udi nell'atrio la voce di Alcibiade, ubriaco
fradicio, che urlava a squarciagola chiedendo dove fosse Agatone e che lo
conducessero da lui. Egli, infatti, comparve sulla soglia, sostenuto dalla
suonatrice di flauto e da alcuni della compagnia e s'avanzò verso i convitati,
incoronato da una folta ghirlanda di edera e di viole e con la testa piena di
nastri. «Salve, amici,» esclamò, «lo volete con voi, a bere, un uomo già
completamente ubriaco? Oppure possiamo soltanto mettere questa corona in testa
ad Agatone, dato che siamo venuti per questo e poi filarcela subito? Ieri non
mi è stato possibile venire e così eccomi qua ora, con questi nastri in testa,
per passarli su quella di uno che, senza offesa per nessuno, è il più sapiente
e il più bello di tutti. Ma voi ridete perché sono ubriaco? E ridete pure,
tanto lo so; ma, piuttosto, ditemi, posso o non posso entrare? Berrete con me,
o no?» Tutti allora si misero ad applaudirlo e gli dissero di entrare e di
prender posto in mezzo a loro. Anche Agatone lo invita ed egli si fa avanti sorretto
dai suoi amici e, togliendosi dal capo i nastri, fa le mosse di incoronarlo
senza accorgersi che Socrate era proprio lì, sotto i suoi occhi, al punto che,
quando egli si pose a sedere in mezzo a loro, questi dovette scostarsi per
fargli posto. Non appena si fu accomodato, cominciò ad abbracciare Agatone e a
cingerlo di ghirlande. «Ragazzi,» veniva, intanto, dicendo Agatone, «slacciate
i sandali ad Alcibiade, ché si metta comodo e sia terzo tra noi due.»
«Benissimo,» approvò Alcibiade, «ma chi è questo terzo?» e così dicendo si
volse e vide Socrate; a quella vista fece un balzo: «Santi numi,» esclamò, «ma
chi è questo? Proprio Socrate? Ti sei messo qui per giocarmi ancora qualche
tiro e mi compari davanti, al tuo solito, quando meno me l'aspetto. Che sei
venuto a fare? E perché ti sei messo qui e non vicino ad Aristofane o a qualche
altro che voglia fare lo spiritoso? Ma tanto hai fatto che ti sei piazzato
vicino al più bello.» E Socrate: «Vedi un po' di difendermi tu, Agatone, perché
l'affetto di quest'uomo mi sta dando non pochi fastidi. Da quando, infatti, mi
sono legato a lui, non posso più guardare una persona di bello aspetto, né
stare un po' a conversare con nessuno perché, geloso e invidioso com'è, mi
salta su e me ne dice un sacco e poco ci manca che non mi metta le mani
addosso. Sta attento, quindi, che anche ora non me ne faccia una delle sue e
cerca di mettere un po' di pace tra noi e difendimi, se egli vuol farmi ancora
qualche sfuriata, perché comincio proprio ad aver paura delle sue manie e del
suo temperamento eccessivo.» «Niente affatto,» gridò Alcibiade, «fra te e me,
nessuna pace e di quello che hai detto faremo i conti dopo. Ora tu, Agatone,»
riprese, «dammi un po' di questi nastri, ché incoroni anche lui, questa testa
meravigliosa, in modo che non s'abbia poi a lagnare che ho cinto te di
ghirlande e lui niente, lui che nel parlare vince tutti e sempre, non una
volta sola, come te, ieri.» XXX 45 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org E così dicendo prese dei nastri e
incoronò Socrate, mettendosi, poi, comodo. 46 Biblioteca
Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E allora signori,»
esclamò quando si fu messo a suo agio, «mi sa che qui volete fare gli astemi;
non ve lo posso permettere; bisogna, invece, bere, così eravamo d'accordo. Fino
a quando non avremo preso l'avvio, i brindisi li dirigo io. Avanti, Agatone, fa
portare una bella coppa, di quelle grandi, anzi, anzi, non ce n'è bisogno;
invece, ragazzo, dà qui quel vaso per tener il vino in fresco.» Ne aveva,
infatti, intravisto uno che conteneva più di otto quartini abbondanti. Dopo
esserselo riempito, se lo scolò per primo; poi disse di riempirlo per Socrate,
soggiungendo: «Amici belli, con Socrate, però, non c'è niente da fare: più gli
se ne versa e più ne beve e non c'è caso che si ubriachi.» Infatti, appena il
servo versò, Socrate prese a bere. Ma Eressimaco, intervenendo. «Ma così che
facciamo, Alcibiade? Vogliamo proprio starcene coi bicchieri in mano, senza
dire una parola, senza cantare un po', vogliamo proprio darci sotto come tanti
assetati?» «Salve, mio caro Eressimaco,» esclamò allora Alcibiade, «ottimo
figlio di ottimo e assennatissimo padre.» «Salute anche a te,» rispose
Eressimaco, «e, allora, che facciamo?» «Ai tuoi ordini, siamo qui per
obbedirti: poiché un medico regge da solo il confronto con molti. Perciò,
comanda quello che vuoi.» «Stammi a sentire, allora,» fece Eressimaco; «prima
che tu venissi si era stabilito che ognuno di noi, partendo da destra, facesse
un discorso in lode di Amore, come meglio ne fosse capace. Noi abbiamo già
tutti quanti parlato, tu, invece, no e dato che hai bevuto, è giusto che ora
tocchi a te; dopo, potrai proporre a Socrate quello che vorrai e lui, a sua
volta, passerà l'invito al compagno che è alla sua destra e così gli altri.»
«Oh, un'ottima idea la tua, Eressimaco,» fece Alcibiade, «solo che non puoi
mettere a confronto il discorso di un ubriaco con quello di gente che s'è
mantenuta sobria; e poi, mio caro, tu ci credi a quello che Socrate ha detto un
momento fa? Non lo sai che è invece, tutto il contrario? Questo qui, se io mi
metto in sua presenza a fare le lodi di qualcuno, uomo o dio che sia, solo per
il fatto che non si tratta di lui, mica me le risparmia le legnate.» «Ma la
vuoi piantare?» fece Socrate. «Per mille tempeste,» rimbeccò Alcibiade, «è
inutile che protesti; in tua presenza io non posso lodare nessun altro.» «E
allora, fa così,» intervenne Eressimaco; «se vuoi, loda Socrate.» «Come dici?»
fece Alcibiade. «Vuoi proprio, Eressimaco, che io me la pigli con questo tipo e
mi vendichi davanti a voi?» «Ma che ti salta in testa,» intervenne Socrate, «di
prendermi in giro con la scusa dell'elogio? Ma che intenzioni hai?» «Dirò la
verità e tu vedi se ti garba.» «Allora, sicuro, la verità te la concedo, anzi
voglio che tu la dica.» «Eccomi subito a te,» fece Alcibiade, «e tu, intanto fa
una cosa: se io non dico il vero, interrompimi se vuoi e dì pure che sto
mentendo, per quanto io, di bugie, non ho intenzioni di dirne. Se, poi, nel
riferire i fatti, io non andrò per ordine, non meravigliarti, perché non è
certo facile, nello stato in cui sono, fare l'elenco ordinato e completo di
tutte le tue stranezze.» XXXI 47 Biblioteca Elettronica
Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Ebbene, signori, io, Socrate
comincerò a lodarlo così, per immagini. Lui, crederà che io voglia continuar
nello scherzo e invece, le immagini mi serviranno per precisare la verità, non
per scherzare. Comincio col dire, infatti, che egli somiglia a quei sileni che si
vedono nelle botteghe degli scultori, che hanno in mano zampogne e flauti,
fatti in modo che, aprendosi a metà, mostrano, all'interno, immagini di
divinità; e soggiungo anche che somiglia al satiro Marsia. Eh, sì, Socrate, ci
somigli proprio, almeno nell'aspetto, tu stesso non puoi negarlo; e sta a
sentire come poi ci somigli anche nel resto. Non sei forse petulante, e ti
posso portare i testimoni se non vuoi ammetterlo. E non sei un suonatore di
flauto? E come assai più portentoso di Marsia. Lui aveva bisogno dello
strumento per incantare gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve
fare lo stesso chi vuol suonare le sue melodie; (quelle che suonava Olimpo,
infatti, erano di Marsia, che gliele aveva insegnate). Insomma le sue melodie,
sia che le suoni un flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono
le sole a commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come
sono e di iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che
senza strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi,
quando ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo
mondo, di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio
niente di niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che
riferisce i tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano,
uomini, donne o giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me,
signori, se non temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento,
quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a parlare.
Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello
dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli
altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando
invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che
anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo
l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma
per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se
non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che
tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi
di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni. Egli,
inevitabilmente, mi farebbe persuaso delle mie molte deficienze e che, perciò,
invece, di badare un po' a me stesso, m'intrigo dei fatti degli Ateniesi. E
così, mio malgrado, io mi tappo le orecchie, come se fossi in mezzo alle sirene
e scappo via perché non voglio mica invecchiare vicino a lui. Soltanto davanti
a quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di
vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la
forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena
mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore
popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le
cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe
addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so
benissimo XXXII 48 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org che questo mi addolorerebbe assai di più e
così, con un uomo simile, non so proprio come fare. 49
Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E così,
questi sono gli effetti che io e tanti altri proviamo per le melodie che questo
satiro sa tirar fuori dal suo flauto. Ma state ancora a sentire come egli
somiglia anche nel resto a quelli cui l'ho paragonato, e quale straordinario
potere egli ha. Mettetevelo bene in testa, costui nessuno lo conosce: ma ve lo
farò conoscere io, dato che mi ci trovo. Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre
a innamorarsi dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la
testa; mica poi che capisca qualcosa, non sa proprio niente, almeno
dall'apparenza. E questo non significa essere un sileno? Altro che: lo stesso
aspetto esterno di una di quelle statuette di sileni; ma dentro, se lo aprite,
ve la immaginate, commensali miei, la saggezza che ha? E poi, dovete sapere che
a lui, non gliene importa niente se uno è bello, anzi lo tiene in così poco
conto, che non ne avete l'idea; e se uno è ricco e ha tutto quello che, secondo
la gente fa beato un uomo, egli dice che tutto questo non vale un bel niente,
anzi che noi stessi siamo addirittura delle nullità, questo ve l'assicuro io. E
per giunta passa la vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco
di tutti. Se poi fa sul serio, però e si lascia veder dentro, non so se l'avete
mai viste le bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate
così divine, così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato
e pronto a fare tutto ciò che Socrate avesse voluto. Credendo che egli
s'interessasse alla mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una
bella fortuna la mia se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da
lui tutte le cose che sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia
bellezza. Con queste intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene
da solo con lui, senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio
schiavo e rimasi solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi
fate attenzione e se dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi
solo soletto con lui ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei
discorsi che di solito un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a
tu per tu ed ero tutto contento. Invece, niente da fare ma, come al solito,
parlò con me e giunta la sera, se ne andò. Vedendo questo, lo invitai, allora,
a far ginnastica insieme a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di
concludere qualcosa. Anche lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me
e lottavamo insieme, spesso senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo
devo dire? Non ne cavai un bel niente. E quindi, visto che in questo modo non combinavo
nulla, pensai che con un uomo simile bisognasse adoperare le maniere forti,
altro che lasciar perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come
andava a finire la faccenda. E così lo invita a cena, addirittura come fa uno
spasimante quando vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò
subito; tuttavia, dopo qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne,
però, volle andarsene subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un
po' e lo lasciai andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che
finimmo di mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a
tarda notte e così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai
s'era fatto tardi e quindi lo convinsi a fermarsi. Così egli si mise a riposare
in un letto accanto al mio, lì dove aveva cenato: nella sala, nessun altro
avrebbe dormito tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi
potrei continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo XXXIII
50 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org
punto, io non vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto
(aggiungeteci pure i bambini o meno) non vi fosse la verità e poi perché mi
sembrerebbe proprio una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di
Socrate, passare sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a
questo, ancora, io mi sento come uno che è stato morso da una vipera che, a
quel che si dice, non vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono stati
anch'essi morsi, ai soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i suoi
gesti e tutte le frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io che
sono stato punto dal morso più doloroso e nella parte che più duole... al cuore
o all'anima o come vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti filosofici
che penetrano più profondamente del dente di una vipera specie quando afferrano
l'anima di un giovane non mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque
cosa... io che mi vedo dinanzi un Fedro, un Agatone, un Eressimaco, un
Pausania, un Aristodemo, un Aristofane (e bisogna anche nominarlo Socrate?) e
tanti altri, tutta gente un po' patita e fuori di sé per la filosofia... Eh,
sì, per questo, ora, voi tutti, mi starete a sentire. E mi compatirete per
quello che è accaduto allora e per quanto sto per dirvi ora. E voi, famigli e
quanti ne siete, rozzi o villani, tappatevi con grossissime porte le
orecchie. 51 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «Dunque, signori, quando la lampada fu spenta e i servi
se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì a gingillarsi ma
di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli
chiesi scuotendolo. «Nient'affatto,» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Cosa?»
«Che tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a
dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non
esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno,
dei miei amici per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più
a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far
meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle
persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla
gente ignorante se gli cedessi.» E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col
suo solito fare un po' ironico: «Mio caro Alcibiade,» rispose, «può darsi
proprio il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che
tu dici e se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare
migliore. Se è così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran
lunga superiore alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con
me, di metterci le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così
concludere, alle mie spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma,
di pigliarti una bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi
proprio di scambiare oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione,
ché tu non t'inganni nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il
fatto è che l'occhio della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce
quello del corpo e per te, ce ne vuole del tempo.» Ed io dopo averlo ascoltato:
«Per quel che mi riguarda, le cose stanno cosi ed io non ho detto nulla di
diverso da quello che penso. Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio
per te e per me.» «Così va bene,» mi rispose. «In seguito vedremo e faremo
quello che ci sembrerà meglio per tutti e due a proposito di questa faccenda e
anche per il resto.» Quanto a me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo
udito la sua risposta, come se gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo
già bell'e trafitto. E così, senza dargli la possibilità di dire una parola di
più, balzai su e gli gettai addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno)
ficcandomi, poi, sotto quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia
(sì, proprio costui, questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la
notte gli stetti disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è
vero. Ebbene, nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi
disprezzò beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di
non essere mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di
Socrate); ebbene, sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo
aver passato la notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con
mio padre o con mio fratello maggiore. XXXIV 52 Biblioteca
Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «Dopo tutto questo, ve
lo immaginate come ci rimasi. Da una parte l'idea di essere stato disprezzato,
dall'altra la mia ammirazione per le sue qualità, per la sua saggezza, per la
sua forza d'animo. Mi resi conto di aver proprio incontrato un uomo quale non
avrei immaginato, per rettitudine e per fortezza. E così non riuscii né a
pigliarmela con lui e, quindi, troncare ogni rapporto, né, d'altro canto, a
trovare il modo di conquistarlo. Sapevo benissimo che col denaro non c'era
niente da fare: era più invulnerabile d'Aiace di fronte alle frecce, ed ora
anche l'unico modo con cui pensavo di poterlo conquistare, m'era fallito. Privo
così d'argomenti, schiavo quasi di quest'uomo, come nessuno lo fu mai d'alcun
altro, gli stavo sempre dietro. Tutto questo accadde prima della campagna di
Potidea, durante la quale combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa.
Ricordo che alle fatiche era più resistente non solo di me ma di tutti quanti
gli altri; quando poi si restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso
in guerra e così ci toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli
altri non era niente al confronto della sua; quando invece c'era abbondanza, lui
era il solo a godersela veramente; e a bere, poi, vinceva tutti, non perché ci
fosse portato, ma solo quando ve lo spingevano e quello che è straordinario è
che mai nessuno ha visto Socrate ubriaco e di questo, io credo che ne avrete
anche ora una prova. Quanto poi a sopportare i rigori dell'inverno (e lì il
gelo non scherza), era addirittura straordinario. Ricordo che, una volta,
durante una gelata terribile, mentre tutti se ne stavano chiusi dentro e se
qualcuno usciva, s'infagottava fino all'inverosimile e si fasciava i piedi con
panni di feltro e pelli di pecora, lui se ne andò in giro con quel suo solito
mantelluccio che porta sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi, assai
meglio di quelli che avevano le scarpe; e i soldati lo guardavano un po' in
cagnesco credendo che, così, egli li volesse umiliare. XXXV
53 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E a
questo proposito, bisogna proprio sentire ‹quello che ancora fece e sostenne
quest'uomo animoso,› laggiù, durante la spedizione. Tutto preso non so in quali
pensieri, una volta se ne rimase in piedi, immobile a meditare, fin dal mattino
presto e, poiché non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a
restarsene tutto assorto nelle sue riflessioni. Era già mezzogiorno e i soldati
cominciarono a farci caso e a passarsi la voce, tutti stupiti che Socrate,
pensando a chissà cosa, se ne stava lì dal mattino presto. In conclusione, col
calar della sera, alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori,
all'aperto, i loro pagliericci (s'era, infatti, in estate) per dormire al
fresco ma anche per star lì un po' a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto
immobile tutta la notte. Ed egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino
e non spuntò il sole; dopo di che, fece al sole una preghiera e se ne andò. E
in battaglia, poi, se volete sentire, perché anche questo bisogna
riconoscergli. Quando ci fu quello scontro in cui i generali mi dettero una
ricompensa al valore, nessun altro mi salvò tranne costui che non volle
lasciarmi lì ferito ma riuscì a portarmi in salvo con le mie armi. Ed io,
Socrate, in quell'occasione, insistetti perché la ricompensa la dessero a te
(neanche in questo caso tu potrai riprendermi e dirmi che sto mentendo). E
poiché i generali, considerando il mio rango, volevano dare a me la ricompensa,
tu fosti più zelante di loro perché venisse a me attribuita invece che a te. E
non è finita, signori miei, perché bisognava vederlo Socrate, quando il nostro
esercito fu rotto a Delio. In quell'occasione io ero col mio cavallo, lui a
piedi, con tutte le sue armi. Tra lo scompiglio delle truppe in fuga, dunque,
egli ripiegava insieme a Lachete. Io per caso sopraggiungo e, vedendoli, grido
di farsi coraggio, assicurandoli che non li avrei abbandonati. In quella
occasione meglio che a Potidea, potetti ammirare Socrate, anche perché, a
cavallo come ero, avevo meno da temere. Prima di tutto dimostrava un controllo
superiore a quello dello stesso Lachete; secondariamente parve anche a me
quello che tu stesso, Aristofane, hai detto di lui che cioè anche là egli
camminava come qui, ‹tutto altero gettando occhiate di traverso›, tenendo
sempre sott'occhio amici e nemici, facendo capire a tutti, anche a distanza,
che se qualcuno lo avesse attaccato, egli era il tipo che si sarebbe difeso
strenuamente. E così procedeva sicuro insieme al compagno, perché è proprio
vero che quelli che si comportano così in guerra, i nemici nemmeno li toccano,
mentre incalzano chi si dà a gambe levate. E ancora per molte altre cose, tutte
straordinarie, Socrate andrebbe lodato. Probabilmente, però, queste altre
qualità si possono anche trovare in qualche altro; quello che invece è
meraviglioso è il fatto che lui non è simile a nessun uomo del passato né del
nostro tempo. Ad Achille, per esempio si potrebbe avvicinare, in un certo qual
modo, Brasida e altri e per Pericle potrebbe trovarsi una certa somiglianza con
Nestore o Antenore e non con questi soltanto e altri paragoni se ne potrebbero
far sempre. Ma quanto a quest'uomo, per il suo modo di fare, per i suoi
discorsi, è impossibile trovare uno che gli somigli, nemmeno lontanamente, né
tra i viventi, né tra gli antichi, a patto che uno non lo volesse paragonare,
appunto come dicevo, lui e i suoi discorsi, ai sileni e ai satiri, ma non certo
a un uomo. Anzi, a proposito, i suoi discorsi (me ne ero dimenticato di
precisarvelo prima) sono proprio come i sileni che si aprono. XXXVI
54 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org 55 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org «Infatti, se uno si mette a sentire i discorsi di
Socrate, all'inizio, gli sembreranno addirittura ridicoli, come sono tutti
inviluppati per il di fuori, da termini e da sentenze, una specie di pelle di
satiro petulante; infatti, non fa altro che parlare di asini da soma, di
fabbri, di sellai, di conciatori e sembra che dica sempre le stesse cose, tanto
che se uno non se ne intende o è uno sciocco, gli riderebbe dietro. Ma se
cerchi di aprirli, i suoi discorsi, e di guardarvi dentro, prima di tutto ti
accorgerai che sono i soli, tra tutti, ad avere un loro senso profondo, poi che
sono addirittura divini, ricchi di ogni virtù possibile e immaginabile, volti
al sublime o meglio a ciò che deve tener presente chi voglia diventare un vero
galantuomo. Questo è quanto ho da dirvi in lode di Socrate, amici miei. Quanto
al biasimo io ve l'ho già mescolato, riferendovi le offese che mi ha fatto; del
resto egli non s'è comportato così solo con me, ma ha fatto lo stesso con
Carmide, il figlio di Glaucone e con Eutidemo, il figlio di Diocle e con molti
altri, tutta gente che egli ha ingannato fingendo, appunto, la parte
dell'innamorato, con la conseguenza che furono, invece, costoro ad innamorarsi
di lui. E questo lo dico anche per te, Agatone, ché non debba cascarci anche tu
in modo che, fatto esperto dalle nostre disavventure, tu possa stare in guardia
da costui e non debba imparare, da citrullo, a proprie spese, come dice il
proverbio.» XXXVII 56 Biblioteca Elettronica Esoterica
ESONET.ORG http://www.esonet.org Appena Alcibiade ebbe concluso, l'ilarità fu
generale, proprio per quel suo modo franco di parlare, anche perché, così,
aveva fatto capire di essere ancora innamorato di Socrate. «Mi sembra, invece,
che tu, Alcibiade, non abbia proprio bevuto per niente,» esclamò a un certo
punto Socrate, «altrimenti non l'avresti rigirata tanto abilmente, nascondendo
il vero scopo del tuo discorso e alludendovi solo alla fine, come un di più,
come se tutto il tuo parlare non fosse stato per seminar zizzania tra me e
Agatone, fissato come sei che io debba amare solo te e nessun altro e che
Agatone devi amarlo soltanto tu e gli altri niente. Ma non t'è andata bene e
questa tua farsa a base di satiri e di sileni è apparsa evidente. Mio caro
Agatone, costui non deve spuntarla e bada tu che, tra me e te, nessuno venga a
mettere disaccordo.» E Agatone, di rimando: «Ah, sì, Socrate, forse hai proprio
ragione. Ora capisco perché s'è venuto a piazzare tra me e te, proprio per
dividerci. Ma sta fresco, anzi, eccomi qua che ti torno vicino.» «Oh,
benissimo,» fece Socrate, mettiti qua, al mio fianco.» «Santo cielo,» esclamò
Alcibiade, «quante me ne fa passare quest'uomo. Vuole sempre stravincere; ma,
almeno, mio straordinario amico, lascia che Agatone resti tra noi due.»
«Impossibile,» fece Socrate. «Infatti tu hai fatto, in questo momento, le mie
lodi ed ora tocca a me farle a quello che mi sta a destra. Quindi, se Agatone
se ne viene vicino a te, non può mica mettersi a fare il mio elogio prima che
io non abbia fatto il suo, ti pare? Piantala, quindi, tesoro, e non essere
geloso se elogerò questo giovane: io desidero molto tesserne le lodi.» «Iuh,
iuh, Alcibiade,» si mise a fare Agatone, «non è proprio il caso che io me ne
resti qui, anzi, mi alzo subito perché le lodi di Socrate io le voglio avere.»
«Eh, già,» commentò Alcibiade, «la solita musica; quando c'è Socrate, niente da
fare con i belli. Guarda un po' anche adesso, come ha saputo trovarsela
facilmente la sua ragione, in modo che costui gli si strofini al fianco.»
XXXVIII 57 Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG
http://www.esonet.org E così Agatone si alzò per mettersi vicino a Socrate,
quando a un tratto, una numerosa brigata di buontemponi si fece sulla soglia e
trovando la porta aperta perché qualcuno era uscito, irruppe dentro di filato
verso di noi e ognuno si trovò comodamente il suo posto. Ne nacque un baccano
dell'altro mondo e si perse ogni misura, tanto che ci demmo a bere a più non
posso. Allora Eressimaco, Fedro e qualche altro se ne andarono, continuò a
raccontarmi Aristodemo; quanto a lui fu vinto dal sonno e dormì profondamente
anche perché le notti erano lunghe; si svegliò ch'era giorno e che i galli
cantavano. Quando aprì gli occhi, vide che gli altri o dormivano ancora o se
n'erano andati e che solo Agatone, Aristofane e Socrate erano svegli e bevevano
da una grande coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate stava
discorrendo con loro, ma Aristodemo disse che non ricordava quello che si
dicevano dato che non li aveva seguiti fin dal principio e, poi, perché (almeno
così disse) era tutto insonnolito, ma che, in conclusione, Socrate stava
persuadendo i due amici ad ammettere che uno può comporre ugualmente sia
commedie che tragedie e che chi, per vocazione, è poeta tragico, sarà anche
poeta comico. Quelli, costretti ad ammetterlo, ma senza capir molto,
sonnecchiavano. E ci disse che fu Aristofane ad addormentarsi per primo, poi, a
giorno fatto, anche Agatone. Socrate, quando li vide addormentati, si alzò e se
ne andò e lui, Aristodemo, com'era sua abitudine, lo seguì. Giunto al Liceo si
lavò e, come al solito, trascorse il resto della giornata, poi verso sera se ne
andò a casa a riposare. XXXIX 58. Educazione guerriera Il filosofo
Gallo Galli, voce narrate dell'educazione fascista scriveva: "La
possibilità, la necessità della lotta armata è immanente alla coscienza
nazionale, è presente in ogni momento di questa. …E non c'è dunque educazione
veramente, vigorosamente nazionale, che non sia ache educazione guerriera."Una
delle caratteristiche fondamentale – e forse la piu nuova e significative – che
la scuola italiana e andata gradatamente acquistando e che sta per trradursi in
aao nella piena chiarezza e precision delle idee direttive e della
organizzazione tecnica, e l’impronta guerriera. Nel dominio dell’educazione, in
cui tutta la vita di un popolo si riflette e da cui insieme trae alimento e
vigorose affermazione, si fa valere, cosi, quell’attuarsi categorico della
coscienza nazionale, che e la missione del Fascismo nella storia d’Italia … La
coscienza militare, lo spirito guerreiero, non e qualcosa di diverse della
coscienza nazionale; bensi costituisce con questa un duplice aspetto della
elevazione dell’individuo al disopra del bene proprio particolare, per attuare le
ragioni ideali della vita: un duplice aspetto in quell concetto della vita come
missione, onde l’individuo perisce nelle sue forme superficiale e caduche e si
sostanzia de realta universal ed eterna … Al dispora della nazione non esiste,
invero, non puo esistere una organizzazione che equamente diriga e governi
l’atttivita dei singoli gruppi sociali-nazionale e instauri, attraverso la
composizione dei contrasti, un armónico equilibrio. … La possibilita, la
necessita della lotta armata e immanente alla coscienza nazionale, e presente
in ogni momento di questa; e la coscienza di essa e la preparazione dell’animo
atto a combatterla sono; diremmo quasi, una seconda facia della coscienza
nazionale. E non c’e dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che
non sia anche educazione guerriera. Ma non basta. Il compito specific
dell’educazione guerriera, la preparazione alla lotta armata, ha un suo proprio
carattere – in connessione con la natura e le esigenze di tale lotta – per cui
non e soltanto il riflesso o, direbbesi, l’ombra dell’educazione nazionale, ma
da questa in certo modo si distacca e su essa reagisce, aumentandone e
integrandone il valore; e aumentando e integrando, inoltre, il valore anche
dell’educazione generale. La preparazione alla lotta armata e in vero
preparazione: 1) alla rinunzia piu complete al proprio io particolare; poiche
si tratta di ninunzia alla vita, il primo ed il massimo dei beni e da tutti
presupposto; 2) alla rinunzia – sia pure momentanea e quale mezzo a una
superior affermazione – anche alla propria personalita spirituale, mediante
l’obbedienza pronta ed intera: poiche la lotta e azione e nulla v’ha di piu
dannoso e folle che discutere quando e il momento d’agire. Fornisce
quell’agilita e pronezza di movimenti e quella resistenza alle fatiche e forza
muscolare, in cui la lotta armata ha uno dei suoi mezzi piu essenziali. Non
solo; per il riscio che e inerente a molti esercizi ginnastici, anche si
rifugga dale acrobazie – con le quali si sarebbe fuori dal dominio educativo –
essa e buon addestramento dell’animo alla lotta. L’educazione guerriera ha un
contenuto per ricchezza ed importanza infinitamente superior a quello
dell’educazione fistica; ma include questa necessariamente dentro di se.
Giovera in ultima accentare agli sports, in quanto non significhino
virtuosismo, ossia abilita tecniche e capacita fisiche prese come fine a se
stesse, ma si dispongano nel Quadro generale dell’educazione quale stimolo allo
sviluppo dell’uomo. Essi in questo caso sono il naturale sbocco dell’educazione
fisica, o meglio l’educazione fisica nella pienezza della sua attuazione;
poiche accentuano il momento del rischio e del consequente necessario dominio
di se. Ma non bisogna esagerare riguardo al valore degli sports in ordine
all’educazione guerriera. Questa ha il suo fondamento in un mondo ideale che a
quelli e compiutamente estraneo; e si riferisce ad una condizione di cose in
cui ben altro sir ischia che non qualche slogatura ed ammaccatura, e in cui l’Eroe
non attende il plauso, ma si vota sereno e deciso al sacrifizio che, anche,
rimanga oscuro.” Gallo Galli. Galli. Keywords: il fedro, sull’amore, metafisica
dell’amore, fisiologia dell’amore, dialoghi dell’amore, dialoghi sull’amore,
sul bello, l’uno e i molti, unum et multa – the one and the many – Plato –
Aristotle – Parmenides’s aporia – D. F. Pears, “Universals” in Flew, Rosmini, Bruno,
ermetico, Galileo, Serbati, Carlini, idealismo, idealismo critico, dialettica
dello spirito, Renouvier, educazione guerriera, Sparta, Platone, Siracusa,
dorio, guerriero, sacrifizio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Galli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759002761/in/dateposted-public/
Grice e Galluppi – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Tropea).
Filosofo. “Gallupi is a great one; and much can be philosophised about his
philosophy of the ‘parola come segno del pensiero’” – Grice: “On top, he was a
Baron!” -- Eessential Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e
della nobildonna Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi,
una delle antiche famiglie patrizie di Tropea. Dopo lo studio della
lingua latina, apprese filosofia sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del
Mela, compì il corso elementare di filosofia e presso il Seminario vescovile
della cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto
Conforti. Sposa Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto
maschi e sei femmine. Trascorreva le giornate di libertà nella residenza
privata di famiglia, cioè Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria,
frazione di Drapia, alla biblioteca o al giardino. Pubblicò a Napoli “Sull'analisi
e la sintesi”. Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma
costituzionale dello Stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo
degli Austriaci. Si riavvicina alla monarchia. Insegna Filosofia a Napoli. Membro
dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, dell'Accademia
degli Affatigati di Tropea, di quella del Crotalo di Catanzaro e della
Florimentana di Monteleone. Il suo merito maggiore consiste nell'avere
introdotto in Italia Kant. Le Lettere filosofiche furono definite il primo
saggio in Italia di una storia della filosofia. A Pasquale Galluppi sono
dedicati il Convitto nazionale, il Liceo Classico di Catanzaro e il Liceo
Classico di Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo il Centro
studi Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione
dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei
fini statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un
certo spessore culturale. Periodicamente, il Centro organizza il
Congresso degli Studi Galluppiani, importante appuntamento di respiro
nazionale, animato da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia.
L'attuale presidente è Luciano Meligrana. Altre personalità di notevole
importanza nella storia del Centro studi Galluppiani sono stati Pugliese e Cane,
filosofo, appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi. Una vera
dedizione, la sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita.
Organizzatore infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far
conoscere il pensiero del Galluppi, favorendo la pubblicazione dell'opera
inedita "La Filosofia della Matematica" la cui edizione lo ha visto
anche quale curatore. Su Galluppi ha pubblicato numerosi saggi ed articoli in
quotidiani e riviste specializzate. Altre opere: “Memoria apologetica”
(Napoli, Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e la sintesi”
(Napoli, Verriento); “La conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano,
con un esame delle più importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e
della Filosofia trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia” (Messina,
Pappalardo); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente
a' principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant inclusivamente” (Messina,
Pappalardo); “Logica”; “Metafisica” (Firenze, Tipografia della Speranza); “La
volontà” (Napoli, Giachetti); “Storia della filosofia” (Napoli); “Opera
compresa in nove capitoli a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Errico
Pessina, autore del Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio.
Silvestri); “Autobiografia”, “Scritti”
(Milano, Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col
Kantismo, (Napoli, Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario
Lettere private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli
("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione
di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico
degli italiani. Quella
specie di deduzione con cui da una
causa , che cade sotto i sensi , deduciamo
un efletto , che sotto i sensi non
cade , o da un elTetto , che cade
sotto i sensi , de- duciamo una causa , che
sotto i sensi non cade , quando la
connessione fra la causa e l' elTelto non
si presenta a noi come necessaria , è
fondata su questa verità sperimentale, le
carne simUi producono o son accompagnate da
effetti simili; ed ef- fetti simili
suppongono cause simili. Tutti e due questi
mo- di di dedurre i fatti , che immediatamente
non si sperimentano , costituiscono r argomento
detto di analogia. Si argomenta dunque
per analogia , quando dairosservazionc disoggetti
si- mili si deducono qualità simili, e
quando da cause simili si de- ducono
efletti simili , o da elTetti simili si
deducono cause simili. Ma r esistenze ,
che si deducono , sono di due
maniere, alcune possono essere oggetto di
esperie tua , altre non pos- sono esserlo.
Sebbene quando vedo l’acqua, che non
ho an- cora bevuto , e che giudico di aver
essa la qualità di estin. guermì la
sete, non abbia ancora sperimentato in
questo ca- so particolare la qualità di
cui parlo; pure è essa un ogget- to
di esperienza , poiché posso di fatto
sperimentarla , be- vendo l’acqua che ho
presente. Sebbene prima di vedere la
liquefazione della neve , io la deduco
dalla vicinanza del fuo- co ; pure questa
liquefazione può colpire i mici sensi, ed
es- sere un oggetto di esperienza. Ma
vi sono infiniti casi , in cui 1’
esistenze che si deduco- no , non possono
divenire oggetto di esperienza. Domandato
ad un uomo perchè egli crede un
fatto, che succede in luo- ghi ove
non è , per esempio , che il suo
amico soggiorna alla campagna , o viaggia
per la Francia , egli vi darà per
ragione un altro fatto : allegherà una
lettera che ha da lui ricevuto ,
alcune risoluzioni che gli vide prendere ,
alcune promesse che gli ha sentito
fare. Ora in tutte queste dedu- zioni ,
si suppone, che alcuni dati moti
dipendono dalla vo- lontà dell’ amico ; si
suppone in conseguenza , che il suo .
corpo sia animato da uno spirito
simile al nostro. Ora lo s[iiito dell’
amico , c le modificazioni inieinc di esso,
non Digitized by Googlc 58
possono giammai divenire un oggetto
di esperienza : noi non possiamo giammai
sortire da noi stessi , e sentire 1’
anima sua , e ciò che in essa acca(k
; noi dunque qui argomentia- mo da una
esistenza , che è un oggetto sperimentale, ad
un altra esistenza , che per noi non
può giammai divenire un oggetto di
esperienza. Quando vedo la lettera, di
cui si parla io giudico , che fu l’
effetto de’ moti del corpo dell’
amico , giudico inoltre , che questi
moti furono 1’ effetto della sua
volontà. Ora questa volontà io non la
posso sentire giammai, risalgo dunque qui
da un effetto che colpisce i sensi
miei ad una causa , che non può
giammai divenire un oggetto di es-
perienza. Similmente se vedo piangere un
uomo giudico che egli è afflitto , ora T
afflizione di lui non può giammai
dive- nire un oggetto di esperienza per
n>e; io dunque deduco qui da ciò
che sperimento una causa, che non
posso sperimenta- re. Ora si domanda : una
tal deduzione è esM legittima? Allora
che vedo un uomo, io vedo un
corpo simile al mio: se lo vedo
camminare vedo questo corpo eseguire certi
moti simili a quelli , che io fo quando
voglio camminare , da ciò concludo , che i
moti del corpo che vedo suppongono
una causa simile a quella, che ho
sperimentato, vale a dire uno spirito, che
vuole tali moti. Pare dunque, che questo
caso possa ridursi alla stessa spezie
di quello di sopra , cioè alla
deduzione di una causa simile da un
effetto simile. Ma vi ha qui
una differenza, di cui bisogna tener
conto. Quando dal vedere un orologio
deduco 1’ esistenza di un ar- '
tc6ce, io ho osservato non solo gli
effetti simili, ma anche le cause simili ,
vale a diro , ho veduta molti orologi
fra i quali ho trovato della
similitudine, ed Ito veduto ancora molti
artefici di orologi, fra i quali ho trovato
ancora della simi- litudine. Ciò non accade,
quando da’ moti del corpo di un
uomo deduco l’ esistenza di uno spirito
simile al mio, da cui questo corpo è
animato. Io non ho giammai sperimentato
un altro spirito , all’ infuori del
mio , quindi non lio giammai sperimentato
la similitudine delle cause , da cui
derivano gli effelti de' quali si parla,
io dunque esco qui fuori deirespc-
\ Digitized by Google 59
nenia : se avessi ^erimontato piìi
volte che alcuni moti di altri corpi
simili al mio derivano da spiriti
simili al mib , allora la mia
deduzione avrebbe lo stesso fondamento
dell’ ana- logia , la quale mi autorizza a
dedurre da effetti che speri- mento ,
simili a quelli che ho sperimentato , cause
simili a quelle che ho sperimentato. Ma
qui siamo in un caso di- verso; io sono
racchiuso nella sola osservazione di una
cau- sa sola: ho sperimentato in me
solo che alcuni dati moti pro- cedono
da un atto di volontà. Ma non
1’ ho sp^imentato in altri , nè posso
giammai sperimentarlo; or chi mi autorizza
a concludere da un caso solo una
legge costante, ed univer- sale della
natura? Nell' argomento di analogia si
conclude per un caso ciò che abbiamo
sperimentato costantemente in tutti gli
altri , che ci son occorsi : ho
sperimentato mólte volte, che il fuoco
posto in vicinanza della neve la liquefa ,
nè mi è occorso alcun caso, in cui
non abbia ciò sperimentato: ve- dendo del
fuoco posto in vicinanza della neve
concludo, per questo caso particolare, ciò
che ho sperimentato costante- m«ite nella
moltitudine degli altri casi. Ma quando
al veder muovere gli altri uomini giudico ,
che sono animati da uno spirito
simile al mio , procedo tutto al rovescio
dell’ analo- gia , poiché da un solo caso ,
vale a dire da ciò che speri- mento
in me , giudico tutti gli altri.
Questa obbiezione merita di esser
esaminata, poiché l’ ana- lisi dei motivi
de’ nostri giudizi è 1’ oggetto della
logica. Io ho camminato un numero
incalcolabile di volte , per varie
direzioni, ed in vari luoghi: ho
sperimentato questo fatto co- stantemente unito
al mio volere: ho sperimentato fra il
cammi- no di una volta e quello di un
altra una similitudine, ed una similitudine
fra l’ atto di volere di una volta
e quello di un altra : ho dunqiK qui
sperimentato, che effetti simili procedono
da cause simili, vale a dire, che il
camminare consiste in moti volontari ;
quando dunque veggo camminare un altro
uomo io concludo per questo caso
particolare quello che ho sperimentato
nella moltitudine de’casi particolari occorsi
in me stesso; non esco dunqtic
dell’aualogia, con cui si concludeda molli
ad uno. Digitized by Google
60 È nondimeno incontrastabile , che l'
illazione non può giam- mai divenire
sperimentale, poiché 1’esistenza della volontà
in un altro uomo', che io deduco dal'
vederlo camminare, non può giammai divenire
per me un oggetto di esperiaiza come
può divenirlo questa illazione : il fuoco
che vedo liquefarà la neve a cui è
vicino: Ma ciò mi sembra , che non
tolga al- cuna forza alla deduzione, che
esaminiamo. Quando dal vedere il
fuoco posto in vicinanza della neve deduco
la liquefazione di questa , io giudico
prima dell'es- perienza ; r essere perciò l’
illazione di natura a poter dive- nire un
giudizio sperimentale , non influisce nella
deduzione : r illazione è vera per me
per la sua connessione colle pre- messe ;
non già perchè è un giudizio , il
quale può confer- marsi coll’esperienza.
Sinnlmcntc l’illazione di analogia, con cui
giudico che gli altri corpi umani ,
fuori del mio , sono animati da uno spirito
simile al mio , è vera in forza della
sua connessione colle premes.se , e l’ impossibilità
che ha questo giudizio di divenire
immediatamente sperimentale;, non toglie mica
il valore della deduzione. §, 28.
Ma qui conviene aggiugnere qualche cosa
molto im- portante. Che i moti chiamati volontari
, e che scorgo ne’ cor- pi umani , non
dipendano da una causa meccanica , ma
da una causa intelligente , mi sembra
una verità necessaria della stessa natura
delle verità necessarie , che esprimono le
leggi del moto, di cui abbiamo di
sopra parlato. Se io sono ric- co o potate,
e deadcro d'innalzare un edifìzio , mille braccia
agiscono , e la mia volontà ha il suo effetto.
La mia voce non .ha fatto impressione
sul corpo de’ travagliatori , se non die
per mezzo dell’ aria , e no n ha prodotto
nell’ atmosfera on’ agitazione suflìciente a
muovere de’ corpi molto piìi pic- coli
di quelli , che eseguono gli ordini
miei ; la mia voce dun- que non
produce 1’ elfetto come causa meccanica ;
bisogna perciò che un principio diverso
dall’ agitazione dell' aria , o dalla
mia parola abbia prodotto questo moto ne’
corpi , e che la mia parola abbia
detcrniiiiato questo princijiio a produrre i moti
, che chiamiamo voloiitai l. Non si
può riguardar la mia Digitized by
Google 61 parola , se non che
o come un molo eccitato nell’ aria ,
o come r espressione della mia volontà ;
la mia parola non ha potuto come
causa meccanica produrre i moti , de’ quali
par- liamo , perchè ciò come abbiamo veduto
, è contrario alla le^e del moto , che un
piccolo moto ne produca uno mag- giore ;
al che si aggiunga , che la mia
parola non avrebbe prodotto moto alcuno
nell’Ottentotto , o in un altro individuo che
parla un linguaggio diverso dal mio:
per la sola espres- sione della mia
volontà ha dunque potuto la mia
parola de- terminare ad agire il principio
del moto de’ corpi die mi hanno
ubbidito. Questo principio è perciò un’
intelligenza , poiché ha conosciuta la
mia volontà nelle mie parole. i
La proposizione dunque : vi tono
alcuni moti ne’ corpi u- mani dieerti
dcU mio corpo, i quali ^ hanno per
cauta una cauta intelligente , mi sembra
di verità necessaria. La pro- posizione
poi: vi sono alcuni moti ne"
corpi umani dècer si dal mio corpo i
quali hanno per causa la volontà di
uno spirito simile al mio , e per
conseguenza tali corpi tono animati co- me
il mio , è di verità contingente , e
poggiata sull’analogia. Concludiamo nell’
argomento di analogia si deducono spes- so
cause , (M non possono divenir giammai un
oggetto di es- perienza , sebbene sieno
simili ad altre cause , che si speri-
mentano. 2.° Vi tono nondimeno alcune
deduzioni di esistenze , che non possono
divenire sperimentali, le quali deduzioni
danno verità necessarie in risultamento.
Questa seconda parte , della conclusione
enunciata , si con- ferma da quello che
abbiamo detto nell’ Ideologia circa
resisten- za dell’ assoluto. Questo non può
certamente divenire un og- getto di
esperienza , intanto la sua esistenza è il
risultamento di un raziocinio legittimo, in
cui una delle premesse è una verità
sperimentale. Noi diciamo ; se vi è il condizionale
, et dee essere l’ assoluto. Questa
proposizione esprime un giudizio analitico , e
necessario : vi e il condizionale : questa
secon- da proposizione esprime un giudizio
sperimentale ; vi è dunque r assoluto. L’ illazione
è una verità necessaria. L’ empirisnto
ci riserra nel solo circolo dell’
esistenze, im- Digilized by Google
62 mediatamente sporimetitali ; nè ci
permette di passare da ciò , che cade
immediatamente sotto 1’ esperienza , a ciò che
sotto la stessa immediatamente non cade.
Io vi ho fatto ve- dere il contrario
; vi ho dunque dimostrato la falsità
dell’em- pirismo. L’ argomento di
analogia è fondato sul rapporto d’ iden- tità ;
ma T identità può fra due cose essere
ma^^iore o mi- nore. L’ identità fra il
mio corpo ed il corpo di un
altro individuo , che io chiamo uomo , è
maggiore di quella che passa tra il
mio corpo ed il corpo di un
cavallo. Ora si do- manda : tino a qual
grado d idetUilà V analogìa è un argo~
mento valevole , cioè «n argomento certo ì
È questo un pro- blema di difllcile
soluzione : l’ esamineremo in altro capitolo.
§. 29. U analogia ci rivela dunque 1'
esistenza degli altri q)ìriti simili al
nostro. L’ esperienza c’ ins^a , che
alcuni moti volontari in noi nascono , o
sono accompagnati da al- cune affezioni
interne del nostro spirito ; vedendo in
conse- guenza moti siniili in altri corpi
umani , attribuiamo agli spi- riti animatori di
tali corpi affezioni simili a quelle che
ab- biamo sperimentato in noi. Allora che
sono affetto dal sen- timento della sete ,
corro a bevere ad una fontana , che a
me si presenta. Se dunque vedo un
altro nomo camminare verso una fontana , e
bevere , giudico , appoggiato su l’ana- logia ,
che egli sia modificato dal sentimento
della sete , e che voglia bevere.
In queste deduzioni analogiche dovete
osservare ciò che vi ho detto nel
§. 16 circa 1' aspettazione del
futuro simile al passato, i^li bisogna
distinguere il sentimento della deduzio- ne
meditativa. La dottrina generale che ivi
vi ho spigato , può applicarsi all’
oggetto che ci occupava. Noi supponiamo
ne’ nostri simili delle anime alla
nostra simile : noi facciamo tali
sup^izioni in forza della I^gc della
nostra immagina- zione , non già in forza
de’ raziocini , che abbiamo sviluppato. Io
suppongo r incontro di due uomini , privi
sino a questo momento di ogni commercio ,
ancora cògli animali ; ridotti per
conseguenza al circolo stretto de’ propri
sentimenti, e delle Digilized by Google
63 proprie operazioni : ciascuno di
essi vede nell’ altro un essere che
gli rassomiglia in tutte le cose ,
che presenta le stesse forme , possiede
gli stessi organi , ne fa un simile
uso ; egli crede dunque il corpo che
lo colpisce, animato da uno spirito.
Or ecco, secondo la mia dottrina,
come si opera questo fatto intellettuale.
Io suppongo, che un di questi uomini
vegga I' altro camminare , questa percezione
risveglia i fantasmi simili del proprio
corpo camminante in varie volte , e perciò
anche i fantasmi del ])roprio me
affetto in tali circostanze da tali e
tali modificazioni: queste riproduzioni si
fanno con somma ra- pidità in modo che
non posson essere fissate dall' attenzione,
esse sono perciò obbliate l' istante
appresso, in cui si s«n avu- te,
intanto la percezione del corpo simile
al proprio detemù- na r attenzione non
solamente ad essa sola , m’ ancora alla
percezione simultanea del proprio me , e lascia
fu^ire le per- cezioni successive simili
del proprio corpo camminante in varie volte
; la piercezione del me riprodotta si
lega perciò a quella del corpo presente del
mio simile , invece di legarsi a quella
riprodotta del proprio corpo camminante ,
che si è obbliata, e questo legame
costituisce il sentimento interno di questa
specie di credenza. L' obblio delle
percezioni riprodotte del proprio corpo
camminante in varie volte, neH’atto che
rimane quella riprodotta del proprio me ,
fa si, che questa ultima si associi a
quella presente del corpo simile. La
.percezione ri- prodotta del proprio me
rimane, perchè la percezione del cor- po
camminante e quella del proprio me son
legati naturalmente in una comune
attenzione; essendo associate dalla natura
stessa; qnella riprodotta del corpo
camminante si ccclissa, perchè quel- la del
corpo simile camminante richiama l’ attenzione.
Lo spi- rito trasporta dunque fuor di
lui col pcnsiere l’ idea del proprio
me , che egli immagina , e che stabilisce
nel seno di quelle forme, che
colpiscono i suoi sguardi, ed a traverso
delle quali il suo sentimento immediato
non può penetrare. Egli presta dunque
il suo me al suo simile , 1’
anima della vita che re- spira in se
stesso, e concepisce 1’ esistenza di un
altro uomo. Tale mi sembra la
spiegazione del sentimento della credenza.
Digitized by Google C4 che
esaminiamo. Risulta dalla stessa, che noi
concependo ciò che |>ensano gli altri
uomini, non usciamo mica da noi
stessi. Nel' le nostre proprie idee
noi vediamo le loro maniere di
essere, la loro stessa esistenza. Da
ciò avviene, che 1’ uomo misura dal
proprio spirito quello degli altri, dal
che nascono molti orrori , come a suo luogo
diremo. Noi non possiamo accuratamente
determinare lo stato dei fanciulli ; e
conoscere perciò 1’ epoca in cui
hanno luògo le loro abitudini
intellettuali. Ma egli mi sembra
incontrastabile, che queste abitudini si
formano in loro mediante la rapiditll
di talune associazioni. I fanciulli percepiscono
negli altri nomi- ni de’ corpi simili
al proprio: &si sperimentano alcuni
moti spontanei del loro corpo ed
altri simili ne percepiscono nei corpi
degli altri nomini ; queste similitudini , ed
altre , che si manifestano piìi tardi ,
determinano le associazioni di cui ho
parlato. Legete il capitolo degli abiti
nella Psicolgia. Ma non solamente i
moti volontari che osserviamo negli altri ,
ci menano a supporre nel loro spirito
alcune medin- cazioni ; ma ancora certi
moti e cambiamenti necessari, che son gli
stessi elTetti meccanici i quali accompagnano i
senti- menti interni dell' anima , come il
tremore e la pallidezza nello spavento , le
grida , e le lagrime nel dolore , il riso ,
e il tripudio nella allegrezza. Questi si
manifestano incontanen- te da se medesimi , anche
ne’ fanciulli appena nati , princi- palmente i
gridi ed il lamento, che accompagnano
il dolóre. Concludiamo : noi poniamo
per mezzo di alcuni cambiamen- ti , che
osserviamo ne' corpi altrui pervenire a conoscere
ciò che accade nel loro spirilo.
Questa eonoscenza può essere mec- canica o
sia il risultamenlo del sentimento prodotto
da alcune rapide associazioni, e può essere
ancora V illazione di un ra- ziocinio
legittimo di analogìa. Possiamo dir la
stessa cosa in modo breve; questa
conoscenza può essere o istintiva o ragionata.
Da ciò si vede, che non è
necessaria una prima convenzione fra gli
uomini acciò s’ incomincino a intendere fra
loro. La natura ha reso gli uomini
tali , che conversando insieme essi s’iiit
elidono naturalmente anche senza l’istituzione
del linguaggio. Digilized by Coogle
«5 §. 30. Seguiamo la supposizione
de’ due'solitari. Sebbene 1' uno abbia
compreso ciò che accade nello spirito
dell’ altro, non tì è ancora un lii^uaggio
propriamente detto ; perchè non si parla ,
se non quando si cerca di farsi
intendere ,ese 1’ uno de’ due
individui ha penetrato il pensiero dell’
altro ciò è accaduto senza che questi
cercasse a farglielo conoscere.! due individui
di cui parliamo, osservano, eh’ eglino
sono stati compresi , ed allora cercano di
farsi comprendere , e nascerà cosi il primo
linguaggio. Sviluppiamo questa dottrina.
Abbiamo veduto, che il corpo degli
altri uomini ci presenta alcuni
avvenimenti, la percezione de’ quali ci
fa conoscere ciò che accade nel loro
spirito. Ciò la cui idea eccita l’
idea di un’ altra cosa chiamasi
segno. Nel corpo di un altro nomo
vi sono dunque de’ segni delle
interne modificazioni dello spirito animatore
di questo corpo. Siccome tali segni
son tali per la costituzione della nostra
natura , cosi si chiamano segni nor
turali. Vi sono , in conseguenza , de’
segni naturali de’ pen- sieri o modi di
essere delio spirito degli altri uomini.
Ma non solamente vi sono di
questi segni naturali de’ pen- sieri altrui
; ma 1’ uomo può conoscere , che vi
sono , cioè può conoscere , che con alcuni
dati mezzi si può manifestare altrui
ciò che si sperimenta internamente nello
spirito proprio. Supponiamo, che uno de’
due nomini supposti pianga, gridi, si
lamenti, senza avere l’ intenzione dì
manifestare all’ altro il dolore, che
egli sente; intanto 1’ altro sapendo,
che questi gridi, e questi lamenti sono
soliti ad accompagnare il dolore, conoscerà
da questi segni il dolor dell’ altro ,
ed accorrerà al soccorso di lui,
questi perciò comprenderà da tutto questo,
che egli è stato compreso ; e se avviene
altra volta , che si trovi affetto
dal dolore , ed in bisogno del soccorso
dell’ al- tro, piangerà e griderà coll’
intenzione di manifestare all’al- tro il
proprio dolore. Così gli uomini
incominciano dal com- prendersi scambievolmente ;
in seguito conoscono , che sono stati
compresi, e finalmente si determinano a farsi
compren- dere. Cosi si osserva in tutt’i
fanciulli comunemente. A prin- cipio essi gridano
, e si lamentano costretti unicamente dalla
Gall. Vol. II. 8 Digitized by
Coogle C6 forza del dolore , senz’
aver l’ intenzione di manifestarlo con
questi segni agli altri , anzi senza sapere
neppure , che cosa alcuna si possa
esprimere col pianto, e colle grida; ma
ap> presso avendo imparato , che con
tali s(^i si ottiene 1’ altrui
soccorso, cominciano a valersene avvertitamente
per manife- stare il loro dolore, e
ricevere il soccorso che bramano. Ciò
di cui gli uomini si servono, per
manifestare agli altri i pro- pri pensieri ,
chiamasi ugno artificiale. 1 segni naturali
di- vengono dunque naturalmente s^ni artiGciali.
Qui ha termine T educazione della
natura per le nostre scam- bievoli
comunicazicmi., La natura ha insegnato all’
uomo, che egli può farsi intendere ; e l’
uomo può non solamente ser- virsi de’
mezzi, che la natura gli ha mostrato
per la comu- nicazione de’ propri pensieri
; ma può ancora ritrovarne de- gli altri
simili. Il primo e più semplice mezzo
di comunica- zione che si offre allo
spirito, si è quello di ripetere con
ri- flessione ciò eh’ egli fece
dapprincipio, senza prevederne le con- seguenze,
cioè di riprodurre quelle azioni, per
mezzo delle qua- li ^li si è fatto
comprendere. Così si formerà un primo
lin- guaggio, che può chiamarsi linguaggio
della natura, poiché esso non si
compone se non che de’ s^i naturali,
vale a dire di quei s^ni di cui
la natura aveva già senza di noi
ri- vestito i nostri pensieri spreti, per
renderli sensibili agli altri* §. 31.
Il lingua^io della natura è insnlHc^te per
mani- festare agli altri tutt’i nostri
pensieri. Noi abbiamo al pre- sente il
linguaggio de’suoni articolari : i filosofi disputano
su l’ origiiK di esso : la quistione
si versa su l’ esistenza, e su la
possibilità, cioè si cerca ; gli uomini
hanno esH da se stes- si istituito il
linguaggio 1 Questa ricerca suppone quest’
altra-* gli uomini abbandonati a u stusi
potevano istituire il linguag- gio’l \
nostri sacri libri c’ insegnano, che
Adamo, ed Èva fu- rono creati da Dio
in uno stato adulto con delle
conoscenze in istato di riflettere, e di
comunicarsi i loro pensieri. Iddio ù maqiiestò
all’ uomo innocente ne’ primi istanti
della crea- zione. Iddio è dunque l’ autore
primitivo del lingm^io. Ma io suppongo',
dice Condillac, che qualche tempo dopo
il di- Digitized by Google 67
luvio due bambini dell’ uno, e dell’
altro sesso siensi trariati ne’ deserti, avanti
che conoscessero 1’ aso de’ vocaboli. A
fare questa supposizione, egli dice, io
sono spinto dal fatto del giovane di
Chartres rapportato nelle memorie dell’
accademia delle scienze, anno 1703. Era
questi dell’età di 23 a 24 anni sordo
c muto di nascita : cominciò con gran
sorpresa di tutta la città tutto ad
un colpo a parlare. Si seppe da lui;
che tre o quattro mesi prima egli
aveva udito il suono delle campane,
ed era stato estremamente sorpreso da
questa sen- sazione novella ed incognita.
In seguito gli era sortita una spe-
cie di acqua dell’ orecchia sinistra, cd
aveva acquistato l’udi- to in tutte e due
le orecchie. Egli impiegò tre o quattro mesi
ad ascoltare senza nulla dire,
assuefacendosi a ripetere sotto voce le
parole, ch’ali udiva, ed esercitandosi
nella pronun- ciazione, e nelle idee legate
a’ vocaboli. Io non so come
questo fatto possa autorizzare il filosofa
francese, a fare la supposizione di cui
parla, se non perché ciò mena a poter
supporre , che due giovani di sesso diverso
sordi c muti di nascita, possono traviarsi
ne’ deserti o ne’ bo- schi, indi
incontrarsi, e dopo l’ incontro ricever tutti e
due r udito. Questa supposizione non ha
niente di assurdo ; ed è perciò
lecito al filosofo di cercare , se in
una tale supposi- zione questi due giovani
possano istituire una società, ed un linguaggio.
A ciò si può aggiungere, che si
rapporta, esser- si in vari tempi vari
fanciulli trovati ne’ boschi ; uno ne
fu sorpreso nell’ Asia l’ anno 1334
in compagnia de’ lupi, un al- tro
dell’età di circa 12 anni in Weteravia,
un altro di 16 fu scontrato fra
una torma di pecore selvatiche nell’
Irlanda , verso alla metà del passato
secolo, un altro di nove fra gli
orsi nelle selve della Lituania nel
1662 : in questo secolo me- desimo uno
ne fu scoperto presso ad Hamelen
nella Sasso- nia, una fanciulla presso a
Lwlla nella provincia di Utrecht, ed
un’altra fu arrotata presso Chalons nel
1731. Io per al- tro non comprendo,
come questi fanciulli abbiano potuto vi-
vere, se sono stati abbandonati, o perduti
prima di potersi alimentar da se
stessi, ed m conseguenza prima di avere una
Digitized by Google 68
lingua. Si potrebbe supporre, che
avevano principiato a par* lare, quando si
smarrirono ; ma che poi nella solitudine
ave* vano interamente obliato quanto
avevano imparato. Or si domanda : se
due di questi di sesso diverso, si
fos- sero per avventura incontrati nella
stessa foresta , che sareb- be egli avvenuto ? E
per limitarci all’ ometto delle nostre
ricerche , domandasi : avrebbero essi istituito
una lingua 7 Tralitsciando dunque , su
l’origine del linguaggio, la quistio* ne
di fatto , è egli lecito di esaminare
quella della possibili- tà , o di cercare
se gli nomini abbandonati a loro stessi
avreb- bero potuto istituire una lingua ?
L’ esame di una tal qui- stione è
molto utile, per ben conoscere, e misurare
le for- ze dello spirito umano, e queste
ricerche ipotetiche ci menano ancora a
risultamenti , che hanno luogo nel fatto
reale. Io aggiungo dippiìi , che alcuni
autori anche su l’autorità de’ nostri
libri divini , hanno creduto , che le
lingue attuali sieno state istituite dagli
uomini coll’uso delle loro forze na- turali
: ecco come può essere accaduta la
cosa. Nel famoso avvenimento della
costruzione della torre di Babele, per
for- za miracolosa, fu cancellata dalla
mente degli uomini la me- moria intera
del primitivo linguaggio: in seguito di
un tale miracolo , gli uomini si divisero
a torme secondo i rapporti di parentela e
di amicizia , e si stabilirono hi diverse parti
della -terra : furono dunque abbandonati a se
stessi, per isti- tuirsi un linguaggio ; e
così perduto interamente il linguag. gio
primitivo , dì cui era* stato autore
Iddio stesso , le nuo- ve lingue , che
nacquero su la terra , furono un
prodotto dello spirito umano. In questo
modo si spiega come gli uo- mini
perduto, per forza del miracolo, il primitivo
linguag- gio , non si sieno più
scambievolmente intesi ne’ linguaggi •rispettivi.
Questa opinione ammette un solo miracolo,
quale è quello della memoria perduta del
linguaggio primitivo , lad- dove nell’opinione
contraria bisogna supporre una gran mol-
titudine di miracoli, l’uno in forza del
quale gli uomini ab- biano perduto la
memoria del lingua^io primitivo, e gli al-
tri con cui Iddio abbia istituito i diversi
linguaggi , che eb- DigiliZL by
Google 69 bero luogo dopo
dell’ avvenimento ; ora si potrebbe dire
, non e^r verisimile , che Iddio
moltiplicasse inutilmente i miracoli.
Checché ne sia di tale opinione ,
noi esamineremo qui la quistione della
possibilifb. 11 rispetto che il filosofo .
debbe alla religione divina , che c’ illumina ,
mi ha condotto a que- sta digressione.
§. 32. Per esaminar la quistione
proposta continuiamo la supposizione di sopra , e
partiamo dal punto ove siam ri- masti.
Abbiamo veduto l.°che gli uomini per
natura si com- prendono scambievolmente , 2.° che
conoscono di essere stati compresi ; 3.°
che con ciò si fanno naturalmente un
linguag- gio artificiale , che è il linguaggio
della natura. Vale a dire che fanno
uso de’ segni naturali , per manifestare
agli altri i propri pensieri. .Ma il
bisogno non potrebbe spingere gli uomini , a
migliorare , cioè ad acrescere questo
linguaggio della natura , ritrovando de’
segni analoghi ? n pianto ed i gemiti
manifestano agli altri il dolore da
cui un individuo è affetto ; ma non
manifestano lyica la causa del dolore.
Ora gli uomini hanno spesso bisogno , per
essere soccorsi , dì manifestare agli altri
la causa del loro dolore : per
tale oggetto alcune volte bastano le
circostanze : uno de’ due suppposti
solitari cade in una fos.«a : egli
non può senza l’al- trui soccorso cavarsene
fuora : egli grida -- 1’ altro
accorre , e si avvede della causa del
dolore del suo simile. Parimente se
uno de’ due è inseguito da una bestia
feroce , e grida : l’ altro conosce
dalla circostanza la causa del dolore
del com- pagno. Spesso nondimeno la causa
del dolore non apparisce dalle circostanze.
Tutti generalmente acquistiamo l’abito , al- lorché
ci sentiamo in alcuna parte addolorati,
di recare colà la mano. Se dunque
uno de’ due supposti solitari sentirà
do- lore in qualche parte ; egli griderà , c
la mano correrà na- turalmente alla parte
addolorata : l'altro accorrendo alle grida , e
spingendo per avventura lo sguardo là ,
dove è corsa la mano dell’ altro conoscerà
il luogo del dolore c se la causa
del dolore fosse una ferita , o una contusione
, o qualche al- Digitized by Google
70 tra cosa visibile ; allora
conoscerà chiaramente questa causa. Qualora l’
uno vorrà porgere all’ altro alcuna
cosa, amendue stenderanno la mano T uno
per darla , e l’ altro per prenderla . Questi
moti della mano potranno da s^i
naturali divenire segni artificiali , così
si potrà indicare la causa del dolore
re- cando la mano su la parte
addolorata ; e si potrà da uno de’
due individui volendo dire all’ altro che
non è vicino qual- che cosa ; e non volendo
o non potendo muoversi , stendere la mano
con entro la cosa che gli vuol
porgere. L’altro si^ milmente se cosa
alcuna bramerà aver dal compagno , por- gerà
la mano vòta per prendere ciò che
desidera. Fin qui non si esce
ancora dal linguaggio della natura; ma
già siamo al termine di un altro
linguaggio, a cui il primo ci mena..
Vi sono due specie di cose, di
cui gli nomini han- no bisogno di
eccitare le idee negli altri: alcune
possono nel momento stesso colpire i sensi
tanto di colui che vuol par* lare ,
quanto di colui a cui si vuol
parlare; altre sono lon- tane o almeno invisibili
, e non esistono nel momento, se non
che nello spirito di colui che vuol
farsi comprendere: riguar- do alle prime
basta , che colui che vuol parlare,
cioè che vuol farsi comprendere ecciti T
attenzione del suo compa- gno , e la diriga
su 1’ oggetto che gli vuol mostrare.
Ab- biamo veduto , che il gesto può
esser naturale e divenire un segno
artificiale ; ma alcune volte non è cosi :
supponiamo , che uno de’ due solitari
voglia mostrare all’ altro un ogget- to
lontano ma che può esser veduto ;
egli avvertirà il suo compagno per un
grido , ed allora che questi volgerà a lui gli
sguardi , il primo dirigerà Io sguardo su
l' oggetto , che vuole mostrare all’altro , e farà
uso del 'dito , per meglio mostrargli la
direzione , che prende Io sguardo suo : l’
altro r imiterà, e la sua curiosità lo
porterà ad osservare ciò che occupa
il suo compagno. Questi gridi, questi gesti
, formano una prima spezie di segni
istituiti, che si possono chiamare ugni
indicatori. Osservate , che i segni , di cui
parlo , non sono segni naturali, perchè il
grido è naturale nel dolore e nel
piacere: esso diviene da naturale
artificiale per denota- Digitized by
Coogle 71 re il dolore , o il
piacere. Ma l’ uno de’ due solitari
aven- do osservato , che 1’ altro , quando
egli manda fuori il grido , diriga a
lui il proprio sguardo , fa uso del
grido per obbligare il compagno a fissare
su di lui lo sgiiardo: cos) il
grido si estende a denotare ciò che
denota ({uesta proposizione : volgiti a me:
inoltre lo stendere il dita verso 1’
oggetto che si vuol mostrare non è un
segno naturale, ma un segno analogico,
poiché vi ha Una similitudine fra il
mo- to che fa il dito , ed il moto
che far dovrebbe il proprio corpo per
ginngerc all’ oggetto , che si vuol
mostrare; que- sti due moti avendo la
stessa direzione, o pure , la direzio- ne del
dito è - identica colla direzione, che
prende lo sguardo. Per tal ragione io
credo , che il gesto , di cui parlo ,
do- vrebbe riguardarsi piuttosto come un
segno mitalko, poiché il moto del
dito imita nella direzione il moto
che far dovreb- be il proprio corpo
per giungere pel cammino più corto al-
1’ oggetto , che si vuol mostrare , o pure
imita la direzione dello sguardo ; ma
servendo tal gesto ad indicare un
(^et- to, che può nello stesso momento
colpire i sensi de' due so- litari, gli
si pùò dare il nome di segno
indicatore. Questi due segni indicatori ,
di cui parliamo, equivalgono; a queste diK
proposizioni : volgiti a me e guarda là.
Vi ha inoltre de' segni imitativi , i
quali servono a deno- tare alcune cose
future, od altre cose che nel momento
non possono colpire i sensi di tutti e
due i solitari. Supponiamo, che uno di
questi sia in A , 1' altro sia
icmtano ma a vista del primo in B,
che 1’ oggetto lontano ma a vista di
tutti e due sia in C ; inoltre cl»
il primo non potendo muoversi per
andare io C voglia manifestare all’ altro
che vada in C, e che prendendo I’
oggetto bramato ivi posto, lo rechi a
lui in A ; ecco come io immagino , che
la cosa potrà farsi : il primo con
un grido ecciterà 1' attenzione del
compagno: indi stenderà il dito nella
direzione della linea fra A e B: poi
la muoverà nella direzione di una
linea parallela a quella 'fra B e C: con
questo moto egH dirà al compagno che
vada da B in C, c questo moto sarà
un sogno imitativo del moto che
Digitized by Google 72 il
compagno dee fare , per secondare il
desiderio dell’ altro ' io A : questo moto,
che H compagno dee fare , è una cosa
futura, che non pnò nel momento
colpire i sensi de’ due so- litari : ecco dunque
come con de’ segni imitativi si
possono denotare gli oggetti assenti.
Supponiamo inoltre, che l' indi- viduo posto
in B si conduca in C: l’ altro che
si trova in A stenderà il suo
braccio da A verso C in posizione
orizzonta- le, indi farà un moto col
braccio, imitativo di quello che dee
fare il compagno per prendere T oggetto
posto in C : dopo di ciò ritornando a
mettere il braccio nella stessa posizione
orizzontale, lo ritrarrà a se con un
moto contrario a qfuello, con cui r ha
steso , e che sarà imitativo di quello ,
che dee. fare il compagno per venire
da C in A. Con i s^ni imitati- vi
dunque si pò^no denotare le cose
invisibili nel momen- to. Questi s^i
imitativi si possono eseguire in vari
modi : così per denotare una serpe
si può su l’arena designare la sua
forma, o il suo moto tortuoso. §.
33. Abbiamo veduto, che vi sono de’
s^i naturali delle nostre interne modificazioni ,
e che questi segni possono di- venire artificiali
, e così costituire un primo linguaggio,
che abbiamo chimato linguaggio della natura.
Abbiamo detto inol- tre nel §. antecedente ,
che 1’ uomo può con altri s^ni
ac- crescere questo linguaggio della natura;
ed abbiamo chiamato i s^i, che accrescono
il linguaggio della natura, segni in-
dicatori , e segni imitativi. Ora qual principio
può guidare r uomo a ritrovare le ultiqie
specie di segni ? Nella logica
pura vi ho detto , che lo spirito è
naenato nel passare analiticamente da una
proposizione ad un’ altra, ad una
certa similitudine che passa fra 1’
una e 1’ altra; il prin- cìpio della
similitudine è dunque un principio d’ invenzione,
e questo principio ha condotto gli uomini ,
partendo dal lin- guaggio della natura, a
ritrovare i segni indicatori, ed i se- gni
imitativi, queste due specie di segni
possono perciò chia- marsi segni analogici.
Difatto fra il moto del miodito , con
cui mostro l’ oggetto lontano, ed il
moto che dovrei fare col mio corpo ,
per arrivare , pel cammino più breve , all’
og- Digitized by Google 73
getto, vi si osserva una similitudine:
una certa similitudine si os- serva
eziandio trai segni imitativi e ciò di
cui sono l'imitazione. X>e interne
modìGcazioni dello spirito possono manifestarsi
per mezzo de’ moti del corpo. Il
desiderio , il rifiuto, l’ av- versione, il
disostosi esprimono per mezzo de’moti del
braccio,- della testa, e per mezzo di
quelli del corpo intero, moti piò o
meno vivi, secondo la vivacità, con
cui ci portiamo verso di un (^getto,
o ce ne allontaniamo. Tutti i sentimenti
del- 1’ anima possono esser espressi
dalle posizioni del corpo. Esse dipingono di
una maniera sensibile l’ indifferenza, l’
incertezza, r attenzione , e le altre affezioni interne.
Ora se ripetendo queste azioni, e posizioni
del corpo, si denota insieme, che
esse non si riferiscono ad affezioni
presenti , allora denoteranno le modificazioni ,
da cui siamo stati affetti. L’
analògia acquista spesso una grande
estensione. Cosi , per esempio , quando voglio
attendere ad un oggetto , die colpisce i
miei occhi, dirigo lo sguardo verso
di esso: questa direzione è segno dell’
attenzione dello spirito ; ma io posso
ancora rivolgere la mia attenzione ad
oggetti invisibili : se dunque per denotare
questa ultima attenzione, mi servo della
- direzione dello sguardo ; questo segno
si estende al di là di ciò, che
naturalmente denota. Allora che io peso
un corpo, lo paragono ad un altro ;
pesare è dunque paragonare ; ma paragonare
non è sempre pesare; perciò quando per esprimere
l’azione intellettuale che paragona, io
prendo nelle due mani de’ corpi , come
fo quando viglio pesarli , questa azione è
trasportata a denotare più di quello che
denotava in origine. Questa terza specie
di segni, che l’analogìa somministra agli
nomini , si possono chiamare segni figurali.
L’ unione de< segni indicatori ,
imitativi , o figurati costi- tuisce il linguaggio
analogico. Cosi i segni naturali , divenendo
artificiali , costitoiscono il linguaggio della natura
: gli uomini guidati dal principio della
similitudine, partendo dal principio della natura
, inventano il linguaggio analogico. §.
34. Ma fa d’uopo considerare l’ultimo
linguaggio, di cui abbìam parlato , in
colui che per parlarlo lo trova: ed
Digilized by Google 74 in
colui che l’intende. Nel primo, il
principio della simili- tudine guida la
meditazione a produrre nuove idee ; nel se-
condo il principio della similitudine riproduce
alcune idee si- mili a quelle , che
modiBcano attualmente lo spirito. Quando .
colui che vuol parlare fa uso il
primo di alcuni gesti , per denotare alcuni
dati pensieri, ^li, guidato dall’analogia, in-
venta questi segni , e qu^ti s^ni , e questa invenzione
è un prodotto della meditazione ; ma colui
che ascolta intende questi . s^ni in
forza del principio meccanico deH’associazione
dellé idee. Fra i principi particolari
compresi sotto questo principio generale,
si contiene come abbiamo detto nella
Psicologia, il principio della similitudine :
in forza di questo principio il moto
del dito riproduce l' idea del moto
simile del corpo in- tero , e questa
riproduce quella delle modificazioni interne
dello spirito legate col moto del
corpo intero. Colui che istituisce il
linguaggio per farsi intendere è attivo :
quegli che intende il linguaggio btituito è
passivo. I gesti , i moti del vbo, ed i
suoni inarticolati costitubeono il linguaggio
chia- mato da CondxUac linguaggio di
aziona. Su di esso debba fare ancora
due osservazioni. 1..° un tal linguaggio
esiste ancora*. esso accompagna quello de’
suoni articolati ; un oratore parla
eziandio coi gesti , colla posizione del
corpo , co’ moti del vbo , e principalmente
co’ moti degli occhi. Ciò che si
chbma mimica consiste appunto nell’ arte
di far concordare il lin- guaggio di
azione con quello de’ suoni articolati :
2.° col solo linguaggio di azione , anche
dopo T istituzione di quello de’ suoni
articolati, alcune nazioni incivilite esprimevano
de’ lunghi discorsi. Presso i Romani i pantomimi
rappresentavano de’ pezzi interi, senza proferire
una parola, ^li bisognava dunque , che i
pan- tomimi , partendo dal linguaggio della
natura prendessero l’ analogb per guida , e
così poterono pervenire a farsi in- tendere.
La scrittura santa ci somministra ne’
profeti molti esempi di questo linguaggio
analogico di azione. Così , per darne
un esempio , ad (^getto di denotare che
la Giudea ch’era imita con Dio , sarebbe
poi stata da Dio rigettata c dispersa
per la sua superbia ed idolatria , il
profeta Geremia *, per ■0:- Digitized
by Google 73 ordine di Dio ,
si cinge con una cintura di lino i
lombi , indi si toglie questa cintura , e
presso T Eufrate in un forame di una
pietra la nasconde : dopo molti giorni
ritorna a prendere la nascosta cintura , e
la trova infracidita in modo , cf)’
era inutile per qualunque uso. Nella
profezia di Geremia si possotm trovare
molti esempi di questo linguaggio analogico
di azione. §. 35. Se i moti del
nostro corpo da segni naturali diven*
gono segni artificiali , e se questo
linguaggio può essere ac- cresciuto
dall’analogia, quello de’ suoni che da
naturali sono ancora divenuti s^ni
artificiali, non potrà similmente essere
accrescinto dall’ analogia stessa 7 Se il
selvaggio , per deno- tare il moto che dee
fare , secondo il suo desiderio , il suo
compagno , può servirsi del moto simile
del suo dito , per- chè per denotare il
muggito del bove , il belare delle peco-
re , il rumore del tuono , non potrà egli
adoperare un suo- no simile 7 L' analogia
che 1’ ha menato all’ invenzione dei
primi segni , dee menarlo ancora all’
invenzione de’ secondi. Il bisogno di
denotare questi suoni degli oggetti sonori,
me- na il sdvaggio a produrre fuori de’
suoni imitativi , e così nascono le -prime
voci radicali del linguaggio de’ suoni
arti- colati. Questi suoni non poterono
essere dapprincipio se non che monosillabi ,
come lo prova l’ esempio de’ fanciulli.
Ma l’analogia non fu il solo
principio del linguaggio de’ suoni alticolati,
poiché non sempre si debbono denotare
suoni, o cose sonore. Per denotare
dunque le cose che non mandano suono , l'
analogia fece però conoscere agli uomini ,
che po- tevano servirà de’ suoni articolati ,
per farà comprendere. Ciò posto se il
selvaggio si trovò nel bisogno di
farsi com- prendere , se non trovò altro
mezzo per ottenere il suo fi- ne , se
non quello dei suoni , perchè non potè
egli produr- re un suono arbitrario , il
quale poi compreso dall’altro di- venne un
segno comune 7 Per rendere sensibile
ciò che dico , supponiamo , che ì due
solitari immaginati siensi perduti di f bta
, e che l’ uno voglia ritrovar 1’ altro ,
egli conoscerà certamente , che non potrà
far comprendere all’ altro questa sua
volontà , se non Digitized by Coogle
76 che per mezzo di un
suono. Egli manderà dunque fuori un
grido ; questo grido da principio non sarà
, come ognun ve- de, se non che un
puro effetto naturale. Se il dolore è
na- tiiralinente sonito da un suono
inarticolato , dal pianto e dal gemito ;
perchè il bisogno di spiegarsi , e di
mandar fuori un suono , non potrà
esser seguito da un suono quale che
siasi ? Noi non poliamo determinar la
ragione , per cui il, selvaggio manda fuori
un tal suono piuttosto che un altro ,
come volendo camminare non possiamo
conoscere la ragione , perchè abbiamo mosso
il piede diritto anzi che il sinistro , o
questo anzi che quello. Questa ragione
può consistere , almeno in parte , nella
varia posizióne meccr- nica del nostro
cervello , e generalmente di tutto il no-
stro corpo. Ma saniamo lo sviluppa della
nostih ipotesi. L’ altro selvaggio sentendo
il grido , di cui si parla , ac- corre a
ritrovare il suo compagno, e come amendue
avran- no osservato, che un tal grido
ha la forza di fs^r che l’uno
ritorni all’ altro , i due solitari se
ne serviranno appostata- mente. lu tal
caso la voce di cui parliamo ha
lo stesso si- gnificato del verbo vieni.
Può dunque 1' uomo ritrovare dei
suoni articolati non imitativi , per denotare
agli altri le sue interne modificazioni.
Egli può trovarsi nel bisr^no di
farsi comprendere dal suo simile con
un suono : da un tal biso- gno nasce
la volontà di mandar fuori un suono:
questa vo- lontà avrà il suo effetto ,
ed un suono sarà da lui mandato
fuori; questo suono sarà tale e non
altro, perchè tale e non ^Itro è lo
stato fisico del corpo , che produce
il suono , e lo stato morale ancora
dello spirito animatore di questo cor- *
po. Ecco spigata la nascita de’ suoni
arbitrari. Ciò che ho detto è provato
coll’ esempio de’ fanciulli: eglino innanzi
che abbiano appreso a parlare, quando
bramano alcuna cosa ar- dentemente, nell’atto
che si sforzano di acceimarla co’gesti , e
co’ movimenti del corpo , per lo più
proferiscono insieme una qualche voce ;
poiché lo spirito quando, si trova in
qual- che grave bisogno mette ad un
tempo tutte le sue facoltà in azione.
Questo è comune alle bestie ancora. Anzi i
sordi muti Digilized by Google
77 medesimi, benché nemmeno sappiano
di aver voce, ciò non ostante per
non so qnal movimento meccanico, mentre
s'im- pegnano di spiegarsi co’lorogesti,
principalmràtc quando si trat- ta di cose ,
che molto l’ interessano , e che non
possono fa- cilmente farsi comprendere , mandano
anch’essi quando una, e quando un’ altra
voce. §. 36. Gli uomini possono
dunque istituire de’ suoni arti- colati analogici,
e possono istituire ancora de’ suoni
articola- ti arbitrari. Io li chiamo arbitrari,
non già perchè son pro- dotti senza
una ragion sufficiente; ma perchè non
sono imi- tativi, o analogici. Qiìal
similitudine, per esempio, può mai trovarsi
fra questo suono Cielo, ed il
complesso delle sensa- zioni visuali , che
ci desta in una notte tranquilla il
firma- mento 7 £ perchè la costituzione fisica e
morale , in cui si son trovati gl’ inventori
delle lingue , allora che furono ndl
bisogno, di denotare con un suono uno
stesso oggetto, è sta- ta varia non
solamente per la natura , e per gli
abiti con- tratti , ma eziandio per i
climi, ed i siti ; perciò in diversi
luoghi di questo globo terraqueo nacquero
diversi suoni pri- mitivi, come è provato per
le radici di tutte le lingue co-
gnite. V . §. 37. n fatto de’
fanciulli prova senza replica , che gli
uomini possono arrivare a comprendere il
linguaggio arbitra- rio. E meditando attentamente
su di questo fatto st può in- tendere
come ciò possa avvenire. Supponiamo che
un fanciul- lo' abbia appreso il
significato del vocabolo gallina , il che
può accadere unendosi da alcuno alla
prouunciazionc del vo- cabolo gallina l’
indicazione del volatile dal vocabolo deno-
tato : supponiamo inoltre, che il fanciullo
abbia veduto una gallina morta e che
il giorno seguente ascolti da uno
della famiglia questa proposizione: la
gallina jeri morì, si accor- gerà che
si vuole denotare 1’ avvenimento, del la
morte della gallina , accaduto, il giorno
innanzi. Supponiamo ancora che la
proposizione: la gallina jeri mori siasi
udita più volte dal fanciullo in modo
che egli 1' abbia impressa nella sua
me- moria ; « che avendo veduto ima cagna
partorita il giorno Digitized by
Coogle 78 avanti , c sapendo il
signifìcato del vocabolo tagm , ascolti la
seguente proposizione : la cagna jeri
partorì', ecco la se- rie de’ fatti
intellettuali che in tal caso avranno
luogo nello spirito del fanciullo: l.°
egli intenderà che colla proposizone, la
cagna jeri partorì, si denota il
parto della cagna da lui il giorno
antecedente osservato: 2.* la pronunciazione
del vo- cabolo jeri, per la le^
dell’associazione delle idee, riprodur- rà nel
suo spirito l’altra proposizione , la gallina
jeri mor\\ 3.° volendo intendere il
significato di ciascun vocabolo delle due proposizioni,
il fanciullo dirigerà la meditazione su
le stes- 'se; 4.” paragonando le due
proposizioni fra di esse , e coi fatti
dalle stesse denotate, non meno che i
fatti stessi fra di loro , il
fanciullo vede che le due proposizioni
sono identi- che nel vocabolo jeri] e che i
due fatti significati sono iden- tici nella
circostanza del tempo in cui sono
accaduti; essen- do tutti e due accaduti
nel giorno precedente a quello in cui
si parla: 5.° con questi paragoni il
lànciullo intenderà il significa- to del
vocabolo jeri isolatamente considerato, 6.°
dopo di ciò comprenderà eziandio il
significato isolato de’ vocaboli mori «
partorì ; poiché avendo compreso il
significato in confuso delle due
proposizioni, ed indi il significato
distinto del vo- cabolo jeri, e sapendo
dall’ altra parte il significato distinto
de’ vocaboli^ gallina, e cagna, conoscerà , che i
vocaboli mo- ri e partorì sono destinati a
denotare i due avvenimenti, e ne apprenderà
perciò il loro distinto significato.
Questo esempio fa vedere che i fanciulli
meditano prima di apprendere il linguaggio
più di quello che comunemente si
crede ; e che le nozioni soggettive d’
identità , e dì diversità sono antecedenti
alla conoscenza della propria lìngua, e
ser- vono ai fanciulli per farla loro
apprendere. §. 38. Nell’ Ideologia vi
ho detto , che i vocaboli o de- notano gli
oggetti.de’ nostri pensieri , o l’ azione dello
spirito su di questi oggetti : Pietro è
con Paolo , i vocaboli Pietro e Paolo
denotano gli oggetti de' nostri pensieri ; i
vocaboli ^, con denotano I’ azione
dello spirito su dì questi (ggetti.
Ma ciò richiede ancora una ma^iore
spiegazione. Il vocabolo 4 Digitized
by Google 79 significa r azione
dello spirito , che attribuisce a Paolo il
rap- porto di compagnia con Pietro. Ma
acciocché lo spirito avesse la nozione
soggettiva di tal rapporto , è necessaria la
com- parazione di Pietro con Paolo'
riguardo alla loro esistenza in un
certo tempo , ed in un certo spazio ;
questa comparazione aggiunge all' idea
assoluta di Paolo il rapporto di
compagnia con Pietro : la voce con
esprime un tal rapporto , e per questa
ragione un tal vocabolo può riguardarsi
eziandio come segno dell’ azione dello
spirito che compara. Pur tuttavia essendo
il rapporto uq prodotto della* comparazione
preliminare all’ atto del giudizio , pare
che sia ma^ior esattezza il di^nguere
i vocaboli , che denotano 1’ azione
dello ^irito , in vocaboli di giudizio ed
in vocaboli di rapporto. £ questa
distinzione si trova in un opuscolo
di Mariano Gigli, ìatÀUAato-Metafùica del
linguaggio. Secondo questa osservazione i vocaboli
si distinguono in vocabbli di cosa,
in vocaboli di giudizio ed in
vocaboli di rapporto. Così nella
proposizione: Pietro è con Paolo , i vo- caboli
Pietro, c Paolo son vocaboli di cosa,
il vocabolo i, espri- mendo l’atto del
giudizio, è vocabolo di giudizio, ed il
vo- cabolo con è vocabolo di rapporto :
esso denota insime l’azione comparativa, ed
il rapporto di questa azione. Secondo
la grammatica generale e ragionata di
Portoreale, ■ ■ vocaboli si distii^cno in
due classi, alcuni significano gli oggetti
de’ nostri pensieri , altri significano la
forma , e la maniera de’ nostri pensieri di
cui la principale è il giudizio. Questa
distinzione mi sembra giusta , cd in
seguito di ciò che abbiamo detto è
chiara. I vocaboli materialmoite considerati
sono o radicali , o de~ rioati , 0 toHituiti. Radicali
, o primitivi son quelli , che non nasc<mo
da altra voce conosciuta ed usata
nella medesima lin- gua , come tote , dolce
, fuggire ec. Derivati son quelli, che
provengono da voci conosciute , ed usate , nella
medesima lin- gua , come talare, dolcezza,
fuggitivo ee. Sostituiti son quelli, che
per maggiore chiarezza , e per brevità si
pongono in luo- go di altre voci
conosciute , ed usate nella medesima
lingua, come mio pensante ec. per di
me, che pensa ec. Digitized by
Google 80 È facile a eomprendei si ,
che ritrovati i vocaboli radicali r analogia
ha menato gli uomini a ritrovare i
vocal>oti deri- vati, e sostituiti, e cosi ad
accrescere notabilmente il linguaggio. Difatti
quanti nomi sostantivi non si possono
trarre dagli aggettivi, quanti aggettivi
da' sostantivi, quanti nomi da'verbi,
quanti verbi da' nomi ? I sostantivi nerezza ,
bianchezza , lunghezza ec. tutti vengono
da nero, bianco, lungo; gli ag- gettivi
celeste, terrestre, marmo ec. derivano da
cielo, terra, mare; i nomi speranza , amore ,
dolore, volontà ec. derivano dai verbi
sperare, amare, dolere* volere. 1 wirbi
velare, ve- stire ec. nascono da velo,
veste. Inoltre quante parole formar non
si possono dall’ unione di due o più
altre? I latini unen- » do il verbo
esse a varie proposizioni, ne facevano adesse,
ab- esse , obesse ,* inesse , processe ,
prodesse , subesse; superesse, interesse. Dall’
unione poi di un nome e di un
verbo, quanti altri composti facessero i
greci e gli ebrei, e quanti ne faccia- no i
cinesi, e tutti gli orientali, è abbastanza
noto agli eru- diti. Tutte le lingue
originali, che diconsi lingue madri, han-
no pochissime radici primitive , per mezzo delle
varie com- binazioni di queste compongono
un gran numero di vocaboli. §.
39. Gli uomini dunque , per manifestare
agli altri i propri pensieri, hanno
potuto istituire il linguaggio dei suo- ni
articolati. Questa invenzione è la causa
principale, che ha condotto il geqere
umano a quel grado di coltura e di
per- fezione , in cui oggi lo vediamo.
Nell' Ideologia vi ho fatto conoscere
come il lir^uaggio faccia 1' analisi del
pensiere , e come sia un valevole soccorso
per la meditazione. Ma indi- pendentemente
dalla influenza che ha pel progresso
delle nò- stre conoscenze, considerato riguardo
all’ individuo che se ne serve, ne
ha una notabilissima considerato riguardo
alla so- cietà , e relativamente all’ individuo,
che ascolta e riceve le altrui conoscenze.
Il linguaggio può essere considerato come
un mezzo , che fa progredire lo
spirito nella propria medi- tazione ; ed
ancora come un mezzo di comunicazione
scam- bievole de’ pensieri degli uomini:
nel primo caso serve d’ is- trumento
all’ azione meditativa , per ritrovare la
verità; nel Digilized by Google
81 secondo presenta allo spirito de’
nuovi materiali per le sue conoscenze.
Nell’ Ideologia 1’ abbiamo considerato sotto
il pri- mo aspetto; qui fa d’ uopo
considerarlo sotto il secondo. Gli
uomini non potendo esistere in tutti i
luoghi > nè in tutti i tempi ; segue
che non tutti possono osservare tutti
i fatti ; un Uomo può perciò aver
osservato de’ fatti , che un altro non
ha osservato. Se dunque il primo
comunica al se- condo le sue osservazioni,
questi conoscerà de’ fatti che non ha
osservato ; e questa conoscenza avrà per
motivo 1’ altrui testimonianza, e costituisce
ciò che si chiama certezza morale^
Domandate, per esempio, ad un napolitano,
il quale non sia mai uscito di
questa città , perche egli creda l’
esistenza di tante altre città , di
Roma , di Milano, di Parigi, di
Madrid di Londra ec.; vi addurrà per
motivo la testimonianza di al- tri uomini,
che hanno veduto le città nominate,
ed egli sa- rà tanto certo dell’
esistenza di queste, quanto lo sarebbe,
se le vedes» co’ propri occhi. Non
basta, che un uomo conosca un fatto,
che un altro ignora, è necessario che
abbia la volontà di narrare il vero,
afllnchè l’altro non fosse dalla
testimonianza del primo in- gannato. Per
disgrazia dell’ umanità la volontà d’
ingannare i propri simili si trova
non poche volte negli uomini ; e non
poche volte ancora accade, che gli
uomini ingannino non già perchè vogliono
ingannare; ma perchè o non hanno conosciuta
esattamente il vero, o sono stati da
altri ingannati. Da. ciò lo scetticismo ha
preso il motivo di combattere la
certezza mo- rale. Ma dicano quello che
vogliono gli scettici, l’esperien- za ci
manifesta queste due verità, l,°un uomo
può aver co- nosciuto de’ fatti, che
un altro, o non ha potuto conoscere, o
non ha conosciuto; 2.° vi sono alcuni
fatti di tal natura, su de’ quali
non si trova giammai concordemente fallace
la te- stimonianza di coloro, che gli
hanno osservati. Non si è tro- vata giammai
fallace la testimonianza di coloro che
sono stati in Napoli , nello assicurarmi
dell’ esistenza di questa città ; r
esperienza stessa me ne ha assicurato ,
poiché essendo io stato in Napoli, ho
ammirato io stesso co’ miei occhi questa
Call. Vob, IL 6 Digilized by
Google 82 magnifica città , ed
ho così trovata verace l’ altrui testimo-
nianza: la stessa esperienza ho ripetuto circa
molti altrifat- ti. È dunque una verità di
esperienza quella che stabilisce , essere
la concorde testimonianza di altri nomini,
circa alcu- ni fatti , un motivo leggittimo
dei nostri giudizi Vi sono , è vero , degli
uomini che narrano de' fatti , de’ quali
non sono stati testimoni oculari, e su de’
quali sono stati da altri ingannati ; e
vi sono ancora di quelli , che volontaria-
mente mentiscono. Ma vi sono eziandìo de’
testimoni non so- lamente oculari di alcuni
fatti ; ma testimoni tali che non
somministrano alcun motivo di dubitare
della loro veracità. È questa una verità
che la propria giornaliera esperienza ci
manifesta. Chiunque non ha veduto Napoleone
Bonaparte,è sicuro nulla dì meno , per la
testimonianza di altri , che vi sia stato
un uomo così chiamato , il quale ha
esercitato il som- mo potere nella Francia ,
ha perduto poi il trono , ed è morto
prigioniero nell’ Isola di S. Siena. A
suo luogo parleremo de’ limiti della
certezza morale : qui mi son ristretto a
stabi- lire la sua esistenza : per istabilirla
ho stimato di salire a’suoi pri- mi
princìpi. Ho fatto vedere , che un uomo ,
può intendere un altro , che l’ nomo
può voler essere inteso ; e che da
ciò nasce il primo linguaggio chiamato
linguaggio della natura ; che r analogia
può accrescere un tale linguaggio , e far
na- scere ancora alcuni vocaboli radicali
analogici ; che il biso- gno può menare
poi gli uomini a stabilire altri vocaboli
ra- dicali arbitrari ; e che così ha potuto
nascere il linguaggio , de’ suoni
articolati. L’esperioiza m’insegna , che vi sono
delle cose circa le quali altri non
s’ ingannano , nè si propongono d’ ingannarmi.
Da ciò concludo, che l’altrui testimonianza
, cioè il linguaggio volontario degli
altri nomini, può in molti casi, circa ì
fatti , essere un motivo legittimo de’ nostri
giu- dizi. Io non posso coesistere a tutte
le generazioni , ed a tutti i luoghi. La
mia durata è breve : il mio luogo è
quasi un punto nello spazio. Intanto
vi sono moltissime cose , die m’ importa di
conoscere , e che sono accadute prima della
mìa nascita, o che accadono in luoghi più o
meno lontani da quello Digitized by
Coogle 83 ove io mi trovo.
La testimonianza altrui mi è dunque neces*
saria per 1’ acquisto di tali
conoscenze. §. M. Il linguaggio de’
suoni è un linguaggio passeggierò e limitato
ad alcuni luoghi. Un uomo , che per
mezzo delle parole comunica agli altri i
suoi pensieri , non può farlo , se non che
nel tempo in cui egli parla , e ne’
luoghi ne’ quali può estendersi il
suono delle sue parole. Un gran
problema presentai al genere umano : il
problema consiste a trovare il mezzo di
estendere a tutti i tempi , ed a tutti i luoghi ,
il lingua^io limitato della parola. Voi
già comprendete l' im- portanza del problema
enunciato , e che la soluzione di esso dee
formare la seconda epoca, del progresso
delle umane co- noscenze ponendo la prima
nella nascita del linguaggio parlato. I
fatti ovvi e ripetuti incessantemente sogliono
destar poco r attenzione del volgo degli
uomini , e perciò non gli recano sorpresa .
Vi ho fatto sopra osservare quale
studio fanno i fanciulli per apprendere ,
sin da’ loro primi anni , il linguag- gio
della parola ; intanto si crede forse , che
essi non me- ditino affatto ; appunto
perchè comunemente iiiuno cerca di
conoscere come i fanciulli apprendano tal-
linguaggio. Vi ho detto nel secondo
capitolo della logica pura , essere un
errore il credere , che le cose sieno
state in tutti i tempi , come sono in
un certo tempo; e qui è il luogo di
fare uso di questa importante osservazione.
La nostra educazione letteraria incomincia
, dal fare ap- prendere a’ fanciulli le
lettere dell’ alfabeto; ma v’ingannereste
credendo , che la scrittura , vale a dire ,
l’arte di dipingere la parola e di
parlare agli occhi , sia stata conosciuta
nella prima fanciullezza del genere umano :
^no scorsi de’ secoli prima che
siensi trovate le lettere dell' alfabeto :
la scrittura non è stata conosciuta che
molto tardi. Siccome questa ci somministra
un motivo molto fecondo di conoscenze ,
cosi è necessario , dopo di aver cercato
l’origine del linguaggio parlato , di
cercar quella del linguaggio scritto.
§. 41. Qual mezzo si può<
presentare agli uomini , per perpotuafc la
memoria de’ fatti accaduti ? In primo
luogo si Digitized by Google
81 può osservare un tal mezzo
nello stesso linguaggio parlato. La
propagazione del genere umano si fa
in modo, che gl’indi' vidui di una
età vivono insieme per qualche tempo
coi loro antenati , e coi loro discendenti.
Un uomo può dunque nar- rare alla sua
fìgliuolanza tanto quello che egli stesso
ha ve- duto , quanto quello che c^Ii
ha udito da suo padre, da suo
avo, e da tutti coloro, che sono
stati testimoni oculari de’fatti accaduti
prima della sua nascita, e del tempo
in cui egli aves.se potuto osservarli*,
questo uomo essendo il primo testimone
di udito, costituisce il secondo anello
della testimonianza; gli altri che
ascoltano il fatto da lui narrato ne
costituiscono il terzo, il quarto ec.
Così si forma una serie non
interrotta di testimoni oculari, e costituisce
ciò che chiamasi tradizione orale. La
maniera più generalmente adoprata ne’ primi
tempi , per osservare la tradizione orale ,
era quella di comporre una specie di
ode o di cantico. Cotesta sorte di
poesia racchiudeva le principali circostanze
degli avvenimenti , che volevano alla posterità
tramandarsi. Vedasi questo uso stabilito
ne’ secoli più remoti appo tutte le
nazioni, tanto dell’ antico, che del
nuovo continente. Dopo la sommersione dell’
esercito di Faraone nel mare rosso, Moisè,
e gli Istraditi composero un cantico di
lode, e di ringraziamento al Signore, nel
quale cantico era espres- so questo
memorabile avvenimento, come si legge -nel
capo XV. dell’ esodo. Al mezzo
della tradizione orale , per conservare la
memo- ria degli avvenimenti passati , si è
aggiunto quello di alcuni grossolani
monumenti. L’ uso dei primi secoli era
di piantare un bosco , d’ innalzare im
altare , o un monte di pietre , di
stabilue delle feste , e di comporre de’
cantici in occasione di avvenimenti
riguardevoli. Quasi sempre davasi a’ luoghi
ove erano accaduti de’ fatti memorabili ,
un nome relativo ai fatti ed alle
circostanze. L’ istoria di tutte le nazioni
somministra molte prove , ed esempi di
queste antiche costumanze. Si vedono i
patriarchi innalzare un altare nei luoghi ,
ove era loro apparso il Signore , piantare
de’ boschi , fare dei monti
Digitized by Google 85 di
pietra in memoria de’ principali ancnimenti
della loro vita c dare a’ luoghi , ove
erano accaduti de’ nomi che ne ri-
chiamassero la memoria. Se si consultano
gli scrittori pro- fani , questi attestano
lo stesso. Ne’ contorni di Cadice
vede- vansi in altri tempi delle
pietre ammassate, le quali si dicevano
essere i monumenti delia spedizione di Ercole
nella Spagna. Tutte queste diiTerenti
pratiche hanno servito a rinfrescare la
memoria de’ fatti memorabili , e a perpetuare le
scoperte importanti. La tradizione suppliva
allora alla mancanza della scrittura ; i
padri spiegavano a’ loro figliuoli l’
origine di que- sti monumenti , e gl’ istruivano
de’ fatti , i quali ne erano stati la
cagione. Io chiamo tradizione tanto la
tradizione orale , quanto 1’ unione
della tradizione orale coi monumenti.
§. 42. Fra lo spezie de!
monumenti composti dagli uomini, ad oggetto
di perpetuare la memoria de’- fatti passati
, untt. delle principali, che siasi
presentata al loro spirito, è stata la
rappresentazione degli oggetti corporali. I primi
uomini pen- sarono naturalmente, d’ impiegar
questo mezzo, per rendere i loro pensieri
sensibili alla vista, e cominciarono dal
presen- tare agli occhi il ritratto degli
oggetti , dei quali volevano parlare. Per
fare conoscere , per cagione di-esempio, che
un uomo aveva ucciso un altro , eglino
disegnavano una figura umana stesa per
terra, ed. una altra in faccia di
quella dritta con un’ arma alla mano.
Per fare intendere, che alcuno era
abbordato per mare in un paese,
rappresentavano un uomo assiso sopra una
barca , e così del resto. Da quello ,
che degli antichi monumenti è rimasto , puà
assicurarsi, che in prima origine I’
arte dello scrivere consi-r steva ili
una rappresentazione informe e grossolana degli
og- getti. corporali. L’ uomo di sua
natura imita facilmente, ed in ogni
nazione vedesi la gente portata a ricopiare
gli oggetti che le si presen- tano.
Le nazioni più selvagge, o quello le
quali hanno minor relazione e commercio con
i popoli colti, possiedono con tutto ciò
una certa idea dell’ arto del
disegnare, vale a dire di rap- presentare,
beiichò rozzamente, gli oggetti della
natura. L’ onir Digitized by Google
8« bra che produce ogni corpo
sopra una superficie che gli sia
opposta, quando il corpo si oppone al
passaggio della Ince, ha somministrate le
prime idee del disegno. Tirando su i
li- miti dell’ ombra alcune linee , allora
che 1’ ombra sparisce, la figura
descritta con queste linee sarà simile
alla figura del corpo che getta I’
mnbra. Dopo le prime esperienze i primi
popoli avranno tentato di rappresentare, e
di copiare gli oggetti senza I’ ajuto
della loro ombra. Avranno a poco a poco
av- vezzata la mano a lasciarsi guidare
dall’ occhi o, ed a seguire le
proporzioni suggeritele dalla vista. Il
disegno nella sua ori- gine consisteva
solamente nella circoscrizione del contorno
es- teriore degli oggetti. Si tentò dopo
di esprimere le parti in- teriori , che T
ombra non disegnava , come per cagione
di esempio una testa , gli occhi , il naso
ec. Il carbone, la creta ec.
avranno potuto somministrare a’ pri- mi
uomini la maniera di disegnare sopra
il legno, sopra la pie- tra ec. come
ancora si saranno eglino esercitati in
ciò su la sabbia, su la terra
molle ec. Avranno in seguito con l’
ajuto dei sassi, e di altri strumenti
taglienti procurato d’ imprimere de’s^i sopra
le materie solide. La forma che
prendono i corpi molli insinuati ne’ corpi
duri, e l’ impronta che lasciano i corpi
duri applicati a’ corpi molli , avranno
su^rito a’ primi uomini I’ arte del
model- lare. Questa avrà a poco a poco
prodotta quella dell’ intagliare nel 1(^0.
nella pietra , e nel marmo. In questa
maniera il dis^o, la scoltura, l’intaglio
avranno avuto la loro origine; questo
arti, a mio credere, hanno preceduto la
pittura. Hanno queste rappresentazioni degli
oggetti corporali servito per molto tempo
invece della scrittura propriamente detta. Io
chiamo la rappresentazione degli oggetti
corporali , della quale ho parlato , scrittura
figurativa. Questa maniera di scrivere
richiedeva molto tempo; si pensò perciò
di renderla più semplice , ed invece di
dis^nare per intero a cagion d’ esempio,
un uomo, un albero, un cavallo, si
disegnavano le parti principali che li
facevano conoscere; come per esempio la
testa, la mano ec. D^itized by
Google 87 §. 43. Ma questa
scrittura fìgurativa non poteva essere
suf> fìcieute per esprimere tutti i
pensieri degli uomini. Vi sono molte
cose, che non si possono dipingere,
come sono lo spirito, le sue facoltà,
le sue modificazioni. È impossibile di |>arlare
delle cose materiali, senza unirvi delle
idee die non sono capa- ci d’ immagini ;
come per esempio , descrivere l’ immagine dell’
affermazione, e della negazione? Fa d’ uopo
dunque in- ventare i segni di queste idee
intellettuali e 1’ analogia guidò gli
uomini a trovarli. Si concepì una
certa similitudine fra alcune qualità, che
si osservano negli uomini, e quelle che
si osservano negli animali, e per
esprimere, che un uomo è in queste qualità
simile ad un certo animale, si disse
più brevemente, che il tale uomo è un
tale animale ; cosi per dire di un
uomo , che ^li è prudente, che ^li è
astuto, che è fiero e crudele , si dice ,
che è un serpente, una volpe, una
tigre; disegnando dunque l’immagine di
questi tali animali si disegnano mediatamente
le im- magini delle qualità spirituali, di
cui si tratta. Una tale rap- presentazione
costituisce ciò che chiamasi geroglifico. I
Cinesi per cagion di esempio , per
denotare che FoAt, primo fondatore del
loro impero, era dotato di prudenza,
e di sagace ingegno, lo disegnano col
capo umano unito ad un corpo di
serpente. Il successore di FoA» di
nome Xino , ad oggetto di denotare,
che egli si applicò all’ agricoltura ,
ed in- cominciò a porre i bovi sotto il
giogo , lo disegnano col capo di bove
unito al corpo umano. Gli antichi
denotarono la giustizia, dipingendo una
vergine cogli occhi bendati , tenendo in
una delle mani una bilancia, ed in
un' altra una spada. La vergine
figura la giustizia ; la bilancia denota
che la giustizia consiste a dare a ciascuno
il suo dritto, la spada significa,
che la giustizia dee infligger la
paia do- vuta a’delinguenti, gli occhi bendati
finalmente denotano, che la giustizia non
dee avere alcun riguardo alle persone,
ma deve agire conformemente alla legge,
senza esser mossa da motivi estrinseci.
Si vede qui che la similitudine
concepita fra alcuni modi de’ corpi , e
le qualità dello spirito, dettò questo
geroglifico. La giusti- Digitized by
Google 88 lia è una nozione astratta
, e le nozioni astratte sussistono sole
nello spirito ; passa perciò nna certa
similitudine fra T as-' trazione eia
personiGcazione, una vergine non è macchiata
da alcuna impurità corporale , e ia
giustizia dee esser monda da qualunque
difetto. Quando per dare ad un altro
una quan- tità di merce , questa si
pesa , ciò si fa per dargli ciò
che gli appartiene. Le similitudini fra
alcune modificazioni del cor- po , e quelle
dell’ animo si deducono da ciò , che
le prime sono i segni naturali delle
seconde. Denotando le prime si denotano
mediatamente le seconde ; e siccome le
prime son capaci d’ immagini corporali;
così lo sono mediatamente anche le
seconde ; e questa rappresentazione mediata
costituisce il geroglifico. Da ciò si
vede, che la scrittura geroglifica si
è unita alle volte alla scrittura
figurativa, come si vede ne’ due
esempi di Fohi , e di Xino. Alle volte è
stata impiegata solq come nell’ esempio
recato della giustizia. Si vede
inoltre, come questo modo di scrivere
fa le veci delle proposizioni verbali.
Cosi, per cagion di esempio, i ge-
roglifici rapportati valgono pel significato
quanto queste pro- posizioni verbali : F(M
fu dotalo di sagacità. Xino pronwtse ¥
agricoltura , e pose « bovi sotto il giogo ,
fa giustizia dà a ciascuno U tuo dritto,
infligge la pena dovuta a'delinguenti, né
si lascia muovere da molivi estrinseci.
Osservate , che ne’ geroglifici enunciati
si trovano i segni relativi al soletto , al
predicato , ed al verbo delle propo- sizioni
rapportate. Così il capo di forma
umajia nel primo geroglifico donata il
soggetto delia proposizione cioè Fohi , i{
corpo serpentino denota il predicato, cioè
la segacità, e l’ unio- ne del capo umano
al corpo serpentino denota l’ unione del
predicato al soggetto significato dal verbo
fà. Nel secondo ge- roglifico , il corpo
di figura umana denota il soggetto
della proposizione cioè Xino , il capo
bovino denota il predicato cioè l’aver
promosso l’agricoltura, e l’aver posto i bovi
sotto il gio- go; l’unione poi del capo
bovino alla forma umana denota l’u- nione
del predicato al soggetto, espressa dal
verbo promosse. Nel terzo geroglifico ,
il soggetto della proposizione è sw
Digitized by Google 89 gnificato
dalla vergine ; la bilancia , la spada,
la benda de> notano i predicati della
proposizione , e T anione di queste cose al
corpo della vergine denota T unione de^
predicati al soggetto. Da ciò segue,
che un geroglifico può esprimere diverse
pro> posizioni, 0 sia una proposizione
composta. Ciò si vede chia- ramente nel
geroglifico recato della giustizia. Wolfio
riferisce che un certo Comenio , volendo
formare il geroglifico del- r anima , dispose
de' punti in modo da formare una
figura simile a quella , che presenta 1’ ombra ,
prodotta dal corpo umano su di un
piano perpendicolare all' orizzonte, ed opposto
direttamente al corpo umano, ed al
lume. I punti, secondo i geometri, essendo
privi di estensione, denotano la semplicità
dell’ anima. La figura del corpo
umano costruendosi, per mez- zo de' soli
punti, senza l' intervento di alcuna linea,
denota la sostanzialità dell’ anima umana,
la quale sussiste indipen- dentemente dal
corpo. I punti, essendo disposti in modo,
che necessariamente formano la figura del
corpo umano, denotano l’ unione dell'
anima col corpo, la quale unione si
forma dal- r autore della natura , indipendentemente
dalla volontà del- r anima. Finalmente
questi punti , essendo dispersi in tutta la
figura del corpo umano , denotano la
dottrina degli sco- lastici, cioè che r
anima è tutta in tutto il corpo e
tutta in ciascuna parte. ir
geroglifico comcniano equivale perciò alle
scienti pro- posizioni : l.° l’anima è semplice:
2.° l’anima è una so- stanza: S.** 1’
anima, indipendentemente dalla sua volontà,
è unita al corpo : 4.” 1' anima
esiste tutta in tutto il corpo, e
tutta in ciascuna parte. §. 44.
Dopo r invenzione della scrittura geroglifica
por- tata al più alto grado di
perfezione, di cui era capace, restava
. ancora àgli uomini di farp 1’
ultimo sforzo per ritrovare i caratteri
alfabetici, che sono i segni del suono
non già d(^li oggetti. Vi sono stati
in ogni tempo degli spiriti sublimi , i
quali colle loro invenzioni hanno ampliato
notabilmente la sfe- ra delle umane cognizioni,
ed hanno spinto velocemente il
Digitized by Google 90 genere
umano verso quel grado di coltura , in
cui (^gi te vediamo. Un vocabolo è
un suono o composto, o semplice: per ren-
dere durevole questo segno basta dunque
stabilire de’ segni permanenti de’ suoni
semplici , che compongono i vocaboli ; e per
tale oggetto basta stabilire per segni
de’ suoni semplici alcune Ggnre , e la
scrittura alfabetica è trovata. Ma (pianto
tempo è egli trascorso, priachè una verità
cotanto semplice si presentasse allo
spirito de’ padri nostrii Si voleva
render permanente il lingua^io passaggiero
della parola ; e non si pensò di
decomporre i suoni articolari, e di stabilire
de’ segni permanenti de’ suoni semplici
che compongono i vo- caboli. Lo spirito intraprese
de’ cammini lunghi e tortuosi , per
tramandare alla posterità la somma delle
sue conoscenze. La scrittura fu prima
figurativa perfetta indi figurativa im- perfetta.
poiché si designarono prima gli oggetti
interi , indi le loro parti principali : in
seguito divenne geroglifica , indi tiUabica, e
finalmente alfabetica, lo dico prima
sillabica , e ' poi alfabetica , poiché penso
coll’ illustre Goguel autore del- r opera
su 1’ origine delle leggi, delle
arti, e delle scienze, che dopo la
scrittura geroglifica furono trovati i segni
de’ suo- ni delle sillabe de’ vocaboli ,
prima che si trovassero i segni de’
suoni semplici che compongono i suoni delle
sillabe. In questa maniera di scrivere ,
la quale chiamasi scrittura sU- labica
non s’ impiega se non che un solo
carattere per iscri- vere ciascuna sillaba,
di cui vien composta una parola. Non
si esprimono allora né vacaboli, né
consonanti. Noi, per esem. pio, per
iscrivere la voce pane impieghiamo quattro
lettere; nella scrittura sillabica non vi
bisognano se non che due caratteri.
Ora supponiamo che la pronuuciazione
del vocabolo pane risvegli r idea del
suono cane, e questo quella del suono
sa- ne , e che lo spirito mediti , e paragoni
fra di essi questi suoni : egli li
decompone in sillabe , e trova , che la
silla- ba ne è la stessa in tutti e
tre questi suoni , il che gli vie- ne
ancora insegnato dalla stessa scrittura
sillabica , poiché Digilized by Google
91 Io stesso carattere indica il
suono della sillaba ne in tutti e
tre i vocaboli enunciati. Questa identità
conosciuta mena lo spirito a notare la
diversità de’ suoni pa, ea, sa, che
sono le prime sillabe di questi
vocaboli ; ma in questa diversità lo
spirito trova ancora una identità nella
desinenza : tutte e tre queste sillabe
cadono nel suono a : ciò conduce lo
spi- rito a separare nelle sillabe pa, ca,
sa, il suono a dagli al- tri suoni
che vi si uniscono; e siccome egli ha
trovato i ca- ratteri de’ suoni pa, ea,
sa, così troverà il carattere del
suo- no a, e quelli de’ suoni p, c,
s, e la scrittura alfabetica è già
trovata. Ecco dunque i passi , che ha
dovuto fare lo spirito per ritrovare
la scrittura alfabetica , l.° egli ha
conosciuto che la maggior parte de' vocaboli
erano de’ suoni composti, e che potevano
perciò decomporsi in altri snoni ; 2.°
egli ha co- nosciuto, che poteva stabilire
segni di segni, e segni perma- nenti di
segni passaggieri; 3.° egli ha stabilito
de' caratteri, che fossero segni permanenti
del suono delle diverse sillabe, e così
nacque la scrittura sillabica : 4.° ^li
ha conosciuto che la maggior parte
delle sillabe erano de’ suoni composti
ancora, e siccome ha trovato de’ caratteri,
che fossero segni delle sillabe, ha
trovato ugualmente de' caratteri, che
fossero segni de’ suoni semplici; c così è
nata la scrittura alfabetica. Alcuni
eruditi, frai quali il citato Goguet,
pretendono che i caratteri alfabetici sieno
derivati da' segni geroglìGci, e che questi
ultimi abbiano a poco a poco introdotto il
metodo brè- ve delle lettere alfabetiche.
Questa opinione è falsa sotto un certo
riguardo, sebbene possa esser vera sotto di
un altro. Per presentacela quistione sotto
un aspetto filosofico, può cercarsi: l.°:
Lo spirito umano poteva, senza passare
per la scrittu- ra figurativa, e geroglifica,
passare immediatamente dal lin- guaggio della
parola al linguaggio permanente della
scrittu- ■ ra alfabetica ? È certo, che
poteva , poiché fra i passi , che egli
doveva fare, partendo dalla considerazione
della parola, per giungere alla scrittura
alfabetica, e che abbiamo di so- pra
sviluppato , non vi sono certamente quelli
della scrittu- Digitized by Google
92 ra figurativa e geroglifica. Si
può cercare S.'': La scrittura figurativa e
geroglifica doveva condurre naturalmente lo
spi- rito alla serittura alfabeticaì La
scrittura figurativa e ge.ro- glifica non
hanno relazione alcuna con le lettere
dell’ alfabeto, e per tal ragione non
hanno potuto condurre lo spirito a ri-
trovare la scrittura alfabetica. Ma hanno sotto
un altro ri- guardo potuto influire a
questa invenzione; queste due scrit- ture ,
come or ora vedremo , sono imperfette
assai, e com- plicate; lo spirito accorgendosi
della loro imperfezione e dif- ficoltà, ha
potato da ciò rivolgere la meditazione a
rendere più semplice, c facile il sistema
de’ segni permanenti. Si può cercare
3.° La figura de’ segni geroglifici
Jta potuto servir allo spirilo, per
concepir la figura de' primi caratteri alfa-
beticil Le ragioni addotte da Goguet
provano, che lo ha po- tuto. Paragonando ,
egli dice , con attenzione quello, che
a noi rimane dei caratteri ^iziani ,
con le figure geroglifiche intagliate sopra
gli obelischi, e gli altri monumenti, si
rica- va che le lettere egiziane tirano
da’ geroglifici la loro origi- ne. Nell’
alfabeto degli etiopi , e nelle lettere
majus cole de- gli armeni si trovano i
vestigi assai chiari della scrittura an- tica
geroglifica. A queste ragioni se ne
può aggiungere un’altra. Col pro- gresso
del tempo il rapporto di similitudine
tra il geroglifico e la idea da esso
significata , non si è piu ravvisato. Ciò è
accaduto per^due ragioni l.° alcuni
rapporti di similitudine erano troppo
lontani ; si esprimeva , per esempio , l’
impu- denza per una mosca , la scienza
per una formica : 2.° al- lorché furono
moltiplicati i volumi, si cercò il modo
di ab- breviare , e perciò invece del
geroglifico primitivo si fece uso di
un altro carattere, che noi possiamo
chiamare la scrittu- ra corrente de’
geroglifici : esso rassomigliava a’ caratteri
ci- nesi ; dopo d’essere stato da principio
formato dal solo con- torno della figura ,
divenne in stanilo una sorta di nota,
hi questo stato il geroglifico poteva
riguardarsi come il segno del vocabolo.
Tosto che si ebbero da’segni permanenti
de’vo- caboli , poteva pensarsi di dare de’
segni permanenti alle sil- Digitized
by Coogli 93 )àb« , ed indi
a’ suoni semplici di cui è composto
il snono delle sillabe. §. 45.
L’ essenza de’caratteri alfabetici si è l’
essere iso- latamente considerati , segni solamente
di suoni , non già di idee : i caratteri ,
per esempio ,a,e,i,o, u,b,c, ec. ,
isolatamente considerati nuli’ altro significano
, se non che alcuni suoni. I caratteri
poi della scrittura fìgurativa, e
geroglifica , non denotano suoni ma idee,
l’ immagine di un serpente denota l’idea
del serpente, quella della prudenza ec.
Le nostre cifre arabe ,1,2, 3,
4, 5, 6, 7, 8, 9, 0 , sono
ugualmente segni d’ idee, non di suoni:
essi si leg- gono diversamente presso le
diverse nazioni, sebbene sieno ì segni
delle stesse idee. Questa differenza è
della massima importanza. Colla divci^ sa
combinazione di un piccol numero di
caratteri, si possono scrivere tutti i
vocaboli di una lingua parlata. Ma
quando i segni della scrittura sono
segni d’ idee non già di suoni , il ^
numero di questi segni dee corrispondere
al numero de’ vo- caboli ; il che
rende il numero de’ caratteri molto
grande , e perciò esige uno studio
lungo , e difficile, per apprendere a l^gere , e
scrivere , come è provato per l’esempio de’Ci-
nesi. È questo un grande ostacolo al
progresso della cono- scenza : ,Ia gente di
studio è obbligata a sottrarre il tempo
necessario , per apprendere le scienze , ed
impiegarlo a sa. per leggere e scrivere. L’
arte di leggere e scrivere essendo di
molto poche persone , il resto della
nazione dee restare nella ignoranza. Dello
stesso inconveniente partecipa anche in
parte la scrittura sillabica , poiché il
numero de’ caratte- ri , per signiGcare
ciascuna sillaba è di gran lunga maggio- re
di quello , che è necessario per denotare i
suoni sempli- ci, di cui il suono di
ciascuna sillaba è composto. Così , per
cagion di esempio con questi tre caratteri
alfabetici, a, b , c , si possono scrivere
le seguenti sìllabe , ab , ba , ac, ca,
bac, cab. In questo esempio il numero
dei caratteri sil- labaci è doppio del
numero de’ caratteri alfabetici. Se sup-
' ponete quattro caratteri ahabetici , a , b , c
, e , il nume- Digilized by Google
94 ro ddle combinazioni di questi
caratteri, presi due a due, è maggiore
del doppio, cosi avremo, ab, ba,
ac,ca, ae,eb,be, ec. Uno de’ vantaggi
dunque della scrittura alfabetica su le
al- tre scritture si è il piccol numero
de’ segni , di cui ha bi- sogno la
prima scrittura. È vero , che le nostre
cifre arabe sono per tale oggetto
perfettissime , mentre con dieci caratteri
possono scriversi tutti i numeri possibili , ma
un tal vantaggio lo debbono alla
formazione delle idee da queste cifre
designate ; poiché que- ste idee si formano
tutte colla ripetizione della stessa idea
che è quella dell’ unità. Un altro
inconveniente della scrittura geroglifica si è l’
inr certezza del significato. Uno stesso
geroglifico può denotare co- se molto
diverse fra di esse. Cosi la immagine
del serpente dinota questo animale, la
prudenza , e ^’universo: l’imma- gine del lepre
dinota questo animale, il candore, e la
timidità. §. 46. L’ invenzione del
linguaggio della parola , e l’ in- venzione della
scrittura alfabetica , che rende permanente il
primo linguaggio di sua natura passeggierò
, fanno che l’ uo- mo possa gettare il
suo sguardo in tutf i luoghi , ed in
tut- ti i tempi. L’ esperienza c’ ins^a , che
gli uomini possono , per mezzo della
scrittura trasmetterci dei fatti che son veri
e che la concorde testimonianza degli
scrittori circa alcuni fatti non si è giammai
trovata fallace. Tutte le gazzette del- r
Europa all’ epoca , in cui Napoleone
Bonaparte scese al trono della Francia
annunciarono questo avvenimento. Tutte le
gazzette ugualmente hanno annunciato la
morte del som- mo Pontefice Pio VII. L’
esperienza dei propri occhi avreb- bo
potuto assicurare colui , che avesse
dubitato , della veri- tà di tali fatti.
I fatti consegnati negli scritti possono
colla conservazione degli scritti, che li
contengono, trasmettersi alle future ge-
nerazioni. È questa eziandio una verità di
esperienza. Vi so- no dunque de’ fatti
accaduti in tempi lontani, de’ quali fatti
noi possiamo conoscere la verità. Il
linguaggio passaggiero della parola ; quello
permanente della scrittura alfabetica , e.
Digilized by Google 95 quello
dei monumenti , possono dunque circa alcuni
fatti , essere motivi legittimi dei
nostri giudizi. Tutti questi motivi
concorrono a stabilire la certezza morale.
Credo utile di addurvi un altro
esempio , in conferma di ciò che vi
ho detto. Nel giorno cinque di
Febbraro 1783 un terribile tremuoto , poi
seguito da altri , cagionò dei danni
notabili alle Calabrie, ed ancora alla
città di Messina. Gliabitan- ti dei paesi
danneggiati furon obbligati di uscire fuori
dalle loro abitazioni , e dì costruirsi
delle baracche per abitarvi ; alcuni
le hanno costruite in lontananza dei
paesi diruti ^ ■ quali rimasero perciò
deserti. Cosi accadde , per esempio , a
Briatico , che fu costruito di nuovo vicino
al mare , e Briatico antico presenta allo
spettatore i segni delle sue mi- ne: altri
hanno costruite le nuove abitazioni in
un suolo con- tiguo all' antico abitato.
Cosi accadde a Tropea, le cui nuore
abitazioni furono costruite lungo ed all'
intorno della strada detta dell’
Annunciata. Molti , che sono stati testimoni oculari
dell’ avvenimento , vivono ancora •* molti
altri appartengono alle seguenti generazioni : i
primi narrano ai secondi l’orì- gine delle
mine che colpiscono i loro occhi , non meno
che l’orìgine delle nuove abitazioni, ciascuno
testimone oculare è istruito dalla esperienza,
che tantoegli,che gli altri testimoni ocu-
lari narrano il vero,eche coloro i qualinarrano
il fatto ad altri, per averlo eglino
inteso narrare da’ testimoni oculari , nar- rano
il vero. L' esperienza dunque c’ insegna ,
die vi sono dei testimoni di udito,
la di cui testimonianza è verace, e che
la tradizione orale unita ai monumenti
può trasmettere alle generazioni future i
&tti accaduti ne’ tempi da queste
gene- razioni lontani. La memoria di
questa tremuoto si trova depositata in
una moltitudine di scritti , i quali ancora rimangono
, ed i cui autori più non sono.
La propria esperienza istruisce dunque
cisscun testimone oculare di questa
importante verità: che per mezzo de’ mo-
numenti , della tradizione orale e della
scrittura alfabetica , si può conservare la
conoscenza di alcuni fatti passati. PASQUALE
GALLUPPI GIACOBINO ? Intorno alle idee politiche del
Galluppi ’, e più sulla condotta da lui tenuta nell’alterna vicenda degli
avve¬ nimenti politici di cui è piena la storia di Napoli nel
periodo della sua virilità, non si può dire davvero che abbondino i
documenti, né che abbiano fatto tutta la luce desiderabile gli studi
consacrati a questo lato della biografia galluppiana dal Tulelli, dal
Guardione e ulti¬ mamente dal prof. Nicola Arnone. Il quale ha
scritto in proposito una memoria molto accurata, ma per giun¬ gere
a una definizione del Galluppi considerato sottol’aspetto politico, la quale è
in aperto contrasto coi docu¬ menti più sicuri da noi posseduti. Anche il
Galluppi, secondo l’Arnone, sarebbe stato un giacobino! Della
sua dottrina liberale e del suo atteggiamento risoluto in favore delle
pubbliche libertà e contro 1 in¬ tervento austriaco nel 1820-1821 non è
possibile che dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’
suoi Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque
1 P. E. Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P.
G., notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti
della li. Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli, voi. I (1865), pp-
101-21, F. Guardione, Due opuscoli di P. Galluppi, prec. dallo studio
critico Dei concetti civili e politici apportati da P. G. nella
rivoluzione del 1820, Messina, D'Amico, 1906; a proposito di questo
opuscolo, G. Gentile nella Critica, V (1907), pp. 229 sgg.; N. Arnone, P.
G. Giacobino, negli Studi dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniv.
della sua laurea, Napoli, Perrella, 1912, pp. 129-52.
112 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA forma di governo,
e i due opuscoli Della libertà di coscienza e Lo sguardo d' Europa sul
Regno di Napoli, ristampati dal Guardione. Ma da quel liberalismo al
giacobinismo c’è un bel tratto. Né i documenti dell’Amone
riscoperti 1 nell'Archivio provinciale di Catanzaro bastano a superarlo.
Da questi documenti apprendiamo che nell’ottobre 1799 il Galluppi
chiedeva un passaporto per recarsi a Palermo « per atten¬ dere ad alcuni
di lui affari litigiosi ». Il Re faceva rispon¬ dere dal Segretario di
grazia e giustizia al Preside di Catanzaro, che al Galluppi si sarebbe
accordato il passa¬ porto, « quando non vi sia niente contro il medesimo
». Il Preside si rivolse per informazioni al Vescovo e al
Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre, rispose: « Quantunque
apparentemente il suddetto sembri un giovane morigeratissimo, e studioso anche
di materie teologiche, pure non gode buona fama, perché si pre¬
tende aversi ingoiato con lo studio vari errori della vana filosofia, per
cui fu, anni sono, denunziato sino a Roma, e ne’ pochi giorni della falsa
assunta Repubblica fu im¬ piegato a far traduzioni, per cui stiede lungo
tempo trat¬ tenuto nel Pizzo: timoroso poi all’eccesso, si andiede
in Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora vorrebbe andarsi in
Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi me¬ glio sarebbe andarvi
il padre don Vincenzo [il padre del Galluppi], mentre non debbo io, né V.
S. 111 . mettersi deve in compromesso nelle circostanze nelle quali siamo
». Tropea tra il gennaio e il febbraio aveva avuto an-
ch’essa il suo albero della libertà e un governo repub¬ blicano. Ma per
pochi giorni. AH’avvicinarsi delle schiere 1 Gli è sfuggita la
comunicazione che ne aveva fatta Gaetano Capasso, nel 1896, alla Riv.
Stor. del Risorg. ital., I, pp. 794-95. [Vedi ora, per un'altra denunzia
di pretesi discorsi giacobini del Galluppi, F. Scandone, Il Giacobinismo
in Sicilia (1792-1802), nell'A refi. Stor, sic., 1922, pp. 327-28].
PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? 113 del Ruffo la
plebaglia aveva abbattuto albero e governo, e uh comitato di cittadini era
andato incontro, il 24 feb¬ braio 1799, al Ruffo a Mileto, a prestargli
ubbidienza. Per la quale il Ruffo volle alcuni ostaggi, che fece
tra¬ sportare a Pizzo. Tra essi venne incluso il Galluppi, che per
altro dopo alcuni giorni fu rilasciato senza nessuna condanna. Aveva,
secondo il vescovo sanfedista ', tradotto qualche documento francese,
forse qualche proclama o decreto dello Championnet; ma la stessa voce
raccolta dal vescovo della gran timidezza del filosofo, ci spiega
molto facilmente perché il Galluppi, invitato dai giacobini della piccola
città, dove forse era solo a conoscere il fran¬ cese (e non lo conosceva
né pur lui molto) * e quando costoro tenevano il campo, non potesse
esimersene, pur non avendo un grande entusiasmo per la causa repub¬
blicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione non patì
nessuna noia; e se il tenente colonnello don Giovanni de Mendoza,
governatore di Tropea, pur dopo diligenti investigazioni, non riusciva a
trovare nulla a carico di lui. « Mi sono informato », scriveva costui il
19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone più probe e timorate
di Dio di questa ... città; però ho chiamato il decano don Saverio
Polito, il teologo don Michele Grillo, il penitenziere don Vinc. M.
Mazzitelli, il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il
par¬ roco di San Demetrio di questa .... città, e dalle di costoro
estragiudiziali deposizioni, che presso di me si conser¬ vano, rilevai
che il don Pasquale Galluppi è un giovane onesto, probo, e di morigerati
costumi; che frequenta spesso li Santi Sacramenti e la chiesa, ove si fa
vedere attento, e pieno di divozione; e che ad altro non bada, se
non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso, 1 Su lui vedi
la stessa memoria dell'ARNONE, p. 134. 5 Vedi la mia pref. al voi.
del Toraldo, Saggio sulla filos. del Gal¬ luppi, Napoli, 1902, p. ix, n.
1. ALBORI DELLA NUOVA ITALIA ”4 e
da bene, e che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto cercai sì dalli
stessi testimoni, che da altri sapere l’og¬ getto per cui si volesse
portare in detta città di Palermo, non fu possibile sapersi la cagione,
perché da ognuno s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre
don Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui suole
spesso andarvi anche col suddetto don Pasquale suo figlio : ma non posso
fame a meno farle presente esser stato, per quanto pubblicamente si dice,
il detto don Gal- luppi uno degli ostaggi di questa città chiamati dal
sig. Vicario generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni e
poi fu liberato senza veruna pena ». Il Preside di Catanzaro si
attenne al Consiglio del prudente vescovo, e propose al Segretario di
Stato che il passaporto non fosse accordato. E non fu accordato. Ma
lo chiese poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo, che l’ebbe. Segno
che a Palermo avevano realmente bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per
loro interessi di famiglia. Pei quali forse egualmente il Galluppi,
reduce da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza,
di dov’era la moglie, Barbara d’Aquino. Non credo pertanto che
questi documenti catanzaresi bastino a farci annoverare il filosofo
calabrese nella nu¬ merosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo
nei Pensieri filosofici sulla libertà, propugnando il principio della
libertà di coscienza e di tolleranza religiosa, egli ha parole forti
contro coloro che dimenticano lo spirito del Vangelo e «non hanno ritegno
di tramutare la reli¬ gione nell’ istrumento del disordine, della
persecuzione e della strage»; e non dubita, ricordando i recenti
fatti del Regno, di scrivere che « se l’universalità del clero e
del popolo di questo bel regno avesse conosciuto il vero spirito del
cristianesimo e la purità delle massime del Vangelo, non si sarebbe visto
un cardinale comandare delle masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare
il vene- PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? 1I 5
rando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e d’ogni
sorta di iniquità; né si vedrebbero oggi con orrore tanti preti e frati
alla testa delle masnade degli uomini i più infami e più scellerati » Ma
quando il Galluppi scriveva di queste parole — che pur dimostrano
bensì il liberale, ma non il giacobino — a Napoli erano tornati i
francesi con Giuseppe Bonaparte, il cui governo, nel 1806 J , gli aveva
conferito 1’ ufficio di controllore delle contribuzioni; e a Giuseppe era
anche successo il Murat. Tutt’altro che giacobino era apparso a me
qualche anno fa da un suo brutto sonetto pubblicato in un gior¬
nale di Tropea 3 dal prof. Carlo Toraldo 4. Il sonetto in¬ fatti
diceva: Della Patria il dolore, il lutto, il pianto. La
rea sorte fatai veder non voglio. Di Marte, di Bellona il fier
orgoglio. L’augusto trono di Minerva infranto, — Spesso
sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fier
cordoglio, Pria che de' Franchi vacillasse il soglio.
Dico nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo.
— Occhi miei, non piangete, — Grido nel mio furore; — io corro or ora
Sollecito a varcar l'onda di Lete. — Ma già l’Angiol divin, che
accanto giace. Di man mi toglie il ferro, e grid’allora:
— Verrà Fernando : tornerà la pace ! Il primo editore faceva
precedere al sonetto le seguenti notizie : « Dal manoscritto rilevasi che
il sonetto mede- 1 Tulelli, op. cit., pp. 109, in. *
Arnone, p. 141. 3 L’ Eco di Tropea, a. II, n. 35, 30 agosto
1902. 4 E da me ristampato con qualche correzione di
punteggiatura, per renderlo un po' meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi al
Galluppi, Napoli, 1903, pp. 218-19, n. 1 (2 a ed. in 2 voli., col titolo
di Storia d. filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano, 1930; ora in
Opere complete di G. Gentile, a cura della Fond. G. Gentile,
XVIII-XIX, Firenze, Sansoni, voi. II, p. 31). H6
ALBORI DELLA NUOVA ITALIA simo fu letto alla nostra Accademia degli
Affatigati (assorta allora ad altissima fama), alla quale il
Galluppi apparteneva col distintivo il Furioso, e apparisce dedi¬
cato a Ferdinando, come chiusura di un discorso, letto all’Accademia
anzidetta, sul medesimo argomento. Dalla parte opposta ove è scritto il
sonetto, si legge: ‘ Ferdinando Augusto, principe magnanimo, nell’
impetuoso turbine che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a
salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. —
Ferdi¬ nando viene. Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è
ter¬ minato’. Firmato: Pasquale Galluppi fra gli Affatigati il
Furioso. Siegue dietro il sonetto dello stesso Accademico.
Riproducendo il curioso documento, mi parve che di¬ scorso e sonetto si
potessero riferire alla reazione del 1799; e, dietro a me, anche il De
Cesare ritenne che il sonetto alludesse alla restaurazione di quell’anno
*. Ma non tutto a quella prima impressione mi restava chiaro degli
accenni contenuti nel sonetto; e le difficoltà ora oppo¬ stemi
dall’Arnone mi persuadono che sonetto e discorso vanno spostati di sedici
anni. « Prescindendo », dice l’Arnone che non ha potuto vedere il
giornale di Tropea, al quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui
integral¬ mente riportate mi pare che tolgano ogni dubbio intorno
alla paternità del discorso e del sonetto, « prescindendo dalla loro
autenticità maggiore o minore (?), il sonetto e il brano del discorso
accademico non possono mai rife¬ rirsi alla reazione del 1799. Infatti,
nel sonetto stesso si J R. De Cesare, Taranto nel 1799 e mons.
Capecelatro, Martina Franca, 1910 testr. dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il
Capecelatro non fu solo a non aver fede nella durata della Repubblica. Se
egli non andò a Napoli, non vi andò neppure Melchiorre Delfico, chiamato
a far parte della Giunta del Governo, mentre Pasquale Galluppi, che pure
aveva da giovane principii liberali, recitava, all'Accademia degli
Affaticati di Tropea, un brutto sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando
: tor¬ nerà la pace ». PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?
II7 trova la designazione del tempo a cui si riferisce ;
giacché, col verso Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio,
l’autore, stanco del fier orgoglio di Marte e di Bellona, deve
asso¬ lutamente alludere alla prossima caduta del trono di
Gioacchino Murat » 1 . Io guardavo bensì al settimo verso del sonetto, su
cui giustamente ha fermato la sua atten¬ zione l’Amone; ma guardavo anche
al quinto: Spesso sedendo al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso
una determinazione cronologica non trascurabile. E poiché era noto
che il Galluppi fu a studiare a Napoli dal 1788 al 1794, pensai che per
soglio dei Franchi si dovesse in¬ tendere per l«appunto il trono di
Francia di Luigi XVI, che cadde quando il Galluppi dimorava al bel
Sebeto accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca
rievocazione delle ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe stato
assalito fin dall’ 89 quasi presago dei lutti che la Rivoluzione francese
preparava alla sua patria. Non tutto, di certo, restava chiaro, come non
tutto precisa- mente diventa chiaro se s’intende, come propone ora
l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore designi il trono del Murat.
Ma vien colmato il grande intervallo che rimaneva, secondo la mia
ipotesi, tra il 1789 e il luglio del ’99, quando avvenne il ritorno di
Ferdinando IV a Napoli, che il Furioso avrebbe celebrato. Ma,
se accetto che il v. Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio alluda
alla prossima caduta del trono di re Gioac¬ chino, — e ne argomento in
conseguenza che tra la fine di marzo 1815, quando il Murat dichiarò la
guerra al¬ l’Austria, e il 3 maggio (battaglia di Tolentino) il
Galluppi dovette essere a Napoli — non capisco perché l'Arnone
soggiunga : « A me parrebbe che il discorso accademico potesse riferirsi
al tempo del viaggio di Ferdinando I Borbone pel congresso di Lubiana,
quando appunto 1 Op. cit., p. 139. il8
ALBORI DELLA NUOVA ITALIA l’indipendenza del Regno di
Napoli era minacciata dal- l’intervento austriaco ». Quando il Galluppi
recitava il suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando non era
più lontano, ma già tornato a Napoli (« Ferdinando viene, Napoli è salvo
») ; e l’accademia celebra la ristau- razione. È vero che il Galluppi nel
'21 trepidò per l’in¬ dipendenza nazionale, a causa dell’ intervento
austriaco a Napoli; ma nel ’2i gli austriaci eran chiamati da
Ferdi¬ nando, che non avrebbe potuto perciò essere cantato come il
salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il Murat alla legittimità, a
cui s’appellavano gli ambasciatori del Congresso di Vienna e tutti i
principi delle vecchie dina¬ stie, opponeva in Napoli il principio dell’
indipendenza >; e al Galluppi, già murattiano, i disastri
dell’esercito napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno
dovettero realmente parere la più pericolosa minaccia alla indi-
pendenza di questo, finché non si ripresentò Ferdinando, a riavere, dopo
il trattato di Casalanza (20 maggio), dalle mani dell’ imperatore
d’Austria le redini del suo Stato due volte abbandonate. E le
preoccupazioni che il Galluppi, come quanti altri avevano servito il
governo francese, dovette, prima di quel trattato, nutrire gra¬
vissime e angosciose per la propria sorte, o almeno per l’uificio che da
nove anni teneva, possono anche spie¬ garci la disperazione da cui nel
sonetto dice d’essere stato preso per l’imminente crollo di quel
governo. E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di
Casalanza, in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di
tutti 1 «Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne;
reputando che più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto
dei soggetti e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto
dell’amore dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i
migliori in¬ gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi
avvenimenti, acqui¬ stata da noi piena indipendenza politica, era suo
debito riordinare il regno senza o soggezione, o somiglianza,, o
gratitudine ad altro stato, così adombrando le tollerate catene per nove
anni»: P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, lib. VII, c. IV, §
68. PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? 119
i funzionari del passato regime, era pel controllore delle
contribuzioni dirette nella Provincia di Calabria ulteriore l’espressione
d'un sentimento sincero l 2 . Né giacobino, dunque, né
antigiacobino. Ma liberale e patriota, se non nel senso del 1799, in
quello più antico della tradizione paesana di Napoli e della
posteriore storia italiana. Del suo patriottismo e
liberalismo son documento bastevole gli opuscoli politici che il Galluppi
scrisse nel 1820-1821 in cui ripigliava le idee dei Pensieri
filosofici, rimasti inediti, e scendeva in campo a difesa della
libertà e dell’ indipendenza minacciata dall’Austria. Ma la lettura
di questi opuscoli, o almeno dei due a noi pervenuti e qualche anno fa
ristampati dal Guardione, induce piuttosto a ricollegare il Galluppi alla
tradizione del Giannone, del Tanucci, del Vico e del Filangieri,
anzi che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del giacobinismo
rivoluzionario. Nei Pensieri filosofici (di cui si conoscono
soltanto alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli aveva già
1 II sonetto pare tuttavia debba riferirsi non al 1815, ma
all’anno seguente. Perché l'Accademia degli Affaticati in cui esso fu
letto, dopo il 1783, come ci è fatto sapere da un suo storico, «
riunivasi raramente; anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nel
1816, nella Chiesa dei Liguorini, cantò del Santo fondatore dell’Ordine »
(forse il 2 agosto quando ricorre la festa del Liguori) : N. Scrugli,
Discorso storico intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle
Notizie archeologiche e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano,
1891, p. 132. Ma le notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime.
Infatti, secondo lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata
nella reazione del '31, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove
nel gennaio 1831 vi fu certamente recitato il discorso del Galluppi che
qui appresso si pubblica. 2 Opuscoli filosofici della libertà
individuale: Della libertà di coscienza e delle conseguenze che ne
derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore del Saggio filosofico sulla
critica della conoscenza, Messina, 1820, presso Antonino D’Amico Arena;
Lo sguardo d'Europa sul Regno di Napoli, di Pasquale Galluppi di Tropea,
in Messina, presso G. Papparlardo, 1820. Entrambi gli opuscoli sono stati
ristampati dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui
servito. 120 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA
aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri aveva
propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare », aveva
detto, « i dritti del pubblico potere, bisogna partire dal considerare lo
stato di natura come anteriore allo stato politico, se non in ordine di
tempo, almeno in ordine di ragione.... Tutti gli uomini sono per
natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò che gli
piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli non offenda gli altrui
diritti. Ogni uomo non ha dunque altro dritto per rapporto ad un altro
che di non farsi molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or questo
dritto che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil società
è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vin¬ dice dei dritti
di ciascun cittadino contro gli attentati degli altri ». Movendo da
questo principio, a differenza del Rousseau, il Galluppi separa
nettamente il dominio giuridico-politico da quello della religione.
Riconosce che « la potestà politica dee curare che i cittadini sieno
vir¬ tuosi. Ella dee riguardare come un male la depravazione del
loro spirito; dee mettere in opera quei mezzi che promuovono la virtù ed
arrestare i progressi del vizio »; e però può parere che abbia bisogno
del soccorso della religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù.
« Le leggi, dice Portalis, non dirigono che alcune azioni deter¬
minate; la religione regola il cuore. Le leggi sono relative al
cittadino; la religione s’impadronisce di tutto l’uomo. Ma se le leggi
arrestano il braccio e la religione regola il cuore, dico io, dunque, che
la depravazione del cuore non dee punirsi che dalla sola religione, vai
quanto dire, dal solo Dio che n’è l’autore; ella è dunque estranea
alla sanzione della legge. Se le leggi non son relative che al cittadino,
e la religione s’impadronisce dell’uomo, le leggi devono dunque
contentarsi della sola virtù civile e lasciare alla religione le virtù
dell’uomo.... Egli bisogna distinguere l’uomo giusto agli occhi
dell’eterno, che tutto PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?
12 I vede, dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi
a Dio, lo è anche civilmente, perché la sua legge vuole che si obbedisca
alle potestà costituite; ma si può esser giusto civilmente, senza
esserlo, naturalmente, secondo la religione ». Le opinioni
religiose pertanto non cadono sotto la san¬ zione delle leggi, e
l’irreligiosità non può esser punita Ogni maniera di persecuzione del
resto è contraria allo spirito del Cristianesimo. Intorno al quale il
Galluppi scrive una delle poche pagine eloquenti, che siano uscite
dalla sua penna. « Questa religione divina », egli dice, « annuncia agli
uomini una morale che perfeziona la natura. Lo spirito del Vangelo non è
che imo spirito di fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito
di persecuzione e di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascol¬ tati,
dice G. C. ai suoi discepoli, scuotete la polvere delle vostre scarpe e
partite. I primi banditori del Vangelo non impiegarono altre armi per la
sua propagazione, che la forza della parola. La religione deve avere la
sua sede nello spirito, e lo spirito non rigetta l’errore e non ab¬
braccia la verità, se non a proporzione dei lumi che egli riceve, e
trattandosi di religione, a proporzione della grazia celeste che il Padre
de’ lumi gli dispensa. Le pri¬ gioni, le forche, le mannaie, i roghi non
cambiano certa¬ mente lo spirito dell’uomo, e l’incredulo non lascia
d'esser tale, ancorché vada ad esalare il suo spirito fra i tor¬
menti più crudeli.... L’uomo abusa di tutto. La ministra della pace e
della pubblica tranquillità divenne col pro¬ gresso del tempo in mano del
superstizioso e del fanatico, l’istrumento del disordine, della
persecuzione e della strage. Questo mutamento di condotta, non della
reli¬ gione, che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’ suoi
ministri, fu sorgente d’incredulità ». Nell’opuscolo del 1820 sulla
Libertà di coscienza la stessa questione è ripresa e approfondita sì dal
rispetto 9 - Gentile, Albori. I. 122
ALBORI DELLA NUOVA ITALIA speculativo e sì da quello politico. Vi
ritroviamo quella morale kantiana, che è professata negli Elementi,
nelle Lezioni di filosofia e nella Filosofia della volontà : «La
regola della moralità delle azioni è la coscienza uniforme alla legge»:
legge puramente formale anche pel Galluppi. Il quale infatti soggiunge :
« Si può agir male seguendo una coscienza erronea, ma si agirà male
ancora facendo il bene in contraddizione dei dettami di una
coscienza erronea ». E su questi principii, rannodandosi alle dot¬
trine liberali del Filangieri, fonda la sua dimostrazione del diritto del
matrimonio civile abolito nel Regno dal codice del 1819: il quale aveva
stabilito non potersi celebrare matrimonio legittimo « che in faccia alla
Chiesa, secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento ». Già
nell'opuscolo precedente aveva provato che « la libertà del pensiero è il
primo diritto inalienabile dell’uomo»; e che tale libertà è illimitata.
Ora, se questa libertà è illimitata, se la moralità consiste nella
conformità della coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla
legge della coscienza, ne viene per conseguenza che quelle azioni,
le quali debbono essere necessariamente in armonia col pensiero, non
possono giammai essere forzate; ma debbono rimanere nel campo libero del
privato cittadino. Potrà intervenire il diritto positivo nel culto
religioso esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno
non potrà di certo intervenire per obbligare il cittadino ad un culto
contrario alla propria credenza, bensì per permettere un dato culto e
impedire quindi che venga offeso e turbato da chi non vi si conformi ».
Ma deve 10 Stato permettere tutti i culti ? Tra il
Montesquieu contrario e il Marmontel favorevole alla libertà dei
culti, 11 Galluppi dichiara di non voler esaminare di
proposito 1’ « importante questione », poiché egli si occupa piuttosto
della libertà individuale, e però della sola libertà di co¬ scienza,
laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo PASQUALE
GALLUPP] GIACOBINO ? 123 sociale che abbia
abbracciato un culto diverso da quello di altri gruppi, ed esce quindi
dalla sfera del diritto indi¬ viduale. Tuttavia ritiene conveniente che
si possa « per ragioni politiche non permettere l’esercizio pubblico
di un culto diverso da quello stabilito ». Quanto al
matrimonio, dato il suo interesse pubblico, esso rientra nella sfera di
attività del potere politico: che « ha il diritto di far leggi positive
sul matrimonio, le quali, lasciando illeso il diritto naturale,
determinino ciò che la natura non determina, e che ha influenza su
la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere le condizioni
per la validità del matrimonio come con¬ tratto civile, e lasciare alla
libertà del cittadino, se vuole al contratto unire la forma religiosa,
che T innalza a sacramento ». Altrimenti verrebbe ad esser lesa la
libertà di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che il
Galluppi chiama legge di natura o diritto naturale. Tale principio
a Napoli fu riconosciuto dal codice francese durante il decennio; e certo
quella legislazione, « tranne il mormorio di qualche fanatico, che osava
chia¬ marsi teologo, non produsse fra noi il menomo disordine ».
Ma, tornato Ferdinando, « i superstiziosi spaventarono la sua coscienza
». Quindi il matrimonio rientrò nel puro dominio ecclesiastico. E « si
fece dippiù », dice il Galluppi: «il Concordato diede alla Chiesa il
potere giudiziario sul matrimonio; potere, che dee esercitarsi in
conformità del codice del Vaticano, e così la sovranità temporale
rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti sul matrimonio ».
Il Galluppi, nelle cui parole è agevole sentire l'eco della tradizione
giannoniana, ora che Napoli sembra risorta a più libera tuta per
l’ottenuta costitu¬ zione, parla in nome della filosofia («la filosofia
non dee oggi temere di alzar la voce contro di questi abusi ») ; e
chiede che il matrimonio torni ad essere per lo Stato contratto civile; e
protesta contro la censura preventiva. 124 ALBORI
DELLA NUOVA ITALIA stabilita nella Costituzione spagnuola, per i
libri che trattino di religione. Il secondo opuscolo, assai
più importante per la cono¬ scenza delle sue idee politiche, quantunque
rechi anch’esso sul frontespizio la data del 1820, non par che possa
essere anteriore ai primi del febbraio 1821. Infatti v’ è detto che
« un’armata austriaca si fa vedere in volto minac¬ cioso nella bella
Italia » 1 2 ; con accenno evidente, se non erro, all’ordine del giorno
del barone di Frimont (4 feb¬ braio 1821), di cui si ebbe notizia a
Napoli tra il 15 0 il 20 di quel mese In quei giorni un altro
filosofo napoletano, Pasquale Borrelli, componeva un inno di guerra, che,
messo in musica dal Rossini, fu cantato al San Carlo la sera del 21
febbraio. La seconda strofa diceva: O straniero, che guerra ci porti,
Chi ti offese ? quell’ ira perché ? Va, rispetta la terra de'
forti.... Ma sprezzante 1 ’ iniquo c’ invade, Ha di
sangue nell’occhio il desir. Cittadini, tocchiamo le spade:
Qui si giuri svenarlo o morir ! Il Galluppi dal fondo delle
Calabrie rivolge all’ Europa (ma fin dove sarà giunto ?) il suo
opuscoletto, enfatico nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza, per
scon¬ giurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione
delle libere istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi che ricordano
l’alta intelligenza storica di Vincenzo Cuoco, la storia di Napoli dal
1789 in poi, a conferma del principio, che oppone alle prepotenti pretese
del- 1 Rist. cit., p. 47. 2 Vedi De Nicola, Diario
napoletano dal 1798 al 1823, III, pp. 252 253 (in calce all'Arch. slor.
napol., 1905, fase. 3). PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?
125 l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da sé, e
inter¬ romperla ad arbitrio è violenza, e lo stato violento non è
durevole. Tutto, egli dice, « cangia incessantemente nel mondo
; ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬ rato o
negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬ getti di riforme ». I
grandi avvenimenti, che pare mutino d’un tratto miracolosamente lo stato
di un popolo, in realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al
quale l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda, onde
hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche delle nazioni ». Come
dai patiboli del '99 si potè giungere alla libertà del '20 ? Il Galluppi
studia brevemente questo problema. La rivoluzione del '99, per lui, fu la
conse¬ guenza degli errori commessi dal governo borbonico (il
Galluppi parla sempre di Ministero) dopo il 1794; quando, dopo aver
favorito in tutti i modi le tendenze liberali promosse e alimentate dalla
filosofìa, a un tratto, spaventato dalla Rivoluzione francese, che
intanto aveva accelerato il movimento degli animi verso la rigene¬
razione politica, esso volle violentemente arre¬ starsi, e tornare indietro,
e dichiarò guerra al liberalismo, e si propose di ripiombare la nazione
nella barbarie. La venuta dei francesi fu la piccola causa che fece
rovi¬ nare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga pezza
lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giaco¬ bini del 1799, che
s’appigliarono alla massima della perfetta imitazione dei francesi, senza
chiedersi se Napoli fosse preparata alla democrazia, e alla democrazia
fran¬ cese, come 1 ’ Issione della favola, invece di Giunone,
abbracciarono la nuvola. — Giudizio che non è certo quello di un
giacobino. Successe la reazione; e il governo, anzi che
mostrarsi ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco,
feroce, dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio d’un
126 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA cangiamento. Aggiungi
l’azione continua della Francia sulle cose d' Italia, e gli errori della
diplomazia: ed ecco Giuseppe Bonaparte e Gioacchino, che non sono più
i francesi del '99, ma i correttori e moderatori dispotici della
libertà, i quali compiono l’abolizione del feudalismo nel Regno, e
vengono via via elevando la coscienza civile della nazione. Questa al
ritorno di Ferdinando è già matura per la Costituzione: la cui richiesta
per altro è affrettata dagli errori che toma sempre a commettere il
Ministero pur dopo il '15. Fra i quali il Galluppi non manca di ricordare
il « concordato ignominioso, che annienta tutte le riforme dall’epoca
dell’augusto genitore di Ferdinando fino al suo ritorno fra noi ».
Mostrata la necessità storica della rivoluzione del 1820 e della
costituzione che Napoli s’era con essa conqui¬ stata, il filosofo
protesta contro l’intervento straniero, e minacciosamente esclama : « Un’
invasione è ella facile nelle attuali circostanze della nostra nazione?
Il '99, il 1815 sono gli stessi tempi per noi del 1820 ? Si è mai
veduto in altri tempi, allorché il nemico ci minacciava, l’agricoltore,
l’artista, il prete, il monaco stesso doman¬ dare l’iniziazione nelle
società patriottiche per emettere il giuramento di vincere, o di morire
per la difesa della costituzione e del trono ? ». Siamo così
abituati a rappresentarci il Galluppi, attra¬ verso i suoi libri
meramente speculativi, dove non spunta mai favilla di passione umana, o
un accenno storico, o un’allusione personale, e attraverso le memorie di
quel suo insegnamento universitario, tutto chiuso, tra il '31 e il
'46 (periodo di puro raccoglimento spirituale per Napoli), nella
speculazione sopramondana.: che questa specie di Galluppi inedito,
agitato dalle preoccupazioni politiche e storiche del mondo in cui visse,
ci riesce di uno strano sapore nuovo e d'un vivo interesse. E ne
viene aggiunta una linea caratteristica e simpatica alla PASQUALE
GALLUPPI GIACOBINO ? 127 figura del nostro vecchio e
caro scrittore; che viene ad occupare anche lui il suo posto non pur
nella storia del liberalismo italiano, ma in quella schiera di acuti
pen¬ satori improntati della più schietta italianità, i quali,
rifacendosi direttamente o indirettamente dal Vico, si opposero all’
astrattismo antistorico e rivoluzionario di Francia. Lungi,
dunque, dall'apparirci un giacobino, il Galluppi, pel suo modo
d’intendere e giudicare gli avvenimenti contemporanei, ci si presenta come
un liberale del se¬ colo XIX, penetrato del senso della realtà e
razionalità della storia. Né questa figura viene menomamente
turbata dal nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste
note: un altro suo discorso accademico, letto a Tropea (nella solita
Accademia degli Affaticati) in lode questa volta di Ferdinando II, pel
suo avvenimento al trono Discorso che io ho avuto sott’occhio
nell’autografo, e trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non
può suscitare né meraviglia, né rammarico in nessuno che ricordi
con quali lieti auspicii salisse al trono il nipote di quel Ferdinando, a
cui il Galluppi aveva inneggiato nel 18x5. « La giovanezza del re »,
scrisse lo stesso Set¬ tembrini nella sua Protesta, « la recente
rivoluzione di luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono
la nazione a novelle speranze ». E molto meglio nelle Ri¬ cordanze:
«Quando re Ferdinando II, nel novembre del 1830, saliva sul trono delle
Sicilie, cominciò bene, e a molti parve un buon principe. Ogni giovane a
venti armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella. In
un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le piaghe che da più anni
affliggevano il Regno, ristorare la giustizia, riordinare le finanze,
promuovere le industrie ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni
dei suoi amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per la
128 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA quale tornarono
a le loro famiglie molti esuli, molti pri¬ gionieri, le speranze crebbero
e l’allegrezza fu grande. Gli uomini savi dicevano che egli aveva fatto
una brutta orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché
scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il regno di Francesco
avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché restrinse le spese della casa
sua, tolse via le cacce, e volle vivere con certa semplicità e
parsimonia, che il popolo chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese perché
dava udienza a tutti, domandava, rispondeva, provvedeva subito, e
ricordava i nomi di quanti aveva una volta veduti ». Anche Nerone, uscì a
dire, uno di quei giorni, esso Settembrini tra giovani suoi amici e
maggiori d’età: anche « Nerone cominciò col quam mallem nescire
scribere. L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate che s’usi,
e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo ». E gli diedero del
matto '. « Io che sono stato vittima del suo insaziabile dispotismo » —
scriveva Nicola Nisco nell’accingersi alla storia del suo regno, — « e
che ne porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con
civile orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali
sono andati confusi con quelli che seguirono, massime dopo il
quarantotto, quando la natura borbonica, ride¬ standosi ampiamente in
lui, lo menò a divenire l’avver¬ sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ».
E ricordando la soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo
re, raccontava : « Alle acclamazioni dei popoli facevan eco i
prosatori ed i poeti di quel tempo, e nell’entusiasmo della sperata
redenzione, sventuratamente poi tradita, vennero fuori giovani ed uomini
egregi, fra i quali Gia¬ como Filioli, i fratelli Baldacchini, i fratelli
Dalbono, il Ruffo e quella sublime donna, che mai non si conta¬
minò di servo encomio, Giuseppina Guacci. E quando 1 Ricord., c.
V. PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I2Q il 18
dicembre 1830, rimosso ogni ostacolo derivante da colpe politiche al
conseguimento dei pubblici uffizi, abi¬ litò all’esercizio delle
pubbliche cariche gl’ impiegati ed i militari destituiti per le politiche
vicende, concedè ai detenuti in carcere, espatriati, esiliati e
condannati napo¬ letani e siciliani alle galere e all’ergastolo di
ritornare nelle loro famiglie, Saverio Baldacchini il chiamò in un
suo inno, Padre a tutti, che il gaudio Del perdonar
provò; e dall’animo purissimo della giovane Guacci si elevò
quella nobilissima esclamazione Oh ! lieto il sire, Che
nell’amor dei popoli riposa » Al coro delle lodi si unì adunque nel
gennaio 1831 anche il filosofo di Tropea, tuttavia controllore delle
con¬ tribuzioni, col seguente discorso; in cui l’adulazione del
suddito par s’indirizzi all’ idea dell’ottimo sovrano piut¬ tosto che
alla persona del giovine monarca ; onde si direbbe che a tratti assuma il
tono dell’ammonimento anzi che del panegirico. — Alcuni accenni di
dottrine filosofiche, che vi si mescolano, come i riferimenti ai concetti
del bello e del sublime, dimostrano il già sessantenne filosofo
incapace di distrarre la mente dalle sue astratte medi¬ tazioni. E questo
è forse l’ultimo scritto, in cui gh ac¬ cadde di volgere attorno uno
sguardo, per esprimere il suo pensiero su fatti e personaggi
contemporanei. 1914. 1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei
anni del Reame di Napoli, Napoli, Morano, 1889, II, pp. i, 8.
Pel felice avvenimento al Trono delle Due Sicilie di
FERDINANDO II Discorso Accademico di P. Galluppi
Di letizia ripiena, Accademia illustre, io ti rimiro. Con la rapidità del
fulmine l’arrugginita cetra riprender ti vedo. Il tuo vivo ardore, di
scioglier la lingua al canto, espresso nel tuo volto io leggo. Sì,
dell’estro che ti ac¬ cende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe
ascende sul trono di Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri
cuori, sparisce: in tutti i volti degli abitatori delle Due Sicilie, con
vivi ed espressivi colori, la gioia dipinta si vede. Un grido di letizia
dappertutto rimbomba. Ma non è la gioia il solo effetto, che la
comparsa del giovine Re sul trono ha universalmente prodotto ne’
nostri cuori. Un vivo sentimento di ammirazione e di devozione verso la
sacra persona di lui, si è immanti¬ nente acceso ne’ popoli di qua e di
là del Faro. Ferdi¬ nando II, l’augusto discendente di tanti Re, non
sola¬ mente quel sentimento fa nascere, che, in una ridente
primavera, l’aspetto d’una deliziosa campagna, negli animi sensibili alle
bellezze della natura e dell’arte, suole produrre; ma quel sentimento
eziandio produsse, che in una vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta
del cielo, in una notte serena, l'anima colpisce dell’osser¬ vatore
attento a contemplar l’universo. Ferdinando II è dunque un oggetto
non solamente bello, ma sublime. Come bello, la sua PASQUALE
GALLUPPI GIACOBINO ? I3I comparsa sul Trono ha inondato di letizia il
cuore de’ suoi popoli ; come sublime, di ammirazione e di devozione
gli ha colpiti. Il bello ed il sublime producono diverse affezioni
morali: l’uno rallegra, ed in certe cir¬ costanze fa pianger di
tenerezza. L’altro l’ammirazione e la devozione produce. Nondimeno, quando
il sublime si riguarda come una causa, che su la nostra felicità
influisce, all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere la
confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i soldati di
un’armata, quando sanno che il loro generale è uno Scipione, un Alessandro,
un Camillo ; e tale appunto è quello che in noi produce la vista di
Ferdinando II sul trono delle Due Sicilie. Se il bello ed il
sublime l’oggetto sono dell’eloquenza e della poesia, se senza un
oggetto, che sia defl’una e dell’altra qualità fornito, il genio
dell’oratore e l’estro del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che
è l’og¬ getto di questa letteraria adunanza, è dell’una e del¬
l’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Con¬ sesso illustre della
città di Alcide *, di estro animato ti veggo, per fare oggetto de’ tuoi
canti l’augusto prin¬ cipe, che al Trono ascende di Carlo III. Con
ragione, cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo
oratore son fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro
la dipintura dell’alto personaggio, che verso di lui attira i nostri
sguardi. Tu brami, che i motivi io ti esponga, che dalla velocità
incalcolabile del pensiero aggruppati insieme, i sentimenti di gioia, di
ammirazione e di devo¬ zione ne’ nostri cuori producono.
Ferdinando II è bello: nel suo volto dipinto si vede la candidezza
deH’anima sua, ed una certa misteriosa espressione del buon senso, del
buon umore, del brio, 1 Tropea, città, secondo la leggenda, di Ercole.
Vedi Nicola Scrugli, Notizie archeologiche di Portercole e Tropea, pp.
15-17. 132 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA
della benevolenza, della sensibilità e delle altre amabili
disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle sue belle maniere,
la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma non è questo il punto di
veduta, sotto di cui io mi pro¬ pongo di dipingerlo. Ferdinando II ci ha
colpiti di ammi¬ razione e di devozione, ed a questi sentimenti è
successa la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto
sublime. Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza,
grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad am¬ mirare in lui ? Sarà
forse quella degli Alessandri, e de’ Cesari ? Quella vera grandezza, che
in questi gravi capi¬ tani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì
nel nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediata¬ mente
ci colpisce, e che più in lui risplende. Una gran¬ dezza guerriera può
trovarsi negli uomini i più nefandi. Siila non era insieme un gran
capitano, ed mi mostro di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché
conosce i doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri
di un Re. È questo l’oggetto del mio discorso. Parte Prima
Un pensiere è grande, allora che esso è esteso. Un pensiere che,
nella sua espressione la più semplice, com¬ prende tutti i pensieri
particolari, che vi si rapportano, è un pensiere grande; e l’anima, che
lo sente in sé, spe¬ rimenta un sentimento di grandezza. Il sentimento
della grandezza è il sentimento della forza o del potere. Colui che
possiede una verità generale, sente che ha in suo potere tutte le verità
particolari che vi son comprese. Egli è simile a colui che, posto su la
cima di un alto monte, comprende, con un semplice sguardo, un vasto e
variato orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande quando ci
rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di Annibaie
PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? 133 dicendo : « Allora
che poteva servirsi della vittoria, amò meglio goderne ». Una consimil
grandezza si ravvisa nell’ idea, che egli ci dà di tutta la guerra di
Macedonia, quando dice: «Il vincere fu l’entrarvi». Uno spirito
sublime racchiude le verità particolari in una che sia la più generale, e
per conseguenza la più semplice. Ferdinando II, asceso sul trono
de’ suoi antenati, vede, con un colpo d’occhio, tutti i doveri di un Re:
egli li racchiude in un principio generale. Il suo pensiere è
grande: egli che lo concepisce, è grande in conseguenza. La prima parte
del mio discorso accademico è terminata. È terminata ?
Accademia illustre, ti credi tu forse, con questo mio breve
parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu forse sperimentato un
sentimento dispiacevole, simile a quello che sperimentar suole uno
spettatore di un’azione tea¬ trale, allora che una causa improvvisa lo
chiama in altro luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma cesserà in
te questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità incalcolabile
del sentimento mi ha fatto attraversare, in un baleno, un vasto spazio.
Io non ho potuto arrestare la sua impressione. Lo scotimento prodotto
nell'anima da qualche grande oggetto, l’alza notabilmente sopra il
suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di entu¬ siasmo
piacevolissimo finché dura, che le fa compren¬ dere, con uno sguardo, una
moltitudine di oggetti, ma da cui l’anima tosto ricade nella sua
ordinaria situazione. Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili,
lo spazio trascorso. Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero
universo, diede all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui.
L’uomo è dalla sua natura determinato allo stato della civil so¬
cietà. In questo stato solamente può egli perfezionar se stesso, ed
adempiere la sua destinazione. L’uomo ha in se stesso le tendenze, i
mezzi e la legge di vivere nella civil J 34 ALBORI
DELLA NUOVA ITALIA società. La società civile non può sussistere
senza un essere morale, dotato del potere legislativo ed esecutivo.
Un tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici, il sovrano è il
Re. Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società su la
terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque della sovranità,
come ordinata a quella della civil società, è voluta da Dio per la
felicità degli uomini. Queste sem¬ plici riflessioni ci menano infallibilmente
alla conoscenza del principio generale della morale de’ Re. La
desti¬ nazione dei Re su la terra è di rendere, per quanto è loro
possibile, felici i loro sudditi. Ecco il principio luminoso e
sublime, che tutti racchiude i regi doveri. Ma non udiamo noi
forse questa sublime e consolante filosofìa annunciarsi a’ popoli delle
Due Sicilie, nel primo momento del suo avvenimento al trono,
dall’augusto Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in
quel- l’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’am¬
mirazione e la devozione per la sua sacra persona, e che di vera gioia
gl' inondò. Il giorno otto di novembre dello scorso anno 1830 Ferdinando
II ascese sul trono, ed in quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi
sudditi : « Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’
nostri augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬
spensatore de’ regni ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel-
l'affidarci il governo di questo Regno. Siamo persuasi che Iddio, nell’
investirci della sua autorità, non intende che resti inutile nelle nostre
mani, siccome neppur vuole che ne abusiamo. Vuole che il nostro Regno sia
un Regno di giustizia, di vigilanza, e di saviezza, e che adempiamo verso
i nostri sudditi alle cure paterne della sua Provvidenza « *.
1 II proclama si può leggere nella Collezione delle leggi e de'
decreti reali del Regno delle Due Sicilie, a. 1830, sem. II, Napoli,
Stamp. Reale, 1830, pp. 143-.45. PASQUALE GALLUFPI
GIACOBINO ? 135 A voi, gran Dio, che avete nella
vostra mano il cuore de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà
sempre santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra
misericordia ci avete concesso. Non mica nel furore del vostro giusto
sdegno, ma nelle vedute imperscrutabili della vostra misericordia, voi ci
avete inviato a reggere i nostri destini il giovane eroe, che ci
sorprende colla sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee
punto abusare dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che è suo
sacro dovere, di far che regni fra di noi la giustizia, e che egli sia il
felice istrumento delle cure paterne della vostra provvidenza su di noi.
Ciò è lo stesso che riconoscere esser egli destinato da voi a
render felici i suoi sudditi. Ciò è lo stesso che proclamare il principio
generale della mo¬ rale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’
suoi popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto, che
ha appena compiuto il quarto lustro della sua età. Egli è dunque dotato
di un’anima grande ; ed è con ragione, che qual Grande è salutato da’
popoli delle Due Sicilie. Un’anima grande ha solamente potuto concepire
il pen¬ siero sublime, che tutta racchiude la morale de’ Re; ed
un’anima grande ha potuto, invece di essere distratta dallo splendore del
Trono, specialmente in un’età gio¬ vanile, concentrar tutta se stessa
nell’espressione de’ propri doveri, ed esserne profondamente
penetrata. Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non
sola¬ mente conosce la sua augusta destinazione nel governo de’
suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che debbono fargli
conseguire il gran fine. Egli scovre nel principio le illazioni. Egli
vede, in primo luogo, che gli uomini non possono esser febei, senza esser
virtuosi: egli conosce T intima relazione, che passa fra la virtù e
la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono alla virtù, come la
virtù conduce alla Rebgione. Egli com- I36 ALBORI DELLA
NUOVA ITALIA prende che la vera religione viene in soccorso della
pub¬ blica autorità, e per estendere la sanzione delle leggi, e per
ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e per evitare ciò che esse
non potrebbero sempre giugnere ad impedire; ed egli conclude, che dee
proteggere la divina Religione, che c’ illumina. « I grandi », dice
il celebre Massillon, « non son grandi se non perché eglino sono le
immagini della gloria del Signore, ed i deposi¬ tari della sua potenza.
Eglino dunque debbono sostenere gl’ interessi di Dio, di cui rappresentano
la maestà, e rispettare la Religione, che sola rende rispettabili
loro stessi ». Dalla Religione volge il nostro gran Re lo
sguardo alla giustizia. Egli vede che la felicità de’ cittadini
richiede una gelosa custodia de’ loro diritti. Egli conosce che
questa custodia è il sacro dovere del potere giudiziario. Egli è convinto
che il Re nell' istituzione di questo potere, e nell’elezione de’ membri,
che debbono comporlo, deve porre la maggiore attenzione che gli sia
possibile. Il cit¬ tadino dee, sotto la protezione della legge, e del
pubblico potere, vivere tranquillo: egli non dee temere che i suoi
diritti sieno violati. Magistrati, a cui la regia maestà consegnò la
spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente legislatore. Tutti i miei
sudditi, egli dice, debbono essere uguali agli occhi della legge '. I
tribunali debbono essere un santuario, che la corruzione, la prepotenza,
T intrigo, non debbono giammai profanare. Se i giudici debbono
essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non deb¬ bono essere
legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è una funzione estranea al
loro potere. L’impero della legge dee essere universale. 1 «
Noi vogliamo — dice il Proclama — che i nostri tribunali siano tanti
santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' in¬ trighi,
dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o interesse.
Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e procureremo
che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia ». PASQUALE
GALLUPPI GIACOBINO ? 137 I cittadini non possono
essere felici, se lo Stato non è ricco. Uno Stato, dice un celebre
politico, non si può dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché
ogni cit¬ tadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬
damente supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia. Un
lavoro assiduo, una vita conservata a stento non è mai una vita felice. I
dazj eccessivi sono contrarj alla felicità di cui parliamo; ed i dazj
debbono essere eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato
pre¬ senta un voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II ci si
mostra allo scoverto. Egli non dirige il suo sguardo su le pompe de’ Re,
su i palagi de’ Grandi, ma lo dirige su i cenci, e su i tugurj de’ poveri
e degl’ infelici. Al suo penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo
doloroso della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo.
La sua grande anima ne è profondamente penetrata, ma non abbattuta. Le
grandi passioni innalzano l’anima, e scovrire le fanno degli oggetti
incogniti agli uomini ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento
stesso il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di
ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali finanze, è
tosto nella gran mente del Principe magnammo già delineata. La felicità
de’ cittadini richiede ancora, che lo Stato sia temuto e rispettato al di
fuori. Ad un si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata,
valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Fer¬ dinando II si
fece già ammirar da capitano, prima di farsi ammirare da Re.
Augusta filosofia! Se io a te consagrai sin da primi anni la mia
vita, se non ho avuto altro scopo ne miei scritti, che di annunciare la
verità al genere umano, se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da
te non si concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvi¬
lisca a’ tuoi sguardi. No, l’adulazione non ha profanato il mio
linguaggio. Io non ho prestato al mio Eroe i miei 10 - Gentile,
Albori. I. 138 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA
pensieri, per formarmi un prototipo di mia immagi¬ nazione. Io gli ho
osservati in lui, che nel suo proclama gli esprime. Io ho dunque, senza
rimorso di arrossire al suo cospetto, il diritto di concludere :
Ferdinando II è grande perché egli conosce i doveri di un Re.
Parte Seconda Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ?
Il tempo, in cui 1 ’ Eroe di questo discorso regna su di noi, non è
ancora di tre mesi; ed egli ha tali e tante cose operato, che con ragione
i sudditi suoi, nella sincerità del loro cuore, 1' hanno unanimemente
acclamato per Grande. Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’
per¬ sonaggi di tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono de’
secoli. I loro passi sono di una rapidità incalcolabile, ed agli occhi degli
uomini ordinar] sembrano de’ pro¬ digi- Eglino, quando anche la loro vita
fosse molto corta, formano l’epoche della storia; perché producono
quei memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’ popoli, e
fanno a questi percorrere un cammino diverso. I loro nomi resistono al
furore del tempo, che tutto di¬ strugge. Ferdinando II ascende al trono
de’ suoi antenati, nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario
sarebbe stato sedotto dallo splendore del Trono: egli avrebbe
sdegnato le penose cure del governo di un Regno; egli sarebbe stato
colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin Eroe chiude gli occhi alle pompe
incantatrici del Trono, ed attento gli rivolge su i mah del suo popolo.
Egli non vuol assidersi in mezzo de’ grandi pria di piangere cogl’
in¬ felici. Una serie d’infausti avvenimenti produce torrenti di
mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli abitatori di queste belle
contrade. Un muro di separazione s’in¬ nalza fra di noi. Esso divide i
sudditi da’ sudditi. Quelli PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ?
139 della parte sinistra son privi della vita civile,
nell’atto che la necessità ne chiama degli altri, che sono insuffi¬
cienti, alle pubbliche cariche >. Il potere giudiziario perde
tanti ragguardevoli magi¬ strati. L’amministrazione tanti prudenti e savj
ammini¬ stratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran Dio, chi
riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de buoni e virtuosi
cittadini di questo bel Regno: la vostra voce finalmente dal Cielo si è
udita. Popoli delle Due Sicilie, rasciugate le vostre lagrime : i vostri
cuori si aprano alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende sul
Trono: egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a
nuova vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è
commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de sudditi suoi. Egli
sente, nella sua clemenza, che, essendo l’immagine di Dio e del Redentore
divino su la Terra, dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol
prodigo. Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di
mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla ces¬ sare. Egli
conosce, che i Re debbano regnare su i cuori de’ loro sudditi. Il
memorando decreto del 18 dicembre del 1830 è pubblicato. Il muro di
separazione è rove¬ sciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale
». Tacete, animucce infelici, in cui la calunnia ha posto la
sua sede, tacete. Che cosa mai dir vorrete ? Che il Reai Decreto or ora
citato è una finzione ? Che esso non avrà alcuna esecuzione ? No, l’anima
eroica di Ferdi¬ nando II non cape siffatta bassezza. I reali Decreti
del dì 11 del corrente gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi- 1
A questo punto d'altra mano, in margine: «La tempesta politica fa
traviare dal retto cammino anche i migliori talenti ». 1 L’atto
sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in favore dei condannati
come rei di Stato, e di coloro che per ragioni politiche si trovavano
esclusi dagli impieghi civili e militari. 3 Allude ai due decreti
nn. 104 e 106, emanati con quella data da Ferdinando II, col primo dei
quali si cercava di curare le piaghe 140
ALBORI DELLA NUOVA ITALIA nando II regna senza distinzione, su i
cuori di tutti i sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli,
perché vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre. DalTuna
all’altra estremità delle Due Sicilie una sola voce si ascolta : Viva
l’Eroe! Viva Ferdi¬ nando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti
a versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue. La virtù
non dee amarsi che per se stessa, e sarebbe, in buona filosofìa, un
distruggerla il riguardarla qual mezzo per la felicità. Ma è essa una
verità incontrasta¬ bile, che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso
infelice. Quale spettacolo più commovente per l’anima di Fer¬
dinando II di quello che gli presentò la capitale ne' giorni ix, 12 e 13
di gennajo, e la relazione, che certa¬ mente gli pervenne, della letizia
universale innalzata sino al più vivo entusiasmo di tutto il Regno ? Il
piacere di rendere milioni di uomini felici, e di vedersi da essi
adorato ne ha esso forse un eguale su la terra ? Il Principe magnanimo
intese nel suo cuore, che egli ha tanti sol¬ dati, quanti sudditi conta
il suo regno. Egli vide il suo Trono immobile, la sua gloria
immortale. La grand’opera della rassicurazione delle reali
finanze la dicemmo già delineata nella gran mente del nostro Eroe.
La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno profonde che erano
nelle finanze del Regno, sopra tutto dei do¬ mimi continentali, per « le
conseguenze fatali della straniera usurpa¬ zione: gli avvenimenti
disgraziati del 1820#; si esponeva con leale franchezza il deficit della
tesoreria generale di Napoli, che am¬ montava a 4 345 251 ducati; per
colmare gradualmente il quale si annunziava una serie di lodevoli
economie nella milizia e nei ministeri, oltre straordinari rilasci della
cassa privata del Re e dell'assegnamento della R. Casa; l’abolizione del
cumulo degli stipendi; l’imposizione di una ritenuta ai soldi e pensioni
superiori a 25 ducati mensili; e in compenso pel « sollievo della parte
più bisognosa del popolo » si dimi¬ nuiva della metà il dazio sul macino.
Con l’altro decreto veniva pre¬ scritta « una generale economia nelle
spese a carico dei comuni di qua del Faro per invertirla nella
diminuzione de’ più gravosi dazi comunali». Vedi Collezione cit., a.
1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20. PASQUALE GALLUPPI
GIACOBINO ? I4I del pensiere. I Re imprimono alle loro azioni un
carat¬ tere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea di
grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi, e l’impero delle
idee associate sul cuore umano è molto esteso. Quindi la virtù, quando si
scorge nelle azioni de' grandi, di qualunque grandezza essi sieno
adorni, rende la virtù rispettabile su la terra. Guidato da
questo sublime pensiere, Ferdinando II incomincia da sé la nobile
impresa. Que’ insti spazj di terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto
restituiti al¬ l’agricoltura ». Questa misura diminuisce le spese
relative alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza. Un
rilascio è conceduto dalla borsa privata del Principe: altro ne è fatto
dall’assegnamento della Casa reale. La classe degl’ impiegati è chiamata ad
imitar l’esempio del Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto del
di 11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien tosto a
colpirci di ammirazione e di gioja. Se tali sono le imprese di
Ferdinando II in men di tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un
lungo regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la
restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra ed immutabile. Il
passato ci autorizza a sperare il futuro. Sì, il cittadino vivrà
tranquillo sotto 1 * impero della legge. Il regno di Astrea rinascerà su
le nostre contrade. Ed io non posso trattenermi di finire col poeta
latino: lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, lavi nova
progenies caelo demìititur alto. 1 « Con la pubblicazione del suo
proclama il Giornale ufficiale annunziava le sue disposizioni per
l’abolizione delle cacce »: N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame
di Napoli, voi. II, p. 67. PASQUALE GALLUPPI. ( 1770-1816 ). 1. Il
Galluppi è stato detto a ragione gran riformatore della filosofia italiana ; e
aspetta ancora un degno illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne
diremo soltanto quanto è neces sario al disegno di questo lavoro . Nacque a
Tropca, in Calabria , il 2 aprile 1770 ( lo stesso anno di Hegel) dal barone
Vincenzo e da Lucrezia Galluppi, una delle più antiche famiglie patrizie di
quella cittaduzza. Fattii primi studi di latino, tredicenne fu mandato a scuola
di filosofia e ma tematica da « un abile maestro » ( 1 ) , tal Giuseppe Antonio
Ruffa, che gli pose in mano la Logica del Genovesi e la Geometria di Euclide; e
l'innamorò talmente di questi autori e di queste disci pline, che il Galluppi ,
anche innanzi negli anni , non rivedeva quei libri senza una certa commozione.
Ma non si fermò al Ge novesi ; perchè alcuni suoi compagni l'indussero a
leggere la Teodicea del grande avversario di Bayle. E il Galluppi ne fu in
vogliato a studiare tutto il sistema nelle opere del Wolff, come anche ad
applicarsi alla teologia , poichè nella scuola « si era in trodotto, scrive
egli stesso , un certo misticismo » . 2. Studi teologici e metafisici continuò
a coltivare a Na poli , dove si recò nel 1788 , da Palermo, ove il padre
qualche anno prima aveva condotto la famiglia . Frequentò le lezioni di
teologia di Francesco Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di
Pasquale Baffi ; entrambi vittime gloríose del 1799. Studiò la Bibbia, la
storia antica , l'ecclesiastica, la patristica, ( 1 ) Vedi il brano
autobiografico pubblicato dal prof. F. PIETROPAOLO nella Rivista di filosofia
scientifica di E. Morselli, &. 1887, e ripubblicato da CARLO TORALDO nel
suo Saggio sulla filos. del Galluppi e le sue relazioni col kantismo, Napoli ,
Morano , 1902, p. 29 ( dove per una gvista è stampato amabile per abile ) .
PASQUALE GALLUPPI 217 specialmente s . Agostino. Ma, per la morte del suo minor
fratello Ansaldo, dovette nel 1794 rimpatriare per attendere all'azienda do
mestica ; e sposò Barbara d'Aquino di Cosenza , dalla quale ebbe quattordici
figli ! Negli Elementi di psicologia ( 1 ) egli stesso ricorda la sua numerosa
figliuolanza, che nella sua casa non grande gli avrebbe impedito co'suoi
strepiti infantili di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua
grande passione per questi studi. Persistetti, egli dice, e « l'esercizio mi
pose in istato , che io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi
strepitosi, i pianti e le grida de ' ragazzi > ( 2 ) . Nel 1795 , per
rispondere alle censure che certi ecclesiastici avevano fatto di alcune sue
proposizioni , pubblicò una Memoria apologetica (3) Nè tralasciava frattanto di
coltivare la filosofia : « ma i libri filosofici che leggeva, com'egli
c’informa, erano tutti della scuola cartesiana » . Intorno al 1800 lesse
Condillac, e « qui cominciò la seconda epoca della sua vita filosofica . Le opere
di questo filosofo fecero cambiare la direzione dei suoi studi nella filosofia
» , « lo compresi , - ci dichiara il Galluppi, – che prima di affermare qualche
cosa su l'uomo, su Dio e su l'universo , bisognava esaminare i motivi legittimi
dei nostri giudizi e porre una base solida alla filosofia ; che bisognava
perciò risalire all'origine delle nostre co noscenze, e rifare in una parola il
proprio intendimento » ( 4) . 3. Così egli scriveva nel 1822 , quando era molto
progredito nella critica della conoscenza , e aveva, si può dire, approfondito
il problema. Forse la prima lettura di Condillac non gli diede quella netta
coscienza, che parrebbe da queste parole , dell'im portanza della questione
gnoseologica . Certo, l'avviò per questa strada, che è la strada maestra delle
filosofia moderna, facendolo ritornare sul Saggio del Locke. E primo frutto di
questi nuovi studi fu nel 1807 un opuscolo Sull'analisi e la sintesi ( 5 ) ; le
due ( 1) § LVI ; 2.a ed. , Firenze, Pagani, 1832, p. 103 . ( 2) Anche il Vico nella
sua vita ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso sempre a
leggere o scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi figliuoli.
( 3 ) In Napoli , pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola . ( 4 ) Autobiografia
citata. (5) Napoli, Giuseppe Verriento , 1807. Tirato in pochi esemplari non
messi in vendita, quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è
conservata dalla Biblioteca Univer sitaria di Napoli, nella Miscellanea
Imbriani. 218 CAPITOLO I facoltà che occuperanno un posto primario nella
filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi , e senza
allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero » , come
immaginava in un suo affettuoso elogio Luigi La Vista, non si sarà rivolto «
alla prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello
nella vita e nella sapienza del divino Pita gora » ( 1 ) ; certo avrà seguito
gli avvenimenti politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli ,
com'è certo che partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at
tuate o vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Su la libertà com patibile con
ogni forma di governo, rimasto inedito . E nel 1809 da re Gioacchino fu
nominato controllore delle contribuzioni della provincia di Catanzaro ( 2) .
Della parte da lui presa alla vita pub blica contemporanea si ricorda pure un
opuscolo stampato nel 1820, Lo sguardo dell'Europa sul Regno di Napoli, in
difesa degli ordini costituzionali napoletani minacciati dal Congresso di Lai bach,
e contro l'intervento straniero . E altri due opuscoli avrebbe indirizzati al
Parlamento napoletano , l'uno Sulla libertà dell co scienza e l'altro Sulla
libertà della stampa ( 3) ; opuscoli ora irrepe ribili, ma che non dovevano
contenere niente di diverso dallo scritto Su la libertà compatibile con ogni
forma di governo, di cui larghi squarci e transunti furono pubblicati nel 1865
; nei quali il Nostro mostrasi largo fautore di ogni libertà (4) , 4. Quando
scrisse l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi il Gal luppi ancora non conosceva
nulla di Kant, secondo che egli stesso ci attesta. « La conoscenza di questa
filosofia, egli dice, non cam biò punto la direzione dei miei studi ; io
continuai le mie appli ( 1 ) Memorie e scritti di L. LA VISTA, Firenze, Le
Monnier, 1863, pag. 257. ( 2) Vedi quel che no dice P. E. TULELLI in
un'interessante memoria Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar .
P. G. - Notizie ricavate da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti
della r. Acc. delle scienze mor . e pol. di Napoli, I ( 1865 ), 201 e sgg. Il
TULELLI pubblicò un'altra memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G.
negli stessi Atti del 1867, III, 81 e sgg. ( 3) Vedi l'opuscolo più sotto
citato di F. S. BISOGNI, Omaggio , p. 9. (4) Vedi la prima delle due memorie
del Tulelli. Pare tuttavia che nella reazione del '99 il Galluppi , che allora
trovavasi a Tropea , non abbia mantenuta quella condotta che si conveniva a un
amico della libertà . Nell'Eco di Tropea del agosto 1902 II , n. 35 ) il prof.
C. TORALDO , al quale pure si deve il citato Saggio sulla filosofia del Gal
luppi con appendice di scritti inediti, ha pubblicato questo bruttissimo
sonetto recitato dal Nostro noll'Accademia degli Affaticati di quella città :
PASQUALE GALLUPPI 219 cazioni su l'intendimento umano, ma profittai molto delle
fati che del filosofo di Koenisberg ; io riconobbi il merito dei problemi
elevati dalla filosofia critica , sebbene trovai insufficiente la so luzione
che questa ne avea dato . Le meditazioni da me por tate su la filosofia critica
, elevarono molto più alto i miei pensieri e mi presentarono delle nuove vedute
nella scienza dell'intendi mento umano » ( 1 ) . E vedremo infatti quanta parte
del criticismo kantiano si rispecchi nel Saggio filosofico sulla critica della
co noscenza , di cui il Nostro pubblico i primi due volumi a Napoli nel 1819 (
2 ) , Questa prima conoscenza di Kant provenne al Galluppi dalle esposizioni nè
complete nè esatte del Villers ( 3 ) e del Kinker ( 4 ) e Della Patria il
dolore , il lutto , il pianto , La rea sorte fatal veder non voglio , Di Marto,
di Bellona il fler orgoglio , L'augusto trono di Minerva infranto , Spesso
sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fler cordoglio , Pria
che de' Franchi vacillasse il soglio , Dico nel mio pensiere, e piango intanto.
Un ferro io prendo. Occhi mici, non piangete, Grido nel mio furore ; io corro
or ora Sollecito a varcar l'onda di Loto . Ma già l'Angiol divin , che accanto
giace, Di man mi toglie il ferro , e grid'allora Verrà Fernando : tornerà la
paco ! Il sonetto è conservato su un foglio volante, che reca dalla parte
opposta queste parole che sono la conclusione di un discorso accademico : «
Ferdinando augusto , principe ma gnanimo, nell'impetuoso turbino che minaccia
l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra nazione son
legati alla tua esistenza . Ferdinando viene, Napoli è salvo. Il mio discorso
accademico è terminato » . E poi : « Pasquale Galluppi fra gli Af fatigati il
Furioso . Siegue dietro il Sonetto dello stesso accademico » A me pare che
discorso e sonetto possano riferirsi alla reazione del 1799 . ( 1 ) Le frasi in
corsivo di questo passo meritano particolar considerazione per quel cho si dirà
più innanzi del pensiero galluppiano. ( 2) Pei torchi di Domenico Sangiacomo.
Seguirono altri 2 vol. Messina , Pappalardo , 1822 ; poi un 5.° e un 6. ° , per
cui l'opera fu compiuta, nel 1832 , presso lo stesso Pappalardo. Nel 1833 in
Napoli fu incominciata la 2.a edizione migliorata ed accresciuta . ( 3) Philos.
de Kant, ou principes fondamentaux de la philos. trascendentale, Metz, 1807. (
4) Essai d'une exposition succincte de la Critique de la Raison pure ; trad. du
l'ol landais par. J. le F. , 1801; vedi su questi e gli altri primi scritti
francesi sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos. de Kant en
France de 1773 à 1814 , proposta alla sua trad. della Critica della Ragion
pratica (Paris, Alcan, 1888 ). 220 CAPITOLO VII dalla Storia comparata dei
sistemi filosofici ( 1803) del Degerando. Egli non seppe mai il tedesco ( 1 ) ,
nè mai conobbe la traduzione latina di alcune opere kantiane, già ricordata,
fatta dal Born ( 1796-98 ) ; nè era uscita peranco la traduzione che il cav.
Man tovani fece della Critica della ragion pura ( 1820-26) , e che sarà poi la
sua fonte principale. 5. Nel 1820 pubblico i primi due volumetti di Elementi di
filo sofia contenenti la Logica pura e la Psicologia , e prometteva l'Ideologia
, La logica mista , la Filosofia morale, che infatti uscirono in altri tre volumetti
nel 1826 ( 2) , e una Storia filosofica ragionata, che un avvertimento
dell'editore al quinto volumetto annunziava non si sarebbe piu pubblicata
avendo l’autore « su l'oggetto intra presa un'opera estesa » ( 3) . E questi
libri , i migliori testi di filo sofia per le scuole che si siano avuti finora
in Italia , per i loro squisiti pregi didattici d'ordine e di chiarezza , si
divulgarono presto per tutta Italia , procacciando molta fama al benemerito
autore . Intorno al 1821 scrisse alcune lettere sulla storia della fi losofia
moderna, indirizzate al canonico don Goffredo Fazzari, che nel seminario
vescovile di Tropea insegnava gli Elementi di lui e desiderava da lui stesso di
essere orientato in mezzo al « caos delle opinioni , che al presente scrive il
Galluppi nella prima lettera — agitano il mondo filosofico » , e di essere
sovrattutto informato della filosofia critica. E queste lettere l'autore nel
1827 raccoglieva in un bel libro, piccolo di mole ma che è il primo degno
saggio di storia della filosofia in Italia ( + ) , il quale diede ( 1 ) Nè
soppe tanto di francose da tradurre da questa lingua sonza errori di senso .
Vodi per un esempio curiosissimo la mia prefazione al Saggio citato del prof.
C. TO RALDO , p. IX, n . 1 . ( 2) Aggiunse più tardi gli Elementi di teologia
naturale. Nel 1835 si fece a Firenzo una edizione di tutti questi Elementi di
filosofia con aggiunte dell'autore e note di P.(OMPILIO ) T.(ANZINI) S. (
COLOPIO ), pubblico lettore ; ristampata a Bologna nel 1837. ( 3) Di questa Storia
della filosofia non fu pubblicato poi che il primo volume conte nento il primo
dei duo libri di Archeologia filosofica , che l'autore intendeva premettere al
l'opera. Ne conosco solo l'odizione di Milano, Silvestri, 1847, nella quale
precode l'Elogio funebre scritto da ENRICO PESSINA . ( 4) Lellere filosofiche
sulle vicende della filosofia relatiramente ai principii delle cono scenze
umane da Cartesio sino a Kant inclusicamente , Messina, Pappalardo, 1827. Le
let tere in questa edizione erano tredici. Una 14. ne aggiunse l’A. alla 2.a
edizione (Napoli, 1838) , con un Discorso di LUIGI BLANCH per venire fino al
Cousin e al Rosmini. E questa 2. edizione fu riprodotta in quella di Firenze,
Fraticelli, 1842 , che noi citeremo. PASQUALE GALLUPPI 221 occasione al
Romagnosi ( 1 ) di scrivere una Esposizione storico -cri tica del kantismo e
delle consecutive dottrine ( 2) . E altre cinque Lettere sull’ontologia
indirizzd a un amico tra il 1820 e il 1822 , dove si adoperò a mettere in
chiaro, da un punto di vista kan tiano, la futilità dell'ontologia wolfiana (
3) . Ma queste lettere non sono venute in luce che recentemente . 6. Per tutti
gli scritti già divulgati il Galluppi s'era reso noto per tutta Italia ; e il
giovane Rosmini l'11 novembre 1827 , ap pena stampato il primo volume de' suoi
Opuscoli filosofici, glielo inviava da Milano, dichiarandoglisi obbligato se
egli , che aveva « arricchita la filosofia , quella scienza avvilita e
profanata nei no stri tempi, anzi distrutta » , avesse voluto aggradire l'opera
e comunicargli « qualche lume relativo alle materie che sono in esse contenute
» . E si stabilì fra i due filosofi un carteggio assai istruttivo per chi
voglia conoscere le relazioni storiche delle ri spettive loro dottrine ( 4 ) .
Varie accademie fin da prima del 1822 l'avevano aggregato a’loro soci ; fra
esse la Sebezia e la Pontaniana di Napoli. Quivi il Galluppi tornò il maggio
del 1831 ; e subito vi pubblicò una traduzione dei Frammenti del Cousin , con
una prefazione e una « Dissertazione del traduttore , in cui si confuta il
domma del l'unità della sostanza » , ove però son comprese le osservazioni del
Galluppi intorno alle altre dottrine del Cousin non accettate ( 5 ) . « Avendo
meditato su di questo sistema filosofico, ho creduto di trovare in esso delle
vedute sublimi, ed insieme un errore pe ( 1 ) Che ne aveva scritto prima una
recensiono nella Biblioteca Italiana , di Milano, vol. L, p. 163 e ss . ( 2 )
Nella stessa Biblioteca , LIII, 180 e ss . Vedi Opp. filos . ed . e ined . , di
G. D. R. con annotazioni di A. DE GIORGI, Milano, 1842, pp. 575-605. Su questo
scritto e in generale sul Kantismo in G. D. Romagnosi vedi l'art. del CREDARO
nella Riv. di filos. italiana , an . 1887, vol . II . ( 3) Vedi ciò che ne ho
detto nella prefazione al citato Saggio del Toraldo. Dovo que ste lettere sono
stato tutte cinquo pubblicato per la prima volta . Solo le prime due erano
state edito da F. PIETROPAOLO , Scritti inediti di P. Gall. nella Riv, filos.
scient., VII ( 1888 ), 128-44. ( 4) Vedi il nostro Rosmini e Gioberti, pp.
75-82 ( Pisa , Nistri , 1898 ). ( 5) La filosofia di V. Cousin , trad . dal
francese, ed esaminata dal bar. P. Galluppi , a spese del N. Gabinetto
lotterario, 1831 , vol. I. Il vol. II è del 1832. A pag. 197 del vol. I si
incontra anche una postilla del tradut tore relativa ad alcune massime morali
del Cousin , 222 CAPITOLO VII ricoloso » . Quindi, accompagnando la traduzione
con la detta dis sertazione, ei credeva di porre « il lettore filosofo in
istato di conoscere non solo la filosofia del sig . Cousin , ma di giudicarla »
. Il libro frutto presto molto favore all'eclettismo francese a Na poli , e
specialmente al suo capo , che dal canto suo fece conoscere il Galluppi in
Francia ( 1 ) , e anche fuori per mezzo dell'amico Ha milton, che in un
giornale filosofico di Edimburgo scrisse un ar ticolo sul Nostro . 7. A Napoli
nello stesso anno 1831 fu persuaso da amici a chiedere la cattedra di logica e
metafisica vacante nell'Univer sità . Presentato al ministro degli interni
marchese di Pietraca tella, questi , udito il suo desiderio , l'invito a
cimentarsi a un esame. Ma egli con sdegnosa semplicità calabrese rispose : E
chi c'è a Napoli che possa esaminare Pasquale Galluppi? – L'amico che l'aveva
presentato , rimase sconcertato . Ma il 4 ottobre 1831 il nostro filosofo aveva
il suo decreto di nomina ( 2 ) . « Con che festa noi giovani , narrava il
Settembrini con quanta calca tutte le colte persone si andò a udire la sua
prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra dettava con
l'accento tagliente del suo dialetto ! Ci sono sempre i maldicenti, i quali
dicevano che egli era mezzo barbaro nel par lare, ma in quel parlare era una
forza di verità nuova , ma l'in gegno cra grande, e il cuore quanto l'ingegno »
( 3 ) . Quell'anno stesso aveva dato una novella prova delle sue atti tudini
didattiche dando alle stampe un'opericciuola : Introduzione allo studio della
filosofia per uso dei fanciulli. Ma nel seguente anno, primo del suo
insegnamento , coi primi due volumi della Filosofia della volontà dedicati al
marchese di Pietracatella, poi e --- ( 1 ) Si conservano nella biblioteca del
Cousin , appartenente alla Ropubblica, le lettere a lui del Galluppi. Vedi
l'art. da me pubblicato su V. Cousin e l'Italia nella Rassegna bibliograf. della
letter. ital. del 1898, VI , 213. Il Cousin fece tradurre in francese dal
Peisse suo discepolo le lettere del Galluppi ; o questi da F. Trinchera le
Lezioni del Cousin Sulla filosofia di Kant, aggiungendovi cgli delle note, come
sarà notato a suo luogo . Un'affettuosa commemorazione del Galluppi fece il
Cousin nel 1847 all'Accademia di Francia , o pubblicò nel Journal des
Économistes del febbraio 1847, riportato nell'Omnibus di Napoli del 29 maggio
1847, dove il Galluppi aveva scritto sul Cousin, anno III ( 1835) , pag. 225 .
( 2 ) Vedi FIORENTINO, Man . di storia della filos., Napoli, 1887, pag. 609 ;
L. SETTEM BRINI, Ricordanze , Napoli , 1898 , I , 75, e il Discorso cit . del
BORRELLI, p . 6 . ( 3) Op. cit . , vol. I , pag. 76. PASQUALE GALLUPPI 223 ammontati
a quattro , già composti a Tropea, cominciò a puh blicare le Lezioni di logica
e metafisica, dettate all'Università , vero modello di quel lucidus ordo tanto
raccomandato dal Veno sino . Nel 1834 ne compì la stampa in tre volumi ; di cui
fece nel '40 una seconda edizione e una terza nel 1846 ; ristampata nel 1853
dal Tramater ; e questa stampa noi citeremo. 8. A proposta del Cousin il 30
dicembre 1838 , in concorrenza coll'Hamilton che ebbe un solo voto , veniva
nominato socio cor rispondente dell'Accademia delle scienze di Francia. E il 28
aprile 1841 , a proposta del Guizot , Luigi Filippo lo insigniva della croce
della Legion d'onore (1) Ei se ne sdebitava con le sue Considerazioni
filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul sistema di Fichte ,
memoria presentata il 1839 all'Istituto di Francia , accademia delle scienze
morali e politiche ( 2) ; e mandando più tardi , poco prima di mo rire , uno
scritto su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente
negli Atti dell'Accademia. Nel 1842 pubblico il primo volume della Storia della
filosofia , annunziata fin dal '26 . Vi si tratta della filosofia greca , non
però secondo la successione delle scuole , sibbene « considerando e cri ticando
le diverse opinioni dell'Antichità » su l'origine dell'uni verso e del genere
umano fino ai neo-platonici . « Una siffatta opera, dice in un elogio funebre
dell'autore un affettuoso discepolo saria stata monumento novello di gloria
italiana , se a nostra disavventura la vecchiezza , le malattie , le sciagure
non avessero di tale infievolito l'animo di lui , ch'ei non potè vederla
compiuta, ed a perfezione condotta » (3) 9. Infatti gli ultimi anni della vita
del nostro filosofo furono amareggiati da sciagure che ne affrettarono la morte
. Già uno dei figli maschi era caduto , com'ei narra , « vittima del furore
d'un giovane sconsigliato » . Ed egli ne aveva scritto e stampato (Mes sina,
1818) l'elogio . Nel 1834 poi gli era morta la moglie . Ora, nel 1844 in una
insurrezione scoppiata a Cosenza perdeva la vita un altro suo figlio, Vincenzo,
che era capitano . Il vegliardo ( 1) Vedi la lettera del Guizot in LASTRUCCI,
P. G. studio critico , Firenze, Barbèra , 1890 , p. 112. ( 2) Stampate in
italiano nel 1841 , da' torchi del Tramater ; un vol. di p. 159 in 4.° Negli
Atti dell'Accademia francese furono pubblicato come la successiva memoria in
francese. (3) Elogio funebre di P. G. , per E. PESSINA, in Op. cit . , p. XIII.
224 CAPITOLO VII ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con
fortarlo disse : « Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e
giusta » Morì il 13 dicembre 1846. P. Borrelli , come sopra s'è visto , ne
disse degnamente le lodi presso al letto funebre, il 14, fra una folla di
giovani discepoli , che recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S.
Nicola ; e il giorno 21 gli celebrarono funerali solenni nella chiesa di
Sant'Orsola a Chiaia , in cui recitò un'ora zione il gesuita Carlo Maria Curci
. Giuseppe Campagna piangeva la morte del filosofo in un sonetto filosofico,
lamentando che con lui si partisse dalla terra Una favilla dell'eterno lume ( 1
) . Il 14 marzo 1867 dall'Accademia delle scienze morali e politiche al
Galluppi veniva eretto un busto nella Università degli studi, da lui onorata con
molti altri spiriti magni . 10. Molti scritti aveva ancora in animo di
pubblicare , oltre i ricordati, e molti manoscritti di lui ci son rimasti , ora
in depo sito presso la Biblioteca nazionale di Napoli, i quali fan testimo
nianza della larga estensione degli studi fatti da lui in teologia , storia
dell'antica e moderna filosofia , filologia greca e latina, sto ria ,
matematica, astronomia ( 2 ) . Meno vita modesta e di grande raccoglimento :
assorto negli studi, visse veramente per la scienza , in cui riuscì ad
imprimere orme profonde, rinnovando la filosofia italiana . Egli infatti fu il
solo dei filosofi napoletani da noi studiati, dopo il Genovesi, che esercitasse
una influenza molto notevole al di fuori del regno , su tutti gli studi
filosofici nazionali ( 3 ) , ( 1 ) Pubblicato nel Museo di scienza e lett., X,
348 ; v. DE SANCTIS, La letter . ital. nel sec. XIX , Napoli, Morano , 1897, p.
96 , e nota del CROCE, p. 208 . ( 2) Oltre la memoria ricordata del Tulelli ,
vedi l'olenco dei mss. galluppiani nel l'opuscolo citato dell'avv. Pietropaolo
. ( 3 ) Per la biografia v. anche L. PALMIERI, Elogio stor . del bar. P. G. con
alcuni poe tici componimenti recitati in un'adunan za tenuta per cura di L.
Palmieri in Napoli il di 10 del 1847 , di pp. 32. V'è oltre l'elogio un sonetto
del Campagna, un carme latino di A, Mirabelli, alcune sestine di D. Anzelmi,
un'ode latina di Quintino Guanciali e un so netto « improvvisato dall’egregio
poeta sig . Giuseppe Regaldi che per una congiuntura si trovò presente alla nostra
adunanza » , - Vedi anche la necrologia Morti e morenti di C. CORRENTI, pubbl.
nella Rivista europea del decembro 1846 , ristamp. in Scritti scelti , ed.
Massarani, Roma, tip . Sonato, 1891 , I , 481-83. L'articolo dell'ab. ANTONIO
RACIOPPI, Il Bar, P. G. , nel Poliorama pittoresco, an. XI ( 1847 , 13 marzo e
20 marzo) , n. 32 e 33 ; l'opu scolo di F. S. BISOGNI , Omaggio alla memoria
del b. P. G. nell'occasione che in Tropea il Munic. e la Prov. innalzano una
statua all'illustre filosofo , Napoli, Morano, 1877 ( in PASQUALE GALLUPPI 225
11. Nella quattordicesima delle Lettere filosofiche il Galluppi, vo lendo
determinare le relazioni della sua filosofia, ch'egli chiama sperimentale, col
criticismo kantiano, si fa a descrivere le varie fasi attraverso le quali era
passato il suo pensiero . Ma la de scrizione non è molto accurata ed esatta.
Abbiamo visto come fino circa ai trent'anni ( al 1800) suoi autori fossero
Leibniz, S. Agostino e i filosofi della scuola di Cartesio ; e si può dire che
egli fosse in un periodo di dommatismo metafi sico , che rimase poi sempre nel
fondo del suo pensiero ; non solo perchè molto più tardi, quando aveva studiato
anche Kant , con tro di questo egli affermava che « la filosofia è
essenzialmente dommatica, e non può essere che dommatica. Essa dee contenere
delle verità assolute » ( 1 ) ; ma anche per altre ragioni: La lettura di
Condillac gli fece intendere , che c'era una que stione preliminare dą
risolvere prima di ogni metafisica : ricer care, cioè , i motivi legittimi dei
nostri giudizi , quindi risalire all'origine delle nostre conoscenze , rifare,
egli dice , l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono insomma la direzione
de' suoi studi . Segue perciò dal 1800 fino circa al 1810, quando venne a cono
scenza del Villers e del Degerando, un periodo prekantiano di revisione della
conoscenza ; al quale periodo appartiene l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi,
12. In questo egli concedeva al Locke e ai suoi seguaci, che « tutte le nostre
idee hanno origine da' sensi » , che pertanto « tutte le nozioni universali
vengono a formarsi dal paragone degli oggetti particolari , e ... che le
cognizioni particolari ci menano alle no zioni universali , e non già viceversa
» ( 2) . Ma si proponeva la questione « se lo spirito , tosto che ha for mate
le nozioni universali, possa paragonarle, scovrirne i rapporti, e quindi
applicare questa cognizione universale alle idee parti colari , racchiuse
nell'idea universale , che si è paragonata colle questo opuscolo è pubblicato
uno scrittorello inedito del GALLUPPI Sulla semplice appren sione, pag . 17 e
segg. ) . Uno studio biografico ha pure dato in luce il sig. F. PIETROPAOLO,
nel Pensiero contemporaneo di Catanzaro , an. I , 1899, fasc . 6, 7 e 8. Non
c'è riuscito di vedere la biografla pubblicata nel Giornale dell'equilibrio,
1841, n. 1 (citata dal Palmieri) scritta da P. E. TULELLI « sopra note
comunicatemi questi diceva, accennando molto probabilmente a questa biografia
dall'autore medesimo > ; Atti della R. Accad . d. scienze morali e polit .,
1865, I , 203. ( 1 ) Letl . filos. , p. 342 . ( 2) Sull'analisi, p. 20 . 15 226
CAPITOLO VII altre » ( 1 ) . Per es . , delle due proposizioni generali ogni
cerchio ha tutti i suoi raggi uguali e ogni corpo è grave, nella seconda tra
corpo e gravità non havvi una connessione necessaria e il loro rapporto non può
affermarsi se non mediante il soccorso dell'espe rienza ; nella prima invece è
nell'idea del cerchio la ragione di affermare l'uguaglianza de' suoi raggi; e
fra le due idee v'è un legame necessario, che non dev'essere attestato
dall'esperienza. V'ha dunque , conchiudeva il Galluppi, verità generali cui lo
spi rito non perviene dalle verità particolari (sensazioni), « ma per mezzo del
semplice paragone delle idee universali, ch'egli si ha formato » ; e v'ha poi
verità generali che derivano dalla cognizione delle singole verità particolari
, che ci fornisce l'esperienza. Le une costituiscono le conoscenze a priori e
necessarie ; le altre le conoscenze a posteriori e contingenti. Le prime sono
principii ana litici, in quanto si devono all'analisi delle idee“ generali già
ac quisite per l'esperienza ; laddove le seconde sono un prodotto della sintesi
delle verità particolari, non altrimenti che le idee universali . 13. Sicchè
già nell'opuscolo del 1807 il Galluppi era arrivato a quella forza analitica e
forza sintetica di cui farà nel Saggio ( lib . I , § 18 , 34) il fondamento di
ogni giudizio, distinguendolo net tamente dalla sensibilità . In quell'opuscolo
si poteva egli dire an cora puro empirista ? Certo, egli faceva ancora, come il
Locke , derivare dalla sensazione ogni idea universale, e puramente speri
mentale faceva ancora la materia delle conoscenze a priori . Giac chè le idee
generali , fra cui può ammettersi un rapporto neces sario a priori, sono esse
stesse sperimentali a posteriori . Tutta quanta la materia della nostra
cognizione deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si ammette nella sintesi ,
che, elaborando il dato immediato dei sensi , ci conduce alle idee universali e
alle cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci fornisce conoscenze
indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque l'empiri smo crudo cui
il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato ridotto , non era
accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta distinzione tra
conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori contingenti , fatta
dal Galluppi quando igno rava affatto la distinzione kantiana di giudizi
analitici e sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare ch'egli
allora cono scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume , nel
quarto ( 1 ) Ivi , ibid . PASQUALE GALLUPPI 227 dei quali ritrovasi quella
distinzione tra i legami di causalità, fon damento delle cose di fatto e
relazione d'idee, scoperte per mezzo di semplici operazioni della mente, che
giustamente si è voluto preluda alla teorica di Kant ( 1 ) . 14. Nel 1819 , nel
libro I del suo Saggio, la posizione del Gal luppi si determina assai più
chiaramente. Egli , bene o male, ha già studiato Kant, e combatte l'empirismo
di Condillac, di Elvezio , di Destutt - Tracy ; di quel Tracy , che ancora nel
1827 a Firenze , al dire d'un arguto scolaro del Cousin, rappresentava le chef
et maitre, celui qui l'a dit ( 2 ) ; e dichiarava che la geometria, « questa
scienza pura , razionale, è la pietra immobile su cui va a rompersi la macchina
debole dell'empirismo » (S 36 ) ; e che, infine, « non è vero esattamente » ciò
che egli aveva ammesso o , almeno, non aveva combattuto, nell'opuscolo del 1807
: derivare cioè tutte le idee universali dal paragone delle particolari (S 40)
. 15. Parve a lui che la critica di Kant fosse una vera rivolu zione . « La
rivoluzione kantiana , scrisse nella prefazione del Sag gio (3 ), merita , più
di quel che si crede , l'attenzione dei pensa tori » . Asseriva bensì , che il
criticismo non fosse altro che un neo logismo, sotto il quale non si faceva
passare che una questione vecchia, quella dell'origine delle nostre idee. Ma le
prime parole della sua prefazione erano tuttavia le seguenti : « L'oggetto di
quest'opera è la Critica della conoscenza , o l'esame della realtà della
scienza dell'uomo . Che cosa posso io sapere ?... Son io ca pace di conoscenze
reali ? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze ? Quali sono i
limiti prescritti al mio spirito , limiti che non gli è permesso di
oltrepassare senza precipitare nell'abisso dell'errore ? Tali sono le ricerche
sublimi ed importanti che mi occuperanno » ( 4) . Ora queste sublimi ricerche,
come tutti sanno, sono appunto quelle del criticismo kantiano ; che se è una
rivoluzione, sarà cer tamente una novità. ( 1) Vedi D. JAJA , Saggi filosofici
, Napoli, Morano, 1886 , pag . 189 e sgg. E a quel saggio di Hame fu il
Galluppi ricondotto dal Kant, nella IX delle sue Lettere filosofiche, per
spiegare, esponendo la critica del concetto di causa fatta da D. Hume, perchè
la lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno dommatico . Ma ivi ( p. 171 )
, ricordando la distin zione di Hume tra cose di fatto e relazione d'idee, non
ne avverte punto la parentela con la divisione kantiana dei giudizi. ( 2 ) Vedi
il mio Rosmini e Gioberti, pag . 14. ( 3) Tom . I , p. 9. Cfr. lib . III , § 76
; tom . III , p. 268. ( 4) Cfr. lib. IV , $ 1 . 228 CAPITOLO VII Se non che, a
giudizio del Galluppi , la critica di Kant , « lungi dallo stabilire la realtà
della conoscenza , tende radicalmente a distruggerla » ; che i suoi risultati
sono essenzialmente scettici ; e quindi una buona dottrina della conoscenza non
può costruirsi se non in opposizione a quella critica . Una critica, insomma,
ci vuole ; ma non quella di Kant. E quale dunque ? 16. Noi non esporremo ne'
loro particolari le teorie del Gal luppi e le critiche delle altrui dottrine
ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col Saggio filosofico la sua dottrina è
già fissata , senza seguire l'ordine cronologico delle opere , possiamo
dall'una e dall'altra di esse raccogliere i tratti caratteristici della sua fi
losofia e farne un corpo compiuto. 17. Il Galluppi, come gli antichi psicologi
metafisici ammette un sistema di facoltà dello spirito ; e a capo di tutte pone
la co scienza o sensibilità interna . Questa è la facoltà per la quale lo
spirito percepisce , sente se stesso , il me, la cui esistenza è una di quelle
verità primitive, che ci sono attestate dall'esperienza, ma non si possono
dimostrare ; come già pensarono Cartesio e Leibniz . Nè vale l'obbiezione che
noi non percepiamo se non le nostre modificazioni, e che l'idea del me si
dedurrebbe percið da quella delle modificazioni, pel principio che non v'ha
atto senza soggetto . Non v'ha sentimento delle proprie modificazioni donde si
possa separare quello del proprio essere ; perchè non si può percepire
l'astratto, ma il concreto, non il dolore, ma il me dolente . Il me adunque è
un dato dell'esperienza, che bisogna ac cettare come una verità primitiva di
fatto ; e l'atto con cui lo si apprende , è la percezione immediata. 18. Qui il
Galluppi, ritornando alla posizione cartesiana, ne sente tutta l'importanza.
Egli osserva nel Saggio filosofico, che il defi nire , come si fa comunemente,
l'idea per la rappresentazione dell'oggetto nella mente, separando cosi
l'oggetto dalla mente , e il far consistere quindi la norma della verità nella
conformità della nostra rappresentazione con l'oggetto esteriore, apre irrepa
rabilmente la porta allo scetticismo. « Se gli oggetti , se la re gione
dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal
pensiero all'esistenza , all'oggetto ? Questo ponte si fa consistere nelle
immagini degli oggetti. Lo spirito, dicesi , possiede le immagini degli oggetti
; ma in questo caso lo spirito non potrà giammai conoscere la conformità di
queste immagini cogli originali, e la verità andrà sempre lungi da lui » ( 1 )
. Me ( 1) Saggio , lib . I , 8 15 ( I , 37) . PASQUALE GALLUPPI 229 morabili
parole , per cui il Galluppi non solo non è un prekan tiano , come credono i
più , ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ; del quale egli in questo luogo
discopre espressamente il vizio principale , notando che il fenomenismo critico
è una con seguenza della falsa posizione volgare dell'oggetto rispetto al sog
getto , presunta dalla definizione dell'idea testé riferita . 19. L'idea del
me, a proposito della quale l'autore fa queste osservazioni, non ci deve esser
data da una percezione che sup ponga il termine percepito opposto al soggetto
percipiente : « L'Io ed i suoi modi non sono separati dall'atto della coscienza
, ma gli sono presenti . La coscienza li prende dunque immediatamente, e fra
questa percezione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo . Questa
coscienza , questa percezione è dunque l'appren sione e l'intuizione della cosa
percepita » (§ 16) . E le intuizioni, secondo il Galluppi , « son vere , non
perchè son di accordo cogli oggetti , ma perchè elleno agiscono immediatamente
sugli oggetti , e li prendono » ( 1 ) . Nè bisogna cercare di definire la
percezione, perchè non se n'ha se non una nozione semplice, e ognuno pud solo
rimettersene alla propria coscienza per istruirsene . Il semplice, adunque , il
principio da cui parte il Galluppi, è questa immediata coscienza di sè , che
egli dice percezione o in tuizione ; la cui verità è fondata nella identità
dell'essere e del pensiero, come in Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo
riposa su la base unica della coscienza di se stesso » ( Saggio, lib . IV, § 3)
. 20. Sicchè la filosofia del Galluppi è un vero soggettivismo , come si può
vedere anche dal suo concetto della filosofia . « Che cosa è mai la filosofia ?
Ella è , rispondono alcuni filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza
ella è la scienza dell'uomo , del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone,
che l'uomo possa giugnere a conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono
altri filosofi, bisogna prima esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su
qual fondamento può egli saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere
è certamente una conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose . Da ciò segue
che la filosofia pud riguardarsi sotto due aspetti , o come la scienza delle
cose , o come la scienza della scienza umana . Considerata sotto il primo
aspetto , ella può chiamarsi scienza oggettiva ; considerata poi sotto il se
condo, può chiamarsi scienza soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima,
la quale dee contenere la legislazione di tutte le ( 1 ) Li investono, dice più
innanzi. 230 CAPITOLO VII - altre scienze , voi vedete bene esser necessario di
considerarla nel secondo aspetto . A cið tende la celebre massima
dell'antichità conosci te stesso . Io dunque la riguarderò come scienza sogget
tiva » ( 1 ) . E « scienza della scienza » la definisce già negli Ele menti di
ideologia (S III). Negli Elementi di filosofia morale (SI) la dice : la scienza
del pensiere umano, distinguendola in teoretica e in pratica , secondo che studia
l'intelletto o la volontà . Egli ha insomma un concetto moderno della
filosofia, giustificato dal suo principio : che è la coscienza di sè . 21. Ma
come, partendo da tale principio, egli costruisce la realtà conoscitiva ? E
qual carattere dà al suo soggettivismo la sua costruzione ? Prima di tutto ,
avverte giustamente il Galluppi , bisogna di stinguere l'ordine cronologico
delle nostre conoscenze dall'ordine scientifico ( 2) , Noi abbiamo con la prima
sensazione e come fonda mento di essa la coscienza del nostro Io ; ma essa non
è certo una coscienza di riflessione ( 3 ) . Vale a dire , c'è di fatto questa
co scienza che è il Primo scientifico ; ma non si rivela se non alla
riflessione filosofica posteriore , molto posteriore, cronologicamente. Perchè
questa coscienza primitiva si rivelasse effettivamente, lo spirito dovrebbe
cominciare da un giudizio ( lo esisto ), ed essere già in possesso dell'idea
astratta di esistenza , laddove ei comincia invece da una percezione o
sensazione che voglia dirsi . Comincia da una percezione complessa : dalla
percezione del me che riceve delle modificazioni, dalla percezione del me che
percepisce il fuor di me. Ora lo spirito presta successivamente la sua
attenzione ai diversi elementi che compongono l'oggetto di questa prima
percezione, decompone , divide questo oggetto ; poi lo ricompone di nuovo e
forma il giudizio, che è perciò il pro ( 1 ) Lett. filos., lett . I ; ediz .
cit. , p. 37-8 . Questo stesso concetto è svolto nella Prolusione del 1831:
Introduzione alle lezioni di logica e di metafisica del bar . P. G. , Napoli,
Ga binetto bibliografico e tipografico , 1831, di pp. 30 in-8. ° (ristampata in
fronte alle Le zioni di logica e di melafisica , vol. I) e nelle primo tre di
questo lezioni. Vedi puro il suo articolo Filosofia nella 1." dispensa
dello Ore solitarie del 1838 (rivista diretta al lora da Lorenzo Riola , P. S.
Mancini e Luigi Curion , più tardi dal solo Mancini), pp. 9-11. Nella
Continuazione delle Ore solitarie ovvero Giorn . di scienze morali, legislat. ed
econom. , 1842, fasc . I e II , pp. 7-14, è un altro scritterello del GALLUPPI:
Sul panteismo del signor Lamennais. ( 2) Saggio filos., lib. I , § 22 ; tom . I
, p. 49. (3) Ivi, $ 20 ; I , 45 . PASQUALE GALLUPPI 231 dotto dell'analisi e
della sintesi della percezione complessa ( 1 ) . Sic chè bisogna ammettere
nello spirito , oltre la facoltà della sensibi lità ( interna o coscienza, ed
esterna) , quelle dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di me ci viene
offerto adunque dal me, da quella coscienza che cogliendo il me lo coglie
modificato dal fuor di me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure
sensazione, corri sponde , come bene osservò lo Spaventa, alla coscienza
sensibile dell'Hegel ; è l'unità ancora confusa ed indistinta di soggetto ed
oggetto. Allorchè, dice il Galluppi, la modificazione esterna « è percepita col
me, che modifica , io non ho ancora che una per cezione ; ma quando ella è
riguardata come distinta dal me, e poi riunita a lui dall'atto dello spirito ,
io allora giudico » ( 2 ) ( Saggio, lib . I , § 18) . Ora, se conoscere è
questo distinguere e unire , è chiaro che conoscere pel Galluppi non è sentire
( percepire) , ma giudicare . Quindi egli combatte i sensisti, insistendo sulla
dif ferenza sostanziale che corre tra sentire e giudicare, notando come
giudicare importi necessariamente un rapporto , e come non sia possibile
indicare l'impressione esterna, l'organo sensorio che ci manifesta la
conoscenza del rapporto ( 3) . La forza analitica e la forza sintetica dello
spirito sono distinte dalla sensibilità (4) ; come già aveva sostenuto
nell'opuscolo del 1807 . 23. La coscienza sensibile è adunque l'unità
fondamentale del conoscere ; l'unità che è condizione dell'analisi e della
sintesi , ne cessaria a tutti i nostri giudizi . Ma come si giustifica questa
unita ? Il fuor di me è sentito , dice il Galluppi , come un molteplice del
quale ciascuna parte è distinta dall'altra e le modificazioni di una parte non
sono, nel mio sentimento, le modificazioni delle altre . Il tronco di un albero
è distinto dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro : il moto di un ramo
può stare senza il moto di un altro e di tutto l'albero ( 5 ) . Questa
molteplicità si raduna nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre lo
stesso , sia che ( 1 ) Saggio filos. , lib . I , § 18, ed Elem . di Psicologia
, & VIII . ( 2) Lo stesso è detto negli Elem , di Psicol., 8 VIII in fine.
( 3) Saggio, lib. I , § 32 ; I , 69. II Galluppi riferisce un notevolissimo
passo dell'Emilio di Rousseau ( lib . IV) sul valore del giudizio ; passo che
conferma la parentela che col fllosofo ginevrino ha quello di Koenigsberg . (
4) Ivi, 8 34 ; I , 73. (5) Elem . d'Ideologia , 8 XXIV , ediz . cit ., p. 56 .
232 CAPITOLO VII ragioni, che giudichi, o che percepisca ; talchè « il soggetto
di un giudizio può avere una composizione fisica ed una unità logica ( 1 ) che
gli vien conferita dal pensiero , che appunto sintetizza nella sua unità il
molteplice fisico . Questa unità del pensiero s'addi manda unità sintetica , la
quale se si ravvicina a quella forza analitica e forza sintetica che s'è
accennata , s'intenderà come un'attività distintiva e unitiva insieme . E
un'attività sintetica originaria dell'essere conoscitore appunto è ammessa dal
Gal luppi ( 2 ) . 24. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io che sintesizza
, uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me, suppone percið
l'unità metafisica del me stesso che « è la semplicità o spi ritualità del
principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la scienza, poichè la
scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si compone ; ed
essendo un pensiere distinto dall'altro , come si farebbe l'unione di questi
pensieri senza un centro di unione ? Ove si incontrerebbero i diversi raggi del
sapere ?... L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i materiali
della costruzione » . « L’io di Newton , ripete qui il Galluppi, che ritrova il
calcolo sublime è lo stesso io che ha ap appreso la numerazione aritmetica.
Senza l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità sintetica del
pensiere, e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe possibile alcuna
scienza per l'uomo ( 3) . Questa unità sintetica della coscienza originaria ha
una intrin seca parentela , come ognun vede, coll'appercezione originaria di
Kant. Col quale il Galluppi s'accorda nel ritenere che « l'essenza particolare
specifica dello spirito umano > ci è ignota affatto ( 4 ) . 25. Ma data
questa coscienza originaria, che forza analitica e sintetica insieme , tutte le
nostre conoscenze derivano , secondo il Galluppi , dai sensi ? Nel libro I del
suo Saggio filosofico egli , rife rendosi allo scritto del 1807, scrive : « Io
suppongo in tale opu scolo che tutte le idee universali derivano dal paragone
delle particolari ; ma cið non è vero esattamente, poichè vi sono alcune idee
soggettive > (8 40) . La tesi degli empiristi che non ammettono nella nostra
conoscenza se non elementi oggettivi, è insostenibile . ( 1 ) Elem . d'Ideol.,
ivi. ( 2 ) Lettora ad A. Rosmini, Tropea , 23 aprile 1830, nella Sapienza,
rivista di filos. e lettere , fasc . del 15 marzo 1885, p. 165. Cfr. il mio
Rosmini e Gioberti, p. 79. ( 3 ) Elem . d'Ideol., & XXV, pp. 61-2 ; cfr .
Saggio, lib . III , SS 50-1 . ( 4) Saggio, llb. IV , 8 98 , V, 418. PASQUALE GALLUPPI
233 ma In quell'autobiografia intellettuale che è nella quattordicesima delle
sue Lettere filosofiche il Galluppi dice, che il problema della sua filosofia
dell'esperienza fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e colla sua
azione non potrebbe forse sviluppare dal suo interno qualche elemento che egli
non riceve , ma che produce ? E questo elemento soggettivo non potrebbe forse
esser tale , che lasciasse intero l'elemento oggettivo , che cooperando collo
stesso non recasse alcun nocumento alla realtà della conoscenza , l'estendesse
e la fecondasse ( 1 ) ? 26. Infatti, questa rimaneva la più grave difficoltà
del Gal luppi contro l'a priori: che l'a priori con la sua soggettività
scalzasse la realtà della conoscenza, come rimproverava a Kant per le forme
dell'intuizione e dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per la idea
dell'Ente indeterminato ( 2) . Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle
categorie kantiane , ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del
resto , nella critica che fa delle idee innate , pure avendo combattuto nel
primo libro del Saggio l’in natismo di Leibniz , si può ben dire che ne accetti
il principio ne gli Elementi di ideologia (8 XXIII) . Egli distingue idee
accidentali all'intelletto e idee essenziali. Le une non tutti gli uomini
possono formarsele, perchè non a tutti è dato di avere le sensazioni che sono
il materiale donde l'analisi può ricavare coteste idee . Le altre non mancano a
nessun uomo, perchè derivanti da sensazioni co muni a tutti . Sicchè anche le
idee essenziali dell'intelletto pre suppongono l'esperienza ; e « se per idee
innate si vuole intendere idee , che non sono il prodotto della meditazione
(analisi) su i sentimenti (sensazioni) , tali idee non hanno esistenza » . Ma,
« se per idee innate s'intendono quelle idee , di cui ogni uomo porta
costantemente in se stesso i germi per isvilupparle , e che ogni uomo capace di
meditare pud in qualunque luogo ed in qua lunque tempo acquistare , idee che ho
chiamato idee universali all ' intelletto, l'esistenza di siffatte idee mi
sembra incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che tutte le nostre idee
hanno la loro origine ne' sentimenti : conveniamo ancora, che tutte le idee
sono acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra idee generali , e
di ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo porta
costantemente in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che sono
nello spirito si sviluppano le idee essen ( 1 ) Op. cit . , p. 343. ( 2) Vedi
il mio Rosmini e Gioberti, p. 79 e sgg. 234 CAPITOLO VII ziali al pensiero
umano, e che si ritrovano in tutte le lingue » . Donde è chiaro che il Galluppi
tiene per innate nel senso leibni ziano , di attitudini, disposizioni, germi,
coteste idee essenziali all'intelletto , quali sarebbero le idee di corpo ,
spazio, causa, unità , numero, ecc .; comecchè tutta la sua Ideologia sia una
deduzione di queste e altre simili idee dalle sensazioni. 27. Ma, quali sono
queste sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo in se stesso
? Se ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari , essenziali
costitutivi dello spi rito . Lo spirito è questi stessi sentimenti. E come
potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla formazione
di idee essenziali all'intelletto ( facoltà conoscitiva in generale) ? Il
Galluppi dice, che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in
qualunque tempo modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano » ( 1
) . Dunque, essi sono immanenti real mente allo spirito , nè questo si può
concepire senza di essi . Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi
compete solo ai senti menti del me e del non me inscindibilmente legati fra
loro , costi tuenti il gran fatto , il Primo, dal quale deve cominciare la filosofia
. « Questo fatto è universale per tutti gli uomini, per tutti i luoghi, e per
tutti i tempi. Il complesso de ' sentimenti racchiusi in questo fatto dee
dunque riguardarsi come essenziale all'umano intendi mento » ( 2 ) . Il quale,
fornito della forza di analisi e di sintesi , può con la sua azione feconda
sviluppare da questi sentimenti e così produrre tutte le idee che gli sono
essenziali ( 3) . Ma la stessa produzione è essenziale , se i prodotti sono
essenziali ; tal chè lo spirito , partendo dall'indistinta e oscura coscienza
del me e del fuor di me, non raggiunge il grado dell'intelletto , se non per
questa spontanea produzione che fa , mediante l'attività ond'è for nito , delle
idee di sostanza, causa , corpo, spazio , tempo , unità , numero , ecc. , di
cui ha in sé i germi indefettibili. 28. Intorno al valore di questo virtuale a
priori del Galluppi si può esser tratti in inganno da certe sue espressioni,
dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da lui così spesso e for
temente affermato dell'esperienza, che è esperienza sensibile, come unica
sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender bene al valore della
sensibilità nella teoria del Galluppi . La sua sen sibilità è coscienza , è
sentir di sentire , è l'unità ancora indistinta di soggetto ed oggetto, che
egli concepisce come Primo attivo e ( 1 ) Saggio , lib. III , § 49. Ivi. ( 3)
Ivi. PASQUALE GALLUPPI 235 produttivo ; di cui vedremo quanto si gioverà a
fondare l'ogget tività del conoscere . Ora , dato questo Primo come coscienza
sen sibile , egli non può ammettere più un intelletto opposto al senso e ricco
a priori di determinazioni dal senso indipendenti. Perchè l'intelletto è uno
sviluppo del senso e le sue determinazioni es senziali non possono non essere
contenute virtualmente nel senso insieme con l'attività che possa dallo stato
virtuale portarle al l'attuale , fecondandone i germi. E questo è , come tutti
sanno ora o dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a -priori kantiano ,
preparato dalle virtualità innate di Leibniz ; e in que sto concetto il
Galluppi evidentemente sorpassa e si lascia addietro il kantismo volgare,
com'egli l'intese e come tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici , che
concepiscono senso e intelletto in assoluta opposizione , in un dualismo
inconciliabile . Questo punto della filosofia del Galluppi non è stato studiato
e apprezzato ancora abbastanza ( 1 ) . La idea essenziale del Galluppi
corrisponde preci samente all ' acquisitio originaria , con cui Kant definiva
il suo a priori nella famosa lettera all'Eberhard, come l'idea accidentale
all'acquisitio derivativa . Sono idee acquisite le idee essenziali come tutte
le altre idee ; ma esse sono le acquisizioni originarie che la coscienza fa per
la sua propria attività salendo al grado del l'intelletto . 29. Fermata questa
teoria , il Galluppi ha ragione di scrivere : « Io non ho ammesso idee
anteriori a ' sentimenti, in modo che non gli suppongano neppure come
condizione ; ma ho ammesso alcune idee essenziali all'intendimento , ed ho
stabilito questa dottrina sopra solidi fondamenti... lo nego le idee innate nel
senso di idee anteriori ed indipendenti assolutamente da' senti menti ; io le
ammetto nel senso di idee naturali, o d'idee per l'acquisto delle quali si
possiede una disposizione o virtualità naturale » ( 2) . E poichè così viene a
dire il medesimo del Kant bene inteso , a me pare che abbia pur ragione di
soggiungere : « Io dunque credo di aver trovato il mezzo di conciliazione fra i
due sistemi contrari su la formazione delle nostre idee » ; come è merito reale
di Kant, che naturalmente il Galluppi non poteva riconoscere , di avere operato
siffatta conciliazione del puro em pirismo e del puro intellettualismo . ( 1 )
Il meglio che se ne sia detto sono le tre pagine dello SPAVENTA, nella sua mo moria
Kant e l'empirismo ( 1880) , rist . in Scrilti filosofici, Napoli, Morano,
1900, pp . 81-114. (2) Saggio , lib. III , 8 86 ; tom . III , pag. 303. 236
CAPITOLO VII 30. Per fare intendere meglio la propria dottrina il Galluppi la
raffronta a quella del Leibniz. Conviene con l'autore dei Nuovi saggi
sull’intelletto che lo spirito non è tabula rasa ; « che vi sono molte idee,
che lo spirito ricava dal fondo del proprio essere , meditando (1) sul
sentimento di se stesso » ; non solo gli accorda che sono in noi queste
disposizioni e virtualità naturali, ma am mette certe modificazioni passive o
sia i sentimenti, che contengono i materiali o le condizioni di tutte le idee
naturali ( 2) . E, dichia rando meglio la dottrina del Leibniz , ripete che
riconosce con lui esservi « molte idee essenziali all'intendimento , che
l'anima non ha bisogno di ricavare dalle impressioni de ' sensi esterni, ma che
può ricavare dal proprio fondo » ( 3) . Le idee sono innate come attitudini o
virtualità naturali. E questo ritiene anche il Gal luppi. « Ma io non mi
contento di rimanermi in idee vaghe : io determino le mie espressioni. L'anima
nostra ha un'attitudine , una preformazione naturale per alcune idee ; poichè :
1. ° ella ha originariamente ed incessantemente i sentimenti necessari a for
marsi tali idee ; 2. ° questi sentimenti sono i materiali delle idee , o le
condizioni indispensabili per le idee ; 3.0 l'anima ha origi nariamente nella
sua natura le facoltà necessarie per formarsi tali idee ; 4. ° l’anima ha in sé
originariamente la disposizione, che pone in esercizio le facoltà elementari
della meditazione » ( 4 ) . 31. Data questa dottrina, ch'egli ben dice non
potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola di Locke , s'intende agevolmente
perchè il Galluppi continui sempre , in tutte le opere sue , a com battere l'a
- priori kantiano , inteso come parte di conoscenza già formata avanti
all'esperienza ; esperienza , che era per lui , come vedremo, la sorgente
dell'oggettività, della realtà del sapere umano . La filosofia è essenzialmente
dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui significava scetticismo, in
grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo, anteriore ad ogni esperienza,
onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di Kant, tutta la conoscenza.
Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive , che ammise come costitutive
della conoscenza , e innocue , benchè soggettive, allá realtà di essa . Quali
sono cotali idee ? 32. Per rispondere a questa domanda bisogna dare un cenno
delle sue teorie dell'analisi e della sintesi . Queste due facoltà non sono
soltanto , come s'è visto , il fondamento di ogni giudizio , ma ( 1 )
Meditazione dice il Galluppi l'analisi e la sintesi insieme. ( 2) Ivi, pp.
305-6 . ( 3) Ivi, p. 309. (4) Ivi, pag . 812. PASQUALE GALLUPPI 237 il fondamento
anche di ogni idea universale. Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi
degli elementi comuni che l'analisi discopre in più percezioni simili.
L'analisi e la sintesi sono quindi le forze produttive di tutto il conoscere.
L'analisi precede ; segue la sintesi . L'una si presenta sotto quattro forme :
come atten zione propriamente detta , quando lo spirito si ferma a considerare
un solo degli oggetti fornitigli dal senso , escludendo tutti gli al tri ; come
attenzione parziale, quando lo spirito contempla soltanto una parte dell'intero
oggetto , che gli si rappresenta ; come astra zione modale , quando lo spirito
separa il modo dal soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel
caso inverso (1), 33. La sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo
spirito unisce ciò che gli vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la
relazione tra il soggetto e le sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto
( epperò v'ha propriamente due specie di sintesi reale) ; sintesi ideale oggettiva,
quando scopre relazioni logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale soggettiva ,
quando scopre , come avviene nelle matematiche pure, relazioni logiche tra idee
nostre , non imme diatamente forniteci dall'esperienza ( 2) ; cioè le relazioni
tra le idee generali . 34. La siņtesi non può riunire se non per rapporti , le
cui no zioni devono essere possedute dallo spirito , a mo' di categorie . E
alle quattro maniere di sintesi corrispondono quattro nozioni di rapporti , le
quali, per ciò che s'è osservato, dovrebbero essere di lor natura tutte
soggettive : e sono le nozioni di sostanza , causa , identità e differenza ;
idee essenziali all'intelletto umano, « sem plici vedute dello spirito , le
quali derivano dalla sua facoltà di sintesi » (3) . 35. Rapporto, come aveva
notato il Laromiguière nelle sue Le zioni di filosofia, è l'atto della
comparazione o l'idea che risulta da questo atto . « Ora se la comparazione ,
dice il Galluppi, è una sintesi , e se il risultamento di questa sintesi è
un'idea che non ( 1 ) Elementi di psicologia , $ 25 ; Saggio , lib. II , capo ,
$ 139 . ( 2) Saggio , lib. II , cap . XI, $ 147. Il Galluppi distingue ancora
la sintesi immagi nativa come « la facoltà di riuscire in una percezione
complessa , alla quale non corrisponda alcun oggetto naturalo, diverse
percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori dell'attuale
combinazione ( Saggio , ivi, $ 148, e Psicologia , $ 35) . Ma s'intende cho
questa sintesi non ha valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico
. ( 3 ) Saggio, lib. III , § 46. Alcune dello idee semplici, dice ivi più sotto
, « sorgono dall'attività sintetica e queste sono i rapporti > . 238
CAPITOLO VII risulta da un'impressione, e che non ha percið un oggetto reale al
di fuori, segue che vi sono idee semplici, le quali sono sola mente soggettive
ed un prodotto della sintesi » ( 1 ) . Suppongono le sensazioni, ma sono
prodotti semplici dell'attività sintetica dell'in telligenza. Infatti seguono,
come ogni idea di rapporto , al para gone , che è un'azione dello spirito . «
Pel paragone non basta che si abbiano nello spirito insieme due percezioni : è
necessaria l'a zione che riferisce l'una all'altra » ( 2 ) . Parrebbe adunque,
che le idee dei rapporti, queste vedute dello spirito , o modi della sua attività
sintetica, non differissero punto dalle categorie kantiane . Ma l'autore
afferma recisamente il contrario . Non vuole aver nulla di comune con Kant;
vuol fondare una vera filosofia dell'esperienza , e afferma come una delle
esigenze ineluttabili della filosofia , che la connessione fra le esistenze ,
per cui è possibile la scienza , non deve essere una creazione dello spirito ,
bensì un dato dell'esperien za ( 3 ) ; cioè del senso , che per lui , come
vedremo, è norma dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo critico
, gli elementi soggettivi ammessi dal Galluppi son sempre determinati da
qualche cosa di reale che si trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico ,
Galluppi no ( 4 ) . 36. Ed in verità esso, il Galluppi, scrive che la stessa
connes sione deve essere un dato dell'esperienza , quando si tratta di og getti
esistenti che dan luogo alla sintesi reale : e che questa sin tesi « riunisce
gli elementi reali di un oggetto reale ; e li riunisce perchè li trova
realmente riuniti. Così, dicendo : Io son sensitivo, riunisco al me le
sensazioni : ora tanto l'io che le sensazioni son cose reali , e realmente le
sensazioni son cose reali, c realmente le sensazioni sono unite al me.
Quest'unione non è dunque l'opera del mio spirito : io non posso fare altro che
conoscerla distinta mente . Questa sintesi copia dunque, dirò così , la realtà
delle cose, ed è per cid che io la chiamo sintesi reale » ( 5) . 37. Or dunque,
queste idee di rapporti sono o non sono un pro dotto dell'attività sintetica del
soggetto ? Qui , s'è detto , havvi una flagrante contraddizione. Sentire un
rapporto, secondo il Galluppi è un espressione assurda ; e la connessione delle
esistenze , che è un rapporto necessario , non si potrebbe sentire ; eppure si
deve . « Se fosse creata da noi cotestà connessione , scrive il Fioren ( 1 )
Saggio, lib. III , § 47. ( 2) Saggio , lib. II , 8 147. ( 3) Saggio, lib. II ,
& 74. ( 4) LASTRUCCI, Op. cit . , p. 213. ( 5) Saggio , lib . II , § 146 ;
cfr . Psicologia , & XXXI. PASQUALE GALLUPPI 239 tino (1), la realtà della
scienza sfumerebbe ; e Galluppi , impaurito delle conseguenze, contraddice ai
suoi principii . Il nesso tra il me, sostanza , e le sue sensazioni , tra la
sensazione e la causa esterna, cotesto doppio rapporto è sentito . Ei non osa
dire sen tito , e dice : è dato » . La questione è importante e merita ogni più
seria considerazione . 38. Prima di tutto bisogna distinguere , come fa il
Galluppi , le due nozioni di causa e di sostanza , da quelle di identità e
diver sità. Le une sono un prodotto della sintesi reale , le altre della ideale
; le une sono dei veri rapporti reali , le altre semplici rap porti logici .
Ora questi rapporti logici sono veramente creati dallo spirito , nascono per
l'attività di questo , sono idee dello spirito e nulla fuori di queste idee (
2) . Di esse l’autore dice che « lo spi rito non riceve dal di fuori questi
elementi semplici ed essenziali delle sue conoscenze , ma li ricava dal proprio
essere » ( 3) , cioè li produce . Esse corrispondono appuntino alle categorie
kantiane . Nè vale opporre , come altri ha fatto ( 4) , che anche questi
rapporti presuppongono l'esperienza, e ricevono da questa i termini , fra cui
intercedono . I termini fuori del rapporto , ho detto altrove, cioè prima del
rapporto , sono termini del rapporto ? E si badi che dell'esperienza il
Galluppi ha un concetto tutto kantiano, perchè essa consiste , secondo lui , «
nel giudizio , il quale vede un rap porto fra i nostri sentimenti » ( 5) . 39.
Il solo errore del criticismo , che ha de ' semi preziosi di verità, consiste
nell’aver troppo generalizzato riguardando « tutti i modi di connessione fra le
nostre percezioni come soggettivi » , negando la sintesi reale, confondendo
l'esperienza primitiva, cui la sintesi reale dà luogo, con l'esperienza
secondaria , scientifica e comparata , che è produzione soggettiva della
sintesi ideale . Dunque, a confessione del Galluppi stesso ( 6) , egli è
schietta mente kantiano nella teoria della sintesi ideale , come attività sin
tetica generatrice delle due idee di rapporto , identità e diversità ,
all'occasione delle sensazioni , che ne sono condizione indispen sabile . ( 1 )
La filos. contemp. in Italia, Napoli , Morano , 1876, p . 195. ( 2) Psicologia,
8 32. ( 3) Saggio, libro III , § 77. ( 4) LASTRUCCI, p. 213. Il GALLUPPI ( lib.
III , $ 77 del Saggio) non parla di esperienza , ma di sensazioni, supposte
cronologicamente como a condizione indispensabile » delle idee d'identità e
diversità . (5) Saggio , III, 76. ( 6) Vedi anche Lettere filosof ., XIV , p.
347. 240 CAPITOLO VII - 40. Soggettive pur sono le idee di causa e di sostanza
. Ma il Galluppi distingue fra soggettivo e soggettivo . V'ha, egli dice , il
soggettivo rispetto all'origine, e v’ha il soggettivo rispetto al valore ; e
altrettanto dicasi dell'oggettivo. Altra è la questione dell'origine delle
conoscenze , altra è la questione della realtà loro . « Io dichiaro , scrive
l'autore , che per oggettivo in tendo ciò che nelle nostre cognizioni deriva
dagli oggetti che si conoscono, e per soggettivo ciò che nelle stesse deriva
dal soggetto conoscitore . Questi due vocaboli si prendono ancora in un altro
senso, quando si parla della realtà delle nostre conoscenze : l'og gettivo
dinota allora quell'elemento della nostra conoscenza , a cui corisponde una
realtà in sè , ed il soggettivo dinota ciò a cui non corrisponde nessuna realtà
» ( 1 ) . Dunque le idee di causa di sostanza sono soggettive per l'origine, ed
oggettive rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni reali , laddove,
quelle di identità e di diversità sono soggettive , e per l'origine e pel
valore , e son dette perciò semplici relazioni logiche . E però resta fermo,
che anche le idee di sostanza e di causa siano un prodotto dell'attività sin .
tetica dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il senso è inca pace di
darcele . Se non che esse, invece di avere un semplice valore logico , hanno
una corrispondenza nella realtà , pel nesso, che è tra la sostanza e i modi,
tra la causa e l'effetto . 41. Ma il Galluppi dice che il rapporto della
sintesi reale ( sia di causa , sia di sostanza ) è dato dall'esperienza . Si ,
ma devesi inten dere, dato rispetto alla realtà oggettiva di cotesto rapporto.
Dato in quel luogo del Galluppi , che pur bisogna metter di accordo con tutta
la sua dottrina, vale solo oggettivo (rispetto al valore). 42. La difficoltà
vera è la seguente : come ciò che è soggettivo rispetto all'origine , può
essere oggettivo rispetto al valore ? Que sto è lo scoglio della filosofia
della esperienza propugnata dal Gal luppi ; ma è pur uopo notare i grandi
sforzi fatti da lui per evi tarlo. S'egli si fosse sempre ricordato
dell'osservazione, dianzi ac cennata , relativa alla comune definizione delle
idee : che cioè non bisogna separare ed opporre oggetto a soggetto, ove non si
vo glia incorrere nello scetticismo , non avrebbe avvertita nessuna dif ficoltà
in questa questione della sintesi , circa la soggettività della sua origine e
l'oggettività del valore. Egli non avrebbe concepito un'oggettività distinta
dalla soggettività. ( 1 ) Saggio, lib . III , $ 46 ; tom . III , p. 159-60 .
PASQUALE GALLUPPI - 241 43. Di quell'osservazione fondamentale si ricorda
certamente nella sua teoria dell'oggettività di tutte le sensazioni, quando af
ferma che la sensazione è la intuizione dell'oggetto , e sog giunge : « Per non
far nascere equivoco in una materia molto importante, io chiamo intuizione la
percezione immediata dell'og getto , in modo che l'esistenza della percezione
supponga neces sariamente quella dell'oggetto . Se ogni sensazione è di sua na
tura la percezione di un oggetto esterno al principio sensitivo ( 1 ) , se
quest'oggetto non è rappresentato dalla sensazione, esso è dunque reale, come è
reale la sensazione. La realtà dunque del l'oggetto sentito mi è data dall'atto
della coscienza ; il quale mi . dà la realtà della sensazione : ecco dunque la
realtà esterna fra le verità primitive di fatto ; ecco risoluto uno dei
problemi fon damentali nella critica della conoscenza » ( Saggio, lib . II , §
71 ) . In tutta la teoria dell'oggettività del conoscere si può dire adun que,
che il Galluppi confermi ciò che aveva detto fin dal primo capitolo del suo
Saggio circa la coscienza, o conoscenza prima , conoscenza del me e dei suoi
modi ; coscienza fatta consistere appunto in un'intuizione immediata, tale che
« fra questa perce zione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo » .
Pare che per tutta la sfera della conoscenza immediata ei sia disposto a
chiedere, come aveva chiesto infatti a proposito della comune definizione delle
idee in generale: « Se gli oggetti, se la regione dell'esistenza son separati
dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza ,
all'oggetto ? » - Argomento insolubile, com'egli dice , ai filosofi dommatici.
44. Senso ed oggetto , sia che si tratti di senso intimo o di senso esterno ,
non si possono scompagnare. Il senso è la misura adeguata e sicura della
realtà, comecchè il dato del senso debba poi venire elaborato dalla forza
analitica e sintetica dello spirito onde si perviene alle idee e a'giudizi. Il
senso costituisce , per le idee e i giudizi cui dà luogo, l'esperienza
primitiva o imme ( 1 ) Il Galluppi non ammette l'incosciente : « La scuola di
Leibniz ammotte delle percezioni di cui non si ha coscienza : alcuni Allosofi adottano
questa opinione ; ma molti altri, co' quali io son d'accordo, non ammettono
alcuna percezione, di cui non si abbia coscienza ... Non si può percepiro alcun
oggetto come un fuor di me, senza perco pire il me, poichè la percezione di un
di fuori è ossenzialmente la porcezione di più oggetti ; se non vi ha due
oggetti , non vi è un di fuori. Se la percezione di un ſuor di me non è
possibile senza quella del me, segue che non possono esservi nello spirito
delle percezioni senza osser sentite ) . Elem . di psicologia , 8 XVII. 16 242
CAPITOLO VII diata ( 1 ) ; immediata rispetto all'oggetto , in cui s'appunta
imme diatamente nella intuizione. Dall'esperienza primitiva va distinta poi la
comparata, o derivata o secondaria , la quale consta dei giu dizi d'identità o
diversità che noi portiamo sulle idee offerteci dalla primitiva esperienza :
giudizi d'un valore puramente logico e soggettivo . I giudizi della esperienza
immediata hanno per og getto gl'individui . Questa acqua ha la qualità di
estinguer la sete . Questo calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi
particolari, che non si possono generalizzare, nè possono costituire
l'esperienza secondaria , fondamento delle scienze , se con le impressioni
sensibili , coi dati oggettivi non si combinano quegli elementi soggettivi ,
che sono le due vedute dell'identità e diversità . Per dire la propo sizione
generale : l'acqua estingue le sete , - io devo, in seguito alle successive
esperienze delle varie acque che m'hanno estinto la sete , comprendere sotto
una nozione generale tutte queste acque , e le azioni loro di estinguer la sete
; il che significa che lo spirito dee vedere un rapporto d'identità fra questi
soggetti particolari e fra le loro particolari qualità ( 2) ; rapporto
d'identità che il senso non mi può fornire ; perchè esso non mi dà che
successivamente le singole acque. 45. Della scienza si potrà dire giustamente
che è una costru zione soggettiva per mezzo dei materiali offerti dalla
esperienza primitiva. Il Galluppi, in verità , non può attribuire altro valore
che questo , che è il kantiano , alla scienza. Se la conoscenza vera della
natura ci vien fornita dalla scienza , anch'egli deve dire.col Kant, che lo
spirito , legando gli sparsi caratteri datigli dal senso , costruisce il gran
libro dalla natura . Eppure.egli ritiuta ( Saggio , III , S 83) una tal
soluzione. « La distinzione delle due esperienze, egli dice , è della più alta
importanza, per determi nare il valore delle nostre conoscenze » ( $ 78) . È
della più alta importanza, perchè se i rapporti di sintesi ideale
nell'esperienza derivata sono soggettivi , quelli di sintesi reale nell'altra
espe rienza sono essenzialmente oggettivi; in questa esperienza (pri mitiva )
l'esistenze son date allo spirito : egli ne è spettatore , e non il conoscitore
: una connessione fra l'esistenze gli è anche data : egli dee conoscerla , non
ispiegarla o comprenderla » (S 83) . Ma questa distinzione non tocca punto la
soggettività della scienza , in quanto prodotto della sintesi ideale ; anzi la
conferma. Il Gal ( 1 ) Saggio , lib. III , $ 78, tom . III , p. 275 . ( 2)
Soggio, loc . cit. PASQUALE GALLUPPI 243 luppi nella epistemologia è un
kantiano puro. Checchè egli ne dica , tale è la sua dottrina. 46. Ed ecco la
stridente contraddizione cui lo condusse il suo voluto sperimentalismo. La
scienza , la parte più certa della cono scenza, è soggettiva ; e la conoscenza
sensibile è di sua natura oggettiva ; che , per lui , è come dire che la
scienza è rosa dal tarlo dello scetticismo , laddove l'esperienza sensibile è
certa e reale . Le conoscenze necessarie ed universali , che sono il pernio di
ogni specie di conoscenze, hanno un valore puramente logico, e le conoscenze
contingenti e particolari sono reali . Il che avrebbe dovuto condurre il
Galluppi al più schietto nominalismo ; perchè se le nostre conoscenze veramente
oggettive , sono quelle dateci dai giudizi particolari dell'esperienza
immediata, sfuma la realtà dell'universale . E un realista il Galluppi
certamente non Egli combatte tuttavia l'empirismo nominalistico di taluni
seguaci del Locke, come l'Helvetius , i quali negano le idee universali , asse
rendo che quelle, che tali appariscono , non sono se non termini generali ,
vocaboli vôti di senso . « Perchè , dice il Galluppi , al ve dere un uomo che
non abbiamo giammai veduto , noi diciamo è un uomo ? Se non avessimo un'idea
universale di questa specie, come vi rapporteremmo quest'individuo ?
L'esistenza delle idee universali nello spirito è talmente attestato dalla
intima coscienza , che si dura fatica a supporre che vi sia stato chi l'abbia
contra stata » ( Saggio, $ 27 , lib . I ) . Nè anche il Locke , secondo il Gal
luppi ( 1 ) , nega le idee universali ; e come Locke egli è concettua lista .
Siamo sempre lì : la cognizione universale , scientifica ha sì un valore , ma
un valore logico . 47. E al Rosmini , che gli dichiarava in una sua lettera di
non vedere « come dal soggetto possa venire l'universalità e la neces sità
delle cognizioni . Il soggetto è essere particolare e contingente, e non può
produrre un effetto maggiore di sè » ; egli rispondeva, che la necessità che ha
luogo nelle cognizioni, è una semplice « legge logica del pensiero umano » , da
non confondersi con la ne cessità metafisica; legge logica espressa dal
principio di contrad dizione , e , come ogni altra modificazione dell'anima
nostra , me ramente soggettiva . E aveva un bel ribattere il Rosmini , che la
necessità logica e la necessità metafisica non sono in fondo che una sola
necessità ( in questo punto è tutta la novità, non pic ( 1 ) Cita il lib. III ,
cap. 3. ° del Saggio , dove il Locke spiega la gonesi delle idee universali .
244 CAPITOLO VII cola , – del Rosmini verso il Galluppi) : « Io non suppongo
mica, replicava il Galluppi, che vi sia una necessità metafisica distinta dalla
necessità logica ; ma solamente combatto quei filosofi che riguardano quella
necessità, che è meramente logica , come una necessità metafisica , che
trasformano la prima nella seconda..... L'origine di tal necessità ( logica )
mi sembra già determinata ; essa è nella natura del soggetto ..... noi non
dobbiamo cercarne la causa efficiente, ma arrestarci alla causa formale di tal
neces sità » ( 1 ) . La sua scienza , perciò abbiamo detto altra volta , come
quella di Kant, s'è chiusa nella cerchia invalicabile del fe nomeno ; sicchè
egli riesce , per la scienza, a quel criticismo che voleva correggere . 48. Gli
sarebbe bastato estendere la - sua teoria della sensibi lità o meglio
dell'esperienza primitiva alla esperienza secondaria . Non l'ha fatto , perchè
gli premeva salvare la realtà del mondo esterno ; e così s'è messo in
disaccordo con se stesso , accoppiando al criticismo puro dell'epistemologia il
più crudo dommatismo nella gnoseologia. I due elementi in lui non si fondono, e
un'in tima contraddizione travaglia tutta la sua filosofia. 49. Infatti ammessa
giustamente come soggettiva l'origine della nozione che abbiamo della
connessione reale delle cose ( come sostanza o come causa , sussistenza, egli
dice per lo più, ed effi cienza ), il valore oggettivo delle medesime non può
essere e non è infatti nel Galluppi, che una semplice affermazione dommatica.
La percezione del me è la percezione di un soggetto con le sue modificazioni.
Sicchè, egli dice , nella coscienza del me , – che è il principio della nostra
filosofia , è data « 1. ° la connessione fra la percezione e l'oggetto ; 2.º
fra il soggetto e la modificazione ; 3." fra la causa e l'effetto , il che
vale quanto dire , che in questo fatto primitivo ci è data la base della
filosofia , e la realtà delle nostre conoscenze » ( 2 ) . Su per giù , è sempre
questa la dimostra zione data dal Galluppi della realtà delle connessioni tra
sostanza e modi, tra causa ed effetto. Le connessioni sono reali, perchè il me,
termine reale della coscienza è soggetto (sostanza ) di modifi cazioni, e
queste modificazioni a lor volta sono effetto dell'azione del mondo esterno .
Ma i termini noi possiamo percepire, non i rapporti: e i termini in quanto
connessi nel loro rapporto non pos siamo percepirli , se non applicando ad essi
quelle nozioni di rap ( 1 ) Rosmini e Gioberti, pp. 77-80 . ( 2 ) Saggio , lib
. II , 8 74 ; tom . II , p . 161-2. PASQUALE GALLUPPI 245 porto , onde già
dobbiamo essere forniti. Chi ci garantisce che i rapporti, che con queste
nostre vedute, di origine soggettiva , noi scorgiamo tra i termini percepiti ,
abbiano un fondamento ogget tivo ? Chi ci costruisce questa volta il famoso
ponte di passaggio dal soggetto all'oggetto ? Chi ci sottrae a quell'argomento
inso lubile ? Il dommatismo è evidente . 50. C'è un passo, nel terzo libro ( 1
) del Saggio, contro la sin tesi a priori di Kant , che merita qui speciale
considerazione. « Il filosofo di cui parliamo, – scrive il Galluppi, ha confuso
l'operazione sintetica co'suoi prodotti, che sono le percezioni del rapporto
fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della
relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale è il principio
efficiente che pone un termine rapportato. Lo spi rito nel termine rapportato
vede un rapporto, ed esegue con ciò un'analisi , indi unisce questo rapporto ,
che aveva separato dal termine rapportato allo stesso termine, e compie il
giudizio. Lo spirito , prima della comparazione, non aveva che il termine della
relazione : dopo la comparazione ha un termine rapportato : l’atti vità
sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della relazione , il
rapporto , e questo rapporto è un elemento sogget tivo aggiunto all'oggettivo »
. - Quale che sia il valore di questa osservazione contro il giudizio sintetico
a priori ( io non credo che ne abbia alcuno ; chè il giudizio è già avvenuto
con quella prima operazione dell'attività sintetica , che consiste nel
rapportare i termini), certo è notevole e giusto il concetto del soggettivismo
dei rapporti accennato qui dall'autore ; ma vi apparisce pure evidente falso
concetto che ei s'è formato dell'oggetto . Ter mine e termine rapportato son
cose differentissime; il primo è un dato , il secondo è il prodotto di quel
principio efficiente, che è la sintesi . Ma il termine è termine in quanto è
termine rapportato ; sicchè il termine si può dire che venga posto , rità ,
dall'attività sintetica dello spirito . E questa è la dottrina di Kant. Ma se
il Galluppi ne avesse piena consapevolezza , non do vrebbe dire , che lo
spirito PRIMA della comparazione non aveva che il termine della relazione. No ,
non aveva niente : non c'è prima il termine , l'elemento oggettivo, a cui dopo
venga ad ag giungersi l'elemento soggettivo, il rapporto : termine e rapporto
nascono ad un parto, nè lo spirito può percepire il termine della relazione ,
senza il rapporto , nè questo rapporto è nulla di con ( 1 ) $ 81 ; tom. III ,
pag. 283. 246 CAPITOLO VII creto fuori dei termini ai quali viene applicato .
Questo prima e questo dopo, di cui parla il Galluppi, accusano quella
separazione di oggetto e soggetto, quella opposizione da lui già criticata come
punto di partenza donde non sia dato arrivare a una conoscenza certa . 51.
Sicché , anche per le nozioni di identità e diversità ( alle quali , s'intende
, egli si riferisce nel passo ora citato) il Galluppi si di batte nelle strette
della soggettività , come qualcosa di differente e assolutamente opposta a
quella oggettività , che s'era proposto di fondare contro il criticismo
kantiano. Ma le sue velleità empi ristiche rompono sempre in quel principio
fondamentale della co scienza di sè , preso dalla filosofia di Cartesio, onde
si nutrì , come abbiamo notato , la mente di lui nel suo primo periodo
speculativo . E la conclusione del Saggio filosofico è che tutti i motivi dei
no stri giudizii (senso intimo, sensi esterni, evidenza, memoria, razio cinio e
testimonianza degli altri uomini) « hanno per motivo me diato ed ultimo il
senso intimo » : e quindi « tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica
della coscienza di se stesso, e chiunque tenta di toglier questa base è
indegno, che si ragioni con lui ; poichè non si ragiona col nulla » ( 1 ) . E
così nella chiusa delle Lettere filosofiche: « Io ho poggiato – dichiara
l'autore su la veracità della coscienza la veracità di tutti gli altri nostri
mezzi di conoscere ... ; non si può supporre la veracità di alcun mezzo di
conoscere senza supporre la veracità della coscienza, e supponendo la veracità
della coscienza , la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere
segue necessariamente . Così , secondo me, l'aliquid inconcussum è nella
coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere umano » ( 2) . 52. Ma se si
ricordasse sempre, che principio e aliquid incon cussum è la coscienza, il
Galluppi non dovrebbe parlare mai di quella oggettività indipendente dal
soggetto , alla quale vuol ripor tare le relazioni di sostanza e di causalità ;
e in verità non riesce a scoprirne che una origine soggettiva e a darne una
giustifi cazione, come s'è visto , fondata unicamente sul sentimento del me. Si
potrebbe dire , che egli parla di un oggetto soggettivo for nitoci dalla
sensazione, che da lui è detta di sua natura oggettiva . Egli , infatti,
rigetta la distinzione di qualità primarie e secondarie, come arbitraria e falsa
, e sostiene che tutte le nostre sensazioni ( 1 ) Saygio, lib . IV, § 3 ; tom .
V , p. 58 . ( 2) Ediz . cit. , p. 348 . PASQUALE GALLUPPI 247 soggettive , nè
più nè meno di quel senso del tatto , in cui Con dillac indicava il filo
d'Arianna col quale si potesse uscire dal labirinto della soggettività, «
convengono in ciò , che tutte sono le percezioni di un soggetto esterno ; son
differenti, poichè sono i modi diversi di percepir questo soggetto : questi
modi diversi di percepirlo costituiscono per noi le diverse qualità degli
oggetti esterni , le quali sono perciò i diversi rapporti di questi oggetti con
noi » ( 1 ) ; e che, « qualunque ipotesi si adotti su la natura de ' corpi , è
incontrastabile che il mondo dei corpi non esiste nel modo in cui ci apparisce
; e che noi non conosciamo dei corpi se non le qualità relative » , talchè il
pensiero bensì è una realtà in sè ( 2) , « ma l'estensione non è almeno certo
se sia una realtà o un fenomeno » ( 3 ) e addirittura « la conoscenza che noi
abbiamo de ' corpi è meramente fenomenica > ( 4 ) . E però il Galluppi non
può parlare se non di un oggetto soggettivo , di un oggetto termine essenziale
del soggetto . 53. Ma allora perchè contrapporre oggetto a soggetto , e sin
tesi reale a sintesi ideale ? Siamo sempre nella sfera del soggetto, e
l'attività sintetica dello spirito darà luogo sempre a una sin tesi ideale .
Dov'è il punto di separazione tra la res e l'idea ? Non rampollano entrambe
dalla coscienza di se ? 54. Per metter d'accordo Galluppi con se stesso dovremmo
dire , che quello che ei dice sintesi reale e sintesi ideale non siano se non
due gradi della sintesi soggettiva, qualche cosa di simile della sintesi di
primo e di secondo grado, che lo Spa venta e il Tocco han rilevate in Kant.
Vale a dire , bisognerebbe anche la sintesi reale ritenere pura operazione
soggettiva; ma non tanto soggettiva quanto la ideale, perchè l'una si esercita
su una relazione che la coscienza , questo ultimo motivo , questa. norma
suprema della verità , attribuisce al mondo esterno, lad dove l'altra non
ragguaglia che termini aventi un valore logico . La sintesi reale coglie,
diciamo così , i rapporti degli individui , in cui , secondo il Galluppi,
consiste la realtà ; la sintesi ideale co glie , invece , i rapporti che
intercedono tra le idee generali, già formate per la forza analitica e
sintetica dello spirito . Di modo che la materia della sintesi reale è
oggettiva, nel senso che di ( 1 ) Elem , di Psicologia , S XVII , pp. 27-28 . (
2) Non vi ha fenomeni nel santuario del mio essero , dice il GALLUPPI, Saggio,
lib . IV , § 4 ; tom . V, p. 63. ( 3) Iri. ( 4) Saggio , lib. IV , S 100 ; tom
. V, p. 420. 248 CAPITOLO VII cemmo poter avere pel Galluppi l'oggetto ; e la
materia della ideale è una pura formazione soggettiva. E se la coscienza ha da
es sere sempre la fonte della verità , se noi non possiamo parlare di altra
verità , se non di quella che tale apparisce alla coscienza , i rapporti che si
scoprono dall'attività sintetica nella materia og gettiva saranno rapporti
reali, e si potrà pur dire che siano og gettivi pel valore ( poichè il valore è
attestato dalla coscienza) ; e i rapporti che dalla stessa attività sintetica
si scoprono nella materia soggettiva, non possono avere più che un valore
logico , perchè sono rapporti di concetti, ci concetti nel concettualismo del
Galluppi non sono reali . Alla coscienza i rapporti appariscono tali quali
appariscono i termini che essi connettono ; fra termini oggettivi , rapporti
reali; fra termini astratti e soggettivi , rap porti ideali . I termini infatti
non possono essere percepiti per quel che sono, se non coi loro rapporti, coi
quali e pei quali vengono ad essere quei dati termini. 55. Ma allora non
bisogna separare la facoltà dell'analisi e della sintesi da quella della
sensibilità ( o coscienza ), come fa il Galluppi ; perchè la sensibilità come
tale non potrà mai percepire un rapporto , come bene ha avvertito il Galluppi
stesso . Allora bisogna andare molto più addentro , che questi non sia andato ,
nel concetto dell'unità del me. 56. Certo è che il Galluppi, mosso a scrivere
il suo Saggio, che è la sua opera capitale , dal bisogno di assodare la realtà
del cono scere contro la Critica di Kant , non riesce a distrigarsi dal sog
gettivismo nella epistemologia ; e nella gnoseologia vi riesce solo
contrapponendo al criticismo kantiano un oggetto , che non è tale se non per un
dommatismo preso dalla coscienza volgare , e che non può non metter capo nella
tesi scettica del criticismo, appena venga innanzi alla riflessione scientifica
( 1 ) . La sua stessa critica perpetua al Kant, e quell'oscillare continuo tra
le lodi più sincere e il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano
l'acutezza del suo spirito, che intende la gravità del problema sol ( 1 ) Il
Rosmini il 3 giugno 1840 scriveva al p. Giacomo Maso & Roma : « Pare a lei
che la filosofia del prof. Galluppi sia veramente sana ? Noti bene, non metto
in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui professo sincera stima ;
parlo solo della sua filo sofia ; di questa dubito , o piuttosto non dubito ;
perocchè agli occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto
-uomo, e nel soggetto -uomo non vi ha nulla d’immu tabilo : manca il punto
fermo a cui appoggiare la leva » . Vedi La Sapienza del 1883, vol. VIII , p.
402. PASQUALE GALLUPPI 249 levato dal Kant , e insieme la sua impotenza ad
uscire da quel cer chio sconfortante segnato dal filosofo di Koenigsberg
attorno allo spirito umano ; l'impotenza in cui rimase per non essere salito al
concetto adeguato di quella coscienza, che è il Primo della sua costruzione
filosofica . E dopo quattro libri di discussioni, di polemiche contro quei
filosofi, trascendentali, che non si sa « se siano filosofi che ragionano ,
oppure frenetici che delirano » ( 1 ) , il Saggio filosofico finisce anch'esso
nella tristezza del mistero : « La scienza umana è limitata . Essa può
successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi limiti » .
Non fu più reciso l'ignorabimus del Du Bois Reymond ( 2) . 57. E il primo
limite dello spirito umano , secondo il Galluppi, è questo : « noi abbiamo una
nozione generale della sostanza , ma noi non conosciamo affatto la natura , o
come suol dirsi , l'es senza di ciascuna sostanza in particolare ( 3 ) . E fin
qui ha ragione Kant. Secondo limite : « ignorando le prime sostanze, ignorar
dobbiamo il come le cause efficienti producono i loro effetti ; e l'efficienza
è per noi un mistero » . Dunque nè anche nel ritener soggettivo il rapporto di
causalità aveva poi un gran torto Kant! ( - ) . Ma « tutto quello , che è
incomprensibile, non è mica assurdo » , avverte il Galluppi ; e questo basta a
salvare la crea zione. Terzo limite : « noi ignoriamo affatto le qualità
assolute de ' primi componenti de'corpi ; noi conosciamo alcune qualità rela
tive di alcuni aggregati delle prime sostanze della materia ... I corpi non
sono tali quali a noi si manifestano » ( $ 100 ). E que sto , in verità, è un
po ' più di quel che sostiene Kant : pel quale, se il noumeno va distinto dal
fenomeno, appunto perchè ignoto , non si può dire che differisca dal fenomeno
stesso . Differirà ? Non differirà ? Se a queste domande si desse una risposta,
non si avrebbe più un noumeno . Qui , dunque, Galluppi è più kantiano di Kant.
Quarto limite : la conoscenza importa successione, processo , passare da un
principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne ( 1 ) Passo del Saggio che il
prof. CREDARO raccomanda « a coloro che fanno del Gal luppi un kantiano » ; ni
kantismo in G. D. Romagnosi, in Riv. ital. di filos . del 1887, vol . II , p.
59, n. 2. ( 2) Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d . Naturerkenntniss,
Lipsia , 1872 ; e LANGE, Gesch . d . Materialismus, 3." ediz ., Iserlohn ,
1876 , pp . 148 sogg. ( 3 ) Saggio , lib . IV , cap. X ed ultimo, & 98 ;
tom . V, p . 418. ( 4) Saggio , ivi, $ 99. 250 CAPITOLO VII lui > gazione
assoluta di ogni successione : « in questo essere infinito non vi è alcuna cosa
che precede l'altra ; perciò la sua natura ci è perfettamente inesplicabile ed
incomprensibile. I metafisici intanto non si credono tutti incapaci di
comprendere la natura Divina > ; ma uno di essi , e de' più moderati, il
Genovesi , avendo tentato, per esempio , di concepire in che modo questo mondo
fosse architettato da Dio , non è riuscito che a una spiegazione contraddit
toria . « Il volere spiegare l'atto creatore intelligente è una con traddizione
; poichè è un supporre qualche cosa antecedente a (come il Genovesi era
costretto a porre in Dio prima l'essere e poi il conoscere , prima il conoscere
e poi il volere o l'ope rare) . Questo è incomprensibile, e lo scrutatore della
divina maestà resta oppresso dalla sua gloria Proposizioni che non hanno forse
il rigore scientifico della Dialettica trascendentale, ma che riescono , mi
pare , al medesimo risultato . Che più ? Kant riconosce come tutti i filosofi
moderni il grande valore delle matematiche; ma anche in esse il Galluppi trova
dei limiti. Noi conosciamo esattamente, egli dice , le relazioni logiche tra le
nostre idee astratte ; e ne son prova l'aritmetica e la geo metria . « Ma noi
non conosciamo tutte queste relazioni, perchè il loro numero è inesauribile; e
la conoscenza di queste relazioni non si estende quanto le nostre idee » « La
nostra scienza è percið molto limitata sotto tutti i riguardi » ( 1 ) egli
conclude : ed è la conclusione del Saggio intero , vale a dire della sua
filosofia sperimentale . 58. Questo mi pare criticismo schietto , sufficiente
di certo a fare ascrivere il Galluppi alla direzione kantiana , pur con tutte
le sue più o meno ragionevoli invettive contro il soggettivismo del Kant ; se
anche Alfonso Testa , che altri disse « l'unico kantiano, che abbia avuto
l'Italia » ( 2) , era pur persuaso che il Kant , distrug gendo il sensismo, non
fosse riuscito a sostituirvi altro che « un sistema soggettivo che distrugge la
scienza verace » ( 3) . 59. Molto ha contribuito a mascherare il kantismo
galluppiano , e ben più che le sue dichiarazioni e le sue proteste , che non (
1 ) Vedi il capo X ed ultimo del lib. IV del Saygio . ( 2) L. CREDARO, A. Testa
e i primordii del kantismo in Italia , in Rendic. Acc. Lin cei, 1886, S IV, III
, p. 241. Vedi dello stesso CREDARO Il kantismo in G. D. Romagnosi ( in Riv .
it. d. filos., 1887, vol. II, p. 59 n. ) , dove si oppone a chi fa del Galluppi
un kan tiano, uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo. ( 3)
Come scrisse nel suo ultimo libro La mente dell'ab. G. Taverna , Genova , 1851
, p. 82. PASQUALE GALLUPPI 251 hanno o non dovrebbero avere molto valore per la
valutazione del critico -, alcune speciali dottrine , che basta accennare bre
vemente. 60. E in primo luogo : rifiuta nientemeno che la stessa sintesi a
priori , che è come dire il nocciolo sostanziale del kantismo . « La
distinzione , che la scuola trascendentale pone fra i giudizii analitici ed i
giudizii sintetici (a priori) è assurda » . Queste son parole del Galluppi . E
qui non si tratta di una semplice afferma zione. C'è anche la prova. « Se le
due idee A e B non hanno alcuna identità fra di esse , lo spirito non può
riguardarle che come distinte, e senz'alcun legame fra di loro : è impossibile
, dun que, ch'egli vi percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di
esse : dire in conseguenza che lo spirito dee percepire neces sariamente un
rapporto di convenienza fra due idee diverse , è affermare, che lo spirito pud
pronunciare una contraddizione evi dente... Tutt'i giudizi necessarii debbono,
in ultima analisi , risol versi nel principio di contraddizione : essi son
dunque tutti ana litici , ed i giudizii a priori non possono essere che necessarii.
Ammettere dei giudizi necessarii non poggiati sul principio di contraddizione ,
è un assurdo manifesto . Se lo spirito non vede alcuna contraddizione
nell'opposto di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come
necessario . I giudizi sintetici a priori non possono dunque esistere » ( 1 ) .
Somiglia non po ' , a dir vero, al ragionamento di quel tale aristotelico
restio agl'inviti di Galileo di guardare attraverso il cannocchiale ; ma è il
ragio namento del Galluppi ; e questo basta allo storico, il quale dirà che il
filosofo di Tropea, chiuso nel cerchio della logica formale e nel ferreo
apriorismo delle sue regole , non poteva ammettere e non ammise il risultato
principale della Critica kantiana, che è la sintesi a priori. « In effetto , – egli
dice negli Elementi di logica pura (S XV) , – un principio sintetico, puro , a
priori come Kant lo suppone , è una cosa contraria alle nozioni fondamen tali
di una sana logica » . Infatti, egli soggiunge , prescindendo dall'esperienza ,
nella sfera delle mie idee , io non posso unire B con A, se non riconoscendo
che B è uguale ad A, o ne fa almeno parte . Che se B eccedesse realmente A in
estensione , in valore , come potrei attribuire ad A, come sua proprietà, tale
eccedente di B, non ritrovato in A ? ( 1 ) Saggio , lib. I , cap . IV , s 116 ;
tom . I , p. 241-2. 252 CAPITOLO VII 61. Così la critica del Saggio è
confermata negli Elementi con esplicito appello alle leggi della logica
formale, per la quale cer tamente non è possibile la sintesi a priori kantiana,
perchè l'iden tità non è conciliabile con la differenza, e se la necessità
richiede l'identità , rifugge dalla differenza ( 1 ) . 62. È inutile mostrare
il valore della critica galluppiana , fon data come quella del Degerando con
cui va raffrontata , e quella stessa del Rosmini, sopra l'intelligenza della
sintesi a priori de sunta dalla sola Introduzione alla Critica della ragion
pura (nella 2.a edizione) coi famosi esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto
ricordare che la vera sintesi a priori non con siste propriamente nell'unione
di predicati a soggetti, onde siano già belli e formati i concetti ; bensi
nella formazione medesima dei concetti: problema, di cui non s'accorse affatto
il Galluppi, a proposito di Kant , ma riprodusse, del resto , e risolvette
egual mente nella sua teoria dell'analisi e della sintesi , che , munite dei
rapporti soggettivi dell'identità e diversità , servono anzi tutto alla
formazione delle idee , e nella sua teoria del giudizio, essen zialmente
distinto dal sentire, e necessario alla percezione di qualsiasi rapporto . 63.
Questa della sintesi a priori è uno dei motivi prediletti della critica
italiana intorno alle dottrine del Kant, e ricorre spesso nei libri del
Galluppi ( 2 ) . Ma non è la sola teoria kantiana che egli ( 1 ) Ma, so sintesi
a priori e logica formale sono assolutamente inconciliabili , non biso gna
conchiudore : dunque, aut aut : o si rifiuta la sintesi a priori, o si rifiuta
la logica formale . Su questo punto si fa , secondo me, molta confusione. Vi tornerò
su in un mio prossimo lavoro ; qui voglio solamente aggiungere, che la dottrina
della sintesi a priori fa parte della teoria della formazione delle conoscenze
; laddove la logica formale studia i rapporti delle conoscenze già formate o
delle conoscenze in sè ; e notare, che se il pon siero non ha da essere un
quissimile del vano lavoro delle Danaidi, non s'ha da far consistere solo in un
accroscimento delle conoscenze , ma anche in un'intuiziono delle già acquisite.
( 2) Un anonimo già nel 1832 notava in un opuscolo molto arguto e tagliente
contro il nuovo professore dell'Università, che le belle ed acute riflessioni,
con cui il Galluppi combatte nel § XVII degli Elementi della logica pura il
giudizio sintetico a priori, sono tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons de philos. , p.
I , 1. 3 e 5. Vedi : Degli Elementi e della Introd . allo studio della filos.
del celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un suo amico, Napoli ,
De Bonis, 1832, 8 37 , p. 42. · L'opuscolo reca la data di Napoli, 14 di cembre
1831. Scritto con molta vivacità e castigatezza di lingua, rimprovera al
Galluppi l'inesattezze di certi suoi esempii presi dalla geometria e
dall'algebra , l'ignoranza in ge nerale delle scienze fisiche e naturali, la
scarna o niuna cognizione dei classici antichi PASQUALE GALLUPPI 253 combatta.
Anzi, non v'è quasi teoria esposta nella Critica della ragion pura che venga
risparmiata nel lib . III del Saggio gal luppiano e nelle parti delle altre
opere che ne dipendono . Lo spa zio, il tempo, le categorie, lo schematismo, la
dialettica trascen dentale gli offrono materia di lunghe e energiche
discussioni, il cui scopo è sempre la confutazione del Kant. Aggiungi le fre
quenti proteste contro il trascendentalismo e l'idealismo, che pel Galluppi
equivalgono allo scetticismo, proteste nelle quali il Gal luppi unisce al Kant
il Fichte e lo Schelling ( 1 ) , per quel poco che ne poteva conoscere da
traduzioni o esposizioni francesi ; cd è evidente , che il lettore sbadato e il
critico ottuso non potes sero e non possano vedere il filosofo di Tropea che
agli antipodi di quello di Koenigsberg. 64. Il vero è che per un'esatta
intelligenza delle dottrine di questo , il primo incontrava insormontabili
difficoltà nei limiti della sua cultura ; la quale non si estendeva oltre la
letteratura filosofica italiana e francese e alle traduzioni (allora pochissime
e affatto insufficienti) che c'erano in queste lingue delle opere tedesche.
Quello che poteva intravvederne indirettamente, era na turale che gli dovesse
riuscire oscurissimo, e restargli innanzi con tali lacune, che s'egli ne avesse
avuto coscienza, non sareb besi certo provato alla critica della filosofia
tedesca. Egli, scrit tore chiarissimo e pensatore analitico per eccellenza ,
manifesta mente soffriva nello studio che poteva fare di quegli scrittori.
Nella critica del Fichte, sforzandosi d'intendere il vero signifi della
filosofia , la leggerezza nell'appigliarsi alla moda francese, e quindi la
pedanteria e confusione del metodo analitico imitato dagli ideologi, e perfino
i barbarismi e le im proprietà di espressione. L'opuscolo pare facesse una
certa impressione. Il Galluppi ri spose col silenzio ; ma i suoi scolari con
due opuscoli : Di un giudizio dato da ignoto giudice sur alcune parole del
chiarissimo B. P. G. appella VINCENZIO MORENO , Napoli, Trani, 1832 ; Al
giudizio dato da un anonimo su talune opere del chiarissimo P. G. risposta di
GIUSEPPE PISANELLI, Napoli, Ruberto o Lotti, 1833. Curioso l'opuscolo del
Pisanelli nella parte in cui difende il Galluppi scrittore, per l'enfatica
digressione che vi è contro il purismo ( pp. 28-36 ). Per questa parte invece
il Moreno riconosceva che il G. non fosse puro elegante e gentil dicitore ( p.
17) ; il che non toglieva ch'ei fosse, alla sua volta , pessimo scrittore . ( 1
) Vodi le Considerazioni filosofiche su l'idealismo trascendentale e sul
razionalismo assoluto ( Napoli , 1841 ). Di Schelling non pare che conoscosse
nulla di originale , all'infuori della trad . francese del Bruno. Del Fichte
cita la trad . francese della Bestimmung des Menschen . 254 CAPITOLO VII cato
della costui dottrina dell'Io puro, dichiarava ai colleghi del l'Accademia
francese : Qui l'oscurità alemanna comincia ad affliggermi; io che non amo ne'
discorsi filosofici, se non che la chiarezza e la precisione , son qui
circondato dalle più dense te nebre » ( 1) . E terminava la sua memoria
invocando le regole wol fiane De stylo philosophico, e domandando agli amici
della verità e del progresso della filosofia , se « lo scrivere i trattati
filosofici in un modo più oscuro di quello , in cui è scritta la Teogonia di
Esiodo, è esso un segno di progresso verso la verità o pure verso l'errore »
(2) 65. Altri più recentemente si son lagnati dell'oscurità di alcuni scrittori
filosofici, e si son levati in difesa del bello stile . Ma, come nel caso del
Galluppi , molto spesso l'oscurità che si vede negli autori , non dipende da un
loro difetto, sibbene dalla insufficienza nostra a intenderli ; chè nessuno è
chiaro a chi non sia preparato e non procuri in ogni modo e con ogni mezzo
d'intendere . Comunque, la dottrina del Galluppi è cosa ben distinta e diversa
dalla sua intelligenza e dalla sua critica del Kant ; e della prima è
indubitabile che s'ispira al Kant e non riesce a risul tati essenzialmente
differenti ( 3 ) . 66. In sostanza egli è più kantiano di Kant. Questi ,
criticata la ragion pura , nega il valore scientifico , oggettivo, della meta
fisica , ma le riconosce un ufficio regolativo , e scrive una meta fisica della
natura come una metafisica dei costumi. Ma il Gal luppi si rinchiude in un
assoluto psicologismo, per usare parola giobertiana ; e , pienamente
conseguente alla sua filosofia dell'esperienza, tiene fermo alla dottrina dei
limiti della scienza umana ; e alla metafisica sostituisce l'ideologia. La sua
cattedra ufficiale era di logica e metafisica ; ma egli nella Prolusione an
nunzia che tratterà della filosofia teoretica, ossia della scienza dell'umana
scienza , e darà pertanto la legislazione suprema di tutte le scienze ( 4 ) . «
La metafisica tratta , egli dice , delle idee essenziali all'umana ragione » ).
Nella prima lezione rifiuta la definizione della filosofia data dal Wolf,
sostenendo che egli volle una ( 1 ) Op. cit . , pag. 23. ( 2) lvi , pag. 133. (
3 ) Ricordo per semplice curiosità che sostenne il kantismo del Galluppi CARLO
Ro DRIQUEZ , Lett. su la filos . sogg . ed oggettiva del bar . Galluppi,
Messina , 1833, p. 22 ; cui rispose ONOFRIO SIMONETTI, Analisi critica della
Lettera ecc . ( Napoli ), Fernandes (1834 ), p. 31 e sgg. ( 4) Lezioni di log .
e metafsira , p. XI. ( 5) Iri, p . XIV . PASQUALE GALLUPPI 255 definire
piuttosto l'infinita sapienza conforme a quel suo enun ciato che Deus est
philosophus absolute summus, e attribuendo alla filosofia wolfiana il difetto
ascrittole appunto dal Kant, di confondere la cosa con l'idea della cosa. Nella
seconda lezione commenta il suo concetto della filosofia come scienza del « pen
siere umano ne' suoi elementi , nelle sue funzioni e nelle sue leggi » ;
nozione , fa notare , della più alta importanza . 67. Prevede la possibile
osservazione : ma è il pensiero il solo oggetto della filosofia ? E la
ontologia, la cosmologia, la teologia naturale , la fisica ? — Queste scienze,
risponde il Galluppi , in parte si riducono alla ideologia, scienza del
pensiero , e in parte escono fuori dal campo della filosofia . L'ontologia
studia « alcune nozioni universali , essenziali all'umano intendimento » ; e la
dottrina delle nozioni , delle idee non appartiene forse alla scienza del
pensiero ? Lo stesso dicasi della cosmologia e della teologia naturale. Sic chè
il Galluppi conchiude : « Tutte le parti dunque della meta fisica appartengono
alla scienza del pensiere umano » . Quanto alla fisica , in parte è filosofia (
psicologia, per le relazioni che que sta scienza studia tra i fatti fisici
quali sono in sè e i fatti fisici quali appariscono a noi , e teologia) ; e in
parte , quale si tratta comunemente nelle scuole, se non può ridursi a rigore
alla scienza del pensiero , « è nondimeno una scienza che le è contigua , e che
serve a rischiarare, ed a perfezionare la filosofia intellet tuale » . Sicché
la metafisica, nel sistema del Galluppi, è bella e ita assolutamente. E se la
filosofia per lui si divide com'è detto nella 3.4 lezione – in filosofia
speculativa o teoretica , che studia l'anima ( soggetto del pensiero) in quanto
conosce , e in filosofia pratica , che studia l'anima in quanto vuole , è
chiaro che nè an che questa potrà essere fondata su alcun principio metafisico.
Il Kant non era arrivato a questo punto. Ma prima di accennare i principii del
Galluppi nella filosofia pratica , bisogna fare un'altra osservazione generale,
che ci pare di non poca importanza . 68. Nella Prolusione il Galluppi ,
vantando le ragioni del me todo sperimentale , avvertiva che non bisogna però
mutilarlo ; anzi prenderlo tutto intero nelle sue specie e ne ' suoi
risultamenti ; ne confonderlo con l'empirismo ; giacchè la filosofia
intellettuale, co me egli chiama quella che dovrà insegnare , < non ammette
so lamente quelle esistenze , che cadono immediatamente sotto l'espe rienza ;
ma quelle ancora , che le esperienze sperimentali suppon gono necessarie .
Quindi ella deduce tanto dall'esistenza del mondo materiale , che da quella del
mondo intellettuale, che a noi si ma 256 CAPITOLO VII nifesta, l'esistenza
eterna di un ' Intelligenza creatrice . E ciò in modo simile a quello in cui
l'astronomia , partendo dal cielo em pirico , pone un cielo razionale » ( 1 ) .
Il cielo razionale sarebbe il cielo costruito dall'astronomo mercè la forza
portentosa del cal colo, della geometria e del raziocinio , onde si « sbalza
dal cen tro del planetario sistema la terra , e vi si pone il sole ; si tra
sforma in masse di meravigliosa grandezza quei piccolissimi corpi , che
sembrano tanti chiodi affissi nel firmamento, si determina le distanze , le
orbite ed i tempi delle rivoluzioni de' pianeti » ( 2 ) . 69. Sicché, pel
Galluppi, anche la filosofia intellettuale, la ideologia , la filosofia
dell'esperienza, con tutti i suoi limiti , ha il suo cielo razionale ; come
l'ha del resto il criticismo con la sua cosa in sé . Ma la cosa in sè per Kant
è un puro concetto limite, di cui s'afferma l'essere non il come ; che si
afferma, non si conosce; laddove il Galluppi dedica tutta la seconda parte
della sua Ideologia, che intitola Teologia naturale , allo studio dell'Asso
luto e de ' suoi attributi , come se Kant non fosse mai esistito . Il nome di
questo qui non ricorre se non nelle ultime pagine, dove è detto insensato il
suo « impegno di contrastarci la possibilità di una Teologia naturale e
filosofica » ( 3 ) , 70. Ma tutta questa parte evidentemente è non solo in con
traddizione con la Critica kantiana, ma anche con lo stesso Sag gio
dell'autore, la cui conclusione riesce a quella dottrina dei limiti della
scienza che sopra vedemmo. Che dire adunque del vero pensiero del Galluppi ? È
vero , come è detto nel Saggio, che lo scrutatore della divina maestà resta
oppresso dalla sua gloria ? O è vera la teologia delle Lezioni ? Le due
dottrine sono certa mente inconciliabili. E io non dubito d’asserire , che se
il Galluppi non avesse scritto le Lezioni per i giovani dell'Università in uno
de ' periodi di più cupa servitù intellettuale che abbia attraversato il
pensiero italiano, la seconda parte della Ideologia non sarebbe stata scritta .
7i . « Questa opera , diceva l'autore nella prefazione delle Le zioni, non è
mica la ripetizione dei miei Elementi di filosofia pub blicati in cinque
volumi, nè di altra mia opera antecedente » . E notava altresì che « serbando le
leggi essenziali di un metodo, può questo ricevere delle variazioni accidentali
» . Intendeva egli alludere alla teologia naturale, di cui trattava per la
prima volta ( 1 ) Op. cit . , p. XIX . ( 2) Ivi , p, XVII . ( 3) Op . cit . ,
III , 306 . PASQUALE GALLUPPI 257 . in queste Lezioni ? ( 1 ) . Si noti che non
parlava di nuovi svolgi menti del suo pensiero , ma di variazioni di metodo;
onde non poteva accennare a parti ora per la prima volta trattate della sua
filosofia che non importassero alcuna modificazione di principii . Si noti
anche, che la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima. Solo
alla fine della 108. lezione (1. della Ideologia ) l'autore dice : « L'essere è
o finito o infinito ; io divido perciò l'ideologia in due parti , nell'ideologia
del finito ed in quella del l'infinito » E in questa distinzione così accennata
è tutta la ra gione della teologia naturale o ideologia dell'infinito , cui son
de dicate le ultime dieci lezioni del corso universitario . Le dottrine non essoteriche
hanno ben più stretti legami coi principii sostan ziali dello spirito d’un
pensatore ; e questi le fa sempre sgorgare specialmente quando siano dottrine
così importanti , rispetto a quella filosofia dell'esperienza, onde il Galluppi
si proclamo sempre assertore le fa sempre sgorgare, bene o male , dalle
dottrine per l'innanzi professate, le pone, bene o male , in ac cordo con esse
, per rimanere esso stesso d'accordo con sè mede simo. Nell'opera del Galluppi
nulla di tutto questo . 72. Io propendo pertanto a non attribuire alcun valore
a quella parte delle Lezioni nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già
che egli le dettasse e le pubblicasse contro la sua coscienza, ma certo contro
la sua coscienza filosofica . Egli pensava certamente quanto scrisse e insegno
degli attributi divini ; ma quella parte del suo pensiero non era stata da lui
elaborata filosoficamente ne coordinata quindi alla sua speculazione . Chi ha
insegnato e non s'è trovato nel caso del nostro filosofo , di esser costretto da
un programma a insegnare anche ciò che il suo spirito non ha ma turato e fatto
suo , e insegnarlo quindi nella forma in cui ordi nariamente si dà , e in cui è
pur bene che sia offerto all'intel letto dei discepoli ? Chi non si trova a
dover insegnare qualcosa di più di quello che in buona fede e a rigore potrebbe
dir di sapere , o di quello ond'egli può dirsi veramente persuaso ? Chi oltre a
ciò che, per sè e per altrui , deduce chiaramente da ' propri principii non ha
insegnato qualcos'altro, che da quei principii sinceramente non sa derivare nè
per altrui nè per sè ? Il Galluppi non aveva per sè una teologia più filosofica
di quella che è esposta nelle ( 1 ) Della religione tratta anche negli Elementi
di filos. morale. Ma se la sbriga in un breve capitolo , che non ha nessuna
pretensione filosofica , e si limita a una semplice notizia molto compendiosa
del concetto della religione cristiana. 17 258 CAPITOLO VII sue Lezioni; in
questa fermavasi il suo pensiero ; ma stimo che non vi s'acquetasse ; perchè una
consapevole o inconscia insoddi sfazione doveva fargli sentire che nella sua
filosofia dell'esperienza non c'era posto per quella teologia . 73. S'è
accennato che sulla fine della teologia naturale l’au tore si ricorda
dell'impegno insensato del Kant di contrastare la possibilità di una teologia.
E che fa egli per combattere l'assunto kantiano ? Scrive così : « Kant insegna
che i giudizii su cui ella ( teologia naturale e filosofica ) poggia, sono
sintetici a priori e fenomenici, privi di una assoluta realtà. Egli dice che le
verità necessarie della teologia naturale non sono mica identiche, ma
sintetiche ; e che le verità di fatto non sono che mere apparenze, che fenomeni
privi della realtà noumenica ed assoluta, indipen dente dal nostro modo di
vedere. Io , nella mia Critica della co noscenza ( 1 ) ho seguito passo passo
la dialettica kantiana ; e vo lendo parlar con giustizia , non può negarmisi,
che l'ho invinci bilmente distrutta. Io ho mostrato, che i giudizii sintetici a
priori sono assurdi ; ho mostrato eziandio , che le verità sperimentali ci
danno pure delle conoscenze delle cose in se stesse considerate » ( 2) . Questo
è tutto. Ora, poniamo che sia esatta l'esposizione del pen siero del Kant . Ma
la critica della sintesi a priori non giustifica , tutto al più , che la
posizione dell'assoluto, come avviene per l'ap punto nel Saggio dello stesso
Galluppi ( lib . III , cap. XII) ; dove partendo dalla pretesa impossibilità
dei giudizii sintetici a priori , si dice , contro Kant, che non è tale neppure
il principio : dato il condizionale, si deve dare l'assoluto ; e si conchiude
quindi che il condizionale dell'esperienza è reale in sé , non fenomenico, e
che nella sua realtà è pur data quella dell'assoluto ( 3 ) . E nel Sag gio
tutto finisce li . E la conclusione dell'opera è quella che ab ( 1 ) Acoopna al
Saggio filosofico . ( 2) Lez ., III , 306. Quindi accenna alle critiche che
alla sua confutazione della sin tesi a priori aveva mosse il MAMJANI nol
Rinnovamento e lo ribatte. ( 3 ) Un'ottima osservazione contro questa deduzione
fa col suo solito acume il Tesia , il quale crede come il Rosmini che il
Galluppi non mova un passo fuori del soggetti vismo. È falsa , egli dice, la
premessa che il condizionale sotto il rispetto del condizionale sia un termine dato
dall'esperienza. Quosta non ci dà che sensazioni e sentimenti. Ma le sensazioni
non sono il condizionale ? - Si , sono, ma non ci sono date come tali
dall'esperienza . La qualità d'essere condizionale è una veduta dello spirito ,
non è nella sensazione, opperò non è trovata nella sensazione. Vedi Le ricerche
apolog. del crist, del popolo dall'ab. G. Bignami esaminate, Lugano, 1841, p.
33 e seg . PASQUALE GALLUPPI 259 biamo vista. Gli attributi divini son
dichiarati incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio differisce molto dalla
cosa in sè kan tiana . Ma nelle Lezioni non c'è solo l'assoluto, bensì la
scienza del l'assoluto ; e non viene giustificata. La conclusione dell'opera si
limita ad affermare che « mostrando l'oggettività delle nozioni di sostanza, di
causa e dell'assoluto , il criticismo è rovesciato , e la realtà della
conoscenza è stabilita » . Sono le ultime parole delle Lezioni; ma potrebbero
essere a miglior ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle s'era cercato
di provare qualcosa più dell'oggettività della nozione che la mente possiede
dell'as soluto. 74. Se la teologia naturale avesse avuto nella mente del Gal
luppi la stessa saldezza dei principii più genuini della filosofia
dell'esperienza, la sua etica non avrebbe mancato di esservi su bordinata.
Invece ne è assolutamente indipendente . Anzi, pure inspirandosi , come si
vedrà , all'idealismo kantiano , non tiene af fatto conto delle esigenze
sentite dal Kant nella Critica della ra gion pratica e nella Fondazione della
metafisica dei costumi. Forse egli non conobbe nulla direttamente di queste
opere , e della mo rale kantiana non dovette avere che l'indiretta notizia
fornitagli dalle solite esposizioni francesi. Non per questo si può dire con
certi critici , che i suoi quattro volumi della Filosofia della volontà « non
contengono nulla di nuovo, anzi , di fronte a Locke ed Hume, ed a tutta la
specula zione contemporanea, segnano un sensibile regresso verso il vec chio
rancidume metafisico e teologico » . Chi giudica così , non deve avere grande
familiarità con questo rancidume, e certo è asso lutamente falsa la sua
sentenza, che la morale galluppiana sia ispi rata all'idealità patristica e
scolastica ( 1 ) . Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella
morale. 75. Basta una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di
tutto osservare , che il Galluppi insegnava nell'Università, come s'è visto ,
filosofia teoretica o , com'egli dice , intellettuale ; e non v'ebbe quindi
occasione di trattar mai la morale. Ma egli aveva pubblicato nel '26 , nel
quinto volumetto del suo ma nuale scolastico , gli Elementi della filosofia
morale ; e prima d'as sumere l'insegnamento aveva scritto La filosofia della
volontà , ( 1 ) Vedi l'art. La speculazione di P. G. , nella Rivista di filos,
e sc. affini di Bolo gna , an. III , vol . V (ottobre 1901), p. 276 . 260
CAPITOLO VII in quattro volumi, che cominciò a pubblicare nel 1832 ( 1 ) . In
essa , secondo che egli dichiara nella Prefazione , si proponeva di trat tare
in un'opera estesa lo stesso argomento di quegli Elementi, ma col metodo stesso
del Saggio filosofico, ossia con la discussione e l'esame delle varie dottrine
relative ad ogni materia . Ma non do veva aver compiuto il lavoro prima di
salire la cattedra di logica e metafisica ; e non pare che vi sia potuto più
tornare ; sicchè non tutte le parti del volumetto degli Elementi vi sono
riprese e no vellamente trattate con quella maggiore larghezza, che l'autore
s'era proposta. E il disegno di essa , delineato sulla traccia degli Elementi,
gli rimase colorito meno che a metà . 76. Nella Filosofia della volontà
comincia dal distinguere nel l'uomo l'agente fisico della natura , « disposto o
mosso ad operare pel fine della propria felicità , >> e l'agente morale,
disposto o mosso ad operare dal principio del proprio dovere » . Distingue
anche i movimenti « che nel corpo umano si osservano » , in mec canici, che non
dipendono dalla volontà , e volontari, per cui sol tanto l'uomo può dirsi
agente. Chiama quindi filosofia della vo lontà « quella scienza che fa conoscer
l'uomo considerato come un agente » ; e divide questa scienza in quattro parti
: « nella prima, dice , esamino l'uomo considerato generalmente come un agente
; nella seconda l’esamino sotto l'aspetto di agente morale ; nella terza sotto
l'aspetto di agente fisico ; e nella quarta finalmente l'esamino riguardo alla
sua esistenza in uno stato futuro, dopo il fenomeno della morte ; e ciò in
conseguenza della sua virtù e de' suoi vizi » ( 2) . Questo il disegno. Ma
delle quattro parti ideate i primi tre volumi dell'opera e il primo capitolo
del quarto trattano solo la prima ; gli ultimi due capitoli di questo quarto
volume e del l'opera iniziano appena la trattazione della seconda, com'è svolta
negli Elementi; e della terza e della quarta non c'è nulla ; laddove negli
Elementi l'una ( intitolata De' mezzi per esser felice, cap . VI) è trattata
con relativa larghezza , e dell'altra c'è pure un cenno col titolo : Della
religione. Sicché, quantunque l'autore appaiasse questa sua Filosofia della
volontà col Saggio filosofico, come l'opera con tenente la sua filosofia
pratica accanto a quella contenente la ( 1 ) I primi due volumi , pp. 338 0
452, nel 1832 presso C. L. Giachetti in Napoli ; il 3. ° vol , di pp. 388 nel
1839 presso la stamperia Tramater in Napoli; e il 4.° di pp. 361 nel 1840 ivi .
La dedica del 1. ° vol. , a S. E D. Giuseppe Cova Grimaldi, marchese di Pie
tracatella , reca la data di Napoli 30 aprile 1832. ( 2) Ed. cit. , I , 6-7 .
PASQUALE GALLUPPI 261 a sua filosofia teoretica ; è evidente, che se la
Filosofia della volontà presenta discusse con grande ampiezza questioni
brevemente accennate negli Elementi, di questi non può fare meno chi voglia
acquistare un concetto compiuto delle teorie pratiche gal luppiane ; e in essi
deve principalmente attingere quella parte di coteste teorie , che spetta più
propriamente alla morale. 77. Dal disegno stesso dell'opera maggiore si scorge
un pre gio non comune in questo ramo della filosofia del Nostro : voglio dire
la pienezza del suo concetto dello spirito pratico . Egli, com'è chiaro già da
quelle semplici indicazioni, non vede tra la felicità e il dovere quella
dualità inconciliabile, in cui si dibatte l'etica prima di Kant e nello stesso
Kant; quella dualità che finisce ine vitabilmente, secondo l'uno o l'altro
pensatore , o con la nega zione dell'uno o con la negazione dell'altro
principio , o nel con cetto puramente utilitario o in quello del puro
disinteresse . Il Gal luppi vede che sono due i fini dell'umano volere : due fini
però conciliabili tra loro , sì che uno non importi la negazione dell'altro .
L’uomo infatti è agente fisico e agente morale insieme ; e per es sere agente
fisico non cessa di essere agente morale ; e viceversa : segno manifesto , che
tra i due fini non c'è opposizione assoluta. La confutazione perentoria
dell'utilitarismo dal punto di vista etico sta in questo concetto , che il
Galluppi vide nettamente, come apparrà meglio dalla notizia che ora ne daremo.
78. Tutta la prima parte della sua filosofia pratica s'aggira adunque intorno
all'attività in generale dell'uomo : è, come noi diremmo, una semplice
psicologia pratica. Parla quindi del desi derio, della volontà, dell'influenza
della volontà sull ' intelletto, e viceversa, e in generale dei principii motori
della volontà , e della libertà umana . Questa è la trattazione più ampia, e
occupa quasi per intero il secondo e il terzo volume della Filosofia della
volontà ; non avendo voluto il Galluppi lasciare senza risposta nessuno degli
argomenti che sono stati addotti contro l'esistenza del libero volere . 79.
Della volontà il Nostro dice che non può definirsi. Ne fa una facoltà,
avvertendo bensì , che « le diverse facoltà , che concepiamo nel nostro spirito
, non sono certamente tanti agenti diversi : esse non sono che lo spirito
stesso considerato relativa mente ad una determinata specie di modificazioni,
che avvengono in lui » ( 1 ) (I , 15-16) . Si potrebbe intendere per volontà la
facoltà ( 1 ) Quindi, secondo l'autore, è volontà « il nostro spirito stesso
considerato relativa 262 CAPITOLO VII di volere ; ma questo come ogni atto
semplice non può definirsi, e non se ne può altrimenti avere la nozione che «
dirigendo la nostra attenzione sul sentimento che abbiamo di questo atto » ,
ossia ricorrendo alla nostra personale coscienza. La volontà senza gli atti di
volere è indeterminata come volontà ; è lo spirito stesso in generale . La
determinazione della volontà è la produzione de ' voleri particolari ; e
siccome, dice Galluppi stesso, lo spirito è il principio efficiente de ' voleri
, così può dirsi tanto che lo spi rito determina se stesso , quanto che la
volontà determina se stessa ( I , 51 ) . 80. La volontà, come notò gia Locke,
va ben distinta dal de siderio. Un idropico , malgrado il desiderio di bere ,
si astiene dall'acqua . Egli dunque desidera di bere , ma non vuol bere . In
tali casi vi sono desiderii opposti , fra i quali la volontà si deter mina. Pel
Galluppi tra desiderio e volere c'è una recisa differenza . Quello non è , come
ordinariamente si crede , un fatto d'attività dello spirito , ma, come oggi si
direbbe , un fatto puramente emo tivo ; quel misto di piacevole e di spiacevole
onde lo spirito è af fetto per la percezione d'una sensazione in se stessa
piacevole , ma assente , e però causa d'un dispiacere tanto maggiore, quanto
più lontano è il futuro, in cui si pensa che essa sarà provata ( 1 ) , Quando,
come fa il Wolff ( 2) , si vede nel desiderio uno sforzo, un'avversione,
un'inclinazione, o ci si contenta di metafore fallaci, o si confonde col
desiderio il volere, onde i movimenti corporei sono l'effetto. Sforzo,
tendenza, inclinazione , allontanamento son tutti vocaboli, che applicati
all'anima non presentano alcun senso ( 8) . ( I , 65) . 81. Come dal desiderio,
la volontà va distinta dall'intelletto ; sicchè può parlarsi di un'influenza
esercitata dalla volontà sul l'intelletto , come di un'influenza esercitata
dall'intelletto sulla volontà. Quanto alla prima , il Galluppi vede un potere
della vo lontà perfino nelle sensazioni, in quanto lo spirito « può esporre o
pure sottrarre i propri sensi all'azione de ' corpi esterni ; e quindi
procurarsi o privarsi di alcune date sensazioni » ( 4) . Quindi mente a quella
specie di modificazioni, che abbiam chiamato voleri » ( I, 24 ). Insomma, gli
atti singoli presuppongono un quid nella natura dello spirito ; o questo quid è
la volontà . ( 1) Filos. d. vol., I , 63 e ss . (2) Psych , emp., SS 279 e 281.
( 3) Filos. d . vol. , I , 65 . ( 4) I , 112. L'autore s'accorge che questo
potere della volontà si esercita indiretta PASQUALE GALLUPPI 263 ci parla di
sensazioni volontarie e sensazioni involontarie ; e come i desiderii sono un
effetto delle sensazioni , trova che vi sono e desiderii volontari e desiderii
involontari; e come anche i fan tasmi seguono le sensazioni , anche tra i
fantasmi pone la stessa distinzione nel campo dell'immaginazione. 82. Quando si
passa dalla sensibilità alle facoltà dell'analisi e della sintesi , non si
tratta più di un potere indiretto , ma im mediato della volontà sull'intelletto
; e dicesi attenzione ; nel cui studio l'autore si trattiene con diligenza e
acutezza , che fan degne quelle pagine di esser lette ancora , pur dopo tanto
progresso nella conoscenza dei fenomeni psicologici . E come l'analisi e la
sintesi sono le due attività spirituali onde vengono prodotte tutte le
conoscenze, l'impero su di esse vale l'impero su tutto il co noscere . 83. Che
più ? L'associazione è anch'essa volontaria e involon taria. L'abito , questa
seconda natura morale , può dirsi anch'esso volontario , quando consta della
ripetizione volontaria di atti vo lontari ; e conferisce a quell'educazione
onde ognuno è responsa bile , poichè egli ne è l'artefice. I giudizii temerarii
sono colpevoli, perchè volontari ; in essi l'attenzione si volge a fantasmi ,
cui non dovrebbe rivolgersi , e l'uomo vuol manifestare i giudizii che da quei
fantasmi deriva , confondendo l'immaginare col giudicare. Infine , da questo
impero della volontà sull’intelletto la distin zione dei moralisti di ignoranza
vincibile e invincibile ( 1 ) . 84. In quanto all'influenza dell'intelletto
sulla volontà , è chiaro : che la vita dello spirito , come nota il Galluppi ,
comincia dalle sensazioni . Ora queste , secondo che sono piacevoli o no ,
deter minano lo sviluppo dell'attività dell'anima ( 1 ) ; suscitano i desiderii
che influiscono sulla volontà. Quindi nasce il problema : in quanti modi
l'intelletto influisce sulla volontà ? E se ciò che nel no stro spirito dispone
o eccita la volontà all'atto di volere, dicesi principio attivo della volontà,
si domanda : quanti sono i prin cipii attivi della volontà ? E non sono
riducibili tutti ad un solo principio , come sue varie modificazioni ? 85.
Elvezio concentrò tutti i principii dello spirito nella fi sica sensibilità .
Ma, « annientata così tutta l'attività dell'anima, e mente ; ma non vede che
pertanto in questi casi trattasi d'un impero del volere sul corpo , e non
propriamente sull'intelletto . ( 1) Tutta questa dottrina dell'influenza della
volontà sull'intelletto è anche negli Elem . , capp. II-VII. 264 CAPITOLO VII
l’uomo riguardato come solamente sensitivo ed animale , la virtù negli scritti
di Elvezio scomparve dall'universo, e vi fu rimpiaz zata da un grossolano
egoismo » ( 1 ) . L'uomo per Elvezio è tutto ciò che le cause esterne lo fanno
essere . Egli ricava le conse guenze logiche più rigorose dal sensismo del
Condillac, che uso tutti i riguardi per la morale e per la religione, ma non
ragionò coerentemente al suo principio della sensazione trasformata . Elvezio
parte dallo stesso principio , e ne deduce illazioni che fanno or rore (2 ) 86.
Ma, come è falso nella filosofia intellettuale che tutto sia sensibilità fisica
o da essa derivi , com'è falso ridurre il giudizio che è attività sintetica e
analitica, al mero fatto passivo della sen sazione, così è falso nella
filosofia pratica non distinguere dalla passività del senso l'attività e la
libertà della volontà , e non ri conoscere l'origine soggettiva del dovere ( 3)
. 87. Non è vero che tutto lo spirito sia sensibilità ; e perciò il presupposto
elveziano è privo di fondamento . Non è vero che i piaceri e i dolori che
agiscono sul volere , sieno in ultima ana lisi sempre piaceri o dolori fisici
provenienti da sensazioni ; è incontrastabile, che vi sono anche piaceri o dolori
intellettuali provenienti da pensieri ( 4) . Quindi una prima divisione dei
prin cipii motori della volontà o motivi : desiderii inriflessi, quelli in cui
lo spirito è passivo , e principii riflessi, in cui lo spirito è at tivo. I
primi si possono dire anche semplicemente desiderii, gli altri , ragioni ( 5) .
I principii irriflessi si possono ridurre a sette ; appetito fisico ( fame,
sete , amor fisico ), desiderio della propria ec cellenza, curiosità ,
sociabilità, desiderio della gloria , emulazione e potere, affezioni. 88. La
ragione è principio di atti volitivi come principio eco nomico e come principio
morale ; o , come il Galluppi dice , in quanto esamina ciò che conviene alla
nostra felicità , fa il cal colo dei beni e dei mali , e dirige le nostre
azioni a produrre un certo stato dell'anima ; e allora si chiama prudenza ; e
in quanto ci mostra il bene e il male morale , e ci comanda di far l'uno e non
far l'altro ; e allora può dirsi ragione legislatrice della nostra volontà (6)
89. I principii della prudenza sono quattro : un piacere che ci priva di
maggiori piaceri è un male ; un piacere che ci pro ( 1 ) Op. cit . , I , 175. (
2) I , 193. ( 3) I , 194. ( 4) I , 238 . ( 5) I , 286-7. ( 6) I , 318. PASQUALE
GALLUPPI 265 duce maggiori dolori , è un male ; un dolore che ci libera da mag
giori dolori , è un bene ; un dolore che ci produce maggiori pia ceri , è un
bene ( 1 ) . 90. A questo punto l'autore si propone la questione della li bertà
, alla quale , come s'è detto , dedica la maggior parte del l'opera sua , ma
della quale noi ci sbrigheremo in poche parole . Questa è la parte più vecchia
della sua filosofia, e una delle meno logicamente dedotte dai principii della
sua speculazione . In essa egli sentì la forza del pregiudizio come impedimento
insormonta bile alla visione della verità più evidente ; e ci si vede la soprav
vivenza di una vecchia dottrina, che mal si connette all'orga nismo del nuovo
pensiero ; anzi vi rimane aggiunta e giustap posta come membro morto che
l'artificio collochi al posto di quello che manca in un corpo vivo . 91. Dal
suo concetto dell'unità metafisica dell'Io, dal suo con cetto delle facoltà
come semplici principii costitutivi della natura dello spirito , il Galluppi
avrebbe dovuto esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà,
che non sia quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e
d'illusorii ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità , intelletto
e volontà, di cui fa tre facoltà distinte , ma pur facendole scatu rire
dall'unico Io , non giunge a scorgerne la recondita unità . E veramente ,
separato l'intelletto dalla volontà, da cid che v'ha di umano, di spirituale
nella volontà , non è possibile altro con cetto di questa , all'infuori di quel
vuoto volere , che è il fonda mento della libertà bilaterale. 92. Questa è la
libertà a cui giunge il Galluppi : la libertà per cui nell'atto stesso che
vogliamo , potremmo non volere ; quel po tere, che non si esercita , e la cui
essenza stessa è di non esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo ( 2) .
Questa libertà del volere è determinata nettamente dal suo confronto con la
necessità del sillogismo . La coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di
tirare o non da due premesse quella data conclusione , laddove ci attesta il
contrario rispetto ai singoli atti del volere . E siccome ( 1 ) I , 318. Nella
Filosofia della volontà tutto finisce con la enumerazione di queste leggi.
Negli Elementi invece, come si disse, tutto il capitolo VI è dedicato ai Mezzi
per esser felice ( pp. 210-292). Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera
il piacere estetico ; e quindi i 88 71-85 contengono una breve trattazione di
estetica. ( 2) Elem . , V, 123. « La libertà , io dico, è il potere di volere,
o di non volere un og getto percepito ; Filos. d. vol. , II , 811. 266 CAPITOLO
VII la coscienza è quel fatto fondamentale, a cui il filosofo deve sem pre far
capo, la sua testimonianza basta a provare la realtà della libertà ( 1 ) .
Tutti gli argomenti contrari non reggono alla critica 93. Ma negli Elementi il
Galluppi , prima di appellarsi al te stimonio della coscienza, ricorre a un
argomento , che rivela su bito la paternità kantiana. Nella coscienza del
dovere e del pre mio o delle pene che spettano alle azioni si comprende , egli
dice, la coscienza della nostra libertà . « Non si comandano le azioni
necessarie , come non si comanda ad un sasso il cadere se non è sostenuto . Le
azioni necessarie non sono riguardate come meri tevoli nè di premio, nè di
pena.... La coscienza della legge in teriore contiene la coscienza della
propria libertà . Il comando suppone in colui , a cui è diretto , il potere di
eseguirlo e di non eseguirlo » . Devi ; dunque , puoi, aveva detto Kant . 94.
Non bisogna , del resto , porre il Galluppi fra le anticaglie pel suo concetto
della libertà . L'indeterminismo anzi è una delle con cezioni oggi alla moda ;
e non manca in Italia di rappresentanti ; i quali si sforzano di combattere il
concetto della direzione unica ed unilineare degli atti del volere , ponendo
nello spirito un irri conciliabile dualismo, che lacera internamente l'unità
dell'indi viduo umano, e sta quasi condizione necessaria, se non sufficiente ,
della libertà morale ( 2) . E ancora uno dei più acuti psicologi che abbia
l'Italia , afferma che il concetto del volere libero , « cioè non coatto
estrinsecamente (libertas a coactione), nè intrinsecamente (li bertas a
necessitate) è una verità , la quale, sebbene accanitamente combattuta da molti
e sotto molti rispetti , resterà sempre incon cussa per chi , scevro da
pregiudizii e forte nelle convinzioni morali , non si lascia smuovere da'
sofismi ne turbare dalle difficoltà » ( 3) . Il vero è , che una questione mal
posta non può aver mai la sua vera soluzione ; e potrà sempre far accettare or
l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero arbitrio è stata
ap punto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del con cetto del
volere , su cui si fondava. Giacchè, se si determina rigoro samente il volere,
è impossibile escluderne la ragione , e non vedere quindi , che se han torto
gl’indeterministi a difendere la libertas ( 1) Filos., II , 21 , 329 e passim ;
cfr. gli Elem ., V, 123. ( 2) Vedi la lodata opera del prof. IGINO PETRONE, I
limiti del determinismo scienti rico , Modena, 1900, pp. 105-6 ; 2.a ed .,
Roma, 1903, pp. 110-111; cfr . BOUTROUX, De la con lingence des lois de la
nature, Paris, 1895 , pp . 123 e sgg. ( 8) BONATELLI, Elem . di Psicologia e
logica , Padova, 1895 , p. 210. PASQUALE GALLUPPI 267 a necessitate, non hanno
minor torto i deterministi a combattere la libertas a coactione : gli uni
perdendosi in una vuota creazione dell'intelletto astratto , gli altri rompendo
nello scoglio fallace del meccanismo. E dire che non è mantato chi ponesse bene
la questione , e le desse quindi una soluzione da soddisfare le oppo ste
esigenze e dissipare tutte le difficoltà ! 95. Stabilita , comunque ,
l'esistenza della libertà morale, si tratta pel Galluppi di risolvere questo
problema: esiste un bene e un male morale ? E ne chiede la soluzione , anche
questa volta, alla coscienza . L'esistenza del bene e del male morale, e per
conseguenza di una legge morale naturale, è una verità primitiva attestataci
dalla nostra coscienza ( 1 ) . Darne una dimostrazione è impossibile, senza
avvolgersi in circoli viziosi , al pari di chi vo lesse provare allo scettico
l'esistenza e la realtà del nostro cono scere . La coscienza ci dice che esiste
una legge morale naturale, ossia necessaria ed originaria che si dice dovere :
indipendente dalla legge positiva , come dall'opinione altrui , valida nel
segreto dell'anima nostra . Donde viene a noi la nozione di essa ? Chi
indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di non ucci dere un uomo, di
rendergli il deposito , che mi ha confidato ? È la mia ragione , la quale
comanda alla mia volontà . « Son io che comando interiormente a me stesso .
Questo comando non mi viene dunque dal di fuori ; ma dall'interno del mio
essere » . Il predi cato dei giudizii morali è l'idea del dovere ; e questa
idea viene da noi , dice il nostro filosofo , non dagli oggetti. « La nozione
del dovere , egli dice anche esplicitamente , è una nozione soggettiva
essenziale alla nostra ragione » ( 2) . Meglio non si potrebbe dire. Altro che
rancidume, e idealità patristica e scolastica ! Nessuna più esplicita e più
coraggiosa proposizione avrebbe potuto pro nunziarsi in omaggio al moderno, al
vero soggettivismo . Sog gettivo il dovere , ma anche essenziale : questa è la
giusta defini zione non solo del vero soggettivo, ma anche del vero oggettivo ,
dopo Kant, quando bene s'intenda . E nella morale il Galluppi riproduce Kant
bene inteso , senza esitazioni e senza limitazioni. Annunziata la soggettività
del dovere egli dice con accento di sincerità commovente : « È questa una
verità per me evidente , e credo che tale sembrerà a chiunque vi rifletta di
buona fede » ( 3) . ( 1 ) Filos. d. vol ., IV , 38. ( 2) IV, 41 . Il corsivo è
dello stesso Galluppi. ( 3) Ivi . Tutto ciò trovasi anche negli Elementi, V, 91
. 268 CAPITOLO VII 96. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o
legislativa (tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla
ragione, e perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii
della morale , ossia i singoli doveri . Non uccidere : se questo precetto fosse
innato , dovrebbe esser tale anche l'idea di omicidio, la quale ci viene invece
dall'esperienza. « L'uomo è però costituito di tal natura , che la nozione del
do vere sorte, nelle occasioni , dal suo proprio fondo » ( 1 ) . Insomma, quel
che vi ha di a priori in Galluppi, come in Kant , è la forma del giudizio
pratico ; e la materia è data dall'esperienza . In che consista il dovere, non
è determinato in quella nozione sogget tiva ed essenziale , che costituisce la
Ragion pratica. Di a priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti
etici non havvi che il predicato onde si giudicano le azioni morali : cioè
appunto la forma. Soggettivista come Kant, Galluppi è del pari formalista nella
morale . 97. « La nozione del dovere, egli dice , sorte dall'interno di noi
medesimi, ed applicandosi alle azioni che si presentano allo spirito
costituisce quei giudizii, che sono precetti o comandi » ( 2) . « Questi
precetti, in conseguenza, son proposizioni sintetiche; poi chè essi sono un
prodotto necessario della sintesi della ragione, che aggiunge ad alcuni dati
atti liberi l'elemento del dovere... Questi giudizii , sebbene suppongano
alcuni dati sperimentali, non sono però sperimentali; essi possono, in
conseguenza, riguardarsi come giudizii a priori » ( 3) , - Questa dottrina non
ha bisogno di commento. In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico
riconosce la verità del sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella
Morale , che fu Kant ( 4) , « In varie parti delle mie opere filosofiche, dice
nella Filosofia della volontà ( 5) , io ho mo strato l'assurdità de' giudizii
sintetici a priori , ammessi dalla scuola di Kant ; ma i giudizii sintetici di
cui ho io parlato nelle mie opere di filosofia teoretica, sono giudizii
teoretici , non già giudizii pratici » . E negli Elementi di morale, al $ 37 :
« I giu dizii sintetici a priori teoretici mi sembrano assurdi . Ma dal l'esame
profondo della nostra facoltà di volere son forzato di am mettere i giudizii
sintetici a priori pratici, i quali son precetti. Mi sembra impossibile lo
stabilire altrimenti la moralità delle azioni » . ( 1 ) Elem ., V, 92. (2) Ivi,
ibid. (3) Filos. della vol. , IV , 46 ; Elem . , V, 120. ( 4) Elem ., V, 75. (
5) IV, 46 . PASQUALE GALLUPPI 269 98. Fuori di questo soggettivismo morale il
Galluppi , come il Kant, non vede altro che eudemonismo, o morale
dell'interesse, come egli dice ; e questa gli pare soltanto una morale
apparente (1). Quando s'intende la giustizia come un interesse bene inteso, si
fi nisce necessariamente col sommettere la giustizia a qualche cosa che non è
la giustizia . Distinguendo l'interesse bene inteso dal male inteso , « non si
pongono in opposizione due interessi diffe renti ; al contrario, si pone in
fatto, che non vi ha che un in teresse unico , che l'uomo giusto e l'uomo
ingiusto hanno egual mente in veduta ; e che fra essi non vi ha che questa
differenza , che l'uomo giusto è un uomo accorto , e l'ingiusto un imbecille »
( 2) . 99. Ora contro questa concezione morale militano tre argo menti. 1. ° «
La volontà dell'uomo virtuoso differisce intrinseca mente da quella dell'uomo
vizioso » . Laddove nella morale del l'interesse la volontà di entrambi è unica
; perchè entrambi vo gliono la cosa stessa : il proprio utile . 2. ° La virtù
vera è una dote del volere ; e nella morale dell'interesse, invece , sta tutta
nell'accortezza dell'operare ; poichè col cuore più perfido si può saper fare
il proprio utile ( 3 ) . 3. ° La legge morale dee essere asso luta ed
universale . Invece la morale utilitaria « è fondata su la situazione ipotica
dell'uomo , la quale, cambiandosi, cambia pari menti nell'uomo il principio di
direzione, e la virtù diviene vizio , il vizio virtù » . Sicché la morale
utilitaria è falsa , distruggi trice di ogni vera virtù si privata che pubblica
( 4 ) . La virtù è causa della felicità ; poichè , se diviene mezzo, cessa di
essere virtù ( 5) . 100. La morale è essenzialmente disinteressata : la virtù è
amabile per se stessa, indipendentemente dal premio, che la segue. Ma « la coscienza
di averla praticata dev'essere un piacere puro distinto dal piacere preveduto
dal premio , ed indipendente da questo » ( 6) . Nella Filosofia della volontà (
7 ) l'autore sostiene che se il principio dell'utile non può produrre la virtù
, nondimeno può concorrere col principio del dovere a produrla. Non manca
tuttavia di notare che tale concorrenza « non impedisce, che l'azione sia
prodotta dal principio disinteressato del dovere; poichè il princi ( 1 ) Filos.
d. vol., IV , 104. ( 2) Op. cit . , IV , 105 . ( 3) Il Galluppi non ammetto che
dall'utile proprio possa nascere l'utile altrui , che l'egoismo, come ora si
direbbe, possa generare l'altruismo . « L'uomo nulla può amare fuori di se
stosso se non per se stesso » . Fil. d . vol ., IV, 105 . ( 4) Op. cit . , IV,
107-9 ; Elementi, V, 8 32, pp. 98-103. ( 5) IV , 113. ( 6) IV , 147. ( 7 ) IV,
164. 270 CAPITOLO VII pio dell’utile in tal caso toglie solamente o diminuisce
gli ostacoli all'esercizio della virtù » ( 1 ) . Sicché , insomma, non è una
vera e propria concorrenza : l'azione morale è effetto unicamente del principio
del dovere assoluto e universale, categorico. Pare che il Galluppi si opponga
alla rigidezza razionalistica della morale del Kant ; ma in realtà sono
d'accordo nella medesima dottrina. 101. Negli Elementi l'autore pare accenni
veramente al Kant, dove dice ( § 33) : « Alcuni filosofi alemanni hanno preteso
che l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione
per la legge , senza alcuna specie di piacere , nè di amore. Una tal dottrina è
falsa , e contraria alla testimonianza irrefraga bile della coscienza » . Ma
egli spiega così il suo pensiero : « Non si dee esser giusto e benefico , per
esser felice ; poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di felicità
, non si do vrebbe abbandonare . Ma più la virtù sarà pura e disinteressata,
più vivo sarà il piacere , che risulta dalla coscienza di averla praticata
..... Il piacere unito all'esercizio del proprio dovere di spone all'azione
doverosa la volontà dell'essere ragionevole..... Ma non bisogna confondere le
conseguenze di un fine col fine stesso .... L'uomo virtuoso vuole il dovere per
se stesso : e questo è il fine ultimo della sua volontà ; egli , in
conseguenza, non fa il dovere per lo piacere ; ma il piacere non lascia di
accompa gnare la pratica del dovere » . Ora questa dottrina è in opposi zione a
un kantismo mal inteso : al kantismo cui s'allude dallo Schiller nel famoso
epigramma sullo Scrupolo di coscienza . Ma il Kant, in verità, non ammetteva
meno del Galluppi quel piacere che consiste nella soddisfazione che ci dà la
coscienza d'aver adem piuto il proprio dovere; ma come il Galluppi teneva a
distinguere questo piacere morale consecutivo all'azione virtuosa dal piacere
patologico a cui uò essere ispirata un'azione non virtuosa (2) ; ad affermare
che il sentimento morale è conseguenza non principio ( 1 ) IV , 165. ( 2) P.
es. nella prefazione alla Tugendlehre scrive : « Ich habe an einem Orte ( der
Berlinischer Monatsschrift) den Unterschied der Lust, welche pathologisch ist,
von der moralischen, wie ich glaubo, auf die einfachsten Ausdrücke
zurückgeführt. Die Last nähmlich , welche vor der Befolgung des Gesetzes
hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt werde, ist pathologisch , und das
Verhalten folgt der Naturordnung ; diejenige abor , vor welcher das Gesetz
hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in der sittlichen Ordnung » .
Werke ( ed . Rosenkr. ), IX , 221; cfr . Krit. pr. Vern . , in Werke, VIII ,
152-3. PASQUALE GALLUPPI 271 della moralità . Il Kant bensì osservava che il
piacere per l'atto virtuoso compiuto e il rimorso per il delitto presuppone che
si sappia apprezzare il valore del dovere e l'autorità della legge mo rale';
ond’è che la legge morale è il fondamento di questi senti menti, non viceversa.
Si deve essere , dice il Kant , almeno per metà di già galantuomini per potersi
fare un'idea di tali senti menti . Osservazione che mi pare perentoria contro
ogni specie di eudemonismo ( 1 ) . – Sicché, anche per questo rispetto, la
morale del Galluppi riproduce quella del Kant. 102. Nella morale il Galluppi si
attiene al criticismo del Sag gio filosofico . La sua morale, come quella di
Kant , è indipendente dall'esistenza di Dio. All'ateo, con la sola
considerazione dell'umana natura può provare l'esistenza del bene e del male
morale, in dipendentemente dalla considerazione dell'utile ( 2) ; perchè l'ateo
, qualora non voglia esser sordo alla voce della coscienza, non può non
riconoscere una legge morale, che gli comanda di esser giu sto e benefico .
Giacchè il dovere si conosce per se stesso , è un elemento semplice di tutte le
verità morali , che sgorga dall’in timo di noi stessi . Le difficoltà da altri
incontrate a dedurre dalla natura umana per sè considerata la legislazione morale,
derivano dalla inesatta e incompleta comprensione di questa natura ; cui si
attribuisce solo il principio dell'utile e si nega il principio mo rale . « Si
parte dal principio che nella natura umana non vi può essere altro principio
razionale di azione che quello della pro pria felicità ; ora qual meraviglia
che partendo da un principio insufficiente a generare il dovere non si giunga
ragionando con conseguenza ad una verità pratica ? » ( 3) . Anzi , secondo il
Gal luppi , l'idea di Dio non è sufficiente a spiegarci l'origine del do vere :
perchè una conoscenza teoretica non è sufficiente a generare un principio
pratico. 103. Ma, diceva il Genovesi, la ragione umana è fallibile : è spesso
traviata dal personale interesse ; epperd i suoi dettami non possono essere
norma delle nostre azioni . E il Galluppi replica , che questo scoglio non si
evita certo con la tesi dell'origine di ( 1 ) Cfr. del resto questo passo del
GALLUPPI: « I difonsori della moralo dell'interesso bene riguardano il rimorso
come motivi , che debbano determinar l'uomo a fare il proprio dovero ; ma noi
sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee fare e fa il proprio dovore per se stesso
, indipendentemente dagli effetti che seguono dalla pratica della virtù e da
quelli del vizio » Filos. d. vol. , IV , 241. ( 2) Filos. d. vol. , IV , 238. (
3) IV , 250 . 272 CAPITOLO VII vina della morale . Perchè la legge morale
bisogna sempre che sia conosciuta dagli uomini ; e conosciuta , naturalmente,
per mezzo della loro ragione . Nè maggior valore ha l'argomento a cui ar
restavasi il Tamburini : che non si può concepire legge senza legi slatore . Il
legislatore , dice il Galluppi , è essa la ragione , in quanto ragione pratica
. 104. Un ultimo punto d'incontro del Galluppi col Kant è il seguente . Secondo
il filosofo italiano è un principio essenziale della ragion pratica che la
virtù è degna di premio , il vizio è degno di pena : giudizio sintetico a
priori. Ora, se noi crediamo a questo principio , dobbiamo pure credere
all'immortalità del nostro spirito ; perchè l'uomo virtuoso in questa terra non
è sempre felice, nè sempre sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser
punito intanto è indimostrabile, come che la virtù debb’esser premiata : è
indimostrabile, perchè è un giudizio sintetico . Ma è legge inalte rabilmente
impressa nella realtà del mio essere ; è la voce di quella ragion pratica, che
è la legislatrice delle nostre azioni , e che non ci pud ingannare, se la virtù
non è nome vano . Uno stato è ne cessario in cui quel principio abbia il suo valore
reale , la sua piena esecuzione . Inoltre , io trovo nel santuario del mio
essere la necessità d'una ricompensa della virtù e d’una punizione del vi zio ;
vi trovo pertanto la necessità di un giudice supremo. Vi è dunque
un'intelligenza suprema, infinita , assoluta , che si manifesta a tutti gli
esseri intelligenti . Questo supremo legislatore e giu dice è Dio ( 1 ) . È,
comesi vede , su per giù , la teoria kantiana dei postulati della ragion
pratica. 105. Ma il Galluppi sente la difficoltà che s'oppone a una de duzione
teoretica da un'esigenza morale, e si domanda : possiamo noi su la semplice
esistenza delle nostre affezioni in noi, stabilire la realtà degli oggetti di
esse ? Anche al Kant si affacciava un problema simile ; e faceva escogitare
quella teoria del primato della ragion pratica sulla ragion teoretica, che è
una vera rinun zia a ogni diritto di vero e proprio filosofare , e perciò a
ogni fondamento filosofico della stessa morale ( 2) . Il Galluppi non fa motto
di questa teorica , forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via
per distrigarsi dalla difficoltà ravvisata . Ma non pare che le ragioni trovate
lo persuadano bene. Giacchè , infine, ( 1 ) Elem ., V, § 42, pp. 138-40 . ( 2)
Vedi le ottime osservazioni del prof. SEBASTIANO MATURI , Principii di
filosofia , Napoli, 1837-98, pp. 14 e sgg . PASQUALE GALLUPPI 273 1 si prova a
dimostrare l'immortalità dell'anima, indirettamente, dimostrando che non si può
provarne la mortalità . Se pure que sta può dirsi dimostrazione. 106. Egli dice
in sostanza, dopo qualche esitazione : l'esperienza ci mostra che gli oggetti
delle nostre affezioni sono reali ; ma fra le nostre affezioni c'è la tendenza
alla immortalità ; dunque l'anima è realmente immortale. Bisogna riconoscere
che in gene rale le nostre tendenze naturali non sono defraudate del loro
oggetto . Una di queste tendenze è la curiosità . E « non possiamo noi forse,
dice il Galluppi, spesso soddisfare la nostra curiosità ? » . Questo spesso ,
veramente , guasta, e non poco , l'argomentazione dell’autore ; il quale si
contenta di constatare con l'esperienza : « non vi ha alcuna tendenza nel cuore
umano la quale non possa qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende » .
Qualche volta ! Dunque l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla
d'apodittico : è meramente problematica . Per dirla schietta, il nostro
filosofo è convinto che « il domma dell'immortalità » im porti alla filosofia
morale « come il più fermo sostegno della virtù infelice ed un freno potente
alla licenza del vizio » ; ma chiuso nel suo sperimentalismo, ignaro degli
espedienti mal fidi del Kant, non sa fondare teoricamente il suo principio ,
non sa darne una giustificazione filosofica ; più filosofo nella sua impo tenza
degli odierni prammatisti, che con la maggiore disinvoltura creano una
metafisica per uso e consumo della morale, quasi che lo spirito avesse fine più
degno del vero ; quasi che il bene potesse fare a meno di essere il vero bene.
107. Stabiliti comunque i suoi principii generali della morale, che , come s'è
notato , sono principii essenzialmente formali, come tutti i principii
soggettivi, si può rimproverare al Galluppi ch'egli ne deduca i singoli doveri
( 1 ) . Ma anche in questo egli s'accorda col Kant, la cui Dottrina della virtù
, nella seconda parte della Meta fisica dei costumi, per quanti sforzi facesse
l'autore di salvare il suo formalismo , è in assoluta contraddizione col
principio for male da cui si vuol derivare . Il formalista così nella logica
come nella morale deve lasciare alla storia il compito di dare un con. tenuto
alle leggi soggettive , epperò necessarie ed universali, dello spirito . 108.
Certo , con tutti i suoi difetti , che non sono solamente suoi, anche nella
morale il Galluppi rappresenta un progresso immenso ( 1 ) Elem . della filos.
morale, cap. V. 18 274 CAPITOLO VII sui filosofi precedenti. In conchiusione ,
egli con le sue ispirazioni kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la
moderna gno seologia post-cartesiana si libera dalle angustie del sensismo e
dello spiritualismo dommatico ; e inizia in Italia un nuovo periodo speculativo
; nel quale il nostro pensiero, rinsanguato delle idee più vitali della
filosofia tedesca . si solleva col Rosmini e col Gio berti a un'altezza non più
toccata da noi dopo i grandi pensatori del Rinascimento.Galluppi. Pasquale Galluppi. “Galluppi errs in calling natural
semiotics, ‘il linguaggio dell natura,’ since no tongue is involved!” But we
can forgive him for that since he genially realizes, unlike King Alfred, that
one can use ‘dire’, ‘con questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada
da B in C” Segno figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para
figurar paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better
than Locke. He notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural
fact that men will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he
calls ‘natural sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as
when he sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he
calls il ‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a
gesture – with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the
‘proposizione’ being communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent
to the proposizione that the compagno is to ‘turn his attention towards the
utterer’ – In the ‘natural’ sign, as used in communication, we are already in
the realm of the artificial – only a black cloud naturally means rain –
Galluppi hardly dwells on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes
that we progress. And he keeps looking for the reasons in the utterer and the
addressee for all this. So like me, he looks for a motivational rationale – a
‘semantic’ freedom – or ‘prammatica’ as he would say. Since he is an
illuminista, he is only concerned about this in terms of a minimal taxonomy of
signs. So between the signs used in communication he distinguishes three types:
the imitative, the indicative (different criteria) and the figured sign – not
figurative – ‘segno figurato’ – when a lot of pantomime takes place. It is only
THEN that he explores the arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters,
“Where are you?” – so since this worked, they agree that ‘Where are you’ will
mean, “I lost you – where are you?” --. And then we have a full lingo – or
semiosis. He rightly thinks that his is an improvement over Lucrezio!” Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto,
grido, gemito, moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno
naturale, segno istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua),
segno arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato,
segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare,
sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana –
Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per
Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758115582/in/dateposted-public/
Grice e Galvano – arte naturale –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Galvano; he has
philosophised on aesthetics, on ‘spirit and blood,’ and on polytheism, citing
Sallust!” Frequenta la scuola a via Galliari, animata da Casorati. Fonda L'Unione Culturale di Torino. Promuove il “Movimento Arte Concreta” – cf.
Arte Astratta – Insegna all’Accademia Albertina. Dizionario Biografico degli
Italiani. FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA E ASSOCIAZIONE LUCANA CARLO
LEVI Pino Mantovani Luca Motto
Albino Galvano Fare, pensare, vivere la pittura
"i P____—_ mm gr s_———m dz de
__—2zpA—A_t} PA "o Scritti di
PINO MANTOVANI LUCA MOTTO ALESSANDRO BOTTA ADRIANO
OLIVIERI ALBINO GALVANO Fare, pensare, vivere la
pittura Aver puntato il senso della propria vita sui segni e sui
colori sarà stata magari una puntata inutile ma non elusiva e non
insincera | [ALBINO GALVANO, 1980] FONDAZIONE GIORGIO
AMENDOLA AssociaziIoNE LUCANA IN PieMONTE Carto LEVI
MOSTRA D'ARTE TRENTENNALE DI ALBINO GALVANO Torino,
marzo-giugno 2021 presso la Sala Mostre dell’Associazione Lucana Carlo
Levi e della Fondazione Giorgio Amendola Con il Patrocinio di Con
la collaborazione di REGIONE CONSIGLIO wc I GALLERIA | NE }
CITTA DI TORINO olii MIN FEONIE DEL PIEMONTE att Sen DEL
PIEMONTE Il 2020-21 è stato un biennio segnato dalle notevoli
difficoltà imposte dalla pandemia da Covid-19. Alla luce delle molte
restrizioni, la Fondazione Giorgio Amendola ha cercato, nel limite del
possibile, di proseguire con le proprie attività di divulgazione e promozione
culturale adattando spazi e metodologie alle esigenze del periodo,
rispondendo all'emergenza coronavirus con iniziative dinamiche e
creative, passando per la fruizione digitale per permettere agli utenti di
restare a casa, come le disposizioni prescrivono, senza perdersi dei
contenuti culturali. Sotto questa prospettiva e, nonostante le
molteplici difficoltà, il lavoro svolto per ricordare, a trent'anni dalla
sua scomparsa, l'artista torinese Albino Galvano (1907-1990) è stato importante.
La Fondazione Giorgio Amendola ha ritenuto opportuno offrire alla città di
Torino e non solo, la possibilità di accedere gratuitamente all'incontro
con l’opera artistica e intellettuale di una delle figure di spicco del
panorama artistico italiano della seconda metà del novecento. L'iniziativa, di
rilievo nazionale, ha permesso di raccogliere artisti e intellettuali di
tutta Italia che hanno collaborato con Galvano e che tuttora ricoprono un
ruolo fondamentale nella produzione culturale del nostro Paese.
Prospero Cerabona Presidente della Fondazione
Giorgio Amendola Studi, Convegni, Ricerche della Fondazione
Giorgio Amendola e dell’Associazione Lucana Carlo Levi
54 Presidente Fotografie delle opere PROSPERO CERABONA MARCO
CORONGI Curatore mostra e catalogo Direttore Responsabile PINO
MANTOVANI PROSPERO CERABONA Scritti di Redazione PINO MANTOVANI,
LUCA MOTTO, ALESSANDRO BOTTA, ADRIANO OLIVIERI DOMENICO CERABONA, MARIA SOFIA
FERRARI Progetto ed allestimento PINO MANTOVANI, LUCA
MOTTO, EDITRICE IL RINNOVAMENTO —” Fotocomposizione ©
EDITRICE IL RINNOVAMENTO Ente promotore Fondazione Giorgio
Amendola VIDEOIMPAGINAZIONE GRAFICA DI TESTI E IMMAGINI Associazione
Lucana in Piemonte Carlo Levi VIA TOLLEGNO 52 - 10154 TORINO TEL. 0112482970 —
cerabona@libero.it Si ringraziano per il prestito delle opere e la
collaborazione: Galleria del Ponte (Torino), Civica Galleria d'Arte
Contemporanea Filippo Scroppo (Torre Pellice), Stefania e Stefano Testa,
Liliana Dematteis, la famiglia Maggiorotto e tutti gli altri prestatori che
hanno preferito restare ano- nimi. Si ringrazia Francesca Barzan per la
realizzazione delle docu-interviste. Sommario Albino
Galvano e la pittura Pino Mantovani Albino Galvano: la fedeltà alla pittura
Luca Motto Da discepolo a interprete. Albino Galvano e Felice Casorati
Alessandro Botta Gli occhi fervidi e il sapore di cenere.
Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Adriano Olivieri
Opere esposte ARTE DI VENEZIA 1954
GATMAZH TEAOZ GANATOZ XXVI: ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE
D GALVANO ALBINO BIENNALE (267) Foto
Giacomelli - Venezia FOTOTECA ASA. Albino Galvano e
la pittura Pino Mantovani Da pittore, Albino Galvano pone
tre livelli d’inda- gine; come qualsiasi artista intelligente, se non
fosse che, nel caso suo e di non molti altri, i tre livelli si
presentano specialmente complessi e coltivati con con- sapevole
separatezza e problematica interconnessione: Il primo livello
comporta chiedersi che pittore Galvano sia stato e, ovviamente,
interrogarsi sulla specie e sulla qualità della pittura (delle pitture)
che ha messo in opera nel lungo percorso, sicuro e tortuo- so, che
lo ha impegnato pressoché ininterrottamente dalla fine degli anni Venti
(era nato nel 1907) fino alla morte, nel 1990. Il secondo
livello comporta mettere a fuoco la concezione (le concezioni) ch'egli ha
elaborato della pittura, in quanto da critico (e autocritico: nella
sua scrittura, l’autoritrattoè un vero e proprio genere!) si è
occupato dell’arte, in particolare della pittura, conuna intensità, una
pervicacia, una curiosità sempre sveglia, direi aggressiva, in un'epoca
provocatoria e insieme minacciata dalla condiscendente banalizzazione.
Ma, forse, il nodo più difficile da sciogliere è quale rapporto ci
sia tra il praticante pittura (‘[...] è questa l’arte — scrive di sé nel
‘46 — della quale ab- biamo, bene o male, una qualche esperienza
vissuta e [...] non crediamo se non ai discorsi che nascono da questa
esperienza”, dove si radica anche la mi- litanza del critico) e il
teorico che usa gli strumenti del filosofo, dell’antropologo, dello
psicanalista, dello storico (da competente, eppure mai imprigionato
dallo specialismo? e anche meno dall’appartenenza'*)
1 Sipuòdaffermare che ogni suo scritto è occasione per una au-
toanalisi. Come, d'altra parte, che l'autobiografia non è mai cro- naca
contingente, invece occasione per andare oltre la cosiddetta evidenza dei
fatti, per indagarne radici e proiezioni. 2 A. Galvano, La pittura,
lo spirito e il sangue, in “Tendenza” n.1, Torino, ripubblicato in A.
Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Il
Quadrante, Torino 1988; in A. Galvano, Diagnosi del moderno, a cura di A.
Ruffino, Aragno editore Torino, 2018. 3. G. Gallino, in
Attraverso il Novecento: Albino Galvano, Atti del Convegno, Torino 1997 a
cura di M. Pinottini. Bulzoni editore, Roma 2004, pag. 45: "Se ...
l’eclettismo diventa una condizio- ne dell'esercizio dell’arte, è anche
la qualificazione dello status dell’intellettuale, che, in ogni specifico
ambito d'indagine, è sol- lecitato a non perdere di vista la visione
d'insieme dei problemi. La polemica di Galvano contro la specializzazione,
quale esclusiva procedura del sapere, risponde a tale regola
metodologica. In- dubbiamente, in ogni attività culturale, è necessaria
una partico- lare competenza, ma, al di là del suo confine, s'impone
l'esigenza del controllo unitario dei suoi esiti e delle sue interpretazioni”.
A. Ruffino, (Com)plessi galvanici, introduzione a Diagnosi del mo- derno,
cit., pagg. XIII-XIV: “Contro lo specialismo, ... Galvano ha sferrato una
controffensiva senza tregua e a tutto campo: sul pia- no pratico, opponendo
al tecnicismo la tèchne (nel suo caso quella pittorica); sul piano
morale, opponendo alla provvisorietà della posa il rigore della presa di
posizione (ma mai irrigidita in partito preso); sul piano estetico,
opponendo ai miraggi di progresso illi- mitato espressi dal Funzionale le
ragioni dell’Organico, capace di suscitare creazioni vive”. 4
Interessato “da una parte all'eredità del tardo romantici-
A. G. con Mariacarla e Pino Mantovani, Racconigi, 1980. per
affrontare la pittura, alla quale riconosce una singolare
centralità. Tutti questi temi mi hanno per decenni accom-
pagnato e sollecitato. I miei primi interventi su Galvano pittore
risalgono, infatti, all’inizio degli Ottanta: data 30 novembre 1980, la
presentazione ad una personale presso la Galleria Maggiorotto di
Cavallermaggiore, seconda di una serie dedi- cata ai protagonisti del MAC
torinese; ma già nel marzo dello stesso anno avevo tracciato, con
la collaborazione dei miei allievi in Accademia, un quadro della
pittura degli anni Cinquanta a Torino nel Museo Civico di Casa Cavassa a
Saluzzo’, sulla falsariga delle indicazioni che Galvano aveva for-
nito a T. Sauvage? per una storia ancora regionale dell’arte italiana nel
Dopoguerra; e nel 1983 sul catalogo della mostra Arte a Torino,
1945-1953” nel smo e del decadentismo:
Mallarmé e Bergson, ‘esoteristi e filosofi della vita’, psicanalisi ed
esistenzialismo, dall'altra alla severità dello storicismo crociano e
all'esempio del rigoroso metodo cri- tico negli studi di storia dell’arte
[...] Lettore di Klages, di Jung o di Guénon, ma anche studioso di Kant e
di Hegel” (A. Galvano, Perché non possiamo non dirci crociani, in
“Numero”, n. 3, 1953. At- tento a Freud come a Jung. Curioso delle
storie, nel tempo e nello spazio, pronto a coglierne, nella comune
umanità, le differenze e le istruttive potenzialità. 5
PitturaaTorinoneglianni cinquanta, a cura di G. Mantovani, cata- logo
della mostra, Museo Civico di Casa Cavassa, Saluzzo 1980. 6 T.
Sauvage (pseudonimo di A. Schwarz) Pittura italiana del Dopoguerra; Ed.
Schwarz, Milano 1957, il testo fu ripubblicato con integrazioni e il
titolo La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, in “Let- teratura”, n. 1,
Torino 1960, successivamente in A. Galvano, La pittura..., cit. pag. 135
segg; e A. Galvano, Diagnosi..., cit., pagg. 393 segg. 7 Arte
a Torino, 1945-1953, a cura di M. Bandini, G. Mantovani, F. Poli,
catalogo della mostra, Torino 1983 salone d’onore dell’Accademia
Albertina, dedicavo a Galvano il mio intervento, anche oltre gli
anni definiti nel titolo. Mi troverò, pertanto, a incro- ciare in
queste pagine scritti pubblicati in un arco di tempo di circa
quarant'anni, con il proposito, spero non solo narcisistico, di
organizzare in di- scorso unitario contributi sparpagliati e spesso
di non facile reperimento. Proprio dalla presentazione
Maggiorotto — poi variamente elaborata per occasioni ulteriori
dedicate appunto al MAC, come il catalogo per la esposizione del
MAC torinese sempre curata dalla galleria Mag- giorotto alla Expo Arte —
Fiera Internazionale di Arte Contemporanea di Bari (1982), la
presentazione del catalogo Albino Galvano, Proferio Grossi, Luiso
Sturla, Artecentro, Milano 1994, fino al saggio sul movimen- to torinese
nel volume per la mostra MAC/ESPACE TORINO È VIa S. GIULIA
12 TORINO 370 ‘ Pre.
A. PARISOT |F. SCROPPO Bollettino «Arte Concreta» n.
9, 1952 e n. 12, 1953. all’Acquario di Roma, 1999°—mi parlogico
cominciare, non tanto perché uno dei primi approcci al tema —
allora potevo anche contare sul rapporto diretto con Galvano, ma devo
dire che la sua disponibilità non era invasiva e tanto meno arcigna
rispetto alle inter- pretazioni che venissero proposte del suo
impegno — quanto perché vi si pongono i fondamenti del mio
interesse per l'artista /critico / filosofo. L'incipit che sceglievo
allora mi pare sia ancora il migliore possibile; non mio, intendiamoci,
invece proprio di Albino che 8. Loscrittosarà rielaborato come
prefazione a A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, cit.
9 P. Mantovani, Pittori concreti a Torino, in MAC-ESPACE - Arte
concreta in Italia e in Francia, 1948-1958, a cura di L. Berni Canani e
G. Di Genova, catalogo della mostra, l'Acquario Romano, Roma, ed Bora, Bologna
1999, pagg.60 e segg. così aveva concluso un
asterisco sul Bollettino “Arte Concreta”, n.12, 195310 ; “E
scopriremo che è un programma [quello del MAC le cui premesse erano già
nei romanzi dei tempi della nonna? Tanto meglio, almeno avremo
evitato l'equivoco più antipatico che grava sull'arte astratta: che
si tratti di cosa moderna 0, peggio, d'avanguardia”. Una fulminante
risposta al nemico Leonardo Borgese che sul Corriere della Sera, aveva
definito A’ rebours di Huysmans, “un vecchio romanzo dell’800”,
fonte peraltro “di tuttele velleità estetiste dell'avanguardia”:
fornendo unovvio spunto polemico — non saprei quan- to consapevole, nel
caso addirittura masochistico — a chi da anni si occupava del rapporto tra
le cosiddette “avanguardie” ela linea dal Romanticismo al Simboli-
smo; ma anche agli amici di Milano che si riconoscevano nel programma di
Sintesi delle Arti pubblicato nello H |
FIL sintesi allo studio b 24 dal 21-2 al i: se
? i fi 5 5! È s7
A. G. riproduzione di Verso Occidente, Biennale di Venezia
1952. stesso Bollettino, che prevedeva “il diretto concorso
di tecnici e artisti, sul piano della stretta collabora- zione, per il
raggiungimento finale d’un concreto il quale aderisca alla funzione in
armonia di colleganza fra il mondo della forma, lo spazio e
l'applicazione pratica dell’opera collettiva”! viva il design, la
grafica e l'estetico diffuso, dunque. Come non bastasse, Gal- vano
conclude l'asterisco citato rigettando qualsiasi attualismo:” Che bel
giorno quello in cui potremo lavorare in pace al compito che la storia ci
ha affidato, certi che nonè sulla misura della contingente
attualità 10 L'asterisco, cioè l'osservazione,
la messa a punto marginale è il contributo che Galvano sceglie per
intervenire criticamente liberamente sui Bollettini del MAC (e
altrove). 11 E Passoni, Le arti e la tecnica, “Arte Concreta” 12,
1953, pag. 65, ried. anastatica, a cura della galleria Spriano, Omegna,
1981. , , che il nostro lavoro verrà
giudicato!”. Il fatto è che Galvano non intende escludere tutta la
complessità di rimandi e proiezioni, soggettivi ed oggettivi, che i
linguaggi dell'immagine — specialmente quando non siano troppo condizionati
da tecniche o ideologiche motivazioni — si portano dietro e dentro, e
che, del resto, la cultura moderna indaga con particolare impegno e
analizza con rinnovata strumentazione, mentre altri linguaggi
dell’immaginario—la poesia, la narrativa, lamusica — stanno sperimentando
a tentoni forme “nuove” (o vecchie !? o antiche, al punto d’essere
“originarie”!). Neppure, d'altra parte, egli intende abbandonare la
pittura come linguaggio specifico, proprio quella tradizionale (tela,
carta o qualunque supporto piano, disegnoe colore, gesti e tracce a
formar figure !4); per quanto metta in conto uno spostamento
dall’iconico all’aniconico, dal descrittivo all’evocativo, dall’allusivo
all’emblematico, dal geometrico al rit- mico al gestuale; ciò che non precluderebbe
peraltro “la possibilità di uno scambio e di una penetrazione
sempre possibili nell'esercizio di una lettura figurativa per elementi —
segno, colore, movimento, materia ecc. 12. “Confessiamo di essere
segretamente d'accordo con Bor- gese [quando invita a rileggere A’
rebours]. Perché... l'essere agli antipodi [delle scelte di Huysmans e
delle preferenze in pittura del suo eroe Des Esseintes] è troppo
vitalmente legato a ciò che rifiuta per non riprenderlo su di un piano
meno esterno: e le cita- zioni dalla Blavatzky e da Steiner del Kandinsky
della ‘Geistige’, l'appartenenza a circoli teosofici di Mondrian giovane,
il fatto che uno dei primi scritti italiani sull'arte astratta sia di J.
Evola sono ben significativi di un rapporto ambivalente — di rifiuto per
la ca- rica letteraria, moralistica o immoralistica, del simbolismo
speso alla spicciola nell’allusività delle immagini e della messa in
scena, e insieme di accettazione di quel gusto di allusioni e
suggestioni, di segrete corrispondenze tra immagini e speculazioni — che
— nel- le sue due facce: sensualmente umbratile l'una,
simbolicamente intellettuale l’altra — tra il 1890 e questa metà del
nuovo secolo hanno ostinatamente tentato di aprirsi una strada — sia pure
af- fidandosi alla romantica barca ‘ebbra’- dalle varie forme di
resa alla prosasticità del realismo”. Ancora dall'asterisco citato di
Gal- vano in “Arte concreta” 12, 1953. 13. Azzardo un'ipotesi
(certo suggestionato dal recente catalogo della mostra La regione delle
Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, Elec- ta, Milano, 2020, in
particolare dal saggio di S. Bracalente, Licini oltre la geometria: una
primordiale genesi del mondo): che Galvano non abbia ignorato “Valori
primordiali”, e in particolare l’opera di F. Celiberti, anche lui
proveniente da studi di storia delle religioni, tanto importante per
Licini proiettato dalla fine degli anni Trenta oltre la geometria,
specialmente nell’incrocio tra teosofia, esisten- zialismo e
fenomenologia (Paci e Banfi), e per comuni interessi per Spengler,
Klages, Guénon ... e per l'alta poesia romantica. 14 “Dipingere con
colori e pennelli ... è stata una costante del mio lavoro nei suoi vari
cicli, anche quando come spettatore ho pregiato e difeso esperienze varie
e opposte. Ma è certo che, se tra il '75 e il ’78 ero venuto via via
recuperando alla mia pittura quell’attaccamento alle gidiane nourritures
terrestres che confessa- vo in un altro mio scritto, nei quadri qui
presentati esse hanno perso ogni ghiottoneria che non sia quella
dell'occhio contemplan- te: in bocca è solo sapore di cenere. Ciottoli,
fossili: l'eco della vita in ciò che non ha vita o non l’ha più”. A.
Galvano, Autopresenta- zione della Personale, Piemonte Artistico
Culturale, Torino 1985). Libretto di iscrizione a
magistero. — non diversi da quelli che consentono la
valutazione di ogni buona pittura”! Perfino le ‘’ giuste ragioni”
concesse ai concretisti milanesi sembrano far parte di un gioco alquanto
provocatorio, portando il discorso dal livello tecnico a quello culturale
ed etico, di una eticità sempre esposta, in un certo senso negativa
(“demoniaca”, nella cultura occidentale, di radice inevitabilmente
cristiana anche nella più spinta laicità). Già l’anno precedente,
nelnovembre del ’52, firmando con Biglione, Parisot e Scroppo quello che
a ragione o a torto è considerato il manifesto del movimento
torinese, Galvano aggira gli ottimistici programmi dei milanesi, espressi
nei manifesti dell’ Arte Organica, del Macchinismo, del Disintegrismo,
dell'Arte Totale!’ che sanno ancora tanto di Futurismo, e dichiara
che carattere essenziale nella scelta dei nuovi adepti è la
“responsabilità liberamente assunta sul limite più impegnativo ... di
lotta contro ogni conformismo e pigrizia intellettuale” nel campo della
pittura come in diversa applicazione estetica e pratica, senza com-
promessi e “senza pudore”. Il fatto è che Galvano (e
15. A. Galvano, presentazione della collettiva, Bordoni, Galva- no,
Jarema, Parisot, Scroppo, Galleria del Fiore, Milano 1954. 16 Cfr.
“Arte Concreta n. 10. 17. “L'unico atteggiamento ragionevole è
quello di lavorare at- tendendo colla sincerità di chi sa che lo spirito
ama le posizioni estreme ed attive , non i compromessi”. (A. Galvano,
L'evasione, in “Il Selvaggio”, 15 gennaio 1940, ripubblicato in A.
Galvano, Dia- gnosi del moderno (a cura di A. Ruffino), cit., pag.
28. con lui i pressoché coetanei Adriano Parisot, Filippo
Scroppo, Paola Levi Montalcinie i più giovani Anniba- le Biglione e Carol
Rama, per nominare tutti i torinesi che aderiscono più o meno convinti al
MAC)ha dietro le spalle una ventina abbondante d’anni di lavoro non
ovviamente mirato allo sbocco astratto. Basta pensare alla frequenza
orgogliosamente esibita fino all'ultimo della scuola di Felice Casorati
(sul quale elabora una piccolamaimportantemonografia che punta non
poco sulla stagione simbolista — sull'argomento si rimanda
all'intervento in questo catalogo di Alessandro Botta), al rapporto con
il neoimpressionismo dei Sei, in va- riante espressionista; al fatto che
egli medita, continua a meditare sul significato e sul valore della
scelta “moderna”, essenziale, inevitabile, ma problematica nelle
ragioni, nei modi, negli obiettivi; infine, che ha una formazione teorica
e storica — aggiungerei una struttura psicologica ed una educazione — che
non gli consentono di utilizzare a cuor leggero la strategia del
manifesto, di ascendenza futurista, e in genere le dichiarazioni programmatiche!8:
una questione di carattere e di stile oltre che di metodo e di
cultura. Del resto, Albino Galvano aveva già affrontato il tema in
testi antecedenti di alcuni anni, ne utilizzo uno in particolare:” La
pittura, lo spirito e il sangue”, che uscì nel 1946 sul primo ed unico
numero della rivista “Tendenza”, nell’ambiziosa prospettiva dei
direttori responsabili — lo stesso Galvano e Pippo Oriani — Ri-
vista mensile di Arti figurative!. Certo esistono di Galvano saggi più
importanti come quelli che elenco innota?°, dove il tema è affrontato con
argomentazioni analitiche e storicamente complesse, ma continuo a
trovare snodo esemplare nella vicenda dell'artista il brevesaggio citato.
Anche la data è importante, a guer- 18. Il dubbio, lo scetticismo,
l'ambiguità come tensione fra op- posti sono fondamenti del suo metodo,
che non è irrazionale, in- vece di un razionalismo critico che mai cede
allo schema ideolo- gico o alla rigida consequenzialità. 19
Nonacaso ho scelto il titolo del saggio come titolo per la citata
Antologia di A. Galvano, edita dal Quadrante, Torino 1988. 20 Diversi
saggi di grande respiro, Galvano pubblica negli anni immediatamente
successivi alla seconda Guerra mondiale. Elen- co in ordine cronologico
quelli ripubblicati sull’Antologia citata, consenziente l’autore: Aspetti
del problema estetico dell’esistenziali- smo, Atti del Congresso
internazionale di Filosofia, Castellani e C ed., vol II, Roma, 1946;
L'esistenzialismo, a cura di E Castelli, Mi- lano 1948; Storicità e
significato dell’arte “astratta”, in “Archivio di filosofia”, vol. I,
Milano 1953, “Galleria di Lettere ed Arti”, n. 4-5, 1953; Medioevo e
Romanticismo, “Questioni” n. 2, 1955; Vita e forma in alcune ricerche di
estetica contemporanea, Atti del IIl Congresso In- ternazionale di
Estetica, Venezia 1956, edito dalla “Rivista di Esteti- ca”, Torino 1957;
Le poetiche del simbolismo e l'origine dell’Astrattismo figurativo, Studi
in onore di L. Venturi, vol. II, Roma 1956. All'elenco si aggiungono i saggi
pubblicati in successive occasioni: in partico- lare sul catalogo della
Antologica postuma: Omaggio a Albino Galva- no, a cura di P. Fossati, F.
Garimoldi, M. C. Mundici, catalogo della mostra, Circolo degli Artisti,
Torino 1992 e, con scelta assai più am- pia ma ancora lontana dalla
completezza, sulla recente antologia: A. Galvano, Diagnosi del moderno,
cit. ra appena finita; come significative le collaborazioni,
che elenco per segnalare la ricchezza e la varietà dei contributi, intesi
a coprire in tutta la loro estensione le cosiddette Arti figurative: C.
Mollino e U. Mastro- ianni, Monumento ai Caduti per la liberazione
d'Italia; R. Chicco, ... et le tableau quittè nous tourmente et
nous suit; I. Cremona, Dal cannone alla Secessione; A. Dra- gone,
Disegni, acqueforti e acquerelli di Cino Bozzetti; P. Oriani, Franco
Costa; C. Mollino, Gusto dell’Architettura organica; O. Navarro Il
messaggio della cultura; ancora A. Galvano, Woyzeck di Georg Biùchner, P.
Oriani, Breve discorso su due films di Cocteau. Aggiungo — e non è
un dato secondario—dopo una pagina redazionale, quindi di Pippo
Oriani “che proviene dall'esperienza futuri- sta” e dello stesso Albino
“che proviene dal purismo casoratiano e dal neoimpressionismo
venturiano”, dove si rivendica, dalle due parti inconciliabili (ma
l’inconciliabilità è segno di forza, di utile tensione) la gratuità
dell'atto creativo rispetto alla riflessione critica, e l'autonomia del
giudizio critico rispetto alle generalizzazioni dell'estetica, in un
tempo storico che minaccia di deludere chi aveva sperato che la fine
del regime politico e culturale comportasse il recupero pieno della
libertà e la sua pratica esplosiva. L'avvio del saggio è forte, al solito
compromesso, e ancora una volta lo propongo: “L'appello della pit-
‘LA PITTURA, LO SPIRITO E IL SANGUE L'appello della pittura
risuona dal profondu del nostro sangue — ancora con quell’urgenza —
come nei quindici anni quando sostituiva in camuff:imenti impegnati
sino alle estreme ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi o
i presentimenti sessuuli. Ma le vie dell'Eden sono perdute, e sarà vano
lo sforzo di ricostruire un itinerarioche approdi al- l’innocenza
d'allora, che vi riscatti la sin troppv chiara coscienza del carattere composito
e compro. messo di ogni atto umano che non sia di rinunzia: il
peccato fondamentale dell’arte. Invano da anni l'estetica crociana, non
per nulla irritata con il « fanciullino » pascoliano troppo
chiaramente preanunciante le scoperte freudiane {e contro Freud i
erociani si armeranno della più ipocrita in- comprensione) cerca di
riprendere e di legittimare, con la sterilizzata convinzione del
carattere « teore. tico» dell’arte, il troppo scoperto « alibi »
kan- tiano del « bello come simbolo del bene morale ». Credo siu
venuto il momento di confessare schiet- tamente che il bello, proprio
questo bello artistico che ci brucia sin dalla giovinezza ogni
possibilità di rassegnazione e di conformismo, è piuttosto il « sim.
bolo del male morale ». Tanto, anche eticamente. dla questa franchezza
non perderemo nulla. Soltanto Nietsche ha insistito con sufficiente
chia- rezza su questo carattere, profondamente « vitale » e perciò
profondamente « immorale » dell'attività artistica: contro il quale assai
poco mi paiono va- lere le due obiezioni che implicitamente o
esplici- tamente vengono mosse dagli idealisti e dagli spiri.
tualisti. Se per i crociani — ma credo che in Gen- tile l'implicita
ammissione, inevitabile data l’iden- tificazione di arte e sentimento e
l’inseparabilità dell'agire dal conoscere, di quanto sì è detto,
fosse più che sospettata dall'autore anche se la reto. rica di cui
sempre fu ammalato gli impedì di am- metterlo in termini chiari; che tuttavia
non man- cano nei più diversi fra i suoi seguaci o avversari-
seguaci: dal primissimo Abbagnano disciogliente tatto il reale in
irrazionalità, appunto con una re- ducetio ad absurdum dell’attualismo,
all'Evola, al più recente Spîrito — se per i crociani, si diceva, la
scappatoia di ridurre l’arte a pura conoscenza, giocando sul doppio ruolo
confuso insieme del- l’« intuizione » permette di evitare lo spinoso
prò- blema, i recenti spiritualisti — ma anche fra di.
loro lo Stefanini, ad esempio, ammettendo una.« in- sufficienza
dell’arte alla vita» — pur nella auto- ì enza in ordine al proprio valore
peculiare, finisce collo svalutare moralmente l’arte — candi-
damente invece sermoneggiano sulle comuni radici del bello e del buono (nel
secolo scorso queste niaiseries di solito avvenivano su di uno
sfondo ontologistico vagamente giobertiano, oggi lo gnoseo- logismo
idealistico generalmente è rispettato anche dagli spiritualisti che
dell’idealismo dovrebbero es- ser avversari) e ci avvertono che il
tormento del- l'urtistu che insegue con il diuturno lavoro il
fan- tasma che sempre gli sfugge è profondamente mo- rale! ;
Dio volesse che fosse veramente così. E che si potesse sul serio
sperare che all'artista, dopo la conquista su cui ha tutto giocato, della
propria immagine, fosse anche riservato per soprappiù il paradiso
delle religioni e delle etiche! Sarà meglio invece guardarci
chiaramente in fac- cia e chiederci se veramente per il puradiso
provvi. sorio della bellezza non giochiamo la salvezza della nostra
anima — ammesso che «questa espressione abbia un senso: quello cristiano,
+ quello di una etica « laica » (ma generalmente è cripto-eristiana
anch'essa) — riconoscere per che cosa abbiamo scommesso; chè le
conseguenze del nostro « pari » atiche se lo avremo perduto non
diventerunno duv- vero peggiori per quest’atto di franchezza.
Rimane inteso che su questa rivista, che non è dedicata a studi
filosofici, non potremo farlo che sotto l'angolo della pittura; ma poichè
è questa arte della quale abbiamo, bene 0 male. una qual che
esperienza vissuta e poichè d'altra parte non crediamo se non ai discorsi
che nascono da questa specie d'esperienza, la cosa non sarà fuori
posto. La coscienza rimane inquieta. E poichè sente che tutto
nel problema implica la discussione delle CAROL RAMA
Disegno - 1944 Da «Tendenza», 1946, disegno di Carol Rama.
tura risuona dal profondo del nostro sangue — ancora con
quell’urgenza — come nei quindici anni quando sostituiva in camuffamenti
impegnati sino alle estre- me ragioni della possibile azione, gli slanci
religiosi o i presentimenti sessuali”. Geniale, perché collega
direttamente, intimamente la pittura (ma in genere i linguaggi creativi)
alla natura, al sangue appunto, affermando “il carattere profondamente
immorale dell'attività artistica” già sostenuto da Nietzsche,
negato o perlomeno arginato invece da Idealisti e Spiritualisti; e
insistendo sulla “presenza di una volontà — non risolta nella pura contemplazione,
né risolvibile, dato ilsuo orientamento verso l’immagine [...] La
cosaè particolarmente evidente nelle arti figu- rative e la multiforme e
aperta a direzioni divergenti attività [...] ne è il paradigma [...] Ed è
appunto ciò che è sfuggito all’idealismo, a causa della artificiosa
distinzione [...] di teoretico e di pratico, come al confu- sionismo
attualistico che confinando l’arte nella sfera dell’immediato sentimento
cade di fatto in un troppo semplicistico naturalismo. La distinzione fra
teoretica e pratica è certo valida, ma all’interno di ogni singolo
atto spirituale nella sua integrità, ché la vita spirituale presenta
questi due aspetti come facce sempre distinte, sì, ma sempre
inseparabili”. Conclude Galvano (e in questa direzione trova
sostegno nella fenomenologia di Alain?!, ne “L'Imma- culée Conception”
dei surrealisti e in Breton, più che nella poetica di Valery, almeno
quando troppo insiste sul pieno controllo cosciente dell'artista
nell’elabora- zione dell’opera): ‘Qui [...] bisogna pensare [...]
ad una volontà tutta inconscia, individuante e non ancora
individuata (come[...] Schopenhauer presentiva) e ad unopposto momento
rappresentativo che solo giustifi- ca il valore estetico dell'immagine
raggiunta negando nel sogno l’ebbrezza del movimento fisiologico”.
Con un salto di parecchi anni, dal 1946 de La pittura, lo spirito e
il sangue ad una autopresentazione 21
Utilissimal’ampia citazione in proposito da uno scritto ine- dito di A.
Galvano, riportata da F. Garimoldi Albino Galvano: pro- getto di una
nuova cultura, in Omaggio a Albino Galvano, cit., nota 12: “[in Alain
ovvero Emile Chartier] l'accento cadrà ... molto più che nell’estetica
idealistica, sul momento del fare che su quello del conoscere , e sulla
resistenza del mezzo sentita come condizio- ne positiva ed essenziale al
sorgere del fantasma artistico, fanta- sma che non sarà più un'immagine
al tutto congiunta a priori ad una materiale estensione che la traduce,
ma che sorgerà insieme all'atto di esecuzione e che soltanto a posteriori
rispetto a que- sto avrà la sua concretezza “ ... “L'opera non nasce
nella testa o nel cuore, nell’intelletto o nel sentimento, per poi essere
realizzata nella pietra o sulla tela, ma, direi, nel vivo pulsare del
sangue al polso quando questo gioca le resistenze e le tensioni, gli
scatti e le flessioni del pollice e della mano nell’urto con il
resistente ma- teriale. La scultura e la pittura sono meno la
realizzazione visiva di un'immagine mentale che la materiale traccia
lasciata da un gioco di ritmi fisiologici”. Sarà in particolare
Merleau-Ponty a sviluppare il tema, per esempio negli studi dedicati a
Cézanne. lino Vieeate colla (o crlize pus (olenda,
cuni (aza sr net&uk' a fr suina und la gut rin % NAM (dA Pene
più 0 me0 Ara la rr tn he Ut forata ME TISHOI: RE Peas LA LALA
Les al caso TU fi e fa dii Lo val poco comi pila
est; ua dn AA Prima pagina della lettera di A. G. a Adriano
Villata, 1980. del 1980 — scritta a mano “quasi si trattasse di una
lettera destinata solo all'amico [il “Caro Villata”, gallerista], nella
quale ci si può confidare e divagare come l'umore o la nostalgia
suggeriscono” —, Galvano ritorna sul rapporto fra il concepire e il fare,
tra il fare e il decodificare il senso in più o meno risolutive
lettere; ancora una volta mettendosi in gioco, ma senza alcuna
intenzione di assumere valore esemplare o chiedere scusa 0 simpatia,
esponendosi in tutto lo spessore di sensibilità e intelligenza, di impossibilità
(a meno che non si scelga o si accetti la rinuncia) di sottrarsi
all'impulso profondo. E anche senza compiacimento narcisistico: ci si
esprime non per coltivare l'emozione ma per darne testimonianza e, per
quanto possibile, esporla a sé e ad una analisi non priva di
crudeltà, comunque oggettiva. È interessante seguire il filo del
discorso, che nella scelta del tono dimesso non è meno teso del
solito. Prima motivazione del movimento pendolare tra pittura
e scrittura, così esposto al giudizio e all’ironia dei colleghi dell'una
e dell'altra banda: l'appartenenza “ad una generazione [quella di
Cremona, di Maccari, di Mollino, per restare tra amici] e ad un
ambiente 22 Ripubblicata in A. Galvano, La pittura,
lo spirito e il sangue, cit., pag. 29 e segg.; e in A. Galvano, Diagnosi
del moderno, cit. , pagg. 13-17.
All'inaugurazione di una sua personale, inizio anni ‘70. in
cui questo male, se male, era quasi una ragione di orgoglio”. Era la
generazione dei nati all’inizio del secolo, che raccoglieva dai
protagonisti del rinno- vamento dell’arte (secessionista o
avanguardistico, rappresentato per Albino, in primo luogo e per
sempre, dal maestro Felice Casorati), una eredità che era non meno
di esperienza materiale che di elaborazione intellettuale, un
atteggiamento aperto, anzi tentato da molteplici contraddittorie
curiosità e linguaggi espressivi (ma il quasi suggerisce l’affacciarsi di
qual- che incrinatura nella certezza adamantina esibita dai
predecessori, forse anche per il confronto inevitabile con una
generazione successiva che tornerà a proporre arroccamenti
specialistici). Seconda motivazione: ‘[...] Tutto quantohai
odiato o amato nei giochi e nella noia dell'infanzia alimenterà
peruna vita quanto produrrai, buono o meno chesial....] I
nutrimenti terreni avranno un bel essere filtrati in parole, in segni e
colori, in note, in spettacolo, il loro repertorio non muta, non lo hai
scelto, ma ne sei stato scelto, e tu sei quello che essi ti hanno fatto,
la tua libertà non può consistere che nell'essere loro fedele sino alla
fine, libertà di adesione non di ripudio, e libertà nella misura in cui
con il tuo ripensamento e il tuo scavo li trasformi da passivo esser
fatto in attivo assecondamento della sorte che essi ti hanno
assegnato, in obbiettivazione in cui il loro oscuro sgorgo, la loro
inconscia matrice, si chiarisce nell'opera, nel segno formato e
consegnato all'oggetto che ti rivela agli altri e in cui assumi
responsabilità di confessione e di 10 proposta”. Insomma,
è proprio il rilancio dal fare al pensare e dal pensare al fare che
definisce una identità intuita come destino e accettata come
scelta. Ma se rimane “ovvio” il rapporto fra i nutri- menti
terreni e ciò che uno diviene e fa nel tempo, è anche vero che “una
immagine retrospettiva di sé è sempre un’interpretazione che porta il
peso della mutata identità dell’interrogante, del penoso carico di
nostalgie, ricordi, rimpianti e rimorsi [...] e ogni interpretazione,
specialmente nell'impegno auto- biografico, è anche una falsificazione”,
per quanto cerchi di evitare tanto l’apologia ideologica quanto la
“disgustosa e mimetica” confessione personale. Giusto nel mezzo,
fra le due citazioni del 1946 e del 1980, nel 1960 (è il caso di
ricordare che è il tempo della svolta neodada e pop che mette in
crisi e addirittura annichilisce alcuni dei pittori più con-
vinti), Galvano mostra d’avere di questo destino ironica e malinconica ma
anche dura consapevolezza. Del fallimento egli tesse un sistema, secondo
i miti di Prometeo e Sisifo, riscoperti come”moderni” dal
Romanticismo all’Esistenzialismo. “Finis picturae? [...] Il punto si
identifica [...] con questo estremo di coscienza contraddetta e irritata:
la certezza che la via senza uscita dell’arte oggi non ha [...]
nemmeno l'alibi della professione, del successo, del guadagno, ma
soltanto il fascino senza illusioni di una fedeltà a un impegno
individuale, quasi di una scommessa con la propria intelligenza e con la possibilità
e i limiti del nostro stesso temperamento!”. Diventano così
esemplari l’ultima e penultima produzione di Galvano pittore, alla quale
viene dedi- cata in questa mostra una intera sezione, iniziata
verso la fine degli anni ’70 con i ciottoli le foglie i frutti, i
relitti, proseguita con “i paesaggi (rocce, alberi, isole), i nudi,
le macchie[|...]”:esemplare neltentare una trascrizione di
archetipi, congelati inluoghi comuni della pittura, tipi, generi e
maniere (il fascino baudeleriano dei luoghi comuni!). Ma già muovevano
nella stessa direzione ireos e cespugli d'inizio ‘70 — tracce che
regrediscono attraverso lamemoria nella gesticolazione elementare —
e prima i segni asemantici, prima ancora (siamo nella seconda metà dei
‘60) le bandiere, i nastri, i nodi e così via: tutte figure emblematiche,
primarie e coltissime, che niente hanno a che fare con la
semplificazione, la banalizzazione pop. La pittura ivi
coincide con la costruzione delle im- magininominabili (nona caso
varianti dell'icona della cosa, anzi del frantume, astratta da qualsiasi
contesto, su un fondo bianco che è il segno di una definitiva
separazione dallo scorrere fenomenico), e insieme la pittura è
automatismo oggettivo, registrazione fredda della emozione costruttiva
(se non creativa): infatti presentata tipicamente come nodo, descrizione
dell’a- 23 A. Galvano, La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi,
cit. »m®) da cor. 4 È "ut me rematori) E ua
Br su : Pa ù LE a
Con Gino Gorza a Palazzo Te, Mantova, 1988. zione
dell’annodare, avvolgere, intricare-intrigare, 0 dello sciogliere e
liberare (vedi la bellissima immagine scattata, credo, alla galleria
Martano). Ma è tutta la vicenda di Galvano pittore e critico
che val la pena di ripercorrere in mostra, sia pure per cenni e con
discutibili tagli. Danotarel’uso ch'egli fa dell’insegnamento
casora- tiano: del maestro, Galvano non assume passivamente il
“platonismo”, consapevole che il rapporto di Felice con la pittura è dal
principio e resta nel tempo un rapporto “decadente”, che diventa
eticamente “sano” e formalmente “classico” solo per un atto di
volontà tanto mirabile quanto falsificante; sarebbe meglio dire
critico, con vettore opposto, sia pure, a quella che sarà la scelta di
Galvano. Che il travestimentosia storicamente giustificato su un modello
rispettabilissimo come quello gobettiano, non vuol dire che la sua
sostanza più vera non debba essere riconosciuta nonostante,
attraverso la corazza ideologica e formale ritrovando il nucleo
profondo, ’malato”ma straordinariamente vitale. 11
Del Galvano degli anni’30-inizio ‘40, sarebbe da approfondire
l’espressionismo — che del resto condivi- de con altri della sua
generazione: Nella Marchesini, Paola Levi Montalcini, Piero Martina,
Italo Cremona, Carol Rama. In tal senso ci si potrebbe chiedere che
peso abbia avuto, localmente, Spazzapan che esaltava l'ispirazione e
deprecava l'istinto (viene in mente la teoria di Klages, che insiste
sulla attrazione magnetica traimmagine e “anima”, ben distinta, l’anima
ispirata e creativa, dall’istinto che è del corpo, come dalla
volontà decidente e dotata di facoltà riflessiva che è dello spirito”); e
anche Carlo Levi, l’unico dei Sei che partecipi intimamente all’espressionismo
europeo, e, fuori sede, i romani, Scipione in particolare al quale
Albino dedicò una bellissima recensione nel ‘40, che è lo stesso anno
della prima edizione del Casorati. In un saggio intitolato Perché
non possiamo non dirci crociani, in “Numero”, 3, 1953, Albino Galvano
sottolinea che la sua generazione “decadente” deve a Croce specialmente
questo: d'essere stata messa nella condizione di “accettare senza
malafede e senza rimorsi i dati di quella cultura di tardo
romanticismo che, così feconda quanto a ricchezza e sottile
sensibi- lità di ricerche particolari, tanto si è dimostrata inca-
pace di una sistemazione totale... [insomma di poter essere] decadente
malgrado Croce, grazie proprio al riscatto che il metodo crociano
offriva”. Che è un modo ottimo anche per comprendere come coerenza
di sistema e incoerenza pragmatica siano in Galvano strettamente
congiunte in dialettica tensione: la co- erenza consistendo nella
allarmata coscienza critica, nella responsabilità che non può consentirsi
“nessuna comoda complicità”, l’incoerenza nell'essere ogni scelta
un esito che, per quanto imperfetto, è sempre compromesso e
rappresentativo. Come a dire che la vitalità della ricerca costituisce un
valore, non meno che l'aspirazione ad una sistemazione che finalmente
rappresenti una “identità”, forse meglio “la libertà di essere identici
al proprio destino”. Perciò Galvano non intende, tanto meno come pittore,
tagliare i ponti col passato (il suo passato, oltre che la storia);
invece semina il cammino di tracce, di residui, vorrei quasi dire
fisiologici, di lapsus, così che in ogni momento il cammino sia
ripercorribile o almeno riconoscibile, ma anche sostituibile. Egli, in
effetti, sa che nulla va distrutto e non consuma sacrifici liberatori.
Per lui in particolare (adatto il titolo di un importante saggio
del ’63), La sublimazione astrattista non liquida l'erotismo del Liberty,
semmai ne prende le distanze, per poterlo rimettere in circolo, come in
un processo alchemico in perenne rinnovamento. Così Galvano
passa necessariamente da un con- cretismo geometrizzante, che di fatto
ironizza — ma non banalizza - la geometria come privilegiata ma-
24 A. Galvano, Per un'armatura, Lattes, Torino 1960, pag.
87. nifestazione della razionalità e della chiarezza, ad un
concretismo informale che libera la possibilità di una pittura scritta
usando il campo come tabula rasa 0 pagina intonsa, dove il gesto può
scorrere ed intricarsi, e/o come dimensione praticabile in tutto il
suo spessore magmatico, a sua volta ironizzato dalla scoperta di una
ritmica, di una metrica essenziale. Come adire che è nella pittura
(nell'arte) chesi realizza, assumendo evidenza di mito visivo — feticcio
laico — l'unico progetto possibile senza illusioni razionaliste e moralismi
ideologici. Un momento certamente fondamentale, sarei tentato
di dire il perno sul quale ruota il resto è quello attorno al’60: quando
la “natura” del gesto s'incontra felicemente conlo schema, generando una
concrezione araldica, l'intenzione simbolica con il simbolo ricono-
sciuto nella memoria collettiva; ennesima variante della tradizione
dell’ornato, raccolta e riavviata dal Liberty: insieme puro gesto e
automatismo assolu- tamente impuro. In questa mostra, il momento
avrà adeguata evidenza. Ma è anche vero che Galvano si guarda bene
dal protrarre artificiosamente quel momento (diciamolo pure,
straordinario, quasi senza confronto in Italia), tanto che si prenderà
negli anni immediatamente successivi, dal ‘62 al ‘65 circa, una pausa
di riflessione che produrrà anziché pittura saggi teorici che culminano
in Artemis Efesia, per riprendere il filo (la matassa) della pittura con
proposte (in appa- renza) assai differenti: le bandiere, i nastri, 1
padiglioni, gli anelli di Moebius. Che cos'è la pittura per
Galvano, allora? Scrive di lui nel 1974 l’amico / avversario
Giulio Carlo Argan, che ha scommesso sul progetto ideolo- gico,
vincente almeno per un certo periodo storico: “Egli non risponde una
volta per sempre, con una definizione filosofica: infatti ciò che vuol
sapere è che cosa sia la pittura in questa precisa condizione della
cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale sia il suo grado di
vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in uno spazio ogni giorno
più ristretto”. Non gli si potrebbe dar torto, se non fosse
che proprio l’opera e ciò che la sottende, l’opera come atto
critico, questo è appunto il suo contributo filosofico, e anche la sua
testimonianza sapienziale, che trascrivo da una autopresentazione del
19822: “Dunque [la pittura], una meditazione sulla morte
imminente [...] o il recupero della gioia ottica nello spazio ripercorso
in termini di colore e di luce, sia pure della luce irreale della memoria
e del sogno? O la scenografia di ambigue emersioni dall’inconscio?
Davvero non saprei dirlo, e, forse, è inutile porsi le domande. Forse
anche soltanto la monotona iterazione 25. G.C. Argan,
in catalogo della personale, Galleria Unimedia, Genova, 1974.
26 A. Galvano, Autopresentazione, in catalogo della mostra,
Piemonte Artistico Culturale, Torino 1982. 12 di una
passione per il dipingere, che ripercorre con insistenza sigle che non è
più capace di vivificare colla curiosità e il gusto avventuroso della
giovinezza”. Tante pitture, allora, e però tutte mirate ad essere
presenza di pittura e non illustrazione di concetti. Pittore concettoso,
a volte, mai concettuale nel senso di illustratore di concetti :
aggiungo,nel segno di una ine- ludibile, per quanto mascherata vocazione
poetica.” Devo citare, almeno una volta, Edoardo Sangui-
neti, allievo e amico, grande estimatore di Galvano: “Mi trovo [...]
forzato a pensare che, alle radici del lavoro di Galvano, come artista e
come studioso, stia un'immagine — è la parola giusta — che accenna
all'uomo come animale che è capace di immagine. E dunque un’antropologia
fondata sopra la facoltà della visione”, In formula perfetta,
a conclusione di Storicità e significato dell’arte astratta (1953),
Galvano aveva già precisato:“L'opposizione affermata da Mallarmé
tra la concretezza della vue e l’allusività delle visions,
l'affermazione di Alain che il poeta è l'opposto del visionario perché sa
di non vedere sino a che la mano non abbia realmente costruito nello spazio
l'oggetto che la passione progettava, sono divenute nella co-
scienza del pittore concreto l'imperativo di una scelta tra il peso della
memoria e la libertà pericolosa di una iniziativa tutta affidata al
risultato”. F. Garimoldi, nel saggio più volte citato”, sottolinea che
Galvano pone come centro dell’arte “l’insoluto rapporto fra
espressione ed enigma” (che cosa di più chiaramente collocato sulla linea
romanticismo-simbolismo come la vede Albino?), citando una autopresentazione
del 27, La seconda parte di questo scritto elabora
liberamente tre miei testi: in ordine cronologico, Témoignage de notre
dignité, in Fi- gure d'Arte, artisti a Torino dagli anni ‘50, a cura di
A. Balzola, R. Cavallo, E. Ghinassi, P. Mantovani, Alberti ed., Pescara
1991; A proposito del pittore Albino Galvano, in Attraverso il Novecento.
Albi- no Galvano, 1907-1990, a cura di M. Pinottini, Bulzoni ed.,
Roma 2004; Albino Galvano pittore, catalogo della mostra, Galleria
del Ponte, Torino, 2010. 28 E. Sanguineti, Contro la ragione,
“La Stampa”, 10 marzo 1990. Un libro singolare, dove Sanguineti è figura
nodale nella messa in circolo della “linea liberty” ancora nella seconda
metà del ‘900; li- nea che Casorati, Cremona, Mollino e Galvano avevano
mantenu- ta viva con originali apporti nella prima metà del secolo, è
L'altra faccia della luna — Origini del neoliberty a Torino di Elvio
Manganaro, Libria ed., Melfi 2018. Al libro citato devo la conoscenza di
un te- sto di Galvano: Processo alla pittura in “Il Selvaggio”, 15
novembre 1938, che dà originale contributo alla interpretazione della
vicenda artistica della sua generazione, che “si gioca tutto nello spazio
che separa le Uova del 1914 da quelle del 1920, o tra l’”Icaro senza ali
e le ali senza volo del Sogno...”, di Casorati naturalmente, perché
proprio Casorati era “appartenuto paradigmaticamente ai due mondi [...]
quello della figlia di Iorio e quello della Jeune Parque”... (E.
Manganaro, L'altra faccia della luna, cit., pagg. 168-170). 29 A.
Galvano, Storicità... cit., 1953. 30 EF Garimoldi, A. G. Progetto
di una nuova cultura, in Omag- gio..., cit., pag. 15.
‘77%:"Si dà arte solo quando il non differente operare a fini
strumentali o di puro edonismo è impedito e stravolto dai sedimenti di
una vicenda individuale che s'insinuano e dominano dove pretendeva
condurre il gioco la razionalità del progetto decisionale. A que-
sta condizione in ogni tempo si è cercato di opporre la dignità
dell’autocontrollo [...], certo vanamente, ma anche proficuamente perché
[...] la possibilità di coinvolgere gli altri [...] non consiste se non
nel pun- tualizzato istante di tensione in cui lascia materiale
traccia di segno o di tocco quel gioco d’insidie; l'istante in cui
l’inspiegata vicenda interiore si fa immagine ed emblema”.
Con Francesco Bartoli a Palazzo Te, Mantova, 1988.
Nota bibliografica La discutibile scelta di privilegiare la
pittura come via di accesso alle molteplici attività di Albino
Galvano, obbliga a segnalare gli autori che hanno af- frontato il caso
con particolare intelligenza e puntuale cultura filosofica.
E. Sanguineti, in catalogo Antologica, 1979; R. Tessari, nello
stesso catalogo, e Galvano e il mito, in Figure d'Arte, cit. 1991; G.
Carchia, Prefazione a Arte- mis Efesia, nella riedizione del 1989, cit.;
P. Fossati, F. 31 Autopresentazione, mostra personale, Galleria
Weber, Tori- no 1977. 13
Garimoldi, M.C. Mundici (a cura di), catalogo della mostra al Circolo
degli Artisti, cit. 1992; A. Balzola, Galvano e D'Adda: l'immagine
matrice, in Figure d'Arte, cit. 1991; G. Gallino, pagg. 27-46 e F. Salza,
Albino Galvano e Jung, in“ Attraverso il Novecento”, cit. 2004; A.
Ruffino, Introduzione in Albino Galvano — Diagnosi del moderno, cit.
2018. A parte, segnalo il “ritratto” che ne fa Paolo Fos-
sati, con riferimento prevalente agli anni Sessanta e Settanta,
presentando Omaggio a Albino Galvano nel 1992; e le memorie che in circa
trent'anni di colloqui — non di rado centrati su Casorati, Cremona e
Galvano — ho potuto raccogliere da Gino Gorza, l'unico artista di
generazione successiva che per cultura e gusto potesse essere accostato a
Galvano. Fu proprio Gino a volere una mostra comune — con il significativo
titolo di Sincronie — a Mantova in Palazzo Te, nel 1988; riannodando
il filo della presentazione che Albino gli aveva dedicato dieci
anni prima, per l’Antologica nello stesso luogo. Ricordo
all’inaugurazione del 1988 la presenza di Francesco Bartoli, documentata
anchein una fotografia dove il geniale interprete di Licini sembra
inchinarsi al geniale interprete di Artaud. Più recentemente,
sempre al Te, una giornata di studio dedicata a Bartoli è stata
anche l'occasione per rievocare la figura di Galvano con Roberto Tessari.
Anche Tessari è mancato. Prova di ritratto
Uomoriservatissimo, comea volte chi non si neghi alla mondanità, anzi se
la imponga come esercizio. La leggendaria disponibilità (senza
ombra di debolezza) realizza una delle forme più aristocratiche
dell'etica (per discrezione in maschera di rigore pro- fessionale).
Essenziale un fondo di malinconia, come misura di una perdita
irreparabile, e di nostalgia per una totalità irreversibilmente
frantumata. Tra distacco soggettivo e oggettiva commozione
scorre l’impurità di un continuare a vivere, si scrive in tracce
stenografiche il diario di un sedotto ... e di un seduttore per forza (di
un gentiluomo piemontese). Sensualissimo lettore; scrittore capace
di costruire macchine logiche come trebbie di tortura, e di
avvolgere in sontuose inestricabili ragnatele (costante una specie
di dolcezza, cui tanto meno resistono rigidi baluardi): trascurabile vi è
l'inganno, perché la circonvenzione è ignobile, specialmente d'incapace.
Come un dovere coltiva il diletto: su questo piano potrebbe essere
magistrale se non fosse troppo fine e pericoloso un tal modello. Nel suo
sistema, la pittura rappresenta il “concreto”. Distratto semmai da
irridu- cibile curiosità, non è mai astratto. Ireos, sassi e
conchiglie sigillano una storia so- stanzialmente coerente, perché osano
confronto con il principio e la fine: così su una pietra tombale si
posano cose e il tempo vissuto, relitti nudi, epifanie senza velo.
Omaggio a Albino Galvano Catalogo mostra
antologica, Palazzo Chiablese, Torino, 1979. Catalogo mostra antologica,
Circolo degli Artisti, Torino, 1992. Atti del convegno, a cura di M.
Pinottini, Torino, 1997. Antologia di scritti di A. G., a cura di
A. Ruffino, Aragno editore, 2018. Electa Piemonte
ATTRAVERSO IL NOVECENTO: ALBINO GALVANO (1907-1990)
a cura di Marzio Pinottini BIBLIOTECA DI
CULTURA / 657 BULZONI EDITORE 14
Albino Galvano: la fedeltà alla pittura Luca Motto
Il magistero casoratiano e la prima figurazione 1928 — 1944
Albino Galvano nacque a Torino il 16 dicembre 1907, l’anno
d'esecuzione delle Demoiselles d'Avignon di Picasso che segnò l’imporsi e
il susseguirsi delle avanguardie: « che nel bene e nel male
problematico [...]dovevanocaratterizzare, inconcomitanza concrisi
umane, politiche e sociali ben più gravi, ilnostro secolo sino a porre
oggi il problema della “morte dell’arte” qualunque cosa si intenda
sottolineare con questo termine apocalittico»!. Galvano pur muovendosi
nel solco della modernità, affondava le sue radici in una meditata
e personalissima assimilazione di riferimenti pittorici dell'Ottocento e
del primo Novecento, ben lontano dalla reazione e dall’inattualità.
Apparteneva all'ambiente casoratiano e alla sua scuola «divenuta il
centro di un'opposizione cortese, tacita che non esclu- de — la cosa è
molto torinese — rapporti amichevoli o per lo meno corretti con gli
avversari»?. Nel decennio 1918-1928 venne segnata la tempe-
rie di una Torino moderna (tuttavia non futurista) di seguito enunciata
in pochi assunti utili a comprendere l’ambiente artistico nel quale il
giovane Galvano s'in- trodusse: la comparsa di Felice Casorati alla
Promotrice del 1919 come artista rivoluzionario e di rottura; la
«breve esistenza » di Piero Gobetti e il suo cenacolo antifascista; le
polemiche e la reazione dell'ambiente cittadino alle scelte di «gusto»
antinovecentiste di Lionello Venturi rivolte all'arte di nuovi
«primitivi», gli impressionisti; il fugace percorso del gruppo dei
Sei di Torino (coagulato e promosso dal duo Persico e Venturi)che
rinunciarono a «Roma madre» per «Parigi amica»; e la vitalistica apertura
culturale europea del finanziere, collezionista e mecenate Riccardo Gualino.
Dopo un precoce apprendistato con il pittore Giovanni Pisano e il
maestro di disegno Vannini, l'educazione di Galvano all'arte
contemporanea si svi- luppò suriviste di settore (in
particolare”“Emporium” e “L'art vivant”) e attraverso la frequentazione
delle Biennali veneziane. Alla rassegna del 1928 Galvano poté
osservare dal vivo la pittura di Felice Casorati che rappresentò «la
scoperta del mondo nuovo e spre- giudicato che si apriva alla nostra
cultura: l'ingresso del mondo “moderno”»*. Al termine del 1928
si iscrisse alla Scuola Libera di Pittura di Casorati (sorta a Torino nel
1921 e struttu- ratasi maggiormente dal 1927 nella nuova sede di
via Galliari, antistante l'abitazione di Riccardo Gualino) e la
frequentò fino al 1930. Il suo magistero, lontano da
1. A. Galvano, Autobiografia, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura
di), Albino Galvano, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Re- gione
Piemonte, Torino 1979, pp. 17 — 18. 2 A. Galvano, Torino e i «Secondi
futuristi», in A. Galvano, Dia- gnosi del moderno. Scritti scelti 1934 -
1985, a cura di A. Ruffino, Nino Aragno editore, Torino 2018, p.
344. 15 Albino Galvano (al centro,
seduto) e (da sinistra, in piedi, tra gli altri) Filippo Scroppo, Daphne
Maugham, Rina Galvano, Danila Cremo- na, Felice Casorati, Carol Rama,
Leopoldo Bertolè, Valpellice 1949. «Ogni sistematicità
d'accademia»°, non fu solamente estetico ma anche pregno dell'eredità
etica e politica gobettiana: un debito verso quel «fanciullo puro»
che esigeva «fedeltà e non lacrime»®. Per Galvano il punto
fondamentale della sua formazione fu il trovarsi par- tecipe di un
ambiente che lo salvò «tanto dal rischio di un'adesione acritica al
regime imperante [...] e da quello ben più grave [...] di un'immersione o
som- mersione nella Torino di quel tipo di borghesia che amava in
pittura Giacomo Grosso». L'insegnamento del «platonico» Casorati, pervaso
«d’una signorile severità», verteva su l’«insieme» e il «tono».
Dalla monografia Felice Casorati di Galvano (1940, editore Hoepli,
Milano) si legge che il Maestro consigliava agli allievi di «imparare a
vedere il più semplicemente possibile [...] la forma di quella
determinata massa tonale, di quella determinata massa
chiaroscurale, non la forma dell'oggetto» [...]. La forma serve qui
a distruggere la linea ed a passare al colore [...]»*. Il clima
della scuola di via Galliari fu efficacemente narrato da Lalla Romano ne
Una giovinezza inventata: «Verso sera venivano sovente visite: Alberto
Rossi, Mario Soldati, Carlo Levi. Levi ridacchiava — con noi —
sull'indirizzo classicistico della scuola, dove gli allievi più ambiziosi
preparavano un bozzetto per il quadro. Rideva ma affettuosamente. C'era
una base culturale comune: il disprezzo per il fascismo».I nomi
citati sono solo una parte delle personalità con cui Galvano, all’inizio
degli anni Trenta, instaurò un duraturo rapporto amicale sulla via del
confronto artistico, tra gli altri: Paola Levi Montalcini, Sergio
Bonfantini, Riccardo Chicco, Italo Cremona, i Sei e 5
P. Gobetti, Iniziative d'arte a Torino, in “L'Ordine Nuovo”, 27 dicembre
1921. 6 F. Casorati, in “Il Mondo”, 20 marzo 1926. 7.
A. Galvano, Autobiografia cit., p. 17. 8 A. Galvano, Felice
Casorati, cit. pp. 369, 371. O) L. Romano, Una giovinezza inventata
(1979), Einaudi, Torino 2018, p. 185. Giulio
Carlo Argan, ma anche Carlo Mollino, Massimo Mila, Leone Ginzburg e
Franco Antonicelli. La pittura postimpressionista di Galvano del
decennio Trenta e fino al 1945 si orientava in un «con- traddittorio
intento di tenere insieme i valor plastici di Casorati e quelli dei Sei»
il cui risultato «pesante e impastato» fu autocriticamente espresso
dall'artista stesso!°. Anche una certa l’arte d'oltralpe praticata
da stranieri fascinò Galvano (Maurice de Vlaminck, Ko- stia
Terechkovitch, Christian Krog), mentre i rimandi nostrani furono
indirizzati alchiarismo lombardo eai tonalisti romani. «Quei loro mezzi
[...] misi sfasciava- no ed intorbidivano tra le mani, rimanendo parentele
d’accatto o esperimenti di lettura, ed enorme riusciva la dispersione e
la perdita di tempo»"!. Un repertorio antinovecentista di temi
iconogra- fici ricorrenti segnò quel periodo: «pesci, molluschi,
conchiglie, vecchi libri accartocciati, crocefissi e acquasantiere
barocchi, nudi tortili come molluschi e paesaggi incerti tra quegli
andamenti sinuosi e un modesto cezannismo che era nell’aria»!“.
Galvano s’inserì nel circuito espositivo nel 1929, anno in cui le
arti si avviavano verso la loro fasci- stizzazione di forma con
l'istituzione del Sindacato Fascista a cui venne affidato il compito di
gestire le manifestazioni espositive periodiche sul territorio
nazionale. Il rapporto con la società artistica di un Novecento
sarfattiano (a un passo dallo smantella- mento definitivo) e della
retorica celebrativa di Stato era destinato tuttavia a un sostanziale
fallimento. A Torino Galvano esordì nell'alveo casoratiano in
due mostre della scuola nel 1929 e nel 1930. Dal 1930 al 1942 furono
regolari le sue presenze alle espo- sizioni annuali della Promotrice di
Belle Arti con più sporadiche puntate alla Società degli Amici
dell’arte (1931, 1932, 1934). Il critico Emilio Zanzi, in una
recensione riguar- dante un'esposizione di vendita torinese del
1934, sagomava i tratti pittorici del giovane Galvano: «[...]
sfuggito anzitempo alla disciplina rigorosa della scuola di Casorati. Il
Galvano in certe composizioni di nature in silenzio ricorda la chiara e
sapiente pittura del Maestro, in altri quadroni ricerca l’effetto
della pennellatona agile ed abile, cara passione di qualche
post-impressionista»". Alle rassegne di carattere nazionale
Galvano prese parte alla I e alla Il Quadriennale romana (1931 e
1935) dove vi fu una discreta rappresentanza torine- se e piemontese:
Felice Casorati e il suo discepolato (Paola Levi Montalcini, Nella
Marchesini, Sergio Bonfantini, Emilio Sobrero), Daphne Maugham,
10 A. Galvano, Autobiografia cit., p.18.
11 A. Galvano, in catalogo della mostra, Galleria La Giostra, Asti
1952. 12. Ibid. 13 E. Zanzi, in “La Gazzetta del
popolo”, 1934 16 Albino Galvano e
Filippo Scroppo alla I Mostra Internazionale dell'Art Club, Palazzo
Carignano, Torino 1949. parte dei Sei (Carlo Levi, Francesco
Menzio, Enrico Paulucci), Giulio Da Milano, Umberto Mastroianni,
Italo Cremona. Alla Biennale di Venezia del 1930 Galvano presenziò con
un’opera nella stessa sala di Casorati e allievi, mentre nell'edizione
1936 espose isolato (a Gigi Chessa scomparso nel 1935 venne
dedicata un'ampia retrospettiva, Menzio e Paulucci comparivano
attigui). In questo periodo sono da indagare infine le par-
tecipazioni alle quattro edizioni del Premio Bergamo (1939-1942). Fuuna
manifestazione, insieme al Premio Cremona, che svelò la dialettica
artistica italiana: due componenti antitetiche dello stesso volto del
regime. Il primo (promosso da Giuseppe Bottai), più elitario, «si
riallacciava a un versante dell’arte italiana colto, internazionale e
post-impressionista»!* suscitando polemiche nell’ala più intransigente
del fascismo; il secondo (voluto da Roberto Farinacci) era
sintonizzato sull'onda delle mostre hitleriane. AII Premio
Bergamo del 1939 (in giuria Casorati, Funi, Longhi e Argan) il terzo
riconoscimento venne suddiviso tra cinque concorrenti: si evidenziava
la presenza romana di Giuseppe Capogrossi e quella piemontese con
Menzio, Paulucci, Galvano e Piero Martina (era presente anche Nicola
Galante, non premiato). Al secondo Premio Bergamo del 1940 Galvano
ricevette una particolare menzione e il suo dipinto fu acquistato dal
Ministero dell'Educazione Nazionale. Galvano espose anche alla terza
(1941) e alla quarta edizione (1942, vincitore l’intimista Menzio),
la rassegna scandalo della Crocifissione di Guttuso, reinterprete
drammatico e rabbioso di un’iconografia mutuata dal sacro: anticipazione
in chiave cubista della militanza postbellica. Il ventennio
Trenta-Quaranta contrassegnò inol-
14 AA.VV, Gli anni del Premio Bergamo: arte in I talia intorno agli
anni Trenta, catalogo della mostra, Bergamo, Electa, Milano 1993, p.
58. tre il compimento della formazione intellettuale di
Galvano che si laureò nel 1938 (con Angiolo Gambaro e Nicola Abbagnano)
con una tesi sulla pedagogia della religione: primo atto
dell’approfondito con- fronto con le tematiche spiritualiste,
antropologiche e filosofiche (in primis l'influenza di Benedetto
Croce e Henri Bergson). Tra le sue prime prove di critica
d’arte si possono menzionare il breve scritto del 1932 su Armando
Spa- dini in “L'Arte” diretta da Venturi; il saggio del 1934 su
Luigi Spazzapan in “Orsa”; le collaborazioni con il periodico milanese
“Le arti plastiche (1933) e la reda- zione delle cronache d’arte torinese
per “Emporium” (1938-1942). Si ricordano inoltre i volumi del 1938
(per l'editore fiorentino Nemi) L'arte egiziana antica, L'arte
dell'Asia occidentale e centrale, L'arte dell'Asia orientale; la
monografia Felice Casorati edita da Hoepli (nel 1947 uscirà una seconda
edizione) e Tre nature morte: Casorati, Menzio, Paulucci pubblicato a
Torino nel 1942. Fu assistente alla Cattedra di pittura di
Paulucci all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino nel 1942 e
da quell’anno, fino al 1978, insegnò storia e filosofia negli istituti
liceali. Tra inumerosissimi allievi con i quali mantenne profondi legami
si ricorda in particolare Edoardo Sanguineti. Dalla fase
espressionista verso l'astrattismo 1945-1951 AI termine del
conflitto bellico per Galvano e gli artisti della sua generazione
s'impose il confronto con l'avanguardia, l'Europa e il moderno. «Moderna
non è soltanto l’arte prodotta nel periodo in cui viviamo, ma
quella che di voler essere moderna ha program- matica intenzione! [...]
Che assume come categoria predicativa l'affermazione di “novità” rispetto
ad una situazione di cultura storicamente conclusa. [...] Il
concetto di moderno si chiarisce, così come un concetto “etico” [...] per
cui l'avversario non è un modesto o nullo artista, ma il traditore di una
causa totale, il reazionario che non merita pietà e al quale non
giova la buona fede». Queste lucide affermazioni di Galvano aiutano a
delineare un settore della sua linea di pensiero che contribuì ad animare
il vivace dibattito degli intellettuali torinesi, fautori di quel
compatto blocco culturale che, tra il 1945 e il 1947 tentò una
ricostruzione «morale e civile» della società. La posizione politica di
Galvano dopo la Liberazione fu abbastanza distante dall’ideologia
estetica del fronte comunista. L'urto «non era tanto fra tradizione
e innovazione, anche meno tra astratto (o concreto) e figurativo
[...] ma tra militanza “costruttiva” ed autonomia “critica”
[...]»!9. 15 A. Galvano, Moderno, in Enciclopedia
Universale dell'Arte, vol. IX, Fondazione Cini, Roma-Venezia 1963.
16 G. Mantovani, Il malessere dell'arte, in A. Galvano, La pittura,
lo spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante edizioni,
E; Negli anni postbellici il complesso confronto-
scontro con Croce era ineludibile e la posizione di Galvano (sviluppata
in anni più tardi nel fondamen- tale scritto Perché non possiamo non
dirci crociani, 1953) merita qui qualche breve accenno. L'intuizione
pura, come atto teoretico astorico, non poteva prescindere dalla
soggettività dell’«opera manuale». La polarità non sussisteva tra il
bello crociano, simbolo del bene morale e il suo opposto, quanto tra lo
«spirito» (il momento razionale - contemplativo) e il «sangue» (il
principio vitale inconscio che in ultimo concretizza l’opera con il
linguaggio scelto). Scriveva Galvano nel numero unico del periodico
“Tendenza” (1946, coideato con Pippo Oriani): «Questo bisogno del
sangue che ignora l’astratto spirito e gli anatemi e le accuse di
“naturalismo” degli idealisti o quelle di “immoralità” degli
spiritualisti è essenziale all'opera di pittura. Essa cade o sussiste con
il sangue non con lospirito»!. L'attività di critico d’arte seguitò in
quegli anni anche su quotidiani come “La Nuova Stampa” (nel 1946) e
“Mondo Nuovo” (nel 1947 e 1948). Tra il 1945 e il 1949 la pittura
di Galvano si aprì ad una fase espressionista slargandosi e
semplifi- candosi in campiture bidimensionali dai contorni lineari
marcati e attraverso l’uso di un cromatismo timbrico. In un testo di
autopresentazione del 1952 l'artista esplicò: «Così quando, intorno al
1941, Guttuso guardando a Picasso, Birolli e quelli di “Corrente”
sbirciando l’espressionismo, diedero altro indirizzo alla pittura
italiana, mi trovai in ritardo rispetto a quei coetanei e ai loro
discepoli molto più giovani di me, e con un bilancio piuttosto negativo.
[...] Tentavo così una soluzione in un breve periodo di
esasperazione “espressionistica” del segno, dove l’“illusivo” si
tra- sformava in “allusivo” a quelle immagini che potevo
considerare mie». Galvano puntualizzava inoltre di essere
stato tentato verso «esperienze varie di carattere cultu-
ralistico, fra cui un primo richiamo al liberty che allora fu aspramente
rimproverato da certi critici (A. Podestà) come incomprensibilmente
anacronistico ma che almeno come recupero critico, rappresentava
un'anticipazione di interessi e recuperi diventati di moda un ventennio
più tardi». Nella Torino della Ricostruzione gli spazi
esposi- tivi erano esigui; molto spesso sorgevano in simbiosi con
una libreria come per esempio la Galleria Faber, dove Galvano nel 1945
partecipò ad una Antologica di Maestri contemporanei. Alla personale di Galvano
del 1946 presso la Libreria del Bosco «ci troviamo di fronte ad un
artista dalle varie esperienze», denotava
Torino 1988, p. 18. 17 A. Galvano, La pittura, lo spirito e il
sangue, in “Tendenza”, n.1, 1946. 18. A. Galvano, Galleria la
Giostra cit. 19 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 18.
Salvatore Gatto su “L'Unità”, e proseguiva: «riesce spesso a lievitare le
acquisizioni culturali ed a tradurle in efficienti risultati creativi».
Il molteplice approccio stilistico, confessato dallo stesso Galvano nell’auto-
presentazione del 1979, è qui confermato: «leggero impressionismo, [...]
decorativismo un po’ orientale, [...] motivi che tendono a risolversi in
figurazioni quasi astratte». La fase pittorica più recente, concludeva
Gatto, «pare indirizzarsi verso una pittura dominata da una volontà ed
un’ansia di sintetismo formale»?. Alla Biennale di Venezia del 1948
(la prima edi- zione al termine del ventennio fascista nella quale
emersero le linee essenziali degli sviluppi dell’arte moderna europea)
Galvano partecipò su invito con cinque opere (nudi e nature morte del
1947-48) in sala con Martina e Paulucci. In quell’edizione fu
parecchio vasta la partecipazione di artisti torinesi sulla via
dell’astratto: Sandro Cherchi, Mario Davico, Franco Garelli, Gino Gorza,
Paola Levi Montalcini, Umberto Mastroianni, Mattia Moreni, Adriano
Parisot, Carol Rama, Filippo Scroppo. All’edizione del 1950, nuova-
mente su invito, Galvano fu presente con tre opere (in sala con Birolli, Corpora,
Moreni, Morlotti, Turcato, Vedova, Zigaina). Nel quadriennio
1948-1951 si registrarono nume- rose partecipazioni dell'artista a
rassegne nazionali di verifica diretta degli sviluppi artistici
contemporanei, tra cui la Quadriennale romana del 1948 e la mostra
collettiva Arteastratta e concreta presso la Galleria Nazio- nale d’arte
moderna di Roma nel 1951(il comitato ese- cutivo era composto da Joseph
Jarema, Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan). Il testo di Galvano in
catalogo analizzava la ricerca concretista propria e dei torinesi
verso una direzione lontana dal «formalismo astratto» insenso stretto e
intesa attraverso la «‘“proiezione” nelle strutture dell'oggetto stesso
di una carica emotiva, che asua volta presuppone la totalità spirituale
dell'artista impegnato, ed impegnato “responsabilmente”, in una
prospettiva, in una scelta, in una “Weltanshaung”, cioè in ultima analisi
in un punto di vista etico e metafisico [...]. Non può perciò stupire che
anche a Torino siano proprio gli artisti più responsabili di fronte a un
loro mondo interiore a volgersi a questa pittura. Superfluo cercar
nel dato estrinseco del gusto un’unità “munici- pale” o di gruppo: se mai
l’unità “torinese” di questi pittori è nella condizione di cultura cui lo
stesso schivo etalvolta un poco scontroso raccoglimento della città
in cui essi lavorano, è, per taluna delle ragioni accennate,
propizia»”!. Rilevanti furono inoltre le sortite
extranazionali del 1951. In occasione della mostra nizzarda,
Peintres de Turin, Galvano definì forme e colori delle sue com-
20 S.Gatto, Mostra d’arte. Galvano al Bosco, in “L'Unità”,
31 mag- gio 1946. 21 A. Galvano, in Arte astratta e concreta,
catalogo della mostra, Galleria Nazionale d’arte moderna, Roma
1951. 18 Con Enrico Paulucci, Albino
Galvano e Filippo Scroppo. Confe- renza al Circolo degli Artisti, Torino
1967. posizioni come «feticci laici», «costanti di
sentimenti e impulsi» che non necessitavano di riportarlo «a una
rappresentazione esteriore e imitativa». «La topografia spirituale di
questo mondo che non è né meccanica né architettonica, ma piuttosto
organica e determinata soprattutto dalla tensione tra le forze
elementarie vitali pressanti, da una parte, e l'aspirazione religiosa o
me- tafisica dall'altra, che vuole dominarle e oggettivarle nello
spirito delle tradizioni filosofiche e religiose alle quali nei miei
quadri faccio a volte allusione anche attraverso i titoli stessi».
Al Premio Parigi (itinerante anche a Cortina d'Ampezzo) il critico
Luigi Carluccio seguitava di rimando: «[...] L'artista si è portato
sempre su posi- zioni di ricerca mantenendo tuttavia vivo il
dialogo fra i suoi istinti pittorici e le sue meditazioni. [...] Il
temine “feticcio laico” [...] annota con felice incidenza che all'origine
degli impulsi e dei sentimenti è sempre vivo lo stesso dibattito tra la
pressione vitale di forze elementari, naturali, e l'aspirazione ad
ordinarle in una ragione metafisica»?3. Il rivolgersi all'arte
d'oltralpe (già a partire dalla mostra Arte francese d'oggi, Roma e
Torino 1947) ebbe degli echi a Torino con le sei edizioni della
rassegna Pittori d'Oggi Francia- Italia (1951-1961) promosse da
Carluccio e alle quali Galvano partecipò alla prima (1951) e alla terza
(1953), così come figurava ai due Premi Saint Vincent (1948-1949) messi
in piedi dalla fronda democristiana capeggiata da Carluccio in re-
1951. 23 L. Carluccio, in Mostra Nazionale
del Premio Parigi 1951, cata- logo della mostra, Cortina d'Ampezzo 1951 e
Parigi 1951-1952. Con Mauro Chessa e Liliana De
Matteis. azione al Premio Torino del 1947, troppo
polarizzato a sinistra secondo il critico. È di vitale
importanza ricordare infine il ruolo di Galvano come animatore culturale
nel clima di fermento postbellico, dapprima impegnato attivamente
come promotore dell’Unione Culturale (sorta nel 1945, raccolse
intellettuali antifascisti tra cui Giulio Einaudi, Massimo Mila, Franco
Antonicelli, Lionello Venturi e tra gli artisti Casorati, Menzio,
Levi) e nel 1949 come propugnatore di due rassegne artistiche: la I
Mostra Internazionale dell'Art Club a Torino e la Mostra d’arte
contemporanea di Torre Pel- lice. La prima — con presidente Casorati e
segretario Scroppo, organizzata dalla sede torinese dell'Art Club,
un'associazione apartitica internazionale — mirava a presentare le nuove
voci artistiche italiane e di diversi stati esteri. La seconda, aveva
sede a Torre Pellice, che «pur nella modestia delle proprie
possibilità, possiede, come centro delle Valli Valde- si, una secolare
tradizione di cultura che ha i suoi particolari caratteri di pensiero e
di ispirazione»”4. Era stata ideata insieme a Filippo Scroppo,
artista e critico valdese, (nativo della Sicilia ma inseritosi
dalla metà degli anni Trenta nell'ambiente cittadino) e da Leopoldo
Bertolè notaio e illuminato collezio- nista di moderno. La Mostra d’arte
contemporanea — appuntamento estivo annuale protrattosi per un
24 Mostra d'arte italiana contemporanea, catalogo della mostra,
Collegio Valdese, Torre Pellice 1949. 19 quarantennio
(1949 - 1991) al quale Galvano espose assiduamente—trasformòla cittadina
della provincia torinese in un polo culturale aggiornatissimo sulle
ricerche artistiche nazionali e con qualche non rara puntata
internazionale. Il Movimento Arte Concreta 1952-1955
Il «confuso ribollire di tendenze astratteggianti»?, che imperava tra il
1947 e il 1951, andò delineandosi verso l’elusione dell’astrazione su
base mimetica in favore del concretismo. Una lucida definizione
della corrente venne offerta da Gillo Dorfles in uno scritto del
1951, il così detto manifesto del Movimento Arte Concreta, (MAC) fondato
a Milano nel 1948 insieme a Bruno Munari, Gianni Monnet e Atanasio
Soldati. Dorfles precisava il concetto di concreto «che non cer-
cava di creare delle opere d’arte togliendo lo spunto o il pretesto dal
mondo esterno e astraendone una successiva immagine pittorica, ma che
anzi andava alla ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla
base del dipinto senza che la loro possibile analogia con alcunché
di naturale avesse la minima importanza»”. L'adesione formale al
MAC di Galvano eun gruppo di giovani torinesi — Annibale Biglione,
Adriano Parisot, Filippo Scroppo e in seguito Carol Rama e Paola
Levi Montalcini — avvenne nel 1952. A Torino il coagulo del
Movimento rappresentò una sfaccettata unione di poe- tiche, abbastanza
distante dal rigore costruttivista delle soluzioni compositive lombarde che
fondava le sue basi nell’Astrattismo storico internazionale e locale
degli anni Trenta. In questa sede non è possibile analizzare la
presa di coscienza sulle radici dell'avanguardia delle personalità
torinesi e ci si limita al solo caso di Galvano. Nel 19471]
distacco di Galvano dal comitato promo- tore del Premio Torino (la prima
manifestazione locale di arte attuale italiana dopola fine della
guerra)non avven- ne solo per posizioni politiche. Come chiariva
Giuliano Martano, nel catalogo della mostra Arte concreta a Torino
1947-1956, per una parte di artisti si trattava di una scelta di «lettura
in quelle matrici dell'avanguardia europea [...]quasiin contrapposizione
alle matrici trovate allora in un neonaturalismo e del “Fronte nuovo
delle arti”»”. Per Galvano e il discepolato della scuola di
Caso- rati, alla quale riconoscevano la creazione di «una terra
concimata pronta a recepire, stratificazione di cultura
altezzosasevogliamo, maattenta[...]. Aveva purelasciato ineredità una
figurazione latente, una scansione dell’og- getto che verrà dai torinesi
lentamente e sofferentemente decantata»°. Unosmarcamento, dunque,
intotalebuona 25 T.Sauvage, Pittura italiana del
dopoguerra 1945 — 1957, edizio- ni Schwarz, Milano 1957, p. 129.
26 G. Dorfles, Manifesto del MAC, ora in Arte concreta a Torino
1947 — 1956, catalogo della mostra, Sala Bolaffi, Torino 1970. 27,
G. Martano, in Arte concreta a Torino 1947 — 1956 cit. 28.
Ibid. pace del Maestro, che anche Galvano intraprese: la via
verso l’astrattismo ben circoscritta e lineare. La sua poetica, tra
i torinesi, era la più distante dal concretismo «proprio perché non è mai
d'origine speri- mentale ma la sua “avanguardia” si pone sempre
come una verifica dello sperimentalismo. Si pone insomma come
contrasto immediato fra una realtà esterna [...] ed una realtà interna
quasi avida di controllare im- mediatamente sul terreno stesso
dell’accadimento, la validità dell’accadere, e di controllarlo appunto in
via sperimentale»? Gli aspetti strettamente contenutistici
della pittura di Galvano della prima metà degli anni Cinquanta
erano in diretto contatto con i suoi interessi in quanto studioso di
filosofia e storia delle religioni. Andreina Griseri notava che gli
entusiasmi per il Kandinskij volto all’astratto e per il primo
Kupka giungevano «a una presa di posizione nell’ambito dell’arte
non figurativa, chiarita in numerosi scrit- ti, in cui il Galvano
lumeggia la derivazione dalla secessione di Klimt di molta arte contemporanea
in una interpretazione nuova dei rapporti art nouveau- Liberty e
astrattismo»?°. Degli scritti galvaniani degli anni Cinquanta ai quali
Griseri si riferisce citiamo almeno: Storicità e significato dell’arte
“astratta” (1953), Dal simbolismo all’astrattismo (1953), Le poetiche
del Simbolismo e l'origine dell’Astrattismo figurativo (1956).
Gli intendimenti del manifesto del MAC torinese del 1952 furono
piuttosto netti. Più in generale erano incontrapposizione con il
dibattito dilagante in quegli anni che scindeva gli artisti tra
formalisti e realisti, con- tro il neopicassismo ed estranei al «pudore»
del com- promesso dell’astratto-concreto di Venturi. A livello
localelalororicerca era indirizzata all'emancipazione dall’orbita casoratiana,
dal neoimpressionismo dei Sei e dal secondo futurismo con il quale
condividevano lo spirito avanguardistico, ma certamente non gli in-
tenti. Biglione, Galvano, Parisot e Scroppo firmarono il testo
programmatico, con la responsabilità di «lotta contro ogni conformismo
pigrizia intellettuale». «Se il nome stesso di “arte concreta” [...] sta
a significare il desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con
tradizioni storicamente esaurite [...] per sostituire la loro ricerca
d'una diretta “presentazione” di oggetti in cui si vengano obiettivando i
bisogni spirituali dell’uomo, come negli strumenti del suo lavoro
quo- tidiano si proiettano i suoi bisogni materiali [...]»®.
Galvano, pur immerso in una personalissima ricerca non figurativa,
nel periodo che all'incirca si estende tra il 1952 e il 1954,
sviluppò una maggior 29. Ibid. 30 A. Griseri, Albino
Galvano, in Dizionario Enciclopedico, Utet, Torino 1957. 31.
A. Biglione, A. Galvano, A. Parisot, F. Scroppo, in “Arte con- creta” n.
9, 15 novembre 1952, ora in L. Caramel, Mac Movimento Arte Concreta 1948
- 1958, Electa, Milano 1984, p. 58. 20 adesione al
MAC. Lo spazio dei suoi dipinti, asciugato dall'andamento curvilineo
delle partiture, si popolò di forme squadrate dalla linearità spigolosa.
Tutta- via, la freddezza costruttivista e il rigore logico del
concretismo erano solo apparenti; l'artista puntava al contrario «ad
un'arte che preservi il dialogo tra gli schemi astratto-geometrici e
quelli compositivamente più liberi, moduli grafici e forme archetipiche
non direttamente razionalizzate»”. Un precoce avvicinamento
ai concretisti lom- bardi lo si data già al 1950. Galvano fu presente
a Milano in due collettive: con Filippo Scroppo (1950, presentati
da Gianni Monnet) presso la Libreria Il Salto, cenacolo della pittura
concreta milanese e alla Terza mostra di pittura astratta italiana.
Astrattisti milanesi e torinesi allestita alla Galleria Bompiani
(1951, dove esponevano i piemontesi Costa, Davico, Mastroianni, Parisot,
Scroppo, Spazzapan). I mag- giori rappresentanti della corrente di
entrambe le regioni figuravano, Galvano compreso, anche alla II e
III Mostra d’arte contemporanea di Torre Pellice del 1950-51.
L'allineamento al MAC di Galvano fu palesato anche dalla sua
presenza ad esposizioni promosse dal gruppo. La sortita d'esordio dei
torinesi (Biglio- ne, Galvano, Parisot, Scroppo ai quali si
aggiunsero anche Mario Davico, Mario Merz e Ugo Giannattasio)
avvenne alla Saletta Gissi di Torino con la mostra Pittori
astratto-concreti di Milano e Torino. Non fu però la prima presenza
organica del concretismo in città poiché già nel 1950 presso la Galleria
il Grifo si affacciarono alcuni esponenti milanesi così come alla
Quadriennale Nazionale d’Arte di Torino dove comparve una nutrita schiera
di astrattisti tra cui anche Galvano. Commentando la mostra presso
Gissi, sul bollettino “Arte concreta” n. 9, Galvano esibiva la profonda
sicurezza di una non superficiale accoglienza nell'ambiente cittadino e
rilevava la sfaccettatura di posizioni della compagine torinese che
collimavano in una base comune di principi. «Principi che possono
riassumersi in una profonda fiducia nella capacità dell’uomo ad
esprimersi e a comunicare con gli altri uomini, attraverso il puro
linguaggio delle forme, attraverso l’organicità e la coerenza ch’esso sa
imprimere ad un discorso i cui vocaboli non hanno bisogno di essere
immagini e finzioni per legarsi a una sintassi espressiva e, nei
casi più felici, poetica»®. La politica espositiva del gruppo
torinese non 32. L Mulatero, in P. Mantovani, I.
Mulatero (a cura di), Lucide inquietudini. Storie singolari
dell’astratto-concreto tra il '50 e il ‘70, Civico Museo d’arte
Contemporanea di Calasetta, Calasetta 2016, p. 26. 33 A.
Galvano, Mostra di pittori concreti di Milano e Torino alla Saletta
Gissi, in “Arte concreta” n. 9 cit., ora in L. Caramel, Mac Movimento
Arte Concreta 1948 — 1958 cit., pp. 58-59. Con
un'opera dalla serie i Nastri. ebbe seguito se non l’anno
successivo alla Galleria 5. Matteo di Genova. L'eccezione è rappresentata
da Galvano che figurò in svariate mostre organizzate dal MAC, si
ricordano qui le principali: Pitture di Albino Galvano in un esperimento
di sintesi, presso lo Studio b24 di Milano nel 1953 (valla pena
rimandare agli «asterischi» galvaniani di quel periodo, quasi
«privati manifesti» sui bollettini “Arte concreta” n. 12 e 14 che
chiariscono la sua posizione all’interno del movimento) e lo stesso anno
a Torino da Gissi esposero pittori concretisti italiani e francesi
(Gal- vano presentò collages polimaterici di ascendenza
prampoliniana); sempre al Torino l’anno successivo Galvano fu presente ad
una mostra allestita dallo Studio b 24 in occasione del Salone dell'Automobile.
Si menziona a parte la collettiva presso la Galleria il Fiore di Milano
del 1954 dove Galvano espose insieme a Bordoni, Jarema, Parisot e
Scroppo. Nello scritto introduttivo al catalogo elaborò stringenti
analisi nei riguardi di un’«arte figurativa che non ripeta ma continui la
natura», invitando il visitatore a riflettere «che l'apparente chiusura
ad una più ovvia comunicazione di queste opere nulla intende
precludere alla possibilità di uno scambio e di una penetrazione sempre
possibili nell'esercizio di una 21 lettura figurativa
per elementi, segno colore, mo- vimento, materia, ecc., non differenti da
quelli che consentono la valutazione di ogni buona pittura»*.
Non sono da dimenticare infine le presenze alle Biennali veneziane
del 1952 e del 1954 con la sua produzione concretista e la ripresa
espositiva alle rassegne della Società Promotrice di Belle Arti di
Torino (1951, 1953, 1954). Dall'Informale al neoliberty floreale
1955- 1965 Il «logico passaggio all’astrattismo»” di Gal-
vano culminò tra il 1952 e il 1954 in una fase di «tensione tra
impaginatura attenta alle squadra- ture neoplastiche e colore tonale
impastato». La vibrazione cromatica delle campiture, ottenuta
attraverso una libera stesura di pennellate, lo portò a un lento e
graduale sfaldamento delle sue strut- ture geometrico-architettoniche a
favore dell’indi- pendenza dell'immagine e al protagonismo di una
componente espressiva. Sul piano formale il gesto pittorico si faceva
emancipato e l’organicità della materia riprendeva vigore. Si
segnò qui il definitivo passaggio di Galvano all’Informale, lontano
dall’interpretazione del neona- turalismo propugnata dal duo
Carluccio-Arcangeli (è proprio nel 1955 che furono presentati a Torino
i giovani artisti informali presso la Galleria La Bussola
nell'esposizione Niente di nuovo sotto il sole, titolo che rivelava la
volontà di mantenere una continuità con il passato e la natura).
L'evoluzione del concretismo impose a Galvano (e alla compagine
torinese del MAC) un binario doppio di direzioni che nonsiindirizzò
all’antipittura quanto piuttosto alla scelta di rimanere «dentro la
pittura» nell’opzione di un astrattismo lirico che lo condurrà
verso l’Informale. Un Informale, sosteneva Galvano, affine alla
«declinazione di un linguaggio asemantico in cui tuttavia potessero
trovare esito quelle allusioni simbolistiche che già avevano un posto ben
rivelato dai titoli dei miei quadri del periodo astratto-concreto
Rica pe Una delle prime esposizioni che offrirono un Galvano
smarcato dall’astrattismo di matrice con- creta fu la personale (undici
opere del 1954-56) alla Biennale di Venezia del 1956 mirabilmente
introdotta da Giulio Carlo Argan. «La radice comune della sua
pittura [...]è la distinzione netta tra i concetti di forma e immagine.
L'idea di forma è inseparabile dall'idea di arte come rappresentazione,
implica sempre un contenuto di nozioni, un riferimento alla natura,
un 34 A. Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot
e Scroppo, catalogo della mostra, Galleria Il Fiore, Milano 1954.
35 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20. 36 A. Galvano, in
Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot e Scroppo cit. 37 A. Galvano,
Autobiografia cit., p. 20. processo dioggettivazione. L'idea
diimmagine supera ildualismo dioggetto e soggetto, la relatività
costante di quod significat e quod significatur; mira a designare
un assoluto valore d’esistenza, a sostituire alla rap- presentazione
un'immediata semantica». Seguitava Argan: «La sua è la ricerca di
un'immagine che non abbia determinazioni dirette o indirette nel
mondo esterno, che non si manifesti per via di similitudini o
allegorie, che dichiari esplicitamente le sue origini e le sue ragioni
esclusivamente umane, che si ponga ad un tempo come noumeno e come
fenomeno. [...] Così la materia, non la forma, diventa mito ed
immagine; e la materia è il colore, ma anche il segno, la linea, il
punto». Nel 1957 Galvano venne invitato da Carlo Lu- dovico
Ragghianti per una personale alla Galleria La Strozzina di Firenze.
Nell’autopresentazione l'artista tenne a ribadire ancora una volta le
convinzioni e la coerenza del suo percorso pittorico che lo avevano
condotto all’Informale. La «formazione spirituale» si era compiuta, esplicava
Galvano, «attraverso la mia adesione alle correnti non figurative, a
quel- l'inversione” del simbolismo nell’astrattismo che ho cercato
di spiegare storicamente in sede critica. Perciò a Kandinskij e al Kupka
del 1913 [...] agli americani Pollock e Tobey, ai polimaterici di
Prampolini. [...] L'unico germe di “manifesto” è quello sul
“feticcio laico”. “Feticcio” cioè metafisica, ma “laico” cioè an-
timetafisica”. Credo si possa essere antimetafisici solo nella misura in
cui si è contro le false metafisiche. Nel caso dell’arte contro la falsa
“ispirazione”, l'evasione sentimentale...»°. Tra il 1956 al
1962 il mezzo informale di Galvano virò verso accezioni neoliberty. La
copertura totale della tela della prima fase si distillò per mezzo di
uno sfondo neutro solcato da grafismi pittorici orientati sempre
meno verso un'immagine quanto in direzione di archetipi floreali e
calligrammidi scrittura gestuale. Galvano recuperava, seppur
allusivamente, attraverso una nuova definizione di immagini, la
figuratività «trasformando o meglio puntualizzando i ‘feticci
laici” in “emblemi”»‘° esplicitati in forme larvali di iris, i fiori
paradigmatici del Simbolismo. Sul finire del decennio Cinquanta e
fino al 1965, oltre alle regolari presenze alle Promotrici torinesi
e alle mostre annuali di Torre Pellice, si segnalano la puntata
alla collettiva berlinese presso la Maison de France del 1957, le
partecipazioni al V Premio Bergamo dell’anno successivo, ai Premi
Arezzo (1960) e Fiorino. (Firenze 1960) e alla Quadriennale romana
del 1963. Di particolare rilevanza in quel periodo furono
38. G. C. Argan, in catalogo dell’ XXVIII Biennale di
Venezia, Venezia 1956. 39 A. Galvano, in catalogo della
mostra, Galleria La Strozzina, Firenze 1957. 40 A. Galvano,
Autobiografia cit., p. 20. 22 Nel
1972. due mostre. La personale del 1960 presso Galleria Il
Canale di Venezia presentata da Edoardo Sanguineti che così ultimava il
suo scritto: «I fiori Mallarmé ci costringono anche a riguardare di nuovo
in faccia la posizione dell'artista las que la vie étiole, portando
cosìla pittura ad assolvere a un compito, molto forte e molto
importante, di smascheramento dell'avanguardia, nella forma, secondo le
possibilità “moderne” di uno “estraniamento”»*!. Nella
collettiva (Galvano, Scroppo e Levi Mon- talcini) alla Galleria il
Quadrante di Firenze, Gillo Dorfles, accogliendo gli enunciati di
Sanguineti, alluse altresì ad un significato orientaleggiante delle
pitture di Galvano che avevano: «accolto nella loro matrice
compositiva quasi il “vuoto” il sunyata di certa arte zenista,
purrimanendo lige a una composta scansione di ritmi
dell’Abendland»”. Pittore dunque in «senso tradizionale» si definiva
Galvano che ricusava le forme antipittoriche, schiuse alla strada
dell’arte-oggetto (della quale si interessò in sede teorica), per
abbracciare una «simulazione d'avanguardia». Un profondo disagio lo
condusse, tra il 1962 e il 1965, a compiere una pausa dalla pittura
causata probabilmente dal cortocircuito innescato a causa di intendimenti
antitetici perseguiti dal parallelo mestiere di critico e di artista.
Come rimarcava Argan: 41 E. Sanguineti, in catalogo
della mostra, Galleria Il Canale, Venezia 1960. 42 G. Dorfles,
Tre pittori torinesi, in Albino Galvano, Paola Levi Montalcini, Filippo
Scroppo, catalogo della mostra, Galleria Il Qua- drante, Firenze
1962. 43 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21. Con
Filippo Scroppo. «la confluenza dei due percorsi di pensiero (e la
sua pittura è tutta pensiero) sono difficili e interiormente
sofferte[...]»*. Assumono infine un ruolo fondamentale nella
produzione saggistica di Galvano i due volumi pubblicati in quel periodo:
Per un’Armatura (Lattes, 1960) e Artemis Efesia. Il significato del
politeismo greco (Adelphi, 1966). Sono opere difficilmente
classificabili che attingono alla filosofia, alla storia delle
religioni, alla psicoanalisi e all’antropologia. I due studi
affron- tano il problema dell’interpretazione sia culturale che
psicologica di un passato che ci coinvolge direttamente e sono al tempo
stesso «processo di autoanalisi in me- rito al rapporto tra una
figura-feticcio — un’armatura tardomedievale e un idolo greco — e l’area
psichica della coscienza». Il decennio 1955 -1965 fu
certamente per Galvano la fase più feconda di collaborazione con
periodici e riviste tra cui le torinesi “Sigma”, “Cratilo” e come
redattore di “Questioni” (già “Galleria di Arti e Lette- re”)con Vincenzo
Ciaffi, Mario Lattese Oscar Navarro per l'editore Lattes. Una menzione a
parte merita il 44 G. C. Argan, in catalogo della mostra, Galleria
Unimedia, Genova 1974. 45M. T. Roberto, Albino Galvano,
Dizionario biografico degli italiani, Treccani, Milano 1988.
23 contributo Le tigriimpagliate (1959) peril
primo numero della rivista “Azimuth” fondata da Piero Manzoni ed
Enrico Castellani. Per “Letteratura” nel 1960 Galvano pubblicò La pittura
a Torino dal ‘45 ad oggi, un lucidissi- mosaggio che inquadrava, da
testimone diretto, l’arte torinese del dopoguerra. Successivi furono i
notevoli contributi sulla situazione artistica cittadina tra cui:
Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino (1960), Torino e i “secondi
futuristi” (1962) e il più tardo La pittura a Torino all’inizio del
secolo (1897-1918) (1978)?°. Bandiere, Nastri, «Griffonages» e
Segni asemantici 1966- 1974 Nel 1966 con l'esposizione Erbe
e Bandiere, presso la Galleria Botero di Torino, Galvano sentì «il
bisogno di affiancare e poi sostituire gli emblemi ispirati alla
natura con quelli di carattere artificiale più spogli e tendenti in
qualche modo a una nuova astrazione». In mostra le forme organiche dai
tratti guizzanti dell'ultimo Informale di Galvano furono accostate,
in un felice trait d'union, con la nuova produzione attraverso la serie
delle Bandiere. In uno scritto critico perla suddetta mostra Gilda Chepes
sottolineava: «Le sue erbe alghe, le sue flammulae, più che
bandiere, sembrano, ad analizzarle, vive, agitate da sentimenti, da
spasimi da aneliti, da desideri»**. L'artista perseverò nella
coerenza linguistica della sua ricerca che ancora una volta, nei più
nuovi risvolti, non si collocò in un'immediata e netta inserzione in
correnti o gruppi operativi. Gli estesi panneggiamenti svolazzanti dai
colori accesi che si stagliavano su fon- di neutri riecheggiavano quasi
un'antica tradizione araldica. I riferimenti pittorici non erano di
certo estranei al linearismo sensuale del Liberty, anche nella sua declinazione
decorativa, rammentando inoltre suggestioni neobarocche. Un commento di
Carlo Mollino, riguardante un'architettura baroccheggiante di
Galvano dipinta degli anni Quaranta, potrebbe restituire puntualmente le
atmosfere delle recenti Bandiere espresse in uno: «scenario di questo
tempo immobile nella chiara decisione di un arabesco che non si
placa che in un ordine senza indulgenza, ma vivo di un amore
disincantato»? Furono ancora le Bandiere ad essere esposte nel
1968 per una personale a Cremona alla Galleria d’arte I Portici. Gli
stendardi svolazzanti davano la prova di una profonda conoscenza degli
allora attuali linguaggi pop e forniscono anche un «grave riverbero di
anti- chità» rendendo l’immagine «imminente e insieme assente che
par scelta e fabbricata per un pubblico 46
Tutti gli scritti qui citati sono reperibili in A. Galvano, Dia- gnosi
del moderno, cit. 47 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21.
48. G. Chepes, in “Borsa Arte”, 1966. 49 C. Mollino, in S.
Cairola, Arte italiana del nostro tempo, 1946. senza tempo e
d’ogni tempo [...]. Proprio per questo [...]è significante perché carica
di intenzioni contrad- dittorie e fortemente drammatiche, nella
dialettica che stabiliscono tra l’esperienza passata e l'avvento, e
la necessità del presente»”. Dal1968Galvanosirivolse alla
nuova serie pittorica dei Nastri mantenendo una viva tangenza allo
sviluppo formale del periodo MAC. L'oggettivazione del dato
geometrico si sostituì con una figurazione elementare di armonica
tridimensionalità sull’estensione della tela. Le masse sventolanti e
libere, nelle quali si evidenzia una ben nota propensione per l’ellissi e
il semicerchio, proseguivano l'indagine sullo spazio volumetrico.
Giuliano Martano asseriva appunto di un'«astrazione intellettuale, in cui
i segni, i ghirigori, sono veri e pro- pri simboli codicillari, incognite
d’equazione, libertà della memoria. [...] Nastri che si dipanano nel
quadro senza né capo né coda e sono le bandiere di prima rese a
brandelli, sono una forma chiusa che si apre, che da circonlocuzione
diventa interlocuzione»?”!. Presso la Saletta d'Arte contemporanea
di Cu- neo, nel 1972, Galvano presentò questa figurazione
elementare di volute concave e convesse di recente produzione, che si
palesavano, secondo Giorgio Brizio, «dall’uso parco e strettamente
pensato delle timbrici- tà cromatiche. Basandosi su toni primari,
operando esclusivamente sulla opacità della parte in ombra, Galvano
può, in una suddivisione doraziana dell’in- fluenza tonale, usare la
direttrice cinetica del timbro per equilibrare il dinamismo globale della
partitura spazio-occupato, spazio-vuoto»”. Nel 1974 la
personale alla Galleria Martano di Torino assunse il significato di una
ricapitolazione, dal MAC al presente, in cui gli elementi nastriformi
si erano evoluti, tra il 1973 e il 1974, in forme dall’aspet- to
cellulare e in moduli verticali e curvilinei. Tracce realizzate a
carboncino, impreziosite da lievi velature scariche di colore, campeggiavano
solitarie sulla tela; la dimensione gestuale fu affiancata
dall'espressione intellettiva dell'atto primario del dipingere.
Questi moduli nella linea filogenetica della sua pittura non-
figurativa «appaiono anche maggiormente legati ai dettami grafici di una
cultura passata attraverso “quell’inversione del simbolismo
nell’astrattismo” [...] che riaffiora con l’organicità delle sue forme
così tese ed essenziali, rispondenti ancora una volta a quella
logica interiore che resta come la matrice vera di ogni opera di
Galvano»”. Lostesso anno una sala personale della 25° Mostra
d'arte contemporanea di Torre Pellice venne dedicata a 50
E. Fezzi, in catalogo della mostra, Galleria d’arte I Portici, Cremona
1968. 51. G. Martano, Albino Galvano, in “Pianeta”, 1968.
52. G. Brizio, in catalogo della mostra, Saletta d'arte contempo-
ranea, Cuneo 1972. 53. A.Dragone in “Stampa sera”, 1976.
24 Galvano che vi espose una ventina di opere.
L'artista presentò efficacemente al pubblico la sua recente svolta
pittorica: «ho sentito il bisogno di logorare la forma, di intercettarne
la presunzione di organicità, sgranan- done il supporto disegnativo in
pochi cenni grafici su cui il colore nonagisse più come elemento
qualificante ma soltanto come sottolineatura allusiva. [...] Come
nel ritmo stesso delle vicende vitali, a una stagione di estroversa
aggressione della percezione dello spet- tatore si avvicendava una fase
di ripiegamento sulla discrezione, sulla riserva, sultono contenuto».
Coevi furono i Griffonages e i Segni dell'alfabeto asemantico
lavori con scritte quasi illeggibili rese «come puro segno e gioco
lineare [...] non senza un, fra ironico e intenerito, strizzar l'occhio
al “concettualismo”»59. Sempre nel 1974 si ebbe la personale
genovese alla Galleria Unimedia per la quale Saguineti imple- mentò
la troppo riduttiva definizione del Galvano “doppio”, critico e pittore,
trascendendo anche nella saggistica e nella filosofia e invitando a vedere
«con totale persuasione [...] la forza della sua lezione [...]
rispecchiata, con eguale fedeltà, nelle sue pagine e sopra le sue tele».
Il discorso si reiterava anche nello scritto critico di Argan che
chiudeva con un interro- gativo dal quale Galvano non si discostò mai:
«Che cos'è la pittura?». «Ciò che vuol sapere è che cosa sia la
pittura in questa precisa condizione della cultura, della coscienza,
dell’esistenza, e quale il suo grado di vitalità, quali le sue
possibilità di sopravvivere in uno spazio ogni giorno più
ristretto»”. Tra la ripresa dopo l'interruzione pittorica e
il 1974 si ricordano infine le puntuali presenze a collettive con cadenza
annuale come la Promotrice delle Belle Arti e le mostre del Piemonte
Artistico e culturale di Torino; le rassegne estive di Torre
Pellice e due edizioni dell’Incontro di artisti piemontesi e liguri
a Bordighera (1967, 1969). Il periodo ultimo 1975-1990
Dal 1975 si reimpose per Galvano un nuovo approccio rivolto alle
forme naturali: la ripresa di una figurazione espressionista pervasa
d’un realismo quasi visionario e il fascino recuperato, come
confessò lo stesso artista, per le gidiane «nourritures terrestes».
Galvano sembrò sentirsi quasi responsabile d'un tradimento verso la pittura
allorché, per coerenza, operò una «sintesi tra l’ele- mento naturale e il
non figurativo che gli consentì 54 A. Galvano,
Personale di Albino Galvano, in 25° mostra d’arte contemporanea, catalogo
della mostra, Scuole comunali, Torre Pel- lice 1974. 55 A.
Galvano, Autobiografia cit., p. 21. 56 E. Sanguineti, in catalogo
della mostra, Galleria Unimedia, Genova 1974. 57 G.C. Argan,
in catalogo della mostra Galleria Unimedia, cit.
SZ Nella bottega dell'antiquario.
un'impaginazione astratta servendosi di forme non inventate, non di
natura cerebrale ma veramente esistenti», Riemerse, con la
serie dei Cespugli (fino al 1977 circa), la fascinazione per i cespi di
iris, tema dominante di inizio anni Sessanta, ma questa volta non
più giocato con la «gestualità irruente» del colore spremuto direttamente
sulla tela, eredità del linguaggio informale, ma attraverso un
sedimen- tato approccio di sottili velature di pittura a olio
utilizzata come gouache che si rifaceva alle delicate tinte dei moduli di
qualche anno precedenti. Gli sfondi bianchi svuotati erano percorsi
esplicita- mente da segni grafici e scritte che sembrarono
dischiudere uno spiraglio perfino alla poesia visiva. Fu Galvano stesso,
riferendosi a questi la- vori — esposti in una personale del 1977 presso
la Galleria Weber di Torino — a parlare di «archetipo floreale»
dove «il fiore dell’iris scandisce l’intrico dei segni, grafismi di
parole o di immagini, altre volte rigidamente modulari o, almeno non anco-
ra piegati all’allusione significativa. ‘“Cespugli”
58 A. Spinardi, in catalogo della mostra, Piemonte Artistico e
Culturale, Torino 1982. 25 perciò in
contrapposizione ai glifi dell’”alfabetico asemantico” e dei griffonages
che li avevano, verso la fine del 1974, preceduti»®?. Dal
1978 e fino al concludersi del decennio seguì la serie dei Motivi
vegetali (Ciottoli, Foglie, Frutti, Relitti). La riappropriazione di una
rappresentazione ottica- mente realistica fu solo apparente; il candore
neutro dei fondiesaltava una suggestione di tridimensionalità
attraverso la scansione prospettica degli oggetti. Tali elementi solitari
erano estraniati dal loro contesto naturale e inseriti negli spazi
illusori di questa pittura d’assenza. Sul cadere diogni riferimento
a contenuti simboli- ci «o anche solo sentimentali» della pittura di
Galvano, ne scrisse Renzo Guasco in un testo che introduceva
lagrande mostra retrospettiva dell'artista organizzata a Torino nel 1979
dalla Regione Piemonte. Tali opere, per Guasco, «non sono più emblemi né
simboli che rimandano a un ulteriore significato. Per essi si può
forse parlare di “sospensione di senso” (per usare un termine di
Barthes), di un muto stupore di fronte alla vita e alla natura. Le foglie
morte e i relitti di Galvano rifiutano il significato, e quindi ogni
commento, o spiegazione. Il cespuglio spezzato è solo un cespuglio
spezzato; le foglie, anche se rosse, autunnali, non sono les feuilles
mortes»®. Con avvio del decennio Ottanta ne i Paesaggi
(Rocce, Alberi, Isole) vi fu il riutilizzo di una stesura cromatica che
spesso occupava l’intera tela con un conseguente recupero dell'effetto
tonale. Gli spazi desolati, le «muse inquietanti», che Galvano
propose in questa fase suggerirono a Paolo Fossati richiami alla
pittura metafisica. «Luoghi, intanto, vuoti, svuotati di allotrie
presenze, come è giusto siano le radure vuote e silenti, per il
camminante che vi si ferma a pensare e meditare. Luoghi di pensiero e di
inconsci sofismi: con i relativi feticci oppure archetipi, teste in
gesso di eroi, manichini nel pictor optimus; rami sassi acque per
Galvano»®!. L'artista in età avanzata, provato dalla
difficoltà dell’offuscamento della vista, con le serie di guazzi su
carta di Nudi e Macchie sperimentò infine, una pittura liquida fatta di
segni colantiin un'inversione di «sgor- bi cromatici di netta matrice
informale»? Nel 1988 confessava ai lettori del catalogo della Galleria
Micrò (una delle sue ultime mostre): «Ancora una volta ho voltato
gabbana e me ne scuso a chi può dare fastidio, 59 A.
Galvano, in catalogo della mostra, Galleria Weber, To- rino 1977.
60 R. Guasco, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura di), Albino Gal-
vano cit., p. 16. 61 P. Fossati, Per un omaggio a Galvano, in P.
Fossati, F. Garimol- di e M. C. Mundici (a cura di), Omaggio a Albino
Galvano, catalogo della mostra, Circolo degli Artisti, Torino, Electa,
Milano 1992, p. iz. 62 A.Galvano, in catalogo della mostra,
Galleria Micrò, Torino 1988. ma vorrei ricordare che vi è
stata una mia stagione di “eriffonages” [...] che a questi fogli ultimi
molto si apparenta, anche se là il segno prevaleva, monocromo
[...]. Perciò dico a mia difesa — il diritto di difendersi è sempre riconosciuto
ai colpevoli — “versatilità, ca- pricciosità sì, incoerenza no”»®.
Molti furono gli spazi espositivi torinesi che ac- colsero le
personali di Galvano inquadrando la sua ultima fase pittorica, tra cui:
la Galleria Weber (1977), il Piemonte Artistico e Culturale (1982), la
Galleria Cittadella (1981 e 1984) e la Galleria Micrò (1988).
Occasioni extracittadine rilevanti furono presso la Galleria Morone di
Milano (1979), la Galleria Villata a Cerrina Monferrato (1980) e la
bipersonale insieme a Gino Gorza presso Palazzo Te a Mantova (1988).
Si rammentano poi l’antologica presso la Galleria La Cittadella di
Torino con opere dal 1930 al 1950 (1976); la vasta esposizione del 1979
organizzata dalla Regio- ne Piemonte presso Palazzo Chiablese di Torino
che esplorava l’intera carriera dell'artista (corredata da un
notevole apparato critico in catalogo) e le mostre retrospettive del 1989
e 1990 alla Galleria Accademia di Torino. Costanti furono
inoltre le partecipazioni a collet- tive come alla Promotrice torinese
(dal 1975 al 1979), alla Galleria Martano (1976) e all'esposizione
Torino tra le due guerre presso la Galleria d’arte moderna di
Torino. Infine, nell’ambito della rinnovata attenzione perlostoricizzato
Movimento Arte Concreta, Galvano figurò in svariate mostre a:
Cavallermaggiore (1980), Torre Pellice (1983), Gallarate (1984), Aosta
(1987). Albino Galvano morì il 18 dicembre 1990 a Torino
all’età di ottantatré anni. La dichiarazione conclusiva sugli
intendimenti di una pratica pittorica perseguita per l'arco di una
vita intera è affidata a Galvano stesso e permette di afferrare almeno un
aspetto di questa multiforme e primaria figura di artista, critico e
intellettuale italiano del Novecento. «Di una sola coerenza credo di
poter- mi vantare, ma è coerenza che in qualche modo mi sequestra
al di fuori di tanta arte contemporanea: la fedeltà alla tela, al colore
ai pennelli. In parole povere ho sperimentato molto, forse troppo e
troppo disper- sivamente, ma non mi sono mai sentito vicino alle
ricerche di chi avevarifiutato o cercato un'alternativa ai mezzi tecnici
— che poi vuol dire anche espressivi — di una tradizione che va dal
Cinquecento agli impressio- nisti, ai fauves, agli espressionisti.
Fedeltà o incapacità di uscire dalla routine? Non sta a me deciderlo.
Ne rivendico la responsabilità o il merito». 63 bid.
64 A.Galvano, in catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova 1988.
26 Seconda metà anni Settanta.
Alla presentazione del volume "La pittura, lo spirito
e il sangue", 1988. Da discepolo a interprete. Albino Galvano
e Felice Casorati Alessandro Botta “Quando, a
vent'anni, mi presentai alla Scuola di via Galliari, cioè allo studio di
Felice Casorati, avevo dietro le incerte aspirazioni dettate da una
pretesa mia attitudine al disegno [...]. Poco, ma abbastanza,
insie- me alla passione per la storia dell’arte, perché seguis- si
con attenzione sulle riviste (specialmente “Empo- rium”) le Biennali
veneziane del 1926 e del 1928 che mi educarono al gusto per l’arte
contemporanea”. Con queste parole Albino Galvano apre la sua auto-
biografia scritta per una mostra retrospettiva torinese del 1979,
definendo sin da subito le proprie origini di formazione e circostanze di
aggiornamento. Nato nel 1907, “anno in cui, con le Demoiselles’ di
Picasso, l’arte occidentale vedeva chiudersi il ciclo iniziatosi alla
fine del duecento”? si iscrive al liceo classico Cavour insie- me a
Giulio Carlo Argan (“eravamo vicini di banco”), e presto interrompe gli
studi per dedicarsi interamente alla pittura, seguendo inizialmente le
indicazioni di ar- tisti intercettati attraverso le conoscenze
familiari.‘ Un temperamento vivo e curioso, il suo, che più
che seguire le letture e gli studi che il percorso scola- Stico gli
impongono, preferisce accrescere le proprie conoscenze con una formazione
isolata, fatta di letture personalissime: “Mi seppellivo cinque-sei ore
al giorno in biblioteca — sostiene in un'intervista —. Lì incomin-
ciai a leggere ‘La Critica’. Nel’25 avevo letto Bergson” 5
Nell’atteggiamento che caratterizza il giovane artista, concentrato ad
inseguire le proprie passioni piuttosto che le strade già battute, si può
forse leggere una conti- nuità nella scelta di rivolgersi a Casorati come
maestro, una decisione non così scontata in una Torino dove gli
orientamenti estetici erano ancora influenzati dall’in- gombrante figura
di Giacomo Grosso e dall’insegna- mento della paludata Accademia
Albertina. Galvano ha una fascinazione improvvisa verso
l'artista torinese, arrivata attraverso l'osservazione di-
1 A. GALVANO, Autobiografia, in N. PizzETTI, G. Givone (a
cura di), Albino Galvano, catalogo della mostra (Torino, Palazzo
Chia- blese, 21 dicembre 1979 - 13 gennaio 1980), Regione Piemonte,
Torino 1979, p. 17. 2 Ibidem. 3 G. C. ARGAN, Albino
Galvano [presentazione], in XXVIII Bien- nale di Venezia, catalogo della
mostra (Venezia, giugno - ottobre 1956), Alfieri Editore, Venezia 1956, p.
213; “Non eravamo tra i pri- mi della classe: troppe cose
c'interessavano, che non avevano nulla a che fare col programma, e ne
discutevamo per interi pomeriggi, dimenticando le versioni di latino e i
problemi di matematica. For- se quell’amicizia di ragazzi ci costò qualche
esame a ottobre ma, almeno per me, non fu un'esperienza inutile”
(Ibidem). 4 Galvano parla di “un apprendistato presso il Vannini,
ma- estro di disegno a cui ero stato indirizzato dal pittore
Giovanni Pisano amico di famiglia, che avevo avuto spesso occasione di
veder al cavalletto” (A. GaLvano, Autobiografia [1979], cit., p. 17). ©)
[Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], in P. Fossati, F. GarmoLpi, M.
C. Munpici (a cura di), Omaggio a Albino Galvano, catalogo della mostra
(Torino, Circolo degli Artisti, 23 gennaio - 1° marzo 1992), Electa
Piemonte, 1992, p. 140. Ud Albino
Galvano alla mostra personale di Palazzo Chiablese, Torino, 1979.
Archivio Storico della Città di Torino, fondo "Gazzetta del Popolo".
retta di alcuni suoi dipinti presenti nelle collezioni del museo
cittadino: “Alla Galleria di Torino — sostiene egli stesso
nell’autobiografia del 1952 — mi erano cioè pia- ciuti piuttosto i
bianchi di tempera con il rosso dei co- ralli o il cielo spugnoso del
bozzetto per il ‘Ritratto del- la signora Wolf” che il neoquattrocentismo
del ‘Ritratto della sorella’”.. Prime indicazioni attestabili dopo
il 1926, sintomatiche di un interessamento che si rafforza man mano
e che è destinato a diventare decisivo per il suo ingresso nella scuola
dopo la visita alla Biennale veneziana del 1928, nella quale Casorati
espone,” oltre ad otto dipinti, anche due statue destinate al
proscenio per il teatro Gualino. Galvano è colpito, in questa occa-
sione, ‘“[dal]l’azzurro o il paglierino di stoffe e legni in ‘Daphne’ che
le pose ricercate dei nudi”. 6 A.GALVANO,
[autobiografia], in Albino Galvano, catalogo del- la mostra (Asti,
Galleria La Giostra, 1952), Asti 1952, p.n.n.; rela- tivamente ai dipinti
di Casorati citati si veda il catalogo generale dell'artista G.
BERTOLINO, F. PoLi, Felice Casorati. Catalogo generale. I dipinti
(1904-1963), 2 voll., Allemandi & C., Torino 1995, nn. 188 (1922),
250 (1925). Da qui in poi citato come (Bertolino, Poli). 7 A. GALVANO,
[autobiografia] [1952], cit., p. n.n. Relativamen- te alla Biennale del
‘28 scrive: “Quella del 1928 volli visitarla di persona e vi fui
impressionato specialmente da Felice Casorati, sicché decisi, scoperto
che abitava a Torino, di iscrivermi alla sua scuola.” (Ip., Autobiografia
[1979], cit., p. 17). 8 Ibidem;inquell’occasione, oltre al Ritratto
di Daphne (1928) (Ber- tolino, Poli 328), Casorati espone l’opera Ragazze
dormenti (o Mozart) (1927) (309), ricordata da Galvano nel suo racconto
autobiografico. L'ingresso alla scuola, avvenuto
probabilmente verso la fine dell’anno o all’inizio di quello
successivo, lo vede inserirsi in un ambiente già consolidato, ac-
cresciuto notevolmente d’iscritti rispetto al nucleo fondante di stretto
discepolato del suo studio “che sta tra l'accademia e il monastero” del
1921.!° La “Scuola libera di pittura”, inaugurata nel 1927 in via
Galliari 33, è ormai una realtà pubblica, che riunisce maestro e
allievi e li vede impegnati come fronte coeso nelle esposizioni cittadine
e nazionali.! La serietà e la dedizione alla pittura sono le
ca- ratteristiche fondamentali che danno l’accesso alla scuola: lo
si ricava dalle impressioni che risuonano con continuità tra i commenti e
i ricordi degli allievi che in tempi diversi affrontano l’alunnato
casoratia- no.! Galvano non fa eccezione: “L'accoglienza fu, come
era nel suo stile, di una signorile severità”.! Ma, al di là delle
incertezze iniziali, il maestro sem- bra essere più colpito dalla
spiccata vivacità intel- lettuale del giovane allievo piuttosto che dalle
sue capacità pittoriche: “credo che — sottolinea Galvano
raccontando di se stesso — abbia avuto subito per l’uomo la simpatia e la
stima che poi sempre mi di- mostrò, forse assai più scarsa la fiducia
nelle mie possibilità di pittore, il che mi fu ottimo stimolo a
intestardirmi e ad impegnarmi a fondo”! Tra la fine di ottobre e
l’inizio di novembre del 1929 lo scolaro “intelligente ma noioso,
predicatorio”, secondo il ricordo di Lalla Romano (anche lei discepola
di Casorati),'° presenta le sue opere per la prima volta con il gruppo di
allievi alla II Esposizione d’arte allesti- ta nello studio di via
Galliari. L'esposizione “intima”, alla sua seconda edizione, è aperta al
pubblico di inte- ressati (a visitarla, sono perlopiù personalità del
milieu intellettuale antifascista cittadino) e vuol essere una
“raccolta dei lavori più notevoli eseguiti dagli allievi nello scorso
anno”.!° La prova generale della scuola non sembra però garantire a
Galvano l’accesso all’im- 9 Galvano, a molti anni di distanza,
fissa la sua presenza nella scuola “dalla fine del 1928 a quella del
1930” (A. GaLvano, Auto- biografia [1979], cit., p. 17). 10
P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, Torino [1923], p. 91. 11
Perunostudiosulla scuola di Casorati e sulle vicende espo- sitive della
stessa si veda V. CavaLLaro, La scuola di Casorati, tesi di laurea,
Facoltà di lettere e filosofia, Università degli Studi di Torino, 2012,
relatore: F. Rovati; F. Poi, V. CavaLLaro (a cura di), La scuola di
Felice Casorati ed Andrea Cefaly, catalogo della mostra (Catanzaro,
Complesso monumentale di San Giovanni, 26 ottobre — 26 novembre 2017),
Rubettino, Soveria Mannelli 2017. 12 testimonianze e memorie dei
suoi discepoli, in C. Pianciola (a cura di), Il critico e il pittore.
Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni, Fano 2018.
13 A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p. 17. 14 Ibidem.
15. L. Romano, Una giovinezza inventata, Einaudi, Torino, 1979, p.
192. 16 E. PauLuccCI, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le
Arti Plastiche”, 16 novembre 1929, p. 2. Su questo
argomento si veda A. BOTTA, Felice Casorati nelle. 28
minente esposizione alla Galleria Valle di Genova — or- ganizzata
probabilmente da tempo e inaugurata nel gennaio del nuovo anno -, che
vuol essere l’occasio- ne per riunire una selezione più stretta degli
allievi.!” Dovrà attendere ancora qualche mese, in primavera, prima
di assistere alla presentazione di un suo dipinto (accolto per
accettazione dalla Giuria) alla Biennale del 1930.!* Riuniti attorno al
maestro, gli allievi di Casorati — otto in totale — occupano la sala 30,
attigua alla fortu- nata e discussa retrospettiva di Modigliani ordinata
da Lionello Venturi, che non manca di far nascere alcune
corrispondenze e letture parallele con le opere dei ca- soratiani.
Da questo momento in poi Galvano incomince- rà ad essere presente
con continuità alle mostre della scuola. Una conferma che arriva già a
poche settima- ne di distanza con la partecipazione alla 88°
esposizione della Società Promotrice delle Belle Arti con ben
quattro dipinti. Ancora alla fine dell’anno il suo nome si regi-
stra tra gli allievi presenti alla III Esposizione d’arte di via
Galliari,' mentre nel gennaio del 1931 viene segna- lato come uno dei
“casoratiani” che espongono - que- sta volta senza il maestro — alla
mostra torinese degli “Amici dell’ Arte”. Se fino a questo
momento le opere di Galvano non sembrano sollecitare più di tanto l'interesse
della critica — forse perché il modello del maestro è troppo
riconoscibile nella sua pittura —, l'occasione della I Qua- driennale
d'Arte Nazionale di Roma del gennaio 1931 apre ad un interessamento che
coinvolgerà da lì in poi anche il giovane artista torinese, presente con
il dipinto Estate, riprodotto per l'occasione sulla nota rivista
mi- lanese “La casa bella”?! Galvano, ancora coeso al gruppo
almeno fino al marzo di quell’anno (la sua presenza è confermata in
una mostra di “scuola” allestita alla galleria Milano),
17 Esposizione dei pittori Casorati, Bay, Bionda, Bonfantini, Mar-
chesini, Maugham, Mori, prefazione di G. Pacchioni, catalogo della mostra
(Genova, Galleria Valle, 20 gennaio - 3 febbraio 1930), Ge- nova
1930. 18. Sitratta del dipinto Paese con un ponte; cfr. Catalogo
XVII Espo- sizione Biennale Internazionale d'Arte 1930, catalogo della
mostra (Venezia, maggio - novembre 1930) Venezia 1930, sala 30, n.
18. 19 Cfr. E. Pautucci, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in
“Le arti plastiche”, 16 gennaio 1931, p. 2. 20 Cfr.E. ZANZI,
Cronache torinesi. La mostra degli “Amici dell’Ar- te”, in “Emporium”,
vol. LXXIII, n. 433, gennaio 1931. pp. 50-51. 21. P. Torriano, Cronache
d’arte. Note alla I Quadriennale, in “La casa bella”, marzo 1931, p. 57.
Relativamente alla partecipazione degli artisti piemontesi alla rassegna
romana si veda L. IAMURRI, Levi, Paulucci e gli altri. Presenza torinesi
alla Quadriennale, in M. Cossu, C. MicHELLI (a cura di), Cultura artistica
torinese e politiche nazionali 1920-1940, catalogo della mostra (Roma,
Galleria Nazio- nale d'Arte Moderna, 16 dicembre 2004 - 13 febbraio
2005), Electa, Milano 2004, pp. 58-60. 22. Cfr. Bay, Bionda,
Bonfantini, Casorati, Chicco, Cremona, Donati, Galvano, Levi, Maugham,
Marchesini, Mennyey, Mori, catalogo del- la mostra (Milano, Galleria
Milano, 1° - 15 marzo 1931), Milano 1931.
Copertina del catalogo della mostra alla Galleria Milano, Milano 1931.
incomincia a dar segni di cedimento rispetto allo sta- tuto
casoratiano e nei confronti della scuola. Un di- Stacco progressivo che
si rende evidente nell'esercizio Stesso della pittura, che lo vede
ricercare una propria indipendenza e nuove vie di espressione. La Promo-
trice del 1931 diventa per lui un terreno di confronto nel quale
presentare le più recenti ricerche, filtrate at- traverso nuovi modelli
nel frattempo subentrati e ma- turati, chiariti con lucidità — a distanza
di anni — dallo Stesso artista: Mi affascinavano il tentativo
di ricostruzione formale del mio maestro e, contemporaneamente e
contradditto- riamente, gli esiti dell’impressionismo e
postimpressio- nismo, sia nelle loro accezioni originali sia nelle
riprese locali dei Sei e, in genere, la pittura di colore e di
tocco, ovviamente legata a una visione naturalistica. Nel du- plice
e, in certo senso, contraddittorio intento di tener Insieme i valori
plastici di Casorati e quelli cromatici dei Sei il risultato diveniva
naturalmente pesante, impasta- to, anche perché subivo fortemente
l'influenza di una certa pittura francese [...], o meglio di una pittura
che si faceva in Francia spesso da stranieri, [...] che allora agli
inizi degli anni trenta mi affascinava dalle pagine di “L'Art
Vivant”.® Assente il maestro, Galvano è presente con tre
ope- re. La Composizione con figura, in particolare, riprodotta
23. A. Galvano, Autobiografia [1979], cit., p. 18.
29 sia in catalogo che sulla rivista “Emporium”,’°
mostra gli esiti dell'aggiornamento condotto sugli esempi dei
post-impressionisti francesi e sulle proposte figurative dei “Sei”
(sciolti ufficialmente, come gruppo, proprio nel 731), che si
riconoscevano nella linea di rinnovamento dell’arte contemporanea tracciata
da Lionello Venturi.® Il passaggio, da questo momento in poi, è
breve. Complice un disfacimento generalizzato della scuola stessa,
il pittore, alla mostra degli “Amici dell'Arte” al- lestita nell'autunno
del medesimo anno, è considerato già da tutti un ex allievo.?? Ma la sua
fedeltà al maestro e l'amicizia che li lega lo vedranno partecipare
ancora ad una mostra di “scuola”, allestita nel teatro di Pavia
all’inizio del 1932. Accanto agli ex compagni, Galva- no diventa una
presenza eccentrica. Le sue opere, che spaziano tra i generi (dalla
natura morta al paesaggio), mostrano la sua indecisione circa la strada
da intra- prendere, alla luce delle più recenti scoperte, passando
“da l’espressionismo a l'impressionismo senza un atti- mo di esitazione”.
La “rottura” con Casorati — 0 presunta tale —, coin- cide con il
suo esordio di critico e con il suo avvicina- mento a Lionello Venturi,
al quale viene introdotto dal suo compagno di studi Giulio Carlo Argan.*
Nel lu- glio del 1932 Galvano pubblica il suo primo contributo
sull’illustre rivista trimestrale “L'Arte”, che a partire dal 1930 vede
Lionello impegnato nella condirezione accanto al padre Adolfo. La
presenza del figlio, pro- fessore all’Università di Torino, apre il
periodico al di- battito sulle arti contemporanee, fino a quel
momento escluso dai contenuti tradizionali della rivista. Il saggio
Armando Spadini e il gusto degli impressionisti? mostra l'avvicinamento
di Galvano alla critica venturiana, già evidente nel titolo del
contributo (che riecheggia il più celebre volume del 1926)" e che si
conferma nei conte- nuti e nel soggetto stesso dell'articolo.
24 E. ZANzZI, Cronache torinesi. Dopo ottantanove anni...
L'Esposi- zione Interregionale della Promotrice di B. A., in “Emporium’”,
vol. LXXXIV, 443, novembre 1931, p. 307. 25 Alberto Rossi,
sulle pagine de “L'Italia letteraria”, sottolinea come Galvano sia ormai
“teso a tutt'uomo alla ricerca di costru- zioni personali” (A. Rossi, Una
mostra interregionale, in “L'Italia letteraria”, 12 luglio 1931, p. 4),
mentre Emilio Zanzi, su “La Gaz- zetta del Popolo”, rileva come la
distanza -tra allievo e maestro- sia ormai sensibile sia da un punto di
vista cromatico che formale: “Il giovane Galvano - fa notare - sta
liberandosi dai grigi e dalle tristezze casoratiane e ora si esperimenta,
con accortezza e con gusto, nelle esperienze di Matisse e di Friesz” (E.
z. [E. Zanzil], L'arte al Valentino. La terza Mostra regionale del
Sindacato delle Belle Arti, in “Gazzetta del Popolo”, 14 maggio 1931, p.
6). 26 Cfr.e.z. [E. Zanzi], Agli “Amici dell'Arte” pittori,
scultori, ar- chitetti, decoratori. La mensa degli avieri ideata da S. E.
Balbo, in “Gaz- zetta del Popolo”, 10 ottobre 1931, p. 7. 27,
P.A.Sornini, Alla mostra Casorati II, in “Il Popolo di Pavia”, 27 gennaio
1932, p. 3. 28 Cfr. A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p.
17. 29 In., Armando Spadini e il gusto degli impressionisti,
in “L'Arte”, vol. III, nuova serie, IV, luglio 1932, pp. 318-331.
30 LL. VENTURI, Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna 1926.
Accanto all'impegno pittorico, piuttosto in crisi in questo
periodo (“per una dozzina d'anni, mi mossi un poco a casaccio”), Galvano
intraprende gli studi universitari presso la Facoltà di magistero. Una
scelta che è dettata non tanto dalla sua ben nota passione per le
materie letterarie e filosofiche o dalla sua curiosità innata, ma più
semplicemente da “problemi economi- ci” che lo obbligano “in fretta e
furia a prendere una laurea e ad iniziare l'insegnamento in istituti
privati” La fine del suo percorso di studi, che si conclude con una
Tesi sulla pedagogia della religione discussa con Angiolo Gambaro e
Nicola Abbagnano, coincide con la ripresa dell'attività di critico ma
anche di saggista,” che si fa particolarmente intensa a partire dal 1938
e che lo vede collaborare con le riviste “Il Selvaggio” ed
“Emporium”. AI di là dell'abbandono della scuola di Via Gal-
liari, Casorati resta per Galvano un solido punto di riferimento, non
tanto come esempio figurativo o di pratica pittorica da seguire, ma come
rappresentate di un modello culturale autorevole e indipendente
pre- sente in città. L'amicizia tra i due, avviata alla fine degli
anni Venti e riconfermata in più occasioni, sembra in questo giro di anni
intensificarsi ulteriormente, antici- pando il sodalizio che porterà alla
pubblicazione della monografia per la collana “Arte Moderna Italiana”
di Scheiwiller nel 1940, dedicata integralmente al mae-
stro.” A partire dal 1938 (fino al 1942) incomincia a col-
laborare con “Emporium” occupandosi di curare la sezione Cronache
torinesi del mensile. Questo nascente incarico gli permette di affrontare
e commentare l’atti- vità artistica piemontese, confrontandosi con un uni-
verso legato ad una rivista nota ed ampiamente diffusa e discussa.
Casorati è sempre presente nei suoi articoli: viene seguito passo passo
da Galvano sia nelle vesti di pittore che di organizzatore culturale,
offrendo in spe- cial modo la propria attenzione all'impresa della
galle- 31 A.GALVvano, [autobiografia] [1952], cit., p. nn.
32. [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 138.
33. Da ascriversi sempre al rapporto con Venturi sono i tre vo-
lumi di Galvano, apparsi a partire dal 1938 per l'editore Nemi di Firenze
(L'arte egiziana antica [1938]; L'arte dell'Asia occidentale e centrale
[1938]; L'arte dell'Asia orientale [1939]), pubblicati nella collana
“Novissima enciclopedia monografica illustrata”. 34 “Casorati
[...] sapeva rispettare la personalità dell'allievo anche quando non era
affatto d'accordo sulla visione dell’allie- vo. Infatti quei pochi
che sono venuti fuori tra i molti che c'erano - Bonfantini,
Chicco, Paola Levi Montalcini, ed io, ci siamo subito allontanati da
Casorati pur restando suoi amici, pur essendo sem- pre aiutati da lui sul
piano pratico per mostre ed esposizioni. [...] Ma la Montalcini ed io
siamo passati negli anni Cinquanta all’a- strattismo, poi all’informale,
tutte cose che Casorati... ma non ci ha mai tolto né la sua amicizia né
la sua protezione. In questo era veramente un grandissimo signore”
([Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 141). 35
A. GALvano, Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie A -
Pittori - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1940. 30 ria
“La Zecca”, avviata dal maestro a Torino insieme a Enrico Paulucci in via
Verdi 15.5 Se appare piuttosto chiaro come Galvano tenti —
con i mezzi a sua disposizione — di promuovere e so- stenere l’amico
Casorati nelle sue molteplici attività, il maestro, dal canto suo, cerca
di aiutare il suo ex-allievo nel suo percorso di pittore. È lo stesso
Galvano a di- chiarare apertamente, molti anni più tardi, come la
sua affermazione al Premio Bergamo sia in realtà frutto di un aiuto
arrivato dallo stesso maestro: “Casorati era molto potente [...] mi fece
accettare [al Premio Berga- mo], mi fece sempre dare qualche premio, per
cui mi trovai agganciato”. Presente con continuità dal 1939 al
1942, Galvano si aggiudica per ben tre anni i pre- mi in denaro del
concorso. Solo nella seconda edizio- ne non compare tra i vincitori, ma
la sua opera viene acquistata dal Ministero dell'Educazione Nazionale
a titolo di incoraggiamento. Il. Verso la fine
del 1940 è data alle stampe la mo- nografia “Felice Casorati” scritta da
Albino Galvano, apparsa per le edizioni Hoepli di Milano.* La pub-
blicazione si inserisce all’interno dell’ambiziosa col- lana “Arte
Moderna Italiana” inaugurata nel 1925 e coordinata da Giovanni Scheiwiller,
immaginata per raccogliere — uno dopo l’altro — gli artisti italiani
più noti del tempo, attraverso piccole monografie illustra- te,
introdotte da un testo critico che viene di volta in volta scelto
dall'editore o dall'artista protagonista del volume. In questo caso, è
infatti Casorati a suggerire il nome del giovane critico a Scheiwiller,
incaricandolo di aggiornare radicalmente la precedente edizione di
Raffaello Giolli, ormai vecchia di quindici anni.” La piccola
monografia di Galvano non si colloca, all’epoca, come una novità di
genere nella letteratura artistica del pittore, ma rientra in un panorama
già piuttosto sedimentato di studi sul maestro, che si oc- cupano
di fornire uno sguardo complessivo sull'intera produzione raggiunta sino
a quel momento. Il volume 36 Ip., La collezione
Della Ragione, in “Emporium”, vol LXXXVII, 520, aprile 1938, p. 220; Ip.,
Torino. Maccari alla “Zecca”, in “Em- porium”, vol. LXXXIX, 531, marzo
1939, pp. 161-162. In., Torino. Mostre alla “Zecca”, in “Emporium”, vol.
XC, 537, settembre 1939, pp. 161-163; Ip., Torino. Mostre alla “Zecca”,
in “Emporium”, vol. XC, 538, ottobre 1939, pp. 203-204. 37.
[Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 138. 38. A.
GALVANO, Felice Casorati, cit. Per uno studio sulla mono- grafia si veda
A. Botta, Albino Galvano e Felice Casorati. La mono- grafia per la
collana “Arte Moderna Italiana” di Giovanni Scheiwiller, tesi di
specializzazione, Università degli Studi di Udine, 2014- 2015, relatore:
F. Fergonzi. 39 R. Giotty, Felice Casorati, Arte moderna italiana
n. 5, Serie A - Pittori - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1925. lo studio di
Giolli, infatti, limitava necessariamente l'indagine sull'artista alla
prima metà degli anni Venti. di Gobetti del 1923,‘ che si
propone come una rico- struzione cronologica del percorso artistico
(nonostan- te la limitatezza della produzione casoratiana) apre la
strada a numerosi tentativi di interpretazione e ordi- namento dell’opera
del maestro, non limitati alle pub- blicazioni di carattere monografico
(il caso successivo — come si è detto — è quello di Giolli) ma
rintracciabili anche all’interno di contributi meno estesi che, a
par- tire dal saggio di Venturi uscito il medesimo anno su
“Dedalo”, diventano sempre più frequenti nei tempi a venire, anche sotto
forma di presentazioni nei catalo- ghi delle esposizioni.” La
critica contemporanea studia la produzione di Casorati secondo principi e
approcci molto differen- ti che, verso la metà degli anni Venti, tendono
a farla rientrare in quel processo di costituzione di un'arte
nazionale ufficiale: un’annessione ai “pittori del Nove- cento” (non
pienamente condivisa dall'artista) che sarà esplicitata nell'articolo di
Margherita Sarfatti apparso su “La Rivista Illustrata del Popolo
d’Italia” nel marzo del 1925* e che contribuirà a determinare una
lettura della pittura di Casorati divisa “tra estetica e lettera-
tura”, destinata a rimanere ancora per molto tempo identificativa del suo
lavoro. Intorno agli anni Trenta il lavoro di Casorati rien-
tra già nell'ottica di una ricostruzione storica più am- pia dell’arte
italiana ed internazionale: le pubblicazioni della Sarfatti, di Virgilio
Guzzi, di Vincenzo Costanti- ni, di Anna Maria Brizio e — poco più tardi
- di Ugo Nebbia, esaminano Casorati secondo una prospettiva
generale (con le inevitabili ed ulteriori opinioni con- traddittorie), ma
sono tutte piuttosto concordi a identi- 40 P. Gost, Felice
Casorati pittore, cit.. 41 L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in
“Dedalo”, IV, fasc. IV, Settembre 1923, pp. 238-261. 42 Ip.,
Mostra individuale di Felice Casorati, in XIV Esposizione Internazionale
d'Arte della Città di Venezia, catalogo della mostra (Venezia, aprile -
ottobre 1924), Carlo Ferrari, Venezia 1924, pp. 88-89; G. PACCHIONI,
Felice Casorati, in Exposition d'’artistes italiens contemporains,
catalogo della mostra (Ginevra, Musée Rath, feb- braio 1927),
Stabilimento grafico Foa, Torino 1927, p. n.n.; A. Rossi, Felice Casorati,
in 21 Artistes du Novecento Italien. Deuxième exposi- tion du Novecento
italien, catalogo della mostra (Ginevra, Galerie Moos, giugno-luglio
1929), Richter, Ginevra 1929; M. BERNARDI, 25 opere di Felice Casorati
nel salone de La Stampa, catalogo della mostra (Torino, gennaio 1937),
Tipografia del giornale “La Stam- pa”, Torino, 1937, p. n.n. Per una
ricognizione sulla fortuna critica Casoratiana si veda P. THeA, La
critica e Casorati: profilo e antologia, in M. M. LAMBERTI, P. Fossati,
Felice Casorati 1883-1963, catalogo della mostra (Torino, Accademia
Albertina, 19 febbraio - 31 marzo 1985), Fabbri Editori, Milano 1985, pp.
141-167. 43. M. SARFATTI, Pittori d'oggi. Felice Casorati, in
“Rivista illustra- ta del Popolo d’Italia”, 15 marzo 1925. 44
In. Storia della pittura moderna, Paolo Cremonese Editore, Roma 1930; V.
Guzzi, Pittura italiana contemporanea. Origini e aspet- il, Bestetti
& Tumminelli, Treves, Roma-Milano 1931; V. COSTAN- TINI, Pittura
italiana contemporanea dalla fine dell’800 ad oggi, Ulri- co Hoepli,
Milano 1934; A. M. Brizio, Ottocento Novecento, Utet, Torino 1939; U.
NEBBIA, La pittura del Novecento, Società editrice libraria, Milano
1941. 31 ARTE MODERNA ITALIANA N.
5 ALBINO GALVANO FELICE CASORATI
1940 - XIX ULRICO HOEPLI . MILANO EDITORE
Felice Casorati, Ulrico Hoepli, Milano 1940. ficare
nell'opera del medesimo una tendenza interna e personalissima alla
corrente novecentista. Le difficoltà nel rintracciare una linea
condivisa per la sua arte era già stata evidenziata da Giacomo
Debenedetti (intellettuale torinese, come Gobetti, “pre- stato” anche lui
alla critica d’arte) con l'articolo Casorati e la critica d'arte del
1933, nel quale sottolineava come “L'arte di Casorati pare fatta apposta
per isconcerta- re gli schemi che la più ‘scientifica’ critica d'arte
s'è data come sicuri oramai ed incontrovertibili”,’° evi- denziando
nelle conclusioni tutte le contraddizioni di una generazione: “Linea,
dunque, no: forma plastica, no: colore, no: o quanto meno né la linea, né
la forma, né il colore intesi come schemi esclusivi ed esaurien-
ti, nell'accezione data dai critici, che di quegli schemi si sono fatti,
non pure gli interpreti, ma i banditori. E questa è l’involontaria
polemica del Casorati contro la critica d’arte”. Davanti a
questo insieme di opinioni e approc- ci differenti, Galvano si dimostra
sin da subito molto perplesso verso i suoi predecessori, affermando
in maniera categorica come “Ciò che è mancato più ad una critica
concludente su Casorati è appunto [...] una comprensiva ‘lettura’ delle
sue pitture”,‘ e sintetizzan- 45 G.
DEBENEDETTI, Casorati e la critica d'arte, in “L'Italia lettera- ria”, 15
gennaio 1933, p. 4. 46 Ibidem. 47 A.GALVANO, Felice
Casorati, cit., p. 28. do poi, nelle prime pagine della
monografia, i termini di questa fortuna critica — che è anche
incomprensio- ne — sedimentata verso l’artista, almeno fino alla
metà degli anni Venti: Casorati ha goduto di un momento di
fortuna quando la sua pittura, forse proprio perché meno urtante a
prima vista di quella di altri pittori di avanguardia, ebbe tutti i
suffragi e specialmente a quelli della critica che voleva essere alla
pagina, ma salvando il rispetto per la tradi- zione [...] Erano i tempi
in cui la pittura del novecento appariva come uno sforzo neoclassico in
polemica con l’arte futurista da una parte, con l’aneddotismo
elegante dall'altra, [...] la pittura di Casorati [...] ebbe una sua
funzione in Italia per liberare il medio pubblico dagli en- tusiasmi per
Grosso, per Sartorio, per Dall’Oca Bianca.* Rispetto ai precedenti
studi la posizione di Gal- vano è fin da subito ben chiara: risiede
nell'approccio preferenziale con cui affronta l’opera di Casorati,
total- mente inedito sino a quel momento, che viene ribadito in più
punti della monografia. In apertura del volume il critico-pittore
sottolinea come la sua analisi non si circoscriva a una rilettura
analitica e distaccata della produzione casoratiana, ma si sviluppi
attraverso una consapevolezza fondata sul ricordo della propria
formazione: “Casorati pittore — scrive richiamandosi ai suoi rapporti col
maestro — è stato per molti della mia generazione una esperienza di
importanza capitale in ordine alla formazione del gusto e
all'orientamento di una cultura non soltanto limitata a fatti di specie
figurativa. La pratica di di- scepolato presso di lui e la frequente
consuetudine di Casorati uomo, hanno valso ad alcuni di noi come
un'esperienza fra le più profonde e decisive anche per quanto riguarda la
vita morale”! L'insegnamento di Casorati, oltre a fornire una
solida base di rudimenti pittorici insieme agli stru- menti per uno
sviluppo individuale delle personalità artistiche, è la chiave — sempre
secondo Galvano — per la comprensione stessa dell’opera del maestro,
chiarita metaforicamente in un passaggio del testo: “Casorati è uno
di quei pochissimi artisti che dopo il rapimen- to delle muse non
rimangono incoscienti di quanto in loro è avvenuto; lo capiscono ed
aiutano a capirlo agli altri”.°° Un concetto che viene ribadito, in
maniera ancora più chiara, verso la fine del suo lungo contri- buto
per Scheiwiller: “Non molti di noi [allievi] hanno saputo da quelle
parole imparare a dipingere decente- mente, ma certo tutti a leggere i
suoi quadri un poco meglio”. Con queste premesse Galvano
vuole dimostra- re come la vicinanza al maestro gli permetta di
avere 48 Ivi, p.7. 49 Ivi, p.d. 50 Ivi, p. 6.
51. Ivi, p.32. 32 una visione privilegiata, lucida e
fedele del suo lavoro, elevando la lettura delle opere ad un’originalità
vicina alle intenzioni del maestro, più di quanto gli altri pos-
sano avere. AI di là degli schieramenti e dei tentativi di
cate- gorizzazione che, a più riprese, hanno interessato il la-
voro di Casorati — tra assimilazione al gruppo novecen- tista, ascendenza
neoclassica 0, ancora, appartenenza alla poetica metafisica —, Galvano
sceglie il sostantivo “Platonismo” per riassumere gli esiti figurativi
ottenu- ti dall'artista a partire dagli anni Venti,"
un’indicazio- ne che gli permette di liberarsi da ingombranti
etichet- te sino a quel momento attribuite all'opera del pittore.
È un'affermazione di Casorati a suggerire a Gal- vano le basi per
un'interpretazione platonica delle sue opere: il critico recupera
esplicitamente una dichiara- zione del maestro che risale al 1921
espressa a margine di un catalogo della Galleria Pesaro, nella quale
chiari- sce le proprie intenzioni —quasi programmatiche — di
esercizio pittorico: “Dipingere la verità, dimenticando la realtà
superficiale” 5° Un concetto che viene succes- sivamente ribadito da
Casorati, spogliato delle sue im- plicazioni categoriche (rinnegate in un
secondo tempo dallo stesso pittore)? in una successiva
dichiarazione, fatta a dieci anni di distanza e riportata nel
catalogo della prima Quadriennale romana, con la quale l’ar- tista
sottolinea ancora una volta come il suo distacco dalla realtà dei
soggetti sia prerogativa fondante del suo lavoro: “la mia pittura è
staccata dalla vita”.> La posizione “platonica” di Galvano pone
il la- voro di Casorati in netto contrasto con la pittura degli
Impressionisti (che godono invece di una notevole for- tuna, verso gli
anni Trenta, a Torino), collocando il mo- vimento francese e il maestro
torinese su due fronti op- posti — sia da un punto di vista lirico che
tecnico —: un 52 sto di Casorati preferiremmo
ad ognuna quella di ‘Platonismo (Ivi, p. 6). 53 F. Casorati,
[Dichiarazione], in Arte italiana contemporanea, catalogo della mostra
(Milano, Galleria Pesaro, ottobre - novem- bre 1921), Alfieri &
Lacroix, Milano 1921; ora in In., Scritti intervi- ste lettere, cura di
E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2004, p. 11. 54 “Scrissi allora
nel catalogo alcune parole per spiegazione del mio lavoro e quasi per
contrappormi all'arte di quel tempo: affermavo di voler dipingere la
verità, dimenticando la realtà apparente; di voler indulgere agli errori
che spesso sono la sola ragione dell’opera d’arte... Queste parole furono
definite un’ere- sia estetica; in fondo, però, esse volevano spiegare il
carattere di immobilità, di impassibilità dei contorni decisi di forma,
in con- trapposto al più o meno degenere impressionismo di
sfarfalleg- giamenti colorati, di indecisione ottica, di ricerca del
movimento nel vibrare continuo della luce” (F. CASORATI, in G. MascHERPa
[a cura di], Felice Casorati e il religioso, catalogo della mostra
[Milano, Galleria San Fedele, Milano, 1 marzo - 8 aprile 1983], Milano
1983, p. 12). 55 E. CASORATI, Presentazione, in Prima
quadriennale d'arte nazio- nale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo
delle esposizioni, gen- naio - giugno 1931), E. Pinci, Roma 1931; ora in
In., Scritti interviste lettere, cit., p. 23. “E infatti se
dovessimo trovare una parola per definire il gu- IN
rifiuto che è categorico e si muove sulla falsariga delle indicazioni già
enunciate dall'artista nella citata pre- sentazione del 1931: “non ho mai
capito il movimento ‘qui déplace les lignes’, e adoro invece le forme
statiche [...] la mia pittura nasce -per così dire- dall'interno e
mai trova origine dalla mutevole ‘impressione’ }° consi- derazioni che
vengono caricate di significati filosofici, anche in questo caso, da
Galvano: Al Protagorico impressionismo per cui misura di tutte
le cose è l'uomo individuale, si contrappone dunque il Pla- tonico
Casorati richiamandoci all'ordine di una pittura dove le cose appaiono
reali in quanto hanno la maneg- giabilità di ciò che dal flusso delle
sensazioni è ritagliato per opera dell'intelletto. Scodelle o uova, teste
o seni var- ranno come categoria.” Al “degenere
impressionismo” Casorati contrap- pone, secondo Galvano, “i suoi
caratteri di immobilità, di impassibilità, di contorni decisi, di
‘forma’”.* Alle premesse teoriche fanno seguito le prime
verifiche sulle opere che, a differenza dei precedenti Studi, non seguono
uno sviluppo strettamente crono- logico ed organico della produzione casoratiana,
ma si Muovono più liberamente, procedendo secondo l’an- damento del
discorso. | Come nelle antecedenti occasioni di studio,
l’ini- z10 dell'attività pittorica viene fatta coincidere con le
Opere del 1909, che gli valgono le prime attenzioni da parte della
critica alla Biennale di Venezia ed alla mo- Stra degli Amatori e Cultori
di Roma. Le considerazio- ni che investono il dipinto Le vecchie (1909) e
La cugina (1909)? sottolineano nelle ricerche di Casorati “un sen-
so drammatico della vita teso in un’acuta analisi psico- logica in cui
non manca una punta di sensualità [...], Ma temperata in una specie di
serenità letteraria”’,9 Motivi che si pongono in continuità con le
formulazio- Ni espresse in precedenza sia da Gobetti che da Ventu-
Il, attenti entrambi a rilevare l’attenzione psicologica ed il senso
letterario di queste prime composizioni.‘ ._ Il salto a questo
punto si fa subito brusco: l’esclu- Silone di tutta la produzione degli
anni della guerra (che coincide con il suicidio del padre di Casorati e
con le nuove responsabilità di capofamiglia verso le due Sorelle e
la madre) è in linea con le volontà dell'artista, che sceglierà di non
conservare le opere di quel perio- do, contraddistinte da un simbolismo e
sintetismo de- Corativo piuttosto anomalo. 56
Ibidem. 957 A. Galvano, Felice Casorati, cit., p.7. 98 Ivi, p.
6. 59 (Bertolino, Poli 40, 50). 90 A. GALvaNnO, Felice
Casorati, cit., p. 9. 01 Cfr. P.Gosetti, Felice Casorati pittore,
cit., p. 93; L. VENTURI, Mostra individuale di Felice Casorati, in XIV
Esposizione Internazio- nale d'Arte della Città di Venezia, cit., p.
88. 33 Un passaggio su Le signorine (1912), che
“libe- ro questa volta da preoccupazioni di ordine realistico ed
orientato verso una completa subordinazione alla composizione”, permette
a Galvano di transitare di- rettamente su Tiro al bersaglio del 1919,
anticipando i problemi di annullamento della terza dimensione già
evidenti nel dipinto. Per Galvano Tiro al bersaglio rappresenta
un’opera cruciale, da cui parte tutta la produzione più celebrata
dell'artista, quella del periodo immediatamente suc- CESSIVO:
l’opera significativa ‘Tiro al bersaglio’ (1919) [...]. In essa il
colore e la linea collo scomparire di ogni ricerca della terza dimensione
assumono per la prima volta una organicità che è davvero il segno
dell’impostarsi nella pittura di Casorati dei problemi di cui anche oggi
essa si nutre. Ridotto il qua- dro, colla completa scomparsa delle
ricerche chiaroscurali e mancando ancora l'ulteriore ricerca spaziale, ad
un sem- plice tappeto di tinte piatte, si comprende facilmente come
linea e colore divengano funzione l'uno dell'altro, tendendo a uno stato
in cui la visione inquietante del pittore raggiun- ge uno dei più intensi
suoi momenti” Il dipinto, in realtà, aveva sino a quel
momento goduto di una fortuna alterna: tacciato di futurismo nella
prima presentazione pubblica del 1919, è per Gobetti un’opera dai “rapporti
formali [...] indecisi” ancora legata alla produzione dalla prima metà
degli anni Dieci, un lavoro insomma, che Casorati realizza come
“prova per testimoniare a se stesso la fine del suo estetismo e la sua
incapacità di fermarsi ormai all'episodio”. La rivalutazione di Tiro al bersaglio,
nei fatti trova, prima di Galvano, un precedente mol- to prossimo
all'uscita della monografia Scheiwiller: nell'agosto del 1940 Italo
Cremona (anch’egli vicino a Casorati, pur non essendo mai stato allievo
della sua scuola), in maniera analoga a Galvano ragiona sull’im-
portanza del colore e sul principio di astrazione pre- sente nel dipinto,
che anticipa le opere più compiute e celebrate degli anni Venti:
sottrarre le cose dai variabili accidenti della luce per pe-
netrare invece il colore secondo un processo di intelli- gente
astrazione. [...] In quella curiosa vetrina di oggetti [...] vivono
infatti quei bianchi spettrali, quei colori —fin- ti-, che sovente
ritroveremo nell'aria rarefatta dove re- spirano le sue figure, anche quelle
delle parate familiari che Casorati ha sovente composto con sincera
affettuosi- tà ma che appaiono pur sempre affacciate a una ribalta,
in uno scenario freddamente preordinato, sul mondo dal quale l’artista le
ha volontariamente allontanate.” 62 (Bertolino, Poli
71). (Bertolino, Poli 140). A. GALVANO, Felice
Casorati, cit., pp. 10-11. 65 P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, cit.,
p. 96. Ibidem. I. CREMONA, Felice Casorati, in “Primato. Lettere
e arti d’Ita- La rivalutazione del dipinto si pone
verosimil- mente in linea con le volontà dello stesso Casorati:
l’o- pera, che dal 1919 trova collocazione stabile nell’abita-
zione dell'artista, è ripresentata nel 1929 ad una mostra degli allievi e
riprodotta per volere dello stesso mae- stro come prima tavola nella
monografia Scheiwiller.® Un interessamento che viene letto da Galvano
come un “Segno che una pittura senza volume ed una pittura di
colore sembra ancora a Casorati rivelatrice del senso profondo della sua
arte”. Le opere realizzate a partire dal 1921 aprono la di-
scussione sulla funzione e l’importanza del colore per Casorati, che
viene ampiamente discussa nel testo e che caratterizza da qui in poi
tutta la monografia come lettura univoca del decennio successivo. Accanto
ad una premessa platonica, che si confronta nuovamen- te con le
opere Meriggio (1923), Lo studio (1923) e Con- certo (1924),
allontanandole da facili letture estetiche,” Galvano vede in “quegli
slarghi formali” di pittura un anticipo di “un’esperienza di tono che
sarà chiarissima intorno al 1931-32”. Contrapponendosi alle
interpretazioni — che vede- vano nella linea e nella forma plastica le
caratteristiche fondanti dell’opera di Casorati — Galvano valuta la pit-
tura del maestro come una pittura essenzialmente di colore,” spingendosi
a verificare le intenzioni dell’arti- sta e giustificare la scelta di
determinati soggetti e for- me piuttosto che altre, proprio in funzione
del colore: “Vi sono dei quadri di Casorati, e talvolta proprio i
più formali a prima vista, come ‘Daphne”? [...] che non si
afferrano in tutto il loro valore se non riferendoli al co- lore.
Casorati ama le forme semplici perché sono quelle che permettono al
colore di stendersi con la sua miglio- re ampiezza. È strano come questa
semplice verità sia stata tanto spesso fraintesa, non mancando del resto
di contribuirvi la stessa interpretazione che il pittore ha dato
della propria opera”. Una sensibilità tonale che porta il critico ad accostare
come esempio di ‘“straordi- lia”, I, 11, 1
agosto 1940, p. 19. 68 ‘è quanto mai significativo a questo
proposito il fatto che il pittore abbia tenuto in tempi recenti non
lontani ad esporre, ad introduzione e quasi chiave di sue opere più
recenti, quel ‘Tiro a segno’ piatto e ritagliato fra tutti che volle
anche ad inizio di queste riproduzioni” (A. GALVANO, Felice Casorati,
cit., p. 24). 69 Ibidem. 70 “Il ‘nudo’ e gli analoghi
‘Concerto’, ‘Meriggio’, ‘Studio’, ci presentano un mondo che si presta ad
essere interpretato in modo equivoco, come estetistico, da chi non tenga
presente che per Ca- sorati quelle platoniche accolte di figure femminili
ignude, anche se esse presentano molta eleganza, non hanno veramente
valore per questa eleganza ma solo per lo snodarsi ritmico dei
volumi” (Ivi, p. 12). Cfr. (Bertolino, Poli 212, 215, 226).
71. A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 13. 72 “La forma
serve [...] a distruggere la linea ed a passare al colore: essa è, se si
vuole, il punto di partenza, ma è proprio il colore è il punto di arrivo”
(Ibidem). 73. (Bertolino, Poli 328). 74 A.GALVANO,
Felice Casorati, cit., pp. 13-14. 34
ARTE MODERNA ITALIANA N.5 ALBINO GALVANO |
FELICE CASORATI II ed. del volume Felice Casorati,
Ulrico Hoepli, Milano 1947. nario pre-casoratismo” l’opera di Jan
Vermeer e di Ge- orges de La Tour piuttosto che quella di Ingres,
riferita dallo stesso pittore come modello di riferimento alla
propria pittura nel “Referendum sul quadro storico” del 1929.
A sostegno di questa sua tesi sul colore Galvano recupera ancora
una volta i ricordi dell’insegnamento del maestro, affrontando questioni
di metodo e di pra- tica pittorica vissuta nello studio dell'artista,
dove l’os- servazione dei modelli veniva condotta non tanto sulla
forma degli oggetti, ma sui valori tonali dei medesimi: ci
limiteremo a notare come quanto resti nel ricordo di chi è stato alla
scuola di Casorati verta essenzialmente su due punti: l'insieme e il tono.
E soprattutto l’insie- me come forma il più sintetica possibile in
funzione del tono. La forma intellettualistica di un oggetto,
proprio ciò che interessa di più al pittore formale o classico, è
ciò che Casorati consiglia all'allievo di disimparare, la for- ma
che l'allievo deve imparare a vedere il più semplice- mente possibile è
la forma di quella determinata massa tonale, di quella determinata massa
chiaroscurale, non la forma dell'oggetto.” 75
F. CASORATI, [Risposta al referendum sul quadro storico], in “Le arti
plastiche”, 16 dicembre 1929; ora in Ip., Scritti interviste lettere,
cit., p. 22. 76 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 14. Analoghe
impressioni sì ritrovano in L. RoMAnO, La scuola di Casorati, in
“L'Arte”, XXXIII, La discussione sul colore offre a Galvano il
punto di partenza per affrontare le influenze cézanniane che,
secondo una critica assodata ormai da tempo, avrebbe- ro avuto un ruolo
capitale nell'evoluzione del lessico pittorico casoratiano, soprattutto
per il genere della natura morta.” È Venturi, nel 1923,” a
offrire per primo quest'in- terpretazione, individuando nell'esperienza
diretta di Casorati alla Biennale del 1920 (dove, su 28 dipinti di
Cézanne presenti, erano ben sette le nature morte) il passaggio di svolta
tra Le uova sul tappeto verde del 1914 e Le uova sul cassettone del
1920:”? “Le ‘uova’ [...] del 1913 sono un motivo di bianco su verde, le
‘uova’ del 1920 sono un motivo di forma geometrica solida e chiara
sopra un volume scuro”.8° Per Galvano, l'avvicinamento al maestro
di Aix è da intendersi come “esperienza più morale che pittorica”,
nella quale l'evoluzione delle sue natu- re morte rappresenta un processo
interno alla pittu- ra stessa piuttosto che il risultato di quest’incontro:
“[Uova sul cassettone] non si spiega con un riferimento al costruire
tonale del Provenzale nella sua essenza sti- listica” — puntualizza
Galvano - “ma solo col metterlo In relazione a quello che la pittura di
Casorati fu prima d'allora” 8 Secondo il critico, più che un precedente
sti- listico, la lezione di Cézanne offre la verifica di nuove
possibilità espressive; un punto di vista che trova con- ferma — più
tardi — nelle stesse dichiarazioni del pittore, che ripercorrono
l’incontro con i dipinti alla Biennale del 1920: Tutta la
grandezza del Maestro di Aix mi si manifestò im- provvisa. L'emozione che
ne provai fu enorme e non fu un'emozione di sbalordimento o di stupore,
che anzi mi sentii preso da quel senso di calma, di fermezza, di
equi- librio, che solo le opere dei grandi può dare. Equilibrio!
Compresi che nella sua pittura trovava il giusto equilibrio il problema
posto e sviluppato in un senso dell'Impressioni- smo e il grande opposto
risolto da tutta la tradizione; com- presi l'aberrazione di una certa
critica che non si staccava di insistere sui problemi di Cézanne: capii
che proprio, che Specialmente in quei difetti era il germe della sua
grandez- fasc. IV, luglio 1930, p. 380.
77. Relativamente a questo genere si vedano P. Fossati, Nature
morte di Casorati, in M. M. LamBERTI (a cura di), Casorati. Mostra
antologica, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 27 mar- ZO - 20
maggio 1990), Electa, Milano 1989, pp. 29-38; G. BERTOLINO, Dal
repertorio di oggetti alle prime nature morte (1910-1920), in ID., F.
PoLI (a cura di), La natura morta nella pittura di Felice Casorati, cata-
logo della mostra (Iseo [Brescia], Sale dell’ Arsenale, 24 maggio-20
luglio 1997), Electa, Milano 1997, pp. 11-22. 78. L. VENTURI, Il
pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, cit. 79 (Bertolino, Poli 114,
162); relativamente alle opere si veda In particolare M. M. LAMBERTI,
Scherzo: uova (o Le uova sul tappeto verde) e Le uova sul cassettone, in
In., P. Fossati, Felice Casorati 1883- 1963, cit., pp. 62-64;
79-80. 80. L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”,
cit., p. 254 ù A. GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 33.
Ivi, p. 16. 35 za. Compresi che Cézanne era il
pittore della rinuncia e che la rinuncia era la forza della pittura
moderna. Non cambiai modo di dipingere, ero troppo inconsciamente
orgoglioso per tentare un cambiamento di rotta che non avrei potu-
to fare in alcun modo. Credetti allora di approfittare della grande
lezione di Cézanne proprio irrigidendomi sulle mie posizioni e cercando
solo in profondità.* La monografia Scheiwiller, pensata per
aggiorna- re la precedente di Giolli, in realtà affronta solo
margi- nalmente la più recente produzione del maestro, soste- nendo
per le opere più prossime la piena attuazione del proposito coloristico
în nuce già nei primi anni Venti. Ai ricordi della Biennale del
1924, e soprattutto a quella del 1928,* Galvano contrappone le opere
espo- ste nei primi anni Trenta: per La lezione (1929), Susanna
(1929) e Lo straniero (1930) pone l'accento su come pre- valgano in
questi dipinti “certe note di rossi improvvisi, il taglio in controluce,
il gusto, almeno nei due primi, di accostare il nudo ad una figura
maschile vestita, un de- siderio di atmosfera serena che suggerisce
lontananze chiare e assolate” .8# Motivi pittorici che, spogliati
degli elementi accessori (come la copertina del “Selvaggio” nella
Lezione o, ancora, le pantofole rosse di Susanna), trovano un'ulteriore
compiutezza in Daphne (1934) e Ragazza in collina” delle collezioni dei
Musei Civici di Torino, “soluzioni più aneddoticamente umane [...]
dove il motivo del controluce sulla finestra aperta so- stituisce figure
familiari o umilmente umane ai mani- chini, mentre il paesaggio si fa
sereno [...] ricavato da quei campi di Pavarolo ormai cari
all’artista”.* Come già sottolineato da Maria Mimita
Lamberti, l'apporto di Galvano si dimostra poi piuttosto illuminan-
te nell'individuare nel tema del nudo una possibile linea di lettura
della sua produzione, sino a quel momento tra- scurata rispetto al genere
più discusso della natura morta. 83 Il passo è
riportato in L. Caruccio, F. Casorati, quaderni d'arte del Centro
Culturale Olivetti, Ivrea, All'insegna del pesce d'oro, Milano 1958, p.
22. 84 ‘Noi veniamo dall'esperienza della generazione per cui
i quadri del ‘24 rappresentarono lo scandalo dell'adolescenza che
ancora confondeva la classicità coll’accademismo e che scorgeva in quei
quadtri, visti alle esposizioni colla famiglia deplorante o pronta al
riso di fronte alle stranezze dell'arte moderna, pur qual- che cosa di
inquietante e di tentatore che non si poteva dimenti- care [...] i quadri
della biennale del ‘28 rappresentarono invece la scoperta del mondo nuovo
e spregiudicato che si apriva alla nostra cultura” (A. GaLvano, Felice
Casorati, cit., p. 15). 85 (Bertolino, Poli, 366, 368, 396).
Erroneamente Galvano attri- buisce il titolo Lo studio al dipinto La
lezione esposto alla Biennale del 1930. L’opera verrà distrutta
nell'incendio del Glaspalast di Monaco del 1931. 86
A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 22. 87 (Bertolino, Poli 531,
592). Galvano, in realtà, indica il secon- do dipinto con il titolo
Estate. Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, cit. p.iz. 88 Ibidem.
89 M.M.LAMBERTI, I nudi nello studio, in Ip. (a cura di), Casorati.
Mostra antologica, cit., pp. 13-28 (13).
Galvano vi riconosce una traccia di continuità che, a partire dalle
Signorine del 1912 (opera che, secondo il critico, non è da intendersi
come “gruppo” ma come insieme di figure isolate), arriva sino alla Venere
bionda del 1934, “punto di arrivo e di dissoluzione di quello che
si potrebbe chiamare il ‘tonalismo’ di Casorati”:” secondo Galvano il
motivo del nudo in Casorati si presenta “come figura essenziale, come una
forma ele- mentare, categorica, simile a quelle delle scodelle,
delle uova, dei libri”, caratteristiche che, alla pari dei sem-
plici oggetti che popolano i suoi dipinti, permettono quegli “slarghi
formali” di pittura, oltre alla “possibi lità di un tono uniforme”?
capaci di confermare la sua sensibilità di colorista.
III. A distanza di sette anni dalla pubblicazione la
monografia di Galvano su Casorati viene ristampata,” aggiornata in alcune
sue parti e rivista totalmente per quanto concerne l'apparato
iconografico. È il 1947. Tra la prima uscita e la riedizione,
l’interessamen- to che il discepolo dimostra nei confronti del
maestro è continuo e si attesta già dall'inizio del 1941 con mo-
dalità simili a quelle che avevano contraddistinto il suo
precedente impegno sulle riviste nazionali. Vi si affiancano però
nuove prospettive lavorative. Proprio nel 1941, accanto alla sua attività
di pittore e di critico (che in questi anni, oltre alla corrispondenza
per “Em- porium” e alla collaborazione per “Il Selvaggio”, si
amplia con due contributi sulla rivista “Le Arti”) Gal- vano è impegnato
nella nuova veste di assistente alla cattedra di “Pittura” di Enrico
Paulucci presso l’Acca- demia Albertina di Torino, assegnata
contestualmente anche a Felice Casorati per l'insegnamento di “Com-
posizione pittorica”. Incarichi che vengono entrambi costituiti ad
personam dal Ministero dell'Istruzione nel contesto dei provvedimenti
avviati da Bottai a favore delle Accademie artistiche. Sono questi,
inoltre, gli anni nei quali Galvano va consolidando una sicurezza
economica stabile — tanto auspicata negli anni Trenta — grazie
all'insegnamento nelle scuole superiori: prima come professore di figura
disegnata nei licei artistici piemontesi e poi, dal 1942, come docente di
filosofia e storia nei licei classici e scientifici. La
mostra Casorati Menzio Paulucci, inaugurata nel novembre del 1940 alla
Galleria Cigala di Torino, è l’oc- casione per tornare a parlare di
Casorati sulle pagine di 90 A. GaLvano, Felice Casorati, cit., p.
18; cfr. (Bertolino, Poli 501). sa: «Ivi, p. 20.
92 Ibidem. 93 Ip, Felice Casorati, Arte moderna italiana n.
5, Serie A - Pitto- ri - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1947. 94
Cfr. F. Darmasso, Casorati e l'Accademia Albertina, in M. M. LAMBERTI, P.
Fossati, Felice Casorati 1883-1963, cit., pp. 199-205. 36
Copertina e pagine del volume Tre nature morte. Casorati
Menzio Pau- lucci, Carlo Accame, Torino 1942. “Emporium”,
presente in questa circostanza con due pittori torinesi protagonisti
della scena artistica citta- dina (reduci entrambi dall'esperienza del
gruppo dei “Sei” ), sicuramente vicini a Casorati ma mai allievi di-
retti del maestro: il quarantaduenne Francesco Menzio e il più giovane
(di poco) Enrico Paulucci, con il quale Casorati ha intrapreso da tempo
un rapporto di stretta collaborazione.” Il sodalizio dei tre
artisti, che non vuol essere un principio di ricerca comune ma piuttosto
un impegno di politica culturale condivisa, si ripropone più tardi,
in modo analogo, con una mostra allestita alla Galleria Genova del
capoluogo ligure nel febbraio del 1942. La circostanza è anticipata da
una pubblicazione autono- ma di Galvano, intitolata Tre nature morte e
stampata dalla tipografia Accame di Torino (che pubblica, nello
95 A. Galvano, Casorati, Menzio, Paulucci, in “Emporium”,
XCI- II, 554, febbraio 1941, pp. 93-95. Stesso anno, la
monografia su Casorati di Italo Cremo- na), in un elegante edizione in
folio che riporta come Sottotitolo i nomi dei tre pittori torinesi.’ In
questa oc- casione — che si propone di presentare sinteticamente
tre opere dei rispettivi pittori, con tanto di riprodu- zioni a colori —
Galvano sceglie la natura morta come genere esemplificativo della
produzione degli stessi. Un'operazione che nell’introduzione viene
definita come “didattica”” e che si pone in aperta polemica nei
confronti della tendenza a considerare questo genere come motivo poco
adatto alla pittura moderna: “ad Ogni esposizione abbiamo sentito
deplorare l'eccessiva presenza di nature morte o esaltare per il loro
scom- parire di fronte ai quadri di figura”. Una difesa per
l'autonomia e dignità del genere pittorico, che non si risparmia nel
chiamare in campo i precedenti noti di Cézanne, Manet ed ancora
Renoir. La questione, in realtà, non è nuova, ma prende le
mosse da un pensiero espresso dal maestro quasi quindici anni prima, che
rappresenta verosimilmente il pretesto per il contributo di Galvano, che
mostra que- sto taglio così inaspettato. Sulle pagine del
quotidiano torinese “La Stampa”, Casorati lamentava nell’artico- lo
La crisi delle arti figurative i medesimi problemi di accettazione della
natura morta da parte di pubblico € critica, con presupposti che
sembravano essere gli stessi avanzati ora da Galvano nella sua
introduzione: Ho sentito dire ed ho letto purtroppo parecchie
volte questa frase: troppe nature morte, troppe mele, troppi
aranci, troppi pomodori ecc. [...] poveri oggetti, [...] vo1 siete i
modelli più docili e più esigenti degli artisti [...] Nei momenti più
disperati della mia vita di arti- Sta, io ho potuto riconciliarmi con la
pittura dipingen- do umilmente una scodella, un uovo, una pera”.?
. La scelta della natura morta casoratiana — vero- sImilmente
selezionata da Galvano — ricade su Le pere verdi del 1941,!% presentata
probabilmente per la prima volta in questa sede: un’opera che gli
permette di riba- dire il principio coloristico sostenuto nella
monografia del ‘40, che viene qui chiarito con un'attenta analisi
96 Ip., Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci,
Carlo Accame, Torino, 1942. 97 “La presentazione di ‘Nature morte’,
dovute a tre fra i più autentici pittori operanti oggi a Torino, potrà
anche apparire, ed essere criticata, come una iniziativa a carattere
tendenzioso e po- lemico. Non sarà forse il caso di affermare che essa ha
piuttosto un intento didattico? E proprio di educazione del pubblico:
degli intelligenti (almeno in potenza, chè degli ostinati per
limitazione Naturale di possibilità, per passione di parte o per
difficoltà di Sclogliersi da presupposti culturali privi di validità non
occorre Hr a comprendere le ragioni per cui, su di una falsa impo-
azione di presupposti, può passare per atteggiamento polemico 9, peggio,
di conventicola, il semplice intento di chiarificazione Intellettuale e
critica” (Ivi, p.n.n.). 8 Ivi, p.nn. "i F CASORATI, La crisi
delle arti figurative, in “La Stampa”, 29 ra raio 1928; ora in Ip.,
Scritti interviste lettere, cit., pp. 19-20. (Bertolino, Poli 682).
CY della sua pittura (non priva di tecnicismi del
mestie- re), che si concentra sui valori tonali e sugli accordi
cromatici presenti nel dipinto, che sottendono sempre — secondo Galvano —
a problemi ed equilibri di natura compositiva: Sul fondo
rosa e paglia un accordo di due verdi: crudo e spento, e le chiazze
rugginose e calde della putredine che intacca i frutti; solo dal colore prende
realtà il fascino di questa natura morta, eppure il colore qui non
evocherà a nessuno la categoria della ‘forma aperta’ o la scioltezza
di un pittoricismo abbandonato: chè Casorati è anche ora il pittore
delle forme assolute e degli elementari geometrici, ma il colore ne
rivela, per distinguersi dei campi continui e dilatati, la purezza, anzi
il purismo, di impaginazione e ce ne propone la più castigata
presenza. [...] i colori si subordinano ad una ragione compositiva
a priori [...] in essa si giustifica quel disporsi graduale di intensità
pittorica che può far apparire persino sordo (e tale veramente sarebbe se
non servisse a concentrare ogni attenzione sull’interno ordinarsi del
gruppo centrale, ma pretendesse di disporsi sul medesimo piano di ‘bel
colo- re’ dei toni vicini) il colore locale; necessario a staccare
nel castigato e serrato gioco compositivo della frutta ritagliati
sul fondo chiaro, dove più i toni non si distinguono nella vibrante
luminosità, la bruciata profilatura delle foglie.!®! Di respiro
ben diverso, invece, è il contributo Fe- lice Casorati (e i torinesi)
apparso un anno più tardi, nel 1943, sulla rivista “Pattuglia” di
Forlì.!® Nel numero di maggio-giugno, dedicato interamente alle arti
figura- tive e curato da Giovanni Testori, Galvano traccia un
bilancio della situazione artistica torinese: accanto a considerazioni su
Casorati in linea con la monografia Hoepli del 1940, abbandona i ricordi
della scuola di via Galliari proponendo una lettura totalmente
rinnovata, alla luce dei più recenti sviluppi espositivi. Menzio e
Paulucci rappresentano qui (insieme agli altri “Sei”, che però non
vengono nominati) i “giovani pittori che si erano stretti intorno a
Casorati” e che, seppur non direttamente allievi dell'artista, non
“rinnegavano il debito contratto col primo ideale maestro, né erano
da lui sconfessati: anzi la stima, l'amicizia e la valutazione dei
diversi ed ugualmente validi risultati, da parte del più anziano
rimanevano intatti od accresciuti”."° Una 101
A.GALVANO, Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, cit., p.
n.n. 102 In., Felice Casorati (e i torinesi), in “Pattuglia”, 7-8,
maggio- giugno 1943, pp. 15-16. La rivista, mensile del Guf di Forlì,
viene inaugurata nel 1941 e riporta nel sottotitolo la dicitura
“Mensile di politica, arti e lettere”. L'articolo di Galvano viene
pubblicato nell'ultimo numero della rivista, curato Giovanni Testori e
in- titolato “Omaggio alla pittura”, che si proponeva di fornire un
bilancio dell’arte italiana del ‘900. La rivista viene interrotta e se-
questrata da Mussolini per i suoi contenuti non in linea con le direttive
-in campo figurativo- imposte dal regime. 103 Ivi, p. 16.
07 ee (E I TORINESI) E condizioni che
determinarono a To- ‘20: sei anni dopo l'altra polemica fra rino
l'orientarsi della pittura degna L. Venturi, a proposito del di
quest'ultimo, di eu- proposito del valore
positivo tentici pittori. Condizioni in cui la eri. tivo delle influenze
parigine sull'arte tica ai pose di per se stessa come po- —ita'iana non
ebbe significato diverso. Ora lemica: © in cui da polemica fu l'one- —P.
Gobetti e L. Venturi furono appunto stà stessa della critica. La guerra
del tra | primi ad esaltare l'opera di Ca 14-18 era terminata. Lo stile
«libe- sorati. A dispetto danque delle av ty » in architettura, il
neo-pre-ralfuel- versioni del borghese e delle ammira lismo tipo «In arte
libertas» da cui zioni dell'aggiornato, che esalta insie pure avevano mosso
î primi passi pit- e Carrà 0 © Casorati, l'e tori validi come Modigliani
e Spadini figurativa di quest uveva esaurita ogni pretesa alla forma-
—srebbe un significato diverso, e in certo zione di una coscienza
figurativa nella senso opposto, n quello in cui si è banalità di
un'acquiescenza in cui i svolta la comune esperienza della più fermenti
di possibilità che più tard' vi viva pittura italiana? In parte si deve
scoprirà l'accorto senso del « perver- rispondere affermativamente pEr eg
sai 16 gin lettuale per quello Hgurativo sano ogni evasione
dal fatto pittorico, E che sioo al 1928 la pittura di Casorati quanto per
queste esperienze avveniva —anche nelle punte di estrema avanguar- ordine
a le possibilità della linea cur- —.ija come in certi distrutti. di- me
di questo è quel complesso frea- —pinti, n quanto si dice. sotto l'influenza F.
Casorati: “Ragazza,. (1937) diano avveniva, in modo anche più vol- —gel
gusto di Kandiski, cerca i proprii gare è fatuo, mancati Sant'Elia e
Boocio riferimenti non in un mondo mediterra- : ma in uno nordico {quasi
a fedeltà i H È È; i
figurativo di Martino Span- Torino poi: Thover seguitava a eredere viti e
di Defendente Ferrari che guard Memet o di Bestlovea, a confeadero
assai più che quello, volto verso il l'eleganza
lineare di Modigliani con di Gaudenzio), non in un'umanità l'imperizia
del bambino (e se mai si assertrice di proporzionata statura mul sarebbe
dovuto rimproverargli un'ele- rondo det orizzonte, ma nel panza sin
troppo vicina » preoccupazio- tormento di sentirai oppressa da È ni
ostetistiche e contenutistiche simili amine mirror quelle che limitavano
fl eritico) inau- ciò di dramma per la propria persona, guraodo quella
tradizione di contenu- in quanto finita, Il sottile Tinguaggio tismo ad
oltranza e di cauto e garbato, formale, la ricerca d'equilibrio compo- ma
fondamentalmente deciso, « fin de sitivo, l'astratto rigore della sintesi
po- non recevoie » mel riguardi di una vi- Loveno sì! suggerire, insieme
@ certo conda pittoricamente valide a cui si at- codenze illustrative (i
libri aperti, i tiene con un'ostinazione che ha per io csrtigli) o agli
accorgimenti ‘tecnici, meno 2 merito della consequenzialità come l'uso
della tempera verniciata, ri- quel poco di csi valga la pena di (91
—rorimenti al quattrocento, mostro. sn menzione della critica d'arte del
quo- non poteva sfuggire ad ‘una tidiani oggi ancora a Torino. più
accorta l'assoluta continuità spi- Un panorama, come si vede, sostan-
rituale che legava il mondo d'allusioni rialmente simile a quello del
resto crepuscolari è le eleganze cstotizzanti d'Italia, in cui tuttavia,
in quegli delle « Vecchie» o delle « Signorine» anni dell'immediato
dopoguerra, Tori. attraverso 1 paradossi pseudoformali ba ipo ipa delle «
Scodelle » è delle « Uova » nella maniera particolare e gerto senso,
doppia redazione, a tappeto ed s vo- fispetto al resto d'Italia,
polemica, su tume. a questo muovo mondo di non di un doppio piano,
intellettuale e figu: —1meno quintessenziate definizioni umane Rene a pi
o spaziali, anche se nel silenzio di IO) essere esemplificata PO quelle
quinte prospettiche ora quei pro- sizioni reciproche de «La Ronda fili
proponessero le loro cadenze non di « Rivoluzione Liberale ». Cinscuno
più per la via analitica dei compisci vede quanto diversi gli
orientamenti menti particoleristici, ma per quella umani e culturali. Ma
è tipico che pro? —delle sintesi ellittiche. prio fra Cardareti un'occe.
Eppure una così diversa afferma- sione polemica, sul Leopardi, portò a
zione in ordine a scoperte pittoriche, una discussione do andava ben una
tanto dialettica decisione nel de- oltre i termini della cortesia. Siamo
nel finire il proprio mondo indipendente. F. Casorati: “ Bambina. (1932)
Felice Casorati (e i torinesi), "Pattuglia", 7-8 maggio-giugno
1943. lettura della scena artistica cittadina che esclude
total- mente i primi discepoli dell'artista — che continuano nel
frattempo a dipingere ed esporre, non solo a Torino — preferendo invece
soffermarsi poi sulle “anomalie” figurative (intese rispetto al tracciato
casoratiano) pro- poste da Luigi Spazzapan e Italo Cremona.
Il rapporto tra allievo e maestro, che è innanzi- tutto di
amicizia, rimane solido negli anni a seguire, nonostante le scelte di Galvano
si avviino, nel frattem- po, verso un fronte non figurativo della
pittura, che lo vedono abbracciare l’astrazione ed aderire nel 1950
al Mac (Movimento Arte Concreta), fondando insieme ad Annibale
Biglione, Paola Levi Montalcini, Adriano Parisot, Carol Rama e Filippo
Scroppo la sezione tori- nese del gruppo. Accanto alla sua
attività di critico militante, più orientata verso le verifiche nel
frattempo ottenute con- testualmente in pittura, tornerà solo raramente ad
inte- ressarsi di Casorati, soprattutto in occasione di letture
complessive e bilanci di un'epoca, che sembra ormai essere lontana nel
tempo.!% 104 Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, in S.
CAIROLA (a cura di), Arte italiana del nostro tempo, Istituto Italiano
d’Arti Grafiche, Bergamo 1946, pp. 18-20; In., La pittura a Torino dal
'45 a oggi, in “Letteratura. Rivista di lettere e di arte contemporanea”,
43-45, gennaio-giugno 1960, pp. 55-76; ora in Ip., La pittura, lo spirito
e 38 mente da ricerche solo per certi riguar- questi
sforzi di giovani della cultura mona, Anch'egli amico di Casorati: ma pre
riuscito a cogliere il momento di di parallele, grazie
all'autenticità della universitaria e in tutt'altra la lezione che ne ha
appreso. spontanen concretezza pittorica. Senza realizzazione figurativa
è della schiet ritorno! Un rigore, un'incisività, un'analitica nì- che del
resto questo gli abbia impedito tezza di linguaggio fantastico da essa
Nacque così il gruppo dei «Sei»: —tidenza di segno, una predilizione per quell'accorta
coscienza teorica della po- presupposia, s'inseriva nel dialogo della
—Menzio, Chessa, Levi, Paolucci, Galanta —quei profili nettissimi che gli
permettono sizione di gusto in cui il suo mondo fi- italiana di quegli
anni con una © Jessie Boswell.,Fntro e fuari le vi- di dare evidenza
allucinante di inganno gurativo sì determina e del rapporti di validità
di proporzioni che tuttavia man. —cende del gruppo, Francesco Menzio isivo alla
riproduzione dei i og- esso col movimento «surrealista», (di tiene
integro il valore dell'esperienza risultò allora e tale si mantiene, come i:
distribuiti poi questi in un ardine cui, per una curiosa ‘e significativa
» a della la personalità più dotata che fosse ap- di fantasia di rara coerenza
suggest vicenda gli interessi destati a Torino memoria 0 più rigorosa-
parsa, da Casorati in qua, fra i pit- rispondere a furono proprio nella cerchia
dei col monte impegnata in un bilanelo della tori torinesi. Un mondo di
compiaci- più profondamente che gene- laboratori dell'originariamente
pittura. Tutti da « Fanciullo ad- —menti delicati, di edonismo controllato
—rano l'inquietante mondo delle ansocia» sano» Seleaggio, per brev'ora
torinese dormentato » del "21, allo « Studio » del —© schivo, sceglie
usa sun umanità d'ele- i oniriche e dei senza si ppunto, sino alle recenti
realizzazioni 122, al « Concerto » del ‘24. ne henno zione in volti di
giovani donne 0 di gnilicato, dei soprasensi di cui non si itettoniche, nella
sede della società nti i risultati più vivi. Poi el si bambini. Da questo
punto di partenza —dà lettura , ma « cl Ippica di Carlo Mollino) che tatti 1
suoli hnocorse che i valori di tono e di ero appena le due esperienze
opposte, ma frata» per via di quegli emblemi pit- lettori conoscono, ma
erano pur utilizzabili în assai più —concordanti nella dissoluzione di ogni e-
—torici in cui però Cremona è quasi sem- ALBINO GALVANO concreto discorso
di quanto non si lamento estrinsecamente contenutistico, facesse dagli
epigoni del peggior otto- del rigoriamo formale casoratiano in- cento. Si
affermò che i Macchiaioli tu- torno al ‘23, e del fervore cromatico de
rono fra gli artisti autentici della no- gli impressionisti intorno al ‘29 per-
=== stra tradizione; si riconobbe che un ar- —misero a Menzio di scontare
in puro tista ostile o almeno appartato di fron- sollecitazioni
pittoriche quei dati del te a ricerche futuriste, metafisiche ©
sentimento, si defini una visione tanto neoclassiche era un grande pit-
personale quanto coerente dove la mu i si riscopri l'im- sicalità del
colore e la freschezza del pressionismo. Îl necclassiciamo, nel
È È «po vecento » milanese, che
qualcuno git si che delicati non impedirono, anzi fa- definiva nooromantico,
sì innestava, con vorirono lo spiegarsi di una confes- Tosi, in una
tradizione di pittura a- —sione umana piena di melanconica no- perta.
Soffici non più cubista predicava —biltà nel reiterato e come
ansiosamento ed esemplificava un ritorno alla natura interrogato indagare
intorno alla con- in cui l'esperienza di Cézaane non eselu- sistenza
pittorica di quelle persone di deva quella di Fattori: a Torino, do-
drumma, così sottilmente lirico e di ve già ‘intorno a Casorati una
scuola cosi pausate parole, che si muovona tendeva a ridurre a grammatica
il sua nelle composizioni famigliari di Menzio. figurativo,
attraverso l’inse- Tanto Casorati che Menzio del resto guamento
universitario, Îl mecenatiamo —qutt'altro che paghi o chiusi nell'au di
un collezionista, i più rapidi con- tosoddisfazione: anzi entrambi sempre
tatti con Parigi, rapporti col gruppo sofferenti dei limiti 0 della
milanese di Persico anch'esso partito —contiagenti stanchezze che potessero
cc- in battaglia contro il neoclassicismo, appannare il gelido speo-
la lezione degli impressionisti fu at- chio di formalismi eidetici del
primo, tinta direttamente ai grandi modelli: © Manet, Renoir,
Cézanne, in un preciso pida dell'altro. inquietudine che ci spie senso
importante due notevoli carollari). ga il piegare verso più riscntite ao Enrico
Paolacei: * Piazza Navona .. l'affermazione che Cèzanne non meno
nitide pro- veva reagito all'impressioniamo, ma lo filature lineari di
Casorati dopo il ‘30, veva continuato e che perciò la tradi- —come le |
ritorni, e, meno zione più viva di movimento an- , da monotonia le
ripetizioni dava proprio cercata in quel discorso —1delle cose meno
valide di Menzio. ln rapido ed atmosferico si, ma tutt'al. modo assai
diverso, ina con accanita tro che occasionale e vedutistico che era
commovente dedizione ad un'ideale stato proprio dei pittori che abbiamo
di pura pittura che escludesse tanto citato piuttosto che dei Monet, dei
Pis- ogni intrusione intellettualistica quento surro, del Sisley.
Secondo: che quel- ‘ ogni dispersione decorativa Enrico Pao l'adesione
all'impressionisno non po. Iucci è venuto sempre più approfon teva che
importare, da una parte, con- dendo una visione grata © improvvisa,
Van Gogh al più libero «fsuvinmo », rivivere il gusto degli impros-
che-dn qualche modo e sia pure unilate; sionisti, proprio di questa fase
della ralmente, il linguaggio di Cizanne ave- pittura torinese, possono
essere riat- ivano continuato, Gli strilli dei varii taccati, in senso
diverto, Piero Mar- Ojetti per i «salti in lunghezza da tina,
temperamento delicato di colorista Giorgione n Braque » naturalmente non
eu cui è stata decisiva l'influenza di si contarono! Ma intanto quello
che te nf gie gi importava fu che la esemplificazione cento personale una
trepida, © vitale dei frutti di quest'esperienza cul- come smorzata,
elaborazione di ogni da- turale fosse data proprio da quei gio- to tonale
degli oggetti, e Luigi Spazza- vani pittori che sì erano stretti intorno
pan la cui origine è le cui esperienze è Casorati, pur non più così
ragazzi istriano diedero ad una veramente pro da diventar suoi allievi
nel senso sco- digiosa capacità di trasfigurare |pit- lastico della
parola, © che ora nell'inì- —1toricamente, attraverso la rapidità della
ziare un lavoro diversamente orientato, —acchia e del segno, ogni dato
ogget- e vano il debito contratto col tivo una truculenza
cspressionistica re- primo ideale macatro, nè erano da Jui =—mota dal
raccoglimento degli altri to- sconfessati: anzi la stima, l'amicizia
rincsi e dalla pacata visione dell'im- © la valutazione dei diveral ed
ugual. =—pressioniamo. È di questo suo pecu- mente validi risultati, da
parte del —liare atteggiamento ci restano molti mo- più anziano
rimanevano intatti od ec- menti d'espressione mirabile, speci
cootrapporre ai della mano facile è dell'illustra <
incomprensioni fra chi incegue un me- tone occasionale. desio sforzo
d'arte, ala pur attra- Opposta invece, per intento e per ri verso
divergenti esperionze di gusto. È all'impressionismo l'esperienza
i sultato, altrettanto si può dire dell'attenzione a —Dittorica
inieressantiesima di Italo Cre- Francesco Menzio: ‘ Ritratto ,,
Nel 1963, alla scomparsa del pittore, Galvano traccerà un ricordo del
maestro, a margine del catalo- go della 14° mostra d'arte contemporanea
di Torre Pelli- ce. Non più il colore o il tono, ma quei valori
umani e di rispetto per le diversità appresi durante gli anni di
via Galliari animeranno, in conclusione, questo suo “omaggio” di
discepolo: “poiché fu anche la coscienza di questa libertà, prima ancora
morale che estetica, che da Felice Casorati alcuni di noi ricevettero
come l’inse- gnamento più prezioso, ci è caro chiudere col richiamo
ad esso questo saluto al Maestro. Chè le sue opere par- lano, per il
rimanente, senza bisogno di commento”!°. il sangue, a cura di G.
Mantovani, Il Quadrante Edizioni, Torino 1988. 105 A.
GaLvano, Omaggio a Felice Casorati, in 14° mostra d'arte con- temporanea,
catalogo della mostra (Torre Pellice, Collegio Valdese, 3 - 28 agosto
1963), Tipografia Subalpina, Torre Pellice 1963. Gli occhi fervidi
e il sapore di cenere Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo,
Art Nouveau Adriano Olivieri Approssimarsi all'opera
letteraria di un uomo di cospicua cultura quale fu Albino Galvano,
significa penetrare in una eletta densità speculativa sorpren-
dente se commisurata a un intellettuale defilato in vita e ricorrente
oggi nella ferma e attenta riflessione di pochi storici. Come ebbe a
dichiarare Galvano stesso In una autopresentazione del 1980, non gli si
perdonò l'ambiguità di essere scrittore e pittore aggravata dalle
stigmate dell’intellettuale, categoria in cui finì suo malgrado per
giovanile quanto vocazionale passione per la cultura. Proprio
nell’ambiguità, nel marcare un confine ideologico sottile, ordinandosi
orgogliosamen- te in disparte insieme alla generazione degli
eclettici Cremona, Mollino e Maccari, ci pare che Galvano trovi un
eccentrico terreno di appartenenza sul quale edificare una propria filosofia
personale sistematica- mente relata all’erudizione antropologica,
filosofica, religiosa e pedagogica. Formazione altresì integrata
agli interessi misteriosofici - Galvano stesso ebbe a definire le proprie
opere “evocazioni esoteriche” — vagamente connessi alla cultura torinese
d’inizio secolo e, in modo maggiormente probante, con lo Studio di
Casorati in via Galliari dove conobbe Daphne Maugham che, dopo avere
respirato l’aria mistica della parigina Académie Ranson, si era
trasferita a Torino dove la sorella Cynthia con Cesarina Gurgo
Salice, Bella e Raja Markman si dilettavano già, oltre che di
danza, di teosofia. Redattore e pubblicista prolifico, Galvano — che
inizia allora ad interessarsi a Rudolf Steiner e Madame Blavatsky — batté
gli argomenti indigesti alla cultura del suo tempo facendo di sé un
Intellettuale atipico che, come ricordava Sanguineti, ISpirò idee
ereticali nei propri allievi. Autore di pochi libri, che punteggiarono
una carriera meno prodiga di quella del compagno di studi liceali Argan,
nel 1932 conobbe Lionello Venturi che lo accolse come collaboratore
de “L'Arte” facendogli inoltre pubblicare alcuni studi sulle civiltà
extraeuropee?. L'equivocità tra critica militante e pratica pittorica
fu un banco di prova sul quale verificare, tra continui rilanci e
azzardi, la reciproca tenuta delle parti. In questo assiduo riversarsi
delle specificità discipli- nari consiste per Galvano il senso estremo
della sua Pittura, votata alla vanità dell'atto privato, smagata da
Ogni velleità economica e promozionale ma cro- S!uolo rovente dal quale
estrarre i concentrati succhi di un'urgenza creativa. L'incessante
ritorno all'arte . ni n GALVANO, La pittura a Torino dal ‘45 a oggi, in
“Letteratura”, I, “n 0, p. 99-76. Poi in: “La pittura, lo spirito e il
sangue”, P.MAN- ia la cura di), Il Quadrante Edizioni, Torino, 1988, p.
155. Poi R i ALVANO, Diagnosi del moderno. Scritti scelti 1934-1985”,
A. UFFINO (a cura di), Nino Aragno Editore, Torino, 2018, p. 393.
| L'arte egiziana antica, Firenze, 1938; L'arte dell'Asia
occidentale centrale, Firenze, 1939; L'arte dell'Asia orientale, Firenze,
1939. 39 è, Al Liceo
Gioberti di Torino, 1961-62. dA EdO a ad.
come artificio, come fare in sé autosufficiente, fu per Galvano un
difettivo rimedio all’insanabile scissura della natura umana divisa tra
spirito e materia, tra razionalità e intuizione, e un’imperfetta
occasione di confronto tra individui sul piano partecipabile ed
empirico dell'immagine che, pur sempre aderente alla condizione fabrile,
trova la propria natura più autentica nell'essere essa stessa divisa tra
creazione e imitazione. L'attività poietica, l'agire sulla materia
intesa sui presupposti estetici gettati da Alain (pen- satore scomunicato
da Croce), sottrae il discorso di Galvano dall’osservanza teoretica
idealistica come dall'impegno etico esistenzialista e, abrogando di
fatto la condanna platonica dell’arte, accetta il va- lore estetico come
simbolo del “male”. L'arte trova allora la propria eretica ragion
d'essere nella forma materiata, così come l’idolo o il feticcio sarebbero
la divinità in presenza e non l’ipostasi divina. Per questo la
pittura per Galvano rappresenta enigmaticamente il “dio visto di spalle”.
Quando Mosè chiese al Signo- re di mostrargli la sua Gloria il Signore
gli rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e
proclamerò il mio nome” [...]. Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio
volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo [...]. Tu starai
sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella
cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi
toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può
vedere”». L'espediente divino narrato nell’Esodo biblico?, fatto
laicamente 3 i La Sacra Bibbia, cap. 33, vers. 19 e
segg. Cesare Saccaggi, Alma Natura, Ave!, pastello su
carta applicata su tela, 68x125 cm., 1898, GAM Torino. reagire con
esperienze disposte alle “proiezioni”, tra cui l’idea del dio pagano che
non tace non parla ma accenna, sarebbe da intendersi per Galvano — che
si era laureato presso la facoltà di magistero di Torino discutendo
con Gambaro e Abbagnano una tesi su “La pedagogia della religione” — come
metafora dell'immagine (il “dio visto di spalle” appunto), quale
unica possibilità mondana di riconquistare l’unità primigenia dell’uomo.
L'azione esercitata dall'artista nelle condizioni oggettive della materia
è, più di una tecnica operativa, un’alchimia - ai filosofi Galvano
preferisce Jean Baptiste van Helmont e Cesare Della Riviera — che
permette il verificarsi di un'unione tra l'esperienza concreta bloccata
nell'immagine e l’'epifania del dio inteso non in senso devozionale.
Sì tratta in sostanza dell’allontanamento dall'idea crociana di un'arte
che esisterebbe autenticamente solo nell’intuizione e non nella funzione
estrinsecante della materia. L'arte sfugge così al concetto di rap-
presentazione candidandosi come opportunità che contemporaneamente apre
allo sguardo rinserrandosi nell’enigma, nella manifestazione del
trascendente. Galvano percorrerà incessantemente questa terra di
frontiera: come filosofo, come storico, come pittore. Prodromo del percorso
pittorico fu l’alunnato presso Felice Casorati, scelto peril linguaggio
sufficien- temente decantato, sintetizzato e affrancato dal dato
naturalistico per mezzo di un'operazione intellettuale capace di
conferire un ordine platonico agli oggetti dispensati dalla polverizzazione
cromatica impressio- 40 nistica. Una lezione estetica
essenziale quanto l’austero contesto della scuola. Esemplarità che si
concretizza inunalto profilo morale e umano che Galvano ritiene in
dissolvimento nell'arte moderna con la quale si conclude un ciclo
plurisecolare aprendosene un altro, tumultuoso nel bene ma anche nel
male, dal quale si sentì definitivamente estraneo dall'inizio degli
anni Sessanta. Il mondo del secondo dopoguerra sarebbe affetto da
una crisi di moralità alla quale potrebbe unicamente fare fronte una
presa di responsabilità politica, artistica, religiosa, speculativamente
limpida ed esente da posizioni compromissorie e accomodanti come
quelle sostenute dagli artisti che vogliono salvare i valori della
tradizione pur dichiarandosi moderni. L'intera modernità e l’idea stessa
di progresso tecnico aGalvanorisultano ree di edificare, intorno a un
fulcro di ragioni economiche (Marx) e sessuali (Freud), un presente
depauperato dall’opportunità della variazio- ne imprevista. A una
totalità di costruzione legata alla forma, tipica del Medioevo, si
avvicenda insomma una totalità d'impiego legata allo scopo,
decisamente avvilente come comproverebbe per inverso il moder- no
carattere apologetico della narrazione tecnica e scientifica. Giudizio
estendibile al fatto estetico per cui all'arte come atto fabrile, tipico
del Medioevo, si avvicenda l’arte come atto intellettuale,
peculiare del Rinascimento e dei secoli successivi fino al XVIII.
Seguirà il periodo reazionario e tradizionalista del Romanticismo,
caratterizzato dal recupero program- matico degli archetipi (Jung)
medievali ma rivissuti Per un'armatura, Edizioni Lattes, Torino,
1960. Senza il contesto sociale entro il quale quegli ideali
Sl erano formati. La spontaneità medievale diviene nel Romanticismo
programma culturale e come tale sarà ereditata dal Decadentismo e dal
Simbolismo, il Soggettivismo dei quali impronterà di sé l'Espres-
Slonismo. Le avanguardie appaiono dominate dalla pulsione oppositiva alla
tradizione elevando a sistema l'efficienza produttiva di un “nuovo”
codificato come autoreferenziale, programmatico e inintelligibile
ma ‘ncapace di emanciparsi dal dato naturale nonostante esaurirsi
dell'esperienza storica dell’arte illusiva. Gli €pigoni dell’astrazione
storica, i concretisti, sarebbero Invece esonerati da questa soggezione
insieme alle Tetoriche idealistiche riuscendo, in piena
ricostruzione etica e umana, a calarsi completamente nel dato resi-
duale figurativo, ossia all'evidenza del fatto pittorico. Fu l’esperienza
che Galvano intraprese dal 1948 al 1953, con l'adesione alla branca
torinese del MAC, €sauritasi per lui nella spontanea affermazione
delle forme curvilinee tipiche del Liberty su quelle rette e Spigolose
dell’astrazione concretistica. In una sorta di personale
contropartita agli inte- lessi spiritualistici e antropologici, Galvano
pensa a 41 Artemis Efesia, Edizioni
Adelphi, Milano, 1966. un'arte come luogo del verificarsi del mito
capace di portare a definitiva decantazione la sua inclinazione
espressionistica (rubricata dal Pallucchini) estraendo- ne la forza
panica trasfigurata in una rinnovata spinta metafisica. Sein ambito
artistico risulta evidente come egli abbia risolto insé l’apprendistato
casoratiano non assorbendone che un clima d'insieme, metabolizzando
l'aspetto decadentistico della pittura del maestro celata sotto la
rigorosa adesione a una norma di cristallina evidenza estetica ed etica, sul
piano dell'esercizio critico volle incrinare dialetticamente il sapere
con- solidato al fine di cogliere unitariamente il senso più
autentico della modernità. Accostandosi ai testi suoi maggiori, nei quali
dispiega un cospicuo sforzo storico ma editati in un periodo a loro
sfavorevole — “Per una armatura” (1960) e “Arthemis Efesia” (1967), si
hala sensazione di essere dinanzi a un affascinate quanto
indefinibile prodotto letterario —saggio, disquisizione filosofica, colta
divagazione, eccentrico soliloquio, introspezione analitica — che,
pensando alla continua permutazione tra scrittura e pittura, indurrebbe
a pensare a una creazione letteraria con statuto indipen-
denteecreativo rifiutato da Galvano incline, viceversa, a una
critica intesa come emanazione di un'attività immanente all'atto
creativo. Permane tuttavia l’eco dell'idea crociana della storiografia e
della critica che, pur non aggiungendo nulla all'opera ma
limitandosi a sancirne la validità poetica secondo l’idea del philo-
sophusadditusartifici- contrapposta all'idea dell’artifex additus
artifici sostenuta da Gabriele D'Annunzio e Angelo Conti sulla scorta di
John Ruskin e Walter Pater -—, attribuisce facoltà filosofiche e
artistiche alla soggettiva sensibilità intuitiva dello storico.
Coscienza “temuta e avversata”* Croce è, per Galvano, un'autorità
intellettuale che in cambio di una piattaforma teoretica esige la
partecipata condanna delle opere che, passate al vaglio di un
accurato approccio metodologico, risultino prive di valore poetico.
Nell’acido corrosivo dell'ironia e dialettizzando gli argomenti con lo
storicismo, Croce condanna il Decadentismo nelle accezioni
mistiche, estetizzanti, irrazionalistiche e in quella che crede
inconsistenza filosofica e spirituale, includendo in quel termine tutto
ciò che tende a sviluppi formali astratti e condannando di fatto la fitta
rete culturale e relazionale della modernità. Nonostante ciò Croce
avrebbe il merito di avere reso accessibile e ripercor- ribile questa
fitta topografia anche nella declinazione contraddittoria e fragilmente
raffinata del vituperato Decadentismo. Accettando la condanna
crociana, Galvano confessa la propria passione per decadenti,
esotici, erotici e apostoli misteriosofici, ponendosi scientemente in una
giurisdizione infernale come critico e come artista nato dalla linea
evolutiva del Simbolismo. Identifica anzi quello straordinario mo-
mento storico come un estremo malinconico balenio della civiltà al
crepuscolo, un'epoca di transizione divisa tra spirito e carne, abitata
da alcuni tra i più eletti spiriti dell'umanità capaci di creazioni
difformi ma compiute e che lo sperimentalismo modernista delle
avanguardie esaurirà. In una sorta di ribellione alla figura paterna,
Galvano trasgredisce la raccomandazione crociana di non leggere Rimbaud,
Mallarmé, Valéry e risco- pre, anteriormente a Cremona?, il modernismo e
la linfa vitale del Decadentismo attraverso il quadro metodologico
del filosofo abruzzese inclusivo di fatti estetici anche diametralmente
opposti alle sue idee. A Galvano, come alla sua generazione, fu quindi
im- possibile non dirsi crociano proprio per l'opportunità 4
A. GALVANO, Perché non possiamo non dirci crociani, in “Nu- mero — Arte e
letteratura”, V, n. I-II, gennaio-marzo 1953. Poi in: “Omaggio a Albino
Galvano”, catalogo della mostra, Circolo de- gli Artisti, Torino,
gennaio-marzo 1992, P. Fossati, F. GARIMOLDI, M. C. MunpiCI (a cura di),
Electa, 1992, pp. 116-120. Poi in: A. GALVA- NO, “Diagnosi del moderno”,
cit., p. 37. 5 I. CREMONA, Il tempo dell'Art Nouveau, Firenze,
1964. 42 che quella metodologia offriva nel
sistematizzare l’intera storia. Quello che invece depose fu lo
spirito conciliante dell'estetica di Croce buona, al più, a ba-
nalizzarsi nell’idea diunmuseoimmaginario.Quando negli anni Sessanta ebbe
il proposito di approfondire l’immagine cultuale e psicologica
dell’efesina Arte- mide, partì dalla fascinazione prodotta su di lui
da un pastello di Cesare Saccaggi, “Alma Natura, Ave!” (1898),
opera collocabile allora, quando uscì il libro, e tuttora, in un filone
di gusto piuttosto sospetto. Con una serie di pubblicazioni’, si renderà
così protago- nista, a partire dagli anni Cinquanta, del rinnovato
interesse per l’arte Liberty dalla quale trarrà ben più diuna semplice
ragione di studio quanto invece, nella pratica pittorica, una viva
permutazione in allusioni enigmatiche irriducibili a ogni
interpretazione, quali il fiore di iris, destituite dal ruolo di metafore
e sim- boli. Questa continuità formale si chiarisce anche come
continuità semantica quando si consideri come Galvano e Cremona abbiano
ricondotto l’arte astratta in un comune svolgimento con il Simbolismo e
con il Liberty che, di quest’ultimo, ful’espressione impiegata sul
piano della fabbricazione. Da cui il transitare di Galvano dalla fase
concretistica a quella informale e, più in là negli anni, a quella
araldica di nastri e bandiere per giungere appunto agli iris.
Trascorrere stilistico da non leggersi come eclettismo quanto piut-
tosto come legittimo susseguirsi tra la carica allusiva assegnata ai
reticoli cromatici astratti e la sensibilità decorativa trasformata in
materia fermentata fino alla disgregazione dalla quale estrarre infine
nuovamente il ritmo danzante delle forme arabescate. Il Simbolismo
gli consente di riversare il misticismo nella propria opera di pensatore
e, soprattutto, di pittore. L'arte assume quindi un valore emersivo di
forze morali (leggi spirito) — del “bene” nel momento crociano, del
“male” più tardi in modo nietzschiano — prima ancora che estetiche (leggi
sangue); diade debitrice al suo filosofo di riferimento Ludwig Klages,
altro intel- lettuale trascurato in Italia quanto sospettato di
avere incubato l'ideologia autoritaria tedesca quando invece più
coerentemente dovrebbe essere pensato come un epigono del romanticismo
intuizionista. L'arte tenta un'indiretta conciliazione tra spiritualità e
artificio consegnando alla storia un’estrinsecazione autentica-
mente creatrice e non solo la copia di una copia; non una
rappresentazione ma un esserci immanente. La volontà di accogliere quel
“male” come necessario gli viene dalla presa coscienza di
un'’artisticità, che arde 6 A. Galvano, Dal
simbolismo all'astrattismo, in “Galleria di lettere ed arti”, n. 4-5,
1953; Le poetiche del simbolismo e 1 ‘origine dell'Astrattismo
figurativo, in “Studi in onore di L. Venturi”, vol. II, 1956. Articoli
specifici ai quali aggiungere: L'erotismo del liberty e la sublimazione astrattista,
in “Cratilo”, n. 3, 1963. i Gabetti Isola, Casa di Erasmo, Torino,
1953-1956. inlui fin dalla giovinezza, radicata proprio nelle
opere Create tra XIX e XX secolo e nelle elaborazioni più
irrazionalistiche. Come quella immoralità sia aperta a fertili risultati
lo si comprende appoggiandosi all’in- terpretazione che Galvano offre
delle Artemis: bianca come simbolo coadiuvante di perfezione conchiusa
ma Statica, nera come simbolo avverso di imperfezione e INCompiutezza
ma dinamica e che in potenza può Jenerativamente aprirsi a una riserva di
possibilità eventualmente immanifeste. Per traslato, quindi, la
hegatività del Simbolismo si apre a una plenitudine di risultati. Permane
tuttavia il concetto di fondo che la Pittura, come prodotto di una
volontà impossibilitata a realizzarsi nell’ideale, sia il risultato di
una caduta la Cul spoglia materiale sarebbe prova di vanità e
disvia- mento. Come s'accennava sopra, Galvano si smarca dall'idea
di un'arte quale esempio del bello estetico e del bene morale, per lui
non più coincidenti, ma accetta la disperata affermazione dell'immagine
come 43 “ ” a »
l Me. È È n IS 18 la . t
: LI è» ® î unico possibile
risultato dell'impulso proiettivo delle aspirazioni individuali o
sociali. Pittura che in ultima istanza è anche piacere sensoriale,
vocazionale istinto a testimoniare (Baudelaire), “vizio assurdo”,
vanitas; pittura come atto cultuale che mantiene in gioco la
proiezione degli archetipi, la ricchezza delle imma- gini aderenti al
mistero, almeno per quel poco che la contemporaneità consente, poiché
ilmondo nega ogni giorno più spazio alla pittura mentre il pensiero
bor- ghese, incapace di slanci estetici e metafisici, permette che
in questa duplice assenza si innesti la tecnica, la pianificazione, la
sterile sistematicità. Per Galvano la nostra epoca è irrimediabilmente
scissa dal significato iù autentifico della vita, dalla sua forza
feticistica poiché ha fatto di quel mondo, in cui la presenza del
dio era costante, una favola bella l'iconografia della quale non è che
una lontana immagine idealizzata priva, per i moderni, di ogni accenno
oracolare. Queste ragioni filosofiche, di estremo interesse,
dovettero apparire perlomeno eterodosse all'atto della loro formulazione,
divise tra esistenzialismo e fenome- nologia e affacciate all’abisso del
mondo preclassico, alle profondità eraclitee. Scostatosi
dall’irrazionalismo di Klages, Galvano non intese fare di sé un anti-razio-
nale quanto piuttosto un convinto a-razionale, come indica la personale
concezione di arte in equilibrio tra ragionevolezza e vaticinio, secondo
un fare né pienamente consapevole poiché eroticamente privo di
volontà intellettiva, né tantomeno completamente incosciente poiché
contemplativo. Pertanto l'ipotesi di Galvano fu più aderente alla poetica
di Mallarmé piuttosto che al pensiero di Valery, perché dove il
primo disidratando e affinando la parola poetica pose le condizioni per
un superamento del modello simbolistico aprendo di fatto alle
avanguardie, il secondo immaginò la creatività come un processo
logico ricondotto alla piena luce della razionalità, alla consapevolezza
dell'atto. Esaltando cartesianamente l’intellettoela coscienza, il
processo creativo per Valery è un'attività spiegabile analiticamente
senza ricorrere a misticismo, vitalismo e spiritualismo. Carnalità,
sessualità e sensualità - Croce aveva biasimato la sen- sualità
nell'opera di Mallarmé come priva di “anelito d’innalzamento”” — furono
invece le pulsioni vitali del Simbolismo che interessarono Galvano e che
la razionalità, in un prolifico ripiegamento autoanaliti- co,
dovrebbe avocare a sé integrandole senza ripulse pregiudiziali.
Speculazione intellettuale e artistica che rivela tutta l’enigmaticità di
Galvano che oscilla tra i termini affermati da Mallarmé, e ripresi da
Alain, di “vision”, intesacome vaghezza di ispirazione, e “vue”,
intesa come concretezza dell'oggetto in sé risolto. Se da una parte,
sull'esempio di Mallarmé — il quale pre- cipitò le parole nell’assoluta
perentorietà delle pure idee aspirando infine a una “poésie sans les
mots”® -, Galvano pare decidersi per la “vue” aderendo al
concretismo astratto come pars construens dalla quale pretendere risposte
formali di esito certo, dall'altra, per mezzo del multiforme divenire
della sua pittura, apre obliquamente alla possibilità allusiva
dell’appa- rire, accettando di fatto unesito provvisorio prossimo
al concetto di “vision”. L'oscillazione dalla vaghezza creativa
all'evidenza intellettuale di forme e colori è l’unica risposta
contingente possibile per Galvano che decide di non decidere tra i
termini antitetici asseriti, approfondendolo sguardo nell'oscurità della
creazio- ne e della vita. Medesimamente il Galvano scrittore
affronta il passato eludendo la descrizione analitica delle epoche
storiche portandone bensì all’emersione 7. B. CROCE, Poesiae non
poesia, Laterza, Bari, 1950, 5° edizione riveduta, pp. 318, 319.
g S.MALLARMÉ, Divagations, Bibliothèque-Charpentier, Eugène
Fasquelle Éditeur, Parigi, 1897, p. 297. i reconditi meccanismi,
le contraddittorie spinte pul- sionali; un’organica prassi opportuna a
increspare la ricerca storica attraverso una molteplicità di punti
di vista culturali posti in reciproco dialogo e liberamente
sollecitati. Il rischio nell’approcciare oggi la figura di
Galvano è quello di appiattirne il pensiero, come già avvertiva
Sanguineti nel 1990°. L'illustre allievo aveva compreso come il
decadentismo pittorico di un Moreau o lette- rario di un Huysmans fossero
considerati dal maestro un indispensabile momento storico. Galvano
mostra insomma un’idiosincrasia per quelle “mortificazioni
crepuscolarmente schifiltose”!° che avevano impedito ai Campana, agli
Onofri, agli Ungaretti e ai Montale di superare, senza rifiutarne la
“carica panica e mitica”, il naturalismo panteistico dell’Alcyone
dannunziano. InItalia, l'assenza del dissolutivo lavacro simbolista
si era in sostanza ripercosso nella crociana deplorazione
categoriale per l’arte moderna insieme all’illusione di potere produrre
un'opera estetica autenticamente nuo- vaeludendo il peccato originario
del Decadentismo. Il tentativo di emanciparsi dal prestigio delle autoritates
latine che aveva tentato D'Annunzio richiamandosi ai romantici tedeschi,
apriva gli occhi di Galvano ai presocratici e alla filosofia moderna
(dall’irrazionali- smo alla scuola ermeneutica) che del classicismo
aveva assunto il senso vitalistico, indefinibile e misterioso di
una natura come rivelazione del divino. Da cui l’idea di una suprema
ragion d'essere trascendente alla quale l’arte, per Galvano, dovrebbe
aprirsi ma che invece nelle enunciazioni contemporanee gli pare,
con buona pace di Eco, rinserrarsi in un'opera chiusa. Con un piglio da
lettura sociale dell’arte, Galvano scrive dell’esaurimento dei rapporti
storici tra committenti e artisti e di come ciò abbia mutato
l'originaria destinazione d'uso delle opere, ridotte così a gratuite
provocazioni. Conseguentemente proponeva le dimissioni delle categorie di
giudizio elaborate perle arti visive del passato da sostituirsi con
un equivalente delle letture psicanalitiche tentate da Sartre su
Baudelaire e da Lacan su Poe. Restato sempre un pittore tradizionalista,
Galvano si dichiara disin- teressato a certi sviluppi artistici lasciando
intendere come il problema dell'effimerità dell’arte contempo-
ranea—compreso l'amato astrattismo geometrico—sia anche un problema della
storia dell’arte come disci- plina. Su come debba essere poi questa
storiografia Galvano non si pronuncia se non dichiarando che il
problema della storia dell’arte debba essere anche e
9 E. SANGUINETI, Contro la ragione, in “La Stampa”, 10 marzo 1990,
p. 7. 10 A. GALVANO, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese,
Tori- no, dicembre 1979-gennaio 1980, p. 108. 11
Ibidem. soprattutto il problema dell’uomo! Sovvengono le
parole destinate a grande fortuna critica che avrebbe scritto Hans
Belting nei pamphlet intitolati “La fine della storia dell’arte o la
libertà dell’arte” (1983) e nel successivo “Das Ende der Kunstgeschichte.
Eine Revision nach zehnJahren” (1995)nei quali auspicava la fine
della storiografia artistica tradizionale a favore di proposte olistiche
e antropologiche avvedute delle mutate circostanze sociopolitiche, del
rimescolamento di cultura alta e bassa, della suggestione
determinata dai linguaggi mediali, dell’emergere di realtà
culturali prima marginalizzate, dell’obsolescenza della funzio- ne
assegnata al lavoro manuale, dell’alterato ruolo di musei e gallerie
d’arte. La prospettiva delineata da Galvano si tinge di accenti acri
quando denuncia la pacifica cittadinanza ottenuta dagli ismi ridotti
alla non nocenza di prodotti da supermarket immersi in una rete di
opportunità economiche e di complicità professionali. Un terreno
culturale desolante che assume una disillusa trasposizione nella sua
pittura ultima, nei paesaggi desertificati, nella scelta estrema del
silenzio creativo come opzione possibile nonché parzialmente intrapresa.
Facendosi anticipatore di posizioni storiografiche di superamento della
cano- nica divisione tra antico e moderno e concentrando il periodo
rivoluzionario dell’arte d'avanguardia tra il 1907 e il 1925, in una
sorta di personale à rebours Galvano esprime l'opinione secondo cui i
movimenti artistici successivi si sarebbero attestati su posizioni
di assimilazione manieristica piuttosto che di irriverente
Sovversione peculiare degli ismi nei riguardi della tradizione
rappresentativa. Delinea unastoria dell’arte moderna parallela più
complessa e connettiva come avrebbero potuto scriverla gli artisti ai
quali infine delega idealmente il compito futuro di creare un'ar-
te che, restando nell’ambito non figurativo e senza Impossibili riflussi,
riesca coerentemente a ristorare i Valori artistici e umani del passato.
Galvano insomma invoca il diritto anon essere moderno, o peggio
ancora d avanguardia, evitando di lavorare sulla contingenza e
rifiutando l'egemonia della critica per privilegiare, In senso
dichiaratamente anticrociano, la poetica degli artisti che al lavoro
intellettuale uniscono la prassi. Insieme alla proposta per un
rinnovamento della Storiografia artistica Galvano ne affianca un’altra
di Natura conservativa consistente nell’idea di salvaguar- dare le
opere minori del modern style, perlomeno gli Oggetti e gli arredi non
ancora distrutti (di Cometti Per esempio). Immagina la documentazione
degli edifici Liberty finendo per invocare l'allestimento di Una
retrospettiva sull’Art Nouveau internazionale, ma ù A. Gauvano,
«Cosa nostra», in “Sigma”, Ln1, primavera 64, pp. 63-70. Poi in: “Omaggio
a Albino Galvano”, 1992, cit., Pp. 130-133. Poi in: “Diagnosi del
moderno”, cit., p. 59. 45
avveduta del caso italiano e piemontese nel dettaglio, da allestirsi
nella rinata Galleria di Arte Moderna di Torino (1960). Caduta nel vuoto
la proposta sarà pro- prio Galvano a scrivere un articolo sull’Art
Nouveau a Torino! e poi, insieme a Giorgio Balmas e Lorenzo Guasco,
a curare nel 1978 al foyer del Piccolo Regio una mostra dedicata alla
pittura torinese all’inizio del secolo. Sorta di doveroso omaggio a uno
stile di vita prima ancora che d’arte nel quale confluirono la vita
delle forme collettive e l’individualità creativa. Dissentendo da Croce,
l'interesse di Galvano per gli oggetti si approssima alle idee espresse
da Giovanni Gentile nella prolusione al corso universitario di
storia della ceramica pronunciato nel Palazzo Comunale di Faenza
nel 1928 nel quale il filosofo, saldando arte e vita, rivendica la
dignità estetica dei prodotti artigianali e industriali di qualità. Si
consuma qui l'ennesima contraddizione di un crociano affine alle
idee di Gentile che pur biasima per densità retorica. Sensibile alle arti
dei periodi di transizione e avvedu- to della caducità dei giudizi,
compresi i propri, per Galvano ogni critica obiettiva deve essere
sempre un’autocritica. Augurandosi l'avvento di un esegeta capace
di rileggere l’arte tra i due secoli, così come Sanguineti seppe fare con
la letteratura, Galvano rammenta come la sua generazione abbia
vergato parole sferzanti su Bistolfi fino a pochi anni addietro
valutato un artista di statura europea. Ma fu anche la generazione di
quei giovani i quali, raggiunti i vent'anni nella terza decade del XX
secolo, quando dovetteroimmaginare una ribellione la fantasticarono
conle parole di Rimbaud, Gide, Lawrence e Huysmans il cui Des Esseintes
sembrò essere allora il prototipo di un esteta come Carlo Mollino.
Dell’amico, stimato oltre che come professionista di genio anche
come dilettante d'eccezione, Galvano ammirò la capacità di
governare con la formazione culturale crociana e il rigore razionale
tipico della sua professione, gli umori sensuali, avventurosi e ambigui
del suo animo capace di rievocare il ritmo aperto e biologico del
Liberty restituendolo nella voluttà degli interni arredati, nell'armonia
architettonica dei pieni e dei vuoti, nella eterogenea e immaginosa
commistione di elementi organici e funzionali. Un'omogeneità che il
termine “surreale” illustra solo parzialmente e che trova una segreta
corrispondenza nelle opere di Cremona come nei molluschi, nelle
conchiglie, negli antichi libri accartocciati e nelle acquasantiere
barocche che Galvano dipinge negli anni Trenta e Quaranta. L'identità
autopoietica generata da Torino si manifesta nella condivisione
spirituale prodotta da 13 A. GALVANO, Per lo studio
dell'Art Nouveau a Torino, in “Bol- lettino della Società Piemontese di
Archeologia e Belle Arti”, nn. 14-15, 1961. questa
generazione d’eccentrici intelletti, nella speci- fica formazione di un
genius loci come Galvano e nel progetto della Bottega d’Erasmo che
Gabetti e Isola disegnano in forme intellettualistiche neo-liberty
nel 1953. Proprio in quell’anno, “A Rebours” di Huysmans diverrà
per Galvano il pretesto per puntualizzare le proprie posizioni
all’interno del Mac e più in generale nel modo di intendere il Decadentismo!.
Quando Leonardo Borgese consigliò agli astrattisti concreti, in
chiusura della recensione alla mostra di Galvano allestita presso lo
Studio B 24 di Milano nel 19535, di rileggersi il celebre romanzo di
Huysmans nel quale, a suo parere, ci sarebbe stato il necessario per
decodi- ficare la loro poetica, gli aderenti al gruppo accolsero
l'esortazione come una blasfemia da respingersi inte- gralmente. Galvano
ritenne legittima la protesta dei compagni astrattisti apparendogli
chiaro come Borgese incaricasse l’ipocondriaca, solitaria ed estetizzante
vita del protagonista narrato nelromanzo, diesprimere un'e-
pidermica quota di edonismo e di sensualismo ribelle ai disvalori della
società positivistica industrializzata e scientifica, votata al profitto,
al commercio, al nuovo capitale borghese. Dopo di che Galvano,
confessando di aderire parzialmente al pensiero del capitano della
brigata anti-astrattista Borgese, s'inalvea in una lettura
sorprendentemente sincretica aperta al riconosci- mento dell’ambivalenza
del rapporto tra astrazione e Simbolismo. Al rifiuto delle suggestioni
emotive del Simbolismo, l’astrattismo, secondo Galvano, ne
intellettualizzerebbe le allusioni ele “corrispondenze” (termine
apertamente rimontante a Baudelaire) come strumento oppositivo al
dilagare prosastico del reali- smo. L'astrattismo del dopoguerra
ridurrebbe quindi ai minimi termini la carica letteraria aumentando
quella metafisica, riscattando la tradizione dei padri nobili dell’astrazione
primonovecentesca e tesaurizzando nel contempo (sulla scorta della
ricostruzione filogenetica di Pevsner) la lezione di Toorop, Gauguin,
Munch e Klimt insieme a quella degli antesignani Runge, Blake,
Antonelli, Ciurlionis, Kupka; in sostanza dei precursori che evocarono
ancora le leggi del mondo fisico consentendo agli evoluti linguaggi non
figurativi di divincolarsi più recisamente dalla mimesi. Negli anni
tra le due guerre, sull'onda della fenomenologia e della psicologia della
forma, si assisté a un aurorale revisionismo storiografico dell'Art
Nouveau — anche Edoardo Persico ebbe in animo di scriverne una
storia!° 14. A. GALVANO (asterisco di) in, ‘Pitture di A. Galvano
in un esperimento di sintesi” (testo anonimo), Milano Studio B 24,
“Arte Concreta”, bollettino n. 12, seconda serie, febbraio 1953. Poi in:
P. Fossati, “Il movimento arte concreta 1948-1958. Materiali e
documenti”, Martano Editore, Torino, 1980, pp. 62, 63. 15 L.
BorcEse, “Corriere della Sera”, 1° gennaio 1953. 16 A. Pica,
Revisione del Liberty, in: “Emporium”, a. XLVII. n. 8, vol. XCIV, n. 560,
agosto 1941, p. 66. 46 — ma sarà con gli anni
Sessanta e Settanta che diverrà condivisa acquisizione la carica
anticipatoria ricoperta da Mackmurdo e dalla cultura figurativa a partire
da Blake. Anima nera del concretismo, Galvano assume un ruolo
sovversivo nel movimento proponendo ine- dite e intelligenti aperture di
senso che tuttavia non giungeranno a ispirare un prolifico dibattito
all’interno del gruppo infragilito dalle difformità tra la
posizione intellettuale rigorosamente metodica dei milanesi e gli
arrovellamenti sulla materia fortemente allusiva espressi dalla linea
torinese. Risalendo alle sorgenti dell’arte astratta, Galvano riannodò,
in antitesi alle let- ture formalistiche, le affinità con le fonti
spiritualiste di Decadentismo e Simbolismo e — pensando alla
densità mistica nell'opera di Huysmans sfogata in occultismo e
cattolicesimo — con le citazioni della Blavatsky e di Steiner scritte da
Kandinsky, con la prossimità di Mon- drian ai circoli teosofici, con il
lirismo magico di segni e colori dell’orfismo di Kupka e, non ultimo, con
uno dei primitesti dedicati all’astrazione scritto da Julius Evola.
Dandy autoironico votato alla marginalità, Galva- no disseminò il
proprio percorso di tracce sulle quali indugiare, trascorrendo
liquidamente da una disciplina all'altra in modo stupefacente per un
intellettuale ani- mato da pura vocazione pedagogica ma riottoso
alla metodicità dello studio scolastico. Attribuire un senso
univocoal suo pensiero equivarrebbe a fraintenderne la filosofia e l’idea
stessa di un'arte come autosufficiente e spontaneistico operare nella
ferita aperta tra vitali- smo e intelletto che l’atto artistico non
riesce tuttavia a cicatrizzare. La civiltà intera corrisponde per lui
alla fenomenicità delle immagini da essa prodotte che, in sostanza,
aprirebbero al mistero quale autentico even- to metafisico. Intendendo
come piani dell’emersione archetipica i segni dell’arte — della quale
l’idealismo si limiterebbe a coglierne l'aspetto teoretico, Alain
quello pratico e l’Esistenzialismo quello etico — sarebbe troppo
semplicistico archiviare la passione di Galvano per Decadentismo,
Simbolismo e modern style, come l'infatuazione culturale per un'epoca
vesperale. Egli si sente invece custode ed erede di quella
lacerante contraddizione, di quella genesi oppositiva, di quella
disperata tensione verso uno spirituale fatalmente arreso alle forme
dell’estetismo, di quella magnifica e perduta sfida, tanto da riversarne
la forza vitale nella personale proteiforme pittura così come nelle
pro- gressive illuminazioni della sua letteratura filosofica e
artistica. Opere esposte
1 Lettrice sdraiata -— 1931 — olio su tela — 63,5x81
cm 2 Autoritratto - 1940 ca — olio su tela — 23,5x18
cm 3 Astrazione - 1950 — olio su tela — 50x60
cm et adi 4 Il giorno — 1952 — olio su
tela — 100x80 cm 5 Pacato — 1954 — olio su tela —
90x110 cm 6 Composizione in nero — 1954 — olio su
tela — 90x110 cm / S.t.-1956-olio su carta — 34x48
cm $ Ercole ed Anteros — 1956 — olio su tela — 85x115
cm 9 Omaggio a Van De Velde - 1959 — olio su tela —
80x90 cm 10 Ir1s — 1960 — olio su tela — 105x95
cm 58 10Y1-1960- olio su tela — 95x110
cm 3 F 12 Calligramma — 1960 — olio su
tela — 100x85 cm 13 Fiori di lago — 1962 — olio su
tela — 100x120 cm 14 Le jardin de cet astre — 1962 —
olio su tela — 132x116 cm 15 Ireos — 1962/65 — olio
su tela — 130x115 cm 16 Proposta — 1965 — olio su
tela — 135x122 cm 17 Pavese — 1967 — olio su tela —
120x110 cm 18 Farfarello e Malambruno — 1967 — olio
su tela — 80x60 cm 19 Gonfaloni — 1968 — olio su tela
— 95x80 cm 20 Nastro n. 25 — 1968 — olio su tela —
90x80 cm 21 Nastri — 1969 olio su tela — 60x50
cm 22 Nastri colorati — 1969 - olio su tela — 110x100
cm 23 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm
24 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm
MALI 25 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm
ter» IG MOFBEE sie Tre ir"
Saitta Sl 26 Segni asemantici
(dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm pari #1 =$
Re |a te n ; 26 Segni asemantici
(dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm 27
Artemis — 1974 — olio su tela — 120x110 cm 28
Maioresque cadunt - 1974 — olio su tela — 90x80 cm —____
TITO sal - 1974 — olio su tela — 70x50
cm 30 s.t. 1974 - olio e carboncino su tela — 80x60
cm 31 Ireos - 1977 — olio su tela — 70x60 cm
—_—— mr LIIII:5 ——_—_ T=—r-—-r®x
(i 32 Iris n. 2 - 1975 - acquarello su carta — 40x30
cm Sa Cespu glio — 1974 — acquarello su carta — 40x30
cm 34 Glotre
du lon g desir idees —- 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm
35 Fiori — 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm
VRREET L6 LL AIA USD GOG VE o VERDE IL I BEILET DART DIG SPARI DIO
RR pia I I LITIO ODE LIL 36 Fiori — 1975 — acquarello su carta —
40x30 cm 37 Une Fleur — 1975 — olio su tela—
70x70 cm 38 Scrittura - 1976 — acquarello su
carta — 60x50 cm 39 Sassi e foglie — 1978 — olio su
tela — 80x80 cm 40 Foglie morte — 1978 — olio su tela
— 80x80 cm 41 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta —
40x30 cm Labrit, © di DASIO LT R EDLI u
DILODIAT 42 Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35
cm 43 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35
cm ” — hu ro iiriiRRRE
44 Rocce e ciottoli — 1981 — olio su tela — 80x80 cm
45 Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm
46 Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm
47 Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80 cm
Opere in mostra 01 — Lettrice sdraiata — 1931 — olio su
tela — 63,5x81 cm 02 — Autoritratto — 1940 ca — olio su tela —
23,5x18 cm 03 — Astrazione — 1950 — olio su tela — 50x60 cm
04 — Il giorno — 1952 — olio su tela — 100x80 cm 05 — Pacato
— 1954 — olio su tela — 90x110 cm 06 — Composizione in nero — 1954
— olio su tela — 90x110 cm 07 — s.t.-— 1956 — olio su carta — 34x48
cm 08 — Ercole ed Anteros — 1956 — olio su tela — 85x115 cm
09 — Omaggio a Van De Velde — 1959 — olio su tela — 80x90 cm 10 —
Iris-— 1960 — olio su tela — 105x95 cm 11 — Fiori - 1960 — olio su
tela — 95x110 cm 12 — Calligramma — 1960 — olio su tela — 100x85
cm 13 — Fiori di lago —- 1962 — olio su tela — 100x120 cm
14 — Le jardin de cet astre — 1962 — olio su tela — 132x116 cm 15 —
Ireos — 1962/65 — olio su tela — 130x115 cm 16 — Proposta — 1965 —
olio su tela — 135x122 cm 17 — Pavese — 1967 — olio su tela —
120x110 cm 18 — Farfarello e Malambruno — 1967 — olio su tela —
80x60 cm 19 — Gonfaloni — 1968 — olio su tela — 95x80 cm 20 —
Nastro n. 25 - 1968 — olio su tela — 90x80 cm 21 - Nastri — 1969 —
olio su tela — 60x50 cm 22 — Nastri colorati —- 1969 — olio su tela
— 110x100 cm 23 — Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm
24 — Nastri - 1970 — olio su tela — 60x50 cm 25 — Nastri -
1970 — olio su tela — 60x50 cm 26 — Segni asemantici (dittico) —
1973 — olio su tela — 110x90 cm 27 — Artemis — 1974 — olio su tela —
120x110 cm 28 — Matoresque cadunt — 1974 — olio su tela — 90x80
cm 29 — s.t.- 1974 -— olio su tela — 70x50 cm 30 — s.t.—
1974 — olio e carboncino su tela — 80x60 cm 31 — Ireos — 1977 —
olio su tela — 70x60 cm 32 — Iris n. 21975 — acquarello su carta —
40x30 cm 33 — Cespuglio — 1974 — acquarello su carta — 40x30
cm 34 — Gloire du long desir idees — 1975 — acquarello su carta —
40x30 cm 35 — Fiori —- 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm
36 — Fiori - 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm 37 — Une
Fleur — 1975 — olio su tela — 70x70 cm 38 — Scrittura — 1976 —
acquarello su carta — 60x50 cm 39 — Sassi e foglie — 1978 — olio su
tela — 80x80 cm 40 — Foglie morte — 1978 — olio su tela — 80x80
cm 41 — Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 40x30 cm
42 — Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm 43 —
Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm 44 — Rocce e
ciottoli - 1981 — olio su tela — 80x80 cm 45 — Rocce e sassi — 1981
— olio su tela — 80x80 cm 46 — Rocce e sassi — 1981 — olio su tela
— 80x80 cm 4/ — Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80
cm Finito di stampare nel mese di marzo 2021 da
GARABELLO ARTEGRAFICA (SAN MAURO TORINESE). Grice: “I don’t see why Italians
are obsessed with art, but Speranza is Italian, so let it be. Speranza thinks
conceptual artists are the only ones – such as Keith Arnatt – worth analysing.
In his more snobbish ways, he thinks to mould the male body was Pliny’s idea of
art – bronze statuary of the ‘nudo maschile’ – Painting comes only second or
third, and only because of the desegno – i.e . the line of beauty, which is –
as shape, where ‘kallon’ resided for the Greeks!” -- Albino Galvano. Galvano. Keywords: arte naturale, Gallupi, Peirce,
Grice. By uttering x (gestus), U means that p” gesto, gestus, Grice’s use of
gesture. il concreto, l’astratto, Sraffa’s gesture. Il gesto di Sraffa,
l’implicatura di Sraffa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galvano: implicatura
concreta”– The Swimming-Pool Library. Luigi Speranza, “Grice e Galvano”. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701743649/in/photolist-2mQtVUe-2mPdwPf-2mPdwwX-2mMQbzj-2mLzoXX-2mLzpRF-2mLzqdc-2mLGX8g-2mPsfT9
Grice e Gangale
– il dia-letto e la dia-lettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cirò
Marina). Filosofo. Grice: “I like Gangale; the fact that I taught for years in
front of the martyrs memorial helps!” Porta a termine gli a San Demetrio
Corone. Si iscrive alla facoltà di Filosofia di Firenze. Si laurea con “La
logica della probabilita”. Iniziato in Massoneria, nella Gran Loggia d'Italia. Porta avanti la difesa dell’idioletto e del
dialetto. Opere "Rivoluzione
Protestante" (Torino, Gobetti); “Calvino (Roma, Doxa); “Apocalissi della
cultura arabresca” (Roma, Doxa); “Il Protestantesimo in Italia” (Roma, Doxa);
“Il dio straniero” (Milano, Doxa); “Giacomo della Marca” (Napoli); “Salve
regina”; “Fragmenta ethnologica arberesca medio-calabra, Soveria Mannelli,
Rubbettino. “L’arbërisht: l’utopia. According to Louis Hjelmslev,
semiotics is first and foremost a hierarchy. Its distinguishing feature is that
it is guided by a dynamic principle by which it is split into dichotomies at
all levels, yielding expression and content, system and process, denotative and
non-denotative semiotics, and, within the latter, metasemiotics and connotative
semiotics. This text may be reproduced for non-commercial purposes,
provided the complete reference is given: Sémir Badir (2006), « The Semiotic
Hierarchy », in Louis Hébert (dir.), Signo[online], Rimouski (Quebec), http://www.signosemio.com/hjelmslev/semiotic-hierarchy.asp.
2. THEORY top 2.1. OVERVIEW The terms semiotics and semiotic [n.]
designate two a priori dissimilar things. By semiotics, we mean a field of
study in which we can formulate a method for analyzing signifying phenomena, as
well as a theory including all the particulars of this analysis. By semiotic
[sg.], we mean the result of a semiotic analysis. So for example, there is a
musical semiotics that seeks to map out music as a comprehensive signifying
phenomenon. And furthermore, from a synchronic perspective (the music of a
given period and culture), if not from a panchronic perspective (music in
general), we can say that music is itself a semiotic [sg.], being possessed of
both a system (distinctions in pitch, duration, timbre, and so forth) and a
process (consistent relations between sounds in their various aspects).
According to Hjelmslev, the acceptations of semiotics and semiotic must be
articulated in relation to one another. Semiotics as a field of study is
(ideally) conformal to the results of its analyses. As such, it is also endowed
with a system and a process. In order to preserve the distinction between the
two terms, we must understand that semiotics as a whole contains specialized
individual semiotics [pl.], some of which are useful in developing theories and
methods (the ones that Hjelmslev calls metasemiotics), while others are meant
to be articulated into semiotic hierarchies (this is the role of what he calls
the connotative semiotics). Francis Whitfield, the English translator of
Hjelmslev's works, drew up a chart showing the semiotic hierarchy with its
constituent parts (in Hjelmslev, 1975, p. XVIII; also translated into French in
Hjelmslev, 1985, p. 17). The class of objects The class of objects
NOTE: THE LIMITS OF GRAPHICS The above chart shows only one aspect of the
functions identified between semiotic components: their paradigmatic functions
(the relations between classes and their members). A more complete diagram
designed to include the distinguishing features of semiotics would also show
the syntagmatic functions (relations of implication) that operate between the
different components. Tree diagrams do not really lend themselves to this kind
of representation. This is one difficulty that Hjelmslev himself was unable to
completely resolve. 2.2. SEMIOTICS AND NON-SEMIOTICS In his first work,
Principes de grammaire générale, written in French in 1928, Hjelmslev sets out
the principle of classification that is operative in any language [langage].
"Categories as such", he writes, "are a fixed quality of
language. The principle of classification is inherent in all idioms, all times
and all places" (trans. of Hjelmslev, 1928, p. 78). Thus linguistics, with
its three levels of analysis (phonology, grammar, and lexicology) is a science
of categories. However he adds that "the science of categories must
disregard the categories established in logic and psychology and venture right
into language's territory to find the categories that are characteristic of it,
that are specific to it, and that are not found anywhere outside language's
domain" (trans. of Hjelmslev, 1928, p. 80). Hjelmslev soon extended this
domain to include languages other than verbal ones, but not to the point of
including any system of classification. The semiotics [pl.] make up this
larger domain, and they are distinguished from other systems of classification
by a certain uniformity (or homogeneity) that forms the basis of their analysis
at all levels. 2.2.1 EXPRESSION AND CONTENT We find this uniformity first
between the components of any semiotic. By custom, these components are called
the expression plane and the content plane. The reason for this is that as a
general rule, expression forms are visible in the object (they are
"expressed"), whereas it is in the content forms that signification
resides (the semiotic object "contains" content forms). However, this
is beside the main point, which is that we always analyze a semiotic object
(usually a text) uniformly, with an initial distinction between two components.
In other words, for Hjelmslev, as for Saussure, neither expression nor content
can be given predominance; they must both be analyzed together (Hjelmslev,
1928, p. 88). NOTE: ISOMORPHISM AND NONCONFORMITY It is true that
Hjelmslev subsequently states that the semiotic planes must also not be
conformal to one another; otherwise the distinction between them is nullified
(Hjelmslev, 1963, p. 112). It would require too many theoretical details to
explain the principle of nonconformity here. Suffice it to say that this
principle is not directly related to the issue addressed in this chapter, which
is hierarchical organization, and that, furthermore, nonconformity does not in
any way interfere with the isomorphism of the semiotic planes (that is, their
structural parallelism). NOTE: SYMBOLIC REPRESENTATION
Although it doesn't simplify matters any, we must acknowledge that the diagram
of semiotics given above actually postulates a classification that is itself
non-semiotic: It is a symbolicclassification, for it can be seen as either an
expression plane (the terminology Hjelmslev adopts in his theory) or a content
plane (the meaning assigned to each of the terms it presents), and each of
these planes is conformal to the other. 2.2.2 PARADIGMATIC FUNCTIONS In
one aspect of semiotic analysis, we use paradigmatic functions to establish
distinctions within the individual semiotics. A paradigmatic function can
always be expressed as two elements in an either... or...relation: "either
this or that". In a semiotic, any element of any magnitude (a sound, word,
sentence, idea, or abstract feature) can be analyzed in terms of these
functions. There are three possible results: (1) two constants are identified;
(2) there is no constant identified, so that the elements involved remain as
variables; (3) one of the elements is considered to be the variable of the
other. The three types of paradigmatic functions either this or that, one
excludes the other constant ↓ constant complementarity either
this or that, it makes no difference variable ↑ variable
autonomy either this, or more specifically that constant –|
variable specification For example, in French, the masculine and
feminine are two constants (of content) with respect to animate beings.
Conversely, with respect to inanimate elements, they are regarded as variables.
In French we refer to cities, which have no designated grammatical gender,
sometimes as feminine and sometimes as masculine. And finally, with respect to
the class 'sex' itself, each one has a variable, since sex has been selected as
the constant of content. Naturally, linguistics aims first to establish
constants, in either a relation of complementarity or of specification. From a
paradigmatic standpoint, the expression plane and the content plane are
complementary in semiotics (e.g., in a verbal language), whereas in a symbolic
system (e.g., in a computer programming language) they are autonomous.
2.2.3 SYNTAGMATIC FUNCTIONS Another aspect of semiotic analysis
identifies relations between elements. A syntagmatic function can be expressed
as two elements in a both... and... relation: "both this and that".
Once again, three kinds of syntagmatic functions may be identified: (1) if one
element is present, the other must also be present, and vice versa; (2) one
element does not have to be present for the other to be present; (3) one
element is required for the other to be present, but not the reverse. The
three kinds of syntagmatic functions both this and that, by necessity
constant ↔ constant solidarity both this and that, by
contingency variable – variable combination this necessarily
accompanied by that variable → constant selection A
verbal sentence is the necessary association of a noun phrase and a verb
phrase; they are the two syntagmatic constants of the sentence. Conversely,
there is no consistent relation between the categories of verb and adverb: the
verb can be present without the adverb, and the adverb can modify something
other than a verb (an adjective, such as pretty, in very pretty). The verb and
the adverb are variables relative to one another. On the other hand, an article
requires a noun, but the reverse is not true; in this relation, the noun is the
constant and the article is the variable. From a syntagmatic perspective,
there is always solidarity between expression and content. If the analysis
identifies an expression plane for a given object, then it must also identify a
content plane, and vice versa; otherwise, the object in question would not be a
semiotic object (something we are not supposed to know before we begin our
analysis). NOTE ON LINGUISTIC LAWS Necessity in syntagmatic
functions is quite relative; it depends on the corpus under study. Caution
would prompt us to speak of consistency rather than necessity, as language is
replete with exceptions, and its rules are subject to rhetorical
non-compliance. We are keeping this term nevertheless, if only to emphasize the
predictive intent of linguistic analysis: whatever consistencies have been
recorded in attested texts must still be valid for future texts. 2.3
DENOTATIVE SEMIOTICS AND NON-DENOTATIVE SEMIOTICS Natural languages are the
first object of semiotic analysis. Their systems are identified through the
paradigmatic functions, and their processes through the syntagmatic functions
on both planes, expression and content. When analyzed, texts are equivalent to
processes, since they constitute chains of semiotic elements that are put into
relation with one another. Semiotic analysis can be applied secondly to
other kinds of language, with no theoretical adjuncts, and it is from this
extension that it has earned the name semiotics. But in addition,
semiotic analysis can be applied to a third kind of target: forms of language that
cannot be reduced to two planes (their components are not even in number).
These languages [langages] are termed non-denotative. There are two kinds: the
metasemiotics and the connotative semiotics. 2.4. THE METASEMIOTICS A
metasemiotic is rooted in a semiotic equipped with a control plane, so to
speak. Through this plane, each element of content takes on an expression in a
denominative capacity. This is what we are doing when we say that
in a certain advertisement for French pasta (to take a famous example used by
Roland Barthes), the yellow and green colours on a red background (the colours
of the Italian flag) signify "Italianicity" (Barthes, 1985, p. 23).
Italianicity is a metasemiotic expression used to designate the signification
of visual elements (colours). The same function is in operation when we
say that the expression arbor signifies "tree" (Saussure, 1959, p.
67), except that in this case, both expression and content take on metasemiotic
expressions through the use of distinct typographical markers (italics and
quotation marks) and different languages (Latin and English). In this case they
are called autonyms. Metasemiotic control helps us to avoid any equivocation
between expression and content in our analysis. Finally, metasemiotic expression
also has a power of generalization, by allowing categories to be designated.
When we talk about the verb, as we do in linguistics, we are attributing a name
to several syntagmatic functions grouped under this common denominator. To put
it another way, the metasemiotic expression verb can be used to describe a
syntagmatic function that is analyzed in each particular verb (Badir, 2000, pp.
122-123). It can be helpful to include this control plane in a specific
semiotic, for the human mind seems to be adept at juggling metasemiotic
expressions (writing being the prime evidence of this, and so very complex).
This is how a metasemiotic is formed: one of the planes is the control plane,
and the other is the object semiotic. By doing this, the metasemiotic once
again becomes a binary structure, but with two tiers (in the table below, E
stands for expression, C for content). Metasemiotic structure
metasemiotic control plane (E) object semiotic (C)
expression plane (E) content plane (C) 2.5 CONNOTATIVE
SEMIOTICS The plane that is affixed to a semiotic does not always perform a
control function, however. In fact, we can always affix a third plane to a
semiotic in order to account for anything that has been missed by the analysis,
anything that is considered to be a special case or exception.
Variants are the evidence of this analytical shortcoming. If we wish to
account for them in some way nonetheless, then we define them as invariants
within special or narrowed parameters that Hjelmslev calls connotators. The
third plane, then, is formed by considerations that were not selected in the
first-tier analysis (called denotative). This plane is ordinarily held to
be a content plane, since it is assumed that semiotic objects cannot be
intrinsically modified by these considerations. (One senses a delicate point
here, that is admissible only at the discretion of the analyst).
Connotative structure connotative semiotic denotative semiotic (E)
plane of connotators (C) expression plane (E) content plane (C)
For example, Hjelmslev maintains that any given language may be
analyzed equally well through its written texts or its oral utterances; in
other words, that its rules of syntax, its morphological formations and
vocabulary are common to oral as well as written productions. Certainly anyone
can see that this assessment is not ill founded. Nevertheless, there are
distinctions, which have inevitably been left as variants in the linguistic
analysis. Ensuring compatibility between the analysis of these variants and the
first-tier analysis is a matter of establishing a plane in which orality and
writing can be included as two paradigmatic invariants of content of a
particular type: orality and writing are set up as connotators. In this way,
the first-tier analysis remains valid, although it can always be customized
with respect to the newly established paradigmatic function (Hjelmslev, 1963,
pp. 116-119). From a broader perspective, we can use connotative
semiotics to specify which tier of specialization to use for a particular
semiotic analysis, as semiotic analysis is not apt to be applied
indiscriminately to any element of language (this is only true of its
theoretical components, in particular, the ones presented here). In linguistics
we begin by recognizing the plurality of verbal languages, basing our analyses
on distinct corpora for each language. It is the role of connotative semiotics
to establish each language as a connotator. So when we speak of the
"linguistic analysis of French", French is a connotator, as it
determines in which particular case the analysis is valid. 3. APPLICATION
top At this time, the theory of semiotic hierarchy has been developed
extensively only in the application for which Hjelmslev initially intended it:
the metasemiotic hierarchy of verbal languages (as illustrated in Whitfield's
tree diagram, reproduced in section 2.1). Metasemiotic hierarchy with
languages [langues] as the object semiotics
expression plane analysis content plane analysis internal
semiologies paradigmatic perspective phonology
lexicology syntagmatic perspective "morphology"
grammar external semiologies paradigm of historical and geographic
connotators historical and dialectal phonology historical
lexicology and dialectology comparative and historical grammar
paradigm of social connotators sociolinguistics, linguistics of written
language paradigm of psychic connotators pedolinguistics,
psycholinguistics, study of language disabilities paradigm of cultural
connotators rhetoric, stylistics, narratology internal
metasemiologies phonetics semantics external
metasemiologies physics and physiology of sound extrinsic
interpretations We will start by discussing the table entries. In the
hierarchy there are two columns dividing the analysis into two components,
labelled expression plane and the content plane. However, this
subdivision does not hold throughout (as in the case of comparative grammar),
either because two different semiotic analyses bear the same name in practice,
or because the analysis is non-semiotic, as it turns out. The hierarchy is
divided into rows representing the object semiotics. First they are divided by
their rank in the hierarchy (semiotic or metasemiotic), next by distinguishing
the denotative semiotics (addressed by the internal semiologies) from the
connotative semiotics (described by the external semiologies). Lastly, the
denotative semiotics are divided into paradigmatic and syntagmatic functions.
It should be noted that the hierarchical structure shown here is reversed in
actual practice, where one always proceeds by progressive expansion, beginning
with denotative analysis, or more specifically, paradigmatic analysis. In
this table, languages are denotative semiotics from the standpoint of the
internal semiologies and metasemiologies; however, they are treated as
connotators from the standpoint of the external semiologies and
metasemiologies. The operation of the latter is dependent on the former.
In addition, the metasemiologies regulate the semiologies by allowing us
to verify whether they are adequate to account for the facts of language
[langage]; however, there is no one-on-one correlation between internal
semiology and internal metasemiology, nor between external semiology and
external metasemiology. For example, a semantic analysis can provide the basis
for a lexical derivation or for a narrative schema. And the physiological
analysis of sound can be used as a descriptor for a phonological invariant
(e.g., using the physiological feature palatal to designate an invariant) or as
a means to describe child language (e.g., the term "labial click",
which describes the onomatopoeia produced by babies 12 months old, also known
as the "kissing sound" – this example is cited in Jakobson, 1968, pp.
25-26, footnote). Morphology should be understood in a specific
sense, not entirely removed from the common meaning, but in a narrower sense.
Morphology deals with what Hjelmslev calls the functions between grammatical
forms in his Principes de grammaire générale (1928, pp. 112-127).
Finally, note that while linguistics can be considered as one metasemiotic
among others, there can be no objection to adopting the point of view that
semiotics provides cultural connotators for a comprehensive linguistic
analysis. These two perspectives are compatible in glossematics (Hjelmslev's
theory of language) and are even seen to be complementary, to the benefit of
semiotics. 4. LIST OF WORKS CITED top BADIR, S., Hjelmslev, Paris:
Belles-Lettres, 2000. BARTHES, R., "Rhetoric of the Image", in The
Responsibility of Forms. Critical Essays on Music, Art, and Representation,
trans. R. Howard, New York: Hill and Wang, 1985, pp. 21-40. HJELMSLEV, L.,
Principes de grammaire générale, Copenhagen: Bianco Lunos Bogtrykkeri, 1928
[1929]. HJELMSLEV, L., Prolegomena to a Theory of Language, trans. F.
Whitfield, Madison: University of Wisconsin Press, 1963 [1943]. HJELMSLEV, L.,
Résumé of a Theory of Language, Madison: University of Wisconsin Press, 1975.
HJELMSLEV, L., Nouveaux essais, Paris: Presses universitaires de France, 1985.
JAKOBSON, R., Child Language: Aphasia and Phonological Universals, The Hague:
Mouton, 1968. SAUSSURE, F. de, Course in General Linguistics, trans. W. Baskin,
New York: Philosophical Library, 1959 [1916].Grice: “I like Gangale. Of course,
the Italians adored him because he got Danish citizenship; also because he
understood Hjemlslev as nobody does! Gangale was practical; he was into his
ethnic minority. He formed good philosophical bond with Gobetti, against Croce
and Gentile. It is obvious that those who know the Gangale of the Albanian
studies won’t make a connection with his fight for protetantism and his
adventures with Italian philosophy, with Doxa and Conscientia – but he got his
doctorate and he was able to immerse in Hjelmslev’s glottology like nobody else
did!” Giuseppe Gangale. Giuseppe Tommaso Saverio Domenico Gangale. Gangale. Keywords:
il dia-letto e la dia-lettica, idiolect, dialect, ethno-lect, idio-letto,
dia-letto, ethno-letto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gangale: dall’idioletto
al dia-letto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758920461/in/dateposted-public/
Grice e Garbo – la fisiologia dell’amore -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo. Grice: “I like Garbo; for one I like Firenze, for another I like a
Renaissance man – I’m one!” Grice: “Garbo is extremely interesting at a time
when physis did mean ‘nature’ – the physicist and the physician were the
natural philosophers! At Oxford Transnatural philosophy was created against
Natural Philosophy,” – Grice: “Garbo made the greatest comment on “Love
unrequited” by G&S – by focusing on a ditty by Cavalcanti – Boccaccio loved
the pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’ and ‘cupidus.’ –“ Studia
sotto Alderotti a Bologna. Figlio di Bono, medico e chirurgo. Sotto il
consiglio del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo cognato, poi uno
dei più importanti rappresentanti di un riorientamento della filosofia, all che
Garbo diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti per un breve
period. Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della guerra tra Bologna
e Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di Firenze di medici e
farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli consentirono di riprendere i
suoi studi e si laurea, successivamente si sposta a Bologna, dove insegna. Quando
Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i cittadini bolognesi dal
frequentare lo studio generale, fu, ancora una volta, costretto a lasciare
Bologna. Si transferice a Siena, con l'insolitamente alto stipendio di 90
fiorini d'oro come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente si
recasse a Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il suo
commento su una parte del libro IV del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare
il soprannome di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium
totius pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a
causa del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel
suo commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra
(anche se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite
dai biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa
Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a
Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno
stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva
letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante
medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super
canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi
prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di
Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”. A causa dell'invidia dei suoi colleghi di
Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di
Torrigiani. Le lezioni riscuotevano
molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un
allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le
sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva
segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Cecco D'Ascoli ne fece scherno
con i suoi allievi, e Garbo e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia
Tiraboschi che Colle notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani
e co-etaneo e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si
fece certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte,
avrebbe potuto prendere i suoi scritti. L'episodio,
probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso Garbo
a Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova,
che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di
fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che
probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in
veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese
dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente
ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di
capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui
appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati
da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con Garbo.
Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste
parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché
siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti
nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in
giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma
dove hai imparato quest'arte?", e Garbo rispose: "A casa
tua". Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de
natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione
embryonis" di Tommaso Del Garbo, suo figlio, e la "Expositio in
Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di
Garbo mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue
l'anatomia dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo
che dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito
che il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto
discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra
generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e
animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la
crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per
Tiraboschi e Colle, Garbo non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade
dice che ad Avignone avrebbe incontrato Ascoli.
Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu
macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e
sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a
Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di
Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de
Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo,
trattato che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e
d'odio contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico
dal duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e
successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria
ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore
Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della
fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo
in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. Garbo muore poco
dopo l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di
vendetta lanciato da Ascoli. Altre opere: La figura di Del Garbo
campeggia se non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come
quello più nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che
possono avere le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti
rappresenta, nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi
pregi, che con i suoi difetti. Tra le opere che sicuramente possiamo
attribuirgli ci sono ricettari, commenti e trattati. Tra i vari, ci sono i "Super IV Fen primi
Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae
generalis medicinalis scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli
studenti bolognesi che l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu
eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis"
(Ferrara) insieme ad un trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle
giunture ossee di Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim
az-Zahrāwī e ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di
Avicenna e parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani. Altre opere invece non sono state stampate:
"De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla
flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica) "Recolectiones super cirurgia
Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl.
della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi
prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de
Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum
enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a
“Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico,
come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”,
esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di
Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti.
Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si
dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina.
Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose,
ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la
dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce
(nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del
corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere.
III) quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e
l’effetto dell’amore? La morte che impedisce
le operazioni della virtù vegetativa; V) quale e l’essenza dell’amore? E una
passione naturale. VI). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte.
VII) Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la
passione? Lo spirito platonico. VIII) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si
dimostri via il sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico.
Per Garbo, l'amore è una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che
può causare a sua volta molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza
e l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno
influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova
nella casa di Venere. Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum
tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia,
quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas
Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio
super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium
Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara,
André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae
Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur
(Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de
emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui
un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena,
Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.
Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The
enigmatic, indeed disturbing figure of Guido Cavalcanti (1259– 1300) exercised
the imagination of his contemporaries, especially of his fellow poets. Without
naming him once, Dante talks about Guido in his youthful work, the Vita nuova,
telling us that Cavalcanti was the “primo de li miei amici” (VN III), and that
he was one of those who replied poetically to Dante’s first sonnet. Dante also
refers to Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN XXIV). The whole of Dante’s
treatise, as a specifi- cally vernacular composition, is dedicated to this first
friend (VN XXX). Amongst Dante’s Rime, also, there is a companionship sonnet
addressed to Cavalcanti, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the
older poet responded in verse. The most memorable mention by Dante occurs in
canto X of Inferno, where Guido is the “grand absent,” asked after by his
damned father, Ca- valcante de’ Cavalcanti. The accent in the exchange is on
Guido’s implied “altezza d’ingegno,” shared with Dante (X.59), and his disdain
for some- thing — unspecified — which Dante by now was pursuing (poetry? theol-
ogy?). The poet later resurfaces as an allusion in Purgatorio XI.97–99, where,
in an object lesson in humility, literary primacy is passed through the Guidos,
presumably from Guinizelli through Cavalcanti, and on to (perhaps) Dante
himself. Guido Orlandi, who wrote the enquiry sonnet, “Onde si move e donde
nasce Amore?” which occasioned Cavalcanti’s famous reply, the doctrinal canzone
“Donna me prega,” paints a picture of the poet in “Amico, i’ saccio ben che sa’
limare,” stressing Guido’s verbal prowess, but also his consid- erable
intellectual ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia, however, in “Qua’
son le cose vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an accusation of
plagiarism coming from Guido, and hints that his own humility is more
appropriate than Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost
contemporary poets who mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco
Stabili), in whose astrological apology the Acerba (III.1), dated to 1327, he
seemingly takes Guido to task, in detail, for an erroneous analysis of love’s
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 1 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org workings (particularly the function of the irascible
appetite, Mars) con- tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too, were
fascinated by him, but as much for his propen- sity to engage in partisan
violence as for his intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni
refers repeatedly to the powerful Cavalcanti clan’s readiness for street-fighting,
and refers specifically to Guido’s ex- ploits, including his failed attempt on
the life of Corso Donati, who had re- portedly organised an assassination plot
against the poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises
Guido as “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio.”
Giovanni Villani, writing con- siderably later, draws attention to the prickly
nature of Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo, virtudioso uomo in più
cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a description of the
philosopher-poet which al- most exactly parallels Giovanni’s description of
Dante himself. Amongst the later novella writers, Sacchetti would include
Cavalcanti as the butt (literally) of a practical joke by a small child (Trecentonovelle
LXVIII), a jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio novella (Decameron
VIII.5). Cavalcanti figures in the early commentary tradition of the Comedy, in
particular as a response to the pilgrim’s discussion with Cavalcante de’ Ca-
valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos in Purgatorio XI. He
also figures to some extent in elucidations of the two lonely, anon- ymous
Florentine “giusti” in Inferno VI.73. Commenting upon Inferno X, Guido da Pisa
(1327–28) says of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus
insignitus, sed tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias
poeticas in derisum” [This Guido was great in knowledge and celebrated in
character, but nevertheless somewhat puffed up as to his opinion of himself.
For he despised the poetic discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of
Cavalcanti’s “disdegno” (Inferno X.63) as essentially poetical will be
influential amongst subsequent commentators. The Ottimo commentary (1334)
points to Guido’s common intellectual in- terests with Dante (“similitudine
d’abito scientifico”). Later, when discus- sing the two Guidos passage in
Purgatorio XI, the commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che
fossi il primo, che [le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove,
come si mostra in quella sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io
deggia dire.’” The Selmiano (1337), commenting upon Inferno X, again points to
Cavalcanti’s intellectual im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più
alto che allora fosse uomo di Firenze.” The greatest contribution to the myth
of Guido Cavalcanti comes from Boccaccio, who views the poet essentially
through the distorting prism of http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf
2 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Dante and the early
Dante commentators. In the “Introduzione alla quarta giornata” of the
Decameron, Boccaccio justifies his own persistence with amorousness, even in
his more mature years, by claiming that such a trait was shared with Guido
Cavalcanti, Dante and Cino da Pistoia in their old age. He even suggests that
he could supply the biographical justifications to prove it (“istorie in
mezzo”). The most consistent account of Cavalcanti, however, occurs in
Decameron VI.9 where Boccaccio applies to Guido a widespread anecdote, with a
“lethal” punch-line, which Petrarch, amongst others, had used some ten years
previously in the Rerum Memorandarum (II, 60) about Dino del Garbo, the famous
Florentine physician. The tale, now firmly attached to Cavalcanti, thanks to
Boccaccio, will subsequently pass into the Dante commentary tradition when
Benvenuto da Imola glos- ses the two Guidos passage in Purgatorio XI. The
Decameron tale has been frequently discussed and minutely ana- lysed: what
concerns us here is Boccaccio’s preliminary portrait of the poet: oltre a
quello che egli fu un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo
naturale [...], si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e
ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom
fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sa- peva onorare cui
nell’animo gli capeva che il valesse. [...] Guido alcuna volta speculando molto
abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della
oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue
speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse.
(Decameron VI.9.8–9) Creatively interpreting Dante, in order to give the
punch-line extra signifi- cance, Boccaccio deliberately confuses (or rather
suggests that the vulgar throng confuses) Guido with his father, Cavalcante de’
Cavalcanti, for it is effectively the latter who is amongst the “Epicureans”
who “l’anima col corpo morta fanno” (Inferno X.15). A very similar portrait of
the poet is given in the Esposizioni, where Guido is described as: uomo
costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare
meglio che alcun altro nostro cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo
reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore
[scil. Dante], sì come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon
dicitore in rima; ma, per ciò che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da molto
più che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni X.62)
The phrase “ebbe a sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63:
“Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno,” and to the view amongst early
commentators, initiated by Guido da Pisa as we have seen, that the
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 3 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org disdain was for poetry, not theology. It is this
Boccaccian portrait, with a distinctly Dante colouring, which will inform
Filippo Villani’s much later biography of Cavalcanti in the Liber de origine
civitatis Florentie [Book of the Origin of the City of Florence]. As we have
seen, the anecdote in Decameron VI.9 had been previously used by Petrarch, who
places Dino del Garbo as its protagonist. Dino was, in addition to being a
notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at Bologna), a lecturer on
materia medica at various universities. He had a number of commentaries to his
credit, including a reading of the third and fourth fen of the fourth book of
Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new area for medicine,
traditionally hostile to the knife). He also wrote a general handbook, based on
book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice medicinalis scientie
[Clarification of the Whole Prac- tice of Medical Knowledge]. According to
Giovanni Villani, Dino was very touchy about his academic standing, and took a
mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a lecturer on the astronomy of
Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who publicly accused him of having
plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s commentary on Galen.
Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in the passing of the
death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l fece per invidia”
(Cronica X.41). Popular opinion had it that Dino’s own puzzling death, very
shortly after the astrologer’s execution, was the result of a posthumous necro-
mantic revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only one to have an interest
in Guido Cavalcanti’s canzone “Donna me prega.” Dino del Garbo wrote a detailed
Latin com- mentary on the poem, heavily indebted to Avicenna, Haly Abbas and
Ar- istotle, which was partially imitated and adapted in a vernacular version
unconvincingly attributed to Egidio Romano. Medical and philosophical interest
in Cavalcanti’s canzone would continue into the Renaissance, with Ficino,
amongst others, clearly in debt to it. Dino’s commentary (no later than 1327)
was certainly known to Boccaccio. Indeed, it has been con- vincingly argued by
Antonio Enzo Quaglio (“Prima fortuna della glossa garbiana a ‘Donna me prega’
del Cavalcanti,” in GSLI 141 (1964): 336–68) that the unique surviving
manuscript of the commentum (an insert in Vatican Chigiano L. V. 176, ff.
29r–32v) is a Boccaccian autograph. This particular transcription, one of the
later documents reinserted into the manuscript, dates from approximately 1366,
judging by the evolution of Boccaccio’s handwriting studied by Pier Giorgio
Ricci (Studi sulla vita e le opere del Boccaccio, Milan-Naples: Ricciardi,
1985, p. 295 [and plate XIII]). The entire MS is reproduced phototypically in
colour by Domenico http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 4
Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org de Robertis (Il codice
Chigiano L. V. 176 autografo di Giovanni Boccaccio, Rome-Florence: Alinari,
1974). However, already in the Teseida (1339–41), Boccaccio shows some fa-
miliarity with the commentary. Perhaps he had obtained the glosses from Dino’s
close acquaintance, the poet and jurist Cino da Pistoia, who had known and
corresponded poetically with Cavalcanti, and who had been teaching Roman law in
Naples whilst Boccaccio was a student canonist there. The commentary, entitled
Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus [Writing on the Canzone of
Guido Cavalcanti] has been ed- ited and published as an appendix by Guido
Favati (Guido Cavalcanti, Rime, Milan-Naples: Ricciardi, 1957, pp. 359–78). An
earlier, sectionalised English summary translation and secondary commentary can
be found in Otto Bird, “The Canzone d’Amore of Cavalcanti According to the Com-
mentary of Dino del Garbo” (Mediaeval Studies 2 (1940): 150–203 and 3 (1941):
117–60). In Italian, there is a fine translation and commentary of the glosses
by Enrico Fenzi (La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi antichi
commenti, Genoa: Il Melangolo, 1999, pp. 187–219). In the Teseida, Boccaccio
furnishes substantial ecphrases of the abodes of Mars and Venus, the tutelary
deities of the two rivals for the hand of Emilia, Arcita and Palemone. The
description of the temple of Venus in book VII, octaves 50 ff., prompts an
immensely long authorial gloss, part of which is on the nature of love itself.
In keeping with Boccaccio’s implied fiction that the glosses are by somebody
else, he refers to himself in the third person as the “author” and reserves the
first person for the fictive commentator. The gloss labours on through the
various symbolic, almost personified qualities (à la Roman de la Rose)
propitious to erotic passion till it reaches the figure of Cupid, or desire:
Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per le sopra- dette:
tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale
amore volere mostrare come per le sopradette cose si ge- neri in noi,
quantunque alla presente opera forse si converrebbe di di- chiarare, non è il
mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia: chi
disidera di vederlo, legga la canzone di Guido Caval- canti Donna me priega,
etc., e le chiose che sopra vi fece Maestro Dino del Garbo. (Teseida, gloss to
VII.50) What is important here is that, for Boccaccio, the poet’s canzone and
the physician’s glosses were already intimately linked, presumably in a single
document (as would be the case in the much later Chigian MS transcribed by
Boccaccio himself). The Teseida self-commentary then continues, after this
parenthesis, with further enumeration of the “author’s” selection of symbolic
qualities, beginning with an elucidation of Cupid’s darts. But the
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 5 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org first sentence of this continuation shows that
Boccaccio was still thinking in terms of technical definitions of love borrowed
from other sources: Dice sommariamente che questo amore è una passione nata
nell’anima per alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare
di piacere alla detta cosa piaciuta e di poterla avere. The phrasing about
fervent desire, in this definition, is reminiscent of a remark in Dino’s
commentary: est passio quedam in qua appetitus est cum vehementi desiderio
circa rem quam amat, ut scilicet coniungatur rei amate. (Favati, 371) [it is a
certain passion in which there is appetite along with fervent desire concerning
the thing which it loves, so that it may join with the thing be- loved] But the
presence in Boccaccio’s gloss of the adjective “nata” (even though it could be
construed here as meaning merely “arising”) almost certainly betrays an older
source, namely the opening definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste
amandi (late 12th cent.): Amor est passio quedam innata procedens ex visione et
immoderata co- gitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit
alte- rius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu
amoris praecepta compleri. (De amore I.1) [Love is a certain inborn passion
arising from the beholding of and un- controlled thinking about the beauty of
the other sex, on account of which the person desires above all else to enjoy
the embraces of the other person and, by common desire, fulfil all the
commandments of love in this embrace] Andreas uses the term “innata” to
describe erotic passion twice more, in quick succession, clearly wanting his
readers to understand that its endo- genesis is an important part of his theory
of love. “Innata” in the De amore is clearly adjectival in function, as shown
by the following participle “pro- cedens”: but “nata” in the Teseida may be
more in the nature of a past participle. The lexical fragment survives,
however, despite its possible change of status, as a tell-tale sign of
Boccaccio’s prior reading. For Boc- caccio, conflating the two sources was
tempting, because Dino is clearly indebted, for substantial elements of his
treatise, to the chaplain’s opening remarks on love, as the characteristic
initial combination “passio quedam” already demonstrates. Boccaccio was not
reading Cavalcanti and Dino del Garbo as an inno- cent, then, but rather as
somebody who had already come across authori- tative, if somewhat obsolescent
definitions. The problem for the compiler of the Teseida glosses is that the
two definitions do not match. Andreas
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 6 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org believed that love was intrinsic (“innata”), the
line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al cor gentil,”
whereas Dino, following Ca- valcanti, declares that this passion was definitely
exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res extrinseca” (Favati,
p. 360). Boccaccio at the time of his writing of the Amazon epic seems totally
unaware of the in- consistency between these auctoritates. One might doubt that
Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge of the existence of
Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read it. But certain of
the key words (“appetito” and “generare,” markedly Aristotelian terms, though
present in the De amore, are simply not used as technicisms in An- dreas) imply
that he has a good idea of the philosophical slant of Dino’s vocabulary. Unlike
Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously in the Filostrato (V.62–65) and
Rime (XVI.8 and 13), textual traces of Cavalcanti in Boc- caccio’s fictional
and creative works are rare and tantalising. The meagre harvest of possible
(and hardly provable) intertextuality has been traced by Letterio Cassata,
passim in hisedition of Cavalcanti (Guido Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis,
1993, esp. index, p. 353). Vittore Branca furnishes more detailed examples
(Rime I, IX, XI, XIII, XXIV; Teseida X.55–57 etc.) in Boccaccio medioevale e
nuovi studi sul Decameron (Florence: Sansoni, 1992, pp. 254–57). One could add
to this list, tentatively, perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had
a “cultural memory” of the opening of “Donna me prega” when writing the
Filocolo, for Florio’s love is there de- scribed by an experienced Ascalion as
“sì nobile accidente” (III.5.2). It could be, however, that this particular use
of “accidente” (generically a very common term in the early Boccaccio) derives
from a reading of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance
and accident in love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made
(VN XXV.1). Another possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida
sequence which generates the gloss which mentions “Donna me prega” and Dino del
Garbo’s glosses. In octave 53 of the seventh book, Boccaccio describes the
musical and visual environment of Venus’ garden, indicating Palemon’s soul in
prayer as it visits the bower: ripieno il vide quasi in ogni canto di spiritei,
che qua e là volando gieno a lor posta... (VII.53.6–8) Though “spiritus” was a
technical term in medicine, referring to the transmission of vital and animal
forces through the body, the diminutive “spiritelli” is a characteristic
Cavalcantian usage, denoting the hypostatic emanations of fragmented
consciousness characteristic of the “anima
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 7 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org sbigottita.” Guido even parodied this verbal tic in
a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito sottile.” More persuasive again, in
terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of Boccaccio’s early Rime
(XXI): Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di
spavento, cupido e ritroso, [...] Though Vittore Branca does not expressly say
so in his commented edition of the Rime in volume V of Tutte le opere (Milan:
Mondadori), this sonnet seems to parodically contrast a pessimistically
Cavalcantian view of love in the first quatrain with a more Guinizellian,
positive stance in the remain- der. All in all, though, compared with the
massive early presence of Dante, and later of Petrarch, the verse of Cavalcanti
seems to have had little prac- tical impact on Boccaccio. He seems to have been
much more interested (as the layout of the glosses and the title of the
autograph Chigiano LV 176 transcription shows) in “Donna me prega” as a vehicle
for Dino del Garbo’s commentary, rather than as a composition in its own right.
The Dino del Garbo commentary became more useful to Boccaccio when he came to
write the Genealogie (ca. 1360 in its first version) and the Esposizioni
(1373). By this time, his appreciation of the question of sub- stance and
accident, and of intrinsic and extrinsic causality, had markedly improved,
though his interest is still anything but scientific. The Genealo- gie passage
occurs in the biography of Cupid, begotten from the illicit cou- pling of Mars
and Venus, in IX.4. Cupid had been the figure, as we have seen, who had given
rise to the mention of Dino del Garbo’s glosses on “Donna me prega” in the
Teseida. This time, though used much more ex- tensively, the Garbian source is
not explicitly acknowledged. Est igitur hic, quem Cupidinem dicimus, mentis
quedam passio ab exte- rioribus illata, et per sensus corporeos introducta et
intrinsecarum vir- tutum approbata, prestantibus ad hoc supercelestibus
corporibus aptitu- dinem. Volunt namque astrologi, ut meus asserebat
venerabilis Andalo, quod, quando contingat Martem in nativitate alicuius in
domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra reperiri, et significationem
nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc nascitur, futurum luxuriosum, fornicatorem,
et venereorum omnium abusivum, et scelestum circa talia hominem. Et ob id a
phylosopho quodam, cui nomen fuit Aly, in Commento quadri- partito, dictum est
quod, quandoque in nativitate alicuius Venus una cum Marte participat, habet
nascenti concedere dispositionem phylocap- tionibus, fornicationibus atque
luxuriis aptam. Que quidem aptitudo agit ut, quam cito talis videt mulierem
aliquam, que a sensibus exterioribus commendatur, confestim ad virtutes
sensitivas interiores defertur, quod placuit; et id primo devenit ad fantasiam,
ab hac autem ad cogitativam http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 8
Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org transmictitur, et inde ad
memorativam; ab istis autem sensitivis ad eam virtutis speciem transportatur,
que inter virtutes apprehensivas nobilior est, id est ad intellectum
possibilem. Hic autem receptaculum est specie- rum, ut in libro De anima
testatur Aristoteles. Ibi autem cognita et intel- lecta, si per voluntatem
patientis fit (in qua libertas eiciendi et retinendi est) ut tanquam approbata
retineatur, tunc firmata in memoria hec rei approbate passio (que iam amor seu
cupido dicitur) in appetitu sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis agentibus
causis, aliquando adeo grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum
relinquere, et tauri formam su- mere cogat. Aliquando autem minus probata seu
firmata labitur et adni- chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur
passio, sed, secundum quod supra dictum est, homines apti ad passionem
suscipiendam secun- dum corpoream dispositionem producuntur; quibus non
existentibus, passio non generaretur, et sic large sumendo a Marte et Venere
tanquam a remotiori paululum causa Cupido generatur. (Genealogie IX.4.6–9)
Rather than provide a translation into English here, we can go straight to
Esposizioni V litt., 162–67, which is an outstanding example of Boccaccio’s
self-volgarizzamento. The passage occurs in Boccaccio’s literal commen- tary on
the episode of Paolo and Francesca, and is occasioned by Dante’s famous line
“Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inferno V.100). Whereas in the
Teseida Boccaccio indulges in a long account of Cupid’s iconography and
dismisses (“per ciò che troppa sarebbe lunga la storia”) the aetiology of love
with a curt reference to Cavalcanti and Dino del Garbo, here in the Dante
commentary he inverts the process, omitting the lengthy account of details
Cupid’s portrait (“alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga storia”) so
as to concentrate on the explanation of love’s workings. The passage is
prefaced with an apparently perfunctory explanation of Aristotle’s tripartite
distinction of the kinds of love (Ni- comachean Ethics VIII.3), of which more
later. Only the very last periods suffer any change from the content of the
earlier Genealogie text. The cor- responding passage in the Esposizioni, the
volgarizzamento of the Gene- alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che alla
nostra materia apartiene, dico che questo Cupidine, o Amore che noi vogliam
dire, è una passion di mente delle cose esteriori e, per li sensi corporei
portata in essa, è poi aprovata dalle virtù intrinseche, prestando i corpi
superiori attitudine a doverla rice- vere. Per ciò che, secondo che gli
astrologi vogliono, e così affermava il mio venerabile precettore Andalò,
quando avviene che, nella natività d’alcuno, Marte si truovi esser nella casa
di Venere in Tauro o in Libra, e truovisi esser significatore della natività di
quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce,
dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del
Quadripartito che, qualunque ora nella natività d’alcuno Venere insieme con
Marte parti- cipa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che
nasce una http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 9 Heliotropia 2.1
(2004) http://www.heliotropia.org disposizione atta agl’inamoramenti e alle
fornicazioni. La quale attitu- dine ha ad aoperare che, così tosto come questo
cotal vede alcuna femina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata,
incontanente quello, che di questa femina piace, è portato alle virtù sensitive
interiori e questo pri- mieramente diviene alla fantasia e da questa è mandato
alla virtù cogita- tiva e da quella alla memorativa; e poi da queste virtù
sensitive è tra- sportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra
le virtù apren- sive, cioè allo ’ntelletto possibile, per ciò che questo è il
recettaculo delle spezie, sì come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi,
cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di
sopra è detto, portato v’è se egli avviene che per volontà di colui nel quale è
que- sta passione, con ciò sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere
dentro questa cotal cosa piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa
piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di
questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone
questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e
quivi in varie cose adoperanti divien sì grande e fassi sì potente che egli
fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse
volte il costrigne; e alcuna volta, essendo meno aprovata questa cotal cosa
piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E così non è da Marte e da
Venere generata questa passione, come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra
è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a rice- vere questa passione secondo
le disposizioni del corpo: la quale attitu- dine se non fosse, questa passione
non si genererebbe. The translation diverges only at the end. Out goes the
Ovidian reference to a love-struck Jupiter preparing to ravish Europa
(Metamorphoses II.846– 75), clearly inappropriate for a commentary to a
Christian poem, and in comes a limp and vague reference to shameful behaviour.
Similarly, the very last concessionary formula of the Genealogie passage,
conceding at least the indirect operation of Mars and Venus, is removed in its
entirety, leaving the earlier categorical denial of astral influence intact.
But what of the content? The making of such contentious horoscopes, predicting
a libidinous disposition, could be dangerous. Villani intimates that one of the
reasons for Cecco d’Ascoli’s misfortune at the stake was his disconcertingly
accurate prognosis for his patron, the duke of Calabria, that his daughter
Giovanna, the grand-daughter of Robert the Wise and future queen of Naples,
would be subject to scandalous erotic excesses on account of her birth under
the sign of Mars in the house of Venus. Though at first sight, Boccaccio is
implying that his source in both pas- sages is the Genoese astronomer Andalò
del Negro (almost certainly dressed up as Calmeta in Filocolo V.8) and that he
is quoting from Ptol- emy’s commentator Haly Abbas and from Aristotle’s De
anima, a large section of this treatment, including the reference to these
auctoritates, is in fact lifted from various, almost contiguous places in
Dino’s glosses. The http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 10 Heliotropia
2.1 (2004) http://www.heliotropia.org opening sentence is an extremely
reductive paraphrase of a section of Dino’s commentary where the physician
indicates the role of the stars in creating the dispositions of the soul. Dino
writes: Alia res concurrit ad causandum aliquam passionem, que est res ex-
trinseca que suam ymaginem vel speciem causat in virtute sensitiva, ad quam
cognitionem vel apprehensionem consequitur appetitus talis vel talis, in quo
appetitu iste passiones fundantur. Ideo auctor, ut complete ostenderet que est
res generans istam passionem, primo ostendit que est dispositio naturalis
corporis que reddit hominem aptum ut faciliter istam passionem incurrat;
secundo ostendit que est res extrinseca ex cuius ap- prehensione consequitur in
appetitu passio amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel posset
incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio naturalis, per
quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam passionem, ex
principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter ista principia
nativitatis alicuius, pre- cipua et principalia sunt corpora celestia: nam, ut
dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol; et in De
Generatione Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura existens
proportionalis ordina- tioni astrorum. (Favati 363) [Something else is involved
in causing any passion, and that is an exte- rior thing causing its image or
“species” in the sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which
there follows an appetite for this or that, in which appetite these passions
are established. So the author, in order completely to show what is the thing
which generates this passion, first demonstrates what is the natural
disposition of the body which makes man suitable for incurring this passion
easily; secondly he demon- strates what is the external thing from whose
apprehension the passion of love follows in the appetite. The second starts
“Vien da veduta forma”; or can start at “D’alma costume.” In the first part he
shows that the natural disposition, by which some- body is inclined to incur
some passion, is contracted from the principles of a person’s own birth, and,
amongst these principles of a person’s birth, the foremost and most important
are the heavenly bodies: for, as Aris- totle says in the Physics, man and the
sun generate man; and in The Ge- neration of Animals, in the generative spirit
a nature exists proportion- ally to the ordering of the stars] Boccaccio’s
reference to his astrological mentor, Andalò del Negro, is an opportunistic
amplification of a far less specific passage in Dino. The Garbian passage,
commenting on line 18 of the canzone, reads: Hoc autem ostendit in verbo illo
quod premisit cum dixit “La quale da Marte viene et fa dimora”: nam ista passio
dicitur procedere a Marte isto modo, quoniam astrologi ponunt quod, quando in
nativitate alicuius Mars fuerit in domo Veneris, ut in Tauro vel in Libra, et
fuerit significator nativitatis eius, significabit natum fore luxuriosum,
fornicatorem et om- nibus venereis abusivis scieleratum; unde quidam sapiens
qui dicitur Aly, http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 11
Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org in “Comento Quadripartiti,”
dicit quod, quando in nativitate alicuius Venus participat cum Marte, dat
inamoramentum, fornicationem, luxu- riam et talia similia, que omnia pertinent
ad passionem amoris de quo loquitur auctor in hac cantilena. (Favati 363) [He
shows this, however, in that word he placed before when he said “La quale da
Marte viene et fa dimora”: for this passion is said to proceed from Mars in
this way. Astrologers claim that, whenever, at the birth of somebody, Mars is
in the house of Venus, as in Taurus or in Libra, and there is a person to do
the child’s horoscope, he will signify that the child will be lustful, a
fornicator, and wicked in all venereal excesses. Whence a certain sage called
Haly in his commentary to the Quadripartitum says that, when at the birth of
somebody Venus participates with Mars, it grants enamourment, fornication, lust
and such like, which all are con- cerned with the passion of love which the
author talks about in this can- zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is
rather disingenuous, if the evidence of the Calmeta episode of the Filocolo is
to be believed. For there the empha- sis in that passage is almost entirely
astronomical, with no hint of judicial astrology, and the authorities consulted
are almost certainly limited to Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own
Introductorium, rather than the simi- larly titled work by Alcabitius, and to
the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to the Ptolemaic Quadripartitum
there is not a trace. Boccac- cio’s early astrological culture, under the sway
of Andalò, has been exam- ined in an important study by Antonio Enzo Quaglio
(Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana, 1967) and its narrative
consequences (possibly more tending towards judicial astrology) in the Filocolo
have been investi- gated by both Janet Levarie Smarr and Stephen Grossvogel.
The adventi- tious references to Haly in the love definition in the Genealogie
and Espo- sizioni are a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging
his youthful enthusiasms, was now passively accepting and reproducing Dino’s
quotes and mentions, rather than referring to material he knew and remembered
intimately and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely
the sequence of inter- iorisation, comes from Dino’s gloss to line 21. Dino’s
ordering of the inner processes is, according to Otto Bird, untypical, yet
Boccaccio accepts it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana,
sicut declaratum est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad
sensus exteriores, ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum,
deinde ab illis pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad
fantasiam primo, deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab
istis autem virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 12 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org virtus in homine est altissima inter virtutes
adprensivas, et ista est virtus possibilis. (Favati 364–65) [For this is the
sequence in human apprehension, just as it is declared in natural science.
First of all the “species” of the thing reaches the exterior senses, for
instance sight or hearing, touch, taste or smell, thence from these it reaches
to the inner sensitive faculties, so it comes to fantasy first, then comes to the
cogitative and lastly to the memorative faculty. From these faculties this
“species” reaches to the nobler faculty, which in mankind is the highest
amongst the apprehensive faculties, and this is the possible faculty] Dino then
provides a brief explanation of the difference between the intel- lectus agens
[active intellect], the reasoning function of individuation and universals, and
the passive or possible intellect, merely concerned with the processing of
species resulting from sensibles. The discussion is not otiose, for Dino is
aware of Cavalcanti’s dramatic positioning of love right at the crucial
borderline between rational and sensitive activity. Boccaccio is not at all
interested in such technicalities, and moves on to a matter of much greater concern,
namely the question of the relationship between love and will. The relevant
passage from Dino glosses Guido’s assertion that love is “di cor volontate,”
but Boccaccio characteristically leaves out Dino’s pro- fessionally inspired
mention of the difference of opinion between Aristotle and Galen concerning the
seat of the sensitive faculties, in the heart or in the head. Dino writes: Et
nota quod istum appetitum vocavit voluntatem, que videtur intellectui attinere,
ut ostenderet quod, licet amor fiat in aliquo ex dispositione na- turali per
quam quis inclinatur ad incurrendum faciliter hanc passionem, tamen fit etiam
ex proposito et per electionem, quod pertinet ad volun- tatem, que est libera
et liberi arbitrii, cum se habeat indifferenter ad op- posita; et est simile
hic, sicut etiam est in aliis passionibus ut, verbi gra- tia, de ira. Nam
aliquis, licet sit dispositus ex natura ad faciliter incurren- dum in iram,
tamen per voluntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam
incurrere; et simili modo etiam de amore. (Favati 364) [And note that he calls
this appetite the will, because the latter is seen to appertain to the
intellect, in order to show that, although love can happen to somebody through
a natural disposition whereby that person is in- clined easily to incur this
passion, that person does so nevertheless on purpose and by choice, and so that
is a case of will, which is free and by free choice, when it is faced equally
with opposites. And it is the same here, just as it is with the other passions,
like anger, for instance. For somebody, even though he may be disposed by
nature to get angry easily, nevertheless through his will he can draw himself
back from it, and he can even indulge in it; and it is the same with love.]
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 13 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org For Dino, the question is one of classification:
given the working of erotic passion specifically in the sensitive appetite, it
follows that engaging in or disengaging from love is necessarily a voluntary
act, and therefore in part subject also to the operations of the rational soul,
where choices are made. Boccaccio’s rewording changes the emphasis
substantially towards moral philosophy: love is no longer an ineluctable force,
and the potential lover, being free to choose, is therefore responsible for his
own actions in this field as in any other. Love, as a phenomenon of the soul,
is consequent on an initial act of the will, by accepting or refusing to be
drawn further into passion. Though Boccaccio’s direct quotations from the
Garbian glosses are all located in a compact area, he may have been encouraged
to under- line this aspect by his reading further on in the commentary, for
Dino re- fers to the will obliquely later on, drawing on Haly’s Pantechne, to
state more clearly than elsewhere the voluntaristic nature of passion: amor est
sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua homo iam sibi inducit
incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam formarum et figurarum
que insunt ei. (Favati 371) [love is a melancholic anxiety, similar to
melancholy, in which a man ac- tually brings upon himself the rousing of
cogitation upon the beauty of certain forms and figures which are within him.]
A fragment of this reading of Dino can be found in the Decameron, when
Boccaccio describes the aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa
(X.7.8), as she struggles with cumulative “malinconia.” What is more important
in the Garbian gloss is the accent on the will. The lover “sibi inducit
incitationem.” And later again, Dino will return to the topic, to explain why
nobles have a greater propensity for erotic pas- sion than those whose
existence is marred by the struggle for economic survival: Secunda causa est
quia, licet in amore, quando est multum impressus, appetitus non sit liber, imo
est servus et ducitur secundum impetum huius passionis, tamen in principio,
quando incipit hec passio in appe- titu, adhuc appetitus est quasi liber, ita
ut possit amare et possit desistere ab amore. Et ideo initium huius passionis
incipit multotiens ex proposito. (Favati 373) [The second cause is because,
though in love for instance the appetite, when it is much pressed, is not free,
indeed it is enslaved and is led by the impetus of this passion, nevertheless
in the beginning, when this passion starts in the appetite, at that point the
appetite is almost free, so that it can love or desist from love. And so the
beginning of this passion fre- quently starts from choice.] http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf
14 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Whereas in the
Genealogie the highlighting of the question of free will served no particular
purpose, and was not set within a moralising context, in the Esposizioni the
moral discussion is crucial. Boccaccio has a precise task, for he is explaining
the sin of those who “la ragion sommettono al talento” (Inferno V.39).
Boccaccio’s own prior interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i
peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E
come che questo si possa dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun
peccatore non è che non sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol
nondimeno l’autore che per quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per
i lussuriosi. (Esposizioni V litt. 46) Boccaccio, never very consistent when
adopting others’ philosophical sys- tems or terminology, seems to see no
difference here between “will” and “desire.” He seems to have no real
understanding of the complexities of appetition. Perhaps he was thinking of the
passage in Dante’s Vita Nuova XXXIX, where the poet admits to a struggle
between appetite (“cuore”) and reason (“anima”). Maybe he is using “volontà” to
stand for “voglia,” the term Meo Abbracciavacca uses when he writes “e qual
sommette a voglia operazione” (Gianfranco Contini, Poeti del Duecento,
Milan-Naples: Ricciardi, 1960, vol. I, p. 337). It is no surprise, therefore,
to find that Boc- caccio now moves straight from his paraphrase of Dino del
Garbo on love and will to a discussion of whether Paolo, “atto nato ad amare”
(Espo- sizioni V litt., 168) was obliged to fall in love with Francesca.
Boccaccio freely admits that Paolo was “flessibile,” in other words easily
swayed, be- cause of his complexion. It is the same concept Boccaccio applies
to Dante’s amorous disposition in the Chigi version of the Trattatello:
“inchinevole molto a questo accidente” (again a fairly Garbian formula), but
when it comes to the famous line: “Amor, ch’a nullo amato amar per- dona”
(Inferno V.103), the moralist suddenly swings into action: Questo, salva sempre
la reverenzia dell’autore, non avviene di questa spezie di amore, ma avvien
bene dello amore onesto (Esposizioni V litt. 169) Here Boccaccio is returning to
the Aristotelian distinction between the three varieties of love (Nicomachean
Ethics VIII.3) with which he had prefaced his discussion in the Esposizioni.
There, he had indicated that the sensual love indulged in by Paolo and
Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,” where the pleasure
principle is foremost. It is a defi- nition totally missing from the Genealogie
account of Cupid, even though it had been promised much earlier (III.22.8). Now
he claims that Fran- cesca’s declaration of the inevitable reciprocity of love
is misplaced, for http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 15
Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org such reciprocity can only
happen with “amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in
Purgatorio XXII.10–12 (where Statius’ love for Virgil causes a corresponding
affection in the older poet). But the lovers of Inferno V are seekers of
pleasure only, not seekers of goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But
why did Boccaccio, between the Genealogie and the Esposizioni accounts,
suddenly introduce the Aristotelian distinction? What does it have to do with
Dino’s commentary? Once again, Boccaccio has been searching around in the
glosses, and has found that the next argument Dino engages in is concerned with
is the dual nature of love. One is the common definition: uno modo comuniter et
large, secundum quod est quedam passio per quam inclinatur et movetur appetitus
in aliquam rem que videtur sibi bona propter complacentiam eius, ratione
cuiuscumque actus illius rei: et isto modo non accipitur hic: nam amor est
circa multa, de quo amore non est presens intentio. Et de omnibus amicis ad
invicem est hoc modo amor: quia amici amant se ad invicem, et tamen non amant
se amore de quo est hec presens intentio; et potest etiam esse amore in uno
respectu alterius, et tamen non erit amicitia inter eos: omnis enim qui est
amicus alicui amatur ab illo, sed non omnis qui amat aliquem amatur ab illo; et
ideo, licet omnis amicitia sit cum amore, non tamen omnis amor est cum
amicitia. (Favati 371–72) [one way commonly and widely defined, according to
which it is a certain passion by which the appetite is inclined and moved
towards something which seems good to it on account of its pleasurability, by
reason of whatever agency of that thing: and it is not accepted in this way
here: for love concerns many things, about which love it is not Guido’s present
in- tention to speak. Concerning all mutual friends, love is of this kind: for
friends love each other reciprocally, and yet they do not love each other with
the kind of love which is the topic here; and it can be a question of love in
one regarding the other, and yet there will not be friendship between them: for
everybody who is a friend to somebody is loved by that other person, but not
everybody who loves somebody is loved by that person, and so, even if every
friendship is with love, not every love is with friendship.] In his round-about
way Dino is dealing here with the distinction between love “per concupiscentiam”
[for desire’s sake] and “per amicitiam” [for friendship’s sake]. The first is
properly the subject of Guido’s canzone, whereas the second is Aristotle’s true
friendship, what Boccaccio calls “amore onesto.” Dino’s purpose is to go on to
define the pathology of the illness that derives from amorous excess, the
so-called “ereos,” richly in- vestigated by Massimo Ciavolella (La “Malattia
d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome: Bulzoni, 1976) and before that by
John Livingston http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 16 Heliotropia
2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Lowes (“The Loveres Maladye of Hereos,”
Modern Philology 11.4 [1914]: 491–546). Boccaccio, uninterested in the minutiae
of such medical matters (though he refers to them in his Valerius Maximus
inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the Count of Antwerp
(Decameron II.8.44–48), retains the distinction but uses it for a moral
purpose. Paolo and Francesca were free to retreat from their passions, as
theirs was an “amor dilettevole.” Their obstinate refusal to avail themselves
of the free- dom of choice inherent in the birth of such sensual passion led to
their damnation. This issue of free will clearly exercised Boccaccio, for he
re- turns to it belatedly in the allegorical exposition to the canto. The com-
mentator has been explaining why carnal sinners, guilty of excess in what is
otherwise a natural process, are punished more lightly than the other damned
souls, in a circle further from the pit of hell and nearer to God. He then has
another go at defining the relative roles of astrological disposition and free
use of the rational faculty of choice: L’origine del quale, secondo che di
sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli;
la quale parrebbe ne do- vesse da questo scusare, se data non ci fosse la
ragione, la quale ne dimo- stra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e,
oltre a ciò, il libero albi- trio, nel quale è podestà di seguire qual più gli
piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of erotic passion,
prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode and shaped,
selectively, by Dino del Garbo’s glosses to Cavalcanti’s canzone, represents a
very late position, beginning with the first redaction of the Genealogie, and
perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind the remedia amoris
of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the Inferno V episode seem
to show, instead, that the involuntary nature of love, propounded by Fran-
cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after much sighing and
tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend Pandaro the cause
of his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing at this point is
saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca passage from Inferno V.
Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of his “martiro,” rhymed
with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is responding to Pandaro’s
“priego” since he is incapable of opposing a “nie- go” (Dante: “priega” and
“niega”). Troiolo then indicates how love took over: Amore, incontro al qual
chi si difende più tosto pere ed adopera in vano, d’un piacer vago tanto il cor
m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto lontano http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf
17 Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org ciascheduno altro, e
questo sì m’offende, (Filostrato II.7.1–5) This is a clear echo of Francesca
speaking of how love “al cor gentil ratto s’apprende [...] e ’l modo ancor
m’offende” (Inferno V.100–02). Boccaccio in paraphrasing “Amor, ch’a nullo
amato amar perdona” here, further em- phasises the involuntary nature of such
passion. The same emphasis can be seen in the Filocolo: in the “court of love”
in book four, Clonico has asked the queen for a judgment on whether an
unrequited or a jealous lover should be more pitied. The queen passes sentence,
saying that the unrequited lover will finally get his reward, for true love
induces inevitable reciprocity in the beloved: ché, ben che ella si mostri
verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami, però che
amore mai non perdonò l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The same
concept lies behind that other enamourment clearly inspired by Dante’s Paolo
and Francesca, the Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in Filocolo
II: their love, too, is caused by Cupid’s agency, they too are apparently
coerced by mutual delight. Florio clearly considers that such a situation is
universal, and affects not only mortals but gods: Padre mio, sì come voi
sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apollo, da voi ora davanti
ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; né
tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato, che da simile
passione non fosse oppresso. (Filocolo II, 15, 1–2) But perhaps the most
memorable examples of such love apologies come in the Decameron. In the novella
of the count of Antwerp, the queen of France lays bare her passion for the
count: Egli è vero che, per la lontananza di mio marito non potendo io agli
sti- moli della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta
potenza, che i fortissimi uomini non che le tenere donne hanno già molte volte
vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozii ne’ quali
voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore e divenire innamorata mi sono
lasciata correre. (Decameron II.8.15) Though the power of love is emphasised, a
subtle change has now taken place. We now get at least a fleeting admission that
an element of volition was involved (“mi sono lasciata correre”). When we come
to look at the famous justification of Ghismonda, caught in flagrante with
Guiscardo by her jealous father (Decameron IV.1.31–45), we see the same refined
con- cession. Her speech begins with a reminiscence of the Paolo and Francesca
episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare sono disposta.”
http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 18 Heliotropia 2.1 (2004)
http://www.heliotropia.org Ghismonda, at various points, then outlines the
sheer power and durabil- ity of the passion which has overtaken her: Egli è il
vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer
e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron IV.1.32)
Though the wording has been altered, the influence of Francesca’s per- during
love in Inferno V is clear: “ancor non m’abbandona” (105) and “che mai da me
non fia diviso” (135). But then the speech gets down to detail. It is
Ghismonda’s youthful appetite, whetted by previous marriage and now enforced
celibacy, which causes her to cede to her desires: Sono adunque, sí come da te
generata, di carne, e sí poco vivuta, che an- cor son giovane, e per l’una cosa
e per l’altra piena di concupiscibile disi- dero, al quale maravigliosissime
forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer
sia a così fatto desidero dar com- pimento. Alle quali forze non potendo io
resistere, a seguir quello che elle mi tiravano, sí come giovane e femina, mi
disposi e innamora’mi. (Decameron IV.1.34–35) Yet, here again, we can see that
Boccaccio clearly imagines there to be a moment of decision, an instance of
rational choosing, even if the flesh (and the sensitive faculties) are
predisposed to “incur such passion.” To sum up then, the evidence for Boccaccio
having read Dino del Garbo early on in his career, earlier than the Teseida, is
quite strong. The gloss on “Donna me prega” is not associated, as one might
imagine, with an interest in Cavalcanti’s vernacular verse, but rather with its
availability as a con- venient manual, accessible to a non medical scholar, on
the “maladye of hereos.” For this reason, perhaps, it became associated with
Boccaccio’s constant re-reading of the Paolo and Francesca episode from Inferno
V. What changed over time was the quality of Boccaccio’s reading of Dino,
starting from an opportunistic level, where the distinction between Capel-
lanus and Del Garbo is hardly felt, and ending with an interpretation which
consciously develops the potential in Dino’s understanding of the role of the
will. The moment of transition, however timid, seems to take place in the years
of the Decameron. Grice: “So here is charming Cavalcanti writing a charaming
love lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his worst Aristotelian jargon
destroying it. I dealt with Blake (“love that never told can be”) and the best
thing is to leave poetry to poets (cf. Austin rebuffing Nowell-Smith’s
inability to understand Donne). The physiology of love is beyond philosophy.
But in philosophy, unlike any other discipline, we respect history, and the
longitudinal history of philosophy ensures that every philosopher will be
familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in Convitto about Cupido,
Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua symbol of maleness. In
Italy they were concerned about astrology. Since the future queen of Naples had
been born under the House of Mars, she will possibly be a whore!” -- Aldrobrandino Del Garbo. Garbo. Keywords: appetitus,
appetitus sensitivo – spiegatura dell’amore in termine aristotelichi – amare,
sentire, il patico – fornicazione – latino/volgare – Boccaccio – Petrarca –
Alighieri – Cavalcanti --. de militia complexionis diversae, eros, amore,
malattia, Aristotele, passione, ragione, appetite sensitive, amore, sentire –
re-cognosenza da parte dell’amato dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love,
other-love, amore proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi
Speranza, “Garbo e Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690528577/in/photolist-2mJq2uE-2mLzoFz-2mKHtgX
Grice e Gargani – Eurialo e Niso; ovvero,
dell’empatia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “I like Gargani; many of
his essays are pretty interesting: he’s written on the ‘sense’ of ‘true,’ and
on the ‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which according to Griceian
principles, must rely on implicature, since it involves a communicational
impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di
quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di
costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e
dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno fatto della propria vita.”
Aldo Giorgio Gargani (Genova), filosofo. Si laurea a Pisa sotto Barone.
Collaborando con Lepschy, allora professore all'University College di Londra, e
conducendo le sue ricerche al Queen's sotto la guida di Geordie McGuinness. È stato il massimo studioso italiano di
Vitters, e ha contribuito alla diffusione della filosofia di D. F. Pears. I
suoi ambiti di studio sono stati prevalentemente la filosofia del linguaggio,
l'estetica, l'epistemologia, e la psicoanalisi. Di particolare interesse è
anche il suo tentativo di una scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e
destino” (Laterza, Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il
testo del tempo” (Laterza, Roma-Bari). Altre
opere: “Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi,
Torino); “Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La
condotta intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi,
Torino ); “Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida,
Napoli); “Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari); “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il
coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli,
Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica”
(Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a
Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla
verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità”
(Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA
Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica
Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere
e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto,
sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi
in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo
e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione
(Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia
greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari
non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e
Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2.jpg Eurialo e Niso (1827) di Jean-Baptiste
Roman, Louvre SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus
Epitetoinsigne per bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide
(patronimico di Niso) 1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa
(Eurialo) Sessomaschi Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso)
Eurialo e Niso (in latino Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono
in due episodi dell'Eneidedi Virgilio. Giovani guerrieri profughi di Troia,
costituiscono un grande esempio di amicizia e di valori che Virgilio teneva a
riportare in vita con la sua opera. Il particolare rapporto che li lega è
definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va
inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e
l'affettuosità omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici
nemici dei troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani
latini Cidone e Clizio. Il mito «… Appresentossi in prima Eurïalo con
Niso. Un giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e
casto amico.» (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428)
Eurialo Modifica
Eurialo (figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia nonché
lontano parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che un
fanciullo, e con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore
degli altri. Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi
funebri per Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e
riesce a vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di
Salio, un altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le
sue lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per
lui. Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere
Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani,
approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici.
L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba
nell'accampamento nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo.
Saranno proprio quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una
parte il riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due
compagni, dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai
soldati nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un
bosco vicino all'accampamento rutulo. In quel momento Virgilio richiama
alla mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia
l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa
il capo durante la pioggia. NisoModifica Niso appartiene a una famiglia
illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del
nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo,
chiamata anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo
combattuto insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra
l'altro la sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori.
Compare per la prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di
corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno
stratagemma. Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per
uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea,
ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo
non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua
insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi
giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato
poi da Eurialo. Tenterà invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai
cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne
la morte; egli riuscirà nell'intento cadendo però a sua volta. Quinto
libro - La gara di corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale
al quinto libro dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice
nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro
tratto dalla gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco,
vinta da Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una
pozza di sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della
celebrazione dei giochi. A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta
di correre per il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per
l'amico, fa uno sgambetto all'avversario che finisce a terra. Di
conseguenza Eurialo sorpassa Salio e vince la gara. Irritato per la
vittoria ingiusta di Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico,
commosso dal pianto e dal bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il
giovinetto. Enea consegna comunque un premio di consolazione a Salio e a
Niso, rispettivamente una pelle di leone africano e uno scudo forgiato da
Didimaone, e offre al giovane vincitore il premio che gli sarebbe spettato di
diritto, ossia un cavallo con borchie. Nono libro - La sortita notturna e
la morte dei due giovani Modifica
Nella sortita notturna del nono libro, Virgilio s'ispira a quella di Diomede e
Ulisse nel decimo libro dell'Iliade, dove i due achei sorprendono nel sonno il
giovane re trace Reso e dodici suoi guerrieri. L'esercito di Turno sta
cingendo d'assedio la cittadella dei Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla
ricerca di alleati, si è recato tra gli Etruschi. Niso si propone di uscire per
andare a raggiungere Enea e avvertirlo del pericolo imminente, ma Eurialo vuole
rimanere al suo fianco, pur sapendo di essere ancora molto giovane per un'impresa
così rischiosa e di poter avere ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver
ricevuto il consenso dei compagni riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso
si preparano a partire per la loro missione. Ascanio, il figlio di Enea,
promette loro grandi premi, tra cui tazze e cucchiai d'argento, cavalli,
armature, donne e schiavi, mentre gli altri troiani li equipaggiano con armi
adatte all'impresa. I due amici penetrano nel campo dei Rutuli
addormentati. Niso mette al corrente Eurialo della sua intenzione di farne
strage e passa immediatamente all'azione, aggredendo un amico intimo di Turno,
il borioso re e augure Ramnete, che stava russando nella sua tenda su un cumulo
di sontuose stuoie, e con la spada lo colpisce alla gola; introdottosi quindi
negli alloggiamenti di Remo, altro importante condottiero italico, sgozza
l'auriga disteso sotto i cavalli per poi staccare la testa al suo signore
coricato nel letto e ancora al bellissimo giovinetto Serrano riverso a terra
nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato al gioco dei dadi buona parte di
quella che sarebbe stata la sua ultima notte. Questi sono i più noti tra i
numerosi guerrieri che finiscono vittime di Niso. Anche Eurialo non
resiste alla tentazione di uccidere qualche italico; un certo Reto, svegliatosi
improvvisamente, cerca di nascondersi dietro un cratere, ma viene ucciso
proprio da Eurialo. A questo punto Niso esorta il compagno a cessare la strage;
i due troiani escono dal campo nemico. Eurialo porta via con sé alcuni oggetti
di valore, tra cui l'elmo di Messapo (un alleato italico dei Rutuli, che non è
tra le vittime). Proprio per la vanità di Eurialo i due amici vengono
avvistati da un drappello di trecento maturi cavalieri rutuli guidato da
Volcente; accade infatti che i bagliori dell'elmo e il suo vistoso pennacchio
attirino l'attenzione dei nemici, che incominciano allora a inseguire la coppia
di troiani, rifugiatasi nel bosco. Gli uomini di Volcente si sparpagliano
quindi attraverso passaggi sconosciuti a Eurialo e Niso, che cercano una via di
fuga. Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per
cercare l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto,
disperato, scaglia le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e
Tago, due cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere
l'autore di quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo
mortalmente. (LA) «Talia dicta dabat; sed viribus ensis adactus
transabiit costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto,
pulchrosque per artus it cruor, inque umeros cervix conlapsa recumbit:
purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera
collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur.» (IT) «Mentre
così dicea, Volscente il colpo già con gran forza spinto, il bianco petto
del giovine trafisse. E già morendo Eurïalo cadea, di sangue
asperso le belle membra, e rovesciato il collo, qual reciso dal vomero
languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina.»
(Traduzione di Annibal Caro) Niso allora grida disperato e si scaglia con tutta
la sua violenza contro Volcente, conficcandogli quindi la spada nella bocca
spalancata e uccidendolo. Il giovane viene però attaccato dagli altri soldati
presenti e, morendo, si getta sull'amico e si dà finalmente pace.
(LA) «At Nisus ruit in medios solumque per omnis Volcentem petit in solo
Volcente moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc
proturbant. Instat non setius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis
in ore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum super exanimum
sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum morte quievit.»
(IT) «In mezzo de lo stuol Niso si scaglia solo a Volscente, solo
contra lui pon la sua mira. I cavalier che intorno stavano a sua
difesa, or quinci or quindi lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre
addosso a lui la sua fulminea spada rotava a cerco. E si fe' largo in
tanto ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava, cacciogli il ferro
ne la strozza, e spinse. Così non morse, che si vide avanti morto
il nimico. Indi da cento lance trafitto addosso a lui, per cui
moriva, gittossi; e sopra lui contento giacque.» (Traduzione di
Annibal Caro) Conseguenze della morte di Eurialo e NisoModifica Sùbito dopo la
morte di Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella narrazione, assicurando ai
due amici un eterno ricordo da eroi tragicamente sconfitti: (LA)
«Fortunati ambo! Siquid mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos
eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater
Romanus habebit.» (IT) «Fortunati ambidue! Se i versi miei tanto
han di forza, né per morte mai, né per tempo sarà che 'l valor vostro glorïoso
non sia, finché la stirpe d'Enea possederà del Campidoglio l'immobil sasso, e
finché impero e lingua avrà l'invitta e fortunata Roma.» (Traduzione di
Annibal Caro) I corpi esanimi di Eurialo e Niso vengono portati all'interno
dell'accampamento rutulo, e quivi sottoposti a decapitazione. Le teste recise
dei due giovani vengono quindi conficcate su lance e portate davanti al
presidio troiano con grande clamore. In seguito la Fama avverte la madre
di Eurialo della morte del figlio. Ella, sconvolta dalla notizia, corre fuori
di casa strappandosi i capelli e urlando. Ha così inizio un commovente discorso
in cui sembra rimproverare il figlio per non averla nemmeno salutata per
l'ultima volta prima di partire per la sua pericolosa missione, e rimpiange di
non aver potuto guidare le sue esequie e rivedere il suo corpo. La donna
sembra non aver più nemmeno la forza di vivere e implora di essere uccisa dai
Rutuli, trafitta dalle loro frecce. L'ultima memoria a Eurialo e Niso è offerta
dai troiani che li rimpiangono con gemiti e lacrime e riportano in casa la madre
di Eurialo. Vittime di Eurialo e NisoModifica Vittime di EurialoModifica
Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo dei Rutuli, sono perlopiù
anonime; fanno eccezione: Abari Erbeso Fado Reto (l'unico che non viene
ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore vomitando l'anima insieme
al vino e al sangue. Vittime di NisoModifica Cavalieri uccisi in scontro aperto
(3): Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto Tago, ucciso con
un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante, cui Niso conficca
la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel sonno (5):
Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e Lamo, guerrieri
rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero rutulo famoso per la
sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo elenco vanno aggiunti i
tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso 328 «armigerumque Remi
premit aurigamque sub ipsis», da alcuni tradotto «sopprime l'auriga ed armigero
di Remo» è da intendersi per altri come «sopprime lo scudiero di Remo e
l'auriga», quindi il numero complessivo delle vittime di Niso può variare da 12
a 13. In ogni caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero che uccide più
nemici nel poema; e tra gli italici che egli sorprende nel sonno sono ben
quattro quelli che subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro, Lamo e
Serrano. Virgilio mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi nel
sonno, ma solo nella sequenza che descrive la scoperta della strage. Per molti
studiosi il punto in questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione
definitiva dell'opera: e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa
che il poeta abbia scritto erroneamente "Numa" in luogo di
"Lamo" o "Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome
Numa ritorna, insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto
padre di quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto
uccide, in mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di
Volcente, Camerte, biondo signore di Amyclae. Raffronto con
l'IliadeModifica Nel compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal
poeta a un leone vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi
pecore; la similitudine proviene dal modello omerico con la strage dei Traci.
La pagina del massacro compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però
soprattutto per la presenza di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che
vomita la sua anima intrisa del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso
(Diomede riserva questo trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il
giovane eroe tuttavia si astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue
vittime, divergendo in questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille
nell'Iliade; Turno e lo stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo
morente, col giovinetto che piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata
dall'Iliade, ma richiama un altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno
dei figli di Priamo, ucciso in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema.
Il testo virgiliano contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure
Ramnete, amante del fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e
l'uccisione del bizzarro auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi
stessi cavalli). Benché l'episodio della sortita notturna sia modellato
su quella compiuta da Odisseo e Diomede, i troiani presentano tratti che
rimandano più ad Achille e Patroclo per il rapporto che li unisce, ovvero
quello di due guerrieri-amanti. In Niso peraltro si può riscontrare una
personalità molto simile a quella di suo fratello Asio nell'Iliade,
caratterizzata da audacia e irruenza; oltretutto anche Asio soccombe dopo aver
tentato di vendicare un commilitone caduto, Otrioneo, al quale però non è
sentimentalmente legato, così come non risulterebbe avere un coinvolgimento
erotico col proprio auriga, destinato a perire subito dopo di lui. [1].
Interpretazione dell'episodioModifica Affiora in questi versi lo sgomento di
Virgilio di fronte agli orrori della guerra, che miete lutti su lutti. La
guerra non è tra buoni e cattivi: i troiani cercano una nuova patria, gli
italici si sentono minacciati. In nessun altro punto del poema soccombono così
tanti eroi giovani: se si eccettuano Volcente e i suoi due cavalieri, padri di
famiglia, tutti gli altri personaggi dell'episodio vanno incontro a morte
prematura, non ci sono solo Eurialo e Niso, dato che i guerrieri che i due
troiani uccidono nel sonno sono più o meno loro coetanei: in IX, 161-63 si dice
infatti che Turno sceglie per l'assedio 1.400 giovani («bis septem Rutuli muros
qui milite servent / delecti, ast illos centeni quemque sequuntur /purpurei
cristis iuvenes auroque corusci»). Gioventù che va di pari passo con
l'imprudenza: i Rutuli si lasciano sopraffare dal sonno, un elmo sottratto da
Eurialo ai nemici sarà all'origine della sua morte. Ma morire giovani in guerra
significa anche guadagnarsi la fama eterna, e a questo provvede Virgilio che
manifesta lo stesso senso di rispetto per tutti i caduti: guerrieri aristocratici
come Niso, Remo e Ramnete (che pur bollato dal poeta in un primo tempo come
superbus per l'ostentazione del suo doppio potere è uno degli italici che
Virgilio metterà tra le vittime maggiormente rimpiante dall'esercito italico,
essendo indiscutibile la sua amicizia per Turno), e soldati di estrazione non
nobile come Eurialo e Serrano. Fortuna dell'episodioModifica Nell'Orlando
furioso di Ludovico Ariosto i due giovani soldati saraceni Cloridano e Medoro
compiono una sortita notturna nel campo dei cristiani per cercare il cadavere
di Dardinello, il loro signore caduto in battaglia, e vi uccidono diversi
nemici sorpresi nel sonno. Fin qui Ariosto segue Virgilio: diversa è la
conclusione, che vede soccombere il solo Cloridano, mentre Medoro è destinato a
essere salvato dalla bella Angelica; inoltre mancano descrizioni relative al
ritrovamento dei guerrieri uccisi nella strage. Eredità culturaleModifica
A Eurialo e Niso sono stati dedicati due crateri di Dione, uno dei satelliti di
Saturno. Massimo Bubola ha preso ispirazione dall'episodio virgiliano per una
sua canzone scritta in collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis,
intitolata Eurialo e Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi
della coppia di personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i
nazisti. Anche in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi
gli amici. FontiModifica Publio Virgilio Marone, Eneide, libri V e IX.
NoteModifica ^ Asio è invece molto più legato al principe troiano Deifobo, che
subito dopo la sua morte decide di vendicarlo Iliade (Monti)/Libro XIII -
Wikisource, su it.wikisource.org. URL consultato il 23 giugno 2021. Voci
correlateModifica Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe Asio (figlio di
Irtaco) Ippocoonte (figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano Medoro (Orlando
furioso) Ramnete Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo Reto Cidone e
Clizio Decapitazione Reso Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons
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Portale Letteratura Portale Mitologia Scienza e
filosofia della complessità. Studi in memoria di Aldo Giorgio Gargani A cura di
Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti Collana “I Tempi e le Forme”
(Carocci 2020) INDICE Prefazione. Aldo G. Gargani: la filosofia come analisi
delle possibilità di Alfonso Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e
Stefano Salvia 1. Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre
corpi da Newton a Poincaré di Stefano Salvia Genesi e sviluppo di un problema
scientifico/La prima formulazione esplicita del problema/Dalla geometria
analitica all’analisi algebrica/La controversia intorno a 1 r2/Il problema dei
tre corpi ristretto/Il Sistema solare è stabile?/Dall’analisi algebrica alla meccanica
analitica/La meccanica razionale e l’analisi classica/Il teorema di Poincaré:
limite invalicabile o nuovo spazio di possibilità? 2. Il problema della
previsione in un sistema deterministico classico di Andrea Cintio
Introduzione/Il problema dello studio delle evoluzioni temporali/Sistema
dinamico/Il determinismo e il problema delle previsioni delle
evoluzioni/Evoluzioni caotiche/Dalle singole orbite alle famiglie di sistemi/Il
problema della previsione e la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali
3. Ordine e caos nella scienza moderna di Leone Fronzoni Introduzione/La
riscoperta del caos/Le biforcazioni/Coerenza e autorganizzazione/La
turbolenza/Stati coerenti localizzati: i solitoni/La sincronizzazione/Coerenza
e disordine nella meccanica quantistica/Entropia e
complessità/Network/Conclusioni 4. Su Turing, gli algoritmi, le macchine, la
prevedibilità di Luca Bellotti Alan M. Turing (1912-1954): una brevissima
biografia/Una digressione: Penrose contro Turing/Algoritmi/Macchine di
Turing/Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle
macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari
nei sistemi viventi di Giuseppe Longo Introduzione/Storia e dipendenza dal
cammino in fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante
storicizzato/Gli osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive/Verso il
futuro: sapere e imprevedibilità/Tracce invarianti di una storia/Spazi
relazionali costruttivi e invarianza/Conoscenza del presente e invenzione del
futuro/Il ruolo della diversità e degli eventi rari/Conclusione 6. Possibilità
e realtà tra fisica e biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica
classica/La meccanica quantistica/La biologia/Conclusioni Bibliografia Gli
autori Scienza e filosofia della complessità: Studi in memoria di Aldo Giorgio
Gargani, a cura di: Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti, Carocci,
Roma, 2020 Abstract Il volume raccoglie i contributi, ampiamente elaborati,
presentati al convegno Possibilità al di là della determinazione. Matematica,
fisica e filosofia della complessità, tenutosi all’Università di Pisa in
memoria di Aldo Giorgio Gargani. Dello studioso scomparso nel 2009 sono ben
noti gli interessi filosofici per la questione, nata nella fisica moderna e in
altri saperi, dell’emergere – in sistemi complessi – di possibilità che vanno,
irriducibilmente, al di là della determinazione.Aldo Giorgio Gargani. Gargani. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero,
dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa – communicazione – implicatura
come condivisa – empatia – d. f. pears --. Mcguinness, Gargani on Grice –
ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gargani” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758901736/in/dateposted-public/
Grice e Garin – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Rieti).
Filosofo. Grice: “Garin is a serious student of what we may call the
longitudinal, rather than latitudinal, unity of Italian philosophy! If ever
there is one!” -- Italian philosopher,
author of a very rich, “La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And
“L’umanesimo italiano”Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani. Frequenta il Liceo classico
Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi sull'Illuminismo che confluiranno
nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il
concorso per insegnare nei licei, cosa che continuò a fare fino a quando vinse
la cattedra da ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale
c'era Guzzo, una figura che costituirà un punto di riferimento per Garin quanto
meno fino ai primi anni del dopoguerra. I suoi riferimenti culturali non erano
costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi di matrice
spiritualista e cattolica come Lavelle,
Senne, Castelli Gattinara di Zubiena, Michele Federico Sciacca e lo
stesso Guzzo. Iscritto al Partito Nazionaledal 1931, pronuncia al Lyceum di
Firenze una commemorazione a Gentile. Una svolta nelle prospettiva politica,
filosofica e storiografica (le tre cose non vanno separate) si ha con l'uscita
dei Quaderni del carcere di Gramsci, che hanno fortemente influenzato la sua filosofia
nel costante riferimento alla concretezza del pensiero, e con la pubblicazione
delle Cronache di filosofia italiana”, fortemente sollecitato da Laterza. Storico
della filosofia molto legato al rigore filologico e al lavoro sui testi,
rifiuta la definizione di filosofo; è tuttavia considerabile tale proprio in
virtù delle sue polemiche anti-speculative e come influente teorico della storiografia
filosofica. Insegna a Firenze. Si ttrasferì a
Pisa a causa dei perduranti disordini della rivolta studentesca iniziata nel
'68, di cui non condivideva le modalità di lotta e che considerava espressione
di astratto rivoluzionarismo. La sua infaticabile avidità di letture
filosofiche lo rese consigliere prezioso. L’Accademia dei Lincei gli ha
conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Altre opere: “Giovanni Pico
della Mirandola. Vita e dottrina”; “Gli illuministi inglesi. I Moralisti; “Il
Rinascimento italiano”; “L'Umanesimo italiano”; “Medioevo e Rinascimento”; “Cronache
di filosofia italiana”; “L'educazione in Europa”; “La filosofia come sapere
storico”; “La filosofia nel Rinascimento italiano”; “La cultura italiana tra
Ottocento e Novecento”; “Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano”; “Storia
della filosofia italiana”; “Dal Rinascimento all'Illuminismo” “Filosofi italiani”; “ Rinascite e
rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo
del Rinascimento”; “Gli editori italiani tra Ottocento e Novecento”; “La cultura
del Rinascimento”. Ciò non toglie che l'importanza della interpretazione del
Rinascimento che Garin ci dà nei suoi scritti e ci documenta nelle sue
edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni di testi umanistici di ogni tipo
(filosofico, politico, critico, letterario) possa essere, senza iperbole,
confrontata con l'importanza della evocazione del Burckhardt» in Cantimori,
Studi di storia, Torino, Einaudi, la Repubblica, Mecacci L., La Ghirlanda
fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, su lincei. Fondo
Eugenio Garin, Il percorso storiografico di un maestro, Firenze, Le Lettere, Marino
Biondi, Dopo il diluvio. Eugenio Garin, l'ombra di Gentile e i bilanci della
filosofia, in Un secolo fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia Catanorchi e Valentina
Lepri, Dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze), Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura,. Michele Ciliberto, Eugenio Garin. Un
intellettuale nel Novecento, RomaBari, Laterza,. Raffaele Liucci, Quelle ombre
sul delitto Gentile in "Treccani Magazine", La Ghirlanda fiorentina e
la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, "Il Gramsci di Eugenio
Garin", in Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia
della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e umanesimi. Saggio introduttivo
alla storiografia di Garin, Milano, FrancoAngeli, TreccaniEnciclopedie
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Eugenio Garin, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Opere di Eugenio Garin EUGENIO GARIN. LA LEZIONE DI
UN MAESTRO * Negli ultimi anni della sua vita, quando con ritrosia
era portato a far¬ ne un sobrio bilancio, Eugenio Garin insisteva a dire
di essere stato so¬ prattutto un insegnante. «Ho sempre insegnato»,
ripeteva. E insegnante lo era stato da giovanissimo, appena ventenne, dei
giovani della scuola di avviamento al lavoro di Fucecchio, delle ‘ragazze
di buona famiglia’ delle Mantellate di Firenze, alle quali faceva lezione
sorvegliato, giovinetto tra giovinette, da una severa suorina, dei suoi
quasi coetanei del Liceo Can- nizzaro di Palermo, ventiduenne nel 1931,
poi di quelli del Liceo scien¬ tifico Leonardo da Vinci di Firenze,
mentre, precoce in tutto, sostituiva uno dei suoi maestri, Francesco De
Sarlo, neH’insegnamento universita¬ rio di Filosofia teoretica nel 1935,
appena ventiseienne. Aveva, insomma, sempre insegnato e, come si dice, in
ogni ordine di scuola dall’università in giù. Non saprei dire di Garin
insegnante di liceo. Vorrei dire solo qual¬ cosa di Garin docente
universitario. Credo che ognuno possa sostenere, e con ragione, di aver
conosciuto e di aver avuto un suo Garin. Non già perché egli avesse la
facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto lo volesse ascoltare.
Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di reagire a quell’incontro
con il proprio carattere, con la propria formazione, con * Nel
dicembre del 2004 è scomparso Eugenio Garin. Al maestro fiorentino e alla
sua opera la Biblioteca Roncioniana aveva dedicato un convegno nel 2002
(cfr. Giornata di studi, omaggio a Eugenio Garin, «Bollettino
Roncioniano», II, 2002, pp. 45-47; del convegno sono poi usciti gli atti:
Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, a cura di
F. Audisio e A. Savorelli, Firenze, Le Lettere, 2003). Pubblichiamo qui un
ricordo di Garin, che Maurizio Tonini ha letto neha cerimonia svoltasi in
Palazzo vecchio il 12 gennaio febbraio 2005, aha qua¬ le sono intervenuti
il Sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, Massimo Cacciali, Michele Ci¬
liberto, Mario Luzi e Paolo Rossi. Il testo è apparso neha brochure Per Eugenio
Garin, Napoli, Bibliopoli, 2055, edita a cura di Maurizio Tonini e
Francesco Del Franco, che si ringraziano per averne acconsentito la
ristampa in questa sede. 6 Maurizio Tonini
le proprie attese. In altre parole egli non intendeva plasmare
l’ascoltatore, ma solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno doveva e
poteva rispon¬ dere a suo modo, liberamente. Non che il suo insegnamento
fosse univo¬ co, uguale dappertutto e per tutti: era un insegnante troppo
navigato per sapere che una cosa era far lezione agli studenti di Lettere
e filosofia assie¬ me, un’altra ai soli filosofi, come ci chiamava,
un’altra cosa ancora ai lau¬ reati e laureandi. Sapeva bene
che era diverso rivolgersi ai colleghi in un convegno di studio, o
parlare in una casa del popolo, oppure rivolgersi a tutti, ai citta¬
dini, come spesso gli è capitato proprio qui nel Palazzo Vecchio della
sua Firenze. Cambiavano i contenuti, mutavano i toni, mai il carattere,
l’alta professionalità, medesima sempre la passione. Eugenio Garin non ha
mai spezzettato il pane della cultura: ovunque, o a chiunque avesse da
parlare o da insegnare, lo sconosciuto studente che si presentava
all’esame, l’ami¬ co e collega, lo studioso straniero, il giovane
laureato, tutti meritavano sempre la stessa attenzione, il medesimo
trattamento. Sì che nella sua pro¬ duzione letteraria le conferenze
lincee e le lezioni al Collège de France stanno insieme agli scritti,
diciamo, d’occasione, senza che il lettore ne colga, se non con l’aiuto
di riferimenti bibliografici, la loro provenienza e la loro
destinazione. Niente gli era più alieno, fisicamente e
metaforicamente, dell’espres¬ sione ‘prendere per mano’. Garin non
prendeva per mano nessuno: apri¬ va un libro, i cui capitoli andava
narrando di volta in volta. Un libro sem¬ pre nuovo. Per chi sapeva
apprezzarlo, quel libro conduceva a altri libri, poi a una collana,
infine a una biblioteca, spesso la sua. Un libro somi¬ gliante a quello di
un autore a lui carissimo, Laurence Sterne, La vita e le opinioni di
Tristram Shandy, fatto di parentesi, di divagazioni apparenti, di vie
traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso fino a
farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è necessario
per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un libro ciascuno,
per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se volete, la propria
strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con un libro, ciascu¬
no instaurava con lui un rapporto individuale: per quanto paradossale, la
sua lezione non consentiva alcuna lettura corale, alcuna possibilità di
di¬ spense, alcuna versione ufficiale. Considerava la
cultura, lo ha scritto, la «conquista di una più profon¬ da coscienza di
sé». E l’università era cultura. In questo senso il suo non è mai stato
un insegnamento demagogicamente democratico, né si è mai considerato un
missionario, né ha considerato il proprio lavoro una mis¬ sione.
Piuttosto un funzionario, come amò talora definirsi, civettando con il
motivo del trasferimento della sua famiglia a Firenze, che assicurava
Eugenio Garin. La lezione di un maestro 7
8 Maurizio Tonini un viaggio su
un treno sicuro, tecnicamente aggiornato, ben condotto, ma che, al pari
di un capotreno, non era, e non si considerava, poi re¬ sponsabile se i
viaggiatori scendevano alle stazioni intermedie e prende¬ vano altre
direzioni. Non credo si sia mai sentito coinvolto nelle scelte al¬ trui,
né voleva esserlo. Non si prestava, pur avendone le doti, a essere il
pifferaio fascinatore di candide giovinette e di timidi giovinotti. Lo
avrebbe considerato un tradimento, un traviamento del suo compito, che
era appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di insegnare a
capirne la storia, di fare cultura, ma sempre altro da convincere o da
portare su una strada che non fosse già in qualche modo segnata, e
segnata indivi¬ dualmente, in chi lo ascoltava. Un pescatore
anche, ma un pescatore che gettava reti larghe e pro¬ fonde nelle quali
si aspettava che i pesci entrassero spontaneamente, mai che venissero
catturati. I suoi pesci erano e dovevano essere studenti ma¬ turi — non
venivano infatti da un esame che ne aveva certificato proprio la
maturità? — che egli considerava suoi pari, almeno per quel che riguar¬
da il cartesiano bori sens, la bona mens, la cosa più diffusa e più
equamente distribuita tra gli uomini, sì che la differenza tra lui e noi
riguardava, ga¬ lileianamente, l’estensione del sapere, non la capacità
di comprendere. Il severo, severissimo Garin, che tanto spaventava le
matricole, era un be¬ nevolo confessore dell’ignoranza dei suoi studenti.
E quelli più maturi imparavano subito che la migliore risposta alle
domande che fioccavano in aula era quella di confessarla subito quella
ignoranza, anche quando si era quasi sicuri della risposta (ma chi era
sicuro di fronte a Garin?). Certo, quell’estensione del sapere
costituiva una barriera, una diffe¬ renza di cui era consapevole lui e
consapevoli noi, una barriera quantita¬ tiva, ci faceva credere,
scalabile e riducibile, quasi come una differenza di età, mai come
un’inattingibile diversità, che mai si trasformava in pater¬ nalistica
condiscendenza. Quella barriera si sgretolava nella generosa di¬
sponibilità a fornire indicazioni e libri, al reiterato prestarsi a spiegare
non solo le tematiche del proprio corso, ma a offrirsi di guidare piccoli
gruppi alla lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl) dei corsi di altri
colleghi che ci risultassero particolarmente difficili. Il grande
intellettuale non dimen¬ ticava in nessuna occasione la sua professione:
non solo nel rigido adem¬ pimento dei suoi obblighi di docente, nella
proverbiale puntualità, nella scrupolosa preparazione dei corsi (i
‘bauli’ di libri che partivano anzitem¬ po per la montagna), nella
paziente e tanto prodiga lettura dei capitoli delle tesi di laurea, nella
curiosità con cui ogni anno rinnovava l’incontro con i suoi giovani
interlocutori. Aveva trasformato una precoce vocazio¬ ne in una
professione, in un affetto per il proprio lavoro, prima ancora che per
chi dovesse usufruirne, in una disciplina che scherzosamente at-
Eugenio Garin. La lezione di un maestro 9 tribuiva
alle lontane origini savoiarde, ma che forse è la chiave per coglie¬ re
la sua straordinaria e mai dismessa operosità, la freschezza di ogni suo
intervento. Eugenio Garin non è mai stato altro che un insegnante:
poche, mo¬ deste e occasionali le cariche accademiche, nelle quali emergevano
un’in¬ sofferenza e una scontrosità imprevedibili nel professore,
altrettanto rare quelle istituzionali o editoriali e solo al termine, o
quasi, della sua carriera scolastica, nessuna, ovviamente, carica
politica, in un uomo che aveva, come sapete, una grande e perdurante
passione civile, per la sua scuola, per la sua città, per il suo paese.
Credo che nulla gli sarebbe apparso più estraneo e spiacevole di esser
considerato a capo di qualcosa, fosse un isti¬ tuto, una rivista o una
cordata accademica. Di fatto non c’è mai stata una scuola di Garin, ci
sono stati, e ci sono, tanti che hanno studiato e si sono laureati con
lui, che hanno lavorato con lui, che hanno condiviso aspetti e momenti
del suo lavoro, che si sono incontrati con lui, ma niente di più. Incauti
giovinetti, invidiavamo gli allievi di Dal Pra, che il maestro radunava a
S. Margherita o sul lago di Garda, cui apriva la «Rivista critica di
storia della filosofia», la collana del centro milanese di storia del pensie¬
ro scientifico e filosofico. O quelli di Paci, che si ritrovavano su «aut
aut», che si incontravano nelle edizioni del Saggiatore, ricordavamo e
ricono¬ scevamo quelli di Banfi o quelli emergenti di Geymonat, che
attendeva¬ no a imponenti opere collettive, e tanti altri che andavano
sorgendo vi¬ cino e lontano. Garin non aveva nulla: non ha mai diretto
opere colletti¬ ve, non ha mai organizzato convegni né li ha fatti
organizzare, mai colla¬ ne editoriali. Quando ciò è avvenuto, in tarda
età, con l’Istituto Nazionale del Rinascimento o con il «Giornale critico
della filosofia ita¬ liana», tutto si è potuto e si può dire, fuori che
fossero espressioni di una scuola o di un gruppo che in lui si
riconoscesse o che in lui fosse ricono¬ scibile. Neanche quando alla
Scuola Normale di Pisa gli si è offerta l’op¬ portunità di cogliere
ancora una volta una straordinaria e entusiasta messe di giovani
studiosi, è venuto meno il carattere del suo insegnamento. Lì, come in S.
Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha mancato di offrire
opportunità, un’occasione irripetibile, anzi, generosamente resa disponi¬
bile, ma sempre e solo per chi aveva modo e voglia di coglierla e di rea¬
lizzarne le potenzialità, ma lasciando a ciascuno la libertà di decidere,
di interpretare quell’incontro, di farne ciò che voleva. Il severo Garin
non rimproverava mai: non gli sarebbe mai venuto in mente di
riprenderci, come capitava al suo amico e collega Cantimori o al più
giovane Ragio¬ nieri, se mancavamo a una seduta di seminario e venivamo
sorpresi in bi¬ blioteca o, peggio, al bar. Ma neppure gli sarebbe venuto
in mente di 10 Maurizio Tonini portarci
nello stesso bar a prendere un aperitivo o un caffè, come capitava spesso
con Cantimori e occasionalmente con Ragionieri. Non voleva essere
né un padre, né un maestro di vita. Non credo neppure che volesse
additarci un modello: era piuttosto una lezione di maturità, di piena e
consapevole democrazia intesa come rigoroso rispet¬ to dei ruoli, quella
a cui ci chiamava, e che per molti era anche la prima. Il suo dovere era
quello di insegnare, del nostro dovevamo rispondere noi. Scendeva dalla
cattedra per aiutarci a leggere un testo, per offrirci un’indicazione,
per mostrarci un passo di un libro, sedeva tra noi a discu¬ tere di
Cartesio o di Platone, e la lezione poteva proseguire nella Biblio¬ teca
di Facoltà, o vicino ai tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber,
ma senza mai abdicare alla sua funzione: non sarebbe mai sceso a
discutere con noi il corso dell’anno seguente, la sua organizzazione, le
sue modali¬ tà. A ciascuno il suo. Non discuteva le nostre scelte di
vita, i propositi di lavoro, le carriere. Li considerava su un altro
piano, nel quale l’insegnante non doveva né poteva intromettersi: li accettava.
Al massimo inarcava le ciglia, come nei lavori che gli sottoponevamo, e
abbiamo continuato a sottoporgli, quando un impercettibile segno di lapis
segnalava i dubbi e gli errori di sintassi. Cittadino di forti passioni
civili, le lasciava tutte, fuorché quella di insegnare, fuori dall’aula.
Era facile sapere come la pen¬ sava, lo leggevamo su «Paese sera», su
«l’Unità», su «Rinascita», lo segui¬ vamo nelle Case del popolo, al
Circolo di cultura, ma non si è mai inne¬ scata, con lui, una forma qualsiasi
di intesa, di complicità, oserei dire, che prescindesse da quella unica e
prevalente di insegnante e studente. Garin ci ha lasciato
centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha insegnato come ricostruire
figure di pensatori grandi e piccoli, da Elia Astorini a Cartesio, da
Antonio Cittadini a Giovanni Pico della Mirandola. Ha ri¬ costruito
squarci del nostro passato culturale e civile, da Croce a Gentile, da
Gramsci a Labriola, da Gino Capponi a Pasquale Villari, ci ha dato testi
e momenti del nostro passato filosofico che hanno costituito e costitui¬
scono un’eredità operante, viva e vitale per ognuno che voglia fare una
professione simile alla sua. Non ci ha potuto lasciare, ed è purtroppo
destinato a perdersi, quello che gli pareva più importante: la sua
lezione. Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato una scuola,
un’università che non c’è più. Non saprei dire se l’attuale, nella quale molti
di noi si trovano ora, sia migliore o peggiore di quella. Mi auguro, e lo
auguro so¬ prattutto ai più giovani, di potervi incontrare ancora un
insegnante come Eugenio Garin. L'insidia implicita nel
concetto stesso di genere letterario ha
non di rado contribuito a falsare la
prospettiva necessaria a ben collocare la
produzione in prosa latina del grande
secolo deH'Umanesimo. Eta in cui vennero
predominando preoccupazioni critiche, in cui
tutta I'attivita spirituale era impegnata a
costruire una respublica terrena, degna
pienamente dell'uomo nobile,1 il Quattrocento
trovo la sua espressione piu alta in
opere di contenuto in largo senso
moralistico e di tono retorico, in
cui non solo si consegnava un modo
nuovo di concepire la vita, ma si
difendeva e si giustifi- cava polemicamente
un atteggiamento originale in ogni suo
tratto. Per questo chi voglia andar
cercando le pagine esemplari del-epoca, le
piu profondamente espressive, dovra rivolgersi,
non gia a testi per tradizione considerati
monumenti letterari, ma alle opere in
cui veramente si manifest6 tutto 1'impegno
umano della nuova civilta. Cosi, mentre chi
prenda a scorrere novelle umani- stiche
non potra non uscir deluso da talune,
piu che imitazioni, traduzioni, o meglio
raffazzonamenti, di modelli boccacceschi, quali
troviamo, tanto per esemplificare, in un
Bartolomeo Fazio, pagine di insospettata
bellezza, capaci di colpire ogni piu
raffi- nata sensibilita, ci si fanno
incontro nei trattati e nei dialoghi
di Poggio Bracciolini, e perfino nelle
opere di un filosofo di profes- sione,
dalPandamento talora scolasticizzante, qual &
Marsilio Fi- cino. E proprio il
Ficino della Theologia platonica, presentando
gli uomini travagliati dalla malinconia
della vita e desiderosi che tutto sia
un sogno (wforsitan non sunt vera
quae nunc nobis ap parent, forsitan
in praesentia somniamus»),2 defmisce nei
suoi par- ticolari espressivi un tema
di larghissima risonanza in tutta la
letteratura europea. Sempre il Ficino, nel
Liber de Sole, pur para- frasando
talora Torazione famosa dell'imperatore Giuliano,
fissa i momenti di quella «lalda del
sole)) che, attraverso Leonardo da Vinc,
arriva fino alPinno ispirato di Campanella.
Leonardo ri- manda esplicitamente all'apertura
del terzo libro degli Inni na- turali
del Marullo; ma chi veramente, ancora
una volta, in una prosa di
grandissimo impegno, ci offre tutti i
temi di quella so- i. «L'omo
nato nobile e in citt& libera»-
come diii Alessandro Piccolo- mini. 2.
FICINO, Opera, Basileae, per Henricum
Petri, 1576, vol. i, pp. 315-17
(Theol plat., xiv, 7). lenne
preghiera di ringraziamento alia fonte di
ogni vita e di ogni luce, e proprio
Ficino. Del quale e la non
dimenticabile raffigu- razione di una
tenebra totale, ove e spento ogni
astro, che fascia lungamente i viventi,
finche di colpo il cielo si apre
per mo- strare colui che e sola
forma visibile del Dio verace. E
ficiniana e 1'opposizione del carcere
oscuro e della luce di vita, della
te nebra di morte e dei germi
rinnovellati dalla luce e dal calore
solare, in cui si articolera il metro
barbaro di Campanella. Ma per
rimanere agli scritti di un medesimo
autore, Leon Bat- tista Alberti, non
grande imitatore del Boccaccio, raggiunge
in- vece la sua piena efficacia
quando costruisce i suoi dialoghi, e
sa essere perfettamente originale pur
intessendoli di reminiscenze classiche. Perfino
la tanto celebrata Historia de Eurialo et
Lucre- tia di Enea Silvio perde tutto
il suo colore innanzi alle pagine dei
Commentarii'* e sono piu facili a
dimenticarsi i casi di Lucre- zia che
non le stanze delle antiche regine
divenute nidi di serpi, o le porpore
dei magistrati romani rievocate fra Tedera
che copre le pietre rose dal tempo,
o i topi che corrono la notte
nei sotter- ranei di un convento e
il papa che caccia sdegnato i monaci
ne- gligenti. Per non dire di quella
feroce presentazione dei cardinali, fissati
in ritratti nitidissimi con rapide Imee
mentre per complot- tare trasferiscono
nelle latrine la solennita del conclave.
Poggio consegna a trattati di morale
narrazioni scintillanti di arguzia, spesso
molto piu facete di tutte le sue
Facezie. I mari di Grecia percorsi
sognando di Ulisse, il fasto delle
corti d'Oriente, le belve africane, i
fiumi immensi, «et per Nilum horrifici
illi anguigeni crocodiliw, si alternano a
discussioni erudite sulle iscri- zioni
delle Piramidi nelle lettere agli amici
e nel taccuino di viaggio di quel
bizzarro e geniale archeologo che fu
Ciriaco dej Piz- zicolli d'Ancona. E forse
ii grande Poliziano ha scritto le sue
pa gine piu belle nella prolusione al
corso sugli Analitici primi d' Aristotele e
nella lettera alPAntiquario sulla morte del
Magnifico Lorenzo. Lettere dialoghi e
trattati, orazioni e note autobiografi-
che, sono i monumenti piu alti della
letteratura del Quattro cento, e tanto
piu efficaci quanto meno 1'autore si
chiude nelle i. «La novella era
un genere troppo definite, troppo
condizionato nelle sue linee essenziali da
una tradizione ormai piu che secolare,
perche il Piccolomini potesse eluderne il
colorito e gli schemi» (G. PAPARELLI,
Enea Silvio Piccolomini, Bari, Laterza,
1950, p. 94). forme tradizionali, quanto
piii si impegna nel problema concrete
che lo preoccupa,1 o si accende di
passione politica nel discorso e
nell'invettiva, o si dimentica nella
confessione e nella *lettera. Poliziano,
che della produzione letteraria del suo
tempo fu il critico piu accorto e
consapevole, e che ha dichiarato con
grande precisione i suoi princlpi
dottrinali nella prefazione ai Miscellanea,
nella lettera al Cortese e, soprattutto,
nella grande prolusione a Stazio e
Quintiliano, ha visto molto bene come
alPumanesimo fossero intrinsiche particolari
maniere espressive. Proprio nelle prime
lezioni del suo corso sulle Selve di
Stazio, con la cura mi- nuta che
gli era propria, si sofferma a
dissertare abbastanza a lungo intorno a
due forme letterarie tipiche, Fepistola e
il dia- logo,2 accennando insieme al genere
oratorio, da cui gli altri due si
distaccano pur non senza svelare un'intima
parentela. L'epi- stola — egli dice —
e il colloquio con gli assenti, siano
essi lon- tani da noi nello spazio
oppure nel tempo: e vi sono due
specie di lettere, scherzose le une,
gravi e dottrinali le altre («altera
ociosa, gravis et severa altera))).3 Ma
1'epistola deve essere sempre i. In
una compilazione erudita come i Dies
geniales di Alessandro d'Ales- sandro la
discussione filologica si inserisce con
eleganza fra il « ritratto» e il «ricordo»
senza togliere a questi alcuna grazia,
cosi che la discus sione di un
testo classico si colloca nella descrizione
di un compleanno del Pontano o di
una cena di Ermolao Barbaro, o fa
seguito a una lezione romana del
Filelfo (cfr. BENEDETTO CROCE, Varietd di
storia letteraria e civile, n, Bari,
Laterza, 1949, pp. 26-33). 2. A
proposito del dialogo e dell'epistola come
forme caratteristiche dell'Umanesimo e da
vedere quan to dice WALTER RttEGG,
Cicero und der Humanismus, Formate
Untersuchun- gen iiber Petrarca und
Erasmus, Zurich, Rhein-Verlag, 1946, pp.
25-65, anche se a proposito della sua
tendenza a ricondurre tutto a Cicerone
e da tener presente la nota che
Croce stese appunto sull'opera del Rxiegg
(Mommsen e Cicerone, in Varietd cit.,
pp. 1-12). 3. II com- mento del
Poliziano e nel ms. Magliab. vn, 973
(Bibl. Naz. Firenze). II testo in
questione e a c. 4V-5V («est ergo
proprie epistola, id quod ex Ciceronis
. . . verbis colligimus, scriptionis
genus quo certiores fa- cimus absentes
si quid est quod aut ipsorum aut
nostra interesse arbitremur. Eiusque tamen
et aliae sunt species atque multiplices,
sed duae praecipuae . . . altera
ociosa, gravis et severa altera. Atqui
neque omnis materia epistolis accommodata
est... Brevem autem concisamque esse
oportet simplicis ipsius rei expositionem, eamque
simplicibus verbis. Multas epistolae inesse
convenit festivitates, amoris significationes,
multa proverbia, ut quae communia sunt
atque ipsi multitudini accommodata. Qui
vero sententias venatur quique adhortationibus
utitur nimiis, iam non epistolam, sed
artificium oratorium . . . Epistola
velut pars altera dia- logi. . .
maiore quadam concinnatione epistola indiget
quam dialogus . . . imitatur enim
hie extemporaliter loquentem . .. at epistola
scribitur»). XII INTRODUZIONE breve
e concisa, semplice, con semplici
espressioni, ricca di brio, di
affettuosita, di motti, di proverbi (amulta
proverbia, ut quae communia sunt atque
ipsi multitudini accommodata»). Ne la
lettera deve prendere un tono troppo
sentenzioso e ammonitorio, altri- menti non
si ha piu una lettera ma una
elaborata orazione («iam non epistolam, sed
artificium oratorium))). L'epistola e come
la battuta singola, e die rimane
quasi sospesa, di un dialogo («velut
pars altera dialogi»), anche se deve
essere formalmente piu cu- rata del dialogo,
che per essere schietto deve imitare
ii discorso improwisato, mentre Tepistola e
per sua natura discorso medi- tato e
scritto. In tal modo un carteggio
viene ad essere un dia logo compiuto
e vario; e non va dimenticato come
proprio il cu- rioso epistolario del
Poliziano ci offra un esempio
caratteristico di simili colloqui. Non
a caso, con la sua grande sensibilita
critica, il Poliziano batteva proprio su
queste forme: ad esse infatti si pu6
ricondurre quasi tutta la piu significativa
produzione latina in prosa del Quat trocento,
poiche anche il diario, il taccuino
di viaggio, si confi- gura di
continue come lettera ad un amico.
Cosi, per ricordare ancora V Itinerarium di
Ciriaco d'Ancona, noi vi troviamo ripor-
tati di peso i temi e le
espressioni medesime delle epistole.1 6
stato detto, ma non del tutto
giustamente, che «PUmanesimo fu una
rivoluzione formale»;3 in verita la
profonda novita for- male aderiva
esattamente a una rivoluzione sostanziale
che fa- cendo centro nella ((conversazione
civile)), nella «vita civile)), po-
i. Itinerarium: «ego quidem interea magno
visendi orbis studio, ut ea quae
iamdiu mihi maximae curae fuere antiquarum
rerum monumenta undique terris diffusa
vestigare perficiam . . .»; «Hinc ego
rei nostrae gratia et magno utique et
innato visendi orbis desiderio ...» Epist.
Bo- ruele Grimaldo (ins. Targioni 49,
Bibl. Naz. Firenze): «cum et a
teneris annis summus ille visendi orbis
amor innatus esset ...» Del resto
tutta 1' opera di Ciriaco e una serie
di variazioni di questo appassionato motivo:
summus ille visendi orbis amor, antiquarum
rerum monumenta vestigare, quae in dies longi
temporis labe . . . collabuntur .
. . litteris mandare. La sete di
conoscere il mondo, il bisogno di
vincere spazio e tempo, di riconqui-
stare ogni piu lontano frammento d'umanita
e di sottrarlo alia morte, e insieme
questo senso concrete del passato trovano
in lui una espres- sione singolare.
Nella medesima epistola a Leonardo Bruni
abbiarno in sieme notizia di un'iscrizione
inviata da Atene (ex me nuper
Athenis..,) e della difesa di Cesare
contro il Bracciolini spedita dall'Epiro
(ex Epyro hisce nuper diebus . .
.). 2. Cosl, appunto, il Riiegg, op. cit.y
p. 26 («der Humanismus ist eine
formale, nicht eine dogmatische Revolution»).
INTRODUZIONE XIII neva il colloquio
come forma espressiva esemplare.1 E se
la let- tera deve essere considerata
velut pars altera dialogi, Fattenzione si
polarizza sul dialogo: ed in forma di
dialogo e in genere il trat- tato,
di argomento morale o politico o
filosofico in senso lato, che rispecchia
la vita di una umana respublica e
traduce perfetta- mente questa collaborazione
voita a formare uomini ccnobili e li-
beri», che costituisce 1'essenza stessa
della humanitas rinascimen- tale. La quale
celebrandosi nella societa umana tende a
persua- dere, a far culminare ogni
incontro in una trasformazione degli altri
attraverso una riforma interiore raggiunta
per mezzo della politia litteraria.2-
Limiti e prolungamenti del colloquio ci
appa- iono da un lato la notazione
autobiogranca, dalTaltro il pubblico discorso,
1'orazione, che attraverso la polemica
arriva all'invettiva. I cancellieri fiorentini,
Salutati e Bruni, ci ofFrono esempi
insigni di questo intrinsecarsi di
letteratura e politica, di questa prosa
che deU'efficacia e potenza espressiva si
fa un'arma piu valida delle schiere
combattenti. La lode famosa di Pio II
alia saggezza di Firenze, e ai suoi
dotti cancellieri le cui epistole
spaventavano Gian Galeazzo Visconti piu di
corazzate truppe di cavalleria, non e
che la proclamazione del valore di
una propaganda fatta su un piano
superiore di cultura in una societa
educata ad acco- gliere e a
rispettare la superiorita della cultura.
L'incontro di po litica e cultura a
Firenze e a Venezia ritrova la
valutazione della «retorica» di un
Poliziano e di un Barbaro, e giova
a defimre un'epoca che cercava i suoi
titoli di nobilta al di fuori dei
diritti del sangue. La « virtu», che
non e certamente un bene ereditato, e
sempre intelligenza, humanitas., e cioe
consapevolezza e cultura. Anche quando,
nelle discussioni non infrequenti sulP
argomento, si riconosce il valore della
«milizia», s'intende una sottile dottrina,
ove il valore personale del capo e
intessuto di sapienza. Federigo da
Montefeltro — e poco ci importa se
il ritratto sia fedele — e
profondamente addottrinato, e sa che i
poeti descrivendo le bat- taglie possono
divenire anch'essi maestri delParte della
guerra. Alfonso il Magnanimo reca seco
al campo una piccola biblioteca, e
pensa sempre a poeti e a filosofi,
e sa che la parola bene ado- prata,
ossia veramente espressiva, e piu potente
di ogni esercito. i. C'& appena
bisogno di ricordare che si tratta
dei titoli delle opere di Matteo
Palmieri e del Guazzo. 2. E ancora
il titolo di un'opera signifi- cativa, quella
di A. Decembrio in cui si rispecchia
la scuola del Guarino. II suo motto,
racconta Vespasiano da Bisticci, era che
«un re non letterato, e un asino
coronato ». II che non significa, si
badi, che ser Coluccio fosse un vuoto
retore, o Alfonso un re da ser-
mone, ma che la cultura era, essa,
viva ed efficace e umana, e perfetta
espressione di una societa capace
d'accoglierla. L'uomo che nel linguaggio
celeb ra veramente se stesso («l'uomo si
manifesta uomo essenzialmente nella parola »),*
come si costi- tuisce in pienezza definendosi
attraverso la cultura (le litterae che
formano la humanitas), cosi raggiunge ogni
sua efficacia mondana mediante la parola
persuasiva, mediante la «retorica» intesa
nel suo significato profondo di medicina
dell'anima, signora delle pas- sioni,
educatrice vera dell'uomo, costruttrice e
distruttrice delle citta. Tutto e,
veramente, nel Quattrocento «retorica)), sol
che si ricordi che, d'altra parte,
«retorica» e umanita, ossia spiritua- lita,
consapevolezza, ragione, discorso di uomini;
perche', vera mente, il secolo
delPUmanesimo e il Quattrocento, in cui
tutto fu inteso sub specie humanitatis,
e humanitas fu umano colloquio, ossia
tutto il regno delle Muse figlie di
Mnemosine — che e il piu vero e
il piii bello dei miti. Con
semplicita francescana frate Bernardino da Siena,
che ve- deva in ser Coluccio un
maestro e in Leonardo Bruni un amico,
scriveva cristianamente le medesime cose:
«non aresti tu gran piacere se tu
vedessi o udissi predicare Gesu Cristo,
san Paulo, santo Gregorio, santo Geronimo
o santo Ambruogio? Orsu va, leggi i
loro libri, qual piu ti piace .
. . e parlerai con loro, ed
eglino parleranno teco; udiranno te e
tu udirai loro». E, come dice
altrove, le lettere ti faranno «signore».
II grande Valla par- lera di un
sacramentum\ il modesto Bartolomeo della
Fonte dira di un divinwn mimen: quel
«nume» che da agli uomini anozze e
tribunali ed are».2 Per questo le
litterae sono una cosa terri- bilmente seria,
e la responsabilita di un termine
bene usato & gravissima, e non
v'e posto per Fozio. Per questo la
poesia in senso vichiano e da
cercarsi la dove si traducono e si
consegnano i discorsi essenziali per la
vita delFuomo. i. Cosi FRANCESCO
FLORA, Umanesimo, « Letterature moderne», i,
1950, pp. 20-21. 2. Ecco — secondo
il Fonzio — quello che ottiene la
parola: «fidem inter se homines colere,
matrimonia inire, seque in una moenia
cogere viribus eloquentiae compulit».
INTRODUZIONE XV II Per tal
modo quella «poesia» che talora &
lontana dai versi e dalle novelle, e
presente ed altissima nella pagina di
un filosofo o nell'appassionata invettiva di
un politico. La dolcezza del dire
(dulcedo et sonoritas verborum), la luce
della forma (lux orationis), che si
invoca per ogni espressione di vera
umanita, vuol far «poe- sia» di ogni
umano discorso; e nel momento in cui
riesce a tanto toglie ogni privilegiato
dominio alle dettere oziose». Perfino un
oscuro erudito come Giovanni Cassi d'Arezzo
sa dirci che in tal modo
nell'eloquenza si unificano tutte le umane
attivita, e tutto in essa si umanizza
dawero, e non perche\ come taluno ha
fan- tasticato, si celebri solo il letterato
ozioso, ma al contrario perche 1'uomo
e presente in ogni momento dell'agire:
perche, faccia egli il matematico, il
medico, il soldato o il sacerdote,
sempre e in- nanzitutto e uomo, e
il suo sigillo umano imprime ad ogni
sua opera umanamente esprimendola, ossia
rivestendola della lux ora- tionis.*
Di qui Fimportanza centrale che
vengono ad assumere le trat- tazioni
sulla lingua, sulla sua storia, sulla
eleganza? ove la discus- sione grammaticale
si trasforma di continuo in discorso
finissimo di estetica: e quel trapassare
dal vocabolario, e magari dal reper-
torio ortografico — basti pensare al
Perotto o al Tortelli — nel- Panalisi
critica e nella dissertazione storica.
Mentre, contempo- raneamente, la storia,
che intende farsi vivo specchio della
a vita civile)), e per eccellenza eloquente
discorso, ossia prosa politica e trattato
pedagogico-morale. Bellissima cosa & infatti
— come af- ferma Leonardo Bruni —
raccontare 1'origine prima e il progresso
della propria citta, e conoscere le
imprese dei popoli liberi (est enim
decorum cum propriae gentis originem et
progressus, turn libe- i . « Quasi
unum in corpus convenerunt scientiae omnes,
et rursus tem- poribus nostris . .
. eloquentiae studiis studia sapientiae coniuncta
sunt» (da una lettera del Cassi al
Tortelli, contenuta nel Vat. lat. 3908
e pubbli- cata nel 1904 da G.
F. GAMURRINI, Arezzo e rUmanesimo, Arezzo,
Tip. Cristelli, 1904, p. 87, miscellanea
in onore del Petrarca dell'Accademia
Petrarca). 2. A proposito delle eleganze
del Valla scrivera il Cortesi, De hominibus
doctis, ed. G. C. Galletti, Florentiae,
Giovanni Mazzoni, 1847, p. 229: «
conabatur Valla vim verborum exprimere et
quasi vias ... ad structuram orationis».
XVI INTRODUZIONE rorum populorum...
res gestas cognoscere).1 E Paolo Cortesi,
in quel felice dialogo De hominibus
doctis (1490), che e una vera e
propria storia critica della letteratura
del secolo XV, appunto di- scorrendo
delle storie del Bruni, batte su
questo incontro della verita con
1'eleganza, che e tutt'uno con queH'armonia
di sapienza ed eloquenza che Benedetto
Accolti celebr6 quale dote precipua dei Fiorentini
e del Veneziani del suo tempo nel
dialogo De prae- stantia virorum sui
aevi. Per la stessa ragione per
cui tutto sembrava divenir dialogo, tutto
anche e libro di storia; e storia
e, ancora, colloquio con le eta
antiche, con i grandi spiriti del
passato. II Bruni nell'intro- duzione ai
Commentarii confessa che la grande
letteratura clas- sica fa si che i
tempi lontani ci siano piu vicini e
piu noti dei tempi nostri (mihi
quidem Ciceronis Demosthenisque tempera multo
magis nota videntur quam ilia quae
fuerunt iam annis sexaginta), e dichiara
che e compito della storia immettere
nella nostra vita e nel nostro
colloquio il passato, farlo vivo con
noi (quasi picturam quondam . . .
viventem adhuc spirantemque). Matteo Palmier
i in- nanzi alia vita di Niccol6
Acciaiuoli ci insegna che la storia e
una specie di immortalita terrena di
quanto in noi e, appunto, vita
mondana; la storia & culto e
salvezza di quella parte mortale che
le lettere redimono da morte dilatando
la societk umana oltre i limiti del
tempo e salvandola dalPoblio e dal
destino.2 Ill Si aprono qui,
tuttavia, a proposito della prosa latina,
due que- stioni fra loro strettamente
connesse e che sembrano in qualche
modo, gia nella loro impostazione, venir
contrastando con quei i. Cosi nel
De studiis et litteris (in HANS
BARON, Leonardo Bruni Aretino hu-
manistisch-philosophische Schriften, Leipzig, 1938,
p. 13). Una giusta valuta- zione
delPopera storica del Bruni presenta B.
L. Ullman, Leonardo Bruni and humanistic
historiography, « Medievalia et Humanistica »,
1946, 4, pp. 44-61 (e, per quanto
si e sopra osservato su retorica, politica
e storia, son da vedere i tre
saggi di HANS BARON, Das Erwachen des
historischen Denkens im Humanismus des
Quattrocento, «Hist. Zeitschrift», vol. 147,
1933; di NICOLAI RUBINSTEIN, The Beginnings
of Political Thought in Florence: A
Study in Mediaeval Historiography, « Journal
Warburg Inst. », v, 1942; di DELIO
CANTIMORI, Rhetoric and Politics in Italian
Humanism, «Journ. Warburg Inst.», i, 1937).
2. « Corpoream vero partem non om- nino
negligendam ducunt, sed tamquam suam in
terra recolendam, ideo- que desiderant
illam oblivioni et fato praeripere ...»
INTRODUZIONE XVII caratteri stessi
che si sono voluti definire: come,
infatti, parlare della «umanita» di una
produzione che si serviva di una
lingua che nessuno ormai usava e che,
dunque, gia nel mezzo espres- sivo poneva
come suo canone Timitazione; in che
modo una let- teratura mimetica, ricalcata
su modelli (cciceroniani», poteva ol-
trepassare i limiti della erudizione ?
Ma i due gravi problemi, del latino
umanistico e della imitazione classic, gia
tanto dibattuti, hanno oramai offerto anche
1'avvio a una soluzione. Quanto
infatti si obbietta intorno alPuso del
latino, in luogo del volgare, e ad
una presunta frattura che si opererebbe
rispetto alia tradizione trecentesca, deve
essere corretto con Posservazione che i
generi di prosa a cui ci riferiamo
— orazioni, trattati, epi- stole politiche,
dialoghi dottrinali — avevano sempre fatto
uso del latino. Non e quindi esatto
dire che da un presunto uso del
vol gare si torna al latino; e
vero invece che al latino medievale
defi nite barbarico, e cioe goto o
parigino, si oppone un altro latino
che si determina e si definisce
rispetto ai modelli classici. II quale
latino, che si dichiara — come dice
esplicitamente il Platina1 — integrate da
tutta la piu feconda tradizione
postciceroniana, ivi compresi i Padri della
Chiesa, intende rivendicare i diritti di
una lingua nazionale romana contro
Puniversalita di un gergo scola- stico
(lo stile parigino), ed innanzi tutto
nel campo di una pro- duzione
costantemente espressa in latino. Giustamente
il De San- ctis sottolineava la frase
del Valla che proclama lingua nostra
il latino vero, che si contrappone al
latino gotico delFuso medie vale. La
quale « nostra lingua romana» degli
umanisti, che si pre- cisa con
caratteri propri cosi rispetto al latino
classico come a quello barbaro, va
vista per quello che essa veramente
e, anche rispetto al volgare: «un
nuovo latino, in cui la complessita
antica cede il posto alia scioltezza
moderna)). II latino degli umanisti, lingua
veramente viva che aderisce in pieno
a una cultura afTer- matasi attraverso
una consapevolezza critica che si collocava
chia- ramente nel tempo defmendo i
propri rapporti cosl col mondo antico
come con il Medioevo; il latino
deigrandi umanisti, lungi dal rappresentare
una battuta d'arresto o un momento di
invo- i. Cosi nella prefazione alle
Vite, che riportiamo per intero. Rilievi
utili in proposito ha il Sabbadini
sia nella Storia del ciceronianismo
(Torino, Loescher, 1886), come nel Metodo
degli umanisti (Firenze, Le Monnier, 1920).
XVIII INTRODUZIONE luzione, si
colloca nella storia stessa del volgare.
«I1 latino inse- gnava al volgare
1'eleganza la misura la forza e
1'eloquenza, e il volgare imprimeva negli
scritti latini degli umanisti le leggi
del suo andamento piano, della sua
sintassi sciolta, dei suoi trapassi
intuitivi, della sua eloquenza interiore.
»* Fra il latino, in cui si
rispecchia pienamente tutto un atteggiamento
culturale, e il vol gare v'e una
collaborazione che del resto si traduce
quasi mate- rialmente nel fatto che
gli autori spesso scrivono 1'opera loro
in latino e in italiano. Non sempre
si e posto mente al fatto che
dal Manetti al Ficino gli stessi
trattatisti, siano pur filosofi, stendono
anche in volgare le loro meditazioni.2
E come il loro latino e davvero
una lingua low., cosi il volgare che
adoperano non e per nulla oppresso da
una imitazione artificiosa di modelli
classici. Giungiamo cosi a quello che
forse e il punto piu delicato ad
intendersi dell' atteggiamento di questi quattrocentisti:
Vimita- zione degli antichi. Che la
posizione assunta dagli umanisti ri- spetto
agli autori classici sia alimentata da
una preoccupazione storica e critica; che
essi siano dei filologi desiderosi innanzi
tutto di comprendere gli autori del
passato nelle loro reali dimension! e
nella loro situazione concreta: e cosa
ormai in complesso pa- cifica. Ora
gia questo defmisce il senso di
quella imitazione^ che indica un
atteggiamento molto caratteristico. L'Accolti
dichiarera nettamente la parita di valore
fra i nuovi autori e i classici.
Poli- ziano nella polemica col Cortesi,
che e un testo capitale, confu- tera
tutte le istanze del ciceronianismo, e
proclamera il valore di un'intera
tradizione aff errata nel suo sviluppo, riven
dicando il senso di tutto il periodo
piu tardo della letteratura romana («
neque autem statim detenus dixerimus quod
diversion sit»). Ma dira so- prattutto
1'enorme distanza fra una poesia che
fiorisce come li- bera creazione su
una cultura meditata e fatta proprio
sangue, e I'imitazione pedestre — ilia
poetas facit, haec simias.3 1.
RAFFAELE SPONGANO, Un capitolo di storia
della nostra prosa d'arte (La prosa
letteraria del Quattrocento), Firenze, Sansoni, 1941,
p. 3, p. 10 ecc. 2. E
cosi sono spesso notevoli le version!
di scrittori celebri come lati- nisti:
TAurispa che traduce Buonaccorso da
Montemagno, Donate Ac- ciaiuoli che
volgarizza il Bruni, e cosi via.
3. 6 interessante ritrovare, distesi
e volgarizzati, i concetti di un
Valla e di un Poliziano negli scrit
tori francesi del '500. Per esempio
Joachim du Bellay, scrivendo a meta
del sec. XVI, dopo aver tratto dal
Valla il concetto che Roma fu grande
per la lingua ^imposta all'Europa non
meno che per 1'impero (« la gloire du
peuple Romain n'est moindre - comme a
dit quelqu'un - en Tamplifacation
INTRODUZIONE XIX L'Umanesimo fu in
questa singolare « imitazione-creazione », come
1'ha chiamata il Russo:1 umanita fatta
consapevole attra- verso il rapporto
stabilito con gli altri uomini nell'operoso
sforzo di raggiungere una sempre pifc
alta forma di vita. Di qui, appunto,
il particolare carattere delle sue piii
felici espressioni letterarie. EUGENIO
GARIN de son langaige que de
ses limites»)> eccolo riprendere Poliziano:
«im- mitant les meilleurs aucteurs . . .,
se transformant en eux, les devorant,
et apres les avoir bien digerez, les
convertissant en sang et nouriture ».
Solo cosl 1'imitazione e giovevole allo
scrittore ; « autrement son immitation res-
sembleroit celle du singe ». Cfr. BERNARD
WEINBERG, Critical prefaces of the French
Renaissance, Northwestern University Press,
Evanston, Illinois, 1950, pp. 17 sgg.
i. LUIGI Russo, Problemi di metodo
critico, Bari, Laterza, I95Q2, PP. 126
sgg. . GARIN, Eugenio Antonio Nacque a Rieti il 9 maggio
1909, figlio di Francesco e di Teresa Barbagli. LA FORMAZIONE Il
nonno, intendente di Finanza, si era trasferito dalla Savoia in Toscana con
l’Unità d’Italia; la madre era originaria di San Giustino nel Valdarno; il padre
– allievo di Girolamo Vitelli, in rapporti amichevoli con Giorgio Pasquali, che
scrisse il suo necrologio su Atene e Roma – era un giovane e valente filologo,
con particolare interesse per la storia del romanzo greco, per Teocrito e per i
commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura e quasi improvvisa – morì il
26 luglio 1920, a poco meno di quarant’anni – ne stroncarono la carriera e
costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente, pesanti responsabilità.
Garin ebbe, anche per questo, un'infanzia e un'adolescenza assai difficili e
tormentate, che ebbero un peso nel rafforzare i toni disincantati e pessimisti
del carattere, controllati, in genere, dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti
però a esplodere nei momenti di particolare amarezza o di maggior
contrasto con i tempi in cui gli toccò di vivere e di lavorare. Fin
da quegli anni – duri e mai dimenticati – comprese però quale era la sua
vocazione e individuò nei libri, e in uno studio assiduo e «disperatissimo», la
bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia, la propria vita: bruciando le
tappe, si iscrisse a soli 16 anni, nel 1925, alla facoltà di lettere e
filosofia dell'Università di Firenze e si laureò col massimo dei voti in
filosofia il 25 giugno 1929 con una tesi su Joseph Butler, preparata sotto la
guida di Ludovico Limentani. A Firenze aveva compiuto anche gli studi
elementari e medi, frequentando il Liceo Galilei, nel quale aveva insegnato il
padre e dove incontrò Maria Soro, nata a Sassari il 20 agosto 1908, che sarebbe
poi diventata sua moglie, con rito civile, il 17 luglio 1930. Garin
era nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella città del padre, che
come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta l’Italia; ma si
considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un ricordo assai vivo
degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella facoltà di lettere
di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto di vista sia
personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì rapporti
con personalità come Pasquali, e conobbe compagni di studi ai quali restò
legato tutta la vita, italiani e non italiani: Jacob Teicher, Nicolai
Rubinstein, Cesare Luporini, il quale, nel 1979, rievocando gli anni della sua
formazione (Qualcosa di me stesso, in Cesare Luporini 1909-1993, a cura di M.
Moneti, numero speciale de Il ponte, LXV [2009], 11), ricordò come il giovane
Garin eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei
per maturità e sapere. In quegli stessi anni, Garin conobbe due
maestri che incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità
intellettuale e scientifica: Francesco De Sarlo e, soprattutto, Limentani, che
lo avviò agli studi sull'Illuminismo inglese pubblicati nei primi anni Trenta,
confluiti poi nel volume L'Illuminismo inglese. I moralisti (Milano
1942). L'INSEGNAMENTO NEI LICEI E I PRIMI
SCRITTI Dopo aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate negli
anni 1929-30 e 1930-31, Garin, ottenuta nel 1930 l’abilitazione in storia e
filosofia riuscendo tredicesimo nella graduatoria generale, fece nel 1931 il
concorso per l'insegnamento di filosofia e storia nei licei per «sedi
determinate», e lo vinse, dopo essere stato esaminato da una commissione
presieduta da Augusto Guzzo. Prese servizio il 16 settembre dello stesso anno
come professore straordinario di filosofia e storia presso il Liceo scientifico
Stanislao Cannizzaro di Palermo, dove rimase fino al 15 settembre 1934, quando
– dopo molti tentativi giustificati da motivi sia familiari sia scientifici –
fu trasferito a Firenze per insegnare, come professore ordinario, filosofia e
storia al Liceo scientifico Leonardo da Vinci. Gli anni palermitani
furono assai importanti e fecondi per Garin: per gli incontri umani e intellettuali
che fece e per le ricerche che condusse, preparando l'importante volume
Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, pubblicato a Firenze nel 1937,
ma già pronto fin dal 1935. Fu a Palermo che scrisse in gran parte il suo primo
libro di argomento umanistico, servendosi delle «eccellenti biblioteche
pubbliche» della città, e frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo
Reale, col «suo singolare fondatore e direttore, il dottor Amato Pojero,
l'amico di Giovanni Gentile e primo editore dell'Atto puro, il bizzarro
'filosofo' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla
per scritto» (Una collaborazione lunga una vita, in Belfagor, LIV [1999], 6, p.
732). A spostare Garin dagli studi iniziali sull'Illuminismo inglese
verso le ricerche umanistiche e rinascimentali contribuì una pluralità di
fattori: certo agirono la presenza, e il magistero, di Limentani, che in quegli
stessi anni stava studiando il Bruno 'inglese' sulla scia della importante
monografia su La morale di Giordano Bruno, pubblicata nel 1924. Ma alla
base di quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la
centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella
ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la
dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il
significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, Garin, in un testo degli
anni Settanta (lettera a Saveria Chemotti del 16 febbraio 1978, la cui minuta è
conservata presso il Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa), a
segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si
concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia
filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione
sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia
del mondo. È in questo contesto che si inseriscono sia il libro su Pico
sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica (in
La Rinascita I [1938], 4, pp. 100-146) in cui questo intreccio di motivi
si presenta in modo esemplare, con un netto primato della problematica di tipo
religioso – anzi esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un
consapevole distacco dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle
risalenti a Gentile. Come testimoniano anche i molteplici richiami
alla interpretazione di Konrad Burdach – messa in circolazione in Italia, nel
1935, anche da Delio Cantimori –, a quella data Garin era su un'onda assai diversa
rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò molto i suoi
lavori su Giovanni Pico, invitandolo a collaborare al Giornale critico della
filosofia italiana, sul quale aveva cominciato a pubblicare fin dal 1932 con un
saggio su L’etica di Giuseppe Butler (XXXIII, pp. 281-303). Non si
trattava solo di una distanza di ordine storiografico, evidente, per esempio,
nella importanza che già in questi anni Garin cominciava ad assegnare alla
tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato, sia pure con
toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni (il saggio su Una fonte
ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero umanistico, destinato a
essere ripreso e profondamente modificato nel 1958, uscì originariamente in La
Rinascita, III [1940], pp. 202-232). Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una
forte distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai
principali riferimenti filosofici di Garin in questi anni: René Le Senne,
Gabriel Marcel, Etienne Gilson, Louis Lavelle, forse il più importante di
tutti, quello al quale si sentì a lungo più vicino. Sono tutti
autori di area francese e di matrice cristiana, convergenti, sia pure con toni
differenti, nella prospettiva di un esistenzialismo religioso che appare ben
presente negli scritti storici di Garin sul Rinascimento di questo periodo, pur
mediati, e filtrati, da una armatura di carattere filologico ed erudito molto
forte già in quegli anni (ne è una conferma il ricco e aggiornatissimo corredo
bibliografico del libro su Giovanni Pico). Mancano, invece – con l'importante
eccezione di Ernst Cassirer, presente già nel libro del 1937 – riferimenti
altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare da Martin
Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di altri
importanti esponenti della generazione di Garin, come Luporini, suo amico fin
dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici che
per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico. È una mancanza
che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese fu una
componente centrale della formazione di Garin, e che essa – insieme al pensiero
inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua attività
scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di
presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta
insieme alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gli
Enciclopedisti. Il primato della cultura di matrice francese era, del
resto, un tratto diffuso della generazione di Garin e, in modo particolare,
dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di
notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di cui in quegli anni era
bibliotecario e direttore Eugenio Montale –, e la Biblioteca Filosofica di
Arrigo Levasti e Piero Marrucchi, una personalità notevole, alla quale Garin
rimase sempre legato e che ricordò in pagine molto intense, rievocando
quell'ambiente e quell’atmosfera, in cui viveva il ricordo di una figura come
Carlo Michelstaedter, alla quale anche Garin dedicò, a più riprese, molta
attenzione. Tornato a Firenze alla fine del 1934, nell'anno accademico
1935-36 ebbe un incarico di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e
filosofia. Nel 1937 ottenne, poi, la libera docenza in storia della
filosofia. L’INCARICO DI FILOSOFIA MORALE E GLI STUDI SUL RINASCIMENTO E
GIOVANNI PICO Nel 1938, quando per effetto delle leggi razziali
Limentani dovette lasciare la cattedra di filosofia morale, la facoltà decise
di non chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a Garin,
come il miglior discepolo di Limentani. Nei modi possibili in quei tempi
difficili, Garin espresse pubblicamente la sua fedeltà al maestro con cui si
era formato, tenendo, il 30 gennaio 1940, una conferenza presso la Biblioteca
Filosofica di Firenze in cui attaccò a fondo ogni forma di storicismo –
identificato con il relativismo – rivendicando, da un lato, il valore della
lotta, e dell'‘ostacolo’, sulla scia di Le Senne; ribadendo, dall'altro, e con
massima energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e
persecutore, che nessuna Provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo,
risarcire. Dopo la morte di Limentani, ne redasse poi un commosso necrologio,
pubblicato in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Ludovico
Limentani (1884-1940), Firenze 1941). Aveva, intanto, cominciato a
partecipare a concorsi per ottenere una cattedra universitaria, che riuscì a
vincere nel 1949, quando risultò primo ternato in quello per professore
straordinario alla cattedra di storia della filosofia dell'Università di
Cagliari (la commissione era formata da Antonio Aliotta, presidente, Eustachio
Paolo Lamanna, segretario, e da Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Ugo Spirito).
Precedentemente, nel 1938, nel 1942 e nel 1949, aveva partecipato, venendo
dichiarato «maturo», a tre altri concorsi, banditi, rispettivamente,
dall'Università di Messina e dall'Università di Napoli (quest’ultimo si svolse
in due tornate, per l’annullamento, a causa di un ricorso, dei risultati della
prima). Difficili sul piano accademico e anche personale, quegli anni
furono però fertilissimi dal punto di vista scientifico: oltre a una serie di
saggi assai importanti usciti, in genere, su La Rinascita diretta da Giovanni
Papini (con il quale ebbe, allora, un rapporto intenso), Garin pubblicò due
importanti antologie: la prima, Il Rinascimento italiano (Milano 1941),
commissionatagli da Gioacchino Volpe e stampata nella collana dell'ISPI; la
seconda, Filosofi italiani del Quattrocento (Firenze 1942), uscita come
pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si tratta, in
entrambi i casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma profonda
negli studi rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto della
inclinazione dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con precisione
quali fossero gli atteggiamenti filosofici e politici di Garin in quel momento:
una posizione nettamente antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla
critica del tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei
primi saggi rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e ora
pienamente dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani del
Quattrocento, a cominciare dalle pagine scritte sulla morte, discorrendo di
Coluccio Salutati. Sono anni, e temi, nei quali la nota religiosa
risuona con particolare forza e vigore, e non solo nei testi sull'Umanesimo.
Nel 1947 pubblicò per una piccola casa editrice fiorentina, Cya, una antologia
di testi tolstoiani – Ultime parole –, nei quali è affermato con nettezza
il primato della 'riforma interiore' come condizione di ogni riforma di tipo
economico e sociale. Sarebbe stato, del resto, lo stesso Garin a ricordare nel
1954 che anni prima, nel pieno della guerra, aveva attraversato una vera e
propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di Tolstoj. Sul
terreno scientifico è una inclinazione che si rivela, oltre che sul piano del
linguaggio, nel forte ruolo assegnato in quegli anni a fra Girolamo Savonarola,
un autore che gli fu sempre carissimo, ma che nel 1943 arrivò ad affiancare al
Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze.
In questi anni spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione
dei testi fondamentali di Giovanni Pico della Mirandola: De hominis dignitate,
Heptaplus, De ente et uno (Firenze 1942); Disputationes adversus astrologiam
divinatricem (ibid. 1946-52) un'impresa imponente, che contribuì a mutare in
profondità sia l'immagine tradizionale di Pico, sia quella corrente del
Rinascimento, ponendo le basi della interpretazione generale che Garin avrebbe
proposto nel libro del 1947, Der italienische Humanismus, pubblicato nella
collana diretta da Ernesto Grassi per l'editore Francke di Berna (ristampato
poi nel testo originale presso Laterza nel 1952). Furono lavori resi
possibili anche dal forte sostegno di una figura singolare, ma più importante
di quanto in genere si pensi, della cultura italiana di quegli anni: Enrico
Castelli, il quale – oltre a pubblicare le traduzioni di Pico nell'ambito
dell’Edizione nazionale dei classici del pensiero italiano promossa dal Regio
Istituto di studi filosofici da lui presieduto e del quale Garin fu anche
segretario della sezione toscana –, si impegnò con molta tenacia e costanza, a
tutti i livelli, per fargli ottenere un distacco dal Liceo scientifico Leonardo
da Vinci che gli consentisse di svolgere con maggiore tranquillità il suo lavoro.
IL DOPOGUERRA, LA SCOPERTA DI GRAMSCI, LE CRONACHE Garin
sottolineò più volte che non c'è un rapporto meccanico tra storia della cultura
e storia politica, precisando, per esempio, che la crisi e la fine
dell'idealismo crociano si compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è però dubbio
che con la fine della guerra sia iniziata una nuova fase della sua lunga vita
sul piano sia intellettuale sia politico. Dopo un periodo connotato
dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico (come appare chiaro
dagli articoli che nel 1946 pubblicò sull'Italiano), si avvicinò infatti, sia
pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai iscriversi a
esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei
principali intellettuali di riferimento. Alla base di questo netto
spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura
politica. Sul primo punto, fu decisivo, nel 1947, l'incontro con le
Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la
rivista di cui, dal 1946, era diventato redattore – cioè, in effetti,
direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe continuato lungo
tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche umanistiche sia
sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di Laterza nel 1955
(ma preparate dagli articoli usciti alla fine degli anni Quaranta su Leonardo e
sul Giornale critico della filosofia italiana fondato da Gentile e diretto
allora da Ugo Spirito). Dal punto di vista strettamente politico,
per quanto possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai
venuto meno, interesse religioso di Garin: era infatti profondamente laico, non
laicista. Riteneva necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e
ciò che è di Dio, anzi pensava che dalla confusione dell'uno e dell'altro
potesse derivare una degenerazione di entrambi. Dopo il 18 aprile 1948, il
partito della Democrazia cristiana gli apparve come la realizzazione concreta
di questo rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di quelle tendenze che
durante il Regime si erano espresse nel clerico-fascismo, contribuendo, a suo
giudizio, a corrompere il carattere morale degli italiani. Perciò considerò
negativamente l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione repubblicana, ma
fu per questi stessi motivi che si avvicinò al Partito comunista: per una
scelta di ordine anzitutto morale e, alle origini, religiosa. Pur nel dissenso
con il Partito comunista nella valutazione dell'articolo 7, Garin vide in esso
la forza più intransigentemente schierata a favore di una concezione laica
dello Stato e, in genere, della vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una
nuova forma di clerico-fascismo, dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica
sia per una autentica esperienza religiosa. I due piani – quello
culturale e quello politico – si intrecciarono e si potenziarono a vicenda,
nella concretezza del suo lavoro, sia in quello sul Rinascimento sia nelle
ricerche sulla filosofia italiana. A quest'ultima aveva già dedicato, per
incarico di Gentile, due volumi pubblicati da Vallardi nel 1947 (si tratta
dell'opera: La filosofia, da non confondere con la Storia della filosofia
uscita per i tipi di Vallecchi nel 1945: uno de suoi libri più belli, più
vivaci, più liberi). Le Cronache di filosofia italiana del 1955
erano, in effetti, un'altra cosa: una sorta di autobiografia di una intera
generazione, quella nata al tornante del primo decennio del secolo – la stessa
di Norberto Bobbio, nato anch'egli, come Garin, nel 1909, e autore, nello
stesso 1955, di Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della
loro generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due
intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la necessità
di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista diversi e con
strumenti differenti. In Garin, assai più che in Bobbio, era infatti presente
la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La filosofia come
sapere storico (Bari 1959) si conclude con un lungo saggio su Gramsci, nato
come relazione al primo Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma l'anno
prima, ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di uomini
e cose, come Palmiro Togliatti rilevò, nel 1955, nella sua recensione a
Cronache di filosofia italiana (Rinascita, 1955, n. 6). Non solo: la
lezione di Gramsci, in forme assai mediate e controllate, è visibile anche
negli scritti che Garin dedicò al Rinascimento negli anni Cinquanta e fino alla
fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Nonostante che, in questo caso, i
giudizi di Gramsci e Garin fossero, proprio nel merito, profondamente
differenti. L’UMANESIMO CIVILE, IL ’68, IL TRAMONTO DI UN
MONDO Quando si parla di Eugenio Garin si pensa, in genere, alla sua
interpretazione del Rinascimento come 'Umanesimo civile'. È giusto, ma
riduttivo per due ordini di motivi: in primo luogo, essa svolge funzioni e
ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti storico-politici; in
secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta Garin riformulò in modo
profondo la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone
progressivamente laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in
questo senso è fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali dal
14. al 18. secolo, Roma-Bari 1975: uno dei suoi lavori più importanti, insieme
a La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, uscito
per i tipi di Sansoni nel 1961, nel quale spicca in apertura il saggio –
capitale dal punto di vista dell'Umanesimo civile – su I cancellieri umanisti
della Repubblica fiorentina da Coluccio Salutati a Bartolomeo Scala, pubblicato
originariamente in Rivista storica italiana, LXXI [1959], pp.
185-209). All'interpretazione del Rinascimento come Umanesimo civile
Garin lavorava, in effetti, fin dagli anni Trenta, in convergenza con le
ricerche di Hans Baron, del quale nel 1938 fece pubblicare su La Rinascita un
importante saggio. Ma allora esso aveva una funzione parallela, anzi
secondaria, rispetto ai motivi ermetici che Garin tendeva maggiormente a
valorizzare, anche in relazione a quell'esistenzialismo religioso nel quale
allora si riconosceva. Negli anni Cinquanta e Sessanta il quadro mutò in modo
deciso, e l'Umanesimo civile diventò il motivo dominante della sua
interpretazione, come appare dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori,
Prosatori latini del Quattrocento(Milano-Napoli 1952). I motivi messi a fuoco
nella seconda metà degli anni Trenta erano ripresi, e anzi energicamente
sviluppati, a cominciare dalle tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò nei
primi anni Cinquanta due saggi fondamentali; ma essi ora venivano riformulati
(per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio sull'astrologia) ed inseriti
in una prospettiva che privilegiava, in primo luogo, la dimensione mondana,
terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –, dando rilievo centrale al
problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e 'vita activa', e valorizzando
in questa luce i grandi cancellieri fiorentini come Coluccio Salutati e
Leonardo Bruni. Ne scaturì, in quegli anni, una nuova immagine del
Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale discipline come la retorica,
l'arte della memoria o esperienze filosofiche prima trascurate, o non comprese
in modo adeguato, come, per esempio, il lullismo. Su questo sfondo,
Garin si pose in termini nuovi rispetto agli scritti degli anni Trenta anche il
problema della genesi e dei caratteri della scienza moderna, sforzandosi di
«mostrare come un moto di cultura strettamente legato nelle sue origini alla
vita delle città italiane fra Trecento e Quattrocento debba considerarsi una
delle premesse del rinnovamento scientifico moderno» (come scriveva nella
Premessa al volume Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, p. V,
pubblicato con Laterza nel 1965: una linea di ricerca, sia detto tra parentesi,
che non ebbe ulteriori sviluppi, anche per i mutamenti che, di lì a poco,
avrebbero sconvolto il mondo storico, coinvolgendo a fondo anche il mondo
storiografico). In questa accentuazione della dimensione civile agì
certamente la lezione metodica di Gramsci, che appare con ancor maggiore
chiarezza nei lavori che Garin dedicò, negli stessi anni, alla filosofia
contemporanea, specie a quella italiana. Sono importanti, da questo punto di
vista, sia La cultura italiana tra '800 e '900 (Bari 1962); sia, e soprattutto,
quello sugli Intellettuali italiani del XX secolo (Roma 1974), che costituisce,
per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza, di Garin nella
cultura, e anche nella politica, italiane. Se si considera il corso
della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono proprio quelli gli
anni in cui Garin riuscì a stabilire, nel complesso, un rapporto positivo con
il proprio tempo storico, e non solo per i molti riconoscimenti pubblici che
ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università, in Italia e
all’estero. Nel 1952 era diventato professore ordinario di storia
della filosofia medievale presso l'Università di Firenze (insegnamento che
aveva tenuto per incarico dal 1941 al 1945 e dal 1947-48 al 1948-49); nel 1955
era poi subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di storia della
filosofia presso la stessa Università. Riconoscimenti, e onori, altrettanto
importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo
dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', dal 1948 ne era
anche segretario generale; il 23 luglio 1965 fu eletto socio
corrispondente dell’Accademia dei Lincei, diventandone socio nazionale il 23
novembre 1979; il 10 luglio 1975 ricevette dalla British Academy la Serena
medal for Italian studies (gli ultimi italiani che l'avevano ottenuta –
scrisse, con orgoglio, il 5 luglio 1975 al direttore della Scuola Normale comunicandogli
la notizia – erano stati Roberto Longhi e Ranuccio Bianchi Bandinelli).
Al fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, Garin era, a suo
modo, un animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Negli anni
Cinquanta e per larga parte degli anni Sessanta riuscì a esserlo come non gli
era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando un'attività
scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui temi che
gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui intervenne
anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di Roma il 3
giugno 1960, pubblicandola poi in volume (La cultura e la scuola nella società
italiana, Torino 1960). Negli anni successivi la situazione mutò
profondamente; quell'equilibrio, sempre fragile e precario, si incrinò e Garin
si distaccò, progressivamente, fino a contrapporsi, dai movimenti culturali e
politici che, a cominciare dal 1968, avevano cominciato a scuotere il paese fin
dalle fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi
la vera e propria rottura, si produsse alla fine del 1971, quando – si legge in
una lettera del 16 novembre al preside della facoltà di lettere, Ernesto Sestan
(minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore) – fu costretto a
interrompere la lezione per il «contegno oltraggioso e provocatorio di uno
studente del 2° anno». Fu una scelta assai meditata, anche se amara,
quella di lasciare l’Università di Firenze, che era stata fin dagli anni giovanili
la sua Alma Mater, trasferendosi, nell'anno accademico 1974-75, alla Scuola
Normale Superiore di Pisa come professore – e anche questa scelta è
significativa – di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrisse il 22
giugno del 1974 al direttore della scuola, Gilberto Bernardini, sarebbe stata
quella «la conclusione migliore – certo la più onorevole – di un lungo
insegnamento» (minuta, ibid.). Questo non significa che da quel momento
si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare da quella
italiana. Anzi: nel 1983 pubblicò, con l'editore barese De Donato, un libro
importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l'Unità,
riprendendo in forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in
generale, la questione del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia del
Novecento, nelle sue varie diramazioni. Ma il libro non ebbe un successo
paragonabile a quello tributato nel 1974 al volume sugli Intellettuali italiani
del XX secolo. Nel giro di pochi anni, la situazione era profondamente mutata e
i temi trattati in quel testo, pur così importante, avevano perso peso e
rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai aprendosi, e su
vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione nazionale, nel pieno di
una crisi che investiva lo Stato italiano fin dalle fondamenta. Effettivamente,
un intero mondo stava cominciando a finire. Tanto più colpisce, in questa
situazione, il lungo saggio che nel 1991, in controtendenza, Garin dedicò
a Giovanni Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le Opere filosofiche.
Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli dell'insegnamento, nel 1984
era andato definitivamente in pensione, nel 1986 era diventato professore
emerito della Scuola Normale; nel 1988 aveva lasciato anche la presidenza
dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento assunta nel 1978. Era dunque
diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine
istituzionale, e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e l'atteggiamento
'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confrontò con Gentile nella
lunghissima Introduzione che premise ai testi, spiegando il senso della sua
scelta. Non era un'impresa facile: i rapporti di Garin con Gentile e con
Croce furono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con il
tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine
generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a
Gentile: basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia
del 1945, e accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere
come ne apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce.
Certo, come dimostrano le Cronache, il suo giudizio sul neoidealismo italiano
si approfondì col tempo e divenne assai più ricco e articolato; ma la distanza
di Garin dalla 'filosofia dello spirito' non venne mai meno, perché essa
coinvolgeva un punto centrale, allora e poi, della sua posizione.
Alle origini, le ragioni di quella scelta stavano precisamente qui: sul
piano filosofico Gentile apparteneva a quella filosofia della libertà, specie
di matrice francese, in cui il giovane Garin aveva riconosciuto il carattere
principale del pensiero del nuovo secolo e anche le proprie radici, sia
filosofiche sia religiose. Filosofia della libertà: cioè azione, praxis, atto,
volontà. Erano i motivi che erano presenti anche nel giovane Marx, quelli che
gli avevano fatto apprezzare Gramsci, sentire affine la ricerca dei Quaderni del
carcere, e che, nel volume del 1991, sottolineò anche in Gentile, vedendo anzi
nella sua lettura di Marx la via attraverso cui si era affermato nel nostro
paese il principio della praxis, dell'azione, della volontà. È per queste
stesse ragioni – strutturali, non contingenti – che Garin fu, invece, in
sostanza, lontano da Croce, pur apprezzandone il rapporto stabilito tra
politica e cultura e l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del
circolo spirituale; lo sentiva distante per l'incapacità di afferrare la
intima, e insuperabile, tragicità della vita; rifiutava la dissoluzione
dell'individuo empirico, che invece per lui era fondamentale.
Certo, con il tempo maturò un giudizio assai più ricco di quello espresso
negli anni Quaranta; ma alcuni elementi – in cui si esprimevano un distacco, e
un dissenso, perfino di ordine generazionale – non vennero mai completamente
meno. Nel 1966, in occasione del centenario della nascita di Croce, scrisse un
bel saggio sui suoi rapporti con Renato Serra (Serra e Croce, in Belfagor, XXI,
1, pp. 1-13) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ebbe esitazione a
schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo.
FILOSOFIA E AUTOBIOGRAFIA: ALBERTI Con il '68 iniziò una
profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere, in vari modi,
nel mondo storiografico, compreso quello di Garin, che operò mutamenti profondi
nella sua posizione, a cominciare dalla concezione dell'Umanesimo civile, che
nel ventennio precedente era stato il centro della sua interpretazione del
Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale; anzi una ideologia
nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come appare nel Ritratto di
Leonardo Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di Lettere,
Arti e Scienze di Arezzo, XL [1970-72], pp. 1-17 ), mentre assunsero rilievo
essenziale altri temi, altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco
della vita. La polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari
1976), che raccoglieva quattro lezioni tenute al Collège de France fra l'aprile
e il maggio 1975. Fin dall'inizio della sua attività Garin aveva dato rilievo
alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche, sistemandole, poi, nel
contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono centrali, con una
particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere astrologico. Alla
base di questo c'era, come sempre in Garin, un convincimento di ordine
teorico. A lungo era stato persuaso che nella cultura europea fosse
stata presente, e dominante, quella che egli chiamava la 'linea Pico-Sartre',
secondo cui l'uomo «non ha una natura (una "specie", una
"forma"), ma […] è un atto che si sceglie» (per riprendere una sua
battuta contenuta nella lettera a Leonardo Amoroso del 17 luglio 1991 [minuta
nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa]). Era un convincimento
coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del primato della
volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si infransero e
vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri fiorentini,
pensatori come Pomponazzi e, soprattutto, Leon Battista Alberti, sostenitori,
l'uno e l'altro, di una concezione totalmente disincantata dell'uomo e della
vita, ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna vicissitudine di uomini,
di cose, di sorti. E qui si può osservare come in un microcosmo in che modo
lavorava Garin, e quanto fosse profondo nella sua ricerca l'intreccio tra
autobiografia e storiografia, a loro volta sostenute da una posizione teorica
precisa, ma destinata, al tempo stesso, a importanti variazioni e mutamenti.
Alberti era stato infatti sempre al centro della sua attenzione, ma venne a
lungo inserito nella prospettiva dell’Umanesimo civile, mentre negli scritti
dell'ultimo periodo si configurò come uno dei principali esponenti di una
concezione che vede nell'uomo niente altro che un ludus deorum, per riprendere
l'espressione utilizzata da Platone nelle Leggi e ripresa nel De fato da
Pomponazzi. Sono precisamente questi temi, e queste espressioni (citate
puntualmente nello Zodiaco della vita, e rafforzate dalla scoperta che aveva
fatto di alcune Intercenali inedite di Leon Battista Alberti, pubblicate su
Rinascimentonel 1964), che attrassero Garin quando si convinse che la linea
Pico-Sartre si era infranta ed era stata sconfitta. Né è facile dire quanto in
queste posizioni storiografiche avesse inciso la crisi che fin dalla fine degli
anni Sessanta stava travagliando il mondo storico, dandogli progressivamente il
senso – e poi la persuasione – che una intera epoca della cultura europea stava
tramontando, dissolvendo quegli ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto
il cammino, specie nei momenti più gloriosi come il Rinascimento e
l’Illuminismo. In un intreccio profondo di autobiografia e
storiografia, le pagine dell'ultimo Garin sono solcate da toni assai
disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in questi scritti,
egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo forte era stata
la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della volontà perché
essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la sorgente originaria
della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa – nonostante tutto –
aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo essenziale della sua
esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di vivere, per quasi un
secolo. Quando morì, a Firenze il 29 dicembre 2004, non aveva
smesso di pensare all'utopia di un mondo diverso: come gli avevano insegnato a fare
i rappresentanti più eminenti dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta parte
della sua esistenza. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE E. G. Il
percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio, Prato,
Biblioteca Roncioniana, 4 maggio 2002, a cura di F. Audisio - A. Savorelli,
Firenze 2003 (si vedano in particolare i saggi di C. Cesa, Momenti della
formazione di uno storico della filosofia (1929-1947), pp. 15-34 e di C.
Vasoli, Gli studi di E. G. su Giovanni Pico della Mirandola, pp. 65-92); G. e
il Novecento, numero monografico del Giornale critico della filosofia italiana,
LXXXVIII [XC], (2009), 2; M. Ciliberto, E. G. Un intellettuale nel Novecento,
Roma-Bari 2011; E. G. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del
Convegno, Firenze, 6-8 marzo 2009, a cura di O. Catanorchi - V. Lepri, con
Premessa di M. Ciliberto, Roma-Firenze 2011; Il Novecento di E. G., Atti del
Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con
l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 25-27 febbraio 2010, a cura di S.
Ricci - G. Vacca, Roma 2011. Grice: “Don’t expect philosophical insight from
Garin. He is at most an amanuensis. But like Gentile, it is helpful, if you are
into minor philosophers, or minor figures, to go through the indexes of his
many compilations. As with Gentile’s Storia della filosofia italiana, Garin’s
is just as boring. Garin makes it more difficult in that he uses two or three
words which we don’t use at Oxford: ‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’
(‘intelletuali italiani del novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del
ottocento’). By these monickers, he is attempting to include as philosophers
people who we should not!” Eugenio Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords:
cicerone come umanista – umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento
– umanisti e il ritorno dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo
secolo del rinascimento – il ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista –
castelli e garin -- le griceianisme est un humanism!” humus, human, homo
sapiens, homo sapiens sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human,
umano, umanesimo – filosofia romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin –
umano, troppo umano – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685979254/in/photolist-2mRgKq7-2mRi7qi-2mQPiYS-2mQDMyN-2mQerAd-2mPPzb6-2mPXDFp-2mPF8UJ-2mPAuFE-2mPszkp-2mN8Hgb-2mLQ1Vx-2mLLyEe-2mLEyw7-2mKMuu9-2mPsfT9-2mKMqqn-2mKGTYe-2mKw3hq-2mKxnN1-2mKCnei-2mKAsyK-2mKgN49-2mHGgw3-2mKj9Vm-DndBhH
Grice e Garroni –
l’implicatura di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly: on lying, on
Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense perception
(‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la sua
attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come
intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo
lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica,
grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni
cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte. Insegna a Roma.
Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La
crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento
dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione
della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza
di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura
Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo
linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle
riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia
Einaudi.Cura Benedetto, Bottari, Melis,
Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non
speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni
artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad
una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza
del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la
portata iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che
trascendono lo stato empirico delle scienze e vivono operanti nel meglio degli indirizzi
novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte di senso). Altre
opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed estetica.
L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari, Laterza);
“Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza); “Pinocchio
uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla
"Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni); “Ricognizione della
semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso
e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica.
Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e il mentire”
(Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari,
Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro
Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo
letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà
di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti
sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Edoardo Bruno e
Alessia Cervini, Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno,
Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen
quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e
della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti
morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e
della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata del 1961, tratta da Rai
Teche, del programma TV "Arti e Scienze", in cui Garroni parla del
Bauhaus e intervista Zevi e Gropius
Presentazione della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica;
Intervista che riassume la nozione di estetica come "filosofia non
speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche. Treccani L'Enciclopedia
italiana". Legalità / Creatività.: Garroni legge Kant di Romeo Bufalo, in
Studi di estetica, Bologna. LORENZINI, Carlo (Collodi). - Nacque il 24
nov. 1826 a Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del
marchese Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina)
Orzali, figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri
(frazione di Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero
il terzogenito Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del
L., Ippolito. È probabile che il L. abbia frequentato le scuole
elementari a Collodi, dove risulta ospitato fino al 1836 dagli zii materni
Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate condizioni della famiglia a Firenze);
l'anno successivo, con il sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel
seminario di Colle di Val d'Elsa. Nell'agosto 1842 decise di interrompere gli
studi in seminario, iscrivendosi nel maggio dell'anno successivo al corso di
retorica e filosofia delle Scuole pie di S. Giovannino a Firenze. Terminato il
corso nell'autunno del 1844, trovò subito un impiego nella libreria Piatti di
Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi mantenere
agli studi. La libreria, anche casa editrice, era fra le più importanti
di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra i quali
G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato dal
giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di redigere
notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle novità
della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore
dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato
tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che già nel 1845 ottenne l'autorizzazione
alla lettura dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne
accompagnò le prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e
come critico musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da
C. Tenca, dove il 29 dic. 1847 apparve il primo articolo firmato del L.,
L'arpa. Nel marzo 1848 il L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio
Piatti, proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e
combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle
Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità
d'osservazione e descrizione. In estate il L. tornò a Firenze e dovette
trovarsi un altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla
malattia del padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per
interessamento di Aiazzi fu nominato "messaggiere" (segretario,
commesso) del Senato toscano e arrotondò il modesto stipendio con un'intensa attività
di collaborazione a diverse testate, in particolare, al periodico democratico
Il Lampione (1848-49) di cui fu tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi
articoli, per lo più non firmati, tra i quali spiccano alcuni pezzi
anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la serie di ritratti intitolata
"fisiologie" in cui già con matura incisività satirica tratteggiava
caratteri e tipi contemporanei, come quelli contrapposti del "codino"
e del "crociato" (cioè il falso volontario): in essi più che
"mazziniano sfegatato" (come lo definì Martini, p. 168), manifestava
tendenze repubblicane e democratiche derivate da Mazzini solo "in termini
generali" e in "modo indiretto" (G. Candeloro, C. Collodi nel
giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani, p. 68). Nella primavera
del 1849, con il ritorno dei Lorena nel Granducato, il L. dapprima rinunciò
all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma la sua
condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno dell'anno
successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La figlia
dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico milanese
l'Italia musicale, per il quale nel 1850 compì un lungo giro tra Emilia e
Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a
collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi
impegni giornalistici) e il 1852, quando perdette definitivamente il suo
impiego. Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si
intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del
periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I.
Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica
musicale, teatrale e letteraria (tra cui, nel 1854, una feroce stroncatura del
poema Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le prese di posizione
negative di F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino) e prose
umoristiche: tra l'altro, condusse una battaglia contro la pittura accademica
convergendo sulle posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T.
Signorini, A. Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo.
Il tutto "con uno stile rapido e di presa immediata, che si segnala per il
valore e la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere,
p. LXXX). Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico teatrale Lo
Scaramuccia, per il quale aveva reclutato collaboratori di livello, tra cui P.
Fanfani e il giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo
di Yorick. Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e
scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici
quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e
R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo
pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al programma della Lente,
1856). Il L. coltivava anche ambizioni di scrittore teatrale e nel
1853 compose il dramma in due atti Gli amici di casa ispirato a un episodio
reale e in cui si ritrovano evidenti influssi del romanzo Beppe Arpia di P.
Emiliani Giudici: tentò invano (1854-55) di farlo rappresentare, ma il testo fu
bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté pubblicarlo (Firenze 1856), ma
non riuscì a farlo mettere in scena. Sempre nel 1856 scrisse e pubblicò (ibid.)
Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica, nato come
opuscolo-guida per viaggiatori in occasione dell'inaugurazione della ferrovia
Leopolda, che collegava appunto Firenze a Livorno. In esso il L. contaminava e
stravolgeva, tentando un'inedita forma di giornalismo umoristico ispirato al
modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C. Collodi, Opere, pp. XV-XIX), il
genere "popolare" del romanzo e quello "borghese" della
guida di viaggio. Così la narrazione romanzesca, che procede in modo
parodisticamente caotico e con l'intreccio ingarbugliato della narrativa
d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o curiose
per il viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia.
Confortato dal buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si
dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I
misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857,
preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e
spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo
volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice alla
E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto fine del
romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina, moralmente e
politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente espressivo e
satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali. Durante la stesura
di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua intensa attività di
pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse l'incarico di
segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da G. Servadio,
facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze e
intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano
Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa nell'ottobre del 1857 la sua attività di
segretario della Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove
ripartì improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione
amorosa) la primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico
del periodico L'Italia musicale. Nella capitale sabauda nell'aprile del
1859 si arruolò nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla
guerra. Dopo l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu
posto in congedo e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a
collaborare come "cronista settimanale" al giornale La Nazione,
diretto dall'amico A. D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo
a B. Ricasoli. E proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli
venne chiesto di scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e
quella del governo toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri,
uscito (con la falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di
dicembre del 1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani
filopiemontesi, i plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione
di un Regno dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di
Napoleone III, a Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il
sig. Albèri ha ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a
Firenze alla fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del
professore bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando
come sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei
Toscani. Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e
di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato
della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La
Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi
successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione (dal 15 maggio 1860) del
quotidiano umoristico Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e
direttore (fino al marzo 1861, mentre il fratello Paolo ne era
l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione del giornale
interrotto nel 1849, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo
del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo
annessionistico. A questa amara e disillusa evoluzione politica
corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione
lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il
L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a
segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi,
nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté, nel giugno 1881,
chiese e ottenne di essere collocato a riposo. Le non onerose
incombenze del suo impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con
crescente intensità delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore
teatrale e, infine, di cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi
a Milano per contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu
cooptato come segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon
italiano, cui era collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di
Dante. Nel 1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di
Doccia, steso (probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della
fabbrica Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi
Ginori in occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a
Firenze. L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea
espositiva di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni
prima, era anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo
("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di
vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere, p.
XCIII). Sempre nel 1861, ne Il Lampione, apparve la commedia Gli estremi
si toccano, in seguito ampliata (probabilmente nel 1867) con il titolo La
coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno trasformismo, e in
novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli amici di casa,
rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di commedia in tre atti:
l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime consenso ricevette la
vivacità linguistica del testo. Al teatro il L. continuò a dedicarsi per
tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio (dal 1862 faceva parte
della Società d'incoraggiamento teatrale e il 23 sett. 1867 nella Gazzetta
d'Italia apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in
Italia) sia come critico e in qualità di autore. Nel 1870 pubblicò a Firenze la
commedia in tre atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al
teatro Niccolini nel 1872, rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio
quanto a sottolineare la vitalità della borghesia attiva rispetto
all'infiacchita e oziosa aristocrazia italiana. In quel periodo attese anche
alla stesura della commedia in quattro atti Antonietta Buontalenti, che non
risulta essere stata rappresentata; al 1872 risale inoltre la composizione
della commedia in due atti I ragazzi grandi, rappresentata con scarso successo
a Firenze nell'agosto dell'anno successivo. Subito trascritta in forma di
racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a puntate nel Fanfulla nella
primavera del 1873 con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal vero.
Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con cui
erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e
dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero"
che si prefiggeva il L., più che quello del naturalismo letterario, era quello
nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della
contemporanea pittura toscana. Del resto, anche nell'intensa attività
giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità al 1876 (in
particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e, dal 1871, nel Fanfulla),
la sua attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di
costume andò concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi,
sull'esame dei problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena
unificata, con attacchi sempre più ironici e velenosi contro personaggi e
provvedimenti politici (come M. Coppino e la sua legge sull'istruzione
elementare, Q. Sella e la tassa sul macinato, il corso forzoso e la politica
fiscale dei governi della Destra) e soprattutto contro tipi, costumi e
mentalità dominanti, fino all'acme paradossale e sferzante della Delenda
Toscana, sarcastica lettera aperta a M. Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876
nel Fanfulla. Qui, in risposta alla ventata antitoscana successiva alla
polemica sul privilegiato esercizio delle ferrovie, era esposta la paradossale
e sferzante proposta di sopprimere la Toscana stessa, cancellandola dalla carta
geografica del Regno d'Italia. A questa oltranza polemica, pagata
peraltro cara dall'impiegato L., diffidato, in quanto dipendente del ministero
degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi dal pubblicare articoli politici,
seguì un deciso cambiamento di attività e di orizzonti. In primo luogo,
al giornalismo etico-politico militante subentrò una fase in cui il L. si
dedicò al riordino e alla pubblicazione in volume del meglio della propria
produzione pubblicistica (racconti e cronache) nelle raccolte, dai titoli
programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano 1880) e Occhi e nasi. Ricordi
dal vero (Firenze 1881). In esse riunì, senza alcuna revisione, semplicemente
legate con il "filo di refe", come avvertiva non senza autoironica
civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più tipiche della prosa
giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature e tagli
narrativi" (Asor Rosa, p. 554) a formare un antinaturalistico ritratto
"alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal
vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei
"profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).
Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai
fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più
chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo nel 1868
fu nominato dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la
compilazione del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro,
dette scarso contributo. Il L. si indirizzò, dapprima casualmente e
occasionalmente, poi con impegno, assiduità e adesione personale sempre più
convinti, verso la letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di
illimitata libertà fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e
insieme la possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente
pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo",
dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della
superficie" delle cose (Asor Rosa, p. 555), dal quale prendevano le mosse
i due diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della
letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella
svolta fu offerta nel 1875 al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei
fratelli Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica,
che gli propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le
favole della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La
versione, condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con
stile piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle
fate e le illustrazioni di E. Mazzanti. Da allora, pur riprendendo la
collaborazione al Fanfulla (1878) e continuando la sua attività di critico
teatrale, il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura
scolastica e per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito
i due libri di lettura Giannettino (1877), che sin nel titolo riprendeva il
fortunato romanzo pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini (1837), e Minuzzolo
(1878): entrambi erano storie di bambini discoli o svogliati, ricondotti alla
scuola e alla normalità dalle famiglie e da esperienze che li inducevano a
riflettere (lo schema è già quello di Pinocchio, ma le peripezie dei due
protagonisti si svolgono sullo sfondo della Firenze contemporanea).
Ormai accreditato tra i più ricercati autori di libri scolastici e per
l'infanzia, il L. (che per le sue opere pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina
a cavaliere della Corona d'Italia e nel 1880 ricevette da A. Conti, assessore
alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare i libri di testo
per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità alla compilazione
di una lunga serie di opere che configuravano una sezione autonoma, personale e
sistematica, all'interno della "Biblioteca scolastica" della casa
editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie di volumi imperniati sulla
figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino: Italia superiore
(1880), seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia centrale e nel
1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di Giannettino (1883);
L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino (1885); fino a La
lanterna magica di Giannettino (1890). Con la loro formula innovativa questi
testi costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre
apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica
Istruzione (cfr. Raicich, p. 74 n.): le diverse discipline, infatti, erano esposte
in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente dialogica
nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e rendere
l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale". Al
centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa
vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque
per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i
collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e
che era stato fondato nel 1881 da F. Martini con l'ambizione di rinnovare la
letteratura infantile italiana. Il L., ormai stanco e disilluso, rispose
controvoglia inviando all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La
storia di un burattino (dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia,
"una bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I
capitoli successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda
si concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del
burattino. Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso
dalla storia, il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione,
il cui seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio.
Storia di un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio
1882. La pubblicazione proseguì a ritmo irregolare durante tutto il 1882 per
concludersi (con il XXXVI e ultimo capitolo) nel gennaio 1883. Velocissima fu
invece la pubblicazione in volume, che uscì nel febbraio successivo presso
Paggi, con le illustrazioni, di nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi
apparvero, e andarono presto esaurite, una seconda edizione nel 1886 (lo stesso
anno in cui E. De Amicis pubblicava Cuore), una terza (1887) di cui non restano
esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione uscita vivente l'autore fu
quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad & figlio concessionari della
Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto personalmente tutte queste
edizioni, che pure furono stampate con il suo consenso; è certo, però, che nel
corso delle varie ristampe il testo fu alterato da refusi e
banalizzazioni. Se ci si limita alle sole circostanze esterne della
composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque, può risultare fondata
la qualifica di "capolavoro scritto per caso" risalente a P.
Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace formula critica
la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della "bambinata"
ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa carriera letteraria e
giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il suo capolavoro,
sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni teatrali, uno dei
protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del giornalismo della
seconda metà dell'Ottocento. In realtà, nell'archetipica polisemia
della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del capolavoro, in Pinocchio
convergevano, in una struttura insieme profondamente coesa, traballante e
sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita e della carriera
letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore satirico e
bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano l'universo
del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi scolastici (da cui
deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è condotta la narrazione),
alla sua ricerca di una lingua non letteraria e mediana, che trova piena
realizzazione nel toscano "vivo" in cui la celebre fiaba è
narrata. Di tutto ciò non si accorsero né i contemporanei, che
decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo crescente ma circoscritto
all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre la fortuna editoriale
della "bambinata" veniva crescendo fino a farne il libro più letto e
tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della critica collodiana
(da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e A. Baldini), i
quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro della letteratura
mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita e la carriera del
suo autore. Negli anni della composizione e pubblicazione di Pinocchio,
il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla (fino al 1897) e assunse parte
sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di cui divenne
direttore nel biennio 1883-85 e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi
non ha coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e
Pipì lo scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e
memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre
pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi. L'anno prima era morta la
madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non
riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della
vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se
stesso e isolandosi nel suo lavoro. Il L. morì a Firenze
improvvisamente, la sera del 26 ott. 1890. Dopo la sua morte, su incarico
del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo purista G. Rigutini ordinò e
raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni critico-umoristiche, editi
entrambi a Firenze nel 1892) gran parte delle prose sparse del L., intervenendo
con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e il fratello Paolo,
inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue carte, provvedendo a
distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento politico) che
avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti viventi, e
soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon nome del
Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote], pp. 70, 74). Le
non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito,
alla Biblioteca nazionale di Firenze. Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca
nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di
carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad Marzocco
di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. M.J. Minicucci, Tra l'inedito
e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti del I
Convegno internazionale,( 1974, Pescia 1976, pp. 381-403). Altri documenti sono
presso l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di
Livorno e presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono
conservati presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi
Collodi giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze
1981; Pinocchio e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a
cura di R. Maini - M. Zangheri, Firenze 2000). Tra le testimonianze
biografiche contemporanee, i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente
nel Fanfulla della domenica e nella Domenica fiorentina, 2 nov. 1890; i profili
premessi dai curatori a due successive edizioni delle Note gaie del L. (a cura
di G. Rigutini, Firenze 1892, pp. V-XVI; a cura di I. Cortona [Lorenzini],
ibid. 1911, pp. III-XL); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C.
Collodi, in La Lettura, marzo 1907, pp. 184-190; F. Martini, Confessioni e
ricordi (Firenze granducale), I, Firenze 1922, pp. 168 s.; inoltre P.
Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre di
Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano 1993; B. Traversetti, Introduzione
a Collodi, Roma-Bari 1993; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D.
Marcheschi, Milano 1995, pp. LXVII-CXXIV. Manca un'edizione completa delle
opere del L.: il progettato Tutto Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto
interrotto al primo volume (Firenze 1948); la più ampia raccolta attualmente
disponibile è quella delle Opere, a cura di D. Marcheschi, che nella
Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle numerose edizioni e
ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori (narrative e teatrali)
del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica della Grammatica di
Giannettino, a cura di F. Geymonat, Firenze 2003. De Le avventure di
Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le due edizioni
critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata sull'edizione
Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori, Pescia 1983
(fondata sull'edizione Bemporad 1890 - l'ultima rivista dall'autore -, ma
corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti
dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate
a Milano) nel 1972, nel 1983 e nel 1993, corredate da un ampio commento e da ricchi
apparati documentari; infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura
di D. Marcheschi, cit. (pp. 359-526), con ampio corredo di note (pp. 916-1003).
Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di S. Bartezzaghi e
prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano 2002) con introd. di P. Italia (pp.
VII-XXII) e prefaz. di V. Cerami (pp. XXII-XXVII). Per il resto si rinvia
(anche per la letteratura critica) alla Bibliografia Collodiana (1883-1980)di
L. Volpicelli (Pescia 1980), da integrare con la citata Bibliografia di D.
Marcheschi (pp. 1119-1130, aggiornata al 1994), alla consultazione del catalogo
della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli su C.
Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione nazionale
Carlo Collodi di Pescia. La storia degli studi critici sul L. (in gran
parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da
Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di
Collodi, a cura di G.E. Viola - F. Rovigatti, Roma 1990, pp. 55-64; Pinocchio
tra due secoli. Breve storia della critica collodiana di R. Bertacchini, in C.
L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno, Roma-Pescia( 1990, Roma 1992,
pp. 121-164. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli
della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature
enfantine en Italie, in Revue des deux mondes, 15 febbr. 1914, pp. 842-870; P.
Pancrazi, Elogio di Pinocchio [1921], in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino,
Firenze 1923, pp. 201-205; B. Croce, Pinocchio, in Id., La letteratura della
Nuova Italia, V, Bari 1939, pp. 361-365; P. Bargellini, La verità di Pinocchio,
Brescia 1942; A. Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia,
Milano 1944, pp. 177-195; V. Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze
1945; A. Baldini, La ragion politica di "Pinocchio" (1876), in Id.,
Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori, Firenze 1947, pp.
118-124; P. Pancrazi, Capolavoro scritto per caso[1948], in Id., Scrittori
d'oggi, 5, Segni del tempo, Bari 1950, pp. 165-171. Inoltre, va ricordato
l'impulso dato allo studio della personalità e dell'opera del L. dalla
Fondazione nazionale Carlo Collodi, a Pescia, soprattutto con una lunga serie
di congressi scientifici: Studi collodiani. Atti del I Convegno
internazionale,( 1974, Pescia 1976; Pinocchio oggi. Atti del Convegno
pedagogico,( 1978, Pescia-Collodi 1980; "C'era una volta un pezzo di
legno". Atti del Convegno "La simbologia di Pinocchio", Pescia(
1980, Milano 1981; Folkloristi italiani del tempo del Collodi(, Pescia( 1982, a
cura di P. Clemente - M. Fresta, Montepulciano 1986; Pinocchio fra i burattini.
Atti del Convegno internazionale, ( 1989, a cura di F. Tempesti, Firenze 1993;
Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno internazionale,( 1990,
a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze 1994; Scrittura dell'uso al tempo del
Collodi( 1990, a cura di F. Tempesti, Firenze 1994; Pinocchio nella
pubblicità(, Pescia( 1995, a cura di P.F. Bernacchi, Firenze 1997; Sterne e
Collodi. Atti della tavola rotonda,( 1995, Lucca 1999. Per il centenario
della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca Toscana, C.
Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con introduzione di L.
Comencini e Suso Cecchi D'Amico, s.l. [ma Firenze] 1990 e le citate
pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C.
L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel
centenario. Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica
in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma 1996, pp. 3-7, 71
s., 74, 231; G. Cives, Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il
bambino e la lettura. Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa 1996, pp.
279-314; E. Giachery, Tre compari intorno a un burattino, in Id., La
letteratura come amicizia, Roma 1996, pp. 137-146; M. Gómez del Manzano - G.
Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci 1996; A. Asor Rosa, Le avventure
di Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana
nel tempo, Torino 1997, pp. 551-617; P. Citati, Il ritratto di
"Pinocchio", in Id., Ritratti di donne, Milano 1997, pp. 148-160; G.
Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due fortune molto diverse,
in Scuola e città, XLVIII (1997), pp. 13-23; M. Farnetti, I notturni di
Pinocchio, in Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico,
Pasian di Prato 1997, pp. 71-86; G. Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano
1997; D. Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri
trasgressori del senso comune, Torino 1997, pp. 170-175; F. Tempesti,
Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a
cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 115-137; V. Spinazzola, Pinocchio
& C., Milano 1997 (in partic. pp. 9-97); P.M. Toesca, La filosofia di
Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di burattino, in
Forum Italicum, XXXI (1997), 2, pp. 459-486; L. Pizzoli, Sul contributo di
"Pinocchio" alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani,
XXIV (1998), pp. 167-209; R. Randaccio, La "Legge shandyana del nome"
nei personaggi di C. Collodi, in Riv. italiana di onomastica, IV (1998), pp.
59-69; R. Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova Antologia, 1999, n.
2122, pp. 244-253; G. Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in
Studi cattolici, XLIII (1999), pp. 522-526; R. Campa, La metafora
dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", Lucca 1999;
Sterne e Collodi, Lucca 1999 (testi di R. Bertacchini, D. Marcheschi, F.
Tempesti); E. Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la tradizione delle
guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi d'inchiostro. Note su
viaggi e letteratura in Italia, Udine 2000, pp. 69-84; T. Iermano, Da Parravicini
a De Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra Risorgimento e
Italia umbertina, in Studi piemontesi, 2000, n. 2, pp. 345-362; M. Carosi,
Pinocchio. Un messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma 2001; A.
Gnocchi - M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Milano 2001; S. Moret, Pinocchio e
le "pinocchiate" in Francia, in Levia gravia, III (2001), pp. 77-88;
L. Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi piemontesi,
XXX (2001), 2, pp. 295-314; M. Villoresi, La letteratura poliziesca e del
mistero ambientata a Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in
Archivi del nuovo, 2001, n. 8-9, pp. 65-83; M. Scollo Lavizzari, Della
disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti, s. 5, ottobre-dicembre 2002, n.
20, pp. 322-339; F. Geymonat, Una grammatica di buon senso, in C. Collodi, La
grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat, Firenze 2003, pp. I-XVIII; C.
Marello, La dubbia efficacia del paternalismo induttivo, ibid., pp. XIX-XXII;
O. Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e
filologia (1961-2002), Roma 2004, ad ind.; Il giro di Pinocchio in due
giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa( 2004 (in corso di
stampa). D. Proietti Ho intervistato Emilio Garroni il 21 settembre
2004, presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme al mio
relatore Prof. Leonardo Amoroso, di scrivere una tesi sull’estetica di Garroni.
Garroni, molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e
mi ha fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi1. 1. Prof.
Garroni, nei suoi testi c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla
semiotica all'estetica, in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi
sono occupato molto prima di estetica che di semiotica. Ma quando ho cominciato
ad occuparmi di semiotica, l’interesse non era rivolto solo alle opere d’arte,
anche se l’occasione fu questa. Perché mi sono occupato di semiotica? Sono
stato attratto anch’io nel vortice della moda della semiotica, cominciata nei
primi anni ’60, forse negli ultimi anni ’50. Ma forse avevo anche qualche
motivo serio per farlo. Provenivo dalla cultura estetica imperante in Italia
fino a tutti gli anni ’40, di tipo crociano, dove l’arte viene riportata all’intuizione,
e non si dice quasi nulla di più. Non si sa in alcun modo come
l’estrinsecazione di questa intuizione si strutturi e sia analizzabile. Lo
stesso Croce nelle sue opere critiche conduce analisi critiche vere e proprie
in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e quasi nient’altro. Anche i
tentativi che furono fatti sulla scia 2crociana nell’ambito di arti
particolari, nell’architettura da parte di Bruno Zevi , nella musica da parte
di altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché restava pur sempre
quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto meno si poteva
sapere, come pure era nella mente di Croce, se e quando un’opera d’arte fosse
veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera d’arte
riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte. Appunto
questo intuizionismo mi urtava. Non a caso mi avvicinai in un 1 Questa
intervista nasce dunque come appendice alla mia tesi di laurea, ovvero:
Fiorenzo Ferrari, Estetica e filosofia in Emilio Garroni, tesi di laurea
discussa presso l’Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lettere e
Filosofia, Corso di Laurea in Filosofia, relatore prof. Leonardo Amoroso, a.a.
2004-2005. 2 Cfr. Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino,
1949. Intervista a Emilio Garroni 2 primo momento a Galvano
della Volpe, citato già nel mio primo libro del ‘643 e ampiamente discusso
insieme al pensiero di Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Galvano
della Volpe? Perché in lui c’era l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un
uso specifico del linguaggio: in lui insomma l’opera si presentava come
analizzabile, ed effettivamente della Volpe conduceva analisi semantiche,
piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali analisi
semantiche si occupavano inoltre anche di varie arti non linguistiche.
L’appendice alla Critica del gusto4, che riprende il tema del Laocoonte
lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è
un caso che al proposito si citi Cesare Brandi, che non fu mai un semiotico,
anzi fu un accanito antisemiotico, e tuttavia poneva le basi di un’autentica
analisi dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzavo e apprezzo tuttora
moltissimo Brandi, che ho sempre letto fin dall’inizio, fin dagli anni ’40.
Insomma: mi interessava di poter disporre di una teoria che permettesse di
analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro struttura
comunicativa. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora adottato
frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli come segni
(per esempio, nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e
ho tentato invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine,
che però si dimostrò anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi
sforzavo cioè di produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a
quelle che si conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali,
non materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma
unità formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma
una autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla
sua costituzione. Non pretendevo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di
un’opera a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è
un'altra cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere
opera d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho
intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono
accorto che quel lavoro poteva forse essere interessante come mero esperimento,
ma non portava a niente. In realtà non portava a niente né la semiotica
materiale di tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e
propria crisi teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica5, libro
semioticamente troppo ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della
semiotica6, che è una dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e
un’apertura più decisa, anche se già più che affiorante negli scritti
precedenti, verso altri orientamenti. Una precisazione importante: mi sono
distaccato dagli studi di semiotica sulla base di un accorgimento ancora più
fondamentale, vale a dire: avevo tentato di utilizzare opportunamente gli
strumenti linguistici anche per i linguaggi non verbali e di arrivare a
soluzioni non ovviamente identiche, ma analoghe, nella definizione del loro
codice, e mi sono accorto a un certo punto che neanche il codice linguistico è
un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte codificata, fonematica, monematica
e grammaticale, ma nell’uso, poi, il linguaggio è creativo, continuamente si
amplia, muta, e così via. E mi sono convinto che sarebbe stato assurdo
pretendere qualcosa di 3 Emilio Garroni, La crisi semantica delle arti,
Officina Edizioni, Roma, 1964. 4 Galvano della Volpe, Critica del gusto,
Feltrinelli, Milano, 1960. 5 Garroni, Progetto di semiotica. Messaggi artistici
e linguaggi non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari, 1972. 6
Garroni, Ricognizione della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma,
1977. Intervista a Emilio Garroni 3 più da linguaggi
chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio
figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento del
pensiero di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in
particolare della terza Critica, almeno dagli anni ‘60 e anche prima, e ho
tenuto sull’argomento vari corsi di lezioni. E via via che andavo maturando una
mia interpretazione di Kant, essa era sempre più in collisione con una
prospettiva semiotica. Non che le opere non siano analizzabili, ma sono
analizzabili con strumenti diversi, non con strumenti propriamente semiotici.
Ma questo è un altro discorso. 2. Come reputa di inserirsi nella tradizione
kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi riferimenti imprescindibili
in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi sono stati e sono i suoi
interlocutori privilegiati? Il riferimento più significativo è stato ed è
Scaravelli. Scaravelli dà un’inter- pretazione fulminante della terza Critica7,
mettendo in evidenza cose che non erano mai state viste, e che invece, dopo
aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare anche un autore,
un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: Baratono, che
sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio come
un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e
quindi della scienza8. È insomma una parziale anticipazione di Sca- ravelli. Un
ultimo riferimento notevole è Vittorio Mathieu, che è giunto a risultati
analoghi nei riguardi del cosiddetto Opus postumum9. Questi sono i miei più
importanti riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato
anche molte opere di stu- diosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da
Hinske a Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un
certo punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani
si sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia
tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano
molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho,
e ottimi. Per esempio Marcucci, con cui ho avuto anche una corrispondenza che,
come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica»10. Con
Marcucci sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i
suoi libri e i suoi saggi e io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se
non siamo sempre d’accordo, soprattutto sul punto fondamentale
dell’interpretazione del principio estetico della facoltà di giudizio. Ma
spesso è più 7 Le considerazioni più rilevanti sulla terza Critica sono in:
Luigi Scaravelli, Osservazioni sulla «Critica del Giudizio» (1955), poi in
Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze, 1968. 8 Cfr. Adelchi
Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del
Giudizio, in «Logos», X, 1-2, 1927. 9 Vittorio Mathieu, La filosofia
trascendentale e l’ «Opus postumum» di Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino,
1958; Immanuel Kant, Opus postumum, a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna,
1963. 10 Garroni, Silvestro Marcucci, Lettere kantiane, in «Studi di estetica»,
V, 1979-80. Intervista a Emilio Garroni 4 proficuo non essere
d’accordo, che l’esserlo11. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho scambiato idee,
ho letto il suo libro su Kant che apprezzo molto12. Per esempio, ci siamo visti
in occasione di un seminario kantiano a Palermo13, e abbiamo parlato a lungo. E
ancora Makkreel, che ho conosciuto a Cerisy La-Salle14, e La Rocca, che mi
interessa molto. A proposito di Cerisy, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo,
chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che
stavamo entrambi traducendo la terza Critica15, rispettivamente: Critica della
capacità di giudizio16 e Critica della facoltà di giudizio17. Ma dovrei
ricordare alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è
sempre stato uno scambio molto forte su problemi kantiani: Di Giacomo, Montani,
Catucci, Velotti, che ha scritto un bel libro che si occupa largamente di Kant,
recentemente edito da Laterza18. E soprattutto Miki Hohenegger, con il quale ho
lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e
nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. La Rocca è un caso
per me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è
per fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme
oltre che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di
Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio
stesso della facoltà del giudizio19. Eppure Kant dice, mi pare più volte e
chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della
facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da
quello. Il caso di La Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di Desideri,
che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’
complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è
uscito un suo libro20, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione,
che a lui sta bene, al contrario di La Rocca. Ebbene, 11 Cfr. Garroni, Estetica
ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni,
Roma, 1976 (2a ed. con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano, 1998);
Marcucci, Epistemologia ed estetica in Kant, in «Physis», XIX, 1977. 12
Leonardo Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, 1984.
13 Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a
Palermo, Grand Hotel des Palmes, 9-10 ottobre 1998. Tema del convegno:
Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente all’uscita di:
Alexander G. Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di S. Tedesco, Aesthetica,
Palermo, 1998. Hanno introdotto la discussione L. Amoroso, M. Ferraris, E.
Garroni, L. Russo. Partecipanti: M. Carbone, G. Carchia, P. D’Angelo, G. Di
Giacomo, R. Diodato, E. Ferrario, D. Goldoni, T. Griffero, P. Kobau, G.
Lombardo, E. Mattioli, M. Mazzocut-Mis, P. Montani, P. Pimpinella, L. Pizzo
Russo, R. Salizzoni, S. Tedesco, G. Tomasi, S. Velotti. La relazione di Garroni
e altre relazioni e comunicazioni sono state poi pubblicate in «Aesthetica
Preprint», 54, 1998. 14 A Cerisy si svolgono le attività del Centre Culturel
International (www.ccic-cerisy.asso.fr). 15 Il Colloquio su L’Esthétique de
Kant si svolse nel giugno 1993. Gli atti sono stati poi pubblicati in: AA.VV.,
Kants Ästhetik, hrsg. H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1998. 16
Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, BUR, Milano,
1995. 17 Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H.
Hohenegger, Einaudi, Torino, 1999. 18 Stefano Velotti, Storia filosofica
dell’ignoranza, Laterza, Roma-Bari, 2002. 19 Cfr. Claudio La Rocca, Soggetto e
mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia, 2003. 20 Fabrizio Desideri, Il
passaggio estetico. Saggi kantiani, Il Melangolo, Genova, 2003.
Intervista a Emilio Garroni 5 curiosamente non ho mai avuto
rapporti personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in
concorsi o cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo
ultimo libro che questa idea gli è venuta leggendo una serie di libri, fra cui
il mio, ma anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non
capisco bene il perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono «idealmente»
in rapporti di discussione. 3. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità
di una storia dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso21 si prendono
in considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e
per un certo verso anche in Senso e paradosso22, si argomenta intorno alla
possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come «estetici»
scritti prima del XVIII secolo, rilettura nella prospettiva del «senso» che è a
Lei propria. Come ritiene quindi fattibile una storia dell'estetica? E con
quali limiti? Non ho mai scritto una storia dell’estetica, né mi è mai venuto
in mente di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a
uscire dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica
calibrata in modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia
dell’estetica che non presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale,
così come si è costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono
fare distinzioni opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione
estetica, in senso molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico
a quello che noi chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente
in un certo tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei libri, somiglianze,
identità parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari
oggetti sui quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo
significa che non si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una
disciplina e che però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni
che, in qualche modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato
opere d’arte bella e che richiedono parimenti un principio non intellettuale.
Su questa base è nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me
diretta, dedicata ai problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica23, dove
sono usciti alcuni ottimi libri, per esempio quello di Paolo D’Angelo
sull’estetica della natura e dell’ambiente24. Dunque, estetica fino a un certo
punto, che non si occupa di opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono
essere sottoposti a giudizi di tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai,
puramente estetici, ma coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito
poi un libro di Guastini sull’estetica antica, particolarmente interessante,
perché riesce a chiarirla senza mai dimenticare che la filosofia antica non
possiede una vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come
disciplina, ma perché i suoi 21 Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso,
Garzanti, Milano, 1992. 22 Garroni, Senso e paradosso. L’estetica filosofia non
speciale, Laterza, Roma-Bari, 1986. 23 La serie di Laterza si chiama: «Temi per
l’estetica» ed appartiene alla collana «Biblioteca di cultura moderna». 24
Paolo D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte
ambientale, Laterza, Roma-Bari, 2001. Intervista a Emilio Garroni
6 problemi erano alquanto diversi25. Ebbene, in quel libro si vedono
bene, come le dicevo, e differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un
modo di fare storia dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una
disciplina, ma piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola
nella riflessione e che tuttavia richiede una qualche condizione comune,
qualcosa come il principio soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io
stesso, il mio ultimo libro, l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con
questa precisa intenzione26. 4. Nei suoi più recenti saggi27, Lei lamenta il
fatto che l'arte contemporanea non riesca più ad essere esemplificatrice di una
prospettiva di senso: essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione
dell'esistente. In che modo valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi
siano nell'arte contemporanea propensioni opposte a questa tendenza generale?
Sull’arte contemporanea ho poco da dire, ho poco da dire perché... Guardi, io
mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte, occupandomi fin
dagli anni ‘40 dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni,
compresa l’avanguardia novecentesca. Negli anni ’60 mi sono avvicinato di più
all’arte che si stava facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore
di pittori che mi interessavano28. Ma questo interesse artistico è un po’
scemato col tempo. Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre
testimoniate in libri e saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’
perché credo che il giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione
dell’esistente, con l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia
abbastanza valido. Io non so se esistano casi che facciano pensare il
contrario, può darsi, non so dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati...
qualcosa di «carino», sì, una invenzione che richiama l’attenzione... però
tutto sommato mi pare che l’arte nella sua generalità tenda precisamente a
quella riproposizione dell’esistente, attraverso i mezzi tecnologici oggi a
disposizione. Le stesse installazioni, per esempio, che pure sono qualche volta
opere di grande interesse, sono spesso la raccolta di oggetti trovati, ma con
intenti diversissimi rispetto a Duchamps, e richiamano sempre l’esistente tale
e quale, o quasi. In effetti è significativo che anche in quelle opere ci sia
spessissimo un te- 25 Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e
filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari, 2003. 26 Garroni, L’arte e
l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari, 2003. Pochi giorni dopo l’intervista,
Garroni mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato
davvero il suo ultimo libro: Garroni, Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni
e ipotesi, Laterza, Roma-Bari, 2005. 27 Cfr. Garroni, Relazione interna,
relazione esterna e combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno
della Biennale Lo scambio delle arti nel ‘900, Venezia, 1998, poi in: Garroni,
L’arte e l’altro dall’arte, cit.; Garroni, Senso e non-senso, conferenza letta
a I Coloquio Latino-americano de Estética y de Critica di Buenos Aires e alla
Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo, novembre 1993, poi in: Garroni,
Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari, 1994. 28
Garroni, Enrico Crispolti, Alfredo Del Greco, Biblioteca di Alternative
Attuali, Roma, 1962; Garroni, Arte mito e utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari,
Tipografia Fonteiana, Roma, 1964; Garroni, Il mito negativo e la pittura di
Vacchi, Officina, Roma, 1964; Silvio Benedetto, Amore Uno: 6 acqueforti,
presentate da E. Garroni, Il Torcoliere, Roma, 1966; Silvio Benedetto (104 opere
dal 1963 ad oggi), Galleria d’arte internazionale Due Mondi, Roma, 1966.
Intervista a Emilio Garroni 7 levisore, quasi che si volesse
richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto che quello che
si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando in una casa che non
conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il futuro. Può darsi
che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento, che faccia del
nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità, io non credo
molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti sono un fatto,
ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi sono tempi di
degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali. Insomma, se l’arte mi
pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degli artisti, ma
piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai
quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o
telematica. 5. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e
Wittgenstein) è John Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più
circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per
quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come
esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi
filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e
Heidegger sono i due filosofi più importanti del XX secolo. Questo forse sarà
un giudizio estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente
questi sono tra i pochi più importanti. Io ho trovato motivi di interesse per
un certo verso più in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto
per molti aspetti, ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso
mi hanno aiutato entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con
la filosofia e con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei
citare ancora una volta un altro filosofo, che non cita più nessuno:
Carabellese. Carabellese è stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo
di ricercare di Carabellese nell’ambito filosofico era stupefacente: la lettura
del testo, lo smontaggio del testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta
non senza qualche coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e
profondità29. Confesso di preferire di gran lunga questo metodo a quello di
certi filologi che capiscono a metà. Quella era la sua caratteristica
principale. Io ho tentato di ispirarmi a quel metodo, anche se l’ammissione può
nuocermi presso i filologi. Pazienza. Cito Dewey per una ragione semplicissima.
Perché l’estetica di Dewey è un estetica precisamente nel mio senso più che non
nel senso di molti altri. Non un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto
non solo l’opera d’arte, ma certe esperienze, che rimandano ad un certo
principio che è lo stesso di quello del giudizio estetico in senso stretto.
Veramente, Dewey non parla esplicitamente di principi, ma fa esempi che non
hanno niente a che fare con l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un
comune denominatore: il pranzo in un ristorante francese, oppure la tempesta
(se ricordo bene) durante una crociera, e così via. Però cito molto anche
Brandi. Brandi, come le dicevo, è stato molto impor- tante per me, anche per il
superamento della semiotica30, ma soprattutto per alcuni 29 Sul problema
interno della filosofia, cfr. Pantaleo Carabellese, Che cos’è la filosofia?, in
«Rivista di Filosofia», Anno XIII, 3, 1921. 30 Per le critiche alla semiotica,
cfr. Cesare Brandi, Segno e immagine, Milano, Il Saggiatore, 1960.
Intervista a Emilio Garroni 8 aspetti filosofici della sua
estetica, guarda caso proprio in riferimento allo sche- matismo kantiano, e per
la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere d’arte. Basta leggere i suoi
Dialoghi31, l’Architettura barocca32, il Duccio33, eccetera eccetera, per
rendersene conto. 6. Da sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere
di narrativa34. C'è stata un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei
scritti narrativi mi imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di
fuori dell’ambito dei miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho
scritti con la stessa attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi
meritavano forse un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima
cerchia dei miei lettori, come dire?, «convinti». Non è uno sfogo da autore
deluso. E’ una convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla
delusione. Ora lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza
dubbio, non può non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha
una certa storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati,
buoni, cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E
tuttavia ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei
miei saggi. Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti
per capire i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che
esigerebbero una spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti
si pongono in una posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione
interna di chi deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai.
Sono racconti di personaggi in qualche modo nevrotici e metafisici. Per
esempio, ho usato queste due parole nel sottotitolo del libretto Racconti
morali35: «lontananza» e «vicinanza». Ebbene i miei personaggi oscillano
precisamente tra la lontananza dal mondo e la vicinanza al mondo, ma non si
pongono mai il problema se questa oscillazione sia superabile, e quindi non
arrivano mai a una comprensione critica della vicinanza con gli oggetti del
mondo, né si pongono il problema se sia possibile guardare da lontano il mondo
intero. In questo senso preciso sono racconti metafisici che intendono lasciare
insoddisfatto il lettore con quella scrittura elaborata, saltellante,
ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte intenzionali,
ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono fatalmente
ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che non hanno
capito 31 Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma, 1945; Brandi,
Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino, 1956;
Brandi, Celso o della Poesia, Einaudi, Torino, 1957. 32 Brandi, La prima
architettura barocca: Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari,
1970. 33 Brandi, Duccio, Vallecchi, Firenze, 1951. 34 Garroni, La macchia
gialla, Lerici, Milano, 1962; Garroni, I tasmaniani, Bucciarelli, Ancona, 1963;
Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma, 1990; Garroni,
Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma,
1992; Garroni, Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma, 1994.
Garroni si dedicava non solo alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni
dipinti sono riprodotti nel libro- intervista: Garroni, Doriano Fasoli, Il
mestiere di capire, Edizioni Associate, Roma, 2005. 35 Garroni, Racconti
morali, cit. Intervista a Emilio Garroni 9 ciò che io chiamo
«il guardare-attraverso». E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa
del genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro
a quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni
tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una
sorta di postfazione, ai testi filosofici. 1. Emilio Garroni non è stato
soltanto uno dei filosofi italiani più impor- tanti del secondo dopoguerra, ma
anche una figura di intellettuale complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte
alle sue molteplici attività e ai suoi svariati interessi, si sarebbe tentati
di concentrarsi – per i fini di questo focus di «Syzetesis» dedicato ad alcuni
Momenti di filosofia italiana – sui suoi contributi più convenzionalmente
etichettabili come “filosofici”, quali quelli dedicati all’interpretazione del
pensiero critico di Kant, tralasciando tutto il resto: le pratiche di narratore
e di pittore (attraversate da specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto
di riflessione saggistica), l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica,
gli interventi sulle arti visive, la letteratura e la musica – talvolta
affidati a quotidiani, settimanali o cataloghi –, i numerosi saggi, sempre
incisivi, su temi di grande impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla
verità alla menzogna1. A questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò
in effetti fa- re solo qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il
pensiero se- condo un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un
posto di rilievo, ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione
o passione dominante di Garroni, e che il titolo di una lunga intervista
concessa a Doriano Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene:
Il mestiere di capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita
e la storia ci mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a
essere un homo sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o
com- 1 La bibliografia più completa degli scritti di Garroni, curata da A.
D’Ammando, è dispo- nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale
Emilio Garroni” (https://www. cieg.info/ [14.09.2020]). 2 E. Garroni-D. Fasoli,
Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma
2005. 3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?,
testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi
psicoanalitica, Borla, Roma 1992, pp. 7-16; Garroni ha poi rielaborato questo
testo in uno dei suoi ultimi scritti, uscito postumo, La mente, il corpo, le
cose, in P. Carignani-F. Romano (eds.), Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e
mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 27-36.
268 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come
filosofia non speciale prendere la stessa attività di capire e
comprendere, cioè la filosofia – è strettamente legato in Garroni alla riflessione
su quel “senso dell’espe- rienza” che ho messo nel titolo di questo saggio. Un
senso che non è affatto da intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un
“senso ultimo” dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la
filosofia, nella prospettiva critica adottata da Garroni, ha ben poco da dire),
ma neppure come una dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con
un po’ di buona volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione
antropologica, possiamo acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro:
per Garroni, come vedremo, il senso dell’espe- rienza è piuttosto un dover
essere4, trascendentalmente ineludibile ma per niente garantito nei fatti, un
compito etico irto di difficoltà, intima- mente paradossale, e sempre
strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso. 2. Per chiarire ancora
qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la sua seconda parte,
“l’estetica come filosofia non speciale”), è bene ricordare che per Garroni
l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con un proprio
oggetto epistemico o materia- le, ma riguarda le condizioni di possibilità di
fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle ricerche
scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte, semmai,
è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare5. Per Garroni,
infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non
empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività
empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano
a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piutto- sto il compito di
«guardare-attraverso»6 le esperienze determinate, per 4 Cfr. E. Garroni, Sul
dover essere del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso,
Garzanti, Milano 1992 (seconda ed., Castelvecchi, Roma 2020, con un’in-
troduzione di S. Velotti), pp. 245-270, testo presentato originariamente al
convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici “Semiotica ed
epistemologia delle scienze umane” (Siena, 23-25 settembre 1988). 5 Cfr.
E. Garroni, Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza,
Roma-Bari 1986, in particolare p. 179 ss. 6 Garroni usa il termine
“guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale
traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philo-
sophische Untersuchungen, ed. by G. E. M. Anscombe and R. Rhees, Blackwell,
Oxford 1953 (Trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino,
Einaudi 1967, p. 60: «È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni [die
Erscheinungen durchschauen]: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni,
ma alla ‘possibilità’ dei fenomeni»). 269 Stefano Velotti
risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali e non
intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte di
senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il com-
pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo «guardare- attraverso»
i fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto
«problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta
da Pantaleo Carabellese, che Garroni ammirava e le cui lezioni aveva
frequentato da studente alla Sapienza negli anni Quaranta – è infatti per
Garroni un problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della
filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla
quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare
un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. 3. Vorrei partire,
però, da qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci
permette di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale,
di quella passione per il capire stesso, che Garroni non considerava affatto
un’esigenza contingente. Da giovane, Garroni aveva lavorato per diversi
programmi televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre
questioni (ricor- do, per esempio, un bel documentario del 1960 su Adriano
Olivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista). Lavorava alla RAI
per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora fosse cultu-
ralmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei
citare a cui Garroni lavorò negli anni Cinquanta e Sessanta: tra gli altri,
Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scien- ze, Le
tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel
1944, con la direzione di Adriano Seroni e Leone Piccioni, diventato programma
televisivo dal 1963 (come “settimanale di lettere e arti”), più tardi
accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si
trovavano alcuni dei più importanti intellettua- li dell’epoca (Riccardo
Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Roberto Longhi, Giuseppe Ungaretti, a cui
bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco)8, per non menzionare,
nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative,
come Carlo Emilio 7 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 130. 8 Cfr. A.
Dolfi-M. C. Papini (eds.), L’Approdo: storia di un’avventura mediatica,
Bulzoni, Roma 2006 e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme di divulgazione,
Johan & Levi, Monza 2014. 270 Il senso dell’esperienza: Emilio
Garroni e l’estetica come filosofia non speciale Gadda (tra il 1950
e il 1955) o, più tardi, di Andrea Camilleri, coetaneo di Garroni, o ancora di
Umberto Eco, che di Garroni sarà, negli anni, un costante interlocutore.
Garroni dà conto della sua attività televisiva in un’interessante in- tervista
del 1994, da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma
credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibil- mente volto al
capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti –
dice lì Garroni – deve essere certamente colto, «ma c’è di più: deve essere,
nel campo della letteratura, delle arti figura- tive, della musica, oltre che
colto, anche intelligente»9. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di
programmi culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve
capire. Deve insomma essere qual- cuno, precisa però subito Garroni, che sia
«capace di far vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far
vedere o capire qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono
affatto»10. Emerge qui quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la
bana- lità e la semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come
un tratto costante di Garroni, che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso:
non solo una prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa,
scrupolosa, controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per
una pratica che oggi seduce molti, anche i filo- sofi: occupare una casella
nell’esistente, dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche
minima particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la
massima riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo –
naturalmente – di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di
capire. Questo compito – inteso da Garroni come un compito intellettua- le,
culturale ed etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo
l’estetica come «filosofia non speciale», cioè come filosofia tout-court,
benché spesso praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e
alla letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del
linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con Armando
B. Ferrari e la duratura e profonda ami- cizia con Tullio De Mauro; ma anche
l’attività giornalistica e, come vedremo – nelle modalità proprie, non certo
assimilabili a quelle filosofico-argomentative – le stesse pratiche pittorica e
narrativa. Garroni esordisce nel 1962 con un libro di racconti scritti negli
anni 9 L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino
1994, p. 275. 10 Ibidem. 271 Stefano Velotti Cinquanta,
a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La
macchia gialla11, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla
copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del
suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice: «Là dove c’è la
macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi,
insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una
lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico
– La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi
soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di
Garroni, un autoritrat- to verbale dell’autore da giovane (o non più tanto
giovane, dato che aveva 37 anni), a cui seguirà venti anni dopo un secondo
autoritratto, questa volta dipinto (su cui tornerò in chiusura). I curatori
della colla- na “Narratori” dell’editore milanese Lerici erano due nomi di
grande rilievo del mondo poetico-letterario, Romano Bilenchi e Mario Luzi, i
quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritrat- to
semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato da «acume» e «humour».
Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche socio-biografica,
per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione per il “capire”
che ho indicato come la passione domi- nante di Garroni: Sono nato a Roma nel
dicembre del 1925, in un ambiente ab- bastanza sciatto e approssimativo, che
non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa
piccola bor- ghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze.
Oltrepassata la trentina mi sono accorto che anche la mia for- mazione
culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e
spregiudicata e nello stesso tempo lacu- nosa e assai provinciale. Mi sono
laureato nel 1947 in filosofia presso la Facoltà di lettere e filosofia
dell’Università di Roma, 11 E. Garroni, La macchia gialla, Lerici, Milano 1962.
Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito
dell’associazione “CiEG - Cattedra internaziona- le Emilio Garroni”
(https://www.cieg.info/ [14.09.2020]). 12 Ma, come ha scritto A. D’Ammando
all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di Garroni (Il
circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di Emilio
Garroni – Tesi di Dottorato in filosofia discussa alla “Sapienza – Università
di Roma”, febbraio 2019), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi
semantica delle arti, «[s]i potrebbe affermare, in proposito, che “crisi”, al
pari di “oriz- zonte” e “senso”, è una parola cara al pensiero di Garroni,
almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo statuto (quanto mai
incerto e problematico)». 272 Il senso dell’esperienza: Emilio
Garroni e l’estetica come filosofia non speciale con la quale
intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Ho pubblicato saltuariamente
saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate,
settimanali e quotidiani. La saltuarietà del mio lavoro scientifico oggettivo
dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla
mancanza di tempo. Da molti anni collaboro infatti alla tele- visione dove ho
fatto un po’ di tutto dedicandomi prevalente- mente in questi ultimi tempi alla
redazione e presentazione di rubriche d’arte, con intenti (dico io) nobilmente
divulgativi13. A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte oltre
trent’anni dopo, su richiesta del Manifesto, che aveva invitato ventisei
persona- lità della cultura a raccontare la propria esperienza personale di una
visita a un museo. Garroni scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma:
Non so se fosse possibile negli anni trenta – con la cultura licea- le
imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a
capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello
assai modesto – che un museo o una galleria d’arte potessero essere
immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano
erano per- lopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse stret-
tamente tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato
eccelso e di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. [...] Non
era un atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché
chi è riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo.
[...] A otto-dieci anni, ero in balia della cultura e dei gusti mediocri della
mia famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa apparteneva, e fui
condotto più volte da certi miei zii, che si ritenevano intenditori d’arte,
alla Galleria nazionale d’arte moderna [...] Voglio solo dire che quella
galleria fu, negli anni trenta, il luogo della mia diseducazione. Il fatto è
che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a
formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre,
non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche
edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia
allontanato per sempre dalle arti figurative. [...] [Così che la] Galleria
nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante
dei miei zii, di farmi capire 13 E. Garroni, La macchia gialla, cit., risvolto
di copertina. 273 Stefano Velotti come non si
guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabi- le, come andare in
bicicletta14. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro
rapidità credo siano indicative del modo in cui Garroni si situava nei
confronti della realtà, e quindi anche della sua attività filosofica – per
cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione
più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche
eterogenei. 4. Ho già ricordato Pantaleo Carabellese – che, al di là degli
esiti del suo «ontologismo critico», Garroni considerava «uno dei pochi inse-
gnanti che ho avuto all’Università che fosse anche un grande filosofo»15 –
perché è probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più
significativi per il suo pensiero, insieme a Luigi Scaravelli – per l’inter-
pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a Cesare Brandi. Era stato
infatti proprio Carabellese, in un articolo del 1921, ad aver criticato sia
Gentile, sia Croce (come poi farà anche con Spirito e Calogero) per non aver
colto il «problema interno della filosofia», la domanda, cioè, con cui la filosofia
diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità,
le sue pretese. In una postilla del 1942, Carabellese spiegava così
l’incomprensione da parte di Croce e di Calogero del problema da lui sollevato:
Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce)
continuano a porre il problema della filosofia come pro- blema del suo oggetto,
cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e
sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con
quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o
consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storici- smo)
d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo
neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca
neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra16.
14 E. Garroni, “Il piccolo Ottocento italiano”, in F. De Melis (ed.), La
scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma
1995, pp. 111-113, corsivi miei. 15 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di
capire, cit., pp. 35-36. 16 P. Carabellese, L’ontologismo critico. Primi saggi
II, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma 1942, pp. 78-79. 274
Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non
speciale Il problema della riflessione sul senso, per Garroni si
lega stretta- mente a quello che chiama «il paradosso della filosofia» nel suo
libro del 1986, intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non
speciale. È forse il libro più impegnativo che Garroni abbia scritto, e
certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì Garroni cita
Carabellese e il suo articolo del 1921, e la replica di Croce dello stesso
anno, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza legittima:
Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se stessa; Croce,
quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si conquista il suo
luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare concreti e storici.
Entrambi, in sostanza, inten- devano rifiutare l’idea di un luogo separato
della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e complementarità
delle loro posi- zioni, che se rettamente intese si compongono in quello che
Garroni chiamerà appunto il «paradosso fondante della filosofia». Il dissidio
tra Carabellese e Croce, infatti, prefigurava una antinomia non risol- ta,
formulata da Garroni in questo modo: Un problema interno della filosofia va
posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo luogo appartato
e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da Carabellese]; ma il
porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e questa è la replica
di Croce, che ritiene il problema di Carabel- lese insignificante]17. Garroni
fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un problema
genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello di
considerare la filosofia, in quanto si pone il suo “problema interno”, come una
sorta di meta-linguaggio che si e- sercita su un linguaggio oggetto già
compattamente costituito (una me- tafisica, o un sistema, quale era per lo
stesso Carabellese il suo «onto- logismo critico»), perdendo di vista proprio
quel paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un
paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di Carabellese e
di Croce è inve- ce comprendere la filosofia come «risalimento», o come quel
«guardare- attraverso» che risale dalla concretezza dei fenomeni, dall’interno
dell’e- sperienza concreta in cui stiamo, alle loro condizioni di possibilità,
senza dar per scontato che una filosofia già si dia da qualche parte, e senza
17 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 131. 275 Stefano
Velotti però neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive.
Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque come «un
guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di un taciuto
guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty, Garroni riassumeva così
la sua posizione: «Una filosofia di questo tipo include la propria stranez- za,
perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo»19.
Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato da Garroni come una
posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta a posizioni
metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di stampo
razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli
anni in cui in Italia Richard Rorty e il suo neopragmatismo sembravano
raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era
stato presentato da Gianni Vattimo e Diego Marconi, che aprivano la loro
introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come
«epocale»20), Garroni vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non
critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è
certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye
view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose
nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il
mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi,
presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di
fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva
l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Hilary
Putnam – per confutarlo: per Garroni, porlo e comunicarlo è già confu- tarlo;
immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non
escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione
op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, co- me il
neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra,
cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze,
culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che
avanzano pretese universali, e dovremmo conside- 18 E. Garroni-D. Fasoli, Il
mestiere di capire, cit., pp. 37-38. 19 Ibidem. 20 R. Rorty, Philosophy and the
Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979 (Trad. it. di G.
Millone e R. Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bom- piani,
Milano 1986, p. V). 276 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e
l’estetica come filosofia non speciale rare piuttosto la filosofia
come un genere letterario tra gli altri. Garroni replica: Rorty avrà anche
ragione, ma commette un unico errore, affer- marlo. È questo quel «taciuto
guardare-attraverso» – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente
come un ritorno del rimosso – a cui alludeva Garroni nel passo citato poco
sopra dell’intervista con Fasoli, cioè la pretesa di stare sempre alle
determinatezze dell’esperien- za, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua
totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa
pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di
esperienze solo con- tingenti e determinate21. Per Garroni, infatti, non si
tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in
aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le
chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto
dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta,
saremmo cose tra le cose22. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso
i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti
nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di
affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende
le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza
nella sua totalità indeterminabile. 5. È questo movimento che Garroni ravvisa
in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger (sulla scorta dei quali la
filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma
che inclu- dono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere23).
Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del-
l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate
da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che,
nel modo più schematico, Kant formula in questo modo: (1) Tesi: il giudizio di
gusto non si fonda su concetti, ché altri- menti se ne potrebbe disputare
(decidere mediante prove). 21 Questa argomentazione, qui appena accennata,
viene sviluppata da E. Garroni nel primo capitolo di Estetica. Uno
sguardo-attraverso, cit., pp. 11-53, anche in relazio- ne ad alcuni autori
classici e a diversi autori contemporanei. 22 Su questo punto potrebbe aprirsi
un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi
realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology),
che propongono una visione degli esseri umani proprio come “cose tra le cose”.
277 23 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 132. Stefano
Velotti (2) Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti,
ché altri- menti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe
neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con
tale giudizio)24. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure
essere com- posta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa
Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella
seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e
il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che Garroni fa valere, per
esempio, in relazione al linguaggio (il motivo per cui Rorty non può affermare
quel che l’uso stesso del linguaggio confu- ta). Un saggio dedicato a De Mauro,
L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che
annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della
facoltà di giudicare, che Garroni proporrà poco dopo: Che il linguaggio sia
stato talvolta considerato atto creativo in- dividuale e irripetibile oppure
realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente
previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive
e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più [...]25, in quanto
entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere
«un’esigenza che [...] non può neppure essere lasciata cadere»26. E infatti
poco dopo Garroni riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana,
enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso
del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni
sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e
non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone
l’indeterminatezza del- 24 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in
zehn Bänden, vol. VIII, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
Darmastad 1975 (Trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Critica della facoltà
di giudizio, Einaudi, Torino 1999, §56, p. 173). 25 E. Garroni, L’arte e
l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Roma-Bari 2003, p.
241. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et
al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1998. 26 Ivi, p. 89.
278 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come
filosofia non speciale 27 Ivi, p. 92. 28 Ivi, p. 91. 29 Ivi, p.
105. la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché
altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e
intenderci [...]27. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il
linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso
tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata»28 o, detto ancora
altri- menti, «per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condi-
zione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega
in favore delle sue determinazioni»29: non si darebbero espressio- ni
linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le
comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione
di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che
esse “negano” in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni
arriva sempre, che indaghi il lin- guaggio o la percezione, l’organizzazione
della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura
dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo
e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica
presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in
questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni
sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo
motivo mi permetto di citare dif- fusamente: Ma l’analogia tra questa antinomia
[kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma
tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni “concetto
determinato/ concetto indeterminato” e “determinazione/indeterminatezza” del
linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro
argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di
giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è
possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che
Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio
della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la
ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e
tuttavia sono altrettanto indispensabili 279 Stefano
Velotti alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza
d’esperien- za, che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata (pro-
cede, per quanto le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni
di diversi leggi sotto leggi più potenti), non sarebbe possibile se non si
inscrivesse innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità
indeterminata delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive di “una
conoscenza (di oggetti dati) in genere” –, se insomma, sull’occasione di
rappresentazioni deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi
di gusto, non avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una
conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso
della possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, (che ci dà
appunto solo una tessitura analitica), ma nel senso che è possibile e ha in
generale senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza
sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della
conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né
tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperien- za. Non si fa esperienza di
un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza
determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn
(senso o senti- mento comune, che abbiamo in comune, che ci assicura a priori
della comunicabilità universale delle rappresentazioni e delle conoscenze), il
quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non è propriamente
esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea
indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena sensibilmente
mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso
comune o il gusto, cioè mediante il sentire (esteticamente dunque) l’interna
indeterminatezza del determinato30. «Sentire l’interna indeterminatezza del
determinato» è uno dei modi per capire in che modo il paradosso fondante della
filosofia fa della fi- losofia, come estetica non speciale, una riflessione sul
senso dell’e- sperienza. Se vogliamo restare sul piano linguistico, possiamo
dire in- fatti che dare significato ai concetti è determinarli, per esempio me-
diante uno schema empirico o trascendentale, sempre a condizione di mettere in
gioco un simultaneo e inevitabile riferimento all’inde- terminato, alla
totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza, che solitamente resta
implicita, e magari viene negata (come accadeva in Rorty), proprio in virtù di
un surrettizio riferirvisi. 30 Ivi, pp. 110-111. 280 Il senso
dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale 6.
Il gioco delle parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è
affrontato da Garroni in molte altre occasioni, ma viene tematizzato
direttamente in una conferenza del 1988, poi pubblicata in appendi- ce al
volume del 1992, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il titolo Sul dover
essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il senso dai
significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come anticipazione
estetica dell’esperienza entro cui i significati possono significare, ma un
problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso che rende possibile
e traspare in ogni significato determinato, non rischiamo infatti di
«parificar[e] tutti [i significati] nel loro essere varianti di sensatezza,
‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’ nel loro
proprio far senso?». Come se la filosofia critica, spinta fino a questo punto,
rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona
[...] Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati
storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi,
convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo
problema, Garroni lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte
l’antropologia in relazione all’etno- centrismo32: l’irrinunciabile rispetto
che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti,
d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza,
togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente
inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro
serietà33. Ma era proprio questo ciò su cui si interrogava Garroni: non tanto
la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E con-
cludeva così: Le considerazioni appena svolte non hanno [...] una vera e pro-
pria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un
nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso 31 E. Garroni, Estetica.
Uno sguardo-attraverso, cit., p. 268. 32 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso,
cit., p. 268 ss. 33 Si potrebbe sostenere che negli anni Novanta questo
imperialismo della sensatezza sia stato proclamato (e poi smentito) da Francis
Fukuyama nel suo libro The End of History and the Last Man (1992), mentre
l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e
tuttavia prenderle così “seriamente” da negargli una dimensione comune di senso
– veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of
Civilizations and the Remaking of the World Order (1996). Le due posizioni,
insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non
composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica degli
ultimi trent’an- ni, «Studi di estetica» 1-2 (2014), pp. 339-367. 281
Stefano Velotti in cui consiste la filosofia, vale a dire:
che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come
non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla
[...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse,
ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici
estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere34. Il problema del
“prevalere” della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso
in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di
esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte, a partire dagli anni
Sessanta del secolo scorso, non abbia pro- gressivamente ceduto a un’aderenza
sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua
ottusità, il suo darsi di fatto, come mero “accompagnamento” del senso, avendo
per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella «regola che
non si può addurre» di cui parlava Kant nel §18 della terza Critica; una
«regola» indeterminata che, non potendosi “addurre” – formulare o esplicitare –
può essere, appunto, solo “esemplificata” in un esempio singolare,
inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. 7. Nell’ultimo,
breve e denso libro di Garroni – Immagine Linguaggio Figura35 – troviamo spunti
inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro
bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la
sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e
internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato.
Ricorderò solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione di «im- magine
interna» che ha preso forma attraverso «l’assiduo ripensamento del cosiddetto
“schematismo” kantiano»36, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di
poter spiegare qualcosa – della percezione o del riferimento al mondo –
rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle «figure» (che
nell’uso comune chiamiamo “imma- gini”, ma che non possono essere altro che
elaborazioni, esteriorizza- zioni e riduzioni delle «immagini interne»), le
«immagini interne» sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci
sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte,
rielaborate e ricordate nell’imma- ginazione. È da escludere quindi ogni
obiezione legata alla presuppo- 34 E. Garroni, Estetica. Uno
sguardo-attraverso, cit., p. 270. 35 E. Garroni, Immagine linguaggio figura.
Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005. 36 E. Garroni, Immagine
linguaggio figura, cit., p. ix. 282 Il senso dell’esperienza:
Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale sizione
indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di
“figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro
tornano anche temi antichi – come quello, centra- le, della metaoperatività, un
concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della
semiotica37. Era l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito
cognitivo, sotto il titolo di “metarappresentazioni”38, ma che in Garroni si
estendeva già all’in- tero ambito dell’operare umano (un operare che è
senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo). In analogia e in
corre- lazione con la funzione metalinguistica – che è sempre implicata nelle
funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur
sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello –
Garroni introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in
tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che
distingue, in sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da
un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un
chiodo con un martello è sì un’opera- zione determinata, concreta, e dotata di
uno scopo preciso, ma – come operazione umana – contiene già dentro di sé una
famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, che potrebbe
essere chiamato uno «schema operativo»39). In Immagine linguaggio figura la
nostra capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata40 pro- prio in
relazione al lavoro di quella che Garroni chiama complessiva- mente «facoltà
dell’immagine», che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di
un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza
degli oggetti del mondo), sia dell’imma- ginazione nella sua specificità (delle
immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione
e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non
fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile,
37 E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977, p. 70 ss. 38
Cfr. per esempio D. Sperber (ed.), Metarepresentations. A Multidisciplinary
Perspective, Oxford University Press, Oxford 2000. 39 Una formulazione molto
simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e
metaoperazione – all’interno di una prospettiva “enattiva” sulla perce- zione,
a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella proposta da Garroni
– è possibile riscontrarla nei lavori di A. Noë. Per un confronto, su questi
temi, tra Garroni e Noë, cfr. S. Velotti, Tecnica, in G. Ferrario (ed.),
Estetica dell’arte contempora- nea, Meltemi, Milano 2019, pp. 149-170. 40 E.
Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 18 ss. 283 Stefano
Velotti dunque distinte dall’immagine-segno materialmente intesa,
la «figu- ra», appunto, e che è invece sostanzialmente statica. Proprio
l’attività artistica, che mette pur sempre capo a «figure» (per quanto possano
essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali) è considerata da Garroni
come il venire in primo piano di questa dimensione metao- perativa – una
rielaborazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo» – interna a ogni
operazione determinata. Ma nel corso di questo «ripensamento del cosiddetto
“schematismo” kantiano» vengono in primo piano questioni spesso prima
trascurate, come quella della corporeità, e viene messa a punto una nozione che
mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se non di sfuggita e
appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza41, come quella di
«aggregato». Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di uno
schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque
precedere – in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto – anche il
costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e
proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento
degli oggetti, non come membri di una fami- glia o di una classe (che presuppongono
appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di
note concettuali), ed è invece costituito «solo percettivamente» da «un insieme
di casi effettiva- mente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi
di numero finito, anche se via via crescente»42. Un aggregato può essere
costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e tal-
volta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che
stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente di tipo
affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di eventi e
cose amate, preoccupanti, esaltanti 43. Né la funzione dell’aggregato si
esaurisce all’interno della prima infan- zia, o nelle ipotesi relative a una
“infanzia dell’umanità” o in forme di “pensiero magico”, se, come nota Garroni,
[A]ncora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo
alle considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di D. W. Winnicot in
Senso e paradosso, cit., p. 274. 42 E. Garroni, Immagine linguaggio figura,
cit., p. 11. 43 Ibidem. 284 Il senso dell’esperienza: Emilio
Garroni e l’estetica come filosofia non speciale sere evitati
paradossi liminari, che denunciano in un certo sen- so la persistenza
dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè
dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione
unitaria e non più risalibile. Ba- sterebbe pensare alla kantiana comprensione
dell’opposizione tra incondizionato e condizionato, di soprasensibie e
sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he-
geliana unità di essere e non-essere, alla questione russelliana di “classe e
classe di tutte le classi”, e così via44. 8. Voglio però, in conclusione,
mostrare un altro autoritratto di Garroni, molto diverso da quello, verbale,
ricordato all’inizio e consegnato, con «acume» e «humour» alla bandella della
Macchia gialla, perché credo che nelle pagine di Immagine linguaggio figura si
trovi, su un altro regi- stro, una sua importante eco. È un polittico dipinto
da Garroni tra il 1983 e il 1984, sulla soglia dei sessant’anni – dopo aver
subito una seria operazione chirurgica –, composto da 13 comparti, che formano
un quadrato di 115 cm per lato. Collezione privata 44 Ivi, pp.
12-13. 285 Stefano Velotti Alcuni comparti
rappresentano frammenti del proprio corpo, vis- suti come oggetti estranei e
familiari a un tempo. Figurano anche stru- menti di studio e di affezione –
dalla Critica del giudizio a Tempo e rac- conto di Ricoeur –, “cose” amate,
come il Dissonanzen-Quartett di Mozart (che dà anche il titolo a un suo
romanzo-saggio45). Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti
nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione46. Quando dicevo che la
passione dominante di Garroni era quella di capire, di comprendere, pensavo
anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica
proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su
“cosa si prova ad essere un homo sapiens”. Un’operazione chirurgica diventa
nelle mani di Garroni un’oc- casione per elaborare, anche operativamente e
metaoperativamente, e non solo linguisticamente e intellettualmente,
l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire soltanto
l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover essere
del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere in
contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le
corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra
determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è
possibile, scri- ve Garroni in alcune notevoli pagine del suo libro47, mirare a
cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il
deter- minato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di
apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva
intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non
riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo
aggrovigliato. Forse “vedremmo”, per così dire, solo l’indeterminato e ci
sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di ogget- ti?
Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di pato- logie gravi,
quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno
perfino il senso della nostra identità (ma parimenti dovremmo escludere il caso
estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti), il riconoscimento
non 45 E. Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma 1990. 46
Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da A.
Olivetti, dice [...]. Primi appunti su un Autoritratto di Emilio Garroni,
pubblicato nel catalogo della mostra Emilio Garroni – Un Autoritratto, 4-15
dicembre 2006, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del
Comune di Roma. 47 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 33.
286 Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come
filosofia non speciale viene meno neanche nel caso di un risveglio
depresso e confu- so. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli
og- getti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti indipendenti
e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il riconoscimento,
non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede presuppone un
riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo – è il nostro piede e
per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene depotenziato e in
certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe esserci estraneo,
ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia cosiffatto e ci
appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose del mondo,
esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito, languoroso e
stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato di Garroni,
tenden- te piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si lascia
anda- re anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del venten-
nio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a cambiare
i parametri della vita pubblica, «la “mente” dei cittadini»): Ormai si è
istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte,
di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma
soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche,
l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la “mente” dei cittadini, di
cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo
politico di trista attualità ho messo termine a questo breve saggio49. La
“facoltà dell’immagine” di Emilio Garroni e il suo contributo alla
ricerca contemporanea sulla percezione , i “contenuti non
concettuali” e l’immaginazione . 1 L’ultimo
libro di Emilio Garroni, Immagine Linguaggio Figura 2 , è in
parte una ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi
trent’anni prima in Ricognizione della semiotica 3 . Da una
rielaborazione dei problemi abbozzati in questo volume del 19 77, e
grazie a un’assidua interpretazione e rielaborazione del pensiero
kantiano, Garroni arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni
irriducibili della sensibilità e dell’intelletto in termini
di «“facoltà dell’immagine”» 4 , da un lato, e di linguaggio e concetti,
dall’altro. Nonostante Immagine Linguaggio Figura nomini fin
dal titolo il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma
kantianamente irriducibili dell’esperienza umana , lo statuto del
linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva
all’interno di tale esperie nza, ma solo in relazione all’«immagine
interna», che deve essere considerata «la premessa e la garanzia della
realtà del significato delle parole del linguaggio» 5 . Naturalmente,
1 Relazione tenuta al convegno di studi “Emilio Garroni:
determinazioni e dissonanze”, Chieti, 29-30 marzo 2012. 2 E
MILIO G ARRONI , Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e
ipotesi , Roma-Bari, Laterza 2005. 3 I D .,
Ricognizione della semiotica. Tre lezioni , Roma, Officina 1977.
4 I D ., Immagine Linguaggio Figura , cit. p. ix, dove Garroni
precisa: «Chiamerò complessivamente ‘immagine interna’ sia il precedente
di un’immagine (sensazione), sia l’immagine in quanto attualmente
prodotta (pe rcezione), sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata
-rielaborata (immaginazione), per distinguerle complessivamente dalla ‘figura’
esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. […] Perciò […] mi capiterà di
chiamare la facoltà che ne è responsabi le ‘facoltà dell’immagine’, tale
da riunire in sé sensazione, percezione, immaginazione». 5 I
D ., Immagine Linguaggio Figura , cit. p. 57non bisogna cadere
nell’errore di considerare le «immagini interne» come «fig ure», (
Bilder , pictures ) che avremmo nella mente. Garroni
conosce bene la critica wittgensteiniana a quest’idea tradizionale
e insostenibile. Anzi, si potrebbe considerare la teoria dell’«immagine
interna» come una lunga e meditata replica a chi confonde la critica di
Wittgenstein con un rifiuto di attribuire ogni valore cognitivo o semantico
alla nostra attività percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio.
Per integrare quanto è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor
tuno tenere presente l’articolo che Garroni ha dedicato a
Minisemantica di Tullio De Mauro 6 nel 1998,
caratteristicamente intitolato L’indeterminatezza semantica, una
questione liminare 7 . Sia sul versante della percezione e dell’immagine,
sia su quello del linguaggio e dei concetti, troviamo infatti in
quest’articolo quella correlazione di determinato e indeterminato che è
forse il nodo teorico che Garroni ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici
articolazioni: il «paradosso fondante» della filosofia, ma a nche
dell’esperienza comune - di cui Garroni parla prima nella voce i
Paradossi dell’esperienza scritta per l’Enciclopedia
Einaudi , e poi in Senso e paradosso 8 - non è
altro che un’a ntinomia inevitabile, modellata sull’antinomia della
facoltà di giudiz io della terza Critica kantiana. La
relazione paradossale tra determinatezza e indeterminatezza è al centro
sia della trattazione della facoltà dell’immagine, sia della facoltà del
linguaggio. Qui vorrei, per un verso, mostrare quale aspetto abbiano
assunto nell’ultimo libro certi problemi già impostati in
Ricognizione della semiotica – creando
6 T ULLIO D E M AURO , Minisemantica
, Roma-Bari, Laterza 1982. 7 E MILIO G ARRONI ,
L’indeterminatezza semantica, una questione liminare , in A A
.V V ., Ai limiti del linguaggio , a cura di F
EDERICO A LBANO L EONI , D ANIELE
G AMBARARA , S TEFANO G ENSINI , F
RANCO L O P IPARO , R AFFAELE S IMONE
, Roma-Bari, Laterza 1998, poi in E MILIO G ARRONI , L’arte e
l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica , Roma-Bari,
Laterza 2003, pp. 89-115, da cui cito. 8 E MILIO G
ARRONI , I paradossi dell’esperienza , in A A
.V V ., Enciclopedia Einaudi , vol.
XV, Sistematica , Einaudi, Torino 1982, pp. 867-915 ; I
D ., Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non
speciale , Roma-Bari, Laterza 1986così un asse verticale, o di profondità
temporale, all’interno de lla ricerca stessa di Garroni; per altro verso, però,
vorrei tentare qualche rapido confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati
in Immagine Linguaggio Figura e la filosofia contemporanea,
soprattutto di area analitica, con qualche riferimento anche all ’ambito
della psicologia cognitiva e discipline affini. Con il corrodersi della “
filosofia linguistica ” , infatti, - o, se si vuole , con l’apertura
della linguistic turn al non linguistico –
quest’area di ricerca emersa negli ultimi 40 -50 anni ha permesso di
riscoprire il problema della perc ezione e dell’immaginazione, creando
ambiti disciplinari anche molto specialistici su questioni strettamente
interconnesse: dal problema della natura della mental imagery
9 a quello dei cosiddetti “contenuti non concettuali” della
percezione (in cui un ruolo di rilievo assume anche la percezione e la
cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente da Garroni); da
quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle numerose
prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico
all’immaginazione. A lungo considerata in area analitica come
una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a
questa parte l’immaginazione è al centro di molte aree di ricerca: se ne
parla i n relazione ai “giochi di far finta” ( games of make
believe ) 10 – sia nel campo delle arti
che in quello più generale dell’esperienza comune 9 Cfr.
l’ampio contributo di N IGEL J.T. T HOMAS
, Mental Imagery , in The Stanford Encyclopedia of
Philosophy , (Winter 2011 edition), a cura di E DWARD N.
Z ALTA , URL = http://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/mental-imagery/.
Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che proprio allo schematismo
kantiano Thomas dedichi uno spazio molto ridotto, e limitato alla schematismo
trascen dentale dell’intelletto della prima Critica :
aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo cui lo schematismo è
«un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui vero impiego
difficilmente saremo in grado di strappare alla natura per esibirlo
patentemente dinanzi agli occhi» (B181), Thomas mette da parte il problema
concludendo che Kant, «in attempting to grapple with problems about the nature
of mental representation that the Empiricists had failed to solve, left the
process of image formation, and the nature of image itself, deeply misterious»
(ivi, p. 14). 10 Cfr. K ENDALL W
ALTON , Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of
Representational Arts , Cambridge (MA), Harvard University Press 1990
(trad. it. di M ARCO N ANI , Mimesi come far
finta , Milano, Mimesis 2011- , alle ricerche sull’autismo (considerato
da alcuni come una “patologia dell’immaginazione”), a quelle sull’empatia
e sulla simulazione, ai cosiddetti “paradossi della ‘finzione”, della
“suspense” o della “resistenza immaginativa” , e ai tentativi, o alle rinunce,
di fornire una nozione unitaria di immaginazione che ne comprenda le varie
declinazioni: u n’immaginazione pr oposizionale e non proposizionale, una
“ricostruttiva” e una “creativa” , e così via 11 . Immagine
Linguaggio Figura è stato scritto senza note e senza riferimenti
espliciti ad altri autori o ad altre ricerche contemporanee. Ma è
tutt’altro che un libro estemporaneo o isolato. Anzi, Garroni lo ha
potuto scrivere liberamente, quasi “di getto”, solo perché erano almeno
trent’anni che andava elaborando quei pensieri. Abituati
ormai a pensare, come è d’uso nella filosofia analitica, sotto
l’ombrello di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici
di fondo nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi
– nel caso della mental imagery , per esempio, il
primo discrimine che troviamo è quello fotografato dall’annoso e
fuorviante dibattito tra sostenitori delle teorie “analogiche” e
delle teorie “proposizionali” -, la riflessione di Garroni sembra
condotta in isolamento, e risulta difficile da collocare sotto un’etichetta
univoca. Mentre non credo che le etichette servano davvero, in quanto tali, a
far progredire la comprensione dei problemi, credo invece che un confronto
sostanziale tra le proposte di Garroni e quelle elaborate in ambito
anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli schieramenti. In ogni
modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di Garroni in quel
dibattito – che nel bene e nel male è sempre più
ristretto, specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre
volte utile a chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì,
magari, non sono contemplate -, potremmo orientarci verso l’ambito delle
teorie “enattive” ( enactive ) della percezione e delle
11 Per il nuovo interesse suscitato dall’immaginazione in ambito
anglosassone negli ultimi decenni, e le relative indicazioni
bibliografiche, rimando a S TEFANO V ELOTTI , La
filosofia e le arti. Sentire, pensare, immaginare , Roma-Bari,
Laterza 2012, in particolare il cap. 3immagini mentali, che costituiscono una
“terza via” – non computazionale - rispetto a quelle
“analogiche” e a quelle “proposizionali”. Come che stiano le
cose rispetto a questi orientamenti, il confronto approfondito e sostanziale
tra le riflessioni di Garroni e le teorie della percezione, delle
immagini mentali, dell’immaginazione – nel loro ruolo in ambito
cognitivo, semantico, estetico, artistico – è un lavoro
ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in relazione al problema dei
cosiddetti “contenuti non concettuali” della percezione, cominciando però
dallo sviluppo interno al pensiero di Garroni stesso, e in particolare d
all’insoddisfazione per la semiotica denunciata nel ’77 . Alla
domanda se «la semiotica [sia] sufficiente a se stessa», Garroni rispondeva di
no, perché la semiotica non poteva indagare «il problema delle condizioni»
grazie a cui «un qualcosa diviene segno» 12 . Lì Garroni invocava la
costruzione di una «semantica trascendentale» come metateoria di una «semantica
empirica» e di una «semantica logica», e indicava il suo «oggetto
specifico» nei «significati trascendentali», cioè negli «“schemi
dell’immaginazione” , affrontati in sede di schematismo trascendentale
nella Kritik der reinen Vernunft » 13 . Garroni, d’altra parte,
già avvertiva – avendo pubblicato l’anno prima
Estetica ed epistemologia 14 –
l’insufficienza dello schematismo trascendentale della prima
Critica , valido solo per (le condizioni de)la conoscenza in genere
( überhaupt ), ma non per comprendere la conoscenza effettiva
o determinata, e rimandava al « principio trascendentale soggettivo,
creativo e costruttivo » 15 indagato da Kant nella terza
Critica. Nella Premessa a Immagine Linguaggio Figura
si dice che l’enigma dell’immagine interna, il 12 G ARRONI
, Ricognizione , cit., p. 33. 13 G ARRONI ,
Ricognizione , cit., p. 37. 14 E MILIO G ARRONI
, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla Critica del
Giudizio di Kant , Roma, Bulzoni 1976, nuova ed. con una nuova
Premessa, Milano, Unicopli 1998. 15 G ARRONI ,
Ricognizione , cit., p. 38, c.vo nell’originale.vero e proprio tema
centrale del libro, ha preso forma attraverso « l’assiduo ripensamento
del co siddetto ‘schematismo’ kantiano» 16 . Dunque, una continuità con
l’opera del ’77, ma certamente anche un’importante discontinuità: lo
schematismo trascendentale, quello dei concetti puri dell’intelletto, passa
decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a venire in primo
piano sono lo schematismo empirico - quello cioè che permette di pensare
la costruzione dei concetti empirici a partire dalla percezione, che Kant nella
terza Critica chiama «esempio» - e lo schematismo
«simbolico» – quello che funziona per analogia, in relazione
a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo delle
cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del nostro lin
guaggio 17 . Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie alla
distinzione - disponibile solo a partire dalla terza Critica
– tra uno schematismo «oggettivo» e un «libero schematismo»,
si intrecciano sempre nella produzione effettiva di enunciati e figure
significanti, ma devono essere distinti a livello analitico. Già nella
Ricognizione della semiotica Garroni metteva in chiaro come lo
schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni concezione ingenuamente
referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una direzione di ricerca che
poi si preciserà nel tempo. Si diceva: Il ‘referente’ non è la cosa s tessa,
ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle e configurarle
come il correlato implicito del linguaggio; l’ ‘operazione’ a sua volta è
questo stesso concreto manipolare, che non può essere disgiunto peraltro
dal nostro rappresentarci le cose e le nostre manipolazioni delle cose,
cioè dal nostro ‘prendere le distanze’ dagli stimoli immediati, e che
suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e parlarne 18 .
16 G ARRONI , Immagine Linguaggio Figura , cit., p.
ix. 17 Cfr. I MMANUEL K ANT , Critica della
facoltà di giudizio , ed. it. a cura di E MILIO G ARRONI e
H ANSMICHAEL H OHENEGGER , Torino, Einaudi 1999, in
particolare §49 e §59, e l’ introduzione dei curatori. Sull’analogia in
Kant v. M IRELLA C APOZZI , Le inferenze del giudizio
riflettente in Kant: l’induzione e l’analogia , “Studi kantiani”,
XXIV (2011), pp. 11 -48. 18 G ARRONI ,
Ricognizione , cit., p. 69.È evidente, mi pare, che «l’operazione»
di cui si parla include anche la nostra nativa attività percettiva che verrà
poi indagata attraverso il problema della costituzione, della natura e della
funzione delle «immagini interne». Distinte dalle «figure» (che non possono
essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini
interne), le immagini interne sono innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni
attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di
queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È
da escludere quindi ogni obiezione legata alla presupposizione indebita e
circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta
spettatore di “figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. È
invece questa operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i
regresso all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare
una spiegazione , in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un
ruolo decisivo gioca qui la nozione di metaoperatività
introdotta in Ricognizione della semiotica 19 e poi
ripresa, anche terminologicamente, in tutta la sua importanza, solo
trent’anni anni dopo. È interessante come, anche in questo caso, Garroni
anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il t
itolo di “metarappresentazioni” 20 , ma che in Garroni si es tende già
all’intero ambito dell’operare umano (un operare che è pragmatico e
corporeo, percettivo, cognitivo). In analogia e in correlazione con la funzione
metalinguistica – che per Garroni è sempre implicata
nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce
pur sempre una funzione che può essere solo interna al linguaggio di primo
livello – Garroni introduce la nozione di
metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò che
distingue, in sostanza, un’operazione del 19 G ARRONI
, Ricognizione , cit., p. 70 sgg. 20 Cfr. A
A .V V ., Metarepresentations. A
Multidisciplinary Perspectiv e, a cura di D ANIEL S
PERBER , Oxford, Oxford University Press 2000genere stimolo-
risposta da un’operazione che include già dentro di sé una
generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione
determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma –
come operazione umana – contiene già dentro di sé
una famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, ch e
potrebbe essere chiamato uno “schema operativo” ): “ piantare
questo ch iodo”, per l’uomo, suppone “piantare i chiodi in generale” , cioè un
comportamento operativo – metaoperativo rispetto a
quello – volto alla fabbricazione di strumenti e alla
determinazion e di variabili operative; e il “piantare chiodi in
generale” suppone ul teriormente l’“ operare in generale in vista d i
possibili variabili operative” , cioè un comportamento specificamente
metaoperativo. 21 Persino l’operare per prova ed errore –
tipico del comportamento animale non umano - suppone nell’uomo un
piano, una consapevolezza di operare per prova ed errore. S appiamo che
proprio l’attività artistica è considerata da Garroni come l’esemplificarsi di
questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione metaoperativa
non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza
scopo». La terza parte di Ricognizione della semiotica è
tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che linguaggi propriamente
non sono, non solo in quanto privi di un codice, ma in quanto
strettamente condizionati da un’operatività e da una metaoperatività
irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui Garroni lì parla
brevemente – dall’architettura alla musica, dalla
poesia alla narrativa alla pittura – sono indagate a partire dal
modo in cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per
sé inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i prodotti
umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di “ stile
” viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici
metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene caratterizzata
come una condizione 21 G ARRONI , Ricognizione ,
cit., p. 94nozioni diverse, quali gli oggetti che Donald W. Winnicott ha
chiamato «transizionali» 27 , di quelli che Michael Dummett ha chiamato
«proto-pensieri» 28 , che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi
– a partire da Gareth Evans 29 –
chiamano “contenuti non concettuali” della percezione (c ontraddicendo,
dunque, l’idea fatta valere da Maurizio Ferraris secondo cui la
tradizione kantiana avrebbe decretato l’equivalenza tra epistemologia e
ontologia, cioè l’assimilazione di tutt o il reale, di quel che c’è, a
quel che possiamo conoscerne grazie ai nostri “schemi concettuali” , gettando
così le premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo
nietszscheano secondo cui “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, e di
qui del p ostmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo
secondo cui niente è fuori dal testo, e così via) 30 . affidata a un
principio estet ico che esprime un’originaria adesione del soggetto all’esperienza,
e insieme un’anticipazione distanziante di questa». 27 Già
in Senso e paradosso , cit. p. 274, G ARRONI si era riferito
in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott («mediatori tra il
narcisismo infantile, o primario, e le relazioni oggettuali», obbedienti
a «“quel principio di confusività” […] che violerebbe appunto “il principio
aristotelico di non contraddizione”») accostandoli da un lato all’
Unheimliches freudiano e, dall’altro, alla paradossale unità di
determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica
una sua manifetsazione esemplare: «Non c’è esperienza ben determinata,
apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di
transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti
transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso. Qui si
legittima […] anche la creatività […] che viene esemplar mente e più
tipicamente esibita oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione
estetica, da ciò che chiamiamo “arte” ed “esperienza estetica”», ivi, p.
275. 28 M ICHAEL D UMMET , Origins of
Analytical Philosophy , Cambridge, Harvard University Press 1994, ed. it.
a cura di E VA P ICARDI , Origini della filosofia
analitica , Torino, Einaudi 2001, cap. XII: «Il
proto-pensiero si distingue dal pensiero vero e proprio che è esercitato
dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne è il veicolo per il fatto di
non essere separabile dalle attività e circostanze presenti. […] non
possiamo dare una spiegazione soddisfacente della nostra capacità di base
di apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando il livello dei
proto-pensieri» (ivi, pp. 138-139). 29 G ARETH E
VANS , The Varietis of Reference , Oxford University Press, Oxford
1982. 30 Di M AURIZIO F ERRARIS , tra i tanti testi e
articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da ultimo il
Manifesto del nuovo realismo , Roma-Bari, Laterza 2012. Per una
discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come « unità
costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in
dichiarata corrispondenza a « quell’unità estetica delle rappresentazioni
di cui si occupa Kant nella Kritik der Urteilskraft » 22 .
A questo punto abbandono il libro del ’77 per vedere come queste
problematiche vengano riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel
libro del 2005. Il nuovo strumento teorico che Garroni ha messo a punto, al di
là del riferimento al principio di una «conformità a scopi senza scopo» quale
senso e sentimento comune (il Gemeinsinn kantiano), è la
nozione di «immagine interna», proprio a partire da una rielaborazione del
libero schematismo della terza Critica. Qui la nostra capacità
metaoperativa resta una nozione importante, ed è esplicitamente richiamata nel
testo 23 , ma viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro
di quella che Garroni chiama complessivamente «facoltà dell’immagine» ,
che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di un’immagine),
sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti
del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini
in quanto riprodotte o ricordate- rielaborate). Quella che nel ’ 77
veniva chiamata per lo più «operazione» è qui inn anzitutto l’attività di
questa «facoltà dell’immagine» , dal livello senso-motorio e non ancora
associato effettivamente al linguaggio e ai concetti, fino al suo pieno
intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur sempre all’interno di una
non riducibilità dell’una dimensione all’altra. Sensazione, percezione e
immaginazione sono tutte «immagini interne» costitutivamente dinamiche,
non fissabili in un’ icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di
non sensibile, dunque distinte dall’immagine -segno materialmente intesa,
che Garroni chiama «figura», e che è invece sostanzialmente statica.
22 G ARRONI , Ricognizione , cit., p. 147.
23 G ARRONI , Immagine Linguaggio Figura , cit.,
p. 18 sggUna delle nozioni di maggior interesse che emerge subito
– assente, direi, negli scritti precedenti
– è quella di «aggregato». Si tratta di qualcosa di
pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere
– in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto
– il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di
classi. Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento
degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che
presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una
pertinentizzazione di note concettuali). Un aggregato è invece costituito «solo
percettivamente» e costituisce «un insieme di casi effettivamente sperimentati
o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente»
24 . Un aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati
da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da
un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non
chiaribile intellettualmente di tipo affettivo, emozionale,
fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amat e, preoccupanti,
esaltanti” 25 . Mi sembra di poter dire che Garroni stia cercando di dar
conto, con una rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una
“sintesi dell’apprensione” 26 , ancora priva di un’unità conc ettuale,
della comune radice di 24 G ARRONI , Immagine
Linguaggio Figura , cit., p. 11 25 Ibidem. 26 Ma
G ARRONI segnala una revisione tendenziale dell’estetica
trascendentale kantiana a un livello molto più radicale e produttivo, già
da Senso e paradosso , (cit., p. 226): «Con la riflessione estetica
della Critica del Giudizio , il problema dell’immaginazione viene in
primo piano: nasce u n nuovo schematismo – lo
schematismo libero, senza concetti, dell’immaginazione
– come capacità originaria di organizzazione delle
percezioni. Di conseguenza tende a ridimensionarsi notevolmente la
primitiva Estetica trascendentale , nonché la stessa
Logica trascendentale , della Critica della ragion pura . Per
esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello
spazio e del tempo non è che un aspetto, forse non il più
originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua elab
orazione nell’immaginazione (non più soltanto ‘produttiva’ e ‘riproduttiva’, ma
anche ‘creatrice’), non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali
rispetto a una ‘materia’ sensibile. Il centro della questione, di fronte a
quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla
relazione tra «aggregato» e «oggetto transizionale», mi sembra che uno degli
esempi portati in Immagine Linguaggio Figura non lasci adito
ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive Garroni, «prima che il
linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione
di un’intelligenza prev alentemente senso-motoria», si può
ipotizzare che si producano, nel la manipolazione degli oggetti, […]
riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti in essi variamenti disposti.
Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo
come un vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una
cope rtina o un lenzuolino possono essere riconosciuti come oggetti
d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero della
madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo
esterno non ancora propriamente conosciuto e dominato; e così via. In
questi casi l’aggregato è lontanissimo dalla formazione di una futura
tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi
formarsi se non fosse preceduta da quello. 31 Se queste forme
prelinguistiche di aggregazione e riconoscimento sono però contrassegnate
da una vocazione al linguaggio e all’organizzazione concettuale, ci si
può chiedere se siano pensabili anche senza questa teleologia evolutiva e
se non siano per caso da pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune
specificazioni, delle rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie
di animali non-umani. A questi, infatti, Garroni riconosce non una vera
«percezione interpretante» – come quella umana -, ma
neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente distinto da un «mondo»
32 – come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme
di von Uexküll. Forse la distinzione vale per l’ambiente sensoriale della
zecca, ma sarebbe diff icile dire la stessa cosa di un cane o delle
grandi scimmie. tesi rispetto a Kant, rimando a S TEFANO
V ELOTTI , Storia filosofica dell’ignoranza ,
Roma-Bari, Laterza 2003, in particolare i capp. 3, 4 e 7. 31
G ARRONI , Immagine Linguaggio Figura , cit., pp.
12-13. 32 G ARRONI , Immagine Linguaggio Figura ,
cit., p. 44Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e accettando
della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e delle cose
che la avvolgono, è attribuibile anche agli animali non-umani. Solo che
sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento, in cui la
sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e non
formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta
“immagine del mondo”. 33 Mi sono soffermato brevemente sul tema
della percezione infantile e degli animali non-umani perché è diventato
forse l’argomento più forte portato dai sostenitori dei contenuti non
concettuali della percezione 34 . Questo confronto tra le posizioni di
Garroni e quelle dei sostenitori dei “contenuti non concettuali” (un’espressione
che Garroni non usa mai) richiederebbe uno studio specifico, come anche
la relazione tra l’ «aggregato» e i «proto -pensieri» di Dummett, una
nozione elaborata proprio per dar conto di rappresentazioni che non sono
dipendenti dal linguaggio, proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali
non-umani (anche se credo che sia necessario, anche per Dummett, distinguere
tra proto-pensieri suscett ibili di diventare pensieri, o “vocati’ a
diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i possibili punti di
convergenza della riflessione di Garroni sulla irriducibilità della percezione
al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione analitica e psicologi
cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di Garroni sta al passo con i
tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo interesse. Il fatto è
che Garroni mette in luce – spesso senza portare fino
in fondo i dettagli dell’analisi – aspetti, implicazioni e
dimensioni del problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto
con la ricerca contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei
sottolineare che non si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di
prospettive diverse, ma di confronti concreti 33 G ARRONI
, Immagine Linguaggio Figura , cit., p. 44-5. 34 Non
solo in E VANS , cit., ma soprattutto, tra gli altri, in C
HRISTOPHER P EACOCKE , Does perception have a nonconceptual
content? , in “Journal of Philosophy”, 98 (2001), p p. 239-264 e I D .,
Phenomenology and nonconceptual content , in “Philosophy and
Phenomenological Research”, 62 (3) (2001), pp. 609 -15, e già anche in F
REDERICK D RETSKE , Naturalizing the Mind ,
Cambridge (MA), MIT Press 1995che potrebbero portare a risultati sorprendenti
forse anche in termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il
primo, già accennato, riguarda proprio i contenuti non concettuali. Il
secondo riguarda invece l’indeterminatezza delle immagini mentali
A. È indubbio che le principali ragioni che hanno portato la filosofia
della linguistic turn a occuparsi di fenomeni non
linguistici, e in particolare di contenuti percettivi non concettuali, è legata
a una serie di ragioni che trovano corrispondenze abbastanza puntuali in
Garroni. E tuttavia, nonostante la loro raffinatezza, spesso queste analisi
sono incapaci di vedere aspetti della questione che una riflessione filosofica
come quella di Garroni aiuta a scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al
dibattito sui contenuti non concettuali sono svariate: 1. La possibilità,
riconosciuta da Garroni con la nozione di «aggregato», di rappresentare nella
percezione stati di cose contraddittori o impossibili da un punto di vista
proposizionale e concettuale: l’esempio che si fa di s olito sono le
figure di Escher, o la « l’illusione della casca ta» di Tim Crane 35 , ma
l’aggregato di Garroni, come abbiamo visto rapidamente, coglie questa
possibilità percettiva innanzitutto al livello dell’immagine interna, e
nella sua necessità – non solo come fatto
accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura
36 . 2. Un secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale ha
sostenuto che il contenuto della percezione è « unit-free » 37 :
percepisco una distanza 35 T IM C RANE , The Waterfall
Illusion , in “Analysis”, 48 (1988), pp. 142-147. 36
Cfr. il capitolo 8 di Immagine Linguaggio Figura , in cui G
ARRONI analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di
alcune figure , e il «ruolo primario nei riguardi della varia
interpretabilità del percepibile» giocato dalla «indeterminatezza percettiva»
propria delle immagini interne in relazione al mondo
reale. 37 C HRISTOPHER P EACOCKE , Analogue
content , in “Proceedings of the Aristotelian Society”, 60 (1986),
pp. 1-17determinata tra me e un oggetto senza per questo dover usare
un’unità di misura. E queste rappresentazioni sono irriducibilmente
non-concettuali. Garroni, di nuovo appoggiandosi – qui
implicitamente - a Kant 38 , usa un’ argomentazione analoga per mostrare
come la percezione ci appaia legittimamente come soggettiva e oggettiva a un
tempo, senza che ci sia nulla di contraddittorio o ossimorico, in quanto la
percezione «fornisce valori oggettivi delle cose, per esempio quantitativi,
tali da poter essere poi esplicitati in rapporti
metrici, in un modo che non è ad evidenza delle cose stesse: lo stesso
avvertimento di quei valori oggettivi è nostro [e
questo avvertimento è non concettuale: nota mia] e, tanto più, la nostra
misurazione non sta nelle cose , ma dipende da
un’unità di misura da noi stabilita idonea per
l’esplicitazione [concettuale] di quei rapporti» 39 . L’avvertimento dei
valori quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non
concettuale (estetica, direbbe Garroni con Kant) di ogni misurazione
oggettiva e concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Gareth Evans e poi
ripreso da molti, è la maggiore «finezza di grana» della percezione rispetto
alla “ grana ” dei contenuti degli atteggiamenti proposizionali.
Qui è facile riferirsi di nuovo a Garroni nella sua rielaborazione del pensiero
kantiano, ma non tanto in relazione agli aggregati, quanto al libero
schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee estetiche» (una modalità
esemplare di «immagine interna», che Kant stesso designa come «intuizione
interna»: « dal punto di vista estetico l’immaginazione è libera, al fine di
fornire, ma in modo non ricercato […] una copiosa e inesplicita materia [
Stoff ] all’intelletto, che questo, nel suo concetto,
non prendeva in considerazione » 40 ) . E l’analisi,
centralissima, che Garroni dedica al libero schematismo, non si limita a un
riferimento alle ope re d’arte (che sono, per Kant, « espressioni di idee
estetiche»), ma 38 V. K ANT , Critica
della facoltà di giudizio , cit. § 25. 39 G ARRONI ,
Immagine Linguaggio Figura , cit. p. 6. 40 K
ANT , Critica della facoltà di giudizio , cit., § 49,
c.vo mio si allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti
empirici. Garroni precisa infatti che lo stesso schema [lo schema
empirico, l’immagine -schema o, nel linguaggio della terza Critica
kantiana, l’ «esempio» ] è possibile dentro il quadro del
rapporto dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di
certi tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici
percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non
sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no,
percepibili o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità 41 . Non
si tratta, è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato il
rapporto dell’immaginazione con l’intelletto) , ma è anche vero che qui nessun
concetto determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e
anzi un concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire
da una totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o
concettualmente classificati. Nella prospettiva di Garroni, la maggiore
“finezza di grana” della percezione verrebbe vista in un quadro più ampio
di quello analitico e cognitivista, che ha conseguenze antropologiche,
semantiche, di teoria dell’arte, mentre probabilmente potrebbe guadagnare
a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il
dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al
precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da Michael Ayers 42
, e riguarda la possibilità di acquisire e apprendere concetti empirici. Se non
si dessero contenuti non concettuali, o il nostro ragionamento sarebbe
circolare (coglieremmo già concettualmente contenuti percettivi di cui invece,
per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti), oppure dovremmo supporre un
innatismo fortissimo e insostenibile. La 41 G ARRONI
, Immagine Linguaggio Figura , cit. p. 98. 42 C
HRISTOPHER P EACOCKE , A Study of Concepts , Cambridge
(MA), MIT Press 1992, e I D ., Does perception… , cit.;
M ICHAEL A YERS , Sense experience, concepts, and
content – objections to Davidson and
McDowell , in R. S CHUMACHER , a cura di,
Perception and Reality: From Descartes to the Present , Paderborn, Mentis
2004, pp. 239-262ripresa da parte di Garroni delle considerazioni svolte da
Umberto Eco nel suo Kant e l’ornitorinco (che a sua volta si
riferiva a Garroni) fornisce un modello per la formazione dei concetti empirici
proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma di aggregati, che
permette un riconoscimento percettivo anteriore alla costituzione di uno schema
empirico, correlato a un nome comune 43 . B. Veniamo al secondo esempio.
Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza analitica hanno
sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia dalle figure (
pictures ) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe, questo,
un tratto che li avvicina alla tesi di Garroni sul reciproco correlarsi di
determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa
argomentazione 44 è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo
indeterminate, sono più simili a descrizioni che a figure. L’argomento di
Dennett è abbastanza noto, e rig uarda il numero delle strisce del manto
di una tigre: in un’immagine mentale il numero delle strisce di una
tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere
numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle
strisce può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul
manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle
figure. Un’autorità sulla mental imagery come Thomas
– insieme a molti altri - sostiene che questo argomento
non è valido, perché un’immagine mentale di una tig re potrebbe avere un
numero determinato di strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a
contarle perché l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza.
Inoltre, anche una figura di una tigre potrebbe rendere impossibile
contarle, in quanto sfocata o sommaria, e 43 G ARRONI
, Immagine Linguaggio Figura , cit. p. 58, sgg.
44 Tra gli altri D ANIEL D ENNETT , Content and
Consciousness , London, Routledge & Kegan Paul 1969, pp. 135-7; Z
ENON P YLYSHIN , What the mind’s eye tells the mind’s brain:
A critique of mental imagery , “Psychological Bullettin”, 80
(1973), pp. 1 -25; tra i critici di questa argomentazione, M ICHAEL
T YE , The Imagery Debate , Cambridge (MA), MIT Press
1991anche una tigre reale – presente alla percezione
attuale e non immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente
delle sue strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra
evidente come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un
carattere delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione
affrettata. E come le contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle
di molti altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in
considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze,
colta da Garroni tra determinatezza e indeterminatezza delle
immagini interne e il loro rapporto con le
figure . L’indeterminatezza dell’immagine interna –
così come viene pensata da Garroni - non è una figura sfocata o mancante
di alcuni particolari, o addirittura una figura che sarebbe determinabile se
solo avessimo il tempo di esaminarla nella nostra mente. La correlazione
essenziale tra determinatezza e indeterminatezza che la caratterizza è
condizionata dal fatto che è un’immagine dinamica e multimodale (visiva,
olfattiva, tattile, uditiva, mnemonica, affettiva, viscerale, e così via)
e dunque non è in nessun modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita
o evanescente . È piuttosto un’operazione nativa e attiva, che, nel caso
della percezione visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi
luminosi a cui è sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai
movimenti saccadici e di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe
neppure un’immagine retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta
attivamente e selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione
interpretante» sullo sfondo di un contesto – oggettivo
e soggettivo - che si allarga da quello visibile a quello non visibile,
fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti (associazioni con
altri oggetti e memorie percettive). I l problema dell’indeterminatezza
condizionante dell’immagine interna non è tanto se possiamo contare o
meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato,
che, per esempio, non si 45 T HOMAS , Mental
Imagery , cit., nota 31illuda di poterla considerare come l’imma
gine interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti, dal
mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento della totalità
dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche costruire
modellini della percezione più semplici, avendo in vista la costruzione
di macchine per il riconoscimento automatico di certe caratteristiche
oggettuali nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano
effettivamente la percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso
quel che scriveva Garroni nel già citato articolo sulla indeterminatezza
semantica a proposito del senso stesso di una riflessione filosofica. Credo che
quel che diceva allora a proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe
essere ripetuto per la percezione e i percettologi, come suggerisce
l’ultimo esempio che ho portato: Si metteva in dubbio prima che
potessero esistere puri linguisti [o puri percettologi, potremmo dire].
Forse è proprio vero: non esistono. Anzi, se l’antinomia che essi
inevitabilmente incontrano e si sforzano di comporre è sempre presente
esteticamente in loro e in tutti noi, linguisti e non linguisti,
nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso, del linguaggio in
genere nella sua totalità indeterminata, è forse addirittura possibile
sostenere […] che la cosiddetta ‘filosofia’ si inscrive necessariamente
in ciò che abbiamo detto ‘coscienza implicita del linguaggio’. È infatti
difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente […] ma che essa nasca da
un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza e del linguaggio,
consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande
maggioranza dei casi solo una precomprensione o un avvertimento oscuro di
una comprensione, questo sembra tutt’altro che campato in aria. Ciò
comporta una differenza rispetto a una linguistica che non vuole saperne,
di filosofemi? Forse no, se la differenza va cercata in positivo, in una
determinazione dall’alto di principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata
in negativo, nell’esclusione che principi e metodi possano essere
qualcosa di assoluto e unilaterale, si ispirino poi alla indeterminatezza o
alla determinazione. Ciò pare plausibile soprattutto se essa fa emergere
più nettamente la coscienza implicita che ogni nostro uso del linguaggio […]
non è solo un uso particola re […] ma contiene una componente di
indeterminatezza che lo fa essere paradossalmente proprio quell’uso e permette
di descriverlo proprio come quell’uso determinato, nello stesso uso
effettivo , in tutti i sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del
tutto insignificante, da un punto di vista etico e politico, non sospettabile
di ideologismo, alla promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e
non particolaristica? 46 46 G ARRONI ,
L’indeterminatezza semantica …, cit. p. 112Emilio Garroni. Garroni.
Keywords: l’implicatura di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via
Latin cognate ‘sentire’ -- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean
sense” – Do not multiply senses -- mentire/mentare/meinen/mean
-- messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente,
mittente, recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to
‘out’ -- ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51639513764/in/photolist-2mRGVwA-2mQ8kJS-2mLQyAA-2mLTVsg-2mFd1md-E4u3XA
Grice e Gatti – poetica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I
like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on Aristotle’s
Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things, too!!” -- Nato
di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli sotto Puoti ed ebbe, come
colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora a
“Il concetto di progresso.” E a “Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli.
Le fondamenta del suo pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin,
sul quale scrisse “Di una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua
filosofia.” Sostiene che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole
filosofiche e reputa indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la
filosofia cousiniana avvicinandosi in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo
nasce la convinzione secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e
l'evolversi della storia provengono entrambe da un principio comune: la legge
universale della ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la
filosofia attuabile solo all'interno della realtà storica in quanto è la
scienza generale di tutto l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in
“L’arte.” Critica la dottrina aristotelica secondo la quale l'arte è una
riproduzione (mimesi) della natura, contrapponendole la filosofia hegeliana che
ritiene l'arte riproduzione (mimesi) del sovra-sensibile, delle idee, del
noetico. (“L’estetico e mimesi del noetico). In “Della filosofia in Italia” si
sofferma sul pensiero e la cultura italiani contestualizzandoli nella filosofia
europea. Esauritosi il periodo florido della diffusione della scuola hegeliana,
la rivista del Gatti andò incontro ad un lento declino e fallì anche nella
creazione di una nuova testata editoriale chiamata Rivista napoletana di
politica, letteratura, scienze, arti e commercio. Altre opere: “Della fenomenologia”; “Fichte e
il concetto di scienza; “La filosofia della storia in Grecia”;“Filosofia”. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. treccani. Si è detto,ora non saprei più da chi la
prima volta,e poi da mol tisièsoventeripetutocheGian
BattistaVicoautorediunsistemache isuoi contemporanei non poteano intenderecome
quello che dovea esse re la scienza di un'altra età , e il frullo di nuovi
germogliamenti dello spirito,nonaveaperquestaragionepotuto raccogliereinvitailpre.
miodiquellagloriacheinepotipiù idoneiagiudicare dellapoteoza dellasua
menteedelvaloredellesuedottrine,glidoveanoalarga mano
prodigaredopolamorte.Orquestomododiconsiderarlacosaè senza fallo giustissimo
quando vel filosofo napoletano ,come in tutti i
filosofidelmondo,anziintuttiquelliuominichesonosi piùchemez zanamente sollevati
sull'universale , si voglia sceverare due parti es senzialmente diverse insieme
, e che congiunte solo per accidente, co. stituiscono una dualità permanente
nell'unità stessa dell'individuo.Di queste due parti,l'una tulla relativa è
determinata dalle condizioni e. steriori della vita,da'luoghi eda'tempi a cui
siappartiene ,dagli uo. mini
da'qualisiècircondato,dall'educazionestessachesièricevuta,
daglistudiiacuipiùsièpiegatalamente,dal primo librochesiè
letto,dalleprimeimpressionid'infanzia,dalle seguenti occupazioni G.
BATTISTA VICO dallafamiglia,da'parenti,dagliamici.L'altra parte
sottrattaatul te queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o
tempo determinato ma a tutti del pari,nè ha da farsullacon
alcunaspecialecondizionedivita.Laprima diquesteduepartiscen de insieme col
corpo nel sepolcro e dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda
per contrario sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino
coll'immortalità la perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti.
Similmente in ogni sistema per quanto nuovo e profondoefruttifero
essosia,trovasiunapartecheèdireltamentede terminata non solo dalle proprie
particolarità dell'indole e dell'ingegno delsuoautore,ma
siancoradaquelledelluogoedeltempoincui
vennefuori,inmodochediquesticonservandosempre laspecialfiso nomia , ne
parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella p a r t e c a d u
c a d e ' s i s t e m i, l a q u a l e n o n s o p r a v v i v e m a i a q u e
l l e c o n d i zionispezialichelehannodatoorigine,eche,quandoquelleson cam
biate,non ba più niun valore, ed è condannata all'obblio imman. cabile delle
età posteriori,quando caduta nel dominio dell'istoria, non fapiùpartedellascienzavivaefeconda
di conseguenzeediap plicazioni le cui tracce si scorgono presenti, quasi
all'insaputa di tutti, in ogni ramo del sapere e in ogni manifestazione della
vita.Concios siachènonsoloogninazione,ma ognisecolohaunasuaimpronta particolare,
ha uno special modo di veder le cose , una sua propria lo
gica,perlaqualeancheaquellecose chetieneperveredalleetàpre
cedenti,nongiungeperimedesimi procedimenti,ma peraltrevie, per altri melodi,
per argomentazioni e prove di diversa natura . L'altraparte,quasi
l'altroelementocostitutivodiognigran sis tema , è per contrario indipendente da
ogni condizione di luogo e di tempo,nonhainsénullachesiamomentaneoorelativo,ma
stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non rivelasi lulla
intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano uo m o , nè alle
investigazioni di niun secolo , imperciocchè è la conquista ideale dell'umanità
che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a po co a poco conquistando ora
una ora un'altra parte in mezzo a errori ed
acolpe,amensogneedaviolenze,ainganni ed a pregiudiziid'ogni
maniera.L'edifiziointantodelsapere insepsibilmentema irreparabil. 268
MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA m e n t e s i a c c r e s c e ,a t t
e s o c h e l o s p i r i t o u m a n o n o n d ' a l t r a c o s a a i u l a t
o c h e dall'opera del tempo , va d'ogni sistema sceverando le parti false e
vane e relative a cerle determinate contingenze,va spogliando della superflua
ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che in ciascuno si rac
chiude,la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro deposito e in
dubitabile acquisto alla seguente ,che facendone suo pro,l'arricchisce di nuovi
progressi,ne'quali quelli che vengono dopo di essa banno ad esercitare il
medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di accre s c e r e il p a t r
i m o n i o . C o s i l a p i a n t a f e c o n d i s s i m a d e l l a s c i e
n z a c r e s c e d i secolo in secolo con non interrotta germinazione , non
altrimenti che cresceunalberofraleassiduecure dell'agricoltore cheneinnaffiae
lelama diligentemente le radici ,e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti
vecchiedisutili.Questaèquell'aureacatenadicui,senon vado errato , parlava
Platone , per la quale l'un secolo trasmette all'al tro l'eredità del sapere ,
come un sacro deposito che esso è tenuto di
accrescereasuopotereetramandarloalsusseguente;benchènon tutti
isecolipossonougualmenteaccrescere queldeposito,non intuttigli elementi
secondarii e contingenti che circondano i frammenti della v e rità eterna son
della medesima natura e nella medesima proporzione con essa. E questo è pure
quell'ecletismo pon artificiale , quale può farloun
uomoounascuolaecheomancadicriteriooneha uno in cerloesirisolvepiù
tostoinsincretismo,ma reale edistoricoilqua lehapersuo autorelospiritoumano
stessochedisecoloinsecolova sceverando da sistemi la parle condizionata e
temporanea da quella che come frammento della verilà assoluta dee restare senza
alterazione niusa in suo perenne dominio . Cosi il frullone abburrattando la
farina de discevera il fiore dalla crusca inutile , e cosi molte verità da'
tempi nondicodiArislotilemadiParmenide ediZenone diElea,sonori maste tuttavia
sulla terra , dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè alla
forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontanead
essiperdistanzadiluoghieperdiversitàditempi. Secondo queste considerazioni è
indubitato che in tutto l'insieme del sistema del Vico trovasi una parte di un
valore assoluto che è ri masta per sempre nella scienza ,ed a cui eran troppo
immature le menti de'suoiconleinporanei,iqualionoa neinlesero
affattoosolone G. BATTISTA VICO 269 $ 270 MUSEO DI SCIENZE E
LETTERATURA frantesero e ne misconobbero la vera importanza. M a accanto a que
staun'altracenehaper laqualeilfilosofonapoletanolegasi diretta
menteco'suoitempi,echemeglio intesaeviepiùapprezzatada'coe. lanei non ha più
per noiniun valore , ed è caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui
, come a tutti igrandi uomini,è avvenuto che per una parteè uomoassolutamentede'suoi
tempi,econessi perquella partesièmorto,dove cheperun'altraè contemporaneo
de'suoi nepoti , e per essa a se medesimo sopravvive. Non giả che i puovi
filosofi da lui abbiano preso il concetto della filosofia dell'isto ria,come
alcunisono andatidicendo,credendo cosidiaccrescere, quando invece diminuivan la
gloria e impicciolivan lavera grandez za di colui che voleano magnisicare.
Conciossiache picciolissima glo ria,eche soloapochi,eforseaniuno anche dei
mediocrissimie mancata,sièquelladicomporreun sistemache adaltriinunaltro secolo
piacerà poi di seguire. M a grandissima si è quella d’indovina re e quasi
divinare tutta una scienza per la quale la pienezza de' tempi non è ancor
venuta , ed a cui un'altra età dovrà essere condotta per i nuovi progressi
dello spirito , comunque per altre vie , per altri metodi e come per dialettica
deduzione di principii di diversa natura , siccome appunto
èavvenutoperlafilosofiadell'istoria moltotempo dopodel
Vico,cheprimolapresenti.Manonpotendo,com'eranaturale, presentir tutto
,procedette senza metodo e senza principii proporziona. ti da cui dedurla ,sol
per induzione da fatti troppo speciali ,e in mez zo a tali tendenze
intellettive che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio
diquelle costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente
stabilirsi.Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che
la stagione più propizia non fu giunta ,a cui non furono nascoste levere vie
che poteano condurre allanuova terrapromessa,scovertadalungida
unarditissimonavi. gatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea
potuto appro dare,manon prendernesicuramentepossesso.Quasiparechelospi
ritotravedendo dilontanolanovellascienza,avesse fattoun primo tentativo per
conseguirla , m a destituito degli altrezzi e delle armi che a q u e l l a c o
n q u i s t a si r i c h i e d e a n o , a v e s s e d o v u t o t e m p o r p
e a m e n t e m e t tersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio de'mezzi che
gli abbisogna G. BATTISTA VICO 271 vano, e quando ebbeli tutti
presti ed apparecchiati, ritornare con m a g
giorconfidenzaall'interrottaimpresa,eriuscirvicon migliorsuccesso. Non si vede
egli talora quando già la fióe dell'inverno si avvicina m a ancora la primavera
è di lungi ,un solitario fiorellino quasi racco
gliendoiprimicalorichesicominciano amuovereperlegelateaiuole, spuntare
tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddoebianchidalla Deve? M a quel primo
sforzo e troppo precoce della natu ra riman solo, nèèseguitoda altri sinoacheallastagioneavanzata,nuovitorrenti
di calore tutte compenetrando le zolle più mature ,covrono di famiglie
innumerevoli di fiori la faccia de'prati e i dossi delle colline. Qui m a g
gioreèlacopiaelabellezza,ma piùammiratoèilfiore delfebbraio, infrulluoso e
solitario indizio d'una ricchezza a venire di cui tutti lar gamente godranno ,
m a che poca o niuna maraviglia non saprà più ri
svegliareaglisguardiassuefatti. Se poi prendiamo quel sistema del Vico nel
quale appunto ha tra scesoiconfini del suotempodivinandol'avvenire,vitroveremoma
pifestada pertuttolapresenzadelgiureconsultonepoletano dellafine del decimo
settimo secolo , e accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà
eterna della scienza e son passati quasi nella c o scienza universale del
genere umano,ne troveremo altria cui nessuno
piùnonsaprebbeattribuirealcunvalore,echesipossondire caduti per terra e
dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo glieseccheche
ancorasitrovanoinsu'ramideglialberiamezzono vembre per lasciare nudo il tronco
che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione si dovrà rivestire.
Troveremo lui aver messo a capodelsuosistemaundualismoicuiduetermininon
possonostare insieme , quello cioè di una mente ,di una ragione, di un mondo
delleideechefacollesueproprieleggiilmondo de'fatti,equellodi
unavolontàestraneadicuilascienzanonpuòtenere niunconto,es
·sendocheisuoiattiappuntoperessere volontarii nonsipossonosot tomettere a niuna
costruzione scientifica,cioè a priori,ma sono essen zialmente contingenti.
Troveremo lui aver detto che la sua scienza del lastoria è una vera teologia
delle idee divine , la qual cosa se può es
serverainaltrisistemi,appuntonelsuoèfalsa.Troveremo averegli traveduto il
principio che la storia dell'umanità si va facendo per m e z zo di
un successivo passaggio da una fortuna più materiale a una più spirituale,dauna
piùoscuraeincertadisèauna più chiaraepiù c o n s a p e v o l e , m a n o n a v
e r p o t u t o v e d e r e n é il c o m e n è l e l e g g i d i q u e sto
cammino , nè tutte le sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue
applicazioni. Troveremo che dopo di aver veduto la correlazione che è tra le
idee e i fatti , la concepi però a rovescio dicendo che l'ordine delleideedee
procederesecondol'ordine dellecose,ilche sepureè veroinunsenso tutto
psicologico eaposteriori,è falsissimo,anzi privo affatto di senso,negli ordini
dell'ontologia e dell'istoria.Or lutto quanto illibro della scienza nuova
procedendo a questo modo svela costantemente agli occhi del riguardante la presenza
di due uo mini,l'uno giureconsulto napolelanodeldecimo settimosecolo,e l'altro
filosofo divinatore di un pensiero che dovea esser quello di al tri secoli a
venire , e predicente una scienza che egli stesso non in tendeacheamezzo.Ma
nellealtreoperequestadualità scomparisce, oalmenoilsecondoenuovouomo
sieclissatantodarestarquasi tuttointeroilcampoalprimo,cioèall'uomodottodell'età
incuigli era sortito di vivere. Le opere contenute nel volume il cui titolo è
in capodiquestoscrittosonopiùtostodiquestaseconda specieche del la prima ,
quantunque non bisogna dimenticare quello che del resto è quasi inutile di dire
, cioè che la parte più universale dalla sua mente non si nasconde mai tanto
che e'non si veggano sempre e da per tut topresenti le traccediquello spiritoche
ha pensatoilprimo sulla terra una scienza dell'istoria. Io non parlerò delle
diverse orazioni suvariisubbietti,dellequalilelatineson
tradotteinitalianodalPo. modoro , che con tanto amore si è volto il primo tra
noi a dare una raccolta compiuta delle opere del filosofo napoletano. Neppure
parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e che anche trovasi nel presente
volume,importante sopra tutto per questo,che in essa trovasi delinea -la la
storia intima della mente del Vico , e vi si assiste alla generazio ne di tutto
il sistema nato nel suo pensiero ( cosa straordinaria e quasi incredibile ) non
di un principio metafisico , che dee essere la sua vera sorgente , m a più
tosto da particolari considerazioni sull'insieme del dritto romano e sull'istoriadi
Roma. L'opera di cui più particolarmente mi propongo di ragionare è 272
MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA G. BATTISTA VICO 273 38 quella
dell'antichissima sapienza degli Italiani,la quale se pure io non m'inganno
stranamente , non solo ci rappresenta più chiaro il Vico del suosecolo,ma
noncirappresentaaltrochequesto,nèmaisenzalei dee e le teoriche che erano in
voga a quell'età,e fino senza i pregiudi zi i e gli errori del tempo non
sarebbe stata concepita , nė mai , neppure iltitolo,potrebbeorasaltarenellamentediniuno.Io
non parlo delle speciali teoriche professatevi,di cui alcune si hanno o poco o
niun v a lore, e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono al V i
co propriamente,anzi a tutta la filosofia da Parmenide al Leibnitz e dal Leibnitz
all'Hegel, ma quello che merita di esser considerato come pro prio di lui , si
è il modo di deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto , pel quale una
volta messosi,ne ha tirato delle conseguenze
istoricheecredutodigiungereaunaseriascovertafilosologica, quan tutto riposava
sopra due o tre falsi supposti che sono il perno intorno a cui si aggira tutta
l'opera, e ne formano non meno la conchiusione che labase.Or ecco in che
consiste tutto ilsistema.Nell'uso di alcune vo ciemodididirede'LatiniilVicoha
vedutoo credutodi vedere un profondo significatometafisico, che dimostrava un
gran progresso fatto in questa scienzapressoilpopolo che in quelmodo parlava;
dall'uso che essi facevano delle voci causa eeffetto vero e fallo , ed altre
simili egli deduce il sistema metafisico di cui quelle lo cuzioni erano
l'immagine e che dovea trovarsi nelle menti dico loro che le avean irovale e
che cosi le adoperavano. A questa prima scoverta poi tutta filosofica di sua
natura,se ne veniva ad accoppiarecome perconsegnenza un'altrafilologicao
istorica intorno alpopolo che era giunto a cosi profonda sapienza,a cosi
riposta dottri na da essere autore e di quella filosofia e di que'modi di
parlare.Certo ilromanononpotèessere,delqualesisaindubitatamentenon avere
attesoad altro sino al tempodiPirro che all'agricoltura ed alla guerra, diche è
mestieri di risalire più indietro sino al popolo da cui quello di R o m a
ricevette con la lingua quelle locuzioni ,e lui senza più dichiarare
popolodiprofondadottrina,epressoilqualelametafisicaavea dovuto giungere a uno
non comune grado di eccelleoza.Nè lastoria ci può la
sciarelungamenteincertinellascelta,sapendosiche iduepopoliconcui iRomani ebbero
ab antico più strelte relazioni si furono i Joni della Apao XVII,Vol.VII.
Questa serie di dedazioni ci mena alla giustificazione nel titolo dell'o
pera,dell'antichissimasapienzadegl'Italiani,ciòsonoiJoniegli Etru schi,iquali
per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi in m e
tafisica,epoichèdaessipreseroiLatinigran partedellalorolingua,si trovò questa
come per eredità o più presto per invasione straniera picha di concelli
metafisici,comunque ilpopolochelaparlavanefosseesso medesinioinconsapevole,
ničsipotessedasèsolosollevarea tanlaal tezza.Ne qui le deduzioni istoriche si
arrestano,anzi partendo da quel lepremesse,siècondottiassaipiùlungi,fino
acongetturarechegli Egiziani quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la
potenza e l'ar. dimento delle lontane spedizioni,navigando per il mare interno
che lut to signoreggiavano,avessero doyuto dedurre floride colonic per le cosle
diquelle,ecosiportareinToscanalalorofilosofia.Quivi poiessendo s u r t o u n a
s s a i g r a n r e g n o c h e d i e d e il n o m e a l u l t o q u e l t r a
t t o d i m a r e che Lagna di Toscana fino a Reggio l'Italia,anche la lingua
degli Etru schi si dovette per quello diffondere, e di questa più dovellero
prendere i popoli più vicini del Lazio. Per la qual cosa non si dec credere che
Pitagora avesse dalla Ionia portato in Italia la sua filosofia, m a sibbene
esser venuto in Italia ad impararla , e sol dopo di essersi ammaestrato
nellametafisicaitaliana,cioèetrusca,laqualenoneraaltroche l'egi
ziana,essersistabilitoinCotrone e quivifondatolascuola.Diquila sua filosofia si
sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac ce nella lingua, della
quale gran parte passò poi a'Latini,iu guisa che sc ci ha vocc latina di
filosofica signicazione,quella si dee tenere essere stala prima in Egillo,poi
in Toscana e quindi passala in Magna Grecia. Perquestomodo ne'fossilidellalingualatinasitrovatuttalasapienza
degli Etruschi, e dalla notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la
anctafisica che era in voga sulle rive di Arno prima che il Tevere ba e
274 MUSEO DI SICENZE E LETTERATURA magna Grecia e gli Etruschi,dei quali
d'altra parte si sa che furon pc. poli dottissimi, gli uni avendo dato
nascimento alla filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri
facendo ampia fede la purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi
aveano dell'ente supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata ,
la naturale praticata, e con questo l'architettura antichissima e
semplicissima,a far testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima
de'Greci. G. BATTISTA VIC ) 278 ! gnasse la città de'sette colli.
Con un passo di più m a senza allontanar ci dal sistema del Vico,anzi
seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche parole latine, noi
possiamo esser sicuri di essere in pie no possesso della cosmologia e teogonia
egiziana. 6 1 1 Ho volutoinsisterealquantopiùalungosullevere pretensioni
di questo libro del filosofo napoletano ,sol perchè basta l'esporle nettamen
leperchèsenevegganochiaroilatideboliche sononè più nèman co che tutti isuoi
lati,la cui poca consistenza połea essere nascosta un secolo e mezzo fa, m a
ora non ha più scudo che la possa difendere da piun colpo della moderna
critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un inimico domestico e
cognato nel Vico della scienza nuova,ilquite lecondotto da altre divinazioni
più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a quella
de'suoi,poevade'principiiiqualinegano le basi su cui poggia tutto il libro
dell'antichissima sapienza degl'Italiani. E in fatti in quel sistema che più lo
ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei , egli riconosce tutta
l'opera del popolo nella formazione delle lingue , e quasi lo riguarda senza
ambagi come una creazionespontancadiquello,quandospiegatuttelediversitàchesono
fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o
icostumi de'differenti popoli.Ma questo principio che veduto in tutta
lasuaplenitudineesvoltosecondoilrigoredellalogicasarebbe stato fecondissimo
d'importanti conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi
alle locuzioni che a lui parvero troppo metafisiche
dellalingualatina,pertalmodochedimenticodel popolo edelmon do delle nazioni,
ostinatamente volle vedere in quelle l'opera meditata de'filosofi che dopo di
averlo composte e sanzionate coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le feccio
adottare al popolo , da cui poi le c b beroineredità gli altri che la dottrina
e ingran parte la lingua diquelloereditarono. Ora non iprincipii,comunque
ancora incerti, dellascienzanuovacondusseroilVicoaquestascried'idee,ma sibbc ne
la filosofia del suo tempo , contro la qualc egli in gran parte prote
stava,etuttoilgeneralmodo concuisiriguardavanoalloralecose,e
cheeglisenzasaperloesenzavolerlo,etalvoitapurvolendo ilcontra rio,avca comune
con tutti.Ora uno de'punti principali della filosofia del secolo
passato si è il non aver riconosciuto in piente l'opera sponla nea dell'umanità
e l'aver veduto da pertutto il prodotto volontario e riflesso e però
consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto della società civile non
vide altra cosa che un contratto con cui gli uomini si
eranovolontariamenteconvenutifrasèdivivereinsieme per ilmag
giorcomodoelamaggiorsicurezzaditutti;nellereligioninon vide
cheiltrovatode'pochipercontenereimolti,e farlipiegare coll'au torità di esseri
superiori agli umani , a quelle cose che essi avean risoluto essere di
universale vantaggio o di loro particolare utilità; nella poesia e nelle arti
non vide che l'occupazione di alcuni uomini di più squisita immaginazione e di
maggiore ozio che gli altri, i quali perloropropriodilettoeperaltruisidecideano
didarsiaquell'eser cizio, seguitando delle regole parte tirate dalla natura
stessa delle co se,e parte stabilite per reciproca convenzione fra quelli che
si era no volti al medesimo non so se mestiero o passatempo ; finalmente
nellelinguenon iscorse altro cheunsottilritrovatoeunauniversa. le convenzione
degli uomini , iquali essendosi accorti di avere l'organo delle voce vie più
pieghevole che quello degli altri animali , si erano risolutamentedecisi,non
senzaesame,divolermettereaprofittoquel Ja flessibilità della gola , e
servirsene senza più a render più facili e
speditelelororeciprocherelazioni.Daquestateoricanon eralungo il cammino da
percorrere per giungere all'ipotesi,o per dir meglio,al
laconchiusionedelVico,ilquale,come primasifuimbattutoinlo c u z i o n i c h e g
l i p a r v e r o a v e r e d e l f i l o s o f i c o i n s é , s u b i t o g i
u d i c ò n o n il popolo ignorante,ma sibbene ifilosofiaverne dovuto
esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si diede a ricercare dove
doveano poter esser que'filosofi da cui eran venuti parlari filosofici a un
popo lo che non aveva filosofia , e trovolli nell'Etruria e nella Magna Grecia
e,risalendo,nellapatriade'Faraoni.Maisistemi talvoltasoncuriosi
davvero;ecuriosissimisieran questi,iquali negavanolecosepiù
ovvie,ilfatto,lastoria,lavita,l'uomo,peraccordar tuttoa'filosofi;
razzanobilissimaed'ogniconsiderazionedegnissima,ma cosipocodi sua natura
operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un solverbooun
articolo.Ora ilfattosiècheilpopolo,equi,
intendiamocibene,popolovalquantogenereumano ospiritoumano , 276 MUSEO DI
SCIENZE E LETTERATURA G. BATTISTA VICO 277 il popolo adunque in
cerle cose non è da meno e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si
dee credere che nello spirito de'filosofi trovi siassolutamentepiùdiquello che
ènello spiritodiogniuomo,cioè nel popolo.E se nelle coloro menti trovasi tutta
chiara ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la
costituiscono,e la scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano,la
mente del popolo per mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non
è men ri. schiarata dalla medesima ragione , nè men costituita dagli stessi
ele. menti,nè men regolata dalle medesime leggi , conciossiache se cosi non
fosse, la filosofia non sarebbe più la scienza dello spirito umano , ma
lascienzadellospiritode’filosofi;ilche,seiononm'inganno,do vrebbe
sufficientemente nuocere alla sua importanza ;la sola differen• za che passa
tra il filosofo e colui che non è filosofo ,si è che l'uno sa
quelcheegliha,laddovel'altroloha senzasaperlo;l'unopossiedee pur possedendo e
usando della sua possessione,non ha mai posto mente a quel che egli
possiede,dove che l'altro non solo possiede ma si è oc cupatodisapere lanatura,ilvalore,leleggi,l'importanza,gliele
menti,ilmodo dioperare,lerelazioni e le condizionidiquelloonde egli è in
possesso. Oralelinguesoncomefigliuoledidue madri,cioèsonoilpro. dotto di due
cause che operano ngualmente nella loro formazione, v a le a dire delle
attitudini naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un
lato, e dall'altro della natura morale dell'uomo e
delleleggisostanzialidellospirito.Dicheogni lingua senella parte puramente
esternae fonetica de'suoni,della lorotrasformazione e cor ruzione,edel
loropassaggioadaltrisecondariiederivati,eintutto quello che riguarda l'istoria
naturale della parola , segue invariabil mente le leggi naturali
dell'organizzamento fisico della gola, in quanto al contenuto interno di essa
parola rappresenta tutti i principii psicolo gici del pensiero,tuttiglielementi
ontologici che in esso si rinchiudono,
esecondoleleggilogichedelpensierostessocoordinaedispone l'e s p r e s s i o n e
e s t r i n s e c a d i t u t t o q u e l l o c h e il p e n s i e r o h a l a
v o r a t o , e c h e nelle misteriose profondità della mente è stato
apparecchiato.Certo si nella formazione che nell'esplicamento delle lingue non
tutto si può ridurre e principii razionali,e qualche cosa ci ha che si sottrae
all'ana lisi e dipende da quella parte inesplicabile dello spirito
umano ,che senza essere ilprodotto o l'espressione di una o di un'altra sua
legge determinata,risultadall'azione nė descrivibile nè determinabiledi tutte
quante insieme , e dall'opera simultanea di tutte quelle forze in cui si
appalesa la vita nelle sue infinite manifestazioni.M a oltre a q u e sta parte
che si sottrae ad ogni investigazione e ad ogni esplicazione
scientifica,l'edificiodiognilinguaèlegatoper la parteestrinsecaal le leggi
anatomiche e fisiologiche del corpo,e per l'intrinseca alle leg. gi morali
dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi nel coordina mento delle
parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del pen siero, e cosi ogni
etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte le categorie
dellaragione ; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o m e n o di quel
che trovasi nella lingua , in cui talti i suoi ele menti raggiungono
un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle lingue nè più
né meno di quel che sia nello spirito nel qua leesseelecategoriedicui esse sono
l'espressionehannolaloroesi stenzaintrinsecaesoggettiva.Perlaqual cosa nonciè
nullachesia meno arbitrario e meno convenzionale delle liogue ,nè ci la lingua
di popolo così barbaro o selvaggio che non rappresenti e non contenga in sé un
intero sistema di logica,e un intero sistema delle più recondite categorie
della ragione. Ben si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere
ragiona di quelle parole latine che sembrano contenere un significato più a
stratto e metafisico , senza avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo
progredito assai oltre nelle vie della dottrina e deHa filosofia, da cui i
Romani nè dottiné filosofiabbiano dovuto ricavarle.Già l'ipotesidel Vico
incontra nel fatto di tali difficoltà che niuno oggidi ancorchè men che
mediocramente iniziato in certi studii, non avrebbela concepita nella mente
senza voler che di lui si dicesse col proverbio che egii fossesi posto a pestar
l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui spezialmente cadono lo
investigazioni filosofiche e istoriche del Vice sono di origine e di formazione
cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa abbian da fare con esse gli
Etruschi o įJonii ,o come a b bia poluto saltare altrui in mente che iRomani lc
abbiano prese dalle costorolingue,oalmenoimitatoda essiilmodo
diadoperarle.Tan!e 278 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA 1 G.
BATTISTA VICO 279 più che se in ana lingua si possono trovar parole di origine
straniera, ilmododiadoperarlenonèmaistraniero opresoinprestanzadaal tri,ma
propriodelpopolochelaparla,ilquale nell'usarne,imprime in esse il suggello
della propria nazionalità e le fa sue , senza dire che un popolo per imparare
da un altro ad usare secondo un concello metafisico lesue proprie o le altrui
parole,dovrebbe innanzi imparare
daquellotuttoilsistemadellasuametafisica,quando nonsivuolri conoscere che ogni
lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni
dojtrina acquisita,è naturalmente e sponta neamente l'espressione di un sistema
di metafisica riposto nel fondo
dellaragione,echecostituiscel'essenzastessadiessaragione. PerilVico
intantoiLatiniaveanoaogni modo dovutoimparar qnelle parole e que'modi di dire
du altri popoli più dotti che essi non erano , e questi popoli non poteano
essere che iJonii e gli Etruschi popoli dottissimi e con cui i Latini aveano
strette relazioni. Vediamo oraquelchenongiàioounaltroma
tuttoilsaperedelsecoloincuivi. viamo oppone senza paura di contradizione al più
dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo esame
senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente nonpuò
giustificareecheinnessunsistemaeinnessuna ipotesi non si può difendere. E
veramente non vi è niuno il quale abbia mai p e n
satoa'Joniioaldialettojonicoper sostenerelaparenteladifiliazio netra
ilGrecoeilLatino,elecolonic grechedicui parlail Vico, ca cui attribuisce nella
formazione della lingua latina un'importanza che nonsihanno
maiavuta,noneranodiJuniima diDori.Ilfatto sloricochelastoria
latinaèposterioreallagrecaunitoall'altrofatto della relazione di simiglianza
fra le due lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dovesse
essere derivata dall'altra,nè lasciato alcunluogoadubitarequalesidovesse
esserelamadreequalelafi gliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa
argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione
di m a ternitàfraillatinoeildialettoeolico,che èquellofra'dialettidella
Greciachepiù diaffinitàsihacollalingua delLazio.Intantolenuo
vescovertedellascienzadellelinguehanno dimostratoquestaipotesi impossibile ,
havno scoverto nel Latino tracce di maggiore antichità che pel
Greco si nel sistema de'suoni e si nelle forme grammaticali non che nella
genesi etimologica e nello stato attuale delle parole ; hanno scoverto la
stessa specie e lo stesso grado di aslioilà , e talvolta anche maggiore,che è
tra ilGreco e ilLatinotrovarsi eziandio fra le duelin gue classiche ed altre
ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno te prima di a questi ultimi
tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più
antica di esse lulte , da cui come da comune
stipitetuttequanteesse,elealtreadessesimilidiscen dessero , allontanandosene
quale più e quale meno , quale in una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone
tutte e la general fisonomia, eilsistemagrammaticale,eilcomune
materialedelleradici,in mezzo a quelle differenze che debbono fra’i varii rami
di uno stesso tronco essere cagionale dalle speziali condizioni fra cui
ciascuno di essi si è venuto separatamente formando ed esplicando , sicché la
relazione di parentela è rimasta , anzi la famiglia si è trovata cre
sciutadimoltialtrimembri creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato quella
parentela essere di fraternità e non già di filiazione. N ė si può negare che
il dialetto eolico sia quello tra gli altri dialetti
dell'anticaGreciachepiùsirassomigliaalLatino,ma invecedi con chiuderne che
questo sia nato da quello,si è dovuto inferirne che esso è come l'anello intermezzo,
ilpunto di passaggio tra le due diverse forme di una medesima lingua, appunto
come la storia naturale ci dimostra molte specie di animali , molte famiglie di
piante, le quali sono l'anello intermezzofraduespeciediversedelmondoanimaleotra
due diverse famigliedelvegetabile,equasicome ilponte percui mezzolanatura che
non procede per salti,dall'una è passata all'altra.Cerlo molte paro le si
possono trovare nel Latino che vi si sono introdotte direttamente dalGreco,ma
questeosonodidataassaipiù recente o sirisesconoa oggetti speciali,ad usi e
invenzioni,a trovati comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra
due popoli in quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le
investigazioni etmologiche e istoriche delVico.Diparolestranierecheperaccidentesienpassatedauna
lin gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse famiglie se ne trova
in tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto contingente di cui
sirenderagionepermezzodelfattodelleesternerelazionisenzachenulla 280
MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA G. BATTISTA.VICO 281 se ne possa
conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La parola kalamos che è ab
antico nel Greco per dinotare la penna o uno stru mento aguzzo , una capna
qualunque da scrivere,non è di origine
greca,nèsenetrovalaradicenellelingueaffinialgreco,ma èdi
patriaaffattostraniera,parendoesserenèpiùnèmanco che ilsemi ticoKalem che
inArabodinotalapenna.Certoverisimilmente è da
crederecheavendoiGreciantichissimiappresoda'Fenici,po poli di stirpe e di
lingua semitica , l'arte dello scrivere abbian preso a n c h e d a e s s i il n
o m e d e l l o s t r u m e n t o d a e s e r c i t a r e , l a n u o v a a r t
e . M a dove sono le parole greche , eoliche, e joniche, come impropria mente
ilfilosofo napoletano direbbe, corrispondenti a quelle con cui i Latini
esprimeano non già un utensile materiale,lo strumento di un'ar te ignola prima
e poi appresa , m a i concetti più intimi e più astratti dello spirito senza di
cui il pensare stesso è impossibile? Lemedesimecose,ma
adassaipiùforteragionesivogliono ripetere per l'Etrusco. Che da questa lingua
si sieno potute intro durreuel
Latinodelleparolerelativeadusidellavitaeacerimonie sacre , è cosa che
facilmente sipuò concedere massime chi pensi che molti riti religiosi
dall'Etruria hauno dovuto passare in R o m a , m a non èpossibileditrasformare
questaazionetuttaestrinseca,questa introduzione accidentale di alcune speciali
parole , in un'azione più internaequasi primitivadell'EtruscosulLatino.Veroèche
questa non è propriamente l'idea del Vico , nè la conchiusione a cui egli
intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione
delle lingue era così poco avanzata , anzi così poco sopposta a' tempi del
Vico, che non ad essa la sua mente si rivolse , non di es sa egli si occupò
come conseguenza e coronamento della sua ipote
si,masibbenediquelladellafilosofia.Einfaltinon altrovechein questo punto egli
vide l'importanza della sua scoverta , e assai più che nel libro stesso
v'instette nelle sue riposte a varie obbiezioni mossegli allora contro con una
critica , che non vedea,e in gran parte non
poteavedereiveripuntidebolieimpossibiliasosteneredi tutto ilsistema. Quivi si
vede che il Vico pensava di aver fatto una stupenda sco verta istorica ,
perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etru. Apno XVII.Vol.VII.
36 schi cosi doltissimi in cosi remotissima eti , come si vedea
manife. b'o da' modi di dire metafisici che sol dalla loro lingua avean poluto
passare nella latina , si dovea credere fermamente che la dottrina non avea
poluto passare dalla Grecia in Italia, ma si da questa , cice dall'Etruria in
quella , e quindi coordinando tutte le parti del siste na , ne conchiude che
Pitagora non avesse portato allronde la soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea
dacredere che venulo quivi ad appararla , riuscitovi poi dottissimo , si fosse
fermato nella Magna Grecia a formar la sua scuola , sicchè quest'antichissima
silo. sofia che la rappresentava avea dovuto passare dall' Etruria nel La. zio e
dal Lazio nella Magna Grecia , e in Etruria avea dovuto primitivamente venire
dall'Egitto. Ecco perchè io diceva più sopra che secondo questo sistema, le
vere origini di certe parole e modi di dire della lingua latina si convengono
cercarle senza più nella patria deiFaraoni.Ma tuttequeste ipotesiriposano sul
falsoconcelloche ogni vocedi un contenuto edi un valore metafisico supponga un
sistema metafisico divenuto popolare nel popolo che la parla , ogni sistema
metafisico debba essere stato da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non
avean potuto escogitarlo da sè , ma riceverlo da'Latini,eiLatini
dagliEtruschi,egli EtruschidagliEgiziani, non so perchè non si abbiano da
spingere anche più oltre le investi gazioni,ecercare daquale angolopiùremoto
dellaterra avessedo vato venir trapiantata sulle rive del Nilo. 282 MUSEO
DI SCIENZE E LETTERATURA La scienza moderna che è meno corriva alle ipotesi , e
comunque sia spesso accusata di sognare , più riconosce l'importanza de' fatti
prima di edificare un sistema , va più guardinga in questa qui stione degli
Etruschi, e non ostante la grande abbondanza de'falli che sono a sua
disposizione ,non ha sapulo per anche decidere che cosa eglino fossero stati e
donde venuteci , nè che cosa si fosse la loro lin gua ,se cioè semitica o di
origine arja ,nè che relazioni si abbia avu ta la loro civiltà coll'egiziana. A
ogni modo le induzioni per cui giungeva ilVico allesue opinioni intorno
all'Etruria niunoè ora cheardirebbedicrederledialcun peso o diprenderle in
sulserio. Ben sonostatialcunipiùmodernichelehannosostenute,e avregnac chè
l'istoria dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà tenga
G. BATTISTA VICO 283 nel suo corso ilmedesimo cammino che il sole cioè da
oriente în occidente,hanvolutocheiprimiprincipiidiessa fosseropassatidal
l'Etruria nellaGrecia,ma han cercato con fatlieargomenti edo cumenti che al
Vico mancavano di sostener la loro teorica ,comunque non sieno mai riusciti a
sostenerla tanto da farla aceellare almeno
permediocremeuteprobabilea'piùdottiinquestematerie. Enonha guari abbiam veduto
mancare a'viviio Napoli uno deisuoi ultimi sostenitori,uomo
picchissimodiabbondanteerudizione istorica,ina corrivo non so se ad:ingegno o
per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le opinioni più strane e le
meno simili alle più comune . mentericevute.Spessosièripostocome
unaspeciediamorproprio Nazionale a sostenere colesta emigrazione del sapere
dall'Etruria nella Grecia.quasiperaggiungereunaltroperiodo
digloriaallegloriedel l'istoria italiana E veramente pjente non è più giusto o
più sacro quantoquel sentimentoper cui un popolosistudia diaccrescerei tesoro
delle sue grandezze non meno presenti che future o passate,
diquesteperpetuarelaricordanza nellamemoria degliuomini.Ma per esser gelosi
custodi di questo tesoro noi altri Italiani non abbiamo
afarviolenzaallaistoria,evolervendicareanoiquelche nonciap
partiene,tantopiùchequellodicui non sipuòdubitarechesiano stro è più che
bastevole a non farci desiderosi di altro.Or la nostra ve ra e indubitata
istoria incomincia da Peoma ; ilche mi sembra itd'an
lichitàabbaslanzaremota,eunagrandezzaabbastanza gloriosapera.
verseneacontentare.Tuttoquellocheèprima diRoma,egiàèassat
incertochecosafosse,nonci appartiene.E veramenteItalia nonera
ancorailpaeserinchiuso traleAlpieilmare,nėHalianieranoi
Grecidell'estremitàmeridionale,iSiculiogliAborigeni delLazioo
gliEtruschi,Celtiogl'Iberi,sealcun trattogl'Iberineoccupavano, ma
beneeranoessiglielementiprimordialiiqualistrituraliefasiin sieme dall'opera del
tempo e dalla forza assimilatrice di Roma ,d o veano comporreilpopolo dicui ha
fattol'istoriaTitoLivio,Niccolò Macchiavellie Carlo Botta;lavoro lentoe
gigantescoele con diver se proporzioni e solto diverse condizioni si è operato
per altri popoli ancora;perquestasolaragioneiMacedoni eranGreci,eAlessan droche
sefossenatodu'secoliprimasarebbestatobarbaro,fualsuo Innanzi di
conchiudere questo scritto che avrebbe potuto esser
piùbreve,machepotrebbeprolungarsi ancora dimolto,noncredo
essereinutilepermegliofarcomparirelavera naturadelleobiezioni
chehomossealfilosofonapoletano,ilricordarecomeeglinon a
veapercosaaffattonuovailmodo dellesueinvestigazionietimologi che , anzi fin dal
principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel medesimo per la
lingua latina che avea già fatto Platone per la
greca,ilqualedalleetimologieecomposizione delle parolediquella avea voluto
scourire l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean
parlata.SenonchesiformavailVico un conceltoassairistrettodal C r a t i l o s e
c r e d e a a q u e s t o s o l o o r d i n a t o q u e l d i a l o g o , il q
u a l e a b b r a c cia tutta quanta la quistione della lingua ,della sua
origine e del suo valore,coordinandola colla teorica socratica delle idee.Ben è
vero che Platone anche delle etimologie si occupa in quel dialogo , e che ,ove
non il fa ironicamente e come per istrazio , intende di cavare delle in .
duzioni intorno a'primitivi concetti del popolo fra cui quelle parole a .
veanoavutonascimento.Ma adonoredelfilosofoateniese,siconviene confessareche
ilmetododellesuericerchenondeviavada'giusticon fini,nèpoteacondurload
induzioniofalseoimmaginarieo arbitra rieocontrarieallagenesi delle
lingueoripugnantialla vera palura. dellametafisicacheinquellesipuò trovare.Non
abbiamnoiveduto che ogni lingua contiene in sè un intero sistema di metafisica
, ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa dello stesso p
o 281 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA t e m p o il r a p p r e s e n t a n
t e d e l l o s p i r i t o e d e l l a c i v i l t à d e l l a G r e c i a , e
u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci gigantesche del
mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono divenirlo, poiché ,
collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle forze naturali si
macerano a poco a poco , le differenze scompariscono, e da ultimo si trovano
riunite in una sola massa che dee poi divenire uno de'motoripiù
irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno onnipotente il
carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle piante naufragate
nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de'Pelasgi e de' Rasena , de'
Tirreni e de'Siculi non siappartengonoa'discendenti delpopolo di GiulioCesaree
di Tra jano. G. BATTISTA VICO 285 polo che la parola , e che ve
l'ha senza saperlo , depositata ? Imperocchè le lingue figliuole tulle
dell'identica natura dello spi rito e dell'identica struttura degli organi
della voce sol differisco no nella loro composizione in quanto che
quell'identica natura vede da diversi o opposti lati le cose , e diversamente
concepisce le relazioni obbiettive che passano fra quelle.Per la qual cosa si
può dalla natura di una lingua scovrire il modo in cui il popolo che prima l'ha
parla la concepiva le relazioni fra le cose,e ilmodo con cui iconcetti meta
fisici che presiedono segretamente alla composizione di essa si presen
taronoalsuospirito.E sequestolavoroèancora oggi pienod'incer
tezzeedidifficoltà,seeraimpossibilea'tempi diPlatone,che fae
glicotesto?BastacheildiscepolodiSocrateabbia vedulounaverità che solo
ilontanissimi nepoti poteano dimostrare ,e tentato un lavoro per compiere
ilquale,moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto
somministrare finora tuttiimezzi necessarii.Ma non cre dea Platone che una
setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i
concettimetafisici,apziliattribuivaalpopolo stesso,cheegliperle
esigenzedelsuolinguaggio filosofico,chiamaillegislatore,ilquale
nellasuccessivacostruzionedellalinguave livenivaspontaneamente e però
inconsapevolmente trasfondendo.Në pensò mai Platone che da filosofi di altra
nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori gioe,e quindi esser
passate a'primitivi abitatori della Grecia,che per
essereancoraignoragtinonleavrebberopotutemaipiù ritrovareda
sèmedesimi.Sonquesteledue ipotesisucuièfondatoillibrodel l'antichissima
sapienza degl'Italiani,ma nè dell'una nè dell'altranon è colpevole l'autore del
Cratilo, Seiohotroppoinsistitosuquestecose,non ègià perdesiderio
eheioavessidiappiccareun'inutilegiornata colmaggiore de'filosofi napoletani,ma
sipervolermostrarecolsuoesempiocome camminan d o il s a p e r e c o l l a n d a
r e d e l t e m p o ,e t r a s f o r m a n d o s i q u a s i i n o g n i s e c
o l o lasuafisonomia,evedendo gliuomininellediverseetàsempre diver
samentepurlemedesimecose,lagrandezzade'grandiuomininon si vuol misurare dal
numero delle verità che eglino possono ancora inse
guarea'lontaninepoli,acuipureessendo grandissimi,nonpossono
lalvolta insegnare più niente,ma sibbene dal grado a cui eglino si so no
innalzati al di sopra de'loro contemporanei , dalle nuove vie che prima degli
altri hanno aperle allo spirito, nelle quali altri c a m m i p a n do sonosi
arricchiti di verità ad essi rimaste ignote , e dagli sforzi con cui hanno
potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi quel che alle seguenti
generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e di loccare con mano ,
senza che per questo si possano dir sempre seguaci de'primi, alleso che avviene
soventi volte che una verità giunta alla sua maturità e alla pienezza de'tempi,
si mostri per nuove e più facili vieancheaspiri!imenoalli,quando
altempocheeratuttaviaimma lura appena si era svelata per astrusissi mi sentieri
alla potenza divina trice di solitarii ingegni. Chi è più grande di Aristotile
? m a quale è oggiscolarecheintutte lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe
meglio del maestro di coloro che sanno ? O quale è scuola filosofica a cui
basterebbe il proporre la massima parte de'problemi della scienza
inquelmodoappuntoincuisitrovanoproposti nell'Organoene'libri della Melafisica,
anche in quei punti in cui il pensiero arislolelico quanto alla sostanza delle
cose è identico col moderno ? 236 MUSEO DI SCIENZE E LETTERATURA L'altra
cosa su cui io voleva insistere siè questa ,che un uomo pec quantograndeeglisia,perquantos'innalzialdisopra
de'suoicon temporanei e de'suoi tempi , par non si può mai taplo da questi sepa
rare che la più parle delle sue idee , anzi esse tulle non abbiano in
quellilalororadice,siche eglinon puòmaisepararsi dalgeneral modod'intenderedell'etàchelovidenascere,anziappuntoperque
slo ègrande , che egli tutta la compendia ed esprime , aprendole le vie agli
altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se tul
teleideede'suoitempiinlujsiriflollono,insiemeconquelle anche gli errori e i
pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito , nè per quanto egli se ne
distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle . Di che si vede quanto
sia grande la semplicità di coloro che siappoggianoall'autoritàde'grandi uomini
inque'punticheeglino. hanno in comune con tutta la loro generazione e che non
costituisco no la loro vera e più squisita individualità.Molle volle mi è
avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni ; o siele voi più
grande G. BATTISTA VICO 287 di Dante Alighieri il quale pensava
appunto cosi come voi negate di consentire.Or cerloilcanlore de'tre regni
dellamorle si fuilpiù grande uomo del suo secolo,nè ci ha oggidi chi in potenza
di menle e grandezza di comprensione poelica possa venire con lui in paragone ,
ma ilpubblicislaeilfilosofodelXIII secolo era figliuolo delmedio
eroeaveacinquesecolidieducazione filosoficaed isloricamenodi noi, e il
cilladino di Firenze nato l'anno di grazia mille duecento sessantacinque in
molte cose non potea non pensare come frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è
che vorrebbe piegarsi innanzi all'autorità di questi nomi ?Cerlo,che io mi
creda,niuno. Quesle cose poi che si dicono dell'antorità de'grandi uomini van .
no deltealmedesimo modo dell'autorità dell'istoriaingenerale.La sentenza di
Tullio che dice l'istoria maestra della vita è veris ima se
s'intendeinunsenso,ma fontedimoltierrorises'intendeinun altro. Verissima è in
un senso universale e scientifico in quanto che l'istoria facendoci come
assistere allo spellacolo delle diverse generazioni clic si sono succedute
sulla terra,ci rende quasi contemporanei del pas
sato.Permezzodiessanoipossiainoalloraformarciunconcello ge nerale del cammino
del genere umano ,e delle leggi ideali che presie dono alsuccedersi
dellecivilti,delleleggi,degliistituti,delle religio ni, degli stati e di tutte
quante sono le manifestazioni dello spirito u - mano.Allora noi partendo da
queste considerazionipossiainocom p r e n d e r e il p o s t o c h e a n c h e
n o i o c c u p i a m o n e l l a s t o r i a d e l m o n d o , d e terminare
le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi
affaticalesullaterra,edivinarquellecheabbiamocollealtreche dopo di noi
bagneranno col loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso
veramente la sloria è maestra della vita, c o m e q u e l l a c h e n e p o r g
e il p i ù s t u p e n d o a m m a e s t r a i n e n t o c h e si p o s . sa ,
la comprensione della vila slessa in tulle le sue manifestazioni, in
tuttelesuerelazionicolpassalo,colpresenteecoll'avvenire.Ma inet ta e principio
d'inganni è quella sentenza presa in un senso più ristrello
edempirico,quasivolessedireche lastoriainsegnaagliuominico. gli esempii
de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi agli
antichi simiglianti,Il credere a questa specie di
aulorilàistoricadipendedallafalsa supposizioneche gliavvenimenti si ripelano o
si possanoripeterenellemedesimecondizioni,ilcheè tantofalsoquanto
èfalsoilcrederecheilgenereumanononsimuo va , e che l'istoria non cammini. Ora
ogni clà ha suoi proprii fatti e un'indole sua propria per la quale anche i
fatli che sembrano rasso migliarsi in certe esterne condizioni, sono
diversissimi di significato e divalore.Ilprincipiochenienteèma luttosi
fa,nientepermanema tultosimuove,spezialmentenellastoriaenelcammino delgenereuma
no si verifica.Ben la nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si
ripete,la natura morale dell'umanità non mai.A coloro iquali dicono:
bencosìdeeavvenireperchècosìaltravoltaèavvenuto,ben sipuò rispondere che
appunto perchè altra volta così è avvenuto non può più avvenire al medesimo
modo.Dove il genere uinano cosi continua. mente agitandosi finalmente abbia da
giungere , chi è che possa pre vederlo,oqualeèfilosofiachelopossaalmeno
verisimilmentepre dire? Ma quando si pensa quel che era la famiglia umana al
tempo delre de'reAgamennone,pernon salirepiù alto,equaleog gi è divenuta , chi
non si sente di naufragare coll'anima in uti O c e a n o s e n z a f o n d o ,
a l l o r c h è v o l g e il p e n s i e r o a c o l o r o c u i s e p a r e r
à d a noi la medesima distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade L'Italia
era pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una
eccellenza , che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che
emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia,
la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di
opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto
dal cielo , e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e
fio renti stati pareano quasi cote che affilavano gl' ingegni, af forzavano gli
spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello
. Intanto , fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e
l'adoloscenza delle no stre menti,venne l' età più matura e quasi la virilità
dell' in tendimento , nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui
suona il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso
quello ch 'egli è , e quello che le altre cose sono, le quali in fino a
quel punto è stato contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue
immaginazioni. Allora inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee
sorgere dopo la poesia, siccome la Grecia e l'Italia col fatto ne fanno pro va
. Nè si potrebbe addurre in contrario la scolastica che è 13 194 antichissima ,
e certo precedente alla poesia, perchè quella , oltre che confinava da presso
con la teologia, più presto che esser l' effetto spontaneo , per così dire ,
del pensiero nazio nale , lavoravasi nel seno della chiesa e nel silenzio de'
chio stri , senza che il pensiero laicale vi avesse alcuna parte . Il quale ,
quando fu venuto il tempo propizio, si fece da sè una filosofia che veramente
dalla scolastica fu diversa. Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè
la sua rovina che fu quasi l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad
arricchirci di gran numero di monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia
ignoti , e a compensar con usura i nostri padri dell ' ospitale accoglienza per
essi accordata ai fuggitivi figliuoli d'una nazione illustre e generosa , che
dopo quattro secoli d'oppressione, dovea riacquistar l'indi pendenza , e ,
bella delle memorie passate e del presente trion fo, ricomparire sul fortunoso
teatro del mondo, sorgendo , come Lazaro , dal polveroso sepolcro che avea
accolto il suo cadavere . So bene che da alcuni si è creduto il risorgimento
degli studii classici e la conoscenza più intera dell'antica civiltà essere
stati più presto di nocumenlo che di utile alla mo derna , parendo loro esserne
stato impedito il libero cam mino degli spiriti, e turbata l'originalità del
pensiero mer cè l' innesto violento d' un vecchio ramo sovra un più gio vane tronco
. Ma costoro non pensano che la civiltà di un secolo non è e non può esser un
fatto isolato e da sè ma che è iotimamente legata a quella de' precedenti mercè
l' aurea catena delle tradizioni , e che ogni secolo dee, in quanto può ,
legarsi col passato e argomentarsi di perfezionarne l'opera, piuttosto che
separarsene e disdegnare di riconoscerlo , o pretendere superbamente anzi
puerilmente di incominciar tutto da capo , e rifar da sè l'opera a cui le
generazioni pre cedenti han lavorato .Però il risorgimento degli studi classici
. e la conoscenza dell'antichità , innanzi che nuocere, ha do vuto perfezionar
l'edifizio della civiltà moderna , nè in fatto pud negarsi che a risorgimento
delle antiche lettere sieno 1 195 dovuti in gran parte i subiti progressi che
le scienze fecero tra noi . Quando si furono rotli i cancelli un po' stretti
fra cui la scolastica volea talora chiusa l'intelligenza , quando si fu meglio
e vie più direttamente conosciuto il pensiero dell'an tichità , ed ecco sorgere
di presente una nuova filosofia, alla quale si può dire che avessero posto mano
di conserva il pensiero antico e il moderno, la sapienza greca e lo spirito
italiano. I più profondi ingegni della penisola si misero a quest' opera,
lavorando insieme, quale in uno e qualein un altro modo , al comune e
nobilissimo scopo, e tosto si vide venir fuori dal loro numero il celebre
triumvirato di Telesio, Campanella e Bruno , i quali tutti e tre videro la luce
in questa meridional parte d’Italia . Comune ebbero la forza della volontà ,
l'ardire dell'inge gno e la potenza della mente; ma il primo restò indietro
agli altri due , imperciocchè la sua opera fu puramente ne gativa , laddove
questi poterono crear de sistemi che nè il tempo nè i seguenti sforzi dello
spirito umano non giunse ro a far dimenticare. A così bei cominciamenti fu
possibile di sperare splendidi destini per la filosofia italiana , ma la
speranza anche allora, siccome spesso è, fu ingannatrice, e l'avvenire mancò a
così lieti principii . Del qual fatto non si può trovare altrove la ragione che
nelle condizioni della storia italiana e nella intima natura della nostra
filosofia . E, in vero se, come abbiam veduto, la filosofia comparve in Ita lia
quando il pensiero era abbastanza maturo per siffatta ma niera di studii ,
quando questo momento fu arrivato, la na zione incominciò a declinare . Quella
maravigliosa abbon danza di vita che avea alimentato il movimento dello spi
rito e favorito l'innalzamento di tante piccole nazionalità, nel cui seno eran
comparse prima la poesia e le arti , e poi la scienza , incominciava a
indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la conquista era compiuta; le antiche
forme di reg gimento eran cadute o avean perduto della loro importan za; e le
nostre sorti incominciarono ad esser , quando più e quando meno , legate a
quelle di altre nazioni. Strana 196 cosa è l'ammirazione di taluni storici ,
siccome il Denina , per la beata tranquillità , per i giorni di serenità e di
pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo dell' Italia . Più stra na ancora
è la maraviglia del Tiraboschi il quale non sa comprendere come la letteratura
, le arti e in gran parte le scienze sien volte in basso stalo allora a ppunto
che la pa ce di cui finalmente godea l'irrequieta terra italiana , facea sperar
nuovi progressi e quasi un novello secol d'oro al nostro paese . Costoro non
intendevano che quando una nazione cade, cade di necessità con essa tutto
quello che è intimamente collegato con la sua vita e col suo essere . E in
fatti allora la bella prosa italiana fini, allora la poesia spirò sulle labbra
del Tasso , e le arti andarono ogni di più declinando. Allora incominciò la
corruzione onde il sei cento è rimasto celebre nella memoria degli uomini , sic
come età di decadenza. E' sembra che l'antico spirito let terario si rifuggisse
un momento in Toscana per morir no bilmente nel paese stesso che l'avea veduto
sorgere , sic come la pittura cercò un asilo in Bologna e parve di nuo vo levar
il capo fra le mani de' tre Caracci, di Guido Reni , del Guercino e d'altri. Ma
questo fu come l'ultimo sforzo del gladiatore ferito , o come l' ultimo canto
del cigno che si muore . Egli è facile il concepire come una filosofia, la
quale derivava da un movimento al tutto italiano, e che pe rò era legata alla
fortuna del pensiero onde ella avea da nascere, dovesse cader di necessità il
giorno stesso che quel pensiero veniva a perdere la nazionalità e l'indole
origina le . Il medesimo senza fallo sarebbe avvenuto nell'antichità, ove la
Grecia fosse caduta il giorno stesso che il gran disce polo di Anassagora bevè
la cicuta , perciocchè allora a Pla tone e ad Aristotile sarebbe mancato il
tempo di compari re , siccome mancò tra noi dopo la morte de Socrati italiani.
Dopo questo tempo non comparve, si può dire, nessuno il cui nome fosse degno
delle antiche glorie, e le menti ita taliane sembravano comprese da una mortale
stanchezza, quando venne fuori tra noi Gian Battista Vico quasi a pro 197
testare in nome di tutti e mostrare al mondo che il fuoco sacro del pensiero
non era già spento nel bel paese ma solo nascosto sotto tiepide ceneri. Tra una
gran folla di eccel lenti giureconsulti che fiorivano di quel tempo in Napoli,
dalla meditazione del diritto romano egli seppe innalzarsi alla scienza delle
leggi universali che reggono il cammino del genere umano sulla terra , e dalla
meditazione d'una sola città alle leggi supreme della civiltà e del corso di
tut ta quanta l'umana famiglia. Ma poichè egli precorreva di due secoli i suoi
contemporanei, fu non curato e poco avuto in pregio da quelli , ed è stato sol
da' posteri onorato condegnamente alla sua grandezza ; gloriosa ma pur tar da e
, che è più , inutile ricompensa al merito degli uo mini veramente grandi , e
a' sudori per esso loro sparsi in pro di chi o non li comprende e per ignoranza
o per mali gnità li dispregia , ovvero di chi più non può giovarli . Parecchi
anni dopo del Vico , e immensamente a lui infe riore , comparve in Napoli
l'abate Antonio Genovesi . Del quale spiacemi di dover parlare in modo che a
molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto o troppo severo . Im
perciocchè io penso che il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto
economista non so , sia stato più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i
quali eran pure que' me desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria , e
poco o niente avean creduto alla sua grandeza. Genovesi poi, sendo prete ,
credeasi in certa guisa mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè
seppe intender quello che veramente di più profondo trovavasi in essa , nè il più
delle volte seppe spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non
poco pretendesse alla leggerezza dello stile , e fino alle facezie e alle
arguzie il più spesso di cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie
per esso lui trattate. Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del
XVIII , credeasi parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo ,
senza scorgere le conseguenze a cui quelle menavano . Per tal guisa mentre come
teologo avea in 198 napzi san Tommaso , intendea come filosofo seguitare il
Locke e il Cartesio , allora nuovi e in voga oltremonti , e a cui l'alta mente
del Vico avea mosso infin dal principio potentissima guerra. Diviso fra due
estremi così opposti in sieme , e' travagliavasi pure a volerli conciliare , e
parvegli che l'autore del sistema delle monadi potesse maravigliosa mente
servire al suo scopo , e così volea conseguir la gloria , tanto per lui ambita
, di libero pensatore e di teologo ; ma il tentativo riescì vano alla prova .
Chi in fatti apra i suoi libri di leggieri si potrà accorgere d'un continuo
vacilla re e di una enorme confusione, per la quale il lettore si tro va ,
siccome l'autore dovea essere , in una strana tenzone di discordanti dottrine
che ben sono accoppiate insieme , ma non sono e non posson essere ricondotte
all'accordo e all'armo nia . E, in vero, quale è la teorica onde egli ha
arricchito la scienza ? quale è il sistema che si chiama dal suo nome ? quale
la scuola che ha fondata ? Se pure non voglia dirsi , come si potrebbe in certo
modo affermare, che egli sia sta to il primo che incominciasse a introdurre fra
noi la filoso fia del XVIII secolo , la quale dovea poi più largamente
spandersi e acquistar quasidiritto di cirtadinanza . Concios siachè , spezzato
il legame sacro che avrebbe dovuto legarci a' nostri più antichi, rotta la
tradizione e in certo modo spenta presso il più gran numero la ricordanza delle
passa te glorie filosofiche, parve più facil cosa il domandare ol tremonti
bella e fatta la filosofia , innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto
più che tra noi l'uso delle profonde me ditazioni era venuto meno , ei sistemi
che lavoravansi oltre le alpi , tra per la loro comoda facilità e per la
popolarità che la letteratura francese ogni di più andava acquistando, divenivano
anch'essi popolari in gran parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata
direttamente da' sistemi del Bacone e del Locke , e più indirettamente da
quello del Car tesio . . 199 II . Renato Descartes avea continuato nelle
astratte regioni della filosofia l'opera incominciata dalla Riforma in quelle
della religione, più astratte eziandio e al tempo stesso più positive delle
prime, che era senza più l'idea della libertà del pensiero . Cosiffatta idea
era nata da prima in Italia , do ve non chiedea altro che la libertà del
pensiero filosofico; anzi in sulle prime si fu contenti a quella solo della
libera discussione contro l'Aristotile delle scuole, salvo a costruire un nuovo
edifizio con le vere dottrine dello stesso Stagirita ovvero di altri filosofi
dell'antichità, siccome spesso si vide fare . Ma la Riforma, confondendo i
limiti di cose diverse , domandò la libertà della discussione religiosa , il
che era distrugggere la religione medesima , la quale per sua es senza è
fondata sulla fede , sulla credenza e sul mistero, talchè sì tosto che la
discussione e l'esame incomincia, la religione finisce, dove tra il credere e
il non credere , tra il si e il no , alcuna transazione non è possibile, e ogni
ana lisi l' uccide. Della religione avviene lo stesso che d'una leggiadra
fanciulla dalle guance rosee e da' capegli dorati , la quale sembra contaminata
dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore dell'uomo; ma non si tosto
l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri della sua bellezza , ogni prestigio
è finito . Così accade delle religioni , e tutte quelle che finora hanno
imperato in su la terra, vere e fal se , ne son argomento. I libri sacri degli
Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e segreto dell' arca ; l '
Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della religione , è la patria de'
simboli e de' geroglifici , e in Grecia solo pochi savi dopo faticose prove
erano iniziati a' misteri di Samo tracia e diEleusi . In somma è strana cosa il
credersi obbligato ad aver pure una religione e non volerla fondata sul
principio dell'autorità. E in questo veramente il principio cattolico è
superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte del
cristianesimo , come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna
transazione , ma riconosce in sè la fonte di ogni vero , poggiandosi in sulla
autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione
e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano , ben fa spesso
de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s'
ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia
destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia
in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto
all' unico e immutabile vero , Ma dove è questo vero ? chi mai può dire di
averlo ve duto , o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di
tutti i loro sforzi in su la terra , siccome il sepolcro di Gerusalemme a'
Crociati e le coste di S. Domingoa Cristo foro Colombo ? Cotesto continuo moto
, coteste secolari agi tazioni stancano l'anima , la quale ha sovente bisogno
di fermarsi pure a qualche cosa di fermo e indubitabile, e di trovar come
un'oasi in cui riposarsi dalle fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e
i dubbi , fra le affermazioni e le negazioni dell' intelligenza . Or la Riforma
distrugge questa proprietà assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola
in un pelago più con trastato ancora che quello della scienza , e in una bolgia
di più inestricate e spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della
riforma furono rendute ancor più estreme dal Cartesio , il quale spinse tant'
oltre il desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di
tutte quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscen ze ,
delle sue idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito,
di costruir da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a
distruggere. E veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser
in chi si piace di distruggere quello che egli ha intorno , per aver poi
l'illusione del creare , e , che è più strano ancora, creare partendo dal
dubbio ; nuovo e titanico esempio d' un sublime veramente dinamico, 201 Che
cosa è egli quindi avvenuto ? Cartesio dovea egli so . lo ricostruir da sè l '
edifizio della realtà e dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli
porgea . Ora e' ci ha nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la
religione , l'isto ria , le arti, i quali non sono opera dell'intendimento ovve
ro della logica. E' ci ha nella vita delle cose e degli avve nimenti che non
potrebbero derivare e non derivano dalla intelligenza individuale dell'uomo ,
quale essa alla logica e alla psicologia apparisce, ma sibbene da altri
principii e da altri motori , a cui non si può che per diverse strade per
venire . Per la qual cosa chi si argomenti di costruir la realtà delle cose con
solo le armi che quelle più ristrette scienze gli concedono , e' non ginngerà
mai ad avere essa realtà , quale nel fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la
si può formare, e priva delle sue più nobili parti, come quel le che di gran
lunga son superiori ad ogni costruzione in dividuale . La quale difficoltà si
può muovere a quasi tutta quanta la filosofia moderna, e nonsolamente a quella
del Car tesio a cui essa è indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni.
Or delle due cose l' una può avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua
impotenza e rinunzii alla superba impresa, ovvero che presumendo troppo
altamente di sè, nieghi di riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto
creare. Egli è inutile il dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per
esser la scienza troppo superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo ,
resta che la seconda si avveri . Pur tuttavia il Cartesio , siccome suole
avvenire, per essere il primo, non giunse alle assolute negazioni di cui era
pure nel suo sistema il germe , che poi seppe altri logicamente tirarne ,
allorchè si vide al fatto qua' si erano le estreme , ma pur legittime
conseguenze delle dot trine cartesiane. Succedeva intanto in Inghilterra
qualche cosa di simile a quello che in Francia , comunque le forme potessero
esser diverse. Quivi il Bacone avea dichiarato quasi vana ogni scienza , il cui
obbietto non potesse cader sotto l' impero de' 1+ 202 - sensi, quando il Locke
cercò modo di applicar questo me todo alla conoscenza dell'intendimento umano ,
e fu di necessità costrello a vedervi solo quello che ci ha in esso di più
apparente, cioè il fatto stesso della sensazio ne . Dalla quale , per sofismi
che la scienza adoperi , non giungerà mai a cavare altro che fatti singolari
con cui è impossibile di venire ad alcuna spiegazione probabile di fatti più
alti e di più riposta natura, siccome sono le religioni , le arti , l' istoria
. Pure il Locke si ostinò nel suo cammi no ma non seppe o non volle o temè di
venire al termine estremo a cui quello conducea . Non io vorrei entrar mal
levadore della verità d'alcun sistema , nè far l' apologista di una più presto
che d'un' altra filosofia , ma mi sdegno di certi acciecamenti della scienza e
della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a perdurare in una via , quando
bene si vegga ch'essa non possa condurre se non alla negazione assoluta di
certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì spiegare ma negare giammai, ove
non volesse , come Ales sandro fece del nodo gordiano , non sciogliere ma tor
di mezzo, negandole , le difficoltà. Pertanto quando il sistema del Locke ebbe
passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a lui ospitalissima della Francia,
non fu chi non gli facesse buon viso , e venne accolto non già siccome quegli
che giunge nuovo in terra straniera , ma come un antico amico che dopo lunga
lontananza si riduce in patria . E veramen te sua patria era per esso quella
del Cartesio . E' si dice che ogni idea cerca per per sua natura di venire ad
atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha filosalia al mondo, de la quale si
può affermare che abbia raggiunto il suo scopo, è certamente quella della
sensazione . Conciossiachè la rivolu zione di Francia si argomento di rifare la
civil comunanza secondo quelle dottrine, e tulto un paese e una nazione no
bilissima per amore di quelle fu veduta pronta ed apparec chiata a rinunziare
un bel giorno alla sua istoria , alle sue tradizioni, alle sue antiche
grandezze e alle passate glorie . Concessioni senza fallo enormi , ma pur
logiche , e per le - 203 quali può dirsi che Marat, Danton , Robespierre e gli
altri fossero gli estremi e più conseguenti discepoli del Locke, del Condillac,
del Voltaire e dell' Elvezio; sebbene al fatto siasi veduto ove quelle teoriche
peccassero, e come è pur mestieri di tener saldi certi altri e più antichi
principii , chi vuol conservare in vita le umane società . Tale si era lo stato
delle cose in Francia quando l'Italia legata oggimai a' destini della politica
straniera ,cercò ezian dio fuori disua casa una filosofia bella e fatta , e
potè leg germente trovarla , siccome l'abbiamo descritta , in Francia dove come
in un nuovo Eden, cercammo l'albero della scien za e della verità, benchè il
frulto che ci regalo fosse morta le per noi , come quello che fini di
distruggere ogni germe di forza e di natio vigore nella patria di Gregorio VII e
di Dante . Vero è bene che la filosofia della sensazione non può dirsi che in
Italia fosse stata accettata ciecamente e compiu tamente , ma pur tuttavia ebbe
abbastanza di forza per in sinuarsi nell' universale, e produrvi certa maniera
di debo lezza morale che è l'effetto della mancanza d' ogni idea più elevata e
più generosa . Ma comunque avesse avuto fra noi gran numero di ammiratori e di
adepti, pure , come dicevo più sopra, le più alte menti italiane non si
piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè non avessero saputo di
scostarsene del tutto.Solamente più tardi e quando già quel la filosofia
incominciava a venir meno nella sua stessa patria, si videro comparir tra poi i
libri di Paolo Costa , di Mel chiorre Gioia e del napolitano Pasquale Borrelli
che a quel le dottrine più da presso si accostavano; tre menti temprate in modo
da non intendersi come abbiano potuto nascere nel la patria di Dante ,
Michelangelo e Vico . I due ultimi, scri vendo in una lingua a mezzo barbara ,
intendevano l'uno di spandere e divulgar nell' universale la parte più positiva
della logica del Condillac, e l'altro di rianimare le teoriche del Cabanis ,
mercè qualche dottrina , già forse combattuta e dimenticata, del Locke. D'altra
parte il primo, dico il Costa , purista ma pedante in letteratura , crede che
la me 20% desima lingua che era servita a Dante per narrare i tre re gni
misteriosi della morte, e descriver fondo a tutto l'universo ; la medesima
lingua che era servita al Macchiavelli per disve lare i segreti della politica
del medio evo , e al Vico per di vidare il passato e l'avvenire , e far la
Divina Commedia della vita , siccome l'Alighieri avea fallo quella della morte;
polesse impunemente esser condotta a raccontare le lepide trasformazioni della
celebre statua , che a forza di odor di rosa dovea tornare uomo , come quella
dell'antico Prome teo , mercè la fiamma del sole . Tolta per tal modo al
pensiero l'originalità e l'indole na zionale , la letteratura di rimbalzo dovea
sentire i cattivi ef fetti dello stato morale del paese . Già essa avea perduto
la sua antica grandezza al XVII secolo , la sua fulgida stella era tramontata ,
e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea animato le nostre
lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in mezzo alla corruzione
che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII secolo , trovatici in
queste condizioni, ci polè facilmente vincere , chè la strada era fatta, aperta
la breccia , e agevolmente si potea una cor ruzione sostituire ad un'altra , un
nuovo ad un antico vi zio . Allora si giunse perfino a sostenere che l'italiana
era quasi una lingua morta la quale non potea più bastare ne alle nuove
esigenze, nè alle nuove idee del secolo , nè agli andamenti più svelti e più
liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava al postuito rifarla , provvedere
che ringiova nisse e sopperire alla sua manifesta povertà . Non è chi ignori
come l'abate Cesarotti si fu il massimo campione di questa infelicissima scuola
, e come con questo scopo dettò certo suo trattato che intitolo: Saggio sulla
filosofia delle lingue. Se non che giunta la cosa a questo estremo punto ,
bisognava di necessità che , secondo il corso ordinario degli umani eventi,
ritornasse indietro. E già nella Francia in un altro ordine 205 di cose una
maniera di reazione era incominciata , concios siachè l'opera dell'impero può
affermarsi non essere stata altro che una possente reazione contro gli anni
prossima mente passati, e una ricostruzion di quello che negli eccessi della
rivoluzione stato era distrutto e che pur meritava di esistere. In Italia ,
strana cosa ! questa reazione incominciò dalla lingua . Già poco innanzi il
Parini, l'Alfieri e qualche altro aveano incominciato a levar la voce contro la
servitù dell'imitazione straniera , ma poichè il male non era an cor venuto a
quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono arrivar per ritornar indietro,
le loro parole furono im produttrici di effetti immediati in su le menti de'
loro con temporanei , perchè le parole eriandio de' più grandi uomini non
possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap parecchiati a riceverle,
e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in vero quando le cose furon
più mature, del le voci men possenti di quelle che ho citate poterono ope rare
ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa cile nell' universale .
Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi alla corruzion
generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del tempo e
regalati, per più derisione, de’ titoli di pedanti (che forse erano) e di pu
risti . Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da onorar
qualunque eroe , e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare che
costoro, non si credendo che i paladini delle parole , combatteano veramente ,
senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero , e, se eran pedanti
, significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro le
pretensioni della filosofia. III . Duraya giá da alcun tempo questa reazion
grammaticale contro la letteratura allora corrente , quando dalla remota
Calabria s' intese risuonare una voce , che protestava contro la filosofia del
senso e le sue eccessive pretensioni. Colesta 206 da voce era quella del barone
Galluppi da Tropea , rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato
religiosamente la sua vita. Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo
distinguere esattamente ciò che egli ha negato da ciò che ha affermato , cioè
la sua polemica col sensualismo dal suo sistema . Con ciossiachè il suo vero merito
si è quello d' essere stato il pri mo in Italia a sentir la necessità d' una
filosofia più ampia opporre alle minute investigazioni del Condillac,delTracy e
degli altri di quella scuola . Cotesto è il vero merito del Galluppi , e per
questo solo gli è dovuto un posto nell' isto ria della filosofia italiana. Vero
è che le sue armi erano il più delle volte domandate alla scuola scozzese , o
eziandio à quel medesimo Locke che era il vero padre delle dottrine le quali
egli volea combattere ; ma cotesto non diminuisce nè il suo merito , nè
l'obbligo che la filosofia italiana gli dee avere. Medesimamente egli si è il
primo che abbia in cominciato a divulgare fra noi il nome e il sistema del
Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli me desimo non fosse giunto a
penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli andirivieni e i tragetti della
psicologia kan tiana , pure è cosa indubita che egli si fu il primo ad occu
parsene seriamente . Certo è , come innanzi vedremo, che altri è riescito
meglio di lui nell' investigar la mente del fi losofo prussiano e nel misurar
tutto il valore e le possibili applicazioni di quelle teoriche, ma certo è pure
che il vanto di essere stato il primo,eziandio in questo , non può negarsi al
calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema composto in parle dalle teoriche
delLocke e in parte da quelle del Reid, non credo che volendo esser giusti si
potrebbe parlarne con alcuna ammirazione . Conciossiachè debolissima è la sua
psicologia , e quasi nulla l' ontologia , la quale egli spesso non sa
distinguere da quella , e sì confonde stranamente le quistioni che all'una e
all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio è la logica , che egli
discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè della qual distinzione
che in niun modo non saprebbe sostenersi , è riescito a trattar 207 della prima
delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda un gran numero di
quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come allogare altrove .
Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica pura e passando per
la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè quello in cui mostrasi
chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche , è l'applicazione che pure
si argomenta di farne alla morale e all'estetica . Nell'estetica , per esempio,
di cui si occupa sol di volo a proposito della teorica della volontà , senza
punto curarsi de' più alti problemi che in essa si possono discutere , s'in
trattiene a sostener l'opinione , un po' veramente troppo vo luttosa , che il
bello può esserci rivelato dalla sensazione del tatto non altramenti che da
quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara la differenza che è tra
certi sensi più altaccati alle necessità della vita e però men nobili, da certi
altri che servendo meno immediatamente al corpo son più liberi, e, se così può
dirsi , più spirituali . Del resto e' si può dire che il Galluppi non ha
veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti , ovvero se pur l'ha ,
dubito forte non sia quella del Blair e del buon padre Soave , autore di
un'intera enciclopedia d'istituzioni elementari per l' educa zione della povera
gioventù italiana , filosofo , matematico , grammatico, relore, novelliere ,
moralista e Padre Somasco, che per molto tempo continuò e continua ancora in
gran parte, ad infestar co' suoi libri , i seminarii, i licei e le scuo le
italiane. Quanto poi al suo sistema sulla morale e sul di ritto, il Galluppi
non può dirsi che siane uscito più felice mente che nelle altre parti della sua
filosofia , e chi volesse prendersi giuoco di lui potrebbe leggermente qui ,
come al trove, trovarlo ad ogni pagina in contraddizione con sè me desimo. Non
son molti anni passati che il nostro filosofo in cominciò a pubblicare per le
stampe un'istoria della filosofia , ma sembra che per mancanza di soscrittori
l'edizione non potesse andare innanzi , sicchè dovette smetterne il pensie ro ,
e l' opera morì ia sul nascere . Se in questa , come nelle 208 altre cose ,
l'induzione è buona, e si può indovinare che la scienza non vi abbia perduto
gran fatto ; chè l'autore vi fa cea mostra d' un'erudizione non molto riposta.
E' mi ricor da fra l'altro che nell'introduzione tentava ancora egli un'in
terpetrazione del mito di Prometeo, e giunse per non so che strane congetture a
persuadersi che il celebre prigioniero del Caucaso si era un anticore
dell'Attica, che aveaprima insegna to a quelle genti i primi rudimenti di
agricoltura e sopratut to la coltivazione del grano . Davvero mi sembra enorme
non veder altro che questo in Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di
Mercurio , per comando di Giove e per decre to immutabile del destino, e mi
sembra più che enorme di struggere il più profondo mito dell'antichità , e
conver tire il figliuolo di Giapelo in un mietitore , con una rovinosa
metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera del teatro di Sofocle in
poco più di un' egloga. Del 1830 il barone Galluppi fu chiamato a dettar
lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli , e la scelta del governo
fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti , imperciocchè si
aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione potea dirsi
gigantesca tra noi , e sul cui merito tanto più si giuraya, in quanto niuno
avea ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo se dici anni
di esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione pubblica è
stata delusa , ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla di
durevole. Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata ? quali le verità che
ha dato a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare
della sua filosofia al diritto, alle arti, alla politi ca , all'economia ed
alle scienze naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è
feconda di applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel
circolo delle quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo
nome a cui aspira , e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di
scuola. Or tale si è quella del professor na politano. Però non dee arrecar
maraviglia se le sue parole 209 uon hanno avuto un eco , se il suo insegnamento
è stato per duto , e se, fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuo la
, non ce ne ha pure uno di cui si possa dire : costui conti nuerà l'opera del
maestro ; chè nessun'opera il maestro ha incominciata, nessuno scopo si era
prefisso, e niente vi ha di più inutile che le parole da lui pronunziale per
sedici anni sulla cattedra. IV . Non ricorderò che di volo i nomi del Mancini ,
del Tede schi, del De Grazia e del Winspeare. De’quali i due primi , si
ciliani, non possono dirsi , e sopratutto il primo, che seguita tori , ma nè
interi nè profondi, dell' eclettismo francese, e, poveri non meno di erudizione
che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due scolari che
non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo , cala brese di
patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi giorni alla
filosofia , ed ha , già sono qualche anni passati, dato fuori per le stampe un'opera
in cui intende a richiamare in onore e il Locke e la filosofia dell'esperienza
, ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do vrebbero
allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto , e che agli
occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter l'autore , a
sua insaputa , in con tradizione con sè medesimo , e l' un principio del suo
siste ma in opposizione con l'altro . Il barone Winspeare, giureconsulto di
rinomanza in Na poli , si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e
come frutto delle sue meditazioni ha incominciato da tre o quat tro anni a
pubblicare una sua opera col titolo di Saggi di filosofia intellettuale. Della
quale il primo volume, che l' au tore ha chiamato Introduzione allo studio
della filosofia, con tiene un compendio dell' istoria di cotesta scienza da
Talete in fino al Kant . Il secondo col titolo di Dizionario della Ra gione ,
dev'essere un dizionario di filosofia che si proponga 14 210 lo scopo di
fermare per sempre le parole della scienza e il loro significato , affine di
renderne il valore così certo e in dubitato come è quello delle matematiche, e
distrugger così alla loro sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da
tanti secoli il seno della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore abbia
per ferma la celebre opinione di quasi tutto il XVIII secolo , e che ora alcuno
non oserebbe di sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche
niente altro che controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di
queste , abbiano quelle immantinente da cessare . Il terzo vo lume poi dovrà
contenere una traduzione de' Nuovi Saggi del Leibnizio , nella quale il
traduttore si propone di dare un vero modello della lingua filosofica italiana,
ancora così povera tra noi ( non credano i lettori che io esageri) , pro
ponendosi di più di venir mostrando ne' suoicomenti quello che ci ha di buono e
quello che ci ha di vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo
tedesco . Ancora qui non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore .
Da ultimo il quarto volume dovrà contenere un'esposizione del sistema del Reid
. E qui immagini il lettore il sistema del fi losofo scozzese , che non suole
esser creduto , ch' io mi sap pia, de' più oscuri ed astrusi, esposto
compendiosamente dal nostro barone , in un gran volume in quarto; chè questa è
la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce. Secon do il Winspeare e'
non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia veramente da essere
obbligata; e di costoro il primo visse , già sono trenta secoli passati, in
Atene, e l' altro nacque in Iscozia l'anno di nostra salute 1710. Questi due
uomini sono Socrate e il Reid . Solo il Leibnizio potreb be esser terzo tra
costoro , ma egli è troppo lordato di me tafisicume per essere accettato
interamente dall' illastre giu reconsulto ; e però, come è detto , e' si
propone di purgarlo . Salvo adunque il greco , Jo scozzese e il tedesco , così
purificalo , tutti gli altri uomini che han consacrato la loro vita alla
scienza e che son giunti a rendere immortali i loro nomi, voglionsi tenere
comepericolosivisionarii, i quali ov 211 vero s'ingannano per difetto di
giustezza di mente , ovvero si lasciano strascinare dalla loro immaginativa. A
purgar la scienza da questi malaugurati sogni è sopra tutto ordinata ľ opera
del Winspeare. Innanzi di lasciar Napoli non posso trascurar di ricordare il
nome di un uomo , forse poco conosciuto altrove, e che eziandio tra noi non
risuona molto , ancorchè il meritasse . Ma in tutte le cose la fortuna è
signora , ed anche per giun gere alla gloria è necessaria certa maniera
d'impostura. Co stui è l'abate Ottavio Colecchi, il quale, sendo già profondo
matematico , allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè star
contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in quella
vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella filosofia
che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e a
ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le
analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie
meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. Il Colecchi seppe
penetrarvi così addentro , che quasi le fece sue proprie , e spesso osò
modificarne alcune parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che
egli ha acquistata col suo autore , ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto
la voce a sostener che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in
sieme le loro dottrine . Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente
da altri dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della
filosofia del Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e
l'altro dove distin gue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen
ze, quella cioè che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine
; cominciando egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il
sapere incominci con l'esperienza ma non tutto da quella derivi . Cotesto è
forse il più importante e il più vero di tutti i principii kantiani , comunque
sia assai più antico della critica della Ragion Pura . Il Leibnizio, fra gli
altri, avea già insegnato l'anima escir dal 212 le mani del Creatore con tutte
quante le idee necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua
propria essen za ; ma che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma
teria , han bisogno che l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo
spirito se ne avveda, benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo
scultore, se una figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una
pie tra, ove questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa
figura , ma si cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del
Leibnizio, la medesima dottrina può tro varsi insegnata da altri più
elegantemente e con maggior di sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo
del Fedone, nel quale narra , come tutti sanno , della morte di Socrate e delle
cose da lui discorse con i discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta
, dimostra siccome è nelle nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò
pò trov ) così astratta e generale che non si può in niun modo confondere con
l'idea di duecose qualunque che sieno eguali insieme, come due pietre, due
leyni o altro. Perchè dove quella è tale che noi sempre allo stesso modo la
concepiamo e di necessità non possiamo comprenderla altrimenti col pensiero ,
questa per contrario è mutabile , sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che
quelle medesime cose , che pur ieri ne pareano uguali, ne sembrano altra volta
disuguali, senza dire della differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui
le stesse cose appaiono diversamente. Onde egli conchiude l'uguaglianza
assoluta non si dover confondere con quella delle singole cose a cui questo
attributo ci sembra di convenirsi. Le medesime cose Platone dimostra del bello
, del giusto , del vero e di altre cosiffatte idee, che non si possono
confondere con gli obbietti sensati , a cui si trova che solo per contin genza
alcuno di que' modi di essere si può attribuire, e che sono come un debil
raggio di quegli eterni tipi che sopra di esse cose mutabili vengonsi a
riflettere , e che di quelli solo per accidente partecipano ( METÈYouTQ ). Se
non che que sti obbietti mutabili e contingenti son come lo strumento 213 per
cui mezzo l' anima giunge ad aver coscienza delle idee , sendo che, ogni volta
che le cose uguali, belle, vere e giuste le son mostrate da' sensi, si vengono
risvegliando in lei itipi eterni a quelle corrispondenti , i quali pur erano in
lei ab eterno, ma si vennero oscurando il giorno che ella , lasciata la sua
celeste dimora , discese nella prigione del corpo la tal guisa, secondo il
divino Platone , il sapere è solo ricor danza, e l'apparare è ricordarsi.
L'altro punto principale della filosofia del Kant, e pro prio a lui solo , si è
la teorica della ragione che egli tiene per subbiettiva e inetta a farne
conoscere altro che le appa renze, e non mai la sostanza delle cose . Teorica
d'importanza principalissima, come quella da cui dipende il sapere se l' uo mo
ha diritto a credere di poler giungere alla conoscenza di qualche verità ,
ovvero se, condannato a vivere fra illusioni e apparenze, dee rendere immagine
del cane della favola, il quale credea un altro cane da lui distinto la sua
propria immagine che vedea riflettuta nelle onde del ruscello . Chi concede
questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la sua filosofia e dee esser
tenuto per kantista, siccome io affermo del Colecchi , quali che fossero in
parti secondarie le loro di vergenze . II Colecchiha pubblicato un gran numero
di articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e morale che poi ha
raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche, ove assai spesso
prende a combaltere il Galluppi , e se il faccia con buon successo , e se gli
avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico èinutile il dirlo.
Conciossiachè il si stema slegato e debole del filosofo calabrese mal potrebbe
resistere a colpi serrati della dialettica del suo avversario. A questi due
volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni estetiche , di cui mi riesci
di aver le bozze di stampa per le mani , poichè il libro non potè veder la luce
. Cotesta este tica , come tutto il sistema del nostro filosofo , è quella me
desima del Kant; un deserto di astrazioni senza mai incon trare un'oasi ove lo
spirito possa alquanto rinfrancar le for 214 - ze . Egli è quasi che
inconcepibile come quel divino rag gio che domandiamo bellezza, e che risplende
misteriosa mente nelle volte de' cieli e negli occhi delle fanciulle , pos sa
esser materia su cui s'innalzino de' formidabili edificii di aride astrattezze
, con le quali è al postutto impossibile di dar pure una spiegazione del bello
e dell'arte, alla guisa che è impossibile di trovare il mistero della vita nel
cada vere , o quello della luce nelle tenebre . V. Mentre questa fortuna si
aveano in Napoli le discipline filosofiche , nelle altre parti d'Italia non
mancarono di esse re , ove più e ove meno, splendidamente coltivate, e in que
sti ultimi tempi videro levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro i
Napoletani. In Italia è succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in
manifesta opposizione con quello erasi veduto finora nell' istoria della nostra
filosofia , la quale in fino dalla più remota antichità , ha avuta nel mezzodì
della Penisola un' indole diversa che nel settentrione. Colà il ra zionalismo
ha dominato , qui la scienza ha più presto incli nato al positivo e alla pratica;
quasi queste due diverse ten denze della filosofia si fossero geograficamente
diviso il ter reno . E in vero mentre nell'una parte venivan su la scuo la di
Pitagora e quella degli Eleatici, nell' altra la sapienza etrusca s'introducea
in Roma, che può dirsi il paese per ec cellenza della politica, della guerra e
della legislazione. Vero è che in processo di tempo i due estremi si andarono
ravvi cinando , e l' idealismo si accostò al suo contrario e quindi risultò
l'indole vera della filosofia italiana, che è insieme speculativa e pratica ,
come quella che domanda i principii ma non dimentica le applicazioni , e , se
intende di levarsi. sino al cielo in su le ale della speculazione non perde
però di vista la terra . Se non che è innegabile che non ostante il
ravvicinamento di queste due maniere di filosofare, pure la differenza non fu
mai cancellata del tutto, e i filosofi del 215 - mezzodi restaron sempre più
razionalisti , e più pratici quel li del settentrione ; testimonii il Vico e il
Bruno da una parte, il Macchiavelli e il Pomponazzi, per non citarne in fioiti,
dall'altra . Ora al nostro vivente , come dicevo , il fat to inverso si è
veduto avvenire , chè i filosofi Napoletani non si son saputi dipartire dalla
psicologia , e quelli della più alta Italia hanno ardito di sollevarsi infino
all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni , venuto meno a noi
, si fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono l'abate Rosmini , Terenzio
MamianieVincenzo Gioberti . Antonio Rosmini ricorda in certo modo i nostri
buoni fi losofanti del medio evo , i quali chiusi fra le mura di un chiostro ,
alternavano la vita fra la preghiera e la meditazio ne , e vedeano scorrere in
silenzio i loro giorni senz'altro pensiero che quello della chiesa e della
scienza . Così il no stro abate, pievano di un piccolo villaggio in quel di
Nova ra, si è dedicato tutto quanto alla religione e alla filosofia, con una
fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed altri costumi . Egli era
già conosciuto per altri scritti di fi losofia speculativa e di diritto
pubblico e naturale , quando nel 1830 pubblicò per le stampe una sua opera
sull'origine delle idee la quale per la profondità delle dottrine , per la
forza della dialettica e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel fatto
dell'istoria della filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere
allogata fra le più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce.
Gran danno che sia di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo
stile e delle parole . Il problema che l'autore principal mente discute in
questo suo libro è quello onde è travagliala tutta la filosofia, e che più
specialmente occupa la moderna, dico la questione della realtà della
conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta siffattamente la scienza
. Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una tur ba infinita di diversi
obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de' nostri bisogni , e quale a
render lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam passare su' lagrimosi campi
della - 216 - terra , che pur tanto amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da
legare. Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste cose ? Certo se a
taluno venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se esista la donna che
egli ama , l' inimico che odia , le catene che legano i suoi piedi o l'oro che
brilla nella sua scarsella , e' non si dubiterebbe pure un momento di di
chiararlo mentecatto , e condurlo di presente all' ospedale dei matti . Or la
filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste cose e ad
ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli occhi de'
poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo dubbio della
scienza , anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia non vuol
già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si bene
rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che l'uomo
pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte della
conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in essi
, o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è messa
con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha niente che
esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per provar
quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè
medesima o infedele alla sua divisa , ha consentito ad accettare il nulla con
una rassegnazione da disgradare un anacoreta , e a conchiudere che il genere
umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose . O alliludo
! Or l'opera del Rosmini è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta
quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii sistemi
antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati , i quali tutti
esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione . Di
scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione
strettamente legata con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in
una maniera non tolta da altri , come i filosofi di lutti i tempi sono andati
errati in questo , - 217 o per eccesso o per difetto , dappoichè alcuni non
vollero riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito , ed altri cre dettero
di vederne in maggior numero che veramente non sono . Lontano dall'errore
degliuni e degli altri , il Rosmi ni ne ammette sol' una , cioè ľ idea
dell'essere , forma uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e necessaria
dello spirito , la quale non ne suppone alcun'altra prima di sè , ma bene da
tutte quante le altre è supposta , come quella che alla loro formazione è
necessaria . Or su questa idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che
essa rinchiude il con cetto dell'esistenza , anzi è l'esistenza medesima ; per
suo mezzo noi possiamo giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza,
da' concetti a ' fatti. Non io qui intendo di difender l' una ovvero l'altra
opi nione, ma poichè mi propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di
riferire una opposizione cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra . Quale
si è la difficoltà arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà ? Noi non
sappiamo le cose , e'di cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa
all' obbietto da quella rappresentato ? su qual ponte si supera la distanza che
è da un'idea ad un fatto ? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto al
Rosmini, non è punto diversa dalle altre , e indarno vi dibattereste a
dimostrare che è di differen te natura; e, se è vero, come è, che la è generale
e necessa ria , non è però vero che a differenza delle altre idee di que sta
medesima natura , sia di per sè stessa obbiettiva e atta a porci in relazione
con le cose reali . Sicchè l' antica quistione non è stata per voi risoluta ,
anzi rimane tultavia intera , po tendosi opporre all'idea dell' essere le
medesime difficoltà che alle altre idee, non ostante i vostri sforzi per
sostenere il con trario . Vero è che l'autore , dopo cinque faticosi volumi ,
con una rara, non so se io dica superbia o modestia , dichiara che non è
leggiera cosa l'intendere la sua dottrina , e che egli in vano si è studiato,
per l'impossibilità della cosa , di esser chiaro e intelligibile . Non tacerò
che a taluno è sembrato di vedere nell' opi passa dall'idea 218 - e nione del
Rosmini una pericolosa teorica da cui agevolmen te si può sdrucciolare nel
panteismo . Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre cose; la primache
siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal suo autore , e che
se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti mamente si possono far
discendere dalle sue opinioni , certo pon indugerebbe pure un momento a
ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar troppo le parole
le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in un'altra a certi
estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui regolarmente non si
potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica che può divenire per
que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto. Ultima mente non
bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio universale, e che
troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le opinioni; e se è vero
che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure strano vederlo sem pre e da
per tutto. VI . Terenzio Mamiani della Rovere del 1834 pubblicò in Pa rigi
un'opera di filosofia intitolata : Rinnovellamento dell'an lica filosofia
italiana. Oltre al nome dell'autore che già ri suonava nella nostra penisola ,
cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione dell'universale sul
libro del Mamiani . Conciossiachè si credette di vedere certo orgoglio
nazionale , e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di ri chiamare in onore
e in vita la nostra antica filosofia . La ste rilità pedantesca de' nostri
filosofi non avea fatto escir le loro scritture dai limiti della scuola , e
privatili così d' ogni ma niera di popolarità in un paese in cui gli uomini
consa crati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi,
perchè levi gran grido nell' universale un libro di malerie così speciali ; ma
questa difficoltà il Mamiani riesci a superar felicemente . Or vediamo qual sia
la sua idea . - 219 I filosofi italiani del XVI e del XVII secolo , non solo
sono slati primi nell ' ordine del tempo a incominciar la guerra contro la
scolastica , da cui poi dovea venir fuori la filosofia moderna , ma ancora sono
entrati innanzi agli altri per la profondità e dottrina con la quale seppero
eziandio trovare il vero metodo con cui unicamente le scienze speculative
possono giungere a glorioso porto, riconducendole all'osser vazion della natura
, da cui le astrattezze della scuola aveanle allontanate; metodo di cui il
pensiero moderno mena gran vanto come della più bella delle sue invenzioni , e
della sola armecon cui sipossa giungere alla scoperta della verità . An cora
fecero di più, e non contenti ad indicare altrui la strada che si ha da tenere,
si posero animosamenle in quella , e ri ducendo ad atlo il pensiero del loro
metodo , riescirono a crear de ' sistemi a niuno secondi di quanti ne ' tempi
posle riori si son veduti venir fuori. In questi sistemi certamente molte cose
sono da rigettare, molte da correggere e da mo dificare , ma molte sono eziandio
accanto alle prime, le quali meritano ben altra cosa che dispregio e noncuranza
. La fi losofia moderna avrebbe da studiare attentamente in quelli per tirarne
tutto il buono che vi è , e far tesoro delle altis sime verità che soventi
volte han costato a' loro scoprilori la libertà o la vita . Sopratutlo gl '
Italiani non dovrebbero lasciar perire sotto a' loro occhi la grande opera
incomin ciata da' loro avi con tanto ardire e potenza di mente, anzi dovrebbero
alacremente continuarla , e in vece di tener die tro astraniere filosofie e
trapiantarle siccome piante di al tro clima della loro patria, dove mai non
potrebbero alli gnare siccome frutto indigeno e nazionale, bisognerebbe che si
adoperassero a tult' uomo di richiamarli in vita e risve gliar la nobile
tradizione d'una scienza pur nata fra essi . Le altre parti del libro del
Mamiani son destinate a svol ger la vera natura di questo metodo , che ,
secondo lui , è quello dell ' osservazione , il quale a molti può parere non
acconcio a condurre la scienza là dov'essa dee pervenire , e che a me sembra
egli confonda troppo con i procedimenti i 220 delle scienze naturali. Ancora ne
viene mostrando l' appli cazione a parecchie quistioni speciali , che egli si
studia di risolvere seguendo per lo più le orme de' nostri antichi filo sofi.
Per menon esaminerò sino a che punto i grandi filo sofi italiani del
risorgimento abbian seguito il metodo di os servazione, siccome il Mamiani l'
intende, nè se questo me todo, sì utile d'altra parte alle scienze fisiche, sia
sufficiente alle metafisiche, chè cotesto mi menerebbe lungi dal mio pro
ponimento e getterebbe in quistioni che non ho in animo di discutere ; solo
dirò qualche cosa del proposto risorgimento della nostra antica filosofia .
L'idea del Mamiani si è di ri chiamar in vita tra noi le nostre tradizioni
filosofiche, per chè la scienza si abbia nella penisola un tipo veramente ita
liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato che ogni pae se ha da natura una
particolar fisonomia,per la quale si di stingue da tutti gli altri , e che
siccome è impossibile di can cellare del tutto così è vil cosa di non
rispettare come up dono della Provvideoza, e di non custodir gelosamente come
un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa differenza d'indole si
mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni popolo, negli istituti e
nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un modo speciale di vedere e
d' intendere e di rappresentarsi le cose . Gli obbietti sì del mondo fisico che
del morale , si possono giustamente chia mar poligoni, in quanto che ciascuno
ha molti diversi lati, e può , rimanendo sempre il medesimo , esser considerato
in mille guise diverse , e produrre , secondo queste diversi tà , mille diverse
impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere variamente riguardate ,
tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni popolo di spaziarsi e
mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio , esercita vastissimo
impero, perchè quella abbraccia tutta la vita , nè ci ha cosa che possa esser
considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e i suoi infiniti
accidenti , da cui ogni letteratu ra direttamente sorge , facendo ritratto
dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi quanto meno di
realtà è 221 negli obbietti che cadono sotto la considerazione e Y opera dello
spirito , e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a
restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se
ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali,
occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle
qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma
altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di
cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire
alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo , dell'uomo e
delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità
italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gli Italiani e per i
Tedeschi d'intendere i medesimi veri , di considerar gli stessi fatti generali
, sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra.
Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese
o tedesca , dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale,
dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a ' faiti ed
è quindi più sperimentale o empirica ; differenze che trovandosi nell'indole
della scienza, mostrano che ci ab bia da esserne un'altra corrispondente
nell'indole delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na
zionalità della filosofia , sendo però necessario di far due os servazioni su
tal proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un
intero isolamento scientifico , ov vero credere che ogni idea straniera possa
esser contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na
zionale. La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la
terra, nè è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il
genere umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob
bligati di riconoscerla per tale, ove che la sia , e di abbrac ciarla e farle
plauso e festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte
e sicuro di sè medesimo , le da - 222 - rà a sua insaputa quell' atteggiamento
particolare ,e quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo
dell'indole di uno o di un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni
consiglio su tal proposito dee tornare quasi inu tile , e che quindi debba
riescir vano il raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella
filosofia . Basta es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori
arsene per avere untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non
avvedendosene , in tutte le parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se
un paese è debole e corrotto , se già ha perduto la sua indole nativa , i
consigli de'dotti saran vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità
nelle al tre cose,non gli sarà possibile dicustodirla nella filosofia più
presto che nella letteratura , nella politica e nelle arti . Del resto ho
voluto dir queste cose più presto a proposito del Mamiani che contro di lui
perchè nè l'uno nèl' altro de' due rimproveri gli si può fare. Quanto poi
all'idea d' incomin ciar la scienza ove l'hanno lasciata i nostri maggiori ,
certo gl' Italiani d'oggidi avrebbero ben torto di dimenticare i no bilissimi
lavori de'loro padri e le dottrine onde hanno splen didamente arricchito la
scienza , ma è da vedere se per far questo si convenga rinunziare a tutto
quello che lo spirito umano ha scoperto in processo di tempo, perchè non è ve
rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi lavori per tre se coli e più.
Credo che non sia questa strettamente l'opinione del nostro autore, ma domando
se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua. VII . Eccomi finalmente arrivato
a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei che è giunto ad ottenere
una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io parlo dell'abate Vin
cenzo Gioberti, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall' uno
all'altro estremo della penisola . Quindi è che ciascuno si è creduto in
diritto di dar la sua opinione e 223 11 giudicarlo a sua posta , onde egli si è
trovato esposto a ' più contraddittorii giudizii , alla più inetta critica ,
alle noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida
ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si
lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte , a' nuovi ed a'
vecchi pre giudizi , dirò franco il mio parere per un uomo di un merito
grandissimo, quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben
giudicare, e che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar
sentenza , perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i
suoi nuovi schiarimenti e la prova del tempo . Intanto per por tare in fin da
ora un giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di
esaminare sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come
politico. Io, se condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della
due prime parti e quasi niente della terza . Come scrittore, il Gioberti
appartiene senza fallo alla no bilissima schiera de'Botta, de’Leopardi e degli
altri che in questi ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana
a'suoi principii, di renderle l'antico splendore , la forza, l'e leganza e la
vivacità che ammiriamo ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati , e che le
aveano negato la fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII
e de’pri mi anni di quello in cui noi viviamo , e che ancora regnano appo la
maggior parte de ' filosofi di cui innanzi è discorso , la cui lingua , e più
ancora lo stile , si penerebbe a crederlo italiano , e si direbbe
compassionevole , se la pretensione non non lo rendesse più tosto ridicolo. Il Costapuò
dirsi il primo che in questi ultimi tempi abbia trattato di filosofia con cor
rezione di lingua ed eleganza di stile, ma oltre a questi pre gi , non si può
dire che abbia nessuna di quelle doti che co stituiscono il grande scrittore .
La medesima cosa può affer marsi del Mamiani la cui lingua è pura , lo stile
esalto ed elegante ma invano si cercherebbe altro nella sua prosa . Il Rosmini
, senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di 224 una tale abbondanza,
che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi delle sue opere senza
chiedergli il sa grifizio pur d'una idea . Tull'altra cosa è del Gioberti nelle
cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola mente; qui è
ricchezza smisurata , nobiltà e vera eloquenza , tanto che si potrebbe citar
de' passi da valer come modello da imitare . Conservando il tipo originale e
l'antica grandez za della nostra lingua , e’la tratta pur tultavia come la
lingua d'un popolo che è ancor vivo , che ancora ha uno splendido posto nel
mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio . Chè nella
nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano andare
ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di corromperne la
natia purezza , non si vorrebbero allontanare da' limiti del tre cento , e si
spaventano d'ogni innovazione , come se fosse morta la lingua parlata da
ventiquattro milioni d'uomini . Niuno di questi rimproveri non può farsi al
Gioberti, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra gli scrittori
di prim'ordine . Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente
immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi , si abbandona
talora un po ' troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe
inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio . Non
su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria
chiaroveggenza , per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi
avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze,
scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar
gomenti , della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo
non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui .
Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia
italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo
alle questioni psicologi che , ovvero non osando che modestamente occuparsi di
quelle di altra natura , si son tenuti lungi da' più alti pro 225 - 1 blemi
ontologici sull'origine , l' essenza e le leggi della realtà , quistioni in cui
risiede tutta la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno
sollevata a un sì alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi
tempi i Tede schi sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa
per vie troppo ristrette , e che per renderle il suo antico valore bisognava
senza più ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato , da cui le
modeste pre tensioni della psicologia l'aveano scacciata , e in cui solo potea
incontrarsi con quelle quistioni che più potentemente importano al genere
umano, e riacquistar così la vita e l'im portanza primiera. Quest' obbligo la
scienza deve indubitata mente a ' moderni Tedeschi, quali che siano state le
conse guenze a cui sono giunti . Il Gioberti ha tenuto il medesimo cammino , ma
con mezzi alquanto diversi , ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura .
Anch'egli vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità
psicolo giche, e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di
pervenire alla causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno ,
riproducendo nell' ordine ideale della scienza l'ordine reale della
generazione. Movendo dalla teologia cri stiana, egli si è sforzato di
ricondurre la scienza all' ontolo gia , in modo da conservarla d'accordo con la
religione, e in vece di adoperar come i Tedeschi che fanno entrar la reli gione
nella filosofia e vogliono col mezzo di questa spiegar la , egli , per opposto
cammino, seguendo i più antichisistemi ortodossi, ha voluto sottomettere la
filosofia alla religione , in guisa che fosse questa obbligata a riconoscer da
quella ogni suo valore . Il suo punto di partenza è una formola sin letica , la
quale , benchè d'accordo col Cristianesimo , anzi, appunto perchè è di accordo
con esso , spiega l'uomo e l'u niverso e le loro relazioni con Dio , onde poi
discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il pensiero e la natura , le società e
le civili istituzioni , la scienza a l'arte . Io non mi fermerò su ' varii
punti del sistema , nè sulle varic applicazioni che egli va facendo del suo
principio , nelle quali dimostra una po 15 226 tenza di mente mirabile e delle
conoscenze non punto ordi narie , ma non posso tacere che soventi volte,
siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del sistema, e a
certa smania di costruzioni a priori , le quali son certamente del dominio
della scienza , ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione. Per
questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè Platone
ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e per
mezzo delle idee , ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere a
taluni troppo minuti particolari , i quali sfuggono alla scienza e non si
possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E
chi sa se nell'universo , come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero
assoluto della legge ha termine , e quello dell' arbitrio , del capriccio e
dell'accidente incomincia ? Certo è giusto di volere co' principii razionali
spiegar le leggi e le . generalità delle cose, ma è strano il pretendere di
spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale
d'ogni avvenimento , d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni
onda che la forza de'venti scaglia contro le rive , d'ogni foglia che la brezza
dell'autunno fa . cadere dal ramo ; allora si potrebbe ripetere il detto di Na
poleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo . Vediamo ora qual
sia la formola suprema e creatrice del sistema del Gioberti. Ogni filosofia ,
egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta dell'essere, dee
necessaria mente smarrire la diritta via . Siffatla nozione , come quella che
si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna diversità, e che
però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza unica , cioè al
panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non risponde a tutte le
esigenze della scienza , nelle applicazioni non trovasi d'accordo con la vera
natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al cristianesimo che è
la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri trovar modo di
escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi volte sedurre
le più 227 belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa che
conduce al panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire , chi
ben guardi la troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione
dell'essere in astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di
cansar l'errore , è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra
nozione che sia nello stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non
fosse primitiva rispetto al nostro spiri to , non potremmo acquistarla
altrimenti, essendo la nozione dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra
parte se non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere e quasi da essa
ingenerata, e' si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno assurdo dello
stesso panteismo. Ma fortunatamente è facil cosa trarre l'essere dal suo stato
astratto , considerandolo siccome concreto e creatore , perchè l' essere così
conside rato rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza che non
fa parte della natura di quello , ma che essendo un libero prodotto della sua
volontà , è legato con esso lui mercè il vincolo della creazione . Per tal modo
e ' si avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito , cioè l'idea
dell' essere puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e questa
verità -principioprodurrebbe un principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza.
Così l'autore invece di partire dalla nozione astratta dell'essere , è partito
da quella dell'essere che per mezzo della creazione produce altre esistenze a
lui sottopo ste, ed ha espresso il suo principio supremo con la formola:
l'essere crea l'esistenza; e con questo mezzo ha evitato ilpan teismo , ponendo
il concetto della creazione come il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze
contingenti. Pur tutta via questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già
non è mancato chi ha detto che il suo sistema era la teorica dello Schelling
battezzata e fatta cristiana , ed altri altre difficoltà hanno arrecato in
mezzo. Cone è egli possibile di costruire a priori una filosofia mercè diun
principio il quale contie ne in sè un dato essenzialmente contingente e di
fatto, quale è quello della creazione ? 228 Se si considera l'idea della
creazione legata di necessità con quella dell'essere, e allora si cade senza
più nel pantei smo, o almeno nella sentenza assai vicina a quello della ne
cessità della creazione ; se poi si considera essa creazione come un fatto empirico
e contingente, è impossibile allora di farla discendere dal concetto
dell'essere , e dedurla da esso ; anzi , essendo essa libera e volontaria , il
principio si dovrebbe esprimere altrimenti, dicendosi piuttosto: l'essere vuol
creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe domandarsi : chi v'insegna questa
volontà dell'essere ? domanda a cui è difficile di soddisfare senza cadere in
Cariddi per evitare Scilla . Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il
fatto , la formola a priori è distrutta, e si cade in uo circolo vizio so , col
quale si verrebbe a dire che l' essere ha voluto crear l'esistenza , perchè
esiste , e che l'esistenza esiste , perchè l'essere ha voluto crearla . Se poi,
mutando strada, si rispon de che non già il fatto ma la nozione stessa dell'
essere rin chiude il concetto della creazione, e allora si giunge diritto ,
come inpanzi dicevamo, alla necessità di essa creazione. Non insisterò più a
lungo su questa discussione, che, come tutte le altre , ho voluto toccar solo
di passaggio, ma osser verò invece alcuna cosa sull'indole generale della
dottrina del Gioberti. Nati in un tempo che è succeduto ad un altro di strani
rivolgimenti ed inuditi rumori, e che ancora è in certo di sè medesimo e più
incerto del suo avvenire , noi possiam dire di assistere al contrasto di due
opinioni , le quali si disputano ostinatamente l'impero dell'intelligenza .
L'una, che è la meno seguitata, è essenzialmente conserva trice, e non crede nè
al presente nè all'avvenire, ma sogna caldamente il passato , i secoli scorsi e
quasi il secol d'oro della favola. L'altra, che domina appresso l'universale,
non ha fede che nel presente e nell' avvenire, dispregia e deride tullo quello
che non è nato pur ieri, e ciecamente crede al progresso infinito delle umane
generazioni , al cammino dello spirito sempre trionfanle e vittorioso. Il
Gioberti non può essere accusalo nè dell'una nè dell'altra estrema opinione, e
229 il suo modo di vedere e giudicar le cose può dirsi essenzial mente
conciliatore dell'antico e del moderno. Non egli du bita che lo spirito umano
cammini , ma non crede che lutto quello ci ha di bene sulla terra sia nato ieri
; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non crede che ogni suo mo vimento
sia un progresso; in somma il passatonon è per lui unicamente l'antecedente
cronologico del presente, o un ca davere senza vita e senza importanza, anzi
egli vuole che se ne faccia altamente conto come di cosa che contiene in sè i
germi del nostro essere presente, e che non venga punto messo in dimenticanza
nelle nuove combinazioni si della scienza e sì della vita pratica. Nè punto
diverso da questo è il principio delle sue opinioni politiche, nelle quali
ammira il passato ma non lo crede bastevole a corrispondere a tutte le esigenze
del presente , ammira il medio evo in tutto quello che ha di grande, di nobile
e digeneroso ma pon vuole per questo la ricostruzione del castello feudale;
vuol bene che la politica italiana sia degna del nostro secolo ma non chiama
ugualmente degne del secolo tutte le utopie . VIII. Questi sono i filosofi
italiani degni di essere ricordati da chi voglia tessere un quadro dello stato
in che trovasi oggi la scienza fra noi . Il quale , come si può vedere, se non
è da esserne troppo superbi, non è neppur tale da doyercene ver gognare, perchè
accanto a nomi mediocri o poco maggiori della mediocrità, se ne trova pure
altri , come quello del Ro smini e del Gioberti, degni di fare onore a
qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però sorge natural mente
da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci ha de sistemi e
de'filosofi italiani, non ci ha però una filosofia o una scuola italiana da
mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè dottrine comuni veramente
non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie , e nessuno giunge a diffonderle in
modo da formare una scuola forte ed upita da contrapporre ad un'altra . 230 La
medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a pro posito del teatro , ove
dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi in Italia , ma non un dramma
italiano , da po terne indicare l'indole generale. Sarebbe lungo cercar le ra
gioni di questo fatto , ma quanto a' sistemi filosofici, non può nascondersi
che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti o almeno i più importanti si
accordano , e questo è l' essere ugualmente ortodossi e cattolici. I nostri
antichi non erano generalmente così solleciti di trovarsi d'accordo con la reli
gione , e spesso con le prigioni, con l'esilio e co' roghipa garono la pena del
loro ardimento . Oggi in mezzo alla co mune eterodossia delle scuole moderne, e
soprattutto delle tedesche , i filosofi italiani si studiano di mantener
collegate amorevolmente la fede e il pensiero, la religione e la scien za , e
compensano con la propria ortodossia gli errori de'loro predecessori , i quali
signoreggiano oltremonti e trovano nuovi seguaci e arditi rinnovellatori
massimamente nelle scuole di Germania . Certamente sarebbe cosa assurda il
negare che la filosofia tedesca in questi ultimi anni abbia renduti
straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare de'passi che mai non
saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que' sistemi sono
altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde applicazioni a
tutti i diversi ramidel sapere e della vita , ma accettarli interamente come
veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto per poi Italiani
la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per sofferire
qualunque maniera d'imitazione , senza che tosto ritorni in caricatura, ed al
cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà e di vita , mal
si convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de' Tedeschi, e la col
trice di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di avvilupparsi. Oltre
a ciò si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la filosofia tedesca ,
quando dopo tante pro messe e sì grandi rumori , si è mostrata inetta a fermar
niente d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno , tace pro - 231
fondamente , e quasi non ha un'idea o una parola comuni per farsi intendere, e
le scuole deboli e divise internamente o più non vivono o vivono di una vita
che molto si rasso miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha ragione tut
tavia di lagnarsi della loro impotenza e della vanità degli sforzi per esse fatti.
Prima di conchiudere sentomi spinto come di viva forza a ricordare un nome, che
pochi forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma che io non voglio
tacere , solamen te perchè colui che il portava ora più non vive , e perchè al
tra meno sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren dere. Io non so se
le poche pagine scritte da Stefano Cusani giungeranno a'posteri, e molto più
dubito delle mie , ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi potrà
cadere questo scritto , sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc cupano
di filosofia nessuno forse fu fornito più di lui di mente veramente filosofica,
la quale con più sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe forse , anzi
senza forse , dato frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di lui si
giudicasse da quello che finora avea stampalo , perchè chi il conobbe può far
giudizio sicuro di quello che un giorno avrebbe potuto fare se gli fosse
bastata la vita. Non so altri che faccia bene e splendidamente sperare di sè ,
ma non dubito che fra tanti dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de'
nuovi nomi , perchè giovami di credere, e i fatti mi confermano nella mia
opinione, che la sacra fiaccola della scienza non sia , non che spenta,
affievolita nella patria del Vico , del Campanella e di Giordano Bruno. Grice:
“Gatti is a difficult one to catalogue – not at Oxford! He is a man of letters
and action, by man of letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being the snob he
was, would rather be seen dead than referred to as merely a ‘philosoopher’ – He
edited the Museo di FILOSOFIA e letterature – and his passion (if he had one)
was Vico – and more, to criticse oters. He would not speak of ‘italian
philosophy,’ but of ‘philosophy in Italia’! – He wrote on Rovere, and other
philosophers – but he was always ready to grade them: “Genovesi, infinitely
inferior to Vico” – Incredibly that this philosopher is talking the same lingo
as Machiavelli or Dante!” – His exegesis of Vico is good – he refers to the
Bruno, Campanella and Telesio as the celebrated triunvirato, and there are
references to some obscure philosophers in his prose – about which he writes
little to enthusiase his reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords: poetica,
Vico, Filosofia Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane – il vico
di Gatti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool Library.
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Grice e
Gelli – sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like
Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical Italian fashion, mixing
semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s
tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I
often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua
expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for
Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least
to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati un poco di Matteo Palmieri, che era
tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò tante
lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli; la
quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un uomo
di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di dare opera agli
studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere inteso che quel re
ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son
così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini originario di
Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San Paolo. Esercita per tutta la vita il mestiere di
calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di cricket
amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino e
poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona, participa,
anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti Oricellari.
Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo, dapprima in
qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei dodici
Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne
approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu
console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di
Adamo, tratto dal canto XXVI del Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente
lezioni su Dante e Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del
bottaio, ragionamenti fra un bottaio e la propria anima (inserito nel primo
indice dei libri proibiti) e La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri
compagni trasformati in animali. Tra le tesi sostenute nelle sue opere vi sono
quelle della discendenza diretta da Noè dei fondatori di Firenze, dovuta
probabilmente all'influenza sul Gelli degli “Antiquitatum variarum volumina
XVII”; un falso confezionato da Annio da Viterbo, e quella della superiorità
della lingua fiorentina sulle altre. ---
nominato da Cosimo I lettore ordinario della Commedia presso l'Accademia e
recita nove letture dantesche, pubblicate con cadenza annuale, che ebbero
grande influenza sugli interpreti di Dante durante tutto il Cinquecento fiorentino.
Altre opere: “L'apparato et feste nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca
di Firenze et della Duchessa sua Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9
di gennaio nel quale lo Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di
Firenze”; “La sporta” “Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La
Circe”; “Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra
lingua”; “Lo errore”; “Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Il Gello sopra un
luogo di Dante, nel XVI canto del Purgatorio della creazione dell'anima
rationale”; “La prima lettione di Gelli fatta da lui l'anno, sopra un luogo di
Dante nel XXVI capitol del Paradiso”; “Il Gello sopra un sonetto di M. Franc.
Petrarca”; “Il Gello sopra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto
Della Sua M. Laura” “Il Gello sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di M.
F. Petrarca, Tutte le lettioni di Gelli, fatte da lui nell'Accademia
Fiorentina, Letture sopra la Commedia di Dante, Delmo Maestri, Opere di Giovan
Battista Gelli, POMBA, Claudio Mutini, I dialoghi morali di Giambattista Gelli
in "Storia generale della letteratura italiana V", Federico Motta
Editore, Delmo Maestri, op. cit. Claudio
Mutini, op. cit. Giovan Battista Gelli,
Dialoghi, Scrittori d'Italia 240, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G. B.
Gelli, Società tipografica de' classici italiani, B. Gamba,, G. B. Gelli, La
Circe, Venezia, Tip. d'Alvisopoli, G. B. Gelli, La Circe e i Capricci del
Bottaio (Milano, Silvestri); A. Gelli, Opere di G. B. Gelli, Firenze, Le
Monnier, C. Negroni, “Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); C. Negroni,
Letture edite e inedite di sopra la Commedia di Dante, Firenze, Bocca, A. Fabre,
La Circe di G. B. Gelli, Torino, Tip. Salesiana, M. Barbi, “Trattatello
dell'origine di Firenze” di Giambattista Gelli (nozze Gigliotti-Michelagnoli),
Firenze, Tip. Carnesecchi, A. Ugolini, Le opere di Giambattista Gelli, Pisa,
Tip. Mariotti, C. Bonardi, Giovan Battista Gelli e le sue opere, Città di
Castello, Tip. Lapi, A. Ugolini, G. B. Gelli, Scritti scelti, Milano, Vallardi,
U. Fresco, G. Battista Gelli. I Capricci del Bottaio, Udine, Tip. Del Bianco. M.
Bontempelli, G. B. Gelli. La Circe e i Capricci del Bottaio, Istituto
editoriale italiano, I. Sanesi,Opere di G. B. Gelli (Torino, POMBA, R. Tissoni,
G. B. Gelli, Dialoghi, Bari, Laterza, A.
Corona Alesina, G. B. Gelli, Opere, Napoli, Fulvio Rossi, Bonora, “Retorica e
invenzione” (Milano, Rizzoli); A. Montù, “Gelliana”. Dizionario biografico
degli italiani. cheesserescaciato,& fuggitodaogni Àno,comesifarebbe
una fiera.A. tuparli come unfilosofoGiusto;chel'inuidiaèquela,laqualepiu
chealtracosaguastailconfortiohumano;& tanto
peggioriefetiproducequantoelaèinhuomini p i u ingeniosi p i u ualenti, m a
eglie di giaaltoilsole,ionochetutilieui, pieno. . > 0 wadi à letue
faccende , con un'altrauoltara gioneremodi questopius
ellamipare?sie.Orgliètroppoinnanzi giornoà
leuarsi,questifratiminorihannoquesto costume,disonarsempreilmattutinoinsulamez
sarameglioleuarji,machefaroiopoi,egli ètantodiquiàleuatadisole,chemirincrefcera,
ma iopotreiuedere,fel'animamiauolesseparlar
meco.Anchoracheiocomincioadubitare,chefe joseguito,elanonmifacciimpazzare,&
non èdafarsebeffe,perchesecondome,tutiqueiche impazzano,impazzan'nel'anima,
nelcorpo, etcosifaràforsequestamiaàmeseiolecredocosi ognicosa.Eccoelam'hacominciatoàdire,chesi
puoesseresauioe dottosenzasaperelinguagrea
carolarinascheènnacosaches'ioladiceßifraque
stidotimoderni,iosareiucelatopropriocomeun. gufo, iopermenonhomaisentitodire,cheesipos
faeferefanioinwolgare,mapazzofibenesetnon
75 Y. > 4 1 OVELLA lasquiladisantaCroceco E una
dimostrationegrandißimad'undisagio nonpicolo,esaràdunquebeneraddormentarsi unpocobenecheiltempochesidorme,ècomeper
duto,anzièpocomeno,chesel'huomofufemorto, Operò S 那 0 an zanottechel'hucmoéapuntoinJulbuondeldors
mire;bencheàlorocheneuannoàletocomeipol tidae'pocanoia,
nientedimanconell'uniuersa lefar . i fi
n'homainedutohuomoalcunochenefiaftatofat tostimagrande,senonsaqualcosaingrammatica;
ficheiononleuòcosicredere,maiopotreiforseno
l'hauereintesabene,e'faradunquemegliouedere
seelauoleseragionarealquantomeco,& potrò
dimandarnela,Animamia,òanimamiacara,uo gliãnoifauelar'ancshotamaneunpocoinsieme
A. DigratiaGiusto,cheiononhopiacerealcuno
maggiordiquestoperchementrecheiomiftòraç
coltainmemedesimaàparlareteco,ionounengo astareoccupatainqueiconcettinili,&
bası,che tuhailamaggiorpartedel tempo;nemancot’hoa
ministrarespiritietforze,finarequeituoizoccoli,
etqueituoibariglioncin.iG.Iononmimarauiglio
puntodicotesto,cheiolauoroanchoraiomalsolen
tieri;anzinonfocosachemisiapiugraue,ale i
nonchemelofafarelamaledettfaorzy,iononda reimaicolpo.A.
Erchevoreftitu?startisempre, Guruerotiosamente?G. No, maioconsumereial
tempoinqualcosa, chemidiletafsejdoueilavorare mied'affannoetdifatica. A.
Opensaqueloche eglièàmè,essendomoltopiucontroalanatura
mia,chealatua.G.Iononsòcotefto,coueggoche
Idiodapocihel'huomohebbepecato,uoledodar glipartedelapenitentia,cosi > comeeglihaueuada.
toaladonnailpartorircondolore;glidiffestuman
geraiilpanedelsudoredelupleotuojdandogliilla let
pocoapoconelopinionemia.Otutimarauigliaui,
quandoiotidicenaľaltrogiorno,cheeglieraprufa
tica,àunhuomfoareunpaiodizoccoli,che AiAhahuediuedi,chetuuienià
vorareperlapiugraue,& piufaticosacosachpeo To tessedargli studia *
remezoAristotile,eccolaragione;tul'hardetta da uuere. A.Eglièiluero,mailfato la
stacontentarsidiquelocheènecessariosolamente n o n
cercareilsuperfluo,cheèquello,chereca cada millepensieridifutiliàl'huomo,&
lotienesempre occupatointerra,neglilasciamaialzarelafacia
ra,acontentarsidelpoco;perchechifacosiguruecon *
pochipensieri,etèlietoilpiudeltempo
uatoinme,quãtomisiastatoutileilcontentarmidi o
quelocheioho,accomodădolauogliaalafortuna, be
etseiohauesiuolutouiuer,òueftirmeglio,e'miera a
forza,òfarqualcosadishonesta,òandarastarecon me altri.A.
Malperigranmaestri,Giufto,feglihuo 2.1 il gode al 1 da
teàtesperchelostudiareenaturale,Qvé pro Pas
priodel'huomo,gloinuiaalaperfetionesua,& bra
'illauoraregliè'unapenitentia.G. E bisognapur ancohauer
alcielo;dondeusciprimieramentel'animasua,eo -
doueeladesideradiritornar';&fappiGiustoche ilmaggiorbene,&
lapiuutilcosachesipossafaro * agl'huominiinquestauita,è'auezargliabuon'ho
pernondir o sempre, G. Iolocredocertamentepercheiohopro minifußindicotestauogliatuti,chebisognarebbe
> pochicheglirestano,ul
mendoinferuitisperognipicoloprezzo,laqualeco
Sanonsolsegiafarequelsapientißimofilosofodi Diogene,che cheesiseruissindaloro,perchee'nonsonosenonle
moglieimmoderate,òdelladegnità,òdelpoterben mangiare,&
beresuntuosamenteuestire;che fanno,cheunbuomo,cheragionevolmentepuoui
uereunsessantianni(dequalinedieci,òdodecipri mi,nonconoscequelcheèfifacia;&
delrestone dormelametà)uendeque essendoglidettoda AlessandroM 5
gno,cheeichiedesequellocheuolena,Orchetue
toglisarebbedatorisposecheancorchefußicosi ponero e'nonglimincauacosaalcuna,machesegle
leuaffed'innanzi,percheglitoleusilsole,laqual cosanonerainpotest:suadidargli.
G. Certa mentecheildependeredasestessoe'unacosabellis
fima,etuorrebbesieseramicodesignori,minor
giaseruo,honorandoglioubbidendogliperòfem
pre,comequeglicherēgonointerrailuogodiDio,
etquandounpuruuoleinnalzarsi,debbecercardi farloconlevirtù,&
nonconferuire,pensandonon dimcno,chien ognistato,glihabbiaàmancarjem
prequalcosa.A. Nontidoleradunquedeltuo; &
sappicertamentechenonèstatoalcunoinque
stomondo,douenonsiaqualcheincômodo,&aqual
checosachedispiacciaaltrui.nesipuoritrouareal
cuno,checometuhaidetto,nonglimanchiqual , ز 210
,chetutiglistatidaglıhuominiera noàunmodo;Etdiceuaàciaschedunomancaso
lamenteunacosa,e quelleprimieramentedeside
ra.Verbigratia,unpoucrostropiatodesiderasola
mentediesersano,dapotereguadagnarsilauita,
pernonhauereàireaccatando;chréfano& non
hanulla,hauerdichepoteruiuere;pernonhauerà lauore;chihadicheuiųerecommodamente,has
uer tanto che eipossatenere una caualcatura c u unragazzo,&
chihaquestohauerqualchedigni tà,àmaggioranzasopraglialtri;& dipoessere
Principe,& chiePrincipefinalmente,potereper petuarsiinquelloStato,&
nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu,dihauereàlavorare un
pocosedognunomancaqualcosa. G. Lha sereàlauorareunpocosarebbeunpiacere,mafem
prezcomehoàfareio,chehopocoènulla;e >
cosa. G. Conquestaragioneuoleuagiaprouare unoamicomio 'undi Spetto.A.
Eccochetufaipurancortu,comegli altri, m a dimmi un poco che uorrestitu ? che ti
manch'egle? A. Cinquanta ducatid’ıntrata. &
staremmipoiaffaiacconciamente.A. E quandotuhaueßicotestoanchorpoitimanchereb
bequalchealtracosa,e desiderereftıla,cometu
faihorquestaperchecometuhaidetodatsetesso, inqualsiuogliastato,sihasemprequalcosainanzi
agliocchi,chseidesiderapensandocomel'huomo 79 tha, dhauersiacontentare;nientedimancopoi
quandotul'haitunonticontenti,macomincia.de
siderarneun'altra;ficheprudentementediseun
trattounuostroCittadino,aunocheentrauainun disordinegrandißimopercomperareun
podere', cheglieraaconfino.Tudonerestipensare,chetu haihauercanfini,e
checomperatoquesto,tun'ha raiaconfinoun'altro,delqualetíuerralamedefi 2 ma
uoglia.G.Iocredocertamente,cheinogni statosiadepensieri;mapiue maggioriinuno
cheinun'altro.A.E'nonègiailtuoundiquegli chen'habbiao demaggiori
fidianzifudatoal'huomoperpenitētiadesuoipeç C a t .t A . s i d i q u e g l i c
h e h a n n o l e u o g l i e d i s o r d i nate,& chenon
sicontentanodiquclchesiconuie nealostatoloro,comehauenaAdam ,quandogli duuennequesto,maachisiaccomodailcamminar
patientementeinquellauitacheeglièstatochia mato;nonauuiengiacoli ,G.Comenò,hauen
doioaniveresolamentedellauorare,checom’iodir 2 ,qualpuoeserepuidolce
cosa,cheuiueredellafaticadellesuemaniwediche DauitProfetach'erapurRe,cometusai,chiamò
questifimilibeati,& fappifinalmentequesto,che
quantepiucosefihajatantepiufihahauercura; Brèmoltopiugraue&
faticosoilpensierodigo Hernarelecosesuperflue,cheladolcezzadelpolle derle;&
quantipiuserpiòpiulaworatorisihatan tipin ,cheognibuo mon'haunramo;benfai,cheèl'hamaggioreuno
cheun'altro;Ma ecciquestadifferentiadaifaui,a
imatti;cheifauiloportancoperto,& ipazziin manodifortechelouedeogn’uno.
G.Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo,iotelouoprouareinte
stesso,quanteuoltefetuandatoaspasopercasa,po nendoipiedinelmezodemattoni,&
cercando, conognidiligentiadinon toccareiconuenti? G. Omilleuolte,&
fommipostoàcontareicorenti delpalco,& àfareseialtrecosedabambini.A. o
dimmiunpoco,setuhauesifattocotestecosefuo
riifanciullinontisarebboncorsidietro,comefan noàipazzi? G.
Permiafe,chetudiiluero;car non uòpiu negare dinonhauere ilmio capriccio
anch'io;anzitengohoraperuerißimoquelprouen bio,cheiohopiuvoltesentitodire,che و
+ > tiprunimicisiha,comebendiceuaquelPhilosofo, Mi
lasciamoandarequestiragionamenti,e'mipa rechenoin'habbiamoparlatoàbastanza,Tornia
mounpocoàqueglidihiermattina,chenoilasciam 2
momperfetti;perälchetudubitauidianzi,chese
tumicredesi,ionontifaceßitenerepazzo;come
seancortunon'hanesilatuaparte,comeglialtri. G.
Otoquest'altrafeelatipiace;cheuorraitu dire,cheognounosiapazzo?A. Pazzono; M a
che ogn'uno n e sentasi. G . O questo è quafi quelmedesimo. A. SappiGiusto .0
selapazzia F A. lotiuodireancorapiula,chetutrouueraipo
chihuomınıalmodochehabbinolasciatofama,che setuconsideribenelauitaloro,nonhabbinoqual
cheuoltaportatoilramoloroscoperto,maperche
ceglieriuscitolorobenfato,nesonostatilodat,ima
iononuòchenoifauelliamopiudiquesto,torniamo
alragionamentonostro,dimmiunpocodondehar tusaputo,chenonsaigrammaticaa
nonhaistu; diato,cheilauorarefuffedatodaIddio .G.Siquantoàleparole;maapenetrar
poibeneisensibilognaaltro.A. Eibafta,che
tunonharestidificulànelintendereleparolė;
masolamentenellainteligentiade'fenfi;laqual
cosasel'hannoancorquegli,cheleleggonoingre cooinlatinochetunonticredesiche
dereunalinguayé's’intendinoancututigliAu.
tori,tuttelescientiechesonoinquela,perche
àfarequesto,bisognal'aiutodepreccettori de
fuffeundoloreinognicasasisentirebbestridere.'! ,anostropri
mipadriperpenitentia& paritionedeladisúbi dientialoro? G. O non
losaitu,chelaitanteuol teletomcoquelitBibiacheioho.A. Ocomela intenditu?G.
Perchenonuuoitucheiolainten da?non sartucheel laeinuolgare? A s i sò. G.
Operchemenedomandi?A. Perfarticonfeffa
requelchetuhaidetto,eccodunquecheselescien tic,&
laferiturafacrafußınoinuolgare,tulein tenderesti per inten. 2
you 4 2 gliinterpreti,
anchepors'intendonoconfati cagrande,simileauuerebbemedesimamente,
s'elefußınoinuolgare;maamebastaperhora,
chetuconosca,chenonsonolelingue,chefanno glihyominidoti,malescientie;&
chelelingue s'imparano,peracquistarlesciencie,chesonoin quelle.
G.Etperònonsipuoeglieseredotto senzaintenderelalingualatina,doueelefontut
te,cheuuoituimpararenellanoftra A. Mera 1
cedeRomanicheneletraduffono,selalinguala tinaneèricca;&
colpadeToschani,chenonhan no maifattocontodelaloro,feelaneèpouera: G.
ilfatostà,felacolpaviendzlalingua,che nonsiatantocopiosadiuocaboli,ch'elenon
nifi poßinoscriuere.A. Oefenefadinuouo;e
mettonfiinuso,dimanoinmanosecondoibiso-. gni.G.
oèeglilecitofaredeleparolenuoueina unalingua?A siinquellechenonfonomorte; G dacolorosolamentedichielefonopropri.e
G. Etqualichiamitumorte?A. Quellechenon
siparlanonaturalmenteinluogoalcuno;comeso-, nohoggi,lagreca,e lalatina,e
inquestaàco lorocheniseriuonpoernonesereelalaloronatit
àpropria,nonèlecitofareparoledinuouo. G. O perchenonèegliancorlecitoà
queiforestieri,che lafanno?A. Perchenonelsendoelalornatu rale;nonlefannoinmodo
chel'habingratia, selanaturaproducessetuttelesuecoseper
fette,nonbisognerebbel'arte,& fel’artepotese farle perfettedasestessa non
bisognarebbe lana tura,machebisognapiu,non ,e gliHebrei
dagliEgitti,nonhaitumarsentitochee'nosipuo
direcosialcunachenonsiastatadettaprimamai Romani,chieranoaltrihuomini,&
d'altrogiudi cio,chenonsonohoggiiToscan,amandopiuleca Ponmente alcuneche n'hannofattecertimoderni
nellanostra,comemedesimitàgioucuolezza,mar, cigione&
fimili.G.Tugiudichiadunqueche nonsarebbeerrorefarnenellanostrae?A. Non
dechilaparlanaturalmente,anzisarebbecosalo-,
deuole.Dimmiunpoco,credituchelalinguagre ca,òlalatina,fusincosiperfete&
copiosediuoce. bolidaprincipio,comeelefurnopoinelcolmoloro, &
quandofiorirnoinlorotantipregiatiscrittori? G 'Noncredere.io. A.
Sianecerto,perchee nonsiritrouacosaalcuna 2 fra queste chesonoeserci
tatedanoi;chesiastatenelprincipio,òprodotta perfettadilanatura,òritrouatada
l'arte;perche sequestosipotesefare,l'unadilorofarebbeinus no;che
fecionoancordelepa rolenuoueCicerone Boetioseeuolseromettere.
nellalinguaRominalecosediPhilosofia,& diLo gica?G.
Chelecauoronodaaltrenationi? A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. DaiGreci,
EriGrecilhebbenodaglıHebrei OPINTO 85
feloroproprie(comeègiustoragioneuole)che
Paltrui,studiauansolamentelelingueesterne,per Canarne,seuieranulladibuono,
arrichirnelai loro. G. Inueritàcheinquestomiparecheefuf finomoltodalodare.
A.Ricercaunpocobene tuttelecoseanticheconuedraichesitrouapochis fimiRomaniche
.G.Inquestomeritonoeglinoalquantod'ef ferescusatinonessendocome
tudiquellalalingua loro.A. Anzimeritonod'essereripresidoppia
mente,nontiricordaeglihaucrmaisentitodire cheM. Catoneleggendocerte
cosescritedaA l binoRomanoinlinguagreca,t&rouādonelprin
cipiochesiscusauadelnonhauerlescriteconquel
laeleganzachedoueua,dicendocheeracittadin. RomanoOrnatoinItalia,e
moltoalienodalla linguagreca;non , o lofare.G.Veramentechequestesonoragions
tantouerecheiopermenonsapreicontradirti. i A. VediquantoiRomanicercauanodinobilita
relalingualoro,chee'nonistımauanomancolar
recareinquelaqualchebelaopera,chesotopore, scriuesjeingreco,comfeannoque
fliToscaniinlatino,chenonèlalingualoro.perche
faccinoquantoeifannoeinonfiuedemaineiloro scrittiquelcandore,ne
quelostilechee'neilatini proprii 2 . solamentenonloscusò;masene
vise,dicendoherAlbino,tuhaiuolutopiurostoha
wereàchiedereperdonod'unoerrorefato,cheno > 3 coloroiqua
lihaueuasottopošoconlaforzaqualcheCità,è qualcheprouinciaàl'imperioRomano.G.
Oani mieapensieriueramentesanti,& paroledegne
d'unCittadinRomano,perchel'ufitiouerode Cnta
dinièsempreinqualunchemodosipuogiouareàla
patriaalaqualenoinonsiamomancoobligati,che, apadrıQ àlemadrinostre. A.
Etperquesto èhoogiinpregiotantolalingualoro,cheritrouan dosiinquellabuonapartedelescientie,chiuuole,
acquistarle,bisognaprimacheimparı;quelladoue,
seinostriToscanitraduceßinomedesimamětequel
lenellanostra,chidesiderad'imparare,non hareb,
beaconsumarequattroòseideprimisuoimigliori anniinimparareunalinguaperpoterpoicolmez:
zodiquellapassarealescientie,oltradiquestolefi imparcrebbonopiufacilmente
conmaggiorfis curta,perchetuhaiàsaperequestocheenons'im
paramaiunalinguaesterna,inmodocheelasi plega bene,comelasuapropria,&
fimlmente
al'imperiolovoqualcheCità,òqualcheRegns,
chequestosiailnero,leggafiilproemiochefaBoe
tionellasuatradurrionedepredicamentideAria,
Storiledouee'dicecheessendohuomoconsulare,et n o n atto à la guerra
,cercherebbe di instruire i fuor Cittadiniconladottria; chenonfperaudmeri
faremanco,neejeremenoutileàquegli,insegnan dolorol'aridelagrecafapientia,che 2
e 2 non siparlamaitantosicuramente,necontantai facilità,a
setunonmicredi,pontrenteaquesti. chetuconosci,chedannooperaàlalingua.latina,
chequandoe’uoglionoparlareinquellaèparpro-, priocheeglihabbinoàaccattareleparole,contan->
tadificultà,etantoadagiofauel'ano.G. Tudi;
ilnero,maquestodeRomanifucertamenteunmo)
dobelissimo,àtradurenellalingualoro,dimolte
cosebele;acciochechedesiderauaintenderlefuf seforzatoàimpararla,
cosielaueniseàfpar-, gersipertutoilmondo.A. Enonfecionsola
mentequesto;mainmentrecheétennonol'impe
riodelmondo,eilafaceuanoancoraimparareàla
maggiorpartedelorosudditiquasiperforza. G. Et comefaceuano?
A.Haueuanofattoperlegge, chequalseuolesseimbasciaderenonpotesseellere
uditoinRomaseeinonparlauaRomano, oltre àquestochetutelecauseche >
perlaqualcosatutiNobilidiqualsiuogliare grone,& tuttigliAuuocati,&
tuttiiProcura forieranoforzatiadimpararla.G. Oiononmi
marauigliopiucheRomadiuentassesigrande,fe. teneuandiquestimodinel'altrecose.
A.Diquelo nonuoloragionarti,perchelecosebellechecausa
noditutoilmondo,nefannochiaratestimoniázs: 11 EMA 3 siagitauanoinqual a
fiuogliapaese,sotoiloroGouernatori,& turtii i
procesisidouessinoscriuereinlinguaRomana; F irü
.nessunochescrineseinEgittio,ne. GrecochescriuefleinHebreo,neLatino(comeio
t'hodeto)chsecriueffeingreco,f& e purecen’e's
nostatisonopochissimi,G.Odondehannocauato
aduncheiToscaniquestausanzadiscriuereingră matica,perdireamodotun A. Daloinordi
natoamorproprio,n o n delapatria,òdellalin gualoro,imperòchecofifacendo,fisonocredutief
Jerestatitenutipiuualenti
àchiunqueleconfidera.G. Ocostume'uerämen
telodeuole,òCittadiniueramenteamatoridellapa trialoro.A.
OquestocostumeGiustononfuso lamentedeRomani;madituttelealtregenti:cer
capurequantotuuoi,chetunontroueraiquasi maiHebreo mequelMedico
cheiobaueuagia?ilqualeperpa rore dotto,mi ordinaua certe ricctte con certinomi
tantodifusati,chemifaceuonmarauigliare,infra lealtreiomi ricordounamattina
chemiordinòno sochericetaperquelapostemationfeaicheroheb bi,doue infral'altrecosene
n’entrauauna,chee' chiamauaRob,un'altraTartaro,e un'altraAl
tea,perlequalimicredettiiochebisognasseman darepereseinquesteIsolenuouega
porlunaera. Sapa; l'altraGrommadebotte,conl'altraMal ud.A.
OtulhaipropriodettoGiusto,concofil mondo,fetuconsideribene,nonèaltro,tutto,che
unaciurma,maferToscaniattendefinoatradur. N . G. Chefannoe',co > 2 2
relefcientienellalorolingua,10nonfodubbioalcu
no,cheinbreuissimotempo,elauerrebbeinmag
giorreputationecheelanonè,percheefiuedeche zao bontà gliauuienesolamenteperlabellez. 2 me elapiacemolto,G ehoggimoltoatesadefide
rata,& questo fuanaturale,laqualcosanonconoscen
doiforestieri,bensepessocoluolerlatropporipulire
laguastano,ondeauuienproprioàlei,comeà unadonnabela,checredendosifarpiubellaconil
lisciarsi,piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A.
Dirottelo,mentrecheecerca noperfarlapiuornata difareleclausulesimilia
quelladelalatinaevengonoàguastarequelasua facilità&
ordinenaturale,nelqualeconsistela bellezzadiquella, oltreaquestopiglierannoal
cuneparolenfatequalcheuoltadalBoccaccio,òdal
Petrarca,benchedivado,lequaliquantomancole
trouanousatedaeßi,tantopaionolorpiubele;co
efarebbongouari,altrefi,fouente,adagiare,fouer chio,& fimili,
perchee'nonhannopernatura neiluerosignificato,neiluerofuononell'orecchio, lepongonquasiinogniluogo@bene
spesofuor dipropofito,& cofileuengonoàtorelasuabel lezzanaturale.G.
1odubitochefee'nonglisan noimmitareinaltro,e’nonsipossadirelorocome
disePippodiferBruncllescoàFrancescodela
Luna,cheuolendosiscufared'unoarchitrame,ch'e olihaueuafattosopralaloggiadegl'innocenti,
chelaruvigneinsinointerra,coldirechel'haueua
CauatodeltempiodesanGrouanni,glirispose,tu,
l'haiimitatoappuntonelbrutto.Maselalinguae
diquellaperfettionechetudizdondeuiene,chemot
tidiquestiliteratibiasimantantocoloro,chetra duconoqualcosainquela? A
:Etconcheragio mi? G. Diconchelalinguanonèatta,nedegna
chesitraducainleicosesimil,& chesitoglielo vodiriputatione,&
auxilisconsimolto. A. Tut telelingupeerleragionicheiotidißidianzi,sa n o a t t
e a d e s p r i m e r e i c o n c e t t i, G i b i s o g n i d i c o l o
socheleparlano;& quandopureelefußınoal
trimenti,queichel'usanolefanno,sichenonmial.
legarepiuquestascusa,cheelanonuale.G. O qualcagioneadunchepuoesere,cheglimuonaa
direchelecoseche liscono,
fitraduconoinuolgarefiauui & perdondiriputatione?A. Quellache
iotidissil'altrogiorno,cheeracagioneditantial trimali,malainuidiamaladetta,e
ildesiderio ch'eglihannodeesertenutidapiudeglialtri. : G.
Certamenteiocredochetudicailnero,perche iomiricordocheritrouandomiaquestigiornidoue
eranocertilitterati,& dicendounocheBernardo
SegnihaueuafattouolgarelaRhetoricad Aristo tele,unodilorodise
cheeglihaueuafatoungran male;& domandacodelaragionerispose,perche:
enoistabene,ch'ogniuoloarehabbiaasaperequel lo,che un'altrofiharaguadagnatoinmoltianni
congranfática;supelibrigrec.latini. A.O
paroledisconuenienti.Iononnodirfolamentea u n C h r i s t i a n o ,m a a c h i
u n c h e é h u o m o , s a p e n d o c h e
quantonoisiamoobligatiadamarciascunocagio
uarcl'unàl'altro,etmoltopiual'animachealcon
poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelointendere.G.
Maftafalda emiricordachediconoun'altracosa.A. Etches
G.Diconochelecosechesitraduconod'unalingua
inun'altra,nonhannomaiquellaforzanequella bellezza,cheelehannonellaloro. A.
Eleron hannoanchequellanellaloro,chel'hannonel’als
tre,percheognilinguahalesueargurie,& lefue. capresterie,
laToscanaforsepiuchel'altre,et chinenuolsedere,leggadoueDāte,òrlPetrarcha
handettoqualcosachel'abiaanchoradetoqual che Poetagreco,òlatino,etuedràchepassaronlor
dimoltevolteinnāzi,etcherarissimifonquelliche Jonrimasti.adietro.G.
Si,maneletradutionifa debbeattēderepiualsensochealeparole.A.1056
chesitraducepercagionedelesciēze,etnõperue.
derlaforzaèlabellezzadellelingue,etse'non gr | fur fecofiiRomani,cheteneuonlalorlinguaperlapru
belladelmodo,nöharebbonotradottolecosediMa goneCartaginese,&
dimoltialtrinelaloro,nei nonlofaperaltro,senonpen
chelecosefueessendoconferuaredallelettere,che non
uengonmenoleuoci,fienointesedatuttoil mondo G. Tugiudicheadunchecheilcondurre
lescientienelanostralinguafiabenee?Ai An
ziaffermochenonsiposafarcosapiautilenepin
lodeuole,perchelamaggiorpartedeglierrorina • sconodal'ignorantia,&
douerebbonoiPrincipiat tenderci,conciòsiachesienocomepadridepopolis
Etalpadrenons'appartienesolamente Grecfimilmente chfeurontantsouperbi,& tan
92 tofiuanaglorianadellaloro,chechiamanontut
tialtrebarbare,quelledegliEgittij;odeCaldei.
Nientedimancoesidebbecercareneltradurre oltreal'eferfideledidirlecosepiuornatamente
chesepuo,eoperòènecesarioaunochetraduce Saperbenel'unalingual'altra,G
dipoipoffe derbenequelecose,òquelescientiechseitraduco
30,perpoterledirebeneGornatamentesecondo
imodidiquellalingua,percheàuolerdirelecose
inunalinguaconimodidel'altre,nonhagratis alcuna,da
sequestofioferuaffe,iltradurenonfaa rebbeforsetantobiasimato- G. E
diconooltredi questochesifacontroal'intentionedel'authore. A. O
comepuoesserequestochesifacontroàl'in tentionedellauthore.A. Ocomepuoessereque
Stosechiunquescriue gouernare ifigliuoli,mainsegnarloro coregerli, seno 2
STŮ VINbyCo. 93 noglionfarquestoditutelecosee'douerebbonals mancofarlodiquele
chesononecessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi,cosilediuineco
melehumane. G. Etcheutilitàarecherebbeque stoaglihumani?A.
Comecheutilita!quantofa rebbonoeglinpiuamatori& piudefenforidele
coseappartenentialaReligioneChristiana?sele
cominciasinoàleggeredaputi,etdimaninma
nofiesercitasinoinquele,comefannogliHebrci;
laqualcosanonsipuofare,nonlehauendobentrở dotteinuolgare,& beneacconcie:G
Nonma rauigliafeglihebreifannotutisiben'parlaredel
lecosedelaleggeloro,òuadinsiàuergognarei
Christiani,cheinsegnonleggeredilorofigliuoli
òinsuleleteredimercantia,òınsucerteleggende
danopoterimpararuisucosanessuna;doueedoue
rebbonolaprimacosainsegnarloroquello,cheap partieneal'esereChristiano,sapendochequeleco
sechesimparanoneprimianni,sonoquele,chesi
ritengonosēprepiuchel'altrenellamemoria.A.
Etoltreaquesto,conquantapiureuerentia, attentionesisarebbeàgliuficidiuini
see's’inten defequelchedicono.G. Certamentechequesto èuero.A. Dimmiconchediuotione,òconcheani
mololodanoglihuominiIddio,nõintendendoquel
chesidicono,tufaipurilfauellaredeleputte,ca
depapagalinonsichiamafauellare;mammita gratiadisam
Girolamochetraduseloroognicosainquellaline
gua;comeueroam.storedellapatriafunt.G. Cene tamenteAnimimia,chequestainaopinionemi
piacemolto.A. Ellatipuòpiacerecheelaé'an choradiPauloApostolo,
chescriveàCorintiche doueuonoancoresidirealcuniloroofitijinhes
breo,com.diroloidiora Amen,sopralabenedition
uostra,seeglinonintendequelchesidice che fruttonecauerae’mu? G. o dachevenne
adun que,chequandoquestecosefuronocanatelaprima
uoltadihebreo,elenonfuronomoffeinvolgare? A.
Percheall'horaperlamescolanzadelemolte
gentiBarbare,cheeranoinqueitempiperlaItas
tia,noncieraaltralinguachelalatina,laqualefuf seintesa,quafipertutto,Guedichee'nonsitrous
fcrituraalcunadiqueitempifenoninquestame
tionedisuonosolamenteperchee'nonintendono
quelcheesidicono(conciosiachefanelareproa
priamentesiaesprimereparole,chefagnifichinoi conceti,quello,cheintendecoluichefanela)
adunqueilnostroleggere,òçantaresalmi,nonin
tendendoquelchenoicidiciamo,èsimileaungrac
chiarediputte,ècinguettaredipapagallinesoia
ritrouarealcunaaltrareligionechelanostra,che
tengaquestimodi,imperòchegliHebreilaudande noiddiainhebreo,i
Greci,ingreco;iLatini; inlatino,conglisciauoniinistiauone, 2 ; . 0.
' 95 . wolgare,cosilesacrecomeleciuili.A. Dala maritiadePreti,
defrati,chenonbastandolos roquellaportionedelledecimechehaueuaordina,
toloroIddioperlegge,àuoleruiuertantofurtuo:
Jamentecomee'fanno,celetengonoafcolecce deuendonoàpoco poco,comesidiceàminuto,
inquelmodo,peròchee'uogliono,spauentandogli
huominiconmillefalfiminacci,iqualinonsuonan
cosinelaleggecomeegliinterpretano',dimas nieracheeglihannocanatodimarioà
pouerises colaripiuchelametadiquel > desima,chseonolecosesacre,maquestobastu,circa
àleleggidiuine.Veniamohoraalehumanefe ele,
fonoquellechehannoàregolareglihuomini,&
secondol'arbitriodellequalisidebbeuiuere,perche
hannoelenoaesereinunalingua,chesiintenda perpochi?IRomanichelefeciono,&
n'ebbonotā tedaGreci,nonlefecionperòinaltralinguache laloro;&
cofisimilmenteLigurgo,Solone,& gli altri,chedettenoleleggiatuttala
Grecia,nonle fecionperòinaltralingua,cheinquelacheusana noipopoliloro.G.O
s’elefonocosinecessarie cometudi,dondeuienėcheelenonsitraduconoin che
eglihaueuano. G. Eh questoèunmalechemiparechesidia nonsolamenteàisacerdoti,ma
aognuno,anzi noncehnomchepensiadaltrofenoninchemodo
&potefjecauareedánaridelescarfeled'altri,e sto 96 metterglinelasua,egliebëuero,cheiPretieFra
ti,egoiNotaichelofannoconleparolesonpiuuse lentideglialtri. A.
Ehimeenosarebbeuenuto lorfatrocosiagevolmente,seglihuominihanesi
nohauutopiucognitione delescrituresacre,
chee’nonhanno.Etlacagionechenonfitraduco no
l'humane,èfimilmentelampietàdimoltidotto rij@
auocati,checiuoglionuenderelecosecommu ni,& perpoterlofarmeglio
,hannotrouatoquesto belghiribizzo,cheicontrattinonsipoßinfarein
uoloare,misolamenteinquelalorobelagramma
tica,chelaintendonpocoeglino,comancoglialtri;
somemurauigliocertamente,cheglihuominihat binmaisopportatotantouna
cosasimile,sotola qualesipuofaremilleinganni. G. Etchee'non
senefaforse,esarebbemoltopiuutile,cheefifaces
finonellanostralingua,perchel'huomointende rebbequelchee'facese,&
cosiitestimoniquello cheeglihannoàtestificare& vorrebbonouederlo
fcriuereal'hora,nòchepigliaßinoinomisolamēte,
etpoilodestēdesinoinsulprotocoloàloropiacimë
to,mettendoàogniparolaunacetera,chesecondo me nonèaltroch'ununcino,dovenon
intendendo quelchefifaccino,bastalorosolamentediresi,ego
nonpensanoaleconditionichespessouisicomprë dono;dondenasconopoimillepiatt.A ,
Etper questomicredoiochelofacino;ondetiuodirque ' G47 totu uuoi.M
a dePreti,ede Fratinon udio gia chetudicamale;perchesecondocheiohointeso
purdaloro,enons'appartieneàisecolari,ilripren dergli ftochenoinon
cipoßiamomancodoleredeSacere dotic,ordegli Auuocati,chesifarebbonoisuddi
tidiqueiPrincipi,cheuolesinucderelorol'acquç GilSole.G. Diquestitilasceròiodire
. A. Eccounadiquelleopinionicheficre
deilmondoessereuera,pernonhauerl'intendimen
todelleleteresacre.Dimmiunpoco,nonsiamonoi tutifigliuolidiDio,e conseguentementefrate.
glidiChristo? G. Sifiamo. A. Etifrategls nonsonoequaliinquantofrategi? G.
Sisono. A AdunqueancoranoicomeChriftianifi gliuolidiDio,fiamoequali,e
àl'unfratelos'ap partieneriprenderel'altro.G. Corestoèuero;ma
eglihannoquelladegnitàdelsacerdoria,cheglifa piudegnidinoi.A.
Oqualpuoesseremaggior dignitàchel'eserefigliuolidiDio;uuoitucheilmi
norlumecuoprailmaggiore?eglièmaggiordegni
tàl'efferChristiano,chel'eferSacerdote,òPrin. 2
cipe,iqualisonoofituidatidaDio,& fannogli huominiministridiDio,tusaipurecheeglièpiues
ferfeigliuolod'unprincipe,cheesseresuominifiro. G. Adunque
iosonodapiucheilPapa.A. Que stonò;cheeglièprimieraměteChristianocometes i n
questonoisiateequali;mapoiperesesreta
toeletoparticularmětedaIddio,persuominiftróz eglivieneaesereinuncertomododapiudite,per
laqualcosatudebbihonorarlo,cometuomaggiorez
manonperquestoperòtièprohibitodipotereriprē
dereglierrorichee'fa,c&ommettecomehuomo, e
comeChristianopurch'efifacia,conquellari
uerentiacheinsegnalacaritaGloamoredelprof fimo,etchequestosiailuero,tunehailoesempioin
PauloApostolo,ilqualedicecheripresePietro,che
erafuomaggiore,percheeglierariprensibile subitoòeglimiraculosamětecadeuamor
to,òeglin'eraportatodaDrauoli farebbedafarlorocomequelsoldato,che
hauendotoltoàunFratelametà dicertopanno,
cheeglihaueuaaccattatoperueftirsi,etminaccian
doloilFratedirichiedergliloildidelGiuditio,gli
tolequelresto;dicendo;poicheiohotantotempoà
pagarlo,iouoglioancorquest'altro .G.
Inueritachequestatuaopinionenonmidispiace, maiononuogiadırlazpercheoltreàl'autoritàegli
hannoancoralaforza,& fannodipoiconl'arme,
ueggiēdochenonuaglionpiulorolescommuniche;
comenellaprimitiuachiesa;chequädoeimaledina nouno,di senonhaueßinoaltrearmi te
che cheleloromala ditioni,e .G.Ehime,che nonpossonoancorfaredeglialtrimiracolich'eifa
Ceuano. A. Benlodises.Thomasod'Aquino
quandoessendoglidettodaPapaInnocētio,cheha .A. Certamen e ' OK
gustatopartequádoe'furapito elterzeÇıelo)dicellechenodesiderauaaltro,che
2 Heuaunmontedidanariinnanzi,& contauagli; TuuediThomaso,laChiesanopuopiudirecomeel
ladiceuaanticamente;Argentum& aurumnon eftmihi,Eglirispose;Ne anchefurge
etambula.G . . Otufaitantecoseanimamia,chetumifaiueramë temarauigliare,&
seimoltopiudotta,etpiuualen te;cheiononcredena;ma dimmiunpoco;comehai
tufatoàsaperlesẽzame;chemihaipurdetto,che
noisiamounacosamedesima,etchementrechetu seiunitamecononpuooperarefenoninme?A.O
Giufto,quesatarebbe cosatroppolungt;10uoglio
chenoiindugiamoaunaltrauolta,cheeglègiadi, tempochetunadialefacendetueG. ohime.
tudiiluero,egliedichiaroaffatto,ohcomepaffa
uiailtempochel'huomononseneauueddequando
sefa,òsiragionadiqualcosachepiaciaaltrui.
V andoio considero taluota meco med RAGIONAMENTO
IH FRA cosmo BÀRTOLI E
GIOYAN BATISTA GELU SOPRA LE
DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL
NOSTRA UNCSVA. 25 J AL
MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO
6IAHBULLARI amico SUO canssuno
GIOVAN BATISTA GELLI. Da poi
che voi volete pure, messer Pier
Francesco mio onoratissimo, che io vi
racconti il ragionamento stato tra messer
Cosimo Bartoli ^ e me quello stesso
giorno che voi novamente fusto rieletto
nel numero di quegli uomini che
debbono riordinare e ridurre a regola
la nostra lingua fioren- tina; ed, a gli
amici non si può né debbo negare
cosa alcuna che giusta sia, mi sono
risoluto in tutto porlo in iscritto,
ma semplice e puramente come e'
nacque allora in fra noi , e a
guisa pure di dialogo, a cagione che
e la cosa sia meglio intesa, e
si fugga il lungo fastìdio di quella
tanto noiosa re- plica: disse egli, e
risposi io. E perchè voi sapete come
noi altri la occasione in su che
egli è nato, senza replìcarvela ora
altrimenti, dico solamente che usciti de
la Accademia accompagnando messer Cosimo a
casa sua, sopraggiuntovi da la sera,
e desiderando fuggire quella crudezza de
Farla che comunemente apporta la notte,
passammo in casa, e appressò ne lo
scrittojo. Dove ragionando di varie cose,
e eadendo, non so in che modo,
in su quello che si erd il di
fatto ne l'Accademia, voltatosi messer
Cosimo a me, riguarda- tomi alquanto,
cominciò sorridendo a dirmi cosi :
BariolL Io ho bene assai chiaramente
conosciuto oggi, GeUo mio caro, esser
sommamente vero quanto disse il '
Cosimo Bartoli, contemporaneo del Gelli ,
fu uomo di molta dottrina e di
molta fama a' suoi tempi. Fu ambasciatore
per Cosimo I alla Repubblica di
Venena. 1a c^ere die lasciò son degne
di escer tenute, pia che non si
fa, in pregio. 292 mAGIONAMBNTO
INTORNO ALLA UNGOA. diyinìssimo nostro
Dante in persona di Adamo nel XKYI
del Paradiso: Che nullo effetto mai
razionabile, Per lo piacere uman , cbe
rinovella Seguendo il cielo, fu sempre
durabile. Gonciossiach' io ho veduto
dispiacerti oggi si fattamente ciò che
Fanno passato tanto ti piacque, che
con ogni tao stu- dio e ingegno hai
pur fatto quasi che forza di non
esser di nuovo eletto in quel piccol
numero e scelto, che debbo ordinare e
formare le regole di questa lingua ;
non per vie- tare o tórre ad alcuno
la libertà e la facoltà di parlare
e di scrivere a senno suo, ma
solo perchè, essendoci alcuni Accademici
assai differenti ne la pronunzia e ne
la seri tia- ra , chi vorrà pure
apprendere la vera e natia lingua
fioren- tina, abbia almanco dove ricorrere
a vedere il modo e la forma de
V una e de V altra cosa
comunemente iisata in Fi- renze. Il che
nascendo pur da sincerità di mente e
da de- sio di giovare altrui, non può
essere giustamente se non lo- dato. E
perchè le «ose degne di loda si
debbon sempre far volentieri, non so
io veder la cagione che ti abbia
fatto cosi fuggire una impresa tanto
onorata. Ricordandomi^ averti sentito più
volte dire, che tu porti si grande
amore a questo nostro parlare, il
quale, quando egli è favellato puro e
senza mescuglio di forestiero ne la
nostra pronunzia propria, ti pare si
bello, che tu non puoi in maniera
alcuna credere o ima- ginarti che e'
fusse più beilo udire o Cesare o
Cicerone o qoal altro Romano si sia ,
che alcuni di veri e nobili citta-
dini di Firenze, i quali per la loro
grandezza abbino avuto il più del
tempo a trattare di cose gravi , e
a mescolarsi poco col volgo, che ha
lingua molto più bassa e parole tìIì
e plebee : dove, per V opposi to,
costoro hanno parole scelte e fa- cili,
che oltre a la naturale dolcezza, di
questa lingua, ap- portano un certo che
di grandezza e di nobiltà ; e
massima- mente quando essi parlatori hanno
atteso a le lettere, eser- citandosi ne
gli studj, come ne' tempi de la
tua fanciallezza * Qnesto periodo
soTercfaiamente lungo è guasto andie per
questo gerundio ; invece del quale
dicendosi ricordami, tornerebbe meglio.
BÀ6I0NÀÌIB1IT0 INTOBNO ALLA UNtìUA. 293
erano Bernardo Bucellai, Francesco da
Biacceto, Giovanni Canacci, Giovanni Corsi, Piero
Martelli, Francesco Vettori e altri
litterati che allora si raganavanoaTorto
de'Rncellai, doye to, quando ponevi tal
volta penetrare io maniera alca- na,
stavi con quella reverenza e attenzione
a udirli parlare tra loro, che si
ricerca proprio a gli oracoli, E di
più mi ricorda ancora averti sentito
dire che andavi si volentieri, quando ci
venivano ambasciadori, a udirli fare V
orazioni, essendo in qoe' tempi usanza
che parlassino la prima volta
pubblicamente. Di che sopra modo ti
dilettavi, si per la dif- ferenzia che
tu senlivi tra le lingue loro e
la nostra, e si per udire la
maniera de le risposte che si
facevano o per il Gonfaloniere che fu
un tempo Piero Sederini, o per il
segre- tario de la Signoria, che era
messer Marcello Virgilio, uo- mo non meno
elegante e facondo ne la nostra
lingua che ne la latina, e non
manco bel parlatore che si fosse Pier
Soderini. Sovviemmi oltre a questo, che
vivendo Ruberto Ac- cia joli e Luigi
Guicciardini, andavi spesso a starti con
lo- ro, dii;endo che, oltra i dotti
ragionamenti, essendo e T uno e r
altro litteratissimi, ti pigliavi si gran
piacere de lo udir- gli favellare,
parendoti che e' si fusse cosi ben
conservata in loro la grandezza e la
bellezza di questa lingua. De la qual
cosa lodi ancor oggi Jacopo Nardi per
le lettere che e' ti scrive ; e
messer Francesco Vinta, agente ora de
lo illustrissi- mo ed eccellentissimo Duca
nostro appresso la eccellenzia del signor
don Ferrante Gonzaga , parendoti ( secondo
che tu affermi) che egli, ancora che
Volterrano, scriva in quella pura e
sincera lingua fiorentina che tu hai
sempre tanto pregiata. Queste cose, Gello
mìo caro, per parermi tutte, con- trarie a
quanto oggi ti ho visto fare, mi
inducono a maravi- gliarmi si grandemente di
questa tua mutazione, che, se non eh'
io considero che tu sei uomo, cioè
variabile e mutabile come è la natura
di tutti, io non saprei quello che
avessi a dirmi di te, se non
(parlandoti piacevolmente e liberamente, come
noi sogliam fare insieme) che tu
medesimo non sai ancora quello che tu
ti voglia. Gelli. Messer Cosimo mio
carissimo, voi mi siete venuto a
dosso improvisamente col principio d' una
orazione tanto 25» 294 KAGtOHAHUITO
IMTOKIIO ALL4 UK«UA. consideraia e
cosi bene affortificata da tante praoTe,
ehe io non 80 qoasi donde avenni
a pigliare il Inogo o la via da
poter rispondere. Tattavotta, concedendoTÌ quello
che è da concedere, cioè che io
sono umuo, la natora de' quali non
è fidamente yariabile e matahile, come
yoi diceste, ma e tanto sottoposta e
atta ad errare, come voi forse
voleste dire e per modestia non lo
diceste, che, si come canta la santa
Chiesa, ogni nomo è mendace e pieno
di errori ; e negan- dovi, per
Topposito, ciò che è da negare, cioè
che tale mala- mente sia nato in me
dal non sapere io medesimo quello che
io mi voglio, vi rispondo, per
isgannarvi, che se mai approvai per
vero quel detto che Umvìo dMe mnUar
proposito^ lo ap- provo ora e tengo
verissimo; poiché, eletto io ancora lo
anno passato (come voi dite) a dare
regola a questa lingua, co- minciai a
considerare la cosa miAio più
diligentemente che io non aveva fotte
sino a qnell' era. Bartoli. Egli
è il vero che questo detto è
molto spesso in bocca a quegli uomini
che pare che abbino qualche qua- lità più
de gli altrL Nientedimanco, se e' si
considera bene il significato di questo
nome Sapiente, non pare a me che
e' si debbia cosi approvare questo
motte come tu di'. Perchè, non
volendo dire altro lo esser savio,
che le avere una vera scienzia e
certissima cognizione de le cose, a
chi è savio, perchè egli ha di
già conosciate il vero essere di
quelle, non accade mutar proposito. Perchè
il mutarsi conviene so- lamente a colui
che senza aver conosciuto 0 vero,
rùsolutosi troppo tosto, vede poi
finalmente, o per sé e per T altrui
am- maestramento, di avere errato ; e
non volendo mantenersi nel preso errore,
è costretto a mutar proposito. OeìU.
Voi dite il vero. Ma il conoscere
perfettamente la verità de le cose
non è si agevole, come voi forse
vi imagi- nate : anzi, per il
contrario, è tanto difficfle, che alcuni
filo- sofi usaron dire che di ciò che
dicevan gli uomini non era vera cosa
alcuna ; ma che quello che e'
chiamavano vero, era quel che pareva
loro. De la quale opinione non è
però da curarsi molto ; si perchè
e' si leverebbon via tutte le
scienzie ; e si ancora per averla
e dottamente e argutamente riprovata e
annullata Aristotile col dire che non
essendo vera BAGIONÀMBNTO INTORNO ALLA
LIN«OA. 295 cosa alcuna, veniva
ancora similmente a non esser vero
qael che dicevano eglino. Sì che, se
bene si paò chiamare solamente savio
chi conosce le cose secondo il vero
esser loro, e' non è però inconveniente
che a questi tali ancora bisogni a
le volte mutare proposito, se non per
il non aver conosciuto la verità, per
la occasione almanco de' tempi: i quali
continovamente vanno si variando tutte le
cose, che assai manifestamente si vede
esser tal volta bene il fare uno
effetto in un tempo, che in un
altro non è ben farlo. Benché questa
non è propriamente la causa per la
quale io ho mu- tato proposito ; ma
solamente lo aver considerata la cosa
molto più che io non. ave va
prima, e lo averla discorsa fra me
medesimo molto più diligentemente che in
sino al- lora. Bariolù E con
quali ragioni ? Perché io so molto
bene che il discorrere non è altro
che una esamina che fa sopra le
cose quella nostra parte superiore , da
ia quale noi acqui- stiamo il nome di
animali ragionevoli , considerando non meno
ciò che fa per una parte, che
tutto quel eh' appartiene a V altra.
GeUù Le ragioni e le diflicultà
che non solo mi hanno fatto levar
via V animo da questa impresa , ma
ancora giu- dicarla quasi impossìbile, sono
e molte e molto potenti; e quanto
più vi pensava intorno, più mi se
ne offerivano sem- pre a la mente de
V altre nuove. Di maniera che io
posso dire, che e' sia avvenuto
propriamente a me in questa cosa,
come avviene a chi vede da lontano
una torre o altra cosa simile ; che
quanto egli la riguarda più di
discosto, tanto gli pare minore e più
bassa; e dipoi, appressandosele, quanto più
la guarda da presso, tanto gli
apparisce continovamente maggiore e più
alta. Cosi ancora io, mentre che io
stava lontano al mettere in atto
questa formazione de le regole, me la
imaginava piccola cosa ; ma quando
poi tentammo porla ad effetto, quanto
più la considerai, tanto più mi parve
difficile. Imperocché, dovendo principalmente esser
questa opera d'una Accademia Fiorentina, mi
si appresentava subito a l' animo, che
e' bisognava che ella fusse con tanta
arte e con tal dottrina, che gli
uomini non avessino a dispreizarla.
! 296 BAQIORAUSNTO INTORNO ALLA
LINGUA. e ridendosi di noi e
di quella, dire con Orazio in nostra
ver- gogna: Parturient tnontes; nascetur
ridieuhu mtu. Sovveniyami dipoi, che
questo nome di Accademia era per
generare ne gli animi de le persone
una espettazione tanto grande, che e'
sarebbe al tutto impossibile il corrispon-
derle: laonde, ove egli è consueto
non solamente scusare gli errori che
qualche volta si riconoscono ne le
composizioni de' privati, ma difendergli
arditamente, affermando che chiunque opera
merita di esser lodato, in questa nostra
im- presa comune avverrebbe tutto V
opposito. Perchè i fore- stieri, che ci
vogliono esser maestri, per far vero
il detto del vulgo che t più
dotti manco sanno, si porrebbono con
ogni industria a cercar di attaccar
lo uncino ; e gli errori, ancora
che minimi, chiamerebbono sempre gravissimi.
E il farla in ogni sua parte
con tanta considerazione, che alcune cose
non potessino esser chiamate da molti
errori, credo che sia al tutto
impossibile. Bartoli, O questo perchè?
Getti. Per la diversità de' nomi
e de le pronunzie che si traevano
per le città di Toscana ; ciascuna
de le quali pre- giando più le sue
cose che quelle d'altri, stimerebbe e ter-
rebbe errore quello che in Firenze sarebbe
regola. Ma per meglio esplicarvi ancora
questo capo, mi bisogna comin- ciarmi da
un altro principio. Ditemi chi fa l'
una l' altra; o le regole le lingue ,
o le lingue 1q regole?. Bartoli.
£ chi non sa che le lingue
fanno le regole, es- sendo quelle innanzi
che queste; e non essendo fondate queste
m altro, né avendo altra pruova che
le confermi, se non r autorità di
esse lingue? GeUL E da questo,
essendo egli come egli è vero, nasce
che e' non si può far regola
alcuna che sia veramente rego- la non solo
a la lingua toscana, ma ancora a
la fiorentina: e uditene la ragione.
Tutte le lingue del mondo sono, come
voi vi sapete, o variabili o
invariabili. Le invariabili sono quelle che
non si mutarono mai, per tempo o cagione
alcuna, ma da quel di che elle
ebbero principio, insino a BAGIOMÀMEMTO
INTOBMO ALLA LINGUA. 297
che elle furono al mondo, sì
favellarono sempre in qoel me- desimo modo:
come è quella che gli Ebrei stessi
chiamano sacra, cioè quella de la
Bib))ia, la quale dal suo nascimento
sino al di d' oggi si è conservata
sempre la medesima ap- punto. E se
bene Esdra, loro sacerdote, dopo la
servitù ba- bilonica vi aggiunse punti ed
accenti per farla più agevole a
leggere, non mutò egli per questo né
lo idioma né la pro- nunzia; laonde
la mede<iima lingua favellano ogfl^i
tutti gli Ebrei, in qualunche parte
del mondo e' si truovino, che fa- vellarono
i loro scrittori, e particularmente Mosè,
il quale è il più antico che
elli abbino. La qual cosa è veramente
maravigliosa : perché, non si mutando
quasi le lingue per altro che per
mescolarsi que'cbe le parlano con genti
d'al- tro idioma, quale è quella che
dovesse essere più alterata e più
variata che la ebrea? Gonciossiachè i
Giudei, dopo la cacciata loro di
Jerusalem, sono già MGGGG anni, senza
regno, senza patria e senza luogo
dove fermarsi, sieno andati continovamente
errando sino agli estremi fini della
terra, e mescolandosi, a guisa di
peregrini, con tutte le generazio- ni che
il sol vede sotto il suo cielo.
E nientedimanco quella lor lingua é
per tutto quella medesima. Bartolù Ger
lamento che ella è cosa fuori di
natura, e che non può attribuirsi se
non a Dio. Il quale, avendo dato
la legge in quella, e fattovi
scrivere tutte le cose sacre e divine,
ha voluto, per indubitata testimonianza de
la santis- sima fede nostra, che ella
duri incorrotta sempre. GeUi, Di
queste dunque si fatte lingue non
occorre che noi parliamo, essendo
manifestissimo a ciascheduno, che elle
possono agevolmente ridursi a regole, o
pigliandole da gli scrittori o prendendole
pure da V uso, perchè è tutt'
uno. Ma le lingue che io chiamai
variabili non si favellano sem- pre in
un modo ; anzi vanno variando e
mutandosi di tempo in tempo, quando
in peggii^ e quando in meglio,
secondo gli accidenti che accaggiono in
quelle provincie a chi elle sono e
private e proprie, é secondo che e'
vi vengono ad abitare genti d' un'
altra lingua : come avvenne, verbigrazia,
in Italia, ne la venuta dei Gotti
e Vandali, a la lingua lati- na. E
queste tali, od elle sono morte, cioè
mancate, e non si 298 hagionambnto
intorno alla lingoa; parlano più in
laogo alcuno, ma si truovono solamente
su pe' libri de gli scrittori; od
elle sono vive, e si parlano an- cora
e usano in qualche paese, come è,
verbigrazia, a Firenze la lingua nostra.
Di queste ultime due maniere tengo io
per cosa certa che le morte si
possine agevolmente mettere in regola; ma
de le vive, che e' non sia solamente
difiQcile il farvi regola alcuna perfetta
e vera , ma che e' sia quasi al
tutto impossibile. Bartoli. £ per che
cagione? Gellù Dirowelo. Né voi né
altro mai di sano intelletto mi
negherà che, avendo a farsi regole d'
una lingua, e' non si deU)a pigliarle
da lei, quando ella fu favellata
meglio che in alcuno altro tempo;
essendo cosa pur ragionevole, quando si
hanno a pigliare per regola le
operazioni d'una cosa, pigliarle quando
ella opera meglio; il che le avviene
quando ella è nel suo perfetto
essere. E chi sarebbe mai quello, se
non forse qualche stolto, che avendo
a pigliare per esemplo le operazioni d'
un uomo, pigliasse quelle che e' fa
ne la puerizia, quando i sensi suoi
interiori, per essere di troppa umidità
ripieni quelli organi ne' quali e'
fanno lo ufizio loro, non potendo
porgere a lo intelletto la facultà
che a per- fettamente operare gli è
necessaria, non ha esso uomo libero V
uso de la ragione, e vive più
tosto secondo la natu- ra, che secondo
la mente sua? o veramente le azioni
che egli fa in quella parte de
la vecchiezza, ne la quale i sangui,
per il mancamento del caldo e de
V umido naturali, raffred- dati e diseccati
più del dovere, non somministrano a' me-
desimi sensi gli spiriti atti ed accomodati
a le loro opera- zioni? Ninno certamente,
mi penso ; ma sì bene quelle
che egli fa ne la sua età
migliore : la quale indubitatamente sarà
nel mezzo e nel colmo de la sua
vita; come poeticamente lo mostra il
divinissimo nostro Dante, dicendo essersi
accorto, che la vita nostra era una
oscurissima selva di ignoranzia : Nel
mezzo del cammin di nostra vita ec.
Bartoli. Bella certo e dottissima
considerazione. Ma sta saldo, Gello; e
prima che tu proceda più oltre,
dimmi: come si potrà egli trovar già
mai, parlando, come e' pare che la
BAGIONAMBNTO 1NT0BN0 ALLA LINGUA. 299
faccia, propriamente ed esattamente, questo
colmo de la vita e questo essere
più perfetto, ne le cose generabili e
corruttì- bili? Le quali si come misurate
dal tempo, essendo sempre in moto
continolo, non vengono a stare già
mai in uno stato medesimo, se non
in uno instante si indivisibile, che
e' non è possibil segnarlo in maniera
alcuna : per il che viene a
essere- più che impossibile, che e'
vi si troovi dentro fer- mezza.
Gellù Confesso io ancora che questo
è vero , se voi in- tendete per la
fermezza il mancare^d' ogni moto. Ma
questo non è quello che io voglio
inferire. Anzi dico, che in tutte le
cose le quali dopo il principio loro
salgono al sommo e sapremo grado de
la loro perfezione, conviene di necessità
concedere, avanti che elle comincino a
scenderne, un certo spazio di tempo ;
nel quale elle non salghino e non
ìscendi-* no, ma stiano, in quanto ad
essa perfezione, quasi che ferme, e
in uno stato medesimo: essendo di
necessità che in fra due moti
contrari si truovi sempre un po' di
quiete; perchè altrimenti, o non finirebbe
mai l'uno, o non comincerebbe mai l'
altro moto. E questo lo potete voi
chiaramente cono- scere in un sasso tratto
a lo in su ; il quale, poi
che con la sua gravitade ha superato
la forza di quella aria che, fessa
violentemente dal braccio di chi lo
trasse, correndo con grandissima celerità a
richiudersi perchè quel luogo non restì
vóto, continovamente lo pigne in su,
se egli non si fermasse alquanto, non
tornerebbe mai a lo in giù. Goncios-
siachè, non si fermando, egli anderebbe
sempre a lo in su; e andare in
su e tornare in giù in un tempo
medesimo (rispetto a la natura de' contrari,
che non patisce che eglino stiano
insieme in un medesimo tempo, in un
subietto medesimo) non è possibile. Adunque
egli è necessario in tutte le cose
che dopo il principio loro hanno
accrescimento e dicresci- mento di perfezione
, che e' si ritraevi tra V uno
e l' altro nn certo spazio di tempo,
nel quale elle restino di acqui- starne più,
e non comincino ancora a pèrderne: il
qual tempo è chiamato da' filosofi lo
stato, ed è cosa osservata molto da'
medici ne le infermità umane. Ma se
voi volete vedere ancor meglio questo
che io dico, leggete quella parte del
900 BAGIONAMBNTO INTORNO kthk LIN6CA.
Convivio del nostro Dante, dove e'
tratta de la etÀ de V ac- ino,
e resteretene capacissimo. Bartolù Orsù,
sta bene: ma che vnoi ta dire
per questo? GeUi, Yo'dire, tornando
al nostro proposito, che non si
potendo sapere ne le lingue vive
quando sia questo loro stato e questo
colmo de la loro perfezione, egli non
si può ancora conseguentemente farne regole
perfette e intere. Perchè, se bene
e' si può sapere mediante gli
scrittori di quelle quando meglio che
mai elle si siano favellate per il
passato , nessuno è però che si possa
promettere per il futu- ro, che insino
a che elle non mancano, elle non
si possino favellar meglio, e cosi
che e' non possino surgere' ancora alcuni
scrittori che le scrivine molto meglio.
Come potete voi mai sapere quale sia
il mezzo o lo stato d' una cosa,
de la quale, se bene voi avete
il principio noto, voi non potete
però non solamente sapere quando abbia
ad essere il fine suo determinatamente,
ma né anco imaginarvelo per con-
ìetture ; come forse la vita e
de V uomo e di molte altre
cose, le quali quando sono arrivate a
la lor vecchiezza, age- volmente si può
farne la coniettura quando abbia a
essere la morte loro ; non essendo
però di quelle, a chi è concesso
da la natura il rinovellarsi, come, verbigrazìa,rerbe
e le pianle la primavera. Ma le
lingue non sono di queste. Resta
dunque, non si potendo saper lo stato
de le lingue che vivono, che e'
non se ne possa ancora formar regola
alcuna ferma e vera: il che non
avviene de le già morte, come ne
avete lo esemplo chiaro ne la latina.
Ne la quale considerando i gramatici
cbe ne hanno scritto quale fusse
stato il processo suo, e giudican- do,
come è il vero, il colmo di quella
essere stato ne la età di Cesare,
Cicerone e Virgilio ; perchè ne'
tempi di Ennio e di Plauto si
vede che ella era ne lo augumento,
e in quegli poi di Svetonio e
di Tacito, nel discrescimento , fondarono
tutte le regole loro sopra il parlare
di Cesare, Cicerone e Virgi- lio,
affermando che ciò che si dicesse per
lo avvenire ne la maniera de' sopra
detti, sempre sarebbe detto bene e
lati- namente , e massime secondo Cesare
e Cicerone ; per esser lecito e
conceduto a' poeti lo usare spesso
molte cose ne' versi loro, che non si
comportano ne la prosa. Ma questo non
si RAOIOIUMBNTO INTORNO ALLA
LINGUA. 301 può fare ne la
lingua fiorentina, e molto manco ne
la to- scana, che ^ vivono ancora, e
non hanno scrittori da fon- darvi lo intento
sno, non si sapendo se elle sono
ancor per- venute al colmo de V arco.
Bartoli, E se questo non si può
fare per via de gli scrit- ti ,
chi vieta che e' non si faccia
almanco per via de lo uso?
GeUi. E di quale uso? Oh questa
è l' altra difficultà, e non punto
minore de la precedente. Bartoli. E
perchè? GeUi. Perchè ne' tempi nostri
non avviene di questa lìngua quello
che ne' tempi de' Romani avveniva de
la la- tina; che essendo propria d'una
nazione che dominava allora ad una
grandissima parte di questo mondo, era
tanto stimata e onorata da ciascuno
de' soggetti loro, e in Italia
massimamente, che e' non si trovava nohile
alcuno e da farne stima, per qual
si voglia città, il quale non si
ingegnasse di parlar la lingua romana.
SI perchè chi non sapeva era da
essi chiamato barbaro, cioè persona inculta
e di rozzi e aspri costumi; e
si ancora per ì bisogni che
occorrevano giornal- mente ne le faccende é
private e publiche ; avendo coman- dato
i Romàni in tutte le loro Provincie,
che e' non si potesse agitare causa
alcuna criminale o civile, né far
procèsso od ìnstrumento alcuno, se non
in lingua latina. Ad imitazione de'
quali, per quanto io n'ho inteso dire
da Amerigo Benci, che da venticinque
anni in qua ha usato molto la
Francia, e come voi vi sapete, oltra
le pratiche mercantili ha qualche
cognizione ancora de le speculative, ordinò
il padre di questo re, che e' si
facesse cosi in franzese per tutto il
dominio suo: il che osservatosi fino
ad ora, ha tanto migliorata e fatta
più bella e ricca quella lingua, che
è una maraviglia a chi lo considera.
£ il re che vive, Arrigo II,
imitando le ve- stìgio del padre, oltra
il fare osservare quello ordine, fa
ancora e carezze e cortesie grandissime
a chi traduce in essa, 0 fa
opera di arricchirla e farla perfetta.
Bartoli. Bella impresa e degna
veramente d'un principe, amare e onorare
la sua lingua: atteso massimamente che
nessuna può sormontare e venire in
riputazione senza il favor del principe
suo. *J6 302 RA6I0NAMBNT0 INTOBNO
ALLA LINGUA. GeUi. Non sarebbe dunque
stato diflScile a ehi avesse voluto
mettere in regola la lingua latina in
que' tempi ehe ella era yiva, poi
che gli bastava osservare solamente Io
uso e il modo che tenevano i
cittadini romani : p^chè non era in
que' tempi ehi ardisse pre^rre la sua
lingua a qoeUa, e non confessare che
la vera pronunzia e il vero modo
del favellare era quello de' Romani,
altrimenti detto latino. Ma non può
questo avvenire a noi de la nostra,
essendo in To- scana tanti principati e
tanti signori; li stati de' quali, se
non in tutto, hanno pure in parte
ciascuno, come io dissi in quella mia
traduzione * a lo illustrissimo e
reverendissimo Cardinale di Ferrara, qualche
favella e pronunzia propria, varia e
diversa da tutte le altre, e parendo
a ciascuno che la sua sia meglio.
Perchè noi non ci abbiamo imperio
alcuno cosi grande, che e' muova
(come i Romani) le città sottopo- steli
a cercare spontaneamente di favellare e
onorare quella lingua che favella chi
le comanda. Gonciossiachè, quando ben la Toscana
tutta fusse comandata da un signor
solo, lo imperio suo, per avere ì
confini si presso, non sarebbe mai di
tanta grandezza, che e' fusse oiiorato
e temuto quanto era allora quel de'
Romani. Imperocché i suggetti a loro,
essendo privi d' ogni speranza di «scir
mai di tale servitù, non aveado
principe aieuno a lo intorno dove
ricorrere quando e' pensassero di ribellarsi
, erano necessitati, se non per
amore, almeno per timore, a far ciò
che piaceva à' Ro- mani. Bar
Ioli* Io cedo, e confesso, quanto a
la grandezza e forza romana, che egli
è vero tutto quel che tu di'.
Niente dìmanco, e' si vede pur
manifestamente ne' tempi nostri, che molte persone
di quakhe spirito, i»8i fuor d' Italia
come in Italia, s' ingegnano con molto
situdio di apprendere e di favellare
questa nostra lingua non per altro
che per amore. GelU. Egli è
vero che quello che ne la età de'
Romani faceva la forza , lo fa oggi
la bontà e la bellezza di questa
lingua. Ma perchè coloro che la
desiderano e cercano per loro stessi
come cosa buona, la appetiscono edamano in
quella * Intende la tradniione dell'
operetta di Simone Porzio del modo di
orare cristianamente. Qui parla di cose
dette nella lettera dedicatoria.
BAGIONAìIBNfo INTORNO ALLà UNGUA. .
303 maniera che si desidera ed
ama il bene, ella è ancora dipoi
seguitata e adoperala come esso bene,
cioè da ì meno, e non da i
più. Ma datò che e' fosse il
vero che ognuno cer- casse di favellare
in lingua toscana , e desiderasse che
e' se ne facessi regole, donde si
arebbe poi a cavarle, non ci essendo
ciltade alcuna che signoreggi tutta
Toscana? Perchè i Luc- chesi, i Pisani,
i Sanesi, gli Aretini, e qualunque
altra città di questa provìncia , direbbe
sempre che la vera lingua e pronunzia
losca fusse veramente la sua; e il
cavare una parte di esse regole da
una città e V altra da un'
altra, sce- gliendo, come dicono alcuni, il
meglio, per fare un composito di
tutte quante, sarebbe cosa molto difiScile,
e poi forse anche non approvata e
non osservata, non ci essendo chi la
comandi. Bartoli. Oh, io non penso
però che il luogo donde cavare le
regime abbia molta difBcultà ; non
essendo se non raris- simi que' che volendo
imparar la lìngua piglino altri autori
che Dante, il Petrarca e '1 Boccaccio
; i quali essendo pure tutti e
tre di Firenze, mostrano assai
manifestamente donde sì debba imparar la
lingua. Non ostante che alcuni, poco
amici per avventura del n<Mne nostro,
hanno voluto privarci del Petrarca e
del Boccaccio, facendo questo ultimo da
Certaldo e quello altro Aretino, senza
avertire che ser Pe- tracco padre di
messer Francesco, come cittadino che egli
era, ebbe per moglie una de'Ganigiani,
e luogo tempo fu cancelliere alle
Riformagioni ; e che il Petrarca stesso
dice di sé medesimo: SMo fossi
stato fermo a la spelonca Là dove
Apollo diventò profeta, Fiorenza avria
forse oggi il suo poeta; e che
Matteo Villani dice ne la Cronica che
e' seguitò dopo Giovanni suo fratello
: « Questo anno furono coronati poeti
due nostri cittadini fiorentini; messer
Francesco di Petracco, vecchio; e Zanobi
da Strata, giovane. » E che il
Boccaccio, nel suo libro de' Fiumi, quando
e' ragiona de l'Elsa, dice: et quum
oppida plura hinc inde ìabens videai,
a dexlro, modico elatum tumulo, Certaldum,
vetus msiellum, Unquii: cujus ego
304 RÀGIONAMMTO DlTOBNO ALLA UHGUA.
libens memorùiffi celebro, sedes qtUppe
et natole solum nu^o- rum meorum
futi, anUquam illos susciperet FloretUia
eives. GelH, Egli è vero che,
non si stimando qaanto a la lin-
gna, altri scrittori che questi fiorentini,
rispetto (credo io) al non si esser
trovato mai in queste altre favelle,
non sola- meate ehi gli pareggi, ma
nò par chi si appressi loro, e' pare
certamente da confessare che la lingua
fiorentina tenga il principato ne la
Toscana ; nìentedimanco...... BartolL Sta
fermo, Gello, e non dir cosi; che
noi ci recheremo a dosso una invidia
troppo grande. Perchè e' non si può
nò debBè negare che ne' tempi nostri
medesimi non ci siano stati de'
forestier, * e fuor di Toscana, che
abbino scritto in questo idioma si
eccellentemente, che e' ne sono stati
lodati.. Geìlu Si, ma se voi
avvertite bene, vedrete che i più
celebrati fra questi tali sono selamenle
quegli stessi che hanno saputo più e
meglio imitare gli scrittor fiorentini ;
e non son però stati molti : e
di questi ne avete alcuno, che per
aver si bene imitato ed espresso i
concetti altrui con gli stessi modi e
parole de gli autori, que' dotti de
V Orto, pi- gliando la metafora da
quegli scultori che attendono più a
improntar V altrui che a sculpire di
loro artifizio, usavano di dir tra
loro: costui ha formato. Ma voi ci
avete ancora un' altra cosa, che
dimostra meglio e più chiaramente quel
che voi dite: che tutti o la
maggior parte de' forestieri con- fessano e
acconsentono tacitamente, che la lingua che
e' cer- cano e tengon buona ò
solamenle la Fiorentina; io intendo di
quella che favellano i nobili e veri
cittadini fiorentini che hanno qualche
cognizione o di lingue o di scienzie
; e non di quella che usano i
plebei, e gli uomini che hanno
cognizione di poche altre cose che di
quelle che si conven- gono loro come
animali. Perchò, non vi crediate però
che la plebe di Roma, quando fiori
la lingua latina, favellasse con quella
leggiadria che facevano e Cesare e
Cicerone. Bartolù Certamente no ;
anzi si legge di Cicerone, che i
Romani stessi lo ammiravano, maravigliandosi
grandemente * H monicipalismo a que'
tempi faceva non conoscere che non
son forestieri fra loro quelli che
abitano il paese fra le Alpi e
il lilibeo. RAQIOMJJIENTO INTORNO àthk
LlNGOl. SOtt de la 8oa eloquenzia.
Ma quale è questa cosa che ta
volevi dire? GeììL II non si
esser trovato ancora scrittore alcuno di
Toscana, che abbia avuto ardimento a
dire di avere scritto ne la sua
lingua propria, come dissero Dante e
il Boccaccio, r uno nel Convivio, e
V altro nel Decamerone, e come fanno
ancor oggi molti Fiorentini. Di maniera
che e' non si truova opera alcuna,
che si dica scritta in lingua Pisana,
Sanese, Lucchese, Aretina, o di qual
si voglia altro luogo toscano: e pure
hanno avute queste città scrittori di
non piccola fama. Laonde non può
avvenir questo per altro, se non
perchè questi tali conoscono molto bene
la lor lingua naturale non esser
quella che si stima oggi e pregia
cotanto. E se bene essi hanno ancora
imitato gli scrittor nostri, quanto è
loro stato possibile, e' npn V hanno
però voluto confessare aper- tamente e
liberamente, giudicando, per avventura, che
ciò non fusse molto onor loro. Anzi,
perchè se e' l'avessero chiamata Fiorentina,
e' non sarebbe parato loro avervi
parte alcuna o pochissima , e' l' hanno
chiamata Toscana o vulgare; volendo, col
chiamarla cosi, dare a intendere a le
persone, che ella si parli vulgarmente
per tutta la Toscana. Il che si
vede che non è vero. E altri
dipoi non Toscani, per avervi ancor
eglino parte, V hanno chiamata italiana.
Bartolù Sta fermo. Cello, che Dante
ancora egli fu di opinione che ella
si dovesse chiamare Italiana, in quel
li- bretto suo De vulgari eloquerUia, se
io mi ricordo bene. Gellù Ehi
messer Cosimo, non vi ho io detto
più volte che cotesto libro non può
essor di Dante, ma che e' conviene
che qualcun altro l'abbia finto, sotto
il colore di quella pro- messa che ne
la Dante nel suo Convivio? Il che
non può veramente esser nato da
altro, che da lo avere troppo arden-
temente desiderato chi ne fu lo autore,
che V onor de la lingua fusse
generalmente comune di tutta la Italia ,
e non particulare di Firenze solo. Ma
se voi forse non ve ne ricor- date,
avvertite che que'litterati de l'Orto
de'Rucellaì,dispuT tando, ne la venuta di
Papa Leone, col Trissino (perchè egli
fu che ci condusse la prima volta
questa opera} sopra lo essere o non
esser ella di Dante, gli facevano
centra 308 MifiioMAMBaro irtouio alla
limooa* quella, non variati né
alterati in maniera akona, come omo,
Urrà, mare e simili ; e ana
grandissima quantità di quegli altri dove
si varia scrfo una lettera, come
leggo e aequa, che a' Latini son
lego e aqua, GeUL Questa fo,
come dite voi, nua esposixione assai
stravagante, e da uomini che, desiderando
introdurre cose nuove, volsero mostrare che
ciò fusse fatto con qualche mo- tivo
ragionevole. Ma non è già venuta di
qui la diversità della pronunzia, la
quale molto prima si variò, che e'
venisse a campo si stran precetto.
BarioU. E donde venne dunque la
orìgine? GeUi, Dicono alcuni diligentissimi
osservatori de le cose di questa
lingua, e io lo confermo con esso
loro, che in al- cune città e luoghi
particolari di Toscana, per naturale pro-
prietà si costuma di mettere Vo in
quelle parole ne le quali in Firenze
si mette l' u; di maniera che, dove
noi di- ciamo suslanza, singutare, particulare,
speculare e specular- tivo, quivi si
dice sostanza, singolare, parlicolare, speco-
lare e specoUUivo: e cosi ancora di
mettere Ve dove noi altri mettiamo V
i , costumandosi ordinariamente dire in Fi-
renze, principe e UUerato; e quivi prendpe
e letterato: la quale pronunzia arreca
a gli orecchi de' Fiorentini un suono
cosi sgarbato e tanto spiacevole, che
e' non si traeva tra noi chi l'
usi, se non alcuni, e ben pochi, che
per proprio comodo loro seguitano la
pronunzia così fatta ; non si curando
non solamente di dare od accomunare
ad altrui quello che era solamente
de' Fiorentini, ma di adulterare e
imbastardire una lingua mantenutasi pura e
schietta sino a' di nostri, e
solamente bella e leggiadra, quando manco
vi si accompagna voci o pronunzie di
forestieri. Bartolù Certamente che questa,
né a' tempi nostri né a quegli
de li antichi, per quanto se ne
vegga da le scritture, non fu mai
pronunzia fiorentina. £ chi non lo
crede, av- vertisca e osservi bene,
come coloro che V anno 1527 fecero
stampare in Firenze quel Cento novelle,
avuto poi univer- salmente in tanta
reputazione e tanto pregiato, essendo tutti
cittadini fiorentini nobili e veri, e
avendo cotanti testi antichi e buoni,
e tra gli altri uno che é oggi
in guardaroba RÀGIOMÀIIBMTO INTOBNO ALLA
UNGUÀ. 309 di Sua Eccellenza,
scritto, vivendo ancora il Boccaccio, da
uno de' 'Mannelli, e non solamente copiato
da lo originale de lo anlore, ma
riveduto ancora e corretto da lui
medesimo; avyertisca, dico, e osservi, come
sempre dissero principe^ liUerato, iustanzia
e partieulare, come ordinariamente si dice
in Firenze. Getti, Ritrovandosi, adunque,
in Padova alcun di questi tali nel
principio deHa Accademia de gli Infiammati,
dove non era per buona sorte alcuno
veramente Fiorentino (che e' non sarebbe
forse seguito questo disordine) ; e
mettendo in uso col favellare e con
lo scrivere questa lor naturai pronunzia,
scoperta però primieramente fra gli
Intronati ; i Lombardi e i Yeniziani,
che cercavano di pronunziare toscanamente,
credendosi che quella fusse la vera ,
cominciarono non solo a celebrarla, ma ad
usarla, ed a trasferirla ne le loro
stampe. A la qual cosa si aggiunse
presto che alcuni altri non Toscani,
per ispogliare la Toscana di questa
gloria, cominciarono a mescolare in essa
molte parole, le quali, al giudizio
mio, né si favellarono nò si
scrissero mai in Toscana; e oltre a
questo, cercarono ancora dì mutarle nome.
£ perchò se ella si dicesse lingua
Tosca, essi che erano forestieri non
ci avevano parte alcuna, cominciarono a
chiamarla chi, come il Trissino,
Cortigiana, e chi Itala o Italiana,
come il reverendissimo Sadoleto; persona
dottis- sima veramente e eloquentìssima, ma
appartata e in tutto aliena da questa
professione. E di costoro non voglio
io ve- ramente dir cosa alcuna; ma
solo che io mi maraviglio oltre a
modo di alcuni Toscani, che avendo
molto più rispetto al comodo proprio,
che a la verità, per la servitù
forse che e' tengono con alcuni di
questi tali, sono concorsi a chiamarla
Italiana essi ancora l non si curando
di vendere per si vii pregio l'onore
e la gloria propria; e non avendo
avver- tenza che i Genovesi, i Milanesi,
que' del Lago Maggiore, i Bergamaschi,
una gran parte de' Romagnuoli, i
Marchigiani, i Norcini, gli Abbruzzesi, i
Pugliesi, i Calabresi e altri infi- niti
popoli de la Italia, fanno fede
manifestissima a chiun- que favella loro,
che a gran torto ò posto nome a
la lìngua nostra Italiana. 310
BACIOHAMSino mOUO ALLk LU60A. BarlatL
E come potette più in cotesti tem|M
(lasciando or le querele da banda) V
antorità di cotestoro, che ifoella de'
Fiorentini, se il principio de la
lingua e il fonie è in Firenze,
e fondato in sa gli scrittori
fiorentini? GtXtL I Fiorentini, attendendo
in cotesti tempi quasi tutti a la
mercanzia, a la quale sempre è stata
molto incli- nata la città nostra, e
forse |mù per bisogno che per natura,
rispetto a la magrezza del paese ;
non davano opera alcuna, se non
pochissimi, a la lingua latina, e
molto meno a la greca ; e cosi
non venivano a considerare la propria
» e a riconoscer l'arte e lo
studio che avevano usato in essa
Dante, il Petrarca e il Boccaccio:
anzi, quando leggevano questi autori,
attendevano pio le istorie, che altra
cosa. Di maniera che, se vi ricorda
bene, crono molto più stimati allora
i Trionfi del Petrarca, che le
Canzoni e Sonetti suoi. Ma In alcune
altre città toscane, dove per la
fertilità e grassezza del lor paese
non è il guadagno si necessario,
attendendo que' cittadini a gli studj
de le buone lettere, cominciarono a
considerare molto (Nrima di noi ne'
nostri scrittori la bel- lezza di questa
lingua, e ad osservare ne lo
scriverla quelle terminazioni e quelle
concordanzie de' singolari e de' plura- li
che que' nostri avevano usate. Bene è
vero che per la lor favella natia
pronunziando non come noi, e mescolandoci
ancora qualche parola de le loro, ce
l'hanno condotta a r essere che voi
medesimo vi vedete. Lo avere adunque
i nostri atteso a la mercatura e
non a le lettere , e la molti- tudine
de' travagli che sempre ci sono
stati, fecero per lungo tempo restare
in dietro e quasi che perdersi
interamente gii avvertimenti e l'arte usata
da' tre sopra detti ne la nostra
lingua; e i primi che cominciassero
in Firenze a rios- servargli, e ne
la fovella e ne la scrittura, furono
quegli stessi litterati che usavano a l'
Orto de' Rncellai. E ricordami che e'
non potevano restare di maravigliarsi di
alcuni litte- rati poco avanti la loro
età, che avevano composto in versi e
in prosa di questa lingua senza
alcuna osservazione; parendo loro impossibile
che, avendo pur veduti gli scritti di
que' tre famosi, e' non avessero
aperti gli occhi a le loro
osservazioni, e non si fossero accorti
in quanta corruzione BAfilOllAXBIfTO
IMT(MmO ALLA UKSUA. 311 fosse incorsa
la beHìssima lingua che noi inrliamo.
Da co- storo avvertiti Cosimo Rocellaì,
Lnigfi Alamanni, Zanobi Baondelmonti, Francesco
Guidetti e aiconi altri, i qaali»
praticando con esso Cosimo» si trovavmo
spesso a rOrU» con qoe' più vecchi,
c«ninciarono a cavar foori le dette
consi- derazioni, e a metterle tanto in atto,
che la lingua n' è poi tornata
in quel pregio che voi vtdele.
BarloU, Tu di' il vero, GeUo
mio caro; perchè e'mi rioor* da che
da venticinque anni in dietro non
erano versificatori io Firenze, se non
tre o qoattro; a' qnali, senza avere
altri- menti oensiderazione akana di terminazioni
di parole , di concordanzie di numeri,
o d' altra cosa che faccia bello, ba-
stava solamente che e' rimassero e fusser
versi. £ chi lo vuol vedere e
toccar con mano, legga le rappresentazioni
che si facevano in que' tempi :
le quali quando io considero chenti
elle sono, e quanto non solamente
poco verisimili, ma impossibili e
mostruose, mi fanno tenere per di poco
giudizio e, per dirla cosi fra noi,
molto goffi tutti coloro che potevano
stare a udirle ; e mi iinno
credere che se elle si facessero oggi
cosi, i fanciulli, non che altri,
uccellerebbono si a la scoperta i compositori,
che e' se ne rimarrebbono in- teramente
per lor medesimi. eretti. E da
che vi pensate die nasca questo, se
non da r essere oggi in Firenze
cosi gran numero di persone che hanno
bonissima cognizione de la lingua latina
e greca? le quali essendo state
necessitale ne lo impararle, a vedere
i veri poeti, hanno assai chiaramente
conosciuto che cosa sia poesia, e
quanto sia verbigrazia, centra i precetti
de Tarte il ridurre tutta la vita
di uno uomo, o pur le azioni di
venticinqoe o trenta anni, in due o
tre ore di tempo che • si consuma
nel recitare. E a cagione che e'
non si abbia a dire de' casi
loro quel motto di Orazio Delfinum silvis
appingit, fluctibus aprum, non hanno
solamente lasciali cotesti errori, ma
sbanditili ancora in tuUo da le loro
composizioni, e si sono ridotti a
quello uso buono che avevano i Latini
e i Greci. Olire a questo, avendo
appreso per via di regole quelle due
lingue. 31S miaoiiAanno ummo aua
c4HMM6eiido quante e quali nano le
parti del pariare, e in cbe modi
elle debbino accompagnarsi , cominciano a
favel- lare tanto rettamente e con tanta
leggiadria, che io mi persuado
gagliardamente, la nostra lingua esser
molto Tidna a quel sommo grado de
la perfexione, oltra il quale non si
può salire. BartoU. E se cori
è, die cosi la tengo io ancora, perehè
non si può eDa adunque mettere in
regole, e farla perfetta alilittoT
GM. A le cagioni che io ve
ne ho di già assegnate, si aggiagne
questa altra ancora, che non è di
poco momento: ed è il non avere
in su che fondare e formare esse
regole; eonciossiachè in su gli scrittori
non si può, non avendone noi alcuno
che si possa tenere per bello e
per buono tutte quello che egli ha
usato. Perchè, cominciandoci da qne' tre
primi che sopra gli altri sono
approvati, Bante, oltra lo esser poeta,
ebbe dal secol suo rozzo e duro
molte e molte pa- role lasciate oggi
in tutto da Y uso. H medesimo
avviene al Boccaccio, nel qoal sono e
modi e parole che, se ben fìiron
belle in quel secolo, l' oso di oggi
non le riceve. E il Petrar- ca, se
bene ha la sua lingua assai più
purgata, per essere (come io dissi in
Dante) poeta, per le molte licenzie
che a' poeti son concedute, non è
materia conveniente a formarne le regole
per la prosa. BarUAL Io non so,
Gello mio, come questo sia da conce-
dere; perchè, se bene da que' primi
due, rispetto a le licen- zie poetiche,
non si posson trar buone regole, il
Boccaccio è por tanto bello e tanto
pregiato universalmente, ch'io non so
perchè tu lo sfugga. GéUU. 11
Boccaccio, per quanto ne dicono questi
suoi, si imaginò di usare i tre
stili: T alto, nei Filocolo ; il
mediocre, ne la Fiammetta; e il
basso, nel Decamerone. Il che se bene
gli successe o no, non ci accade ragionarne
ora. Basti che la più approvata de
le sue cose è il Cento novelle
; opera beila certo e piacevole, ma
non da essere in tutto imitata
rispetto ad alcune costruzioni che, per
non esser piaciute a Toso, son
restate del tutto in dietro, e ad
una infinità di parole che sono oggi
aborrite e fuggite da gli scrittori:
come, lAGIOMAMKlITO ISITOINO ALLA LINGUA.
313 yerbigrazla, bwma pezxa^ ìa
Intogna, gravenza, abUawBa, niquUoso, avaecio,
autorevole, contezza, deliberanza, sez- zaio»
Ma che sto io a contarle a toì
che ri faceste sopra la tavola y e
le notaste già taile quante? BartoU.
Certamente queste si fatte voci non
solamente si usano oggi da molto pochi
, ma elle non sono ancora più
accettate per fiorentine, e pare che
elle offendine altrui r orecchie, se
pur si truova qualcuno che V usi.
Getti. Non si possono adunque le
regole toscane cavare da gli scrittori.
Bariolù Gavinsi le fiorentine (che de
V altre non tocca a noi) da V
uso di Firenze. GeUù £ questo
anche mal si può fare; dovendosi
(come io dissi non molto avanti)
pigliar V uso non d'ogni tempo, ma
de la età dove la lingua fu nel
suo colino. Il che non possiamo saper
noi altri, poi che e la è viva,
e va a T insù ; avvenga che
voi forse, come alcuni forestieri, vi
persuadia- te che ella fusse nel sommo
grado ne la età di que' tre
scrittori. Bartolù Questo no; anzi
tengo per fermo che ella fusse nel
nascimento, e che ella avesse quasi
principio da essi tre, per essere
stati Dante e 1 Petrarca i primi
in questi paesi che cominciassero avere
tanta notizia de la lingua latina più
de gli altri uomini , che e' ne
furono chiamati suscita- tori e ritrovatori
; come apertamente si può vedere nel
pri- vilegio conceduto ad esso Petrarca,
quando publicamente fu coronato nel
CamfMdoglio : e il Petrarca e il
Boccaccio de la greca, de la quale
non si aveva in Italia notizia alcuna
ne la età loro, se non piccola
e defettiva. Laonde braman- dola questo
ultimo sommamente, condusse a Firenze un
Greco, per quanto si legge ne la
sua vita, che glie la inse- gnasse, e
una quantità di libri greci, lasciati
poi da lui stesso dopo la morte
a la libreria del nostro Santo
Spirito. Costoro adunque, mediante la
cognizione di queste lingue, cominciarono a
parhire rettamente e ordinatamente, miglio- rando
e inalzando tanto il nostro idioma da
quello che egli era, per quanto veder
se ne può in que' che scrissero
avanti a loro, che noi possiamo
liberamente tenere e dire, che il
27 314 BA6I0NAMB1IT0 IMTO&NO
ALLA LINfiOA. vero nascimettto e
principio di questa libgtta fa solunente
dalor tre: ma che e' non foron
già poi segniti né imitati ne lo
allegarla secondo i modi posti da
loro, imperoceliè chi venne dopo, non
essendo dato a gli stadj^ noA
eomiderò le costrocioni e le terminazioni
osate da lèro» e iMcMla di tempo
in tempo cadere in ^ella barbarie die
iMd eenllm- mo non son molti anni.
Ma io dico bene> che poi the
g^i uomini hanno ricomincialo a
considerarla, come fecero qnegli de r
Orto, e ad osare i modi de* tre
nostri Inmi^ ella é tanto migliorata a
poco a poco, che io la tengo
oggi nsolto piA bella universalmente, che
eOa non era ne' tempi loro ; e
che se eglino scrissero cosi bene
allora (^il che fn molto più da
impotare a lo ingegno loro che a
4a bontà de la Ikigoa), scriverebbero
molto meglio oggi : non essendo
necessitati da la povertà Òe la lingua,
che oggi^ è ricchissima^ ad osare
quelle parole che più non piacciono,
e qoe' modi ohe son fuggiti da'
nostri orecchi ; di modo c^e nel
volto ancora del Petrarca non si
scorgerebbero q«e' pochi avvegnaché pic^ eolissimi
nei, che i ben purgati giudizj vi
riconoscono. GelU. Io credo che voi
giudichiate bene, e che la cosa stia
come voi dite* Ma io voglio andare
un passo più là, e dire, che
essendo ancor vìva la lingua nostra,
e in maggiore speranza di avere a
vivere, che eUa fosse fom ancor mai,
egli non si può affermare che la
nstnra (la quale iton si stracca e
non invecchia mal, anzi, se bene ella
varia talora alquanto, è por sempre quella
medesima ) non possa e non abbia
ancora a produrre de gì' ingegni
simili a loro; i qoali, trovando la
nostra lingoa in molto maggior perfezione
che non la trovmrono i sopradetti,
serivino non solamente bene cernie qoelli,
ma forse ancora assai meglio di loro»
Bartolù £ questo similmeiite mi par
di credere, essen- dosi veduto ne' tempi
nostri^ che in quaiuncàe faciità, e
particnlarmente ne la architettura, pittura
-e scoltura, ha la nostra città
generati aiconi che non solo haano
paseggiaU i famosi antichi, ma forse
ancora avanzatili in ^oalohe cosa»
GellL Non si poò donqoe dire dM
ella sia ne lo stato Mio>
veggendosi come di giorno in gèomo olla
va «i soo augomento; e potendosi
agevdmente far conieltara da te lA^IOMAVCNTO
INTORNO ALLA LINGUA. 315 cose
che soprareiigoDO, ehe ella abbia ancora
a farsi più ricca e saolto più
beUa. MartoU. E q«ali Mm questo cose»
Gello? GeUù Molte e molte sono,
messer Cosimo; e dae sopra tatto
l'altre. L'nna de le quali è la
moltitadine grande di ei^oro che oggi
si danno, in Firenze a la lingna
latina e greca; i quali imparando
quelle con re- gola, avellano dipoi ancora
reg<^tamente la nostra, e con
leggiadria; e da questi imparando gli
altri, mossi da quello ingenito desiderio
ohe ha ciascuno di non volere, in
quello che egli può, essere in
maniera alcuna soprayanzato da i suoi
pari, faranno di mane in mano la
lingua più bella ^ più onorata, si
col parlare e si col tradurre,
arrecando- ci le scienzie e V arti
che elli imparano ne l' altre lingue.
L'a&tra è il cominciare i principi
e gli uomini grandi e qualificati a
scrivere in questa lingua le
importantissime cose de' governi de gli
Stati, i maneggi de le guerre e
gli altri negozj gravi de le
faccende, che da non molto in die-
tro si scrivevano tutti in lingua latina.
Perché, non vi date a intendere ehe
una lingua diventi mai ricca e beila
per i ragionamenti de' plebei e de
le donniciuole, che faveUan sempre
(rispetto a lo avere concetti vilis6imi)di
cose basse: chò e' sono solamente gli
uomini grandi e virtuosi, quelli ehe
inalzano e fanno grandi le lingue;
imperocché, avendo sempre concetti nobili e
alti, e trattando e maneggiando coae
di gran momento, e ragionando bene
spesso e discor- rendo sopra quelle in
prò e in contro, persuadendo o dis-
suadendo, accusando o lodando, e talvolta
ancora ammo- nendo e insegnando, fanno le
lingue loro copiose, onorate, ricche e
leggiadre. Per queste due cose adunque,
ancora che altre cagioni non ci
fossero, si può giustamente sperare ^M
la nostra lingua abbia a essere
ancora un giorno tanto pregiata appresso
molti che nasceranno, quanto sono oggi
appresso di noi e la greca e la
latina. £ conseguentemente concludo, che
non essendo ella ancor pervenuta a lo
stato suo, non se ne possa far
regola, che in tempo non molto lungo
non abbia a scoprirsi defettuosa, e
non più tale quale oggi forse ci
apparirebbe. Si come avviene, per esemplo,
ne 316 BAGioNAMBirro nrroBHo alla
libcua. la pittura ; dove i
ritratti de* giovanetti, se bene gli
sonii- gliono interamente quando e' son
fatti y non vi corre però gran
tempo che, cambiandosi lo aspetto del
ritratto nel farsi egli nomo, tanto
varia la effigie, che non lo somiglia
più, né apparisce più qnel medesimo.
BartolL Orsù, pongbiamo per le tante
cose allegate da te, cbe a r
Accademia non si convenga il fare
queste regole : vuoi tu però
affermare al tutto, che una persona
privata e particolare, lasciando favellare
ad arbitrio loro qualonche città e
luogo de la Toscana, senia difettargli
o ripotargli da meno per questo, non
possa almanco da i tre primi nostri
scrittori e da T uso di Firenze
formare le regole, che a' tempi d' oggi
insegnino favellare rettamente a' Fiorentini
stessi, e a chi pur volesse imitar^?
GeìU. Oh questo no, messer Cosimo;
perchè io mi credo pure, che un
solo, in suo nome proprio e non
di Accade- mia, con tutte quelle
avvertenzie che voi avete dette, sicu-
ramente le possa fare. Bartoli, E con
qoal ordine? o in che maniera?
Geìli, Dirovvelo: ma perchè voi mi
intendiate più facil- mente, avvertite che
questa lingua, come quasi tutte l'altre
cose di questo mondo, ha due parti
principali; la materia, cioè, e la
forma : la materia sono le parole
de le quali ella è fatta ; e
la forma è qod modo e quell'
ordine col quale son conteste e
tessute insieme l' una parola con Y
altra, che si chiama ordinariamente la
costruzione. Di queste due parti la
materiale, o de le parole, non tengo
io per molto difficile a metterla in
regola; ancora che ella abbia forse
bisogno di lungo tempo, rispetto a lo
aversi a fare un vocabolista di tutte
le voci che si usano, come aveva
già cominciato il nostro Norchiaio, prima
che morte gli troncasse il volo. Ma
de la costruzione, o volete dire de
la forma, ne la quale consiste tutta
la bellezza e la leggiadria de la
lingua , e ap- presso di noi è per
avventura molto più dolce che ne' no-
stri vicini, non so io come ella
possa mostrarsi meglio che da gli
esempi de' tre scrittori Bartolù Oh
Gello, e' mi ricorda, a questo
proposto de la dolcezza de la testura
del parlar nostro, che messer Ales-
1À6I0NAMB1ITO INTORNO ALLA LIN6DA. 317
Sandro Piccolaomini, persona dottissima e
tanto rara qaanto lo sai, ritrovandosi
in casa mia, e leggendo aicani
scritti dì questi nostri, rivoltatosi a
me, disse: come può e' mai essere,
messer Cosimo mio, che non essendo le
patrie nostre più lontane V ttna da
V altra che trenta miglia, noi altri
non abbiamo le clausole cosi dolci e
gli andari tanto piani e si ordinati,
quanto gli veggiamo e sentiamo in voi
Fiorentini? GéìU. £ voi vedete bene
che tutti costoro che fino ad oggi
hanno fatto le regole del parlar
toscano, distendendosi ne le declinazioni
solamente, si hanno passato la costruzio-
Be senza parlarne se non pochissimo,
come cosa troppo difficile e ad essi
forse mal riuscibile. Laonde, circa il
for- mare queste regole, non mi
affaticherei molto ne là prima parte
; ma dichiarate le parti de la
orazione, e dimostrate le declinabili e
le indeclinabili, e gli esempli de'
verbi, mas- simamente con quella diversità
che è tra V uso moderno e
quello che e' dicono de' nostri
antichi, me n' andrei tutto a la
costruzione. Ne la quale, consistendovi
(come ho detto) tutta la importanzia di
questa lingua, vorrei io certamente usare
una diligenzia più là che estrema,
togliendo da' tre sopra detti tutto
quel che fusse ben detto. Il che,
al giudizio mio, solamente sarebbe quello
che V uso di oggi si ha man-
tenuto; essendo V orecchio nostro inclinato
naturalmente a lasciar sempre le cose
aspre, dure e difficili, e seguitare
le dolci e le facili. Per la
qual cosa, giudicando io che oggi si
favelli meglio in Firenze che in
nessun de' tempi passati, attribuisco molto
a l' uso, non di Mercato e del
vulgo vile, ma de' nobili e
qualificati de la nostra città, come
io dissi poco di sopra. Bartoli.
Questo è appunto l' ordine stesso e
il modo che il nostro GiambuUari
tenne in quelle sue regole, che egli,
già son tre anni, donò a lo
illustrissimo signor Don Fran- cesco de'
Medici primogenito di Sua Eccellenza.
Gellù Voi dite il vero, che il
GiambuUari che mi è quello amico che
voi sapete, me le conferi molte
volte, e massi- mamente r anno passato,
quando eravamo in questo maneggio: e
perchè e' mi parve sempre che egli
avesse trovato la vera via, e con
una diligenzia maravigiiosa fatto ciò che
27» KAGIONAMBIITO INTORNO ALLA
LINGUA. fosse possibile farsi in
questa naterìa, però metto io a campo
di nuovo lo stesso modo die egli
ha tenuto» Ma per- chè non le
comunica egli oramai con la stampa a
taUe le genti che le desiderano?
BartoìL Sta di buona TogUa, Geiio,
che io ne Tho tanto contaminato»* che
egli finalmente mi ha dato non solo
esse reg(^9 ma e libera e pimia
licenzia che io ne &ccia la vo-
f^ia mia. E cosi fra non molti
giorni comincerò a fturle stampare, che
di tanto son convenuto col Torreatmo.
GM. Sollecitate dunque, messer Cosimo
mio, perché farete gran benefizio a
chi desidera imparar dal buono. Ma
perchè noi siamo oramai vicini a
l'ora de la nostra cena, rimanetevi
con Dio, che a casa sono aspettato.
Bartolù Dì grazia, cena con esso
meco. GellL Non questa sera, messer
Cosimo, che dovendo tro- varmi in un
altro luogo, non posso mancar de la
mia pro- messa. Restate con la buona
notte. BmtkdL Poi che cosi ti
piace, va' ool oom» di Dio.
Tanto fu, messer Pierfranoesoo mio
onorando, il ragio- namento che avete
chiesto ; e messer Cosimo nostro ve
ne può render testimonianza: Catene adunque
come di cosa vostra, che io ve
ne fo un presente, e vivete felice^
ricordan- dovi che il GeUo è vostro.
Di Firenze, il xvm di febraio MDLL
* Come ora si direbbe importunato,
o seccato. Velia Crusca non è con
que- sto significato. Io non credo, magnifico signor
Consolo,prudentissimi Consi glieri, e voi altri virtuosissimi Accademici e
maggiori miei ono randi, ? che con voi, i quali sapete i nostri ordini, e come
più per imparare esercitandomi,che per insegnare ad altri,io sia salito oggi in
questo luogo,sia di bisogno che io ne faccia seusaalcuna.Ma
perchèforsequalcundiquest'altriuditoripo trebbeingiustamente
incolparmidipresunzione,essendoioil primo che dopo due si dottissimi e
famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Andrea
Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito sopra que sta
onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione e scarico mio
io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei
valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa nostra Acca
demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e , il q u a
l e s a r e i m o l t o p i ù a t t o a t a c e r e c h e a p a r l a r e , v i
a r recherà maraviglia,non dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che
avendo ordinato questi miei maggiori Accademici, che per esercizio nostro,per
esaltazione di questa nostra lin gua nativa,e per imparare a esprimere in
quella inostri con cetti, ciascuno di noi legga una volta quello che più gli
piace, ha voluto la sorte che io sia ilprimo a dar principio a così lode
devole,eseionon me neinganno,utilissimoesercizio.Nè debbe · Le parole e
maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T. La 1a T., ingiustamente
potrebbe. 3 La fa T., auditori. certamente esser preso questo se
non per buono e felicissimo augurio di questa nostra Accademia.Perciò che se le
cose che fa la natura sono più ferme e più stabili che quelle della fortuna,
per procedere quella con ordine e questa senza,ed essendo l'or. dine della
natura 'andare sempre dallo imperfetto al perfetto (si come noi manifestamente
veggiamo verbigrazia ? nella creazione d e l l ' u o m o, d o v e e l l a f a p
r i m i e r a m e n t e u n p e z z o d i c a r n e , il q u a l e è solamente
animato d'anima vegetativa come le piante,da im e dici chiamato embrione, e
secondariamente infondendovi l'anima sensitiva*lo fa animale,e finalmente gli
dà l'anima razionale,la quale è l'ultima perfezione sua),dovrà senza dubbio
questa nostra impresa aver anch'ella felice successo,da che io,che sono il più
insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle principio. Se dunque voi
non,udirete oggi da me cosa degna de'passi spesi da voi a venire in questo
luogo,non mancherete però di venire a udire quest'altriche dopo me leggeranno ;
da i quali, per esser queglio e per natura e per professione di gran lunga più
sufficienti che non sono io, caverete tal frutto, che di que. stie di quelli vi
ristorerà largamente.La lezione nostra sarà unluogodiDantenelXXVI
capitolodelParadiso;ilquale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso
molto al pro posito nostro,essendo questa nostra Accademia stata principal
mente ordinata per utilità di questa lingua,o per dir meglio, usando le parole
stesse del nostro Boccaccio nella quarta gior nata,di questo nostro
fiorentino,volgare. Presterretemi adun que grata udienza come avete cominciato,
se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i
qualisenzacomparazionecaveretemaggiore dilettoSemaggior frutto.Ma vegnamo alla
nostra lezione. 6 616 LETTURA DUODECIMA La 1a T.,di quella. ? verbigrazia
è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca sensitiva. s La 1a
T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a T.,che io non sono. 8
La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc. LEZIONE UNICA 017
conosciuti,dico,iviziiepurgatosi”da essi,asceseper contem plazione sopra i
cieli alla gloria de'beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre A d a m
o, 4 come desideroso di sapere, lo . dimandò di alcune cose ; fra le quali fu
questa,che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual
fusse lo idioma o vero il linguaggio nel quale, quando ei fu fatto da
Dio,egliprimieramente parlò.Allaqualedimanda rispose Adamo in questa maniera:
La lingua ch'io parlai fu tutta spenta Innanzi che all'opra 5
inconsumabile Libero, sano e dritto 3 è tuo arbitrio, Fosse la gente di
Nembrot intenta.6 Che nullo effetto ? mai razionabile Per lo piacer uman,che
rinnovella, Seguendo il cielo, fu sempre & durabile. Avendo il divino
nostro poeta Dante, poeticamente parlando, nel suo discendere allo Inferno
conosciuto tutti i vizii e i p e c cati, che cosi per malizia e per matta
bestialità come per umana incontinenza e fragilità si possono commettere,ed
essendosene nel passare del Purgatorio in cotal modo purgato, ch'egli era
tornato1in quello stato della innocenza nel quale fu creata da Iddio l'umana
natura ; là dove la parte nostra inferiore, irra . zionale e mortale, alla
superiore, razionale e immortale, stava obbediente, nè punto ardiva la
sensitiva e carnale, dalla origi nale giustizia regolata,levarsi e combattere
contro allo spirito; tal che dal suo precettore gli fu detto: fallo fora non
fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero,dritto,sano. •La
1aT.,purgato. * La 1a T., Adam . 5Cr.oora. 8Cr.lagentediNembrotteattenta. • Cr,
affetto. 8Cr.semprefu. Opera di natura è ch'uom favella;' Poi fare
a voi,secondo che viabbella. Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, Donde
s vien la letizia che mi fascia. Elle*sichiamò poi,eciòconviene; Però che l'uso
umano 5 è come fronda In ramo,che sen va,ed altra viene. Da queste parole di
Adamo caviamo noi oggi tre principali conclusioni.La prima è,come la sua
linguasispenseemancò tutta, innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la torre
; cosa molto contraria alla volgare oppenione.La seconda,la ragione perchè si
mutino i parlari. La terza, la risposta a una obie zione che se gli potrebbe
fare,dove egli adduce alcuni esem pli in confermazione di quanto egli ha
detto,come largamente si vedrà nel nostro ragionamento.Cominciamo ora adunque a
esaminare la prima,con l'aiuto di Colui dal quale depende ogni nostra
sufficienzia. Avendo l'onnipotenteIddio,nellaproduzione delmondo,creato tutte
le cose insieme con l'uomo,non perchè elle fossero in lor
medesimesolamente,maperchèellefosseroancor principiodel l'altre, ciascheduna di
quelle della sua specie, non tanto nel generarle, quanto nell'instruirle e
governarle,bisognò ch'egli le .creasse nel loro perfetto essere.Dalla quale
ragione mossi dis sero alcuni dottori ebrei che il mondo fu creato di
settembre; perciò che allora pare che tutti gli alberi,insieme con l'erbe,
abbianocondottoaperfezioneifruttiloro.Fu adunque(lasciando stare l'altre cose)
creato l'uomo da Dio nel suo stato più per fetto, e in quanto al corpo e in
quanto all'anima. In quanto al corpo,sano,bene complessionato,e di età di
trenta o tren +Cr.Operanaturaleèch'uom favella. 2Cr.El. öCr.Onde. 618
LETTURA DUODECIMA M a , cosi o cosi, natura lascia Un : s'appellava in terra il
sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è della 2a T. 1 6
LEZIONE UNICA 619 tacinque anni, secondo la maggior parte dei dottori,
acciò che ei fusse atto alla generazione.E in quanto all'anima, ripieno di
tutte quelle scienze, alla cognizione delle quali si può na turalmente
pervenire, acciò chè ei potesse insegnare a quegli che nascessero di lui tutte
quelle cose che sono necessarie alla vita e al bene esser nostro. Con questa
cognizione pose Adamo inomi convenientiatuttelecose,secondolaloronatura;eformò
uno idioma,o vogliam dire uno parlare,con ilquale ei po
tettemanifestareaidescendentiisuoiconcetti.Ma qualfusse questa lingua, non si
sa già manifestamente per alcuno scrit tore. Gli Ebrei, come si legge ne’loro
dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo dice che alla edificazione della
torre di N e m brot si parlava in terra d'una sola lingua, dicono questa essere
stata la loro, ed essersi così dal principio del mondo miraco losamente
conservata intera e incorrotta (la qual cosa a nes sun'altra è avvenuta giammai
"), per avere parlato Iddio sem p r e -m a i a M o i s è e a g l i a l t r
i s u o i p r o f e t i i n q u e l l a ; e q u e s t o è ancora confermato da
loro'con l'autorità dei loro Cabalisti,la quale può molto appresso di loro.Il
che nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge a Moisè
sopra ilmonte Sinai,egli:glidesseancoralainterpretazionediquella, e gli
manifestasse molti altri profondi misterii, contenuti e n a scosi sotto la
lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primolibro.Ma dicano
ch'egliglicomandòsch'einonscri vesse altro che la Legge,e l'altre cose dicesse
a bocca a quelli che reggevano ilpopolo.Per laqual cosa,disceso dal monte,
solamente le rivelò a losuè;e Iosuè dipoi a i settantadue più vecchi del
popolo;e quelli dipoi per ordine successivo le re velaronoailorodiscendenti.E
questadicanoesserelascienza Cabala,che non vuol dire altro che ricevuta a bocca
per suc cessione. Questa oppenione ebrea ha molte difficultà. Primiera 1
giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso.
* Cioè, dicono ; cosi, appresso , scrivano per scrivono, e simili.
5La14T.,eglicomando. mente,sicomescrivanoiloroTalmudisti,'e'non
parech'eisia vero che questa lingua ch'egli usano,e nella quale è scritta? la
Legge, sia la lor prima e antica lingua.Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote,
nella restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica,5 temendo che se gli
avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse,
ragunò tutti i savi loro; e fece scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano
appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere
stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e
dell'antica favella loro, e tro varono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali
sono quelli ch'egliusano oggi;equesto ancorapare,chesentaS.Girolamo nel prologo
sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio parlo in quella,
non è d'alcuno valore; i m però chè quasi tutti i loro scrittori, o la maggior
parte, sopra iProfetidicanoIddiononaverparlatomai aquellivocalmente, ma quando
egli ha voluto manifestare qualcosa o a Moisé a aglialtri,avere loro formato
nella mente uno concetto,per il quale egli hanno inteso pienamente la volontà
sua.'L'autorità Cabalistica,dalla servitù Babilonica in qua,non ha avuta molta
fede; imperò che allora molti di loro, e per la servitù, e per la loro natura
ch'è molto superstiziosa,come scrive Apuleio nel primo libro de'Floridi,
scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da iloro Cabalisti),che sono
manifestamente contro alla lorleggeecontro alla ragione naturale;come
sileggenelloro TalmutBabilonico,ilqualenonèaltrocheunoraccoltodi sen tenzie dei
loro sapienti di quel tempo.Aggiugnesi ultimamente a questo, che secondo essi
medesimi la loro lingua, con loro insieme, ebbe così nome da Eber figliuolo di
Sem ,figliuolo di N o è , a l q u a l e n e l l a d i v i s i o n e d e l l a t
e r r a t o c c ò l a G i u d e a ; il c h e ·La 1aT.,pererrortipografico,ha
Tamuldisti;diquilosconciodella2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno scritto.
i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua volontà.
delle. 620 LETTURA DUODECIMA 6 La 1a T., LEZIONE UNICA 621 I
Caldei,o vero Assirii,dall'altra parte dicono similmente che la lor lingua fu
la prima che si parlasse mai ; e certamente ellaètantosimileallaebrea,come
diceSanGirolamo?nelpro logo di sopra allegato,ch'ei si potrebbe fare coniettura
ch'elle fussero già stateo una medesima.E in confermazione di questo
adducanoquesteragioni,conl'autoritàdiBerosoCaldeo,'ediMna seae Damasceno, e
d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano che non si truovano scritture innanzi
al diluvio,se non nella lingua loro;e queste esser certe cose di astronomia,
insieme con la pre dizione del diluvio scritta da Enoc,figliuolo di Iared,bene
cin quecento anni innanzi a quello,in certi pezzi di terra cotta, ac ciò che
leacque non l'offendessero.E similmente dicano essere nel
MonteGordeo’inArmenia,incertisassi,dovedopo quellosifermò l'arca, scritte in
quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose;"e illuogo ancor
nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di Noè. Aggiungano
a questo,che Abramo,ilquale fu primo a dare principio al popolo ebreo, fu da
Dio primamente cavato di Caldea.Plinio pare che fusse ancor egli di questa
oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le stampe Masea ; e la 12
T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno solo,Masea
Damasceno.Anche nel Giambullari,Origine della lingua fiorentina
(Fir.,1549,p.19),trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno.
Mnasea,geografodellafinedel3°sec.avantia Cristo, e Niccola di Damasco o
Damasceno, storico dei tempi di Augusto, sono citati,insieme con Beroso Caldeo
e con Girolamo Egiziano,da Giu seppe Flavio nel primo libro delle sue Antichità
Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio. fu'circa trecento anni dopo
ildiluvio.Si che ei pare più ra gionevole, ch'ella avesse principio allora
quando ella ebbe il nome,ch'ellasifusseparlataprimatantotempo.E così,come voi
vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle
1a T. La 1a T., S. Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo manca
nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Giuseppe Flavio, loc. cit., lo chiama
Monte de'Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T. sono eterne:la
quale non di manco non è senza molte diffi cultà. Imperò che molti istoriografi
degni di fede, e particular mente Iustino nel secondo della sua Istoria,tengono
che la prima terra che fusse abitata sia la Scizia,e conseguentemente la lor
lingua parimente sia stata o la prima. Il nostro Dante,parendogli che ciascuna
di queste oppenioni fusse dubbiosa e incerta,sicome per il testo si vede,fu
d'un altro parere diverso ; e a ciò lo indusse la esperienzia, maestra delle
cose.Imperò che vedendo egli per lescritture le lingue d i t e m p o i n t e m
p o v a r i a r s i, i n m o d o t a l e c h e c o m e e g l i s c r i v e nel
suo Convito) se quei che morirono cinquecento anni sono,
risuscitatitornasseroallelorocittadi,eicrederebbonoche quell
fosserodastranegentioccupate,perlalinguadaloro discor dante.E non potendo però
per questo persuadersi che dal prin cipiodelmondo allaedificazionedellatorre
diNembrot,dove corsero circa due mila . anni, sempre si conservasse un m e d e
simo modo di parlare, induce Adamo a rispondere che quella lingua,la quale
eiprimieramente parlò,sispense e mancò tutta, innanzi che le genti di Nembrot
cominciassero a edificare la torre. Per la quale risposta si può chiaramente
vedere che il libro Della volgare eloquenza,tanto da alcuni Lombardi lodato,e
tra dotto (per dire come loro) in lingua italiana, non è di Dante, ma da
qualcuno altro stato cosi composto,e col nome di esso Dante mandato fuora.Con
ciò sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua,che parlasse Adamo,fuquella
che usano oggi gli Ebrei, e che ella durò insino alla edificazione della torre
di Nembrot ; dove qui dice Dante il contrario. Oltr'a di 5 La 1a T., 022
LETTURA DUODECIMA que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il quale
Dante nel suo Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo iomai
che Dante non avesse vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto stata . ?
Le stampe hanno dalloro ;ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro. i della
torre, manca nella 2a T. *La 1aT.,dumilia. dice . LEZIONE UNICA 623
sentite e scritte.E questo basti per intelligenza della nostra prima
conclusione.Or vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per
lo piacere uman,che rinnovella Seguendo il cielo, fu sempre ? durabile. Rende
la ragione Adamo perchè si mutino e variino i par lari; e comincia da questa
dizione che, dicendo che nullo effetto razionabile,cioè nessuna cosa fatta
dall'uomo, il quale si chiama animal razionale,per lo piacere umano,cioè per il
desiderio e per loappetitoumano:questovocabolopiacerehanellanostra lingua duoi
significati; primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso,
perchè a tutte quelle cose che noi de sideriamo, ottenute che noi le abbiamo,
ne seguita la diletta zione e il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio
e per loappetitochenoiabbiamodiunacosa;sicome noiveggiamo usarlo dal Boccaccio
in molti luoghi,e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec,dove ei
dice:cheper disporla a ' s u o i p i a c e r i, c i o è a l l e s u e v o g l i
e : e d i n q u e s t o s i g n i f i c a t o l ' u s a qui Dante, dicendo:per
lopiacere umano,cioè per ildesiderio umano,che sirinnova esimuta,seguendo
ilmoto del cielo, fu sempre durabile.E qui con grandissima arte egli aggiunse
sempre; imperò che ei si truovano molti effetti dell'uomo, si come sono le
scritture,le statue e la fama, Che trae l'uom del sepolcro e'n vita il serba,
come disseilnostroPetrarca,lequaliduranotantotempo,che gli uomini,per non
vedere ilfineloro,l'hanno chiamate eterne; ma non però sono durabili sempre.La
qual cosa mirabilmente espresse Dante medesimo in un altro luogo, dicendo:
Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi in alcuna Che
vive 5 molto, e le vite son corte. 1 Cr.affetto. 2Cr.semprefu. ö Cr.Le
vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5 Cr. Che dura.
E cosiharendutolaragioneperchèiparlarisimutino.Ma per maggiore
intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per quello che l'uomo
si chiami razionabile,e in che modo le sue voglie, seguendo i moti del cielo,
si mutino. D e vetedunque saperecheilCreatorediquestouniverso,perfarlo più
bello ch'ei poteva, fece in quello di ogni sorte creature ; e quelle dispose
tra loro con tanto ordine,cominciandosi dalla prima materia che riceve lo
essere di tutte le cose,e salendo d i g r a d o i n g r a d o i n s i n o a l l
' u l t i m a f o r m a , c h ' è I d d i o , il q u a l e 1 dà l'essere a
tutte,che ifilosofi l'assimigliarono a i numeri;i quali sono tra loro disposti
con tanto ordine, ch'ei non si può tra loro inframettere unità alcuna senza
variargli. Intra queste cose, 624 LETTURA DUODECIMA alcune o furono da
lui fatte perfette, e alcune imperfette. Perfette si chiamono : quelle che
furono da lui create incor ruttibili,e in certo modo eterne, ed ebbero tutte le
perfe zioni che si convengono alla loro natura insieme con lo essere, sì come
sono, infra i corpi, i cieli, e infra gl'intelletti, quello
dell'angelo.Imperfette poi si chiamono quell'altre,che furono da luicreate
corruttibili e mortali,e che non ebbero da prin cipiotuttalaloroperfezione,ma
sel'hannoacquistataconil moto e con il tempo,e oltr'a questo sono sottoposte a
tutte le alterazioni che arrecano seco imoti celesti; si come sono, tra i
corpi, le piante e gli animali, e tra gl'intelletti, quello del l'uomo,per
essere col suo corpo mirabilmente unito.E questo fece il sommo Fattore, perchè a
questo universo non mancasse alcuna sorte di creature, acciò che le perfette
con la loro bel lezza e perfezione di natura ci tirassino alla contemplazione
di esso Iddio sommo,e le imperfette, poste a lato a quelle,ci ren dessino la
loro bellezza più maravigliosa e più desiderabile. L a qual cosa veggiamo noi
che usano ancora 6 nei loro canti i m u . sici,mescolandovi delle consonanze
imperfette, perchè quelle r e n dino poi le perfette più dolci e più grate a
gli orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T., alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo
io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc. 5 La 1a T., che ancor fanno.
LEZIONE UNICA 625 ascoltanti.Ma perchè questo sommo benefattore e padre
volle che ogni cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia scuna un
valore e una virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e un
desiderio ardentissimo che a quella le ti rassi; si come agli elementi uno
valore che gli spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla
terra lo andare alcentro,ealfuocoalconcavodellaluna,làdoveegliève ramente
fuoco; (imperò che,come noi abbiamo da Aristotile nel primo delle Meteore,
questo che noi veggiamo non è fuoco, m a è una soprabbondanza di calore,sicome
è ilghiaccio nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno
principio in trinseco,' per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e po
tessero generare dell'altre simili a loro;? e agli animali uno principio di
moto intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero
nocive e disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro
salutifere e convenienti, insieme con un desiderio innato che gli spingesse a
cercarle. Questo principio nelle piante e negli animali è stato chiamato dai
filo sofi natura, che altro non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e
principio quel moto,per il quale egli acquistano le loro perfezioni.E
desiderando similmente ancor che l'intel letto dell'uomo acquistasse la sua
perfezione, gli diede una po tenza o vero facultà, con la quale ei potesse
similmente acqui starla,chiamata dai filosofi discorso o vero ragione.Imperò
che l'intelletto dell'uomo non ha da natura altra cognizione che quella dei
primi principii,insieme con ildesiderio dello inten dere,ch'è lasua
perfezione:iquali,sìcome noi abbiamo da Ari stotile nel quarto della sua Prima
filosofia,' sono le conclusioni che sono parimente chiare e note a tutti
gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro,come sarebbe
questa:egliè impossi bile che in un medesimo tempo una cosa medesima sia e non
sia; perchè ciascuno intelletto,subito ch'eisa che cosa è essere,e che 1La
1aT.,uno intrinsecoprincipio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3 La 1a T.,
valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia. 40. Vol.II. 626
LETTURA DUODECIMA cosa è non essere,sa che questa conclusione è vera per
proprio lume intellettuale, e non l'impara per esperienza o per eserci z i o a
l c u n o . O n d e b e n d i s s e il n o s t r o D a n t e n e l s u o P u r
g a t o r i o : Da questa cognizione intellettuale de iprimi principii,come da
cosa nota,partendosi l'intelletto dell'uomo,con una potenzia ch'egli ha va
discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia delle cose
ch'ei non intendeva,ed empiesi di intelligibili,doveprimaeracome una tavola rasa;ecosìviene
ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia nella nostra lingua si chiama
ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato ra zionale, così come quell'altre cose,
che io prima vi dissi, per acquistare la loro perfezione con la natura, son
chiamate n a turali. Questo nome razionale ? non si può dare all'Angelo, a n
cora ch'egli abbia lo intelletto,per essere quello • d'una natura pura
intellettuale; la quale fu creata da Dio con tutte le sue perfezioni, cioè
piena di tutte le specie intelligibili (onde non sel'haacquistare
conalcunasuaoperazione,comel'uomo);e che oltra di questo è 8 di tanta virtù,che
quando Iddio gli a p presentasse qualche nuovo intelligibile, ei lo
intenderebbe s u bito per semplice lume dell'intelletto,nel modo che intendiamo
noi iprimi principii,e senza alcun discorso,e tutto perfetta
menteinunoinstanteeinuno tempo indivisibile;enonprima una parte e poi l'altra,
si come fa l'intellettonostro ne l’in tender suo,o per non essere di tanta
perfezione; m a farebbe in quel modo che fa uno lume,quando egli è portato in
una stanza buia,che la illumina tutta in uno istante, e non prima una parte e
di poi un'altra.E per questo dicano alcuni teologi che gli A n g e l i c h e p
e c c a r o n o n o n si s o n o m a i p o t u t i p e n t i r e ; i m p e r ò
c h e ne l'intender suo, non è nella 1a T. Però là onde nasca 1
l'intelletto Delle prime notizie,uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La 1a T. manca
di questa parola. 3La1aT.ha:perchèegliè. ·La18T.,enonsel'haavuteacquistare.
5La1aT.hasolo:Oltraadiquestoeglièecc. LEZIONE UNICA 627 intendendo
quegli ciò ch'egl'intendano per semplice 'apprensione d'intelletto, lo
intendano immutabilmente, e senza mai potere variareemutare illoro
intendimento;sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi
intendiamo per sem plicelume d'intelletto,come sonoiprimiprincipii;ilchenon
avviene di poi di quelle che noi intendiamo per discorso di ra gione.E
peròsichiamal'Angelocreaturaintellettuale,el'uomo creatura razionale e
discorsiva.E perchè,in quanto al corpo, l'uomo è composto di questa materia
elementare della quale sono composte tutte le altre cose sotto la luna, la
quale m a teria è obligata e sottoposta alle alterazioni che inducano i moti
celesti in lei,egli è da quegli insieme con l'altre cose di versamente
disposto.Onde cosi come la terra altra disposizione riceve dai cieli il verno,
quando ella ha a corrompere i semi e generare le cose, e altra la primavera,
quando ella si ha a vestire di erbe e di fiori, così la complessione nostra
altrimenti è disposta in uno tempo,e altrimenti in un altro;onde l'anima nostra
razionale,in quanto ellaè fondata in su questa nostra complessione
corporale,altre voglie ha in un tempo,e altre in un altro. Imperò ch'ella è
tanto mirabilmente unita con quello,che l'operazioni che ancor totalmente
dependono da lei mentre ch'ella è in esso corpo, si attribuiscano al tutto;
onde dice il Filosofo nel primo Dell'anima, che chi dicesse : l'anima mia
odia,o l'anima mia ama, sarebbe come dire:l'anima mia fila,ol'animamiatesse.E seciònonfusse,cioèchel'anima
seguisse la disposizione del corpo,egli ne avverrebbe,sicome apertamente pruova
Galeno in una operetta ch'ei fa di questa materia, che l'operazioni degli
uomini sarebbero tutte a un modo medesimo;3di che manifestamente si vede ilcontrario.
Imperò che le anime nostre nella loro sustanzia,e,come dicono questi teologi,
in puris naturalibus, sono tutte in un medesimo modo e d'una medesima virtù;ma
pigliano poi diversi costumi, secondo la complessione de'corpi ne'quali elle
sono incluse, 1La1aT.,perunasemplice. 4 La 1a T.,con manifesto
errore,mutabilmente. 3La1aT.,aunmodo. e hanno diverse voglie,
secondo che quegli si variano per i moti celesti.E questo basti per la seconda
parte del nostro ra gionamento. Or vegniamo alla terza e ultima. Risponde
dottissimamente in questa ultima parte Adamo a una tacita obiezione, che se gli
sarebbe potuto fare; la quale Ma,cosiocosi,naturalascia Poi fare a voi secondo
che v'abbella. Per le quali parole voi avete a considerare che l'uomo è c o m
posto di due nature,o vogliam dire di due parti;con l'una delle
quali,laqualeèl'animaincorporea,immortale,razionalee li bera,egliè simile
alleIntelligenzie celesti;econ l'altra,laquale è
ilcorpomortaleeirrazionale,èsimileaglianimalibruti.E ciò fu dalla natura fatto
con mirabile artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle
creature irrazionali,corporee e m o r t a l i , e d e l l e r a z i o n a l i,
i n c o r p o r e e e d i m m o r t a l i , e n o n v o lendo che siandasse da
l'uno estremo all'altro senza mezzo,le fu necessario fare l'uomo, che con una
parte communicasse con 628 LETTURA DUODECIMA 1 Opera di natura3 è ch'uom
favella; può,non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera
naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno:A me non pare che questa tua ragione,
Adamo,conchiuda e sia bastante;imperò che tudi'che iltuo parlare mancò per
essere effetto dell'uomo,e gli effetti dell'uomo col tempo mancano tutti,per
esser esso uomo ,ch'è la loro causa , caducoemortale;enessunoeffettopuò
esseredimaggiorperfe zione che la sua causa. Questo è ben vero, che gli effetti
che procedano semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; m a il p a r l
a r e n o n è d i q u e s t i . I m p e r ò c h e n o n è s u o e f f e t t o t
o talmente, ma è sua propietà naturale;' le quali così fatte pro pietànon
siseparano mai dallaspecie loro,sìcome lacalidità dal fuoco, e la frigidità
dall'acqua. Dunque come di'tu ch'ei mancasse per esser suo effetto ? Alle quali
parole così risponde Adamo : LEZIONE UNICA 629 q u e s t e , e c o
n u n ' a l t r a c o n q u e l l e . E p e r ò il p a r l a r s u o , i n s i
e m e con l'altre sue operazioni, si può similmente considerare in due
modi.Primieramentesipuò considerarecomesuaproprietàna turale; e questo è il
parlare istesso in genere,non si ristrignendo
piùaunomodocheaunoaltro;'einquestomodoeglinon mancherà mai all'uomo,ma sempre
che saranno uomini,sempre parleranno;e di questo non parla qui
Adamo.Secondariamente si può considerare come cosa dependente dalla parte
libera e r a zionale dell'uomo ;e questo è il modo del parlare (e non il par
lare),come sarebbegreco,latino,o toscano;e in questo modo è egli effetto
dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gli uomini.E però disse il
Filosofo che i nomi sono stati posti alle cose,secondo ch'è piaciuto a gli
uomini.E questo è quello chedicequiAdamo,chemancòemutossi.Onde diceneltesto:
Opera di natura è ch'uom favella, cioè : egli è cosa naturale all'u o m o il
parlare ; m a così o così, m a più in questo modo che in quello,natura lascia
poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che vi piace;chè cosi si
gnifica questo verbo.Il quale è verbo provenzale,che a quei tempi era in uso ;
e dal medesimo Poeta ancora fu usato,? nella medesima significazione, nel
Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che fu nei tempi suoi compositore
molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole del Petrarca ne'suoi Trionfi.
E così è soluta questa obiezione.Ma per maggiore dichiara zione di questo
testo, voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla
natura solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura,ese
egliènecessarioono;imperò che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose
necessarie, non abbonda ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si
ristrignendo più a questo modo che a quello. 1La 1aT.hasolo:ancorausato.
Avendo la naturà fatto l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole
di alcun altro animale (il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a
T. forza, per volerlo fare più prudente che alcun altro,donde gli
bisognò farlo di più temperata complessione),ne avviene che ogni minima cosa
l'offende; il che non fa così agli altri animali.Oltr'a di questo,avendogli
dato lo intelletto in certo modo imperfetto e ilminimo tra le intelligenze,come
noi abbiamo dal Filosofo nel libro Dell'anima,e desiderando ch'ei potesse
conseguire la perfezione e dell'uno e dell'altro,le fu necessario concedergli
il parlare, con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le
cose necessarie alla perfezione dell'anima. Voi
vedete,inquantoalcorpo,ch'einasceignudo,ehassia ve stire della pelle degli
altri animali, a procacciarsi il cibo, e a fabricare le case,dov'ei possa
difendersi da quegli incommodi che arrecano'seco le varie stagioni
de'tempi.Vedete ancora di poi,in quanto all'anima,che gli bisogna apparare
molte cose,se non necessarie allo essere,almanco al bene essere della sua vita,
senzalequaliellasarebbemiseraeinfelice.Ilchenon avviene a gli altri animali;'
perciò che ei sono vestiti dalla natura, e per tutto truovano i cibi
convenienti alla lor vita ; e senza alcuno maestro, ma solamente da naturale
instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa loro di mestieri a
conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di fare i suoi
figliuoli, sa per natura fare il nido ; e di poi, veggendogli nati
ciechi,vaacercare lacelidoniaperguarirgli.Eleformiche similmente sono da lei
spinte,quando ifrumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e riporgli nelle
lor buche. Che bisogno adunque avevano glianimali di parlare? Chè,seeisono
d'una specie medesima,hanno bisogno di sìpoche cose, e tutti a un modo,e son
spinti dalla natura a cercarle:e se ei sono di varie specie,non
convengonoinsieme.Ma all'uomoèeglicertamente stato necessario ;imperò che egli
ha bisogno di tante cose,e quanto al corpo e quanto all'anima,che nessuno se le
può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme
molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il
che a gli altri animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a
cercare. 3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno. 630 LETTURA
DUODECIMA LEZIONE UNICA 631 si saria potuto fare senza questo mezzo
del parlare,con ilquale l'uno possa manifestare all'altro i suoi bisogni ; e
per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo,come quella che non manca
mai'nellecosenecessarie.E peròèquichiamatodalPoetail parlare operazione
naturale dell'uomo, cioè necessaria alla n a tura sua.E se alcuno mi
opponesse,dicendo che ci sono an cora de gli animali che parlano,si come gli
stornegli, le gazze, i papagalli,e non solamente l'uomo,si risponde che il loro
non èparlare,ma èunaimitazionedivoce;imperòcheeinonin tendono ciò che ei
dicano,e dicano sempre quelle parole che egli hanno nell'udire imparate,o a
proposito o no ch'elle si sieno. E se alcun altro dicesse : C o m e di'tu che
il parlare è solamente dell'uomo ?non abbiamo noi nelle sacre lettere,in molti
luoghi, ch'e'parlanoancoragliangeli?dicocheilparlarenon s'appar tiene
all'angelo,come angelo.Imperò che gli angeli sono spiriti, e sono loro
manifesti iconcetti l'uno dell'altro; ma se eglino alcuna volta hanno parlato,
ei l'hanno fatto per manifestarsi a noi e per bisogno nostro, e hanno preso
corpi, dal ripercoti mento de i quali hanno formate le voci o vero suoni,e con
la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come ei fecero
nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti natu rali faceva la voce,e
l'angelo la terminava e faceva significativa. A v e t e d u n q u e v e d u t o
c o m e il p a r l a r e è s o l a m e n t e d e l l ' u o m o , e com'ei sia
sua operazione e proprietà naturale.Della qual conclusioneioprobabilmentecavo
una particularlodedellano stra lingua;equesta siè,ch'ellasiapiùpropria
all'uomo,che alcun'altrachesiparli.E chequestosiailvero,lopruovocosì. Tanto
quanto una operazione è all'uomo più propria e secondo
lasuanatura,tantoglièancopiùfacileemen faticosa;ilpar lare nostro gli è men
faticoso e più facile che alcun altro;
adunqueglièpiùproprio,epiùsecondolanaturasua.E che
•La1aT.ha:imperòcheeinonintendonociòcheeidicano,cheèil propriodelparlare.E
cheeisiailvero,avvertitechee'diconosempre quelle parole ecc. i La fa
T.,che mai non manca. ? La 1a T., gli storni. questosiailvero,ponetementechenessunalinguaèpiù
fa cile a imparare,che la nostra.Pigliate uno che non sappia altra lingua che
lasua,emenateloinTurchia,nellaMagna,fraSpa gnuoli,Francesi o Schiavoni,o tra
quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi vedrete (e questo ne
dimostra la esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si voglia lingua tanto in
uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il che non avviene per
altro, che per la facilità d'essa, e per la pro prietà ch'ella ha con la natura
umana.Un'altra cagione si po trebbe forse ancor dire che fusse quella, per la
quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa siè,per avere
tutte le sue parole che finiscono in lettere vocali ; le quali per essere, come
scrive Macrobio, quasi che naturali all'uomo, si mandon più facilmente alla
memoria che l'altre,e ancora più lungamente si ritengono.Donde nasce forse
ancora quella m a ravigliosa bellezzach'ellaha,scrivendoQuintiliano,chequante
più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il suo suono.
Seguita Adamo ilparlar suo;e per confermazione delle cose ch'egli ha dette
adduce per esemplo,che innanzi ch'ei morisse,
gliuominimutaronoilnomeaDio;edoveprimalochiama vano Uno,gli posero nome
El.Nelle quali parole ei fa quella bellaargomentazione
cheilogicichiamanoamaiori;laquale io credo che noi potremo ? chiamare dalla
parte più importante. Fa dunque Adamo questa argomentazione, per volere provare
che la sua lingua mancò, dicendo: Se Iddio, il quale è sola mente stabile e immutabile
in tutto questo universo, a mio tempo mutò nome, che credete voi che facessero
l'altre cose, le quali sono in sempiterno moto e continuamente si variano ? Di
poi dice che noi non ci debbiamo maravigliare diquesto; con ciò sia cosa che
l'uso umano continuamente si muti e si varii in ciascuna operazione nostra. E
assomigliandolo alle frondi, fa una comparazione tanto dotta e tanto bella, che
io 632 LETTURA DUODECIMA 1La1aT.,eifaunaargomentazione. 2 Così le stampe;
ma forse la lezione vera ha da essere potremmo. 3La
1aT.hasolo:conciòsiachel'usoumanocontinovamentesimuta. LEZIONE
UNICA 633 Pria ? ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io
morissi e discendessi nel Purgatorio,o vero nel Limbo,dove andavano tutte
l'anime di coloro che crede vano l'avvenimento di Cristo.Ambascia è quella
infermità che iGreci e iLatini chiamano asma,e ancora da noi toscanamente si
chiama asima;la quale è una difficultà di alitare, che, se condo Aezio
nell'ottavo, nasce dall'avere ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi
dove passa lo spirito a rinfrescamento del cuore),e ripieni di materie grosse
eviscose;'o veramente nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto
libro De'luoghiinfettidicech'ellapuòancorprocedereda infiamma zione di cuore;e
dà lo esemplo di coloro che hanno la feb bre,e di coloro che si sono affaticati
nel correre, i quali, per avere acceso ilcalore nel cuore ed
eccitatolo,'patiscono que sta difficultà di respirare. E perchè ancora coloro
che sono rinchiusi in luoghi che non abbino esito,o son ripieni di vapori
grossi, patiscano questa difficultà, si dice per similitudine che gli hanno
l'ambascia. Ora perchè ilLimbo,come voi avete da Dante medesimo, è un luogo
appiccato con l'Inferno nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra,per
esser ripieni di vapori,che il sole continuamente tira da quella, si respira
con difficultà, dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia,
cioè,al Limbo tra gli altri santi padri.Questo luogo ancora nelle s a c r e l e
t t e r e è c h i a m a t o il s e n o d i A b r a m o ; e l a c a g i o n e è
, p e r chè Abramo fu il primo,che lasciati gl'Idoli venissi al cultos
perme nonsapreichealtralodedarmele,senondirech'ella' è di Dante ; perciò che io
non ho mai visto ancora autore al cuno che in questo l'avanzi.Dice adunque il
testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc. ?Malela2aT.,Prima. 3 La 1a T.,di materia
grossa e viscosa. · La 1a T., escitatolo. 5 La 1a T., venne al vero
culto. di Dio;onde gli fu promesso che del seme suo uscirebbe la redenzione
del mondo.E però coloro che morivano,andando in questo luogo, si diceva che gli
andavano a riposarsi nel seno di A b r a m o, cioè nella promissione che fu
data da Dio ad A b r a m o . Dice adunque Adamo:pria ch'io scendessi a questo
luogo,il sommo bene, cioè Iddio, Donde vien la letizia che mi fascia, cioè, da
cui viene la mia beatitudine (imperò che, come noi a b
biamoinSanGiovannialXVIIcapitolo,altrononèvitaeterna
chevedereIddio),erachiamato dagliuominiUno.Ilqualenome glifupostodaqueglipersimilitudine,eper
alcune proprietadi cheha l'unità con Dio,sìcome è,essere semplice,indivisibile,
non essere numero, ma principio di tutti,e mantenere tutte le
coseinessere;perchè,come voi avete da Boezio,tantoèuna
cosa,quantoellaèuna;lequalituttecosesonoinDio.Im però che egli è semplice e
indivisibile; non è alcuna di queste cose che noi veggiamo,ma principio di
tutte,e mantienle in essere continuamente ; e molte altre proprietà simili al
l'unità , comesileggenelladottrinapitagorica.E perògliposerogli uominiquestonomeUno;perchènonpotendoporglinomi
che significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il Padre , se non
ilFigliuolo,come noi abbiamo in San Matteo allo XI ), gli ponevano di quegli
che significano ? qualche sua proprietà. Dipoi,lasciandoquestonome
Uno,lochiamaronoEl,cioèDio; il quale nome gli fu ancora posto per una proprietà
sua. I m però che considerando gli uomini la maravigliosa potenza de le opere
sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritro vando infra
l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superiquelladelfuoco.Onde
diceiltesto:Ellesichiamdpoi. Avvertite che tuttiitesticheiohovistidicano:Eli
sichiamo poi; ilche non può stare;imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1 La 28
T., ha ;ma la lezione è mal sicura,poiché il passo nella stampa è guasto, e
potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a detta
edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano. 634 LETTURA
DUODECIMA •La faT.,significavano. LEZIONE UNICA 635 donde la sentenza
non quadrerebbe a dire:ei si chiamò poi Iddio mio.Anzi sichiamò El, che vuol
dire Iddio.E per fare il verso intero disse Elle,e non El,come ei devea;e usò
qui lo Elle in quel modo ch'egli usò nel XXIII canto del Pur gatorio lo m ,
dicendo : Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El fu ancora posto a
Dio per una sua proprietà; perchè tanto è adireEl,quanto potenteeconservatore.E
per questa cagione una gran parte degli angeli,per essere stati da Dio ordinati
e deputati a governare e mantenere questo uni verso,hanno incluso nel nome loro
questo nome diIddio El; nè senza quello si possono nella ebraica lingua
proferire, si come è Gabriel,che vuol dire grazia o vero virtù di Dio, Raf
fael,medicina di Dio,e così va discorrendo de gli altri.La qual cosa non è senza
gran misterio,come potrà ben vedere chi vorrà diligentemente esaminarla nel
santissimo Reuclino e nell'uni versalissimo'Agrippa.Di
poiseguitailtesto:eciòconviene,e questa è cosa conveniente;però che l'uso umano
Dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i c o stumi dei
mortali alle fronde.Imperò che,come voisapete,le fronde si generano e cascano
da gli alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre stelle,
appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì come noi abbiamo
a suf ficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano secondo la
disposizionecheilcieloinduceneinostricorpi.E questobasti per dichiarazione di
questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi c'ingegneremo di
sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete prestata; della
quale somma mente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The
issues Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is
considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is
to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is
confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin
ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman ethnicity
– yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua latina’ – or
‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ – never to ‘I
latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the fioreusciti
fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua fiorentina – but
he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua napoletana is quite
a different thing, since he himself cared to translate from ‘lingua napoletana’
to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into Toschani (thus spelled)
--. And here comes the myth which some have called evangelist. Etruria as the
cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as the ‘lingua primigenia’.
Gelli is clear about the nature of language – made for ‘uno possa manifestare
all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the dialogic form, of a
cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone, he asks. They are
different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua he thought was
the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani are not Romani –
and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords:
sulla difficultà di mettere in
regole la nostra lingua, lingua, linguaggio, Grice on English, idiolect,
dialect, Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la
lingua fiorentina -- Accademia agli Orti Oricellari; Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690118940/in/photolist-2mPC6Zb-2mLKeCe-2mKC3nj-2mKFnvf-2mKA5tC
Grice e
Gemmis – il console – filosofia italiana – Luigi Speranza (Terlizzi).
Filosofo. Grice: “I love Gemmis.” Grice: “Gemmis is a good example of how an
Italian philosopher differs from a philosophy don at Oxford – ‘don’ is
derogatory; whereas de’ Gemmis is a barone! – And he writes about ‘reason,’
‘ragione’ – with Abate Genovesi --; unlike a ‘don’ at Oxford who would over-do
reason to keep a post at his college!” – Grice: “In them days, Italian
illuminists took reason very seriously, and possibly ‘light,’ too!” Ferrante de
Gemmis (Terlizzi), filosofo. Figlio del Barone di Castel Foce Tommaso de Gemmis
e di Francesca Bruni dei baroni di Cannavalle, fu fratello di Gioacchino,
rettore dell'Altamura, di Giuseppe de Gemmis, Presidente della Regia Camera
della Sommaria, e di Giovanni Andrea, Consigliere della Suprema Corte di Giustizia. Si trasferì in Napoli affidato al prozio, il
potente Ministro Ferrante Maddalena, dove studia dai più prestigiosi
precettori. Fu allievo di Genovesi, di cui divenne amico e con cui mantenne una
cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre
illuminista. Si laurea a Napoli, il ministro Maddalena lo introdusse negli
ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo erede universale con
la clausola di aggiungere il suo cognome, obbligo mai rispettato dai
discendenti. Morto il pro-zio, e nominato dal sovrano giudice a Cava de'
Tirreni e fu malvisto a corte poiché rinunzia alla carica per ritirarsi a
Terlizzi, per stare vicino al padre malato. Qui si dedica ai suoi studi di
filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi l'esponente
primario dell'illuminismo. Istituì una Accademia, vero e proprio cenacolo
culturale con scopo di ricerca scientifica e di attuazione pratica di
conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione Reale perché
sospetto centro di idee liberali, l'Accademia dovette chiudere, ma gli incontri
culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento
epistolare di Genovesi. Sposa Caterina Lioyi, di nobile famiglia di orientamento
massonico. Fu governatore de promosse il riscatto della città dal diritto di
molitura che aveva la duchessa di Giovinazzo donna Eleonora Giudice. Fonda il
Conservatorio delle Orfanelle a la scuola pubblica con reale approvazione. Fu
inoltre incaricato da Ferdinando I di Borbone al riordinamento
dell'amministrazione della Città, che fu divisa in tre ceti in base ai ranghi.
Ebbe sette figli, tra cui Tommaso de Gemmis Maddalena, capitano dei R. R.
eserciti e governatore militare di Terlizzi; Elisabetta, moglie di Giuseppe de
Samuele Cagnazzi, fratello del celebre Luca de Samuele Cagnazzi; Cecilia,
sposatasi con Pietro Lupis e Giuseppe, sposato a Donna Maria de Introna, dalla
cui discendenza avrà origine il ramo di Gennaro de Gemmis. De Gemmis scrive
numerose opere letterarie e filosofiche, che volle pubblicate anonime per
modestia e che oggi sono andate perdute, salvo “Tavole cronologiche della
Storia Universale” (Napoli, Stamperia della Soc. Letteraria e tipografica).
Gaetano Valente Feudalesimo e feudatari Terlizzi nel Settecento, Molfetta,
Mezzina, Cabreo de Gemmis, Biblioteca Provinciale de Gemmis, Bari Ruggiero Di
Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli meridionali del '700, Gangemi Editore, Roma. FERRANTE
DE GEMMIS Figlio di Tommaso de Gemmis e di Francesca Bruni dei baroni di
Cannavalle, fu fratello di mons. Gioacchino de Gemmis, rettore dell'Università
di Altamura e di Giuseppe de Gemmis, Presidente della Regia Camera della
Sommaria. All'età di undici anni si trasferì nella capitale affidato al prozio,
il potente Ministro Ferrante Maddalena, dove studiò grammatica, eloquenza greca
e latina, logica e matematica dai più prestigiosi precettori dell'epoca. Fu
anche allievo dell'Abate Antonio Genovesi, di cui divenne amico e con cui
mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere
familiari del celebre illuminista. Laureatosi in diritto all'Università di
Napoli il ministro Maddalena lo introdusse nella pratica forense e negli
ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo, alla fine, erede
universale con la clausola di aggiungere il suo cognome al proprio, obbligo mai
rispettato dai discendenti. Morto il prozio nel 1752 fu nominato dal Re giudice
a Cava de' Tirreni e fu malvisto a corte poiché rinunziò alla carica per
ritirarsi a Terlizzi nel 1754. Qui si dedicò ai suoi studi di filosofia e diede
vita ad una fervida attività culturale rivelandosi esponente primario
dell'illuminismo della regione. Istituì una Accademia a Terlizzi, vero e
proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca scientifica e di attuazione
pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo
l'approvazione Reale perché sospetto centro di idee liberali, l'Accademia
dovette chiudere ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni
grazie anche all'incoraggiamento di Antonio Genovesi. Ebbe un grave incidente
per la caduta da un calesse, per cui subì una difficile operazione e a stento
salvò la vita. Prese in moglie nel 1757 Donna Caterina Lioy di Terlizzi. La
nobile famiglia Lioy, di orientamento massonico, si trasferirà in quegli anni a
Vicenza dove avrà i natali il nipote Paolo Lioy. Fu governatore di Terlizzi e
promosse il riscatto della città dal diritto dell'ius moliendi, diritto di
molitura, che aveva la duchessa di Giovinazzo donna Eleonora Giudice. Fondò il
Conservatorio delle Orfanelle nel 1769 e nello stesso anno aprì le scuole
pubbliche con reale approvazione. Fu inoltre incaricato da Francesco I di
Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, divenuta regia nel
1774. Ebbe sette figli, tra cui Tommaso de Gemmis Maddalena, capitano dei R. R.
eserciti e governatore militare di Terlizzi; Elisabetta, moglie di Giuseppe de
Samuele Cagnazzi, fratello del celebre Luca de Samuele Cagnazzi; Cecilia, sposatasi
con Pietro Lupis e Giuseppe, sposato a Donna Maria de Introna, dalla cui
discendenza avrà origine il ramo di Gennaro de Gemmis. Scrisse numerose opere
letterarie e filosofiche, che volle pubblicate anonime per modestia e che oggi
sono andate perdute, salvo il libro storico intitolato "Tavole
cronologiche della Storia Universale" pubblicato a Napoli nella stamperia
della Soc. Letteraria e tipografica nel 1782. Ne scrisse la biografia Vitangelo
Bisceglia pubblicata nel "Dizionario degli uomini illustri del
Regno". Morì a Terlizzi, largamente stimato, il 21 aprile 1803, e fu
sepolto nella cappella nobiliare de Gemmis di Terlizzi.Ferrante de Gemmis. Gemmis.
Keyowords: il console, tavola cronologica della storia universal. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Gemmis” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758773591/in/dateposted-public/
Grice e
Genovese -- tribù – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of
‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice:
“Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!”
Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant
meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with
‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part
II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e
Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei
sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da
allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per
la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli
individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della
rivista. Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola
di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in
“Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno”
(Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura
scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla
funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo
di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra
scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse
per la teoria dei sistemi. La forma
compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù
occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Bollati Boringhieri), e:Un
illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino,
Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di
Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica
dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca
hegeliana. Questa linea è approfondita,
in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo,
nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino
e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la
teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione,
potere” (Napoli, Cronopio), a tutt’oggi
la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare
ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il
destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi”
(Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e
intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello
della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono dapprima
con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva” –
keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il
mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta
il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma
epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia
una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in
una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o
apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso
diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma,
Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto,
insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono
le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis).
Altre opere: “Modi di attribuzione” (Napoli,
Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione
impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto).
“L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un
saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a
disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a R. Genovese, leGiulio
Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La
Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. “Genovese è quasi costretto non
semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno
con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili,
indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci
sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un filosofo, senza che mai si possano individuare
luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il
sopravvento». MEMORIE I.Ledueleggendetroianaeromulea.–
I.Ilprimopopolo,ossia iRamni,iTiziieiLuceri.– IV.Laplebe. Dopo la rivoluzione
portata nella storia tradizionale romana dal l'olandese Perizonio, con le sue
Animadversiones historicae, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur
l'incertitude des cinq premiers siècles de l'histoire romaine, lavori che si
succedettero alla distanza di mezzo secolo (1), la critica, che era rimasta ne
gletta nell'evo antico e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di
produrre frutti fecondi, comparve un elemento neces sario nello studio di
quella storia tradizionale. E di quei due critici va detto ciò che in una
pubblicazione recentissima (2)sidisse,senza (1)La prima edizione delle
Animadversiones venne in luce ad Amsterdam nel 1685,equelladella Dis sertation
beaufortiana ad Utrecht nel 1738. (2 ) S t o r i a d i R o m a n a r r a t a d
a R . B o n g h i, v o l . I , M a n i f e s t o d i F r . B r i o s c h i, G .
B . G i o r g i n i e M . M i n
ghetti.QuestitresignorirecanoilseguentegiudiziosullaStoriaRomanadiB.G.NIEBUHR:
Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera del Niebhur (sic) era fatta
col sentimento che vi domina, non tanto per dare una nuova direzione allo
studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore ». Questo giudizio
dimostra che gli autori del Manifesto non sono storici. Ma appunto perchè non
sono tali, avreb bero potuto astenersi dal profferire sul fondatore della
critica storica moderna un giudizio che dilàdelle Alpi fará un'impressione
tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudiziodegli scrittori del Manifesto,
con
trapponiamoquellodelSavignyedelloSchwegler,lacuicompetenzainsiffattoargomento
nonèscono sciatadaalcuno.IlSavigny,ne'suoi
Vermischte-Schriften,IV,216,cosìparladellaStoriaRomanadel Niebuhr:«L'opera del
Niebuhrhaimpressoallatrattazionedellastoriadell'antichitàuncarattereaf fatto
nuovo (Niebuhrs Werk hat der Behandlung der Geschichte des Alterthums einen
ganz neuen Cha r a k t e r v e r l i e h e n ); e s s a h a i n a l z a t o l '
i d e a l e d e l l a s t o r i o g r a f i a e f i s s a t o l ' i n d i r i z
z o d i o g n i r i c e r c a n e l c a m p o Rivista di Storia Italiana.
Origini Romane. 13 I. I critici: loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen ,
Bonghi. I. < ragione,aparernostro,delNiebuhr;che,cioè,questisi
propo nesse più d'inspirare l'amore allostudiodelleantichitàromane,che di dare
a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera del Niebuhr mirasoprattuttoaquesto
secondoscopo;quantoall'altro,delde stare l'interesse per lo studio delle
antichità,esso rampollava natu ralmente dal primo ; mentre la critica del
Perizonio e del Beaufort, pel suo carattere negativo, non poteva prefiggersi
che quest'ultimo scopo. Sebbene però ilconcorsodellacritica
fosse,dopolacomparsadel l'opera del Perizonio,generalmente ammesso,esso non fu
usato da tutti secondo l'ufficio suo. E se i più se ne giovarono per ret
tificare od anche per abbattere del tutto la tradizione romana, non mancarono
anche coloro che se ne servissero in senso op posto, che è a dire, in difesa di
essa tradizione. Fra questi ultimi vanno segnalati il Kobbe (Römische
Geschichte, 1841),il Gerlach e Bachhofen (Geschichte der Römer, 1851),il
Newmann (Royal Rome,ecc.1852)eilDuruy(HistoiredesRomains). Gli altri scrittori,
e sono il maggior numero, si divisero in due scuole:all'una vanno ascritti iseguaci
del Niebuhr,all'altraisuoi correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi , in
mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di Alberto Schwegler e di
Teodoro Mommsen.Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel
l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo dello
Schwegler è severamente analitico. Egli espone prima la tra dizione in tutti i
suoi minuti particolari e con le sue varianti ; poi, nel paragrafo successivo,
assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la
genesi,e ilcarattere degli ele menti che concorsero a crearla. In questa
diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa
erudizione. Dopo di avere ben fermato il concetto della leggenda e del mito, e
fissate del secondo le categorie diverse (mito etiologico, etimo l o g i c o ,
e c c . ), e g l i p r o c e d e a c l a s s i f i c a r e g e n e t i c a m e
n t e i s i n g o l i e l e menti della tradizione romana, e ci dice quali
debbano ascriversi delleantichitàromane»,-
EloSchwegler(Röm.Gesch.,I,145)aggiunge:«La StoriaRomanadel Niebuhr, opera sotto
ogni rispetto classica, non solo diede una nuova direzione allo studio
dell'antichità fatto sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a
tutte le ricerche future, alle quali egli
segnòl'indirizzoediedeilpiùfecondoimpulso
(SeinerömischeGeschichte,eingrossartiges,injeder Beziehung classisches Werk,ist
nicht nur der Brennpankt und Abschluss der bisherigen,sondern auch der
Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern Forschungen , zu denen es den
Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben hat). 188 MEMORIE
F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 189 alla leggenda, quali all'una o all'altra
forma del mito, e quali deb bano aversi in conto di storici.Non oseremmo
asserire che in questa minuta classificazione lo Schwegler cogliesse sempre
nelsegno;ma dobbiamo pur dichiarare che in essa nulla apparisce mai di co
scientemente arbitrario; di maniera che si potrà dissentire da una data sua
opinione, perchè faccian difetto gli argomenti con cui c o m provarla, non già
perchè gli argomenti siano stati usati a sproposito. L'opera dello
Schwegler,comparsa or fanno 30 anni, è rimasta, a parer nostro, fino ad oggi
insuperata. E fu una sventura irrepara bile per la scienza, che la vita di
quell'uomo dottissimo si spegnesse asoli38anni(n.1819,m.1857).
IlmetododelMommsen ètuttol'oppostodiquellodelloSchwegler. Qua il racconto
tradizionale è preso in esame capo per capo ; là di esso non è fatto nemmen
parola : in luogo della tradizione,abbiamo un racconto ricostruito dalla
critica, senza però che estrinsecamente apparisca traccia di siffatto
lavoro.Non vi è dubbio che questo m e todo presenti maggiori attrattive
dell'altro,perocchè escluda ogni processo dimostrativo; ma appunto perciò porta
anche maggiore responsabilità a chi lo segue ; e offre più largo campo alle
censure. La Storia romana del Mommsen ne incontro difatti di vive ed acerbe,
sebbene il valore generale della sua opera fosse da tutti rico nosciuto. La
polemica suscitata da essa tornò poi a grande profitto della critica
storica,perchè essa diè occasione al Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri
della Storia romana, mercè una serie di monografie storico -critiche, che egli
raccolse poi in due v o lumi col titolo di Ricerche romane (Römische
Forschungen). Il metodo dello Schwegler trovò in questi ultimi giorni un am
plificatore fra noi,in Ruggiero Bonghi.La sua Storia di Roma, da molti anni
aspettata, ha cominciato ora a comparire in luce col primo volume. Il
chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al manifesto dei
triumviri che aveano promosso la pub blicazione della sua opera.In questa
lettera egli dice, che « gli pa reva strano e vergognoso che una storia tutta
nostra non avesse mai ritrovato in Italia chi dopo gli antichi avesse
intrapreso di nar rarla ». Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non
m a n carono, come non mancarono i critici, e da Lorenzo Valla ad Atto Vannucci
trovasi una schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno
e la dottrina. In questa schiera spiccano i nomi di Francesco Orioli, di P.
Uccelli,di Fr. Rossi, dell'ab.Canal, di L. Canina, le cui opere dimostrano, che
noi non ci eravamo con 190 MEMORIE tentati, come afferma il
Bonghi, di tradurre prima il Rollin, poi il Niebuhr e il Mommsen . E se la
letteratura nostra mancasse pure di codeste opere, non basterebbero le pagine
inspirate che sulla Storia romana dettarono il Machiavelli e il Vico, per
ismentire il basso concetto che il Bonghi reca della storiografia italiana? Il
volume che abbiamo davanti non contiene sufficiente materia, perchè si possa
dire fin d'ora in quale misura l'aspettazione dell'o pera sia stata
soddisfatta. Perché l'autore, amplificando, come si è detto, il metodo dello
Schwegler , premette alla critica storica la critica letteraria della
tradizione. All'esame di ciò che vi può es sere di storico nella tradizione e
della genesi sua, egli manda in nanzi la ricerca della sua forma primigenia.
Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto « in una selva
selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni
fatta qualche sentiero non ancora battuto »; lo che acuisce il desiderio
diaveresott'occhilasecondapartedelvolume,che avrebbedo vuto comparire insieme
con la prima , con la quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima.
L'autore stesso riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, «
avrebbe reso meno facile ai lettori di comprendere il suo disegno ». E così appunto
è avvenuto ; ed io devo confessare che questa difficoltà è nata anche in me,
sebbene il lungo esercizio mi abbia reso in certo modo fa migliare questo
studio.Dopo illavoro diligentissimo dello Schwegler, a me era parsa meno
necessaria quest'opera « di gran pazienza e fatica»,come l'Autore stesso chiama
e con ragione,l'esameminu tissimo cui sottopose la tradizione.E perchè a ciò
solo non si rimane l'opera sua nel volume pubblicato,ma qua
elàeglifuindottodallo sviluppo della sua analisi, ad entrare nel merito storico
della tra dizione, la separazione della seconda parte dalla prima è ancor più
deplorata.Senza di essa noi avremmo,per esempio,chiaritosubito la teorica, con
la quale l'Autore chiude il suo discorso sulla leg
gendadiRomolo,echemessafuoriamo'diassiomastorico,anoi è parsa mancante della
necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole
stesse dell'Autore : « Del rima
nente,ènecessario,dic'egli,tenerebendistintequeste tredimande:
prima,seunaleggenda contengaelementistorici;seconda,quale Sebbene perd
l'Italia abbia fatto il dover suo in questo impor tante studio, ciò non iscema
l'interesse che desta nei dotti la com parsa di un'opera, dettata da una mente
che della sua grande potenza avea dato saggi copiosissimi nelle discipline più
svariate. la storia sia stata ; terza, come la leggenda sia nata.
Noi abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda,se ci si prova che
debba essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a
tempi molto più vicini ai nostri, che non sono quelli
dellafondazionediRoma,nonneabbiamoilmodo— dirispondere nè in tutto nè in parte
alla seconda ed alla terza ». Come si vede, questo giudizio riesce alquanto
oscuro, particolarmente perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la
quale non se ne può m i s u r a r e il v a l o r e . C h e c o s a i n t e n d
e il B o n g h i p e r l e g g e n d a ? C i d Ciò che noi chiamiamo Leggenda,
i Tedeschi chiamano Sage, ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un solo
ne è ilconcetto. Ora ilconcettodellaleggendaèquesto;cioè,ilricordodiunevento
notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti popo lari,dall'una
all'altra generazione,e colorito dalla fantasia per modo da imprimere ad esso
un carattere prodigioso. Il nucleo della leggendaèadunque
storico.Ilmito,invece,ètutt'altracosa;in luogo del fatto storico che
costituisce l'essenza della leggenda,nel mito abbiamo come elemento essenziale
e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per mezzo di un
intreccio di fatti immaginarii.Ora,nella tradizione romana leggenda e mito tro
vansi mescolati insieme, e il lavoro della critica consiste in cið ap punto, di
sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagli invo lucri che hanno
impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è meno
improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto dal Bonghi nel primo
volume della sua opera , fu già tentato da molti ; ed è in esso che apparirà
nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Il presente volume si chiude
all'anno 283 della fondazione di Roma. Ed ecco la ragione che il Bonghi dà di
questa fermata: « N e l l ' a n n o 2 8 3 , è s u c c e d u t o , d i c e e g l
i , n o n a d d i r i t t u r a il p r i m o fatto certo della storia interna
di Roma , ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia
anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore,è,se mi si permette la
parola, pre formata ; l'elezione dei tribuni nei comizii tributi > Per ciò
che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto
alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che
sicuro.Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i
quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono : la fondazione del
tempio federale di Diana sull'Aventino, avvenuta sotto il regno di Servio
Tullio : il trattato F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 191 federale
stipulato da Tarquinio il Juniore coi Sabini : il primo trat tato di
navigazione e commercio conchiuso da Roma con Cartagine subito dopo il bando di
quel re ; e il patto federale conchiuso da Roma colle città latine sotto il
secondo consolato di Spurio Cassio. Questi sonoifatti,chesiponno
chiamarcerti,perchèqualcunodegli storici maggiori dichiarò di avere visto il
documento originale in cui erano consacrati. Tale qualifica non può essere data
alla lex Publilia, il cui contenuto forma ancor oggi obbietto di disputazioni
fra i critici. Il Bonghi ci dice fin d'ora com'egli spieghi il tenore di quella
legge, ed io sono curioso di sentire con quali nuovi ar gomenti egli
suffragherà una opinione,che oggi è abbandonata dai più; e cioè, che prima
della lex Publilia i tribuni della plebe fos sero eletti in altra sede fuorchè
nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi esprimemmo il nostro avviso
sul tenore della lex Publilia, e rimandiamo il lettore a quel nostro libro, non
essendo il caso di ripeterquiciòchescrivemmoaltrove.— Un'ultimaosservazione.Il
Bonghi dice, che il fatto del 283 è quello dei fatti certi più antichi di Roma,
che spiega tutta la sua storia anteriore.Aspetto di avere la dimostrazione di
questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra
di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della
creazione del tribunato della plebe, da cui tanto la lex Publilia, quanto le
successive leges tri buniciaeemanaronocome prodottinecessariidiunfattorecomune.
II. Il primo problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane
origini,è come avvenisse l'innesto della leggenda troiana nella leggenda
romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da
fonti diverse; e mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi
che sono la scena del suo racconto,latroianaèindubbiamenteimportazione
straniera.Però non tutti gli elementi di questa seconda leggenda sono nati di
fuori. Dal momento che l'eroe troiano ha posto piede nel Lazio, la leg genda lo
mette in relazione con le popolazioni indigene,facendogli imprendere una serie
di guerre coi Latini, Sabini ed Etruschi.Ora, se tolgasi il protagonista che è
un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente
elementi storici, che la sciati inavvertiti da Catone e da Dionisio,furono
segnalati e lumeg 192 MEMORIE F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 193
giati dall'autore dell'Eneide.Infatti,mentre presso idue primi,le lotte
combattute da Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i popoli
appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe;presso
Virgilio quelle lotteassumono fin da principio la proporzione di una guerra di
stirpi italiche,in cui sono adombrati gli sconvolgimenti politico-sociali onde
il Lazio fu teatro nella età preromana . Quel Turno che negli altri racconti
figura come capo dei Rutuli,nell'Eneide comparisce come duce di una intera
confederazione di città italiche e di popoli di diversa stirpe. Alla sua
chiamata accorrono iguerrieri di Laurento,Ardea,An tenne, Crustumerio , Tiburi
, Atina , Preneste , Gabii , Anagnia , e con essi gli Aurunci,i Volsci,i
Sabini, i Falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea , seguendo il consiglio
di Evandro, rivolgesi ai Tirreni,iquali eransidirecenteliberatidal
tirannoMezenzio, divenuto ora alleato di Turno ; e col loro ausilio, conquista
L a u rento. Ora,levando da questo racconto la parte leggendaria che è la
intromessadiEnea,chiaro apparisce ilcontenuto storicodiesso.Ivi troviamo
adombrati, da un lato,iprogressi della conquista etrusca nella valle inferiore
del Tevere, e dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere
il paese dalla servitù straniera.Alla quale impresa iLatini trovano ausiliarii
non pure nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe
sabellica che la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui
la parte avuta nella liberazione del Lazio frutterà una stanza nel Set
timonzio. Così per mezzo di Virgilio noi siamo posti in grado di spiegare
lapresenza dei Sabini sul Quirinale e sul Capitolino, comple tando la
tradizione romana, il cui contenuto storico, purificato da gl’innesti
leggendarii,consiste nel presentarciidue popoli,latinoe sabino,viventi già
l'uno presso l'altro sul Settimonzio,e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme
dopo di essere stati lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici,
noi troviamo gli Etruschi imperanti nella Campania ; prima di arrivare nella
valle del Vol turno, essi aveano dovuto trarre in loro potere la valle
inferiore del Tevere, che è a dire , il Lazio. Senza l'Eneide non sapremmo come
questo paese ricuperata avesse la sua libertà.L'Eneide ci apprende che
ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare capitanata da un eroe.
Quest'eroe è Turno. Enea gli ha strappato dalcapoillaurodeiprodi.Ma
l’Eneaitalicoèunmito;Turno invece è persona rimasta viva nella tradizione di un
popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore di Enea la critica storica sia
stata messa sulla via di riconoscere in Turno un eroe italico, e
di ren dergli la sua corona. Dopoquestadigressione,che
nonc'èparsafuoridiluogo,ve niamo ora a risolvere il problema della confusione
avvenuta di due leggende,tanto diverse l'una dall'altra,siaperlafontedacuiema
nano, sia pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica,
non 194 MEMORIE (1) « Ennius dicit Iliam fuisse filiam Aeneae,quod si
est,Aeneas arus est Romuli » Servio,ad Æn.,VI,778. sa nulla nè dell'una nè
dell'altra leggenda. Prima che la boria destata dalla p o t e n z a d i R o m a
, i n t r o d u c e s s e il t r o i a n o E n e a n e l l e r o m a n e o r i
g i n i , a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi,
di instituti e di consuetudini di antiche che si trovavano esistenti da tempo
immemorabile, senza che fosse stato riferito ab antiquo come fossero nate,la
fondazione di Roma erasi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si
figuró la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire,per mezzo di un
fondatore epo n i m o . U n a c i t t à c h e n o m a v a s i R o m a , d o v e
a a d u n q u e , s e c o n d o il c o n cetto dell'antichità, avere avuto per
fondatore un Romo, progenie divina al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a
noi fu serbata questa tradizione semplice della origine di Roma, la quale biamente
la più antica. Ne dobbiamo è indub la conoscenza al grammatico Festo , che la
tolse dallo storico Antigono. « Antigonus, italicae historiae
scriptor,ait,Rhomum quemdam nomine,Jove conceptum urbem condidisse in Palatio ,
,Romae eiquededissenomen».Così Festo all'articolo Romam .La
tradizioneromulea,nellaqualel'epo nimo Romo diventa Romolo e gli è dato Remo
per fratello,e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei Silvii che
regnava ad Alba Lunga e ripeteva la sua origine da Enea; questa tradizione era
dunque ignota all'antichità.Lo stesso poeta Ennio,che visse nel VI secolodiRoma
(239-169 a.C.)non laconoscecheinunostato ancora embrionale,giacchè egli dà
allamadre diRomolo,Ilia,Enea per padre (1). Pero , il concetto inspiratore
della leggenda è già nato col poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle
due leggende Ora come avvenne questa sovrapposizione . della leggenda troiana
alla romulea? La ragione psicologica del fatto fu data già dal Vico in quella
boria delle nazioni, le quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di
potenza, non sdegnano loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. Il
Vico accennò anche la capitale ca F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 195
gione che indusse i Romani, quando andarono in cerca di origini fastose, a
fissare la mente sulla leggenda di Enea.Ei laattribuisce alla fama strepitosa
che ebbe per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema di Omero e della
introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fece
percorrere al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale fu la causa
inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altri
impulsi. Quando il Senato romano, verso la fine della prima guerra punica,
inter venne nella contesa fra gli Etoli e gli Acarnani, e giustificò la sua
intromessa in favore dei secondi, osservando che gli Acarnani erano il solo
popolo greco, il quale non avesse partecipato alla guerra contro i Troiani
progenitori dei Romani , era l'orgoglio nazionale che ispirava quella
dichiarazione. Similmente, quando ilSenato ac cettò l'amicizia offertadal re
Seleuco,ponendovi per condizione che liberasse i Troiani da ogni tributo ; e
quando Flaminino , nel pre sentareidonativideiRomani
aiDioscurieadApollo,chiamòisuoi concittadini col nome di Eneadi, è sempre
l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma allorquando
la politica militare di Roma ebbe prodotto in seno Altri fattori vanno
considerati. E , soprattutto, la parte che nella propagazione della leggenda di
Enea in Italia ebbero le numerose colonie greche dell'Italia meridionale, e più
specialmente Cuma,che oltre ad essere la più antica e la più vicina al Lazio,
era di pro venienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente dalla Misia, luogo
finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche divennero al trettanti
centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea dei naviganti, con cui la
leggenda di Enea è intimamente collegata, cosi l'oracolo della Sibilla cumana
divenne ilcentro propagatore dei fausti vaticinii, onde la religione della
dardanica Afrodite confor tava nel suo esilio la famiglia degli Eneadi.Già
nell'Iliade è fatta allusione a quei vaticinii, dicendosi che la famiglia di
Enea era serbata ad un nuovo e splendido avvenire, mentre quella di Priamo era
stata destinata alla perdizione. Ora , in questa promessa di un glorioso
avvenire serbato alla progenie di Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama
delle due leggende troiana e romulea.Roma costitui se stessa obbietto dei
vaticinii sibillini, e dichiarò avvenute in se stessa le promesse fatte ai
discendenti di Enea.Già il poeta E n n i o p r e s e n t d i n q u e s t o m o
d o il f a t t o , d i c e n d o c h e T r o i a e r a r i s o r t a in Roma, e
non andrà guari che la Repubblica innalzerá a domma nazionale l'origine troiana
della potente metropoli. alla Repubblica i suoi effetti
liberticidi, e la maestà quiritaria che era in bocca a tutte le nazioni
straniere, ed era oggetto di terrore e di riverenza universale, scomparve dal
popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passò in seconda linea
per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato da un usurpatore.Il
grande anello di congiunzione fra la leggenda di Enea e la dinastia dei Cesari
è quel famoso Julo,che comparisce nella genealogia degli Eneadi,or quale
figlio, or quale nipote di Enea. E cosi nell'uno,come nell'altro grado, sembra
siavi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che fu sorto il giorno di loro
grande fortuna. Infatti, gli scrittori più an tichi della leggenda non conoscono
quel nome , sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio di
Enea,chiamandolo ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome,
che ricorda quello della patria Ilio,suggerì l'idea della finzione genetica,ed
Ilo diventò facilmente Julo progenitore degli Julii. Ciò spiegherebbe il fatto
del comparir di quel nome per la prima volta negli scrittori cesarei. C o m u n
q u e s i a d e l l ' o r i g i n e s u a , v e n n e u n g i o r n o c h e il
p o p o l o r o m a n o apprese per bocca di Caio Giulio Cesare, ch'esso avea
nel suo seno una progenie di Celesti,e che dalla morte di Romolo in poi essa
avea camminato fuori del diritto divino, nel cui sentiero era ora chia mato a
ritornare. Il giorno in cui Cesare, essendo questore,recitò dalla tribuna del
Foro il panegirico di sua zia Giulia, fu decisivo per le sorti di Roma e del
mondo. Fu là che egli annunzið al popolo stupito,che
lasuafamigliaeraaduntempoprogeniedidèiedire.«Amitae meae Juliae maternum genus
ab regibus ortum,paternum cum Diis immortalibus conjunctum est.Nam ab Anco
Marcio sunt Marcii reges, quo nomine fuit mater, a Venere Julii, cujus gentis
familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum qui plurimum inter
homines pollent, et caerimonias deorum, quorum ipsi in pote state sunt reges »
(1). Quando Cesare recitò questa orazione non avea che 32 anni di e t à , e n o
n a v e a f a t t o a n c o r a il s u o i n g r e s s o n e l l a p o l i t i
c a m i l i t a n t e , comecchè avesse già coperto parecchie magistrature.Ma
l'uomo che avea osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e pro
clamare la origine divina della sua famiglia, avea già intuito il futuro e
divisato di rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno ,
infatti, lo vediamo stretto in lega con Pompeo , e (1) SVETONIO, Caes ., cap.
6. 196 MEMORIE F. BERTOLINI ORGINI ROMANE 197 avviato a
compiere il cammino trionfale che da Farsaglia lo con durrà a Munda, e metterà
nelle sue mani l'impero del mondo. Riassumendopertantolecoseinsinquidette,noteremo,che
se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta
per antichità la leggenda semplice,riferitada Antigono,che Roma avesse avuto
per fondatore un eroe eponimo progenie di ce lesti, e cioè, che fosse nata nello
stesso modo in cui l'antichità si figuró l'origine di tutte le città
greco-italiche: che la leggenda ro mulea, sebbene nata sul suolo romano,
mostrasi nelle sue parti es senziali come il prodotto di una invenzione
riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di
nomi,d'instituti e di con suetudini antiche che si trovavano esistenti da tempo
immemorabile, senza che fosse stato riferito come avessero avuto nascimento :
che la leggenda troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie
greco-italiche e degli oracoli sibillini, fu introdotta nella leggenda romulea,
quando la boria destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in
cerca di origini fastose da sostituire alla ori gine volgare trasmessa loro dai
maggiori. E come la discendenza di Enea era stata creata per soddisfare
l'orgoglio di un popolo con quistatore, cosi essa fu scaltramente usufruita da
Giulio Cesare per legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non
meno interessante della fusione delle due leggende troiana e romulea,per mezzo
della quale si spiegò l'ori gine della città di Roma,è quello che concerne la
formazione del suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione
in un modo semplicissimo. Romolo, dopo che ebbe per la morte di Tito Tazio
raccolta nelle sue mani la sovranità sui socii Sabini del Settimonzio, parti il
popolo in tre tribù, e pose a ciascuna ilnome del duce che aveala capitanata.
Ai suoi pose pertanto il nome di Ramnenses ; ai seguaci di Tazio il nome di
Titienses, e a quelli diLucumone,cheavealoaiutatonellaguerra contro iSabini,il
nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne at tribuisce una
propria a ciascuna tribù.I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini ; i
Titienses di Tazio sono Sabini, e iLucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però,
se la tradizione è concorde ri spetto alla origine dei due primi nomi, non lo è
rispetto a quella III. del terzo. Il Lucumone di Cicerone
diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo dignitario
e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di Ardea. Queste
va rianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa co desta
tradizione. Livio se la sbriga, dicendo il nome dei Luceri di incerta origine.
Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine dei Luceri
, la filologia dichiara impossibile la d e rivazione dei Ramni da Romolo,
avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei nomi
sarebbe cosa di poco interesse, quando ad essi non si annettesse la origine
della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il nome
della terza tribù ro mana, si è prodotto come testimonio della origine etrusca
di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione romana
uscisse fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, e fosse
quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi abbandonata
(1), e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza etrusca
deiLuceri,non arrestandosiaquestoresultamentonegativo,hapur risoluto
positivamente la questione, dimostrando che iLuceri devono essere
tenutiincontodiunaschiattalatina;ondelanazionero mana sarebbe stata composta di
due elementi etnici omogenei , il latino e il sabino, ramificazioni entrambi
del gran ceppo italico,che (1) Prima della pubblicazione della Storia Romana di
A. SCHWEGLER,l'origine etrusca dei Luceri era ammessa dalla maggior parte degli
storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati:Feodor Eago, Untergang der
Naturstaaton,1812,pag.181,195.
WACHSMUTH,AeltereGeschichtedesrömischenStaats,1819,
GÖTTLING,GeschichtederrömischenStaatsverfassung,1836,p.55.—
USCHOLD,Geschichtedes trojanischen Krieges,1836,pag.347.– KORTÜm,Römische
Geschichte,1852,pag.41. BECKER,Hand bruch der römischen
alterthümer,1853,II,18,38,135. WALTER, Geschichte des römischen Rechts,
1845,I,II. SCHÖMANN,DeTulloHostilio,1847,p.8.-
P.U.(P.UCCELLI),Altrevistesugliantichi popoliitaliani,Cortona,1853,p.172.–
A.VANNUCCI,Storiadell'Italiaantica,Fir.,1863,I,pag.392.
L'originelatina,anzialbana,deiLucerièammessadalNiebunR,RömischeGeschichte,I,315—-
dallo SCHWEOLER,Römische Geschichte,I,505,515 –dalNIEMEYER,De
equitibusromanis,p.9esegg. BREDA,Centurie-VerfassungdesServiusTullius
dalKLAUSEN,AeneasunddiePenaten- 198 MEMORIE pag. 197. -dal
RömischeAlterthümer,dritteAuflage,I,99. IlMommsen
silimitaadosservare,nonesseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere la origine
latina dei Luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären), sagen,als
das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine
latinischequeGlelmaeidnidaendare in cerca Röm .Gesch., I,43. L'Ihneinvece
èscettico,edicecheèfaticasprecata dall'ag del vero su una questione nella quale
le fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla g i u g n e r e u
n ' o p i n i o n e n u o v a a q u e l l a d e g l i a n t i c h i , R ö m . G
e s c h ., L e i p z i g , 1 8 6 8 , I , dalLANGE, parer nostro, che l'Ihne non
ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna qualche cosa
da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere chiarito il
significato del nome di questa terza tribù.Luc-ere vuol dire risplendere;Luceri
equivarrebbe adunque ad illustres:equestoap pellativo ben si addice alla
nobiltà di Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria, fu trasferita
nel Settimonzio ed ebbe per sua stanza il Celio. Cid dimostra,a F.
BERTOLINI ORIGINI ROMANE 199 immigroinItaliadopoiljapigicoeprimadeiRaseni.Noi
diremo gli argomenti coi quali si impugnò la origine etrusca dei Luceri ; indi
ci faremo a dire quelli coi quali si dimostró la loro origine latina, e la loro
provenienza da Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la
origine etrusca dei Luceri non è che una mera presunzione, mancante di una tradi
zione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali,che pas sati sotto
il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati fu
somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza tribù
e quello di Lucumone , che è titolo gentilizio e dignitario presso gli
Etruschi. E come il nome del colle Celio si è voluto spiegare derivandolo da un
duce etrusco per nome Cele Vibenna,ilquale,secondo alcuni (Varrone),altempo di
Romolo, secondo altri (Tacito), al tempo di Tarquinio Prisco, sarebbesi sta
bilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio; cosi il
nome Luceri che portavano gli abitanti del Celio si spiego per mezzo del titolo
di Lucumone che portava il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in
quanto che fu desunto dalla ubica
zionegeograficadiRoma,quasicheilfattodeltrovarsiRoma in mezzo a tre schiatte
diverse, generar dovesse necessariamente l'ef fetto, che essa componesse la sua
cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi fossero
rappresentate tutte pro porzionalmente. A questo concetto subbiettivo si
contrappone vitto riosamente per ciò che riguarda il contingente etrusco, il
famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso latissimo che esso acquisto
e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo che gli Etruschi erano
caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Te vere avea cessato di essere un
confine politico. In verità,che se gli Etruschi avessero dato a Roma un
contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto diverrebbe uno
strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica dei
due Stati, romano ed etrusco, quanto alla differenza di nazionalità,ay vertita
e vivamente sentita nella lingua, nelle istituzioni politiche e civili, e nei
costumi dei Romani. Ma se i dati estrinseci su cui fu eretta l'ipotesi della
origine etrusca dei Luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove
intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità.Queste prove si de sumono
dalla lingua e dalla religione dei Romani. È ovvio,che se gli Etruschi avessero
dato un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso la
lingua latina dovrebbe somministrare 200 MEMORIE
lachiaveperdecifrareleinscrizioni etrusche,edessastessado vrebbe contenere tale
copia di voci etrusche da assumere il carat tere di una lingua mista, ossia, di
una lingua formata di due diversi organismi ; ma nè il latino aiuta a spiegare
l'etrusco, nè nella co stituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun
vestigio di miscele eterogenee;chè,anzi,la caratteristica peculiare della
lingua latina è la straordinaria uniformità della sua struttura; lo che attesta
la uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame
delle istituzioni religiose diRoma.SeiLucerifosserostatiunatribù
etrusca,lareligione romana conterrebbe traccie di divinità e di culti
etruschi,come ne presenta di divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento
successivo della terza tribù alle due prime dovesse avere per effetto la mutua
comunicazione dei rispettivi culti, come cið era avvenuto prima fra i Ramni e i
Tizii, ossia fra Latini e Sabini. Ora, la religione ro mana non presenta una
sola divinità e un solo culto che vesta un carattere etrusco. Anche lo stato
d'inferiorità, in che,rispetto alla tribù dei Ramni e dei Tizii,trovasi la
tribù dei Luceri,portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio
Prisco esclusi dal Senato, contraddice alla ipotesi che i Luceri entrassero fin
dal l'origine di Roma a formar parte del primo popolo,e compissero di questo la
compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato
d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e na turale, quando ammettasi
che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e
che quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore
aggregazione dei Luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità
dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio (IV, 1, 31): «HincTatiesRamnesqueviri,Luceresquecoloni».—
Nonmancano poi le prove dirette, dimostranti che i Luceri , oltre ad essere e n
trati posteriormente nel consorzio dei Romani e dei Tizii,sono pure di origine
albana. Tito Livio (II, 33), parlando degli stanziamenti condotti dal re Anco
Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegnò ai vinti Latini per sede
quel colle, perché gli altri quattro, il P a l a t i n o , il C a p i t o l i n
o , il Q u i r i n a l e e il C e l i o (il V i m i n a l e e l ' E s q u i lino
furono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) erano già popolati
; e cioè, il colle Palatino dai Romani primitivi, ossia dai Ramni ; e il
Capitolino e il Quirinale dai Sabini, e il Celio dagli A l b a n i . O r a , s
e q u e s t i u l t i m i e b b e r o p e r l o r o s t a n z a il C e l i o ,
n o n saprebbesi davvero dove collocare iLuceri,quando non siammet
F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 201 tesse che i Luceri e gli Albani fossero la
stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei Luceri, ha messo
in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi
etnici,anzichè di tre,il latino,cioè,e ilsabino.Questa composizione spiega il
carattere che distingue la nazione romana dalle altre na zioni italiche. Questo
carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che parevano fatte apposta
per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceverà la
frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della
patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il
duro cemento che i Sabini apporteranno all'edifizio romano (1). Se nel sabino
prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di
sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il se condo non è radicale.
E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina derivò quel lento,
ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che formd di essa
la più grande creazione politica della civiltà antica (2). Ma le tribù dei
Ramni, dei Tizii e dei Luceri non formano t u t t o il p o p o l o r o m a n o
. A c c a n t o a l o r o c o m p a r i s c e , c o m e p a r t e c o stitutiva
di esso popolo,la plebe,la quale,dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di
semi-dipendenza dal primo popolo , ossia dal patriziato, fini col prevalere su
di esso, ed obbligarlo a seguire la sua via. Ora, come sorse questo ceto
sociale? Ecco il terzo problema che ci proponiamo di risolvere in questo breve
nostro lavoro (3). (1) I Romani non erano ignari di questo prezioso patrimonio
che avevano ricevuto dai Sabini. Ce lo attesta Catone per bocca di Servio : «
Sabinorum mores populum romanum secutum Cato dicit ». SERVIO a d E n ., V I I I
, 6 3 8 . (2)Vedi Devaux,Étudespolitiquessur lesprincipauxévénementsdel'histoireromaine,Paris,1880,I,25.
(3) La quistione dell'origine della plebe fu studiata particolarmente dallo
STRESSER, Versuch über die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld,
1832. PELLEGRINO, Ueber den ursprünglichen Reli gionsunterschiedderPatricierundPlebejer,Leipzig,1842.
-lune,Forschungenaufdem Gebieteder
römischenVerfassungsgeschichte,Frankfurta.M.1847.
KRUSZYNSKI,DierömischePlebsinihrerpo litischenEntwickelungvom
UrsprungebiszurvölligenGleichstellunngmitdenPatriciern,Lemberg,1852.
SCHWEGLER,Römische Geschichte,I,628. TOPHOFF,Depleberomana,Essen,1856.
WALLINDER, De statu plebejorum Romanorum ante primam inmontem sacrum
secessionem quaestiones,Upsaliae,1860. - Lange, Verbindung der plebs mit dem
patricischen Staate (nei Römische Alterthümer, Berlin, 1876, 1 , 4 1 4 ).
IV. Gli storici antichi erano affatto all'oscuro intorno il fatto
della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero era che
la plebe erasi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il patriziato:
da ciò la definizione negativa che essi davano della plebe, chiamandola il ceto
in cui gentes civium patriciae non insunt.Perqualviapoil'antagonismo
fossenato,oinaltriter mini, come la plebe avesse avuto origine,ciò essi
riguardavano come una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda
l'idea che fossemai esistito uno Stato romano senza plebe;onde per loro era un
assioma, che patriziato e plebe fossero nati e cresciuti insieme collo Stato
romano. Contro questa presunzione stava però il fatto, non considerato, della
condizione giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del
patriziato, la quale attestava che essi non erano nati insieme nè allo stesso
modo. Accanto alla plebe,trovasi, cioè,neiprimi tempi delloStato romano,laclientela,caratterizzata
e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua dipendenza. Mentre la
dipendenza della plebe avea un carattere impersonale e comprendeva
ilcetonellasuageneralità,quelladellaclientelaimpe gnava giuridicamente
l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò esso nomavasi
cliente (da cluere, klúeiv, dipen dere),in quanto che fosse ascritto alla gente
di un patrono,e da questo dipendesse. Che se nel giure politico plebei e
clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa condizione negativa ;
nel giure privato, la condizione loro era assai diversa. Il cliente nè
possedeva del proprio, nè poteva stare in giudizio; mentre ilplebeo possedeva s
u q u e s t o c a m p o p i e n a p e r s o n a l i t à g i u r i d i c a ( c i
v i t a s s i n e s u f f r a g i o ); di guisa che, quando per la costituzione
di Servio Tullio, il censo divenne il fattore del diritto di suffragio,questo
diritto iplebei con s e g u i r o n o , m e n t r e i c l i e n t i n e r i m a
s e r o o r b i c o m e p e r il p a s s a t o ( 1 ) . Ora, questa differenza
esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché
ritenendo,che l'origine loro fosse,rispetto al tempo e al modo, diversa. La
clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima
rispetto alla seconda dimostra che la forza, che creò la sottomissione dei due
ceti, eser citò sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su
quelli ridotti in istato di plebeità. (1) Perchè il cliente conseguire potesse
iljus suffragii faceva mestieri che il dominium ,che egli te nevacome
peculium,glifosse assegnatocomeliberaproprietàexjure
Quiritium.Ilqualeattoequiva leva in certo modo ad una manumissio censu .
202 MEMORIE F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 203 Ora, se l'istituzione
della clientela è più antica che quella della plebe, è forza cercarne l'origine
nella prima conquista che frutto ai Ramni
edaiTiziiildominiodelSettimonzio.Gliabitantiprimitivi di quella regione devono
avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste
vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse,
rispetto agli ef fetti sociali, forte differenza. Se la prima non produsse che
dei clienti e degli schiavi, le successive produssero particolarmente dei
plebei. Già l'interesse politico consigliava i conquistatori a tempe rare verso
i nuovi vinti il rigore dell'antico jus gentium ; e noi non abbiamo memoria
della piena applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia (1). E
se alle famiglie imperanti fosse pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra
le genti romane, traducen dole sotto la loro clientela, la monarchia dovea
opporsi a questo uso della conquista che avrebbe con pregiudizio della regia
potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi
erano poi questi vinti? Erano Latini : appartenevano, cioè, a quella stirpe che
avea coi Ramni formato il nucleo della cittadi nanza romana ; erano dunque
connazionali dei Romani. Che se co storo aveano avuto pei vinti Albani tale
riguardo, da ammetterli nel loro consorzio religioso e politico, perchè
vorrassi ammettere che verso gli altri popoli latini,sottomessi pure colle
armi,applicas sero in tutto il suo rigore il diritto della guerra? E ove pure
si ammettesse che questo rigore fosse usato, come ci renderemmo ra gione del
sorgere di questa plebe e della importanza sociale che venne improvvisamente
acquistando, così da presentarsi come un potente appoggio della monarchia, e da
ricevere da questa servigi e beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più
vasto orizzonte? Non dimentichiamo che questi plebei son Latini.La tradizione
stessa ci dice quando e per opera di chi i popoli del Lazio caddero sotto
ladizionediRoma.La distruzionediAlbaLonga,eiltramuta mento dei nobili Albani
nel Settimonzio , portarono per effetto lo scoppio di ostilità fra le città
latine, erettesi a vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretendeva,
come conquistatrice di Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede
della sua (1) Livio ci ha trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli
attinse verisimilmente dai C o m mentarii Pontificum : « Rex interrogavit:
dedistisne vos populumque Conlatinum,urbem ,agros,aquam, terminos, delubra,
utensilia, divina humanaque omnia in meam populique romani dicionem ? Dedimus
». Livio, I, 38. La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista
di Storia Italiana. egemonia sulla confederazione latina. La
grossa guerra scoppiò sotto Anco Marcio.Non èdubbiochequesti,primadiscendereincampo,
approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che
sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per r o m pere il fascio
con promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere
ragione della sua facile e completa vittoria.Ora che cosa fece Anco Marcio di
questi nuovi vinti?Gli storici antichi ce lo apprendono in modo chiaro : «
Ancus Marcius, dice Cicerone (1), quum Latinos bello devicisset, adscivit eos
in ci vitatem».ELivio,completando ilraccontodiCicerone,osserva che Anco segui
rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum , onde anche allora parecchie
migliaia di Latini furono introdotti nellacittadinanzaromana:«tum
quoquemultismillibusLatinorum i n c i v i t a t e m a c c e p t i s » ( 2 ). N
o n c i c u r i a m o d e l r a c c o n t o t r a d i z i o n a l e ,
chefamaterialmenteintrodurredaAncoinRoma questivinti,eas segnare ad essi per
sede il colle Aventino e la valle Murcia . In questo racconto,laprolessistoricaèmanifesta:chesappiamo
in modo in contestabile,chefinoallafinedelIII°secolodiRoma,l'Aventino fu
disabitato (3). Ma lasciando da parte questo particolare, ciò che va
considerato nel racconto tradizionale è il fatto della cittadinanza c o n cessa
da Anco Marcio ai vinti Latini. E perchè, nè questa era la prima guerra
combattuta vittoriosamente da Roma contro i Latini,e nemmeno era la prima volta
che della vittoria fosse fatto quest'uso; ne emerge,e Livio avvalora
l'induzione nostra,che se laconquista di
Ancodiedeilmaggiorcontingentealcetoplebeo,essanon neinizio la formazione, come
suppose ilNiebuhr,seguito in cið dallo Schwegler, dal Lange e da altri. Il
Bonghi, per ora si limita a dire, che non credechela plebedovesse lasuaorigine
adAnco,e promette,che «procurerà altrove di esporre donde sia nata l'opinione
di una condottarispettoa'vintineirediRoma,cosidiversa da quella che per molto
tempo appare propria della città nel seguito della sua storia ».E perchè insin
d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di
cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti sul
gravissimo tema della ori (3) Lo fece abitare la « les Icilia de Aventino
publicando » dell'anno 298. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il
quale attesta di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di
bronzo che sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox ., X , 32 .
204 MEMORIE (1)DeRep.,II,18,33. (2 ) L i v ., I , 3 3 . F.
BERTOLINI ORIGINI EOMANE 205 ginedellaplebe romana rimane più fortemente
sentito.Comunque sia perd dell'opinione del Bonghi su ciò, noi rimaniamo saldi
nella nostra,laquale,oltreadavereilsuffragiodellefonti,hapure insuo favore la
condizione sociale da cui la romana plebe fu costituita. Il plebeo romano è
agricoltore; egli non è nè commerciante nè indu striale;queste arti,che
nell'antichità erano assai meno considerate
dell'agricoltura,sonoprofessateinRoma peculiarmente daiclientie dai
liberti.Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata
dallatradizioneinpiùmodi.Ora,essacidiceche Servio Tullio,per poter avere
l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono,
chiamòincittàirurali,eperboccadiCatone ci dice,che gliagri coltori formavano il
nerbo della fanteria romana (1). Ma un testi monio che serve per tutti, è
l'antica istituzione che le adunanze plebee,ossiaicomiziitributi,non
sipotessero tenere cheneigiorni di mercato (nundines), e che ogni proposta di
legge dovesse pubbli carsi tre giorni di mercato (trinundines) prima di essere
messa a partito (2) Anche la condotta tenuta dalla plebe nella sua lotta col
patriziato conferma questa condizione sua.Gli storici qualificano siffatta con
d o t t a c o l l e p a r o l e m o d e s t i a , v e r e c u n d i a e p a t i
e n t i a ( 3 ). S o n o d o t i codeste che appariscono più proprie di coloro
che attendono alla col tura dei campi, che di coloro che praticano l'industria
e il com mercio (4). E se le contese sociali di Roma non degenerarono in ( 1 )
« E x a g r i c o l i s v i r i f o r t i s s i m i e t m i l i t e s s t r e n
u i s s i m i g i g n u n t u r » , C a t o n e , D e r e r u s t i c a , P r a
e f ., $ 4 . (2) MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia , I, 16, 34 : « Rutilius scribit
Romanos instituisse nundinas, ut octo quidem diebus in agris rustici opus
facerent,nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque acci piendas Romam
venirent,et ut scita atque consultafrequentiore populo referrentur,quae
trinundino die proposito a singulis atque universis facile poscebantur ». (4)
Ci sia permesso di riportare su l'influenza educativa dell'agricoltura un brano
di una conferenza che tenemmo nel 1881 all'Esposizione Nazionale di Milano, col
titolo : L'industria nei suoi rapporti colla civilta. «Gli
economisti,dicevamo,sogliono distinguereduespeciedilavoro:quellocheagiscesullecose,e
quello che agisce sugli uomini. Questa distinzione non è esatta. Se tolgasi il
lavoro puramente intellet tuale,ogni altro agisce ad un tempo su gli uomini e
su le cose;questa duplice azione viene esercitata sopratutto dall'agricoltura e
dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti ritrarremo la ragione psico
logica del nesso intimo che esiste fra l'industria e la libertà. «
L'agricoltore riguarda la terra come fonte unica della ricchezza ; essa è per lui
una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo affezionato al
suo suolo, ivi fissato in istabile sede,ed unito in pacifico consorzio co' suoi
conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra che lo nutre
nacque ilprimo concetto di patria,come dai
consorziigeneratidall'agricolturaebberooriginoiprimi Stati. « Ma la terra, come
dicemmo, non è per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un
mistero. E questo lato misterioso sarà una sorgente feconda di superstizioni,
che egli porterà facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori
contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia e D e
mostene,chelanottedel27agosto413a.C.ricusaronodilevareilcampoda
Siracusaerifugiarsia (3)Livio,III,52. 3:V,25,12. CICERONE,de
Rep.,II,36,61. Riassumendo pertanto le cose dette intorno la
formazione della plebe romana,diremo,che sebbene la genesi di quel ceto non
possa esserechiaritaintuttiisuoiparticolari, tuttavia hannosi datiposi
tivi,iquali rilevano di che elementi fosse formato, e la ragione po litica che
indusse i vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha
esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che la
istituzione della clientela precedette quella della plebe, e ci spiegano il
diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè
quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare, erano agricoltori
dell'Attica. E l'es sere essi rimasti in quel luogo portò per effetto lo
sterminio della flotta e dell'esercito ateniese,e la ro vina di Atene. « Del
resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano
che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia
avvenuto il fatto della moltiplicazione sua. mentre questo evento che ogni anno
si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico,
dinaturadeleteria,gliriempionol'animodisgomentoediterrore.L'uragano
cheglidevastailcampo; la grandine che gli distrugge le messi, gli appariscono
mandatarii di forze arcane che gli fanno la « Dallo stesso principio che aveva
dato nascimento alle gerarchie ipercosiniche ebbero origine le ge rarchie
sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un
altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico
d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e
comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che
la sua pace. « Quanto diverso è il magistero civile che si consegue
dall'industria ! Anche l'industriale ritrae dalla
naturafisicalamateriadelsuolavoro.Ma
questamateriainluogodiessereperluiunmistero,èinvece una rivelazione. Essa gli
rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i pro
dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni,ma può anche sorprendere isegreti
di essa e svelarli.Si, l'intelligenza gl'insegna,ch'egli può perfino combattere
contro la natura,ora congiungendo mari da lei divisi, ora atterrando baluardi
da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora sopprimendo colla vaporiera e
coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può chiamarsi servo della natura,
l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai possibile che quest'uomo, al
quale l'impero della natura è troppo grave,possa rassegnarsi a sopportare
l'impero di un suo simile ? » 206 MEMORIE guerre civili, come avvenne in
tutti gli altri Stati dell'antichità con jattura della loro libertà, cið fu
particolarmente dovuto al carattere longanimeepazientedellapleberomana,laquale,convinta
delsuo diritto, lasciò che il tempo ne facesse maturare la coscienza anche nei
suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi per essere più
sicura della vittoria domani. guerra , e contro le quali egli non sa
difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla sommes
sione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è riposta
quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due specie
divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra negli
abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e
malefiche della na
tura.Createlespecie,erafacilecreareunasimbolica,permezzodellaquale
spiegareidiversifenomeni e momenti della natura fisica. In questa simbolica
vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno della
fecondazione terrestre. I Latini simboleggiarono quel fenomeno in una festa
nuziale divina chesirinnovava ognianno
nelmesedidicembre,quandolanaturasiraccoglieinsè,eserbainistato latente le sue
forze per ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i
Saturnali, la più popolare delle feste romane, durante la quale era concesso
anche agli schiavi di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì
ai Saturnali la nascita del Cristo,e non poteva collocare in migliore luogo la
comparsa dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali
davanti a Dio. F. BERTOLINI ORIGINI ROMANE 207 La clientela sorse
colla conquista del Settimonzio, ossia,colla for mazione del primo Stato ; e
clienti diventarono i prischi abitatori di quella contrada. La plebe surse
invece col primo sviluppo che con seguì lo Stato romano fuori del Settimonzio,
nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu fatta cogli Albani, e fu
eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba Longa possedeva verso le
città della lega latina. Sia la riverenza che tributar si volle all'antica
metropoli;sial'interessepolítico,che consigliavalalarghezzaverso i vinti
Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad accomodarsi alla
nuova padronanza ; e l'una e l'altra ragione por tarono per effetto, che gli
Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio religioso e
politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non poteva essere
usata verso le altre città la tine, e cið per più ragioni. Prima di tutto, va
considerato il carat tere d'inferiorità che, rispetto alla loro importanza, si
manifesta fra esse città e Roma.Se eccettuisi Alba Longa,che ha una posi zione
privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste son tutte sul piede
di una piena eguaglianza vicendevole ; e però, nes suna di esse poteva invocare
dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando privilegi anteriori che
non erano stati posseduti. Però, se la eguaglianza delle città vinte fra loro
non dava luogo a sperare che iljus gentium non sarebbe stato applicato verso di
esse in tutto il suo rigore, vi erano altre ragioni che creavano questa
speranza, la quale ebbe poi nel fatto sua piena conferma. L'una di queste
ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma,
dovesse la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione
di un'assemblea, non poteva dimenticare che dal Lazio erano partiti i suoi
primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio , essa avea tolto i suoi costumi e le
sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Al bani, la
latinità di Roma ebbe rafforzato il suo contingente,onde avvenne che i rapporti
morali fra lei ed il Lazio si facessero più forti e più sentiti. I quali
rapporti non poterono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria
trasse le città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse
monarchico concorse a mitigare la sorte dei vinti. Importava ai re di rivolgere
a loro profitto questa novella forza che ora introducevasi nello Stato, per
potere col mezzo di essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del
patriziato. Cosi, pel concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi,
i vinti Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non
furono ascritti nel consorzio gentilizio come i nobili Albani , ma non vennero
nemmeno degradati allo stato di clientela. Diven tarono invece plebe, che vuol
dire massa disorganizzata (da pleo, plenus); ma non sarà lontano il giorno, che
essa conseguirà pure un organismo suo ; e allora il nome non rappresentando più
la cosa, non le rimarrà che come ricordo storico. E sarà il giorno, in cui, per
opera di Servio Tullio,al principio teocratico che cinge in nome del diritto
divino di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il
principio timocratico, che aprirà quella cerchia per attribuire il privilegio
al censo. Fu questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato;
dopo di essa,la espugnazione della fortezza diventava quistione di arte
strategica, che è a dire, qui stione di tempo. Bologna,giugno 1884. FRANCESCO
BERTOLINI. 208 MEMORIE M a se la plebe nel suo nascere non avesse posseduta
la persona litàgiuridicacheimplicavailjuscommercii,essanonavrebbe po tuto
pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la
riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata
la ragione politica di crearla.Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution,
self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical
illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758754166/in/dateposted-public/
Grice e
Genovesi – logica pei giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione
del Genovese). Filosofo. Grice: “I like Genovesi.” Grice: “Genovesi is a
good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per gli
giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi
reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in
that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates
taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly
the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not
teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is
possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate
that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to
actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for
something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.”
– and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice:
“Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any
writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the
natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation
and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and
sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a
palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Figlio di Salvatore, calzolaio e
piccolo imprenditore, e di Adriana Alfinito di San Mango. Il padre lo indirizza
in tenera età verso gli studi. E affidato agli insegnamenti di Niccolò Genovese,
un congiunto, medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in filosofia
peripatetica per due anni e in quella cartesiana per un anno. Nel corso degli
studi filosofici, si innamora di Angela Dragone. Questo amore non trovò
l'approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il
figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri
Agostiniani dove seguì gli insegnamenti filosofici di Abbamonte, appassionandosi
al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno dove incontra Doti, dal
quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si trasferì a Napoli, dove
intraprese dapprima la carriera forense, che lasciò presto. Fonda una scuola
privata di metafisica e teologia. A Napoli fu in contatto con Vico e ottenne la
cattedra di metafisica. Alcune sue posizione contenute in “Elementa Metaphysicae”
furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento
dell'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, e di Benedetto XIV per
conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lascia l'insegnamento
della metafisica a Napoli, per passare all'etica, cattedra che era stata tenuta
in passato da Vico. L'evoluzione dalla metafisica- all'etica prosegue con
il passaggio all' “economia” quando si compì la trasformazione 'da metafisico a
mercante', come egli stesso ebbe a scrivere nella sua autobiografia. Insegna'commercio
e meccanica, con fondi privati da Intieri, la prima cattedra di economia di cui
si abbia traccia in Europa, se non consideriamo cattedre di economia quelle
istituite negli anni venti Professorei n Prussia nell'ambito della tradizione
camerale. Il suo lavoro come economista è stato quello più fecondo, tanto che
Genovesi divenne un autore fondamentale. Si diffondevano in quel tempo i primi
accenni di rivolta allo spirito e al costume della Contro-Riforma: gli spunti
di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa
dell'autonomia di un sato laico contro ogni interferenza del cattolicesimo, ai
primi elementi di una teoria delle monarchie illuminate e del regime
paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una
critica più aperte e coraggiose. In pratica, fu l'inizio della vera
rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il
segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente
i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, la
filosofia politica di Genovesi e decisamente di tipo riformatore, un anglofilo
sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso tra
idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori
religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo panorama
culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti il
concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo stato
di "oscurità" (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les
Lumières). Prese coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale
dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità
di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi
splendori. “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici
e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi,
feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non
pensare più a queste materie.» Per tale motivo, abbandona la metafisica e
si dedica all’economia affermando tra le altre cose, che l’economia deve
servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene
che per favorire il benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e
la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue
lezioni in italiano. Docente di economia politica, occupa una cattedra
istituita appositamente per lui di “commercio e meccanica” a Napoli da Intieri.
Soggiorna più volte nel palazzo proprio di Intieri a Massaquano per lunghi
periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e lì
infatti scrisse alcune sue opere. Sostiene che anche le donne e i
contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento
fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di
conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini
e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi
all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i
mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono
esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come problemi di
debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria. Il suo pensiero economico
è espresso in Lezioni di commercio o sia di economia civile e considerate una delle prime opere di
filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune riforme fondamentali:
dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del protezionismo
governativo su commerci e industrie. Tenne sempre le sue lezioni in
italiano grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere
stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i suoi corsi e per
essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in
italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo studio
dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento Genovesi è
ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo
un mezzo di incivilimento. Altre opera: Lezioni di commercio (Milano,
Fondazione Mansutti). Altre opera: Elementa metaphysicae mathematicum in morem
adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi
dell'arto logico-critica, Venezia) Meditazioni filosofiche; Lettere
filosofiche; Lettere Accademiche;
Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della
diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto; Delle Scienze
Metafisiche per li giovanetti 1767; Altre opere da ricordare sono La logica per
i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari,
che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato
dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo
pugliese. Corpaci, F., Antonio Genovesi; note sul pensiero politico,
Giuffrè, Peter Jones, Reception of David Hume in Europe, Continuum, Palatano,
Rosario; Genovesi, Antonio. Antonio Genovesi: teoria del commercio, LUISS
University Press,.Antonio Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 10 maggio.
Lucio Villari, Il pensiero economico di Antonio Genovesi, Le Monnier, Chines,
Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di Genovesi, Pensiero
politico, Davide Alessandra, Antonio Genovesi: uno dei padri dell'illuminismo
meridionale, su historiaiuris.com,. M. Bonomelli (a cura di, Quaderni di
sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede
bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa,
Luigino Bruni, Voce "Antonio Genovesi" in Il Pensiero Economico
Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani. Luigino Bruni e Stefano Zamagni, Economia
civile, Il Mulino, Bologna,. A. M. Fusco, Antonio Genovesi e il suo
mercantilismo "rinnovato", in A. M. Fusco, Visite in soffitta. Saggi
di storia del pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Giuseppe
Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, G.
Genovese, Contro le "Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere
accademiche di Antonio Genovesi, L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau:
le autobiografie di Antonio Genovesi, L'acropoli, D. Ippolito, Antonio Genovesi
lettore di Beccaria, Materiali per una storia della cultura giuridica, C.
Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio
Genovesi, Rivista storica italiana, M.L.Perna, Eluggero Pii e l'edizione delle
opere di Antonio Genovesi Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di
Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e
sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di Antonio Genovesi
nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero politico: rivista di storia delle
idee politiche e sociali, Wolfgang
Rother, Antonio Genovesi, in Johannes Rohbeck, Wolfgang Rother: Grundriss der
Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, Italien.
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motrici dello sviluppo sociale, «Studi Storici», E. Zagari, Il metodo, il
progetto e il contributo analitico di Antonio Genovesi, Studi economici, 2V.
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dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
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Genovesi, sConferenza Episcopale Italiana.
Opere di Antonio Genovesi / Antonio Genovesi (altra versione), su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Genovesi,. Luigino Bruni, Genovesi, Antonio, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Saverio Ricci, Genovesi,
Antonio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. 13 novembre. Corrado Barbagallo, Antonio
Genovesi, Estratto da: Rassegna Storica Salernitana. Antonio Genovesi 1 2
non è uno di quei filosofi, che fanno compiere un passo innanzi al
pensiero filosofico. A paragone del grande Giambattista Vico, che si
gloria di aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue
opere con profondo rispetto : , il Genovesi apparisce come uno di quei
mille ammiratori, più o meno sinceri, che il Vico ebbe tra i suoi
contemporanei e tra gli uomini più illuminati delle generazioni
successive; i quali ebbero un certo sentore di alcune teorie di lui,
concordanti o no con dottrine congeneri di altri pensatori e da
annoverare tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i
problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire, non ebbero
senso. Se pertanto nella storia del pensiero il Vico rappresenta quello
che egli rappresenta a’ nostri occhi di storici che han penetrato il
significato di quei problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una
de¬ viazione. Quella vena speculativa altissima nello scolaro
1 Discorso tenuto al Teatro Verdi di Salerno, il 17 gennaio 1932,
ì n occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione del
Genovesi. 2 « L’illustre Giambattista Vico, uno de’ fu miei
maestri, uomo d’immortai fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di
Comm., Napoli, 1783, IX, p. 12; parte II, c. I, § 5); «Il nostro Vico
nella Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste
ma¬ terie [su Omero] facciano onore all’ Italia » (Logica e Metafisica,
Mi¬ lano, Classici italiani, 1835, p. 208. Cfr. ivi, p. 331).
72 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA è
inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando gli ardui
argomenti con cui s’era cimentato. Ma il paragone col Vico
storicamente non è giusto. I due pensatori in verità appartengono a
due piani storici, da uno dei quali non si passa all’altro
direttamente. Se il Genovesi non ebbe occhi per vedere i problemi
del Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per vedere
quelli del Genovesi. Uomini di tempra diversa, con diversi interessi
spirituali, si può dire che il maestro abbia pensato sempre al cielo, e
lo scolaro alla terra. L’uno non si guarda mai attorno se non come
uomo privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla sua
scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si assorbe tutto,
estraniandosi affatto dai pensieri, dalle gioie e dai dolori della vita
quotidiana. Dove non sono in verità gli attori del dramma che egli ama
studiare e nel cui studio concentra infatti le energie più potenti
della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coe¬ tanei come
l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non è di questo mondo.
Quantunque il suo animo, propria¬ mente, sia a questo mondo legato così
strettamente come nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con
sguardo penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente a
intendere il significato, e in questo mondo appunto agogni con titanico
sforzo a conquistarsi razionalmente, col pensiero, un suo posto. Ma
questo mondo egli vuol vederlo sub specie aeterni, come mondo che è
sempre lo stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti
sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con immutabile
legge. L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita
intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città e nelle
campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli, per tutta Italia, e di là
dalle Alpi. L’istruzione del popolo e l’educazione dei giovani;
l’agricoltura e il com- ANTONIO GENOVESI 73
mercio; l’economia del Regno, e i problemi della feudalità e della
manomorta; il problema della moltitudine degli ecclesiastici eccessiva in
rapporto alla popolazione; e poi la questione giurisdizionale e l’ardente
lotta anticuria- lista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte
le questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del
tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui la pubblica
opinione s’interessava. E poiché i paesi allora alla testa della cultura
europea erano insieme Inghilterra e Francia, e i libri che si
pubblicavano in quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco
quelle lingue, insieme con le classiche, a cui il Vico si era
limitato, studiate e possedute con animo pronto a seguire il movi¬
mento della letteratura straniera in ogni campo di ri¬ cerche filosofiche
e sociali. Allargato quindi enormemente l’orizzonte. Non più quel
carattere antiquato e accade¬ mico della scienza tradizionale, nel cui
cerchio si muove ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’
suoi problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione) E la
modernità segna la fine di quel chiuso provincia¬ lismo, onde lo
scrittore napoletano si era sentito sempre cittadino di Napoli. Genovesi
guarda più in là del Garigliano e del Tronto. Egli si sente italiano; e
come italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura.
Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo tradizionale
dell’accademia fratesca e teologizzante e dell’angusta provincia, e
respira largo, apre le finestre della scuola della letteratura e del
pensiero, e vive nel tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini,
tutti, al sapere e al lavoro dell’ intelligenza. Siamo, come
dicevo, in un piano diverso da quello della pura filosofia. Qui si può
dire che la filosofia ri- nunzii alla sua propria forma, e quasi si
annulli per risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più
profonde. Ciò che è tante volte avvenuto nella storia; 6 -
Gentile, Albori. I. 74 ALBORI DELLA NUOVA
ITALIA e avviene continuamente nella vita. Il pensiero sale,
sale, si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e cor¬
pulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana, per ridiscendere
tosto al concreto della realtà che con quell’astrazione ha cercato di
definire e più perfetta¬ mente possedere: alla realtà che è corpo e
fantasma, e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto
dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di ogni esistenza
e di ogni luce. Il progresso è pur sempre in certo modo regresso; e se si
volesse andare avanti, avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel
vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare la
terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come l’Anteo della
favola, da gigante che ha già la forza per rialzarsi: che ha, in altri
termini, un certo grado di co¬ scienza filosofica. 2. —
Vogliamo sentire dallo stesso Genovesi qual fosse il suo ideale di
cultura ? Basta leggere un suo Discorso sopra il vero fine delle lettere
e delle scienze, che nel 1753 pubblicò innanzi a un Ragionamento sopra i
mezzi più necessari per far rifiorire Vagricoltura dell’abate
Montelatici, quasi per giustificare la nuova via per cui egli si metteva,
dopo aver anche lui pubblicato i suoi libri di Logica, di Me¬
tafisica e di Teologia in lingua latina. In questi stessi libri, per
altro non è difficile scorgere le tendenze innova¬ trici del Genovesi e
il carattere dominante del suo pen¬ siero filosofico, del quale ci
proveremo qui appresso a dare un sommario cenno ; ma ancora non è
avvenuta la radicale conversione per cui la mente dello scrittore,
dopo che ebbe trovato negli studi economici e sociali una ma¬ teria
più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma storica, e ritrovò
propriamente se stesso. In questo Discorso il Genovesi propugna una
sorta di filosofia « reale », com’egli dice, e cioè pratica ed
appli- ANTONIO GENOVESI 75 cativa: come
dire una filosofia non propriamente specu¬ lativa e filosofica; e prende
a partito tutti i più celebrati filosofi della tradizione e le loro
dottrine. Esalta bensì la ragione come quella che << più di tutte
le nostre doti ci rassomiglia a Dio », « la sola cosa, per cui l’uomo
si solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la ragione, «arte
universale » governatrice di tutte le arti e strumenti onde l’uman genere
arricchisce la vita e viene ogni dì perfe¬ zionando il sistema dei mezzi
diretti ad accrescerne il benessere. Ma ne addita nelle astratte
speculazioni e schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati
appunto dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose,
sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e l’ammirazione
dei semplici e a procacciare una riputazione fallace. «
Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto so¬ gliono più stimare
quel che meno intendono, i dialettici ed i metafisici. I don Chisciotti
della repubblica delle lettere, combattenti con gli indistruttibili
giganti delle chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo
ingegno, loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usur¬
parono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale, che
riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti la Grecia, e ne’ secoli
assai più vicini buona parte del- 1 ’ Europa ». Eppure, la
prima e più antica filosofia era stata una « filosofia tutta cose ». I
più antichi filosofi erano stati i legislatori, i padri, i sacerdoti
delle nazioni, studiosi di etica, economica, politica; persuasi
anch’essi, al pari di tutti i buoni cittadini, che, « come partecipavano
a’ comodi della società, così dovevano aver parte alle cure e alle
fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i tempi di
corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio fosse un nobile e
onorato mestiere. E quindi la genia infi¬ nita di coloro che sono «peste
del vero sapere e della 76 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA
virtù»; «i quali si credettero nati o per garrire inutil¬ mente, o
per disputare di cose inintelligibili, o per met¬ tere empiamente in
ridicolo le sante ed utili cognizioni, le leggi ed i precetti della
giustizia e dell’onestà ». Ven¬ nero i grammatici (oggi diremmo i
critici) « interpreti de’ sogni dei poeti, o mercanti de’ propri»;
vennero i metafisici, «Penelopi della filosofia, implicati in
disciorre quelle tele, che eransi tessute colle loro mani » ;
verniero i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla
ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie gittavan del
negro, sotto cui il vero e il falso prendesse un sol volto ». Socrate, —
il gran Socrate, di cui fu detto che richiamò la filosofia dal cielo in
terra e a cui infatti gli uomini devono di sapere che tutto quello che si
vuole intendere essi non lo possono cercare se non nel pensiero,
cioè in se medesimi, — dal Genovesi non è ricordato qui se non come colui
che insegnò la più ricca e la più bella possessione dell’uomo essere
l’ozio. Dei suoi scolari non gli giova menzionare altri che Aristippo e
Diogene il Cinico, corruttori del costume. Di Pitagora a scherno
ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e l’omeomeria di
Anassagora, e le astratte forme di Platone e le entelechie di Aristotele;
ed altre cosiffatte «bambole di ragione » degli altri più celebrati
filosofi. Che dire poi della filosofia medievale ? Non si può
leggerne la storia « senza aver pietà della debolezza del- l’ingegno
umano ». Poveri scolastici ! «Vestono corazze di carta, che stimano del
più fino metallo; e combattono con i mulini a vento, come con i Giganti
distruttori del- l’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del
nostro mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa, fuor
che di ciò che ci appartiene o c’ interessa ». In questa caricatura
della storia della filosofia super¬ fluo avvertire lo strazio che il
Genovesi fa delle più im¬ portanti dottrine dei maggiori pensatori.
Voglio solo rife- ANTONIO GENOVESI
77 rire in proposito un altro periodo, tipico documento degli
stravolgimenti storici di questa invettiva, e insieme dello spirito che
la moveva:«La materia prima, che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco
dagli Arabi, fu di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di
Abelardo, e di alcuni altri, che divenne una Divinità, la quale poi
il più empio e il più freddo de’ filosofi del passato secolo, si studiò
di adornare con un sistema geometrico ». Allu¬ sione a Spinoza, che pure
Genovesi aveva studiato con grande interesse ’. « Alle quali
cose quante volte io penso », conchiude il nostro filosofo, « forte mi
meraviglio, come gli agricoltori, i pastori e tutti gli altri coltivatori
delle arti per cui l'uman genere si sostiene, abbian potuto tollerare in
pace una razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo ri¬
schiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’ frutti della loro
industria godevano, pare che si ridessero delle loro fatighe, o che gli
riguardassero come animali di altra specie, fatti da Dio in forma umana per
servire a’ loro piaceri ». Lode a Bacone, che proclamò la
necessità di ristaura- zione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò
che « si poteva essere filosofo con assai gloria, senza essere peso
inutile agli altri uomini ». Lo studio della natura, l’esperienza, « gran
maestra delle utili cognizioni », la geometria « nutrice di tutte le arti
» vennero in grande onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ebbe
il suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestavano. L'Italia
ebbe Galileo. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a questa nuova
scienza, forse perché con maggior vigore questa potesse irrompervi a
rendere più glorioso il rin- 1 Cfr. la sua lettera dell' u sett.
1756 a R. Sterlich; dove racconta come potè studiare, quando aveva 28
anni, 1 ’Etica di Spinoza: Leti, fam., ed. Napoli, 1788, I, 124.
78 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA novamento
che il Regno, ristaurato dal primo dei Bor¬ boni, doveva promuovere.
Genovesi ha qui un concetto che rammenta l’hegeliano spirito del mondo. «
Egli è veramente un certo Genio, che discorre per le nazioni, e che
in dati intervalli le anima, e le raccende, quello che o primamente mena,
o estinte ravviva le lettere e le belle arti ». Ma questo Genio, secondo
il Genovesi, « vuol essere sempre accarezzato, sollecitato e
alimen¬ tato. Può dirsi che la curiosità, la più utile molla del-
l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la gloria l’animi e gli dia
della grandezza, l’emulazione l’aguzzi e ’l rinforzi: ma certamente il
premio il sostiene e l’ali¬ menta ». Insomma, il rinnovamento del
pensiero richie¬ deva a Napoli le più propizie condizioni create
dalla nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno. Grande
infatti il progresso già avvenuto in Napoli, delle arti, delle scienze,
della ragione che le alimenta. Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie »
(prisci vestigia ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori.
La ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è ancora tutta
nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e nelle mani. È bella, non è
operatrice; adorna, non utile. Bisogna che diventi pratica e realtà; come
può solamente quando « tutta si è così diffusa nel costume e nelle
arti, che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza
accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la cogni¬ zione è
tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la materia, ed in Dio non
ci sono Enti di ragione»: cioè le astrattezze che si annidano nel
cervello dei filosofi. I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio
delle leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici:
questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita. Tutta una
forma di sapere, in cui, insomma, secondo il Genovesi, c’è forza bensì e
intelligenza; ma non c’è cuore; e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi,
il senso scien- ANTONIO GENOVESI 79
tifico; e gl'ingegni si credono più grandi quando sono ammirati come
incomprensibili, che quando stimati come utili. La pratica dell'
insegnamento (insegnava già egli da sedici anni) aveva dimostrato al
Genovesi che Napoli era un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i
migliori ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di di¬
gerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla « ciarleria », troppo
ancora se ne compiacevano per fare il debito onore alle scienze sode,
feconde, che avevano già trasformato la cultura inglese, francese,
olandese. Sacrifichiamo dunque « una volta la seduttrice e vana
gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio della parte più
grande degli uomini, i quali ci vogliono men contemplanti e più attivi.
Dio ha fatto a tutti il divin dono della ragione perché intendiamo, che
il vero sapere non è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ».
Esso deve giungere al popolo. Il quale ha bisogno di essere illu¬
minato, e non seguito nella sua naturale ritrosia alle novità, ancorché
utili, e nel suo attaccamento tenace alla tradizione. Deve essere indotto
a profittare delle osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere
in¬ gentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi
operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli uomini, sì con
la « savia educazione e coltura di questa sì preziosa derrata dell'uomo,
da che egli comincia a sbucciare dal suo guscio ». Curare
l'educazione. È uno degli articoli principali dell’apostolato del
Genovesi 1 ; poiché i contemporanei, a suo giudizio, curavano più i «
testi di fiori » e le piante 1 Sulla educazione e istruzione popolare
vedi Lez. di Comm., parte I, cc. VI e Vili; e Logica, ed. cit., pp.
271-72. Senza educazione «oltre¬ ché non è possibile, che la popolazione
si aumenti.... ma, pure dove avviene che cresca, la repubblica si potrà
ben dire aumentata di semi¬ uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm., t.
I. p. 121). 8 o ALBORI DELLA NUOVA ITALIA
peregrine che avevano per avventura ne’ loro giardini, che non i
figli. E raccomandava la massima diligenza nella scelta dei maestri,
poiché molto, a suo giudizio, mancava per questa parte il Regno di
Napoli. Bisogna sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato:
« I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’ur¬ banità e
l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti d’onore: sovente i loro
moti, gesti, tuono di voce e tutto il lor volto, che suol esser lo
specchio dei ragazzi, spira tutt’altra cosa che gentilezza: la loro
lingua è più fre¬ quentemente un gergo corrotto de’ vari dialetti del
nostro Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: final¬
mente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro e il più santo ?
Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar assai più la memoria de’
loro allievi che la ragione e il cuore. Un solecismo o barbarismo in
lingua latina è da loro più severamente punito, che molti a’
gentiluomini sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi
di ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano e fanno
dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono senza misericordia,
e gli trattano più da servi, che da figli: tutte cose più atte a fare o
stupidi o villani o zotici e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel
sapere, nelle virtù, nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben
anche spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito
dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli esseri
ragionevoli : che i fanciulli si curan colle mazze». 3. — Un
filosofo che parla questo linguaggio umano, familiare, e che pensa come
s’è veduto, dei filosofi e dei loro sistemi, evidentemente non è un
filosofo di professione. Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire
più e meglio dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente
an¬ dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle
ANTONIO GENOVESI Si che sono le idee e le maniere
per loro più rispettabili e venerande, con così scarso interesse, anzi
con tanto fa¬ stidio verso le questioni che formano il nutrimento e
il vanto dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in
mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori,
spontaneamente o per necessità, appena se ne presenti l’occasione.
L’abate Genovesi, nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognis¬ santi
del 1713 *, fu avviato quattordicenne agli studi di filosofia da un suo
stretto congiunto, che gli insegnò per due anni filosofia scolastica e
per un terzo anno filosofìa cartesiana (filosofìa di moda allora nel
Napoletano); quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato
ad apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini minori nel 1730,
promosso suddiacono nel settembre '35. Chiamato questo anno a insegnar
rettorica nel seminario di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo
conto con gran fervore ; finché nel '37 sarà ordinato prete J'e
un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno appresso a
Napoli, per appagare in quella Università e nella consuetudine degli
illustri letterati della metropoli la sua sete ardentissima di sapere. A
Napoli frequentò molti corsi; tra gli altri, fino al *41, quello di
Giambattista Vico; di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva
già da un anno letta la Scienza Nuova : « Il perché corse ad ascoltarlo;
a cui avendo dedicato la sua servitù, ebbe l’onore della sua amicizia » 1
2 . Insoddisfatto della filosofìa che s’insegnava, disegnò programmi
suoi, e aprì una sua scuola privata; finché nel '41 il Cappellano
Maggiore monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo,
gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università Meta¬ fìsica. Aveva
letto Malebranche, Locke, studiato Spinoza 1 Note di A. Cutolo
alle Memorie autobiogr. del G., in Ardi. stor. nap., 1924, p. 261.
2 Cutolo, Noie cit., p. 260. 82 ALBORI
DELLA NUOVA ITALIA e Leibniz; e dettava agli alunni, come volevano
i rego¬ lamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero
gli Elementi di Metafisica in lingua latina, in cinque tomi; il
primo dei quali pubblicato nel '43, pel metodo geometrico con cui la
dottrina era esposta (metodo, si sussurrava, caro ai protestanti), per le
novità che conteneva, per le con¬ cessioni che faceva al razionalismo,
per quello scetticismo moderato che vi dominava, procurò all’autore ire e
per¬ secuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di
contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il suo animo dagli
studi che rimanevano in Italia, e sopra¬ tutto nel Mezzogiorno, monopolio
quasi esclusivo dei frati. Ma ecco che nel '44 il Galiani gli
viene in aiuto pas¬ sandolo dall’ incarico di Metafisica alla cattedra
ordinaria di Etica : insegnamento più conforme all’ ingegno del
Genovesi, e da lui infatti tenuto per un decennio con grande efficacia
per l’eloquenza delle sue lezioni, la mo¬ dernità della dottrina, la
ricchezza e praticità delle que¬ stioni trattate. Pure alla Metafìsica nel
'45 s’aggiungeva in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in
latino. E queste opere si ristampavano e si diffondevano in Italia
e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore nel '65 poteva scrivere a un amico :
« La Metafìsica (mia) fatta pei teo¬ logi e frati, non può piacere ai
fìsici e ai matematici, come neppure piace a me. E con tutto ciò, la
Logica e la Meta¬ fìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e in
quasi tutte le scuole di Germania» '. Avevano fortuna; poiché
questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel loro andamento
eclettico e largamente informativo ben s’adattavano alla tendenza media
degli studiosi non ri¬ solutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi
nella tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera
1 Leti, jam., II, 67. ANTONIO GENOVESI
83 e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come si
vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche i due libri De
iure et officiis (1764) eran nati dalla scuola e per la scuola (in usum
tironum) ; e del pari altri due brevi compendii latini di Logica ('5 2) e
di Metafisica (’68). Ma quando al Genovesi sarà possibile avere una
scuola a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pub¬
blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non scriverà più
latino. Che gioia quando fu istituita per lui, nell’ Università, la
cattedra di « Commercio e Economia », fondata dal suo vecchio amico,
facoltoso e autorevole, il fiorentino Bartolomeo Intieri, studioso di
macchine agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla
toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora il Genovesi si
sentì davvero maestro, e veramente filosofo. Grande l’attesa nel
pubblico per il nuovo insegnamento ; ma potente altresì l’estro del nuovo
insegnante e l’im¬ peto e il calore della sua eloquenza. Quando il 5
novembre del ’54 tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento
nella vita del Genovesi e nella storia non soltanto della cultura
napoletana ma della scienza europea. Poiché que¬ sta del Genovesi fu la
prima cattedra istituita in Europa di Economia politica: dovuta,
s’intende, non al semplice intuito d’un privato ma al movimento degli
studi che la situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto.
In una lettera dello stesso mese il Genovesi scriveva a un amico 1 : «
Nel dì 5 corrente feci il mio discorso pre¬ liminare, 0 sia l'apertura
alla nuova Cattedra del Com¬ mercio con uno straordinario concorso,
tuttoché io non avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza
niente aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto di
quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto con applauso, e
subito diffuso per tutta la città. È stata Leu. falli., I,
108. 84 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA bella
! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto lor dire, che dopo
averlo letto n’aveva perduto anche l’originale.... Il giorno seguente
cominciai a dettare. Grande fu la meraviglia in sentir dettare italiano ;
sicché, essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione
dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar di fronte il
pregiudizio delle scuole d’Italia.... La scuola è stata sempre piena in
guisa che molti non ci hanno trovato luogo ; ma la maggior parte sono
uditori di barba, e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento.... Gran
moto è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domanda¬
vano libri di economia, di commercio, di arti, di agri¬ coltura ; e
questo è buon principio ». Da questo corso, che il Genovesi
proseguì finché le forze gli bastarono (morì il 23 settembre 1769, ma
un anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la cat¬ tedra),
trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia di Economia civile
in due volumi (1766 - 67), che rimar¬ ranno tra le opere classiche della
nuova scienza: opera riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di
amore del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istru¬
zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬ mercio della Gran
Bretagna di John Cary con un Ragio¬ namento del Commercio in universale e
lunghe e impor¬ tanti annotazioni del Genovesi sul commercio del
Regno, e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso
scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue opere latine.
Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche, che arieggiano quelle di
Cartesio; ed ebbero l’ammira¬ zione del Baretti 1 ; e del '59 le Lettere
filosofiche ; come 1 Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 2 0
numero della Frusta Letteraria (15 ottobre 1763): dove il Baretti giudica
il libro con questi termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, 1932, I,
p. 40) : « Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella
nostra lingua, io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli
del Galileo, ANTONIO GENOVESI 35
del '64 le Lettere accademiche. Nel '65 imprese a scrivere in italiano un
Corso di filosofia. E volle scriverlo per i giovani (com’egli stesso
faceva sapere a un amico) « che son curiosi di sapere se le scienze
potessero così parlare italiano come una volta parlarono greco e latino.
Il mo¬ tivo che mi muove, è una massima, che può stare che sia
falsa, ma 1’ ho nondimeno per vera, cioè che ogni nazione che non ha molti
libri di scienze e di arti nella sua lingua è barbara ». Perciò in
Francia nell’età di Luigi XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia
in francese. Perciò aveva seguito l'esempio l’Inghilterra. E
altrettanto si cominciava a fare in Germania. Dove non si scrive nella
propria lingua, dice il Genovesi, si accenderà magari mi lume grande e
brillantissimo, ma questo resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni
da antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi raggi »
1. E nelle stesse Lezioni di Commercio inculcava come
che sia tanto pregno di pensamento e di vera scienza quanto è questo
primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo pen¬ satore
Antonio Genovesi ». Al Baretti non andava lo stile del Genovesi,
seguace della scuola toscaneggiante del Di Capua: «Una cosa però
disapprovo in lui asso¬ lutamente, e questo è lo stile suo.... perché
troppo a studio intralciato e rigirato si, che non poche volte abbuia il
pensiero. — Com' è pos¬ sibile, ho detto tra me stesso mille volte
leggendo queste sue tanto stimabili meditazioni, — com’è possibile che un
uomo il quale è una aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un
pollo quando si tratta di esprimere i suoi pensieri ? Come mai un
Genovesi ha potuto avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra
di certi secchi e tisici uccellacci di Toscana ? Eh, Genovesi mio,
adopera gli abbin¬ dolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa
quando ti verrà ghi¬ ribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche
cicalata, qualche insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno;
ma quando scrivi le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente
la penna....; e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’ Galatei, e
in altri tali spre¬ gevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché
e i perocché.... e tutte quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che
tanti nostri muffati gram- maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il
non plus ultra dello scri¬ vere ». 1 Cfr. la pref. alla
Logica italiana. 86 ALBORI DELLA NUOVA
ITALIA « certissimo assioma politico » che una nazione non
sarà mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti, nelle
maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i libri di arti
parlanti la propria lingua; perché ella dovrà dipendere da una lingua
forestiera; la quale, non essendo intesa che da una picciolissima parte
del popolo, tutto il resto sarà fuori della sfera del lume delle
lettere.... Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre idee
e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere in un paese
uomini, e aver la ragione in un altro ? ». 1 * 3 Finché in un paese le
scienze saranno in un gergo stra¬ niero alla maggior parte del popolo,
avremo sempre, dice il Genovesi -, « molte scuole inutili, molto tempo
perduto, molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie,
né ha possibile di avere delle buone teste ». Con questo ideale di
una scienza che penetri il popolo per svegliarne e metterne in moto tutte
le forze morali ed economiche, il Genovesi voleva scuole e quando
furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica istruzione ed
egli a tal fine invitato a scrivere un Piano di riforme 3, non dimenticò
nelle sue proposte le scuole del popolo —; voleva metodi razionali e
semplici perché fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c
ai giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vec¬ chia
letteratura e le discussioni vane della filosofia in¬ feconda, si
rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle arti più necessarie alla
vita; e voleva, come sè visto, libri in italiano, attraenti e di facile
lettura. Ma aveva pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il
popolo dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle
coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne 1
Parte I, c. Vili, § 24. = Op. cit., I, IX, p. 13. 3 Per
questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. ga¬ lanti, Elogio
stor. di A. Genovesi, Firenze, 1781, p. 108. ANTONIO
GENOVESI 37 è sempre il fondamento, potesse aprire la
strada a quel rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere
negli uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli era
l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era in¬ somma ispirato a una
filosofia. Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati
di Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contempo¬ ranei e
più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edi¬ zione che della Logica
volle curare, nel 1832, il Roma- gnosi), sono entrati a far parte della
letteratura filosofica nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi
non ri¬ cerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e
prepararono. Il Genovesi è un empirista t , ma non e un sensista,
e tanto meno un materialista. Combatte le idee innate, ma
cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto, e la ragione, che
l’uomo che medita trova in se stesso come attività sovrana, libera,
signoreggiatrice, col suo giudizio, dell’universo, vede conforme a una
ragione creatrice universale, divina 1 2 . L’uomo per essa è immor¬
tale. Per essa destinato a vincere il dolore, a superare ogni difficoltà,
a viver felice. Questa ragione infatti non è fredda astratta
intelligenza. Essa è energia ( energetico , dice Genovesi) perché è anche
passione, cuore i. Non 1 Come empirista, Genovesi, pur non
ripudiando ogni metafisica, insiste sempre sulla necessità di limitare le
ricerche speculative alle questioni essenziali per una concezione sana e
morale della vita. Insi¬ stenza che ha fatto pensare al criticismo
kantiano. Vedi Gentile, Stona della filos. ital. dal Genovesi al
Galluppi, Milano, Treves, 1930, c. I’ dov'è particolarmente studiata la
dottrina della conoscenza di Genovesi. Oltre i luoghi ivi citati (voi. I,
p. xm), e le frequenti di¬ chiarazioni che ricorrono nelle Lettere
familiari circa 1 infecondità delle più astruse ricerche metafisiche e
teologiche, vedi Logica, ed. cit., pp. 250-51, 255. Notevole in special
modo la lett. del 2 aprile 1763 a P. Saffiotti. , 2
Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, 1846, pp. 53 -° 3 .
Logica, p. 252. 1 Vedi Logica, pp. 260, 274-75.
83 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA distrugge la passione;
una passione infatti si combatte con un’altra passione. E poiché ogni
essere è ragione, e soffre e aspira a godere, essa, non essendo
individuale, ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore
gli uomini. Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una
concezione leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche
per Genovesi i corpi, scomposti negli elementi semplici di cui sono
formati, si riducono a sostanze spirituali, attive. E tutte le qualità
sensibili dei corpi non sono altro che fenomeni, nostre sensazioni.
Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in tutte le
cose che sono in natura, e che tende ad espandersi. In noi questa forza
si svela nella ragione, che è prima di tutto coscienza, affermazione di
sé. Questa forza è attiva e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il
suo dominio, a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo
svol¬ gimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere è
cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è benessere in cui lo
spirito viene ritrovando e procuran¬ dosi le condizioni più favorevoli al
suo sviluppo ; è amore degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene
adempiendo in comune il destino della sua natura, la libera vita
della ragione. Questa la fede del Genovesi. Questa la sorgente
dell’en¬ tusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo
dalla cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,
infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il segreto della
potente azione da lui esercitata sul suo tempo, promovendo nuovi studi,
animando i giovani alla lotta contro il vecchio mondo: contro la
feudalità in fa¬ vore dei lavoratori della terra e della nascente
borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il
pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la religione;
contro tutto ciò che nel pensiero e nelle isti- ANTONIO
GENOVESI 89 tuzioni impedisse 0 ostacolasse il libero
sviluppo del lavoro, della civiltà, della ragione. Antonio
Genovesi non fu un rivoluzionario; ma fu un educatore di rivoluzionari,
che quando scoppierà in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di
obbe¬ dire alla voce del vecchio maestro accogliendone una
scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso incendio della
Repubblica Partenopea, celebrazione di una grande fede idealistica
ancorché astrattamente gia¬ cobina, santificata dal martirio 0, uomini di
grande accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco, con più
profonda intelligenza dell’ insegnamento del Genovesi, ne trarranno
argomento a una più realistica concezione politica della libertà
necessaria al popolo napoletano: poiché vedranno come il maestro aveva
veduto, che questa libertà non poteva essere vitale, se non era
forte della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno Stato
infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva unirsi tutta in un
corpo solo tra l’Alpi e il mare. Questa idea di un’ Italia
unificata dal Galanti, il più fido dei discepoli del Genovesi, passò al
Cuoco, e dal Cuoco, come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era
stata preconizzata a Napoli dal Genovesi. La cui com¬ memorazione io non
potrei meglio concludere che rileg¬ gendo una sua pagina del 1757, a
proposito della sicurezza necessaria al commercio, e impossibile senza
una fiotta militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno
di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente Stato d’Italia:
«Vorrei io», scriveva nel detto anno il Genovesi, «in questo luogo dire
un pensiero, che ho sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo
tut¬ tavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male 1
Sulla scuola del Genovesi e la sua importanza storica, A. Simioni, Le
origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, voi. I, Mes¬
sina, Principato, 1925, pp. 152-99. 7 - Gentile, Albori. I.
90 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA presso
coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutri¬ scono per l’Italia, come
madre nostra. Ma il dirò pure in qualunque parte sia per prendersi da chi
non guarda più in là del proprio utile. « A voler considerare
l’Italia nostra, e dalla parte del suo sito, e da quella degl’ ingegni, e
per quello che ha ella altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e
come dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le na¬
zioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo clima non può esser
più bello, né più acconcio il suo sito rispetto alle terre e al mare che
la circondano, né più perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e
di arti e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della
vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è dunque, ch’ella
sia non solo rimasta tanto addietro al- l’altre nazioni in tutto ciò, che
par suo proprio, ma dive¬ nuta in certo modo serva di tutte quelle che il
vogliono ? Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le
con¬ quiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa mor¬ bidezza,
che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta, non durò lungo tempo; ma
la vera cagione del suo avvi¬ limento è stata quell’averla i suoi figli
medesimi in tante e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il
suo primo nome e l’antico suo vigore. « Gran cagione è questa
della ruma delle nazioni. Pur nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se
quei tanti principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la
quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero, sperimentata e al
comune d’Italia e a se medesimi fu¬ nesta, volessero meglio considerare i
propri e i comuni interessi, e in qualche forma di concordia e di unità
ri¬ dursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire il
vigore degl’ Italiani. « Potrebbe per questa via aver l’Italia
nostra delle formidabili armate navali, e di tante truppe
terrestri. ANTONIO GENOVESI 91 che la
facessero stimare e rispettare non che dalle po¬ tenze d’oltremare, che
pure spesso l'infestano, ma dalle più riguardevoli che sono in Europa.
Ella non vorrebbe ambire altro imperio, che quello che la natura le ha
cir¬ coscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo.
Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e le industrie,
dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti nuovo abito e la
pristina bellezza prendere. Se questi sensi s’ispirassero ai pastori di
tutte le sue parti, forse che non sarebbe questo un voto platonico. E mi
pare che i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri
gelosi, che per massime vecchie che son passate ai posteri più per
costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi ch'erano: e quelle
cagioni di reciproci timori, che pote¬ vano una volta essere ragionevoli,
sono ora non solo vane, ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si
considerano. Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le
cose sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla
concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e vero interesse
suol riunire anche i nemici: non avrà egli forza da riunire i gelosi
? Rettor del Cielo, io chieggo Che la pietà che ti condusse
in terra. Ti volga al tuo diletto almo paese » ». Al
Genovesi dunque, il più filosofo dei grandi riforma¬ tori italiani del
Settecento, spetta il merito di essere stato il più italiano di tutti.
Egli scosse il petto dei giovani, e vi infuse una fede nella civiltà che
è scienza ed è libertà. Egli indicò agl’ Italiani 1 * Italia, che non
c’era, ma co- 1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna,
Napoli, 1757, II, p. 35. Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa
nelle sue Letture del Risorgimento Italiano. 92
ALBORI DELLA NUOVA ITALIA minciava a presentirsi, ed egli
l’annunziò, insegnando come le si potesse preparare la via. E la sua voce
si riper¬ cosse di generazione in generazione, finché l’Italia
venne. E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando la
letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammaz¬ zando l’accademia e
l’ozio ancorché dotto ed elegante, educando il popolo a credere nella
cultura, a servire l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.
Fulgido esempio i martiri del '99. Stato laico e veramente sovrano,
religione tutta rivolta alla vita dello spirito, libera da ogni cupidigia
e pretesa mondana; libera la ragione, rispettata come cosa sacra la
scienza, e la scuola che la promuove. E di là dal breve confine della
provincia, per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata,
consa¬ pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del
Genovesi. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome; perciò devono
annoverare Antonio Genovesi, lui così modesto, così riservato e chiuso
tra la scuola e i libri, tra i padri della patria. E nella scuola
italiana particolar¬ mente deve esser ricordato come esempio ed
ammonimento contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre
rina¬ scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita Antonio
Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e dal suo frizzo,
hanno cambiato veste, e non natura. E contro di essi bisogna ancora
combattere, ancora difendersi. Perciò Genovesi è vivo. GENOVESI,
Antonio. - Nacque il 1° nov. 1713 a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi),
piccolo paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito
dei quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo
benestante, era decaduta da "civile" in "basso" stato, e
viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola
proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e
socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella
società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione del G. alla
carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada
percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione
intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta
sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato
a parenti membri del clero locale, il G. compì i primi studi nel paese natio,
praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici
anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica,
per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di
un medico suo parente, Niccolò Genovesi, a sua volta allievo del medico
cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste
incompiute e inedite in vita (la prima si ferma al 1748: Autobiografia I, in P.
Zambelli, La formazione, pp. 797-916; la seconda al 1755: Vita di A. G., in
Illuministi italiani, pp. 47-83) ci trasmettono il ritratto di un adolescente
vivace, intelligente e ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità
intellettuale e desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica.
Nello stesso tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un
altro amico del luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta
la vita, per i poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il
nascere di un altrettanto intenso interesse per la storia. Ma il padre
sorvegliava attentamente che il ragazzo non si concedesse distrazioni. La
rigidezza paterna ebbe modo di manifestarsi più duramente quando il giovane si
innamorò, ricambiato, di una giovane compaesana, Angela Dragone. Per impedire
che questo amore cambiasse i programmi di vita del giovane, il padre gli impose
il trasferimento a Buccino (sempre non lontano da Salerno), in casa di parenti,
mentre la ragazza fu costretta al matrimonio con un pastore. Il G., pur
profondamente addolorato e deluso, trovò conforto nella maggiore apertura e
possibilità di contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto
e animato, gli offriva, e nell'amicizia con l'arciprete G. Abbamonte, che
migliorò la sua preparazione classica e stimolò l'interesse per la teologia e
il diritto civile e canonico. Nel settembre 1735 il G. prese gli ordini
minori. Nel frattempo, spinto dalla necessità di rendersi indipendente
economicamente, con l'appoggio dell'arcivescovo di Salerno G.F. Di Capua, che
ne aveva apprezzato le doti esaminandolo per il diaconato, ottenne
l'insegnamento di retorica presso il seminario della città, dove rimase due
anni. Ordinato sacerdote nel Natale del 1737, l'anno seguente, fornito del
modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il
fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale
del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene
solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di
intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere "poca
conformità […] con le massime del puro cristianesimo" (Vita, p. 53),
insofferente del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse
definitivamente gli studi filosofici. Frequentò le lezioni di N. De Martino e
dell'ormai anziano Vico - di cui già conosceva la Scienza nuova -, conobbe P.M.
Doria, si legò di amicizia con Appiano Buonafede, che lo descrive, in quei
primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo (Ritratti poetici,
storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia 1788, p. 266). Lasciò
inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica divina, per
rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici di
Cambridge, a J. Le Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal
francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Nel 1739 aprì una
scuola privata, in cui insegnare i suoi "nuovi piani di filosofia e di
teologia", in particolare il "piano di un'etica" (Vita, p. 53),
frutto delle riflessioni di quegli anni. Cominciò a maturare in
quest'esperienza - che durerà tutta la vita - la vocazione pedagogica che
caratterizzerà tutta l'attività del G. e che si realizzerà in un metodo
d'insegnamento dinamico, in cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del
docente sollecitava e promuoveva l'apprendimento in interazione costante con i
giovani. Il carattere innovativo e il successo della scuola gli procurarono
l'amicizia e la protezione di M. Cusano, di G. Orlandi e, soprattutto, del
cappellano maggiore C. Galiani, autentico iniziatore della nuova cultura
newtoniana a Napoli, fondatore dell'Accademia delle scienze e promotore della
riforma universitaria, da poco avviata. Attraverso il Galiani, il G.
ottenne il primo incarico universitario, come professore straordinario di
materie metafisiche, e cominciò a insegnare nel novembre 1745. Era nel
frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un "eclettismo
programmatico", che tendeva alla serena composizione di un costante
atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso i portati della
cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora curiosità. Ne dette la
prima dimostrazione nel manuale degli Elementa metaphysicae (Napoli 1743),
prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo di filosofia. Proprio
per queste caratteristiche, nonostante la sostanziale ortodossia e
l'approvazione del revisore regio G. Orlandi, l'opera fu duramente attaccata
dagli ambienti ecclesiastici. La protezione del Galiani e la disponibilità ad
accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix pubblicata nel 1744
salvarono il G. dalla denuncia al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua
notorietà a Napoli e fuori del Regno; divenne abituale frequentatore del
salotto letterario di M. Di Sarno, bibliotecario di José Joaquín marchese di
Montealegre (duca di Salas dal 1740), primo segretario di Stato. Le tesi
esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione di A. Conti, con il quale il
G. avviò uno scambio di lettere filosofiche sulla natura delle idee, stampate
nel 1746 (poi in Letterefamiliari, Venezia 1774). Nel 1745 il G. era passato
alla cattedra di etica, con buon successo per la rinnovata affluenza di
studenti. Nello stesso anno pubblicò, in collaborazione con G. Orlandi, cui si
devono le note scientifiche, gli Elementa physicae di P. van Musschenbroek, ai
quali premise una Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et
constitutione, agile e precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità
al presente. La manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora
all'interno di una visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la
visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la
platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo
manuale di logica Elementorum artis logico-criticae libri V(Napoli 1745), che
gli procurò gli elogi di L.A. Muratori, con il quale avviò un carteggio, quasi
totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e
più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro
determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre
il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale G.
Spinelli nel 1746. Nel 1747 il G. pubblicava la seconda parte della
Metafisica, dedicandola a Benedetto XIV con l'evidente scopo di garantirsi
un'autorevole tutela, e nel contempo portava a compimento la stesura del
manuale di teologia cui attendeva dai primi anni Quaranta: gli Universae
theologiae elementa. Quando, nel 1748, si rese vacante la cattedra di tale
disciplina, il G. ritenne di avere giusto titolo per concorrervi con buone
probabilità di successo. Ma la sua candidatura provocò violente opposizioni. In
base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate I. Molinari, la Curia
romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di Napoli ne affidò la
revisione a un gesuita spagnolo, G. Barba. Nonostante i suoi timori, anche
questa volta il G. riuscì a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in
virtù dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua
personale amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che,
sul piano dottrinale, si definiva "mezzo molinista" in materia di
grazia. Ma in questa occasione fu assai tiepido l'appoggio del Galiani, che gli
impose la rinuncia non solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato
della teologia e alla pubblicazione degli Universae theologiae elementa, provocando
la decisione del G. di abbandonare "studi sì turbolenti e spesso
sanguinosi" (Vita, p. 70). Il G. continuò a insegnare etica fino al
1753, mentre proseguiva il completamento della Metafisica con un quarto volume
(1752), dedicato al giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto
Pufendorf, il G. vedeva nel giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica
razionalmente e scientificamente fondabile, in grado di definire il quadro di
valori di una società mercantile, i cui problemi si venivano ormai collocando
al centro dei suoi interessi. La persecuzione di cui era stato oggetto, oltre
ad allargare la cerchia delle sue frequentazioni amichevoli a personaggi come
Raimondo di Sangro principe di Sansevero e F.P.B. De Felice, gli aveva offerto
infatti l'occasione di entrare a far parte del cenacolo che in quegli anni si
era venuto a creare intorno a B. Intieri. Ormai avanzato nell'età, questo
abile e fortunato imprenditore toscano, amico di C. Galiani e cofondatore
dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a poco dalle sue multiformi
attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e soprattutto nuovi esponenti
dell'intellettualità napoletana, come A. Rinuccini, G. Orlandi, F. Galiani, con
i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di discussione, tesa a
stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto con la cultura
internazionale, ma anche l'attività di collaboratori più giovani e la loro
concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il cenacolo
dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit des loisdi
Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza
l'autorappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante
nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare
loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di
modernizzazione. Vero e proprio manifesto del programma riformatore del
gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la novità
immediatamente percepita dai contemporanei, fu il Discorso sopra il vero fine
delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura dell'autunno
1753 nella villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno
seguente a Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per
far rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba
orobanche di P.A. Micheli. Il G. operava così la sua scelta di campo,
presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma e il più
attivamente impegnato nella sua realizzazione. Requisito indispensabile
per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica,
economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità
nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la
"studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da
speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di
idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio
dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva. A questa
istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne
rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università
di Napoli di una cattedra di "meccanica e commercio" - cioè la prima
di economia politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito
di 7500 ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che
essa venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana
e che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La
nuova cattedra fu inaugurata il 5 nov. 1754, con grande affluenza di pubblico.
Il G. presentò il nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel
Ragionamento sul commercio in universale, pubblicato in estratto nel 1756 e poi
in apertura della Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da John
Cary (Napoli 1757). Questo grosso centone in tre volumi conteneva pure la
traduzione dell'Essai sur le commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M.
Butel-Dumont (Paris 1755), i quali avevano a loro volta tradotto e aggiornato
l'Essay on the state of England di J. Cary (Bristol 1695), e la
traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's treasure of commerce di T.
Mun (London 1664), corredate dalle ampie e ricche annotazioni dello stesso G. e
da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico sulle forze e gli effetti delle
gran ricchezze e Ragionamento sulla fede pubblica) destinati a ricomparire
negli Elementi del commercio e nelle posteriori Lezioni di commercio o sia di
economia civile. Contemporaneamente il G. procedeva alla stesura del suo
corso biennale (1757-58) di Elementi del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano
gli Eléments du commerce di F.-L. Véron de Fortbonnais. Ambedue le opere
avevano un palese carattere propedeutico, non solo per i destinatari, ma in
certo modo per lo stesso autore, che nel suo sforzo di informazione e
acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in parallelo con i suoi
allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una duplice funzione:
definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica; tracciare le
linee di un programma di politica economica per il governo, nel quadro
dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia
istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il
cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di
letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche
condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi.
Sul primo versante i termini di confronto scelti dal G. furono la Spagna e
l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa,
per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il
modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le
strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa il G.
si documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa
nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale,
approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni
Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da J.-F. Melon a
Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, il G. articolava una
serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e
statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento
demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà
attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare
gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di
società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società
provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del
tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo
qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso
libero dai vincoli interni. L'adesione piena del G. alla liberalizzazione
del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave
carestia che colpì il Regno nel 1764, attraverso la pubblicazione
dell'Agricoltore sperimentato di C. Trinci (Napoli 1764) e delle Riflessioni
sull'economia generale de' grani (Napoli 1765; traduzione della Police des
grains di C. Herbert, Berlin 1755), da lui prefati e commentati. La fiducia
nella possibilità di realizzare le riforme si scontrava, tuttavia, con la
crescente consapevolezza della natura strutturale degli ostacoli che vi si
opponevano. La concentrazione delle terre nelle mani di una nobiltà feudale
ancora detentrice di poteri giurisdizionali e di un clero numericamente
eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la formazione di una
proprietà contadina, che ormai appariva al G. la condizione necessaria perché
si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure l'auspicata mobilità
sociale. Sono quindi i problemi della società civile quelli cui il G. guarda
con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della sua vita, che rappresenta
un'ulteriore scansione della sua attività. Tra il 1764 e il 1769 il
suo impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più
accentuata polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione
di maître à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero
infatti le consulenze per B. Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi
più scottanti del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai
trattati di commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di
studio per le scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della
battaglia giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle
decretali); per l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative
regie, per la lotta alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività
editoriale, relativa alla pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì
tutti gli aspetti della sua attività di studioso e di insegnante. Ne fece parte
un corso completo di "istituzioni filosofiche per i giovanetti", in
italiano, articolato nella Logica (Napoli 1766), nellaDiceosinao sia della filosofia
del giusto e dell'onesto (ibid. 1766), nelle Scienze metafisiche(ibid. 1767).
Contemporaneamente, il G. stendeva i Dialoghi morali e le note all'Esprit des
lois (pubblicate postume nel 1777). In questo contesto si collocano le
tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di economia civile, cui il G.
lavorò direttamente: le due napoletane, rispettivamente 1765-67 e 1768-70 e
quella intermedia del 1768, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle
Lezionifanno da contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due
edizioni delle Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli
scienziati o gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si
amplia a un riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che
nascono da questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più
compiuta di un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna,
attraverso la quale il G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali
della sua riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in
una sintesi complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni
intellettuali e politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti
recepiscono anche le spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche,
le Lezioni si presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un
vero e proprio "work in progress" di letteratura militante. Il
G. colloca le problematiche dell'economia in un più ampio quadro di
considerazioni sulla società, sulle sue dinamiche, esaminate negli aspetti
antropologici e psicologici, secondo una linea storicizzante alla quale
contribuisce con una sua versione della teoria stadiale, per approdare a un più
ampio affresco della situazione del Regno. Il confronto tra gli Elementi e le
tre edizioni delle Lezioni mette in luce l'evoluzione del suo pensiero sui temi
più caratterizzanti, dalla popolazione al lusso alla tassazione, e
l'intensificarsi della polemica antifeudale e anticuriale. Diventa centrale il
problema della comunicazione, elemento caratterizzante della società e del
vivere civile e di conseguenza della lingua, alla quale dedica anche una
riflessione teorica nella Logica, e dei mezzi, delle sedi, delle modalità
attraverso le quali essa può realizzarsi e costituire l'asse portante della
formazione dell'opinione pubblica. La morte lo colse a Napoli il 12
sett. 1769. Negli anni seguenti la sua opera fu oggetto di aspri attacchi
e di appassionate difese, culminate nell'Elogio storico dedicatogli dall'allievo
G.M. Galanti (Napoli 1772). Larga ma diversificata fu l'eco della sua opera
nelle altre aree d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna dell'edizione
milanese delle Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le successive
ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne apprezzata nella Lombardia
asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché considerata troppo
farraginosa e legata ai problemi di una società sottosviluppata. In Francia
l'annunciato progetto di J. Pingeron di tradurre le Lezioninon ebbe seguito. In
Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia del commercio(Leipzig 1788),
sia le Lezioni (ibid. 1776), a cura rispettivamente di A. Witzmann e di C.A.
Wichmann. Molto più ampia fu invece la diffusione dell'opera genovesiana, sia
filosofica sia economica, nella penisola iberica. In Spagna, infatti, apparve
una traduzione in castigliano delle Lezioni (1785-86), a cura di V. de Villava,
mentre nei paesi di lingua portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la
base dell'insegnamento universitario per tutto l'Ottocento. Edizioni:
Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi,
Milano-Napoli 1962, pp. 3-330; Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura
di G. Savarese, Milano 1962; Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e
dell'onesto, a cura di F. Arata, Milano 1973; Scritti, a cura di F. Venturi,
Torino 1977; Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese 1977
(rist. anast. dell'ed. Milano 1768); Scritti economici, a cura di M.L. Perna,
Napoli 1984; Se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere
accademiche, a cura di G. Gaspari, Carnago 1993; Lezioni di commercio o sia di
economia civile con gli "Elementi del commercio", a cura di M.L.
Perna, Napoli 1998; Dialoghi e altri scritti. Intorno alle "Lezioni di
commercio", a cura di E. Pii, Napoli 1998. Fonti e Bibl.: Le carte
genovesiane conservate si trovano a: Napoli, Biblioteca nazionale, ms.
XIII.B.39; ms. XIII.B.92; ms. XIV.B.53; Arch. di Stato di Napoli, Casa reale
antica. Diversi, f. 868; ibid., LII, Affari gesuitici, ff. 1297, 1298, 1302,
1304, 1307, 1473; Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena,
Carte Genovesi; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia pubblica,
Autografi, 164; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, 279, 291, 292, 372;
Arch. di Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e monete, n. 9. Inoltre,
copie manoscritte della Theologia sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale,
ms. III.16; Ibid., Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano,
Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata,
Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms. 340; Napoli, Biblioteca oratoriana dei
gerolamini, ms. M.XXVIII-210. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch.
stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio, b. 23; Ibid., Biblioteca
nazionale, Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi
Piancastelli; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B.231; Modena,
Biblioteca Estense, MC.103.1; Ibid., ArchivioMuratoriano, filza 65; Ibid.,
Autografoteca Campori; Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla;
Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mss. Lettere XLI.26. G.
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Settecento, A. G. e G.M. Galanti, Firenze 1926; Studi in onore di A. G., Napoli
1956; L. Villari, Il pensiero economico di A. G., Firenze 1959; A. Potolicchio,
Postille autografe inedite alla "Logica" di A. G., in Atti
dell'Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di
scienze, lettere ed arti in Napoli, LXXIII (1962), pp. 1-67; F. Corpaci, A. G.
note sul pensiero politico, Milano 1966; O. Nuccio, Un grande riformatore
napoletano. A. G.: scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a
Napoli nella seconda metà del XVIII secolo, Roma 1966; M. Agrimi, A. G. e
l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, XXII (1967), pp.
373-410; N. Badaloni, Antonio Conti, Milano 1968, ad indicem; M. De Luca, Gli
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eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal, XL (1997),
pp. 667-697; M.L. Perna, L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno
Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, Napoli 1998.Antonio Genovesi.
Genovesi. Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica,
scambio conversazionale --. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Genovesi: critica della ragione economica” -- per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51759585870/in/dateposted-public/
Grice e
Gentile – Enea all’inferno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taggia).
Filosofo. Grice: “It seems every philosopher has a catabasis – as Eneas did!”
“Falamonica spends a ‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like Falamonica – the
way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più
degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; /
dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is Socrates teaching
Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching Aristotle, and
Aristotle teaching Alexander!” Figlio di Pancrazio Falamonica Gentile e
Violantina Piccamiglio. Venne in contatto coll’astrologia. Compose i Canti,
poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla Commedia di
Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin colui, che fra’
mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e
batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario Biografico degli
Italiani. FALLAMONICA GENTILE, Bartolomeo. - Di antica famiglia genovese, che
negli anni 1460-1480 entrò nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è
l'origine del doppio cognome con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a
Genova, nella contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da
Violantina Piccamiglio. Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai
suoi studi. Il primo documento nel quale è nominato è il testamento del padre,
del 1469. In una data incerta della fine del sec. XV si trasferì in Spagna,
dove svolse attività mercantile. Durante il soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti
della rinascita del lullismo, partecipando alle attività della scuola di Jaume
Janer a Valencia. Fu promotore di iniziative editoriali, fra le quali la
pubblicazione del Liber artis metaphisicalisdello stesso Janer, una sorta di
summaenciclopedica del lullismo, stampata a Valencia nel 1506; dalla
dedicatoria apprendiamo che il F. studiò le dottrine di R. Lullo con Janer. Da
un'altra dedicatoria, quella di Alfonso Proaza, un altro importante membro
della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et
Homerii sarraceni del 1510, apprendiamo che il F. si era dedicato anche a studi
di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di
Lullo. Il F. fu inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì
l'influenza anche nei testi letterari di cui fu autore. Diciotto sonetti
di argomento religioso, appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana
fra XV e XVI secolo e nei quali è anche rilevabile l'influenza delle opere
poetiche di Lullo, furono pubblicati per la prima volta nell'edizione di
Valencia del 1514 del Cancionero general. Nell'edizione del 1520 del Cancionero
(quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce
homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un sonetto "de
trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les guerres dela
sglesia", cinque sonetti "en llor del glorios nom de Iesus" e
cinque sonetti "en llahor del nom dela gloriosa verge Maria".
Non si sa di preciso quando il F. rientrò a Genova, dove morì presumibilmente
in una data compresa fra il primo e il secondo decennio del sec. XVI. In
vecchiaia ("Lasciando a dietro il sessagesim anno") si dedicò alla
stesura di un poema, che ci è stato tramandato ed è stato pubblicato con il
generico titolo di Canti. In quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha
la funzione di proemio, il F. costruisce un poema dottrinale secondo il modello
dantesco del viaggio nei regni oltremondani. Ma la particolarità del testo del
F., cui non manca una certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è
data dall'aver scelto come guida del viaggio proprio Raimondo Lullo, il
filosofo cui aveva dedicato molti dei suoi studi durante il soggiorno spagnolo.
Nei quarantadue canti troviamo trattati i temi più caratteristici della
filosofia lulliana. I primi canti sono dedicati alla divisione e descrizione
dell'universo ("de' cieli, de' elementi, de' minerali, de' vegetali, degli
animali, dell'uomo, de' morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul
messaggio cristiano ("pronostico della cristiana religione, della divina
essenza, della generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo,
della natura angelica, della incarnazione, della concezione, della passione,
de' sacramenti, della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del
divino e mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della
fama"), e, in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni
dell'oltretomba ("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del
paradiso"). La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata:
ricordati negli Annali della Repubblica di Genova di Agostino Giustiniani, già
Uberto Foglietta nei Clarorum Ligurum Elogia lamentava l'inaccessibilità del
testo, che si credette perduto durante i secoli XVII e XVIII. Nel 1821 venne data
la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella Storia
letteraria della Liguria da Giambattista Spotorno. Dopo alcuni saggi di
pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non
particolarmente curata, a cura di Giuseppe Gazzino (Genova 1877). In questa
edizione i Canti sono accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre
sonetti In nome di Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel
Cancionero. Fonti e Bibl.: R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova
1687 (reprint, Bologna 1971), p. 49; (segnalazione in G. Spotomo, Storia
letteraria della Liguria, II, Genova 1824, pp. 189-204; Giorn. stor. della
letteratura ital., XIV [1889], p. 333); S. Caramella, B. G. F. (contributo alla
storia del lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi
e ricerche, Milano 1925, pp. 127-176; E. Levi, Un poeta italo-catalano del
Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, XXII (1936), pp. 681-685; M.
Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, II (1943), pp. 504
ss.; D.W. McPheeters, The Italian poet and lullist B. G. in XVIth century
Valencia, in Symposium, VII (1953), pp. 375-379; P. Zambelli, Il De audito
cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze 1965, p. 127; L.
Grillo, Seconda appendice ai tre volumi della raccolta degli Elogi di liguri
illustri, Genova 1976, pp. 183 s.; M. Pereira, Bernardo Lavinheta e la
diffusione del lullismo a Parigi nei primi anni del '500, in Interpres, V
(1983-1984), p. 256; E. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in
Mélanges de l'Ecole Française de Rome, M.-A., - Temps modernes, LXXXVII (1975),
1, pp. 241-302 (spec. pp. 246-254). CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di
Bartolommeo Falamonica. N o n sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di
B a r tolomeoGentile Falamonica,uomo ligure,daluiscritto tra il 1470 e il 1490.
Il Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo con
assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua , che andava
smarrita. Il sig. Spatorno nella recente sua Storia lette raria della Liguria
dà un'analisi di quel Poema,che merita per,ognirispetto d'essere conosciuto.Il
manoscritto oggi trovasi presso il marchese Giancarlo di Negro , p a trizio
genovesc, amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema del Falamonica non
ha titolo; la materia diceilcitatoGiustiniani ėtuttafilosoficaeteologica, con
interpretazione di leggi pontificie e cesaree. Lo stesso attesta
ilsig.Spatorno. L'A.incomincia dal favellare de'Cieli; e iprimi suoi versi sono
questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba, 38 TARIETA': WY > Perdar
lecarespoglieal'aspraterra, Partendo dalla età dolce e superba , CRITICA
. Lasciando addietro il sessagesim ' anno ... Vedea che l'error m 'avea
condotto 39 Aristotil ... Intanto gli apparve dalle parti occidentali una gran
Stella in formadiromito,dinome Raimondo (Lullo) spiegò il suo desiderio di
conoscere la verità , e di lasciare alcun vestigio di sè dopo morte ; e
Raimondo disse:stasecuro. e lo condusse al Sole,acciò lo guidasse ne'Cieli. Per
man mi prese Tornava senza onor dallamia guerra Con tutte mie speranze
sparse al vento , De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni piacere in me
restava spento... 2 motor che mi costrinse il senso E mi condusse in una oscura
valle. Iviilpoetaudìprimaun suonodiguerra;poiunaltro come di favelle che
parlavano del Cielo e della Terra. e >
NelIlCantovedeSaturno,poiMarte,poiGiove; e il Sole gli dice : Già presso al fin
che tutto il mondo atterra. Allor mi ritrovai tutto scontento A volgerealmioverobenlespalle...
Ed eccouscirdelCiel,nonsosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto
Qual dicea in prosa, e qual cantava in versi. E conobbe tutti esser poeti , e
in tanto numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel
Collegio , Levarsi contra tutti e batter l'ali , Questa è la introduzione , e
costituisce il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo , dal
quale si vede sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sentiva il movimento delle
sfere.VideilcerchiodelleStellefisse edaciòprende occasione di parlare degli
Astronomi , il più moderno dei quali è il Regiomontano ,morto nel 1476, ed
afferma non essere possibile l'eternitàdel mondo. Ma qui conviene omai fermar
le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti. Ne dice però una lunga lista di
greci e latini: nd ram menta alcun italiano. "Ei li lasciò tutti per gire
a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad Aristotele, di cui dice
Perquellestradeluminose e.terse Ch'ionon potealasciarlaviaserena. Il Sole
dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli oggetti terreni. E inquesto
Canto, e nel VI parla dell'aria,!della dell? E la lussuria il buon smeraldo
affrena; Vedi l'assenzio,ch'apre e scalda e sciolve: Che già della bell'arte
han fatto vizio... Vacuando idenari,e non gli umori. Nel Canto IX ragiona della
vitasensitiva degli animali e delleproprietà delle varie specie. E le cicogne
d'empietà nemiche... ecc. d'onde prende occasione di parlare della empietà
degli u o mini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual strazia , qual
uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose accennate
formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda parlando
dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume , ! 49 CRITICA. acqua
edelfuoco. Nel VII parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose
virtù delle pietre preziose ,dicendo terra , Stringel'acanto> e
falevenesalde; Tempo era omai d'entrar nel mio volume : Dove trovai del mondo
tanta parte· Finchè io ti mostri la mia casa propria. Nel Canto IV visita
Venere , Mercurio, e la Luna ; e famoltedimandedifisica,elerisolvecolla
dottrinape= ripatetica che alloracorreva. N e l canto V. parla degli elementi ;
e vi s'introduce così: Era mia vista di luce si piena, Son gli ametisti
incontro all'ebriopoto , Contra ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII
parla della vegetazione, e delle proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna
l'altea la gran durezza in polve. cec. E contro i Medici. Falcon
leale,eladralaperdice... Adulterate son le cose sante ... La
genteritornatasimaligna, Come si mostra in le passate carte , Ch'io vidi in lui
siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi comparte ,
Ogni mondana ed immortal bellezza ... Nel Canto Il parla della
immortalità e libertà dell'ani ma ,e delle idee e degli affetti. Ogni pensier,
e quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anina ) Il
lume della vita è la scienza .. Questa partefilosoficaè chiusa con un
pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il
poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia
spaventato il suo duce , esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s' incende ,
si volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terrapienaditirannide,disimoniayd'inu
gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio tutto mondano ; Creato per
usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando s'aggiorna O somma
vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo , e là disciolte ; Eterno libro ,
in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al
poeta di palesare queste cose a tutto il mondo
escriverlealettered'oro;minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno
preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto.Questa secondaCan
ticatermina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel I I I
Canto espone il difetto delle virtù , e spezialmente della carità , onde
l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. C a n t i I V ,
V e V I t r a t t a n o d i c o s e m o r a l i . CRITICA. 45 Nobil naturà , in
cui si trova giunto Le vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si
fanno dive ; Fammi sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra
. C h e p e r r i c c h e z z a l' u o m n o n è g i o c o n d o : 1 : Un fonte
di sospetti è signoria... Seguilipochi,e non lavolgargente... Da poimi
vidituttii sensi presi: Con un gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo ,
torna , tornia, torna. Ed ecco allor m'apparve quel divino
Miomastroantiquo(Raimondo Lullo). I Canti I e II trattano della essenza divina
secondo la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel Canto III il poeta
si sforza di mettere in versi la generazione del Verbo, e la spirazione
eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole.
NelIVragionadellacreazionedelMondo;nelV della natura angelica con tutte
ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi
dellaconcezione, seguendolanotasentenzadiScoto Più degno , più eccellente, più
gentile , Di non veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia,
delaPenitenza,edelleIna dulgenze. Nel Codice autografo , dice il sig. Spatorno
, è Jasciato in bianco ciò che apparteneva agli altritre Sacra
menti.Favellaposciailpoeta dellapredestinazioneedel l'amore divino emondano.
Quest'ultimo lo ispira contro Usura in pravi volentier s'annida ... E cresce
questa piaga al mondo ognora. Quanto son pianegià le vie di morte !
Ne’susseguenticanti inveiscecontro ilgiuoco; indi ra. giona delloscandalo e
della fama. La terza parte del Poema ha per soggetto ilMondo ir. visibile, e
comincia dall'Inferno. 42 CRITICA . E più decente ancora all'Infinito.
Della più mite dottrina poi si mostra seguace rispetto ai fanciulli morti senza
battesimo. Che poco curan giàdiveder Dio Di quanto in sè contien filosofia. In
due Canti espone la passione del Redentore ; nè pia. ceranno a tutti le
disperazioni della Vergine a piè della croce.In duealtriCanti ragiona
delBattesimo, dellaCon I La Cantica terza abbraccia la parte teologica ; e
comin cia così. Eragià fattosicom'uom selvaggio. Non hanno danno alcun , se non
quel bando Giocando insieme tutti e giubilando , Non hannopiù sospiro alcun,nè
stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo i più viziosi. E
lisuppone occupati M Busura. Secondo differenzia di peccati. A
guardiade'superbistannoileoni,de'lasciviiporci; de'golosi gli orsi: Viensi
poial Giudizio universale Così montaro inCiel disquadrein squadre. Ilpoema si
chiude col Paradiso partito in seicapitoli. Nel I si parla dellafelicità
de'Giusti. Nel IIsono ricor datituttiipiùcelebripersonaggi
dell'anticaalleanza;fra quali ètaciuto diSaloinone,che secondo l'opinionedel
b.Alessandro Sauli si teneva per dannato. NelIII si trattadegli Apostoli, dei Discepoli
e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S . Lorenzo .
Felice tu , mia Genoa , che l'onori , Eccelsocavalier di Cristo atleta. Giorgio
chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran Liguria. CRITICA. 43
Flegias,Cocito,furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone. Lascio la Stige
, e Lete , e Flegetonte , Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo solo l'ortodossa
fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio delFalamonica ha
forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime , sono dispostesotto
gli scaglioni, e sopra questistanno demonii in sembianza di animali. La valle
tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva,e d'ogni male carca E le corone d'uno e
d'altro impero Correr fra l'onde , e naufragar con elle ... E come il balenar
seconda il tuono. M a l'invito del Giudice eterno agli Eletti, dice il signor
Spatorno,sa troppodiquellelicenzedantesche pena si perdonano all'Autoredella
incomparabil Commedia. E Roma,ovefursparsiisuoidolori. E di S. Giorgio. >
cheap Cerbero lascio , Minos e Plutone , Da riveder qual fosse quello e questo.
Cið gli frutterà guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me
del nome mio maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre. Che come miei
fratelliio vi recipio. Felice ancor la Spagna , dov'ei nacque , Nel
V Canto si parla ancora de martiri. Nel VI de'
dottori,monaci,ronitieconfessori,ediquesti l'ul timo è s. Bernardino di Siena.
Di Bernardino parlo ,che a l'uscita Di questa schiera il più moderno parve ,
Fra tanta moltitudine infinita. E chiama s.Anna Ava del Figlio , e Socera del
Padre Miserere di un cuor che in tes'adombra ! e dichiarando di sottomettere
l'Opera sua al giudizio di Santa Chiesa. G. B. 44 CRITICA. Nostro celeste
in Ciel... Chiude poi ilcapitolo e tutto il poema , volgendosi a Dio , e
pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi. Tale è l'analisi che ci ha
data del poema del Fala monica ilsig.Spatorno.Non potevaquestaesserepiùam pia
dovendo costituire parte di un articolo della sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior
desideriodel medesimo, poi chè pare anoi, che altri passi, e forse più felici,
dovreb b'essocontenere,se,comedicegli,questo poemadopola CommediadiDante,eprima
dell'Orlandofuriosodee tenersi per la migliore composizione poetica che in quel
l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo
comunicherà al Pubblicocolle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali/più
degno par di tutto quell collegio/levarsi contra tutti e batter l’ali./Dico
Aristotil posto in sì gran pregio/di lor filosofanti un lume acceso/E pur dal
ciel si trova dato in spregio/si ch’io restai fra me tutto sospeso/con l’alma
or. Falamonica. Bartolomeo Fallamonica
Gentile. Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy,
Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amative.
Commedia filosofica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.
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Grice e Gentile – implicatura dell’atto – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano).
Filosofo. Grice: “Do not multiply the senses of ‘state’ (normative,
prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult to assess the philosophy
of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into ‘conventional sign’ and
‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a way to suprass the type
of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice:
“The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s,
Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He
taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of
an objectified thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only
the pure act of thinking or the transcendental subject can undergo a
dialectical process. All reality, such as nature, God, good, and evil, is
immanent in the dialectics of the transcendental subject, which is distinct
from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello
spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.”
Gentile sees conversation is a concerted act that overcomes the apparent
difficulties of inter-subjectivity and realizes a unity within two
transcendental subjects. Actualism was pretty influential. With Croce’s
historicism, it influenced two Oxonian idealists discussed by H. P. Grice:
Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in
D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London, Macmillan). Insieme a Croce uno
dei maggiori esponenti del idealismo, nonché un importante protagonista della
cultura, fonda L’Istituto dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma
della pubblica istruzione (Riforma Gentile). La sua filosofia è detta
attualismo. Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito
alla sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la
seconda guerra mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un
omone che ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli
brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché
un filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi
Discorsi di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista),
mi fece l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua
autorità sull'indiscusso ruolo di patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle
amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa Curti. Frequenta il ginnasio/liceo
"Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per posti di interno di
Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri,
tra gli altri, Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al
positivismo e di idee liberali, Crivellucci, professore di storia, e Jaja,
hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto su Gentile. Dopo la laurea,
con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed
un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene una cattedra in filosofia presso
il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si sposta a Napoli. Sposa
Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Federico
Gentile, i gemelli Gaetano Gentile e Giovanni Gentile junior, Giuseppe Gentile,
e Tonino Gentile Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Ottiene poi
la cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di Pojero e fonda “Nuovi
Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano. Durante gli studi
a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio continuo. Uniti
dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il
positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Insieme fondano “La
Critica” al rinnovamento della cultura
italiana. L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del
Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra
mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra
come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che
gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del
filosofo che parla “ex cathedra”, ma
quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa
attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto
del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di
ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma
politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di
larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi
burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi
«inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e
tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili». Fonda il “Giornale
critico della filosofia italiana”. Diviene
consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene
nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B. A., ovvero alle “Antichità”
e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia
dei Lincei. Gentile non mostra particolare interesse nel confronto del
fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere
in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si
riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e
come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del
Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato
forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato
in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per
l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene
nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma Gentile,
fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge
Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al
Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale.
Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato
a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello
Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento
giuridico dello stato). Resta fascista e pubblica il “Manifesto degli
intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione
degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo
manifesto sancisce l'allontanamento di Gentile da Croce, che gli risponde con
un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per
le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana,
specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A
Gentile si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione
dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa
3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere
tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti,
che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal
modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia
Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del
Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni
dall'Università. Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro
nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa. Non
mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce
un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato.
Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene
di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo
impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del
cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le
sue opere a causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del
cattolicesimo come una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore
alla filosofia: ‘theologia ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi
sono anche alcune velate critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri,
Gioberti e Manzoni.” Degna di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo
eretico condannato al rogo dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia,
impegnandosi anche presso Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de'
Fiori e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa,
come richiesto da alcuni cattolici. Comincia una lunga polemica contro
Vecchi, che Gentile accusa di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea
che fosse esclusiva e negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee
e forze, costumi e popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe,
l'orbe.” “La Roma antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e
conciliatrice intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente
ritenendo alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli
e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo
schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato
laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ -- Nel Discorso
del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi
e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica
dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei
suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I
vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è
compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che
intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo
governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi
collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile
ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune
questioni rimaste in sospeso con il governo precedente. Severi rispose a
Gentile lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i
contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si
fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la
proposta. Gentile replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. Gentile
respinse in un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo
un incontro con Mussolini sul lago di Garda si convinse ad aderire alla
Repubblica Sociale Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia,
con l'obiettivo di riformare L’Accademia dei Lincei che fu assorbita dall'Accademia.
“Venne qui tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici
per cui desideravo restare in disparte.”“Ma egli mi assicurò che io potevo benissimo
restare in disparate.”“Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi
ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona.”“Negare
questa visita non era possibile.”“Feci comodamente il viaggio con Fortunato.”“Ebbi
un colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo.”“Dissi tutto il mio
pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico
aspetto”“Credo di aver fatto molto bene all’Italia.”“Non mi chiese nulla, non
mi fece offerta.”“Il colloquio fu a quattr'occhi.”“La nomina fu poi combinata
col ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale.”“Non
accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia
vita.”Sostenne la chiamata alle armi e la coscrizione militare dei giovani
nell'esercito della RSI, auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto
la guida ancora una volta di Mussolini. Intanto il figlio, Federico
Gentile, capitano d'artiglieria del Regio Esercito, era stato internato dai
tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in condizioni particolarmente
severe.Federico Gentile e l'unico ufficiale italiano del campo a non ricevere
la posta di ritorno. Federico Gentile aveva aderito alla RSI, ma non aveva
accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare
in Italia da civile.Gentile elogia pubblicamente al "Condottiero della
grande Germania", e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse.Pochi
giorni dopo, Federico Gentile, venne trasferito in un campo meno duro.Infine, gli
fu permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa
della RSI, riceve diverse missive contenenti
minacce di morte. In una in particolare era riportato: "Tu sei
responsabile dell'assassinio dei cinque". L'accusa era riferita alla
fucilazione di cinque renitenti alla leva rastrellati dai militi della R. S. I.
-- fucilazione orchestrata da Carità, che detesta Gentile, ricambiato. Ha
infatti minacciato di denunciare le eccessive violenze del suo reparto allo
stesso Mussolini.Gentile non e assolutamente collegato con tale evento. Il
governo repubblicano gli offre quindi una scorta armata che però Gentile
declina.“Non sono così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono
sempre disponibile.”Considerato in ambito resistenziale come il filosofo del regime,
apologo della repressione e di un regime ostaggio di un esercito occupante, e ucciso
isulla soglia di Villa di Montalto al Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista.
Il commando si apposta circa nei pressi della villa.Appena giunse in auto, il
gappista Fanciullacci si avvicina, tenendo sotto braccio un libro di filosofia
– “Apperance and Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi
così credere un filosofo.Abbassa il vetro per prestare ascolto.E subito
raggiunto dai colpi della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta,
l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo
moribondo.Gentile, colpito direttamente al cuore e in pieno petto, in breve
spira.Fu un episodio che divise lo stesso fronte di resistenza e che è al
centro di polemiche non sopite, venendo infatti già all'epoca disapprovato dal
CLN toscano con la sola esclusione del Partito Comunista, che ri-vendicò l'esecuzione.
Fu sepolto nella basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale
glorie. Dopo l'attentato, le autorità della R. S. I., dopo aver sospettato all'inizio lo stesso
Mario Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su
Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti
morali.Grazie al diretto intervento della famiglia, gli arrestati sono rimessi
in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi
gentiliani. La filosofia di Gentile fu da lui denominata “attualismo” o idealismo
attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè
l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo
quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il
filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non
c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un
pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità
di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme
al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e
l’antitesi dell’oggetto.Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto,
pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi”
–Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista
(naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e
materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una.Qui è evidente
l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e
anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che
dell'hegelismo.Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno
storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia”
e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What
is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto
idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento
del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”.
Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che
"tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile
sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha
individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia
forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e
delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A
distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è
opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti"
(A opposto B). Infatti Gentile ritiene la
‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica
propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A
opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel
rapporto dell’impiegare e l’impiegato.Recuperando La Dottrina della scienza di
Fichte, Gentile afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto
unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della
realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La
dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto)
rappresentata dall'espressione --
intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf.
inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa
da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione
della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr.
implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una
dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale –
l’impiegato --.Gentile dedica la sua attenzione al tema della soggettività
dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il
prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione
è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che
coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni
caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione
come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di
Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo
nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo
soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene Gentile
tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto”
né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a
differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un
"cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza,
proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un
ideologo del regime.La filosofia politica di Gentile è fortemente attivista e attualista (cioè
trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello
scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo
speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’
condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in Gentile troviamo il
primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un
recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come
Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione
meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per
Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua
dottrina è di tipo «spiritualistico». La dottrina non è la sola qualificazione
politica che dà dello speculative.Gentile infatti e un ‘liberale’ -- nonostante
sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del
regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un
stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo
o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso
nel suo processo storico. Un individuo e ‘libero’ se esplica la sua moralità nella
forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia
italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo
all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico
-- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo
kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra
storica, la quale governa l'Unità d'Italia.Impone un governo autoritario (concezione
ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare
l'individualità dei singoli, quella che Gentile definisce come la spinta alla
disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto,
per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come
"stato educatore". Se Gentile voglia uno stato totalitario vero e
proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del
regime, Gentile fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che
accoglie tutto in sé.Con il regime si può avere vero "liberalismo" in
quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. Gentile dimostra un forte
approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione
dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o
dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un
"atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini:
anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei
principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento
dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del
processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma
anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste
molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione,
ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò
dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella
di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a
grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti
tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica,
mediocre e furbastra. In quanto ideologo, Gentile sostiene che la dottrina revoluzionaria
si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del
Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e
non il contrario). Il fine è che nella società italiana non vi siano più
contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura della
dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in ambito
lavorativo. Attraverso l'istituzione
della cooperative e la corporazione, la
quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la
collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di
Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme
realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia,
progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i
problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza
provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe
(classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della
dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea
una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur
riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il “popolo sano” ad
ascoltare “la voce della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad evitare
una “lotta fratricida", di cui comunque non vedrà la fine. Il gentilismo
fu una delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario"
di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica
di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per
l'idealista Gentile, a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo
"passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle
ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da
Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica della storia è
costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo
Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la
materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo
sviluppo.Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si
finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto
economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente
ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la
struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia
pertanto una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata",
però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia
della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che Gentile cura, il
"Moro" infatti critica il materialismo volgare.Questo concepisce
metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero ricettore
dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo Gentile, Marx, attribuisce alla “prassi”,
considerata come attività sensibile umana, la funzione di far derivare a torto
il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera il pensiero una
forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile
sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come
atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo.Gentile
riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la
filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima,
negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere
intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza così
la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono
fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il
quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo
compito sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica
sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è
alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e
null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa
che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e
ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in
unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita
dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso
l'educando (tutee – Gentile qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr.
‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. «Il
maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello
spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il
tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro,
proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero
ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica),
facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati.Questi concetti ispirano
la riforma scolastica attuata da Gentile in veste di ministro della Pubblica
istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri.
Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica
sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato
(viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo
scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il
predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu
ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e
definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in
sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e
censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione
della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di
tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a
livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’
per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli,
o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse
di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire
gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica
e messa in secondo piano, poiché e una materia priva di valore universale, che ha la sua importanza
solo a livello ‘professionale’.Difatti Giovanni Gentile, a differenza di Croce
che sosteneva l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla
scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le
materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al
dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di
Enrico Fermi nel gruppo dei "ragazzi di via Panisperna", che divenne
anche amico del figlio Giovanni Gentile jr., coetaneo del Majorana) e cercò di
instaurare un confronto costruttivo con il scientism.L'”obbligo” scolastico fu
innalzato a 14 anni e fu istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni.
L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra
il ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo
il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita
di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi
– l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo
fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce.Anche
Gentile nel complesso mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo
("il femminismo è morto" dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i
licei dovessero formare i "futuri capi" guerrieri.Nel triennio
dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, la filosofia,
adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al
popolo minuto. Gentile è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione
della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante
addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fece Gramsci.
Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche Gentile
«format la cultura filosofica italiana.”. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo
il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica
di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a
parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene
Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non
c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di Gentile e la «fascistizzazione
dell'attualismo» e pertanto una «deformazione dell'idealismo”. Al di là della
sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore
filosofico. Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà alla dottrina.
Ma fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino
Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di Gentile e create
l' “Istituto di studi gentiliani” e la "Fondazione Giovanni Gentile"
a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche dal Severino, che ravvisandovi
una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la
considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. Gentile e
certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo
europeo.Gli venne dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le
personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte
della Repubblica Italiana. L'assassinio di Gentile fu una carognata
ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei
acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il
coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato.Cavaliere
di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e
Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del
gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce
insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine
dell'Aquila Tedesca (Germania nazista)nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere
di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare
come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La
filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze,
Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria
del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra)
Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di
religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di
storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla
filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo V. Cicero e con introduzione
di E. Severino, Bompiani, Milano Di
carattere storiografico Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il
Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”; “Telesio;
“Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in Italia”; “Il
tramonto della cultura siciliana; Giordano Bruno e il pensiero del
Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Gino
Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti
del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; Bertrando Spaventa; Manzoni e
Leopardi; Economia ed etica; Giovanni Gentile un filosofo scomodo; L'insegnamento
della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza
filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico
del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola
laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto
degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia
religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella
Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in
l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si
trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale
fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato
etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo;
si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato
L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni
de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e
polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; Giovanni
Gentile Scritti per il Corriere. Note Vi
è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe
posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico
letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono
questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero
numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere
della Sera. 10 giugno.). Cit. di Geno
Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello
Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Eugenio Di Rienzo, Storia
d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le
Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile.
Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, "Nuova Storia
contemporanea", Dello stesso autore,cfr. "Giovanni Gentile. Al di là
di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del
ministro", Chieti, Solfanelli,,Scheda senatore GENTILE Giovanni
Paolo Simoncelli41. Amedeo Benedetti, "L'Enciclopedia Italiana
Treccani e la sua biblioteca", Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui Ripubblicato nel 1991 come Giordano Bruno e
il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S.
saggi cult. cont. Giordano Bruno. LE
VICENDE DELLA STATUA «De Vecchi, Cesare
Maria», Treccani Paolo Simoncelli207.
La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le
bufale, l'Opinione, 30 marzo Paolo
Mieli, Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo
vano Paolo Simoncelli43. Paolo Simoncelli40. Paolo Simoncelli34. Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo; "Giovanni Gentile" di Gabriele Turi; Giovanni Gentile in
“Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia”Treccani Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo23. Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo24. Francesco Perfetti, Assassinio di un
filosofo, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile,
Palermo, Sellerio, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo26. Vittorio Vettori, Giovanni Gentile, Editrice
Italiana, Roma, Simonetta Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la
testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania,
in La Repubblica, Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler per
salvare il figlio, in Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la
grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", "Historia",
Raffaello Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo
Mondadori Editore, Milano56: "Gentile, sdegnato, ha minacciato di
denunciarlo a Mussolini" Elio Chianesi,
La Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di
vista: «Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte
le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non
lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a
nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in M. C. Carratù (). Paolo Paoletti, "Il Delitto
Gentile" esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da
Giuseppe Martini "Paolo" uno dei due esecutori
materiali"...Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se
era il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non
attraverso i due finestrini posteriori..."
Resistenza: "Angela", la ragazza col fiore rosso Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi
che Gentile doveva morire, in Corriere della Sera, «Per fare in modo che i gappisti incaricati
dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso
l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai
partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo.»
(Teresa Mattei) Luciano Canfora,
"Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica Sociale Italiana Poggio,
Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, Antonio Carioti, Sanguinetti
venne a dirmi che Gentile doveva morire, sul Corriere della Sera,: "L'omicidio
di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato
dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente
del Partito d'Azione, scrisse un articolo per dissociarsi." Maria Cristina Carratù, E dopo 70 anni nuovi
scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile, La Repubblica, 24 aprile Renzo Baschera, "Chiese la grazia per
molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", articolo su "Historia",
Ecco le carte che assolvono l'archeologo
Romano302. Gabriele Turi, "Giovanni
Gentile" Così Gaetano Gentile ricordò il suo intervento presso la
prefettura: «Quella sera stessa, per desiderio di mia Madre, io mi recai dal
capo della Provincia e gli parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in
città, esprimendogli la ferma e calda preghiera di mia Madre che quel
proposito, se effettivamente esisteva, venisse abbandonato e anzi gli arrestati
rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a me sembrasse in fondo superfluo
dover esprimere tale preghiera proprio in quella stanza in cui ancora quella
mattina la voce di mio Padre si era levata a deplorare la tragica inutilità di
un metodo, dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una
crudele successione di attentati e rappresaglie. Era ovvio poi che,
indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o militare di atti
simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della morte di mio
Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità fiorentine
questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante
atteggiamento». Firenze: due
consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su liberoquotidiano. 15
novembre 16 novembre ). «Attualismo», Enciclopedia Treccani
Diego Fusaro, Giovanni Gentile Sull'importanza
della riforma della dialettica idealista di matrice hegeliana in Gentile, si
veda quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è compresa
nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche. Bruno Minozzi, Saggio di una teoria
dell'essere come presenza pura, Il Mulino, Gentile quindi contestava a Fichte
la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un
dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un
agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo infinito"), fermo alla
contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un
idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di
religione, Firenze, Sansoni). Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La
dottrina del fascismo. Nicola Abbagnano,
Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano,
Rizzoli, Vito de Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, Mussolini, Gioacchino
Volpe, Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana. Augusto Del
Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana", G. Belardelli, Il
fascismo e Giuseppe Mazzini Giovanni Gentile, Manifesto degli
intellettuali fascisti Giovanni Gentile,
"Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo
("Conferenza tenuta all'Università di
Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A.
Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di Giovanni Gentile
La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al governo della
scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli, «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è
fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? — Gentile: Questa
limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola
d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e
risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole
chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero
degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche,
quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma
soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo
nella loro attività. Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son
valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di
commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella esplicazione
delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della Nazione che
finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali e
professionali per seguire la scuola umanistica.» (R.Sandron, Il fascismo
al governo della scuola, iscorsi e interviste, Ferruccio E. Boffi, Giuseppe
Spadafora, Giovanni Gentile: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di
pedagogia e altri studi, Armando Editore, 1997261. Enrico Galavotti, La filosofia italiana e il
neoidealismo di Croce e Gentile, Homolaicus.
Il mistero di Ettore Majorana Eleonora Guglielman, Dalla scuola
per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma
Gentile e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per
una "storia dell'insegnamento della storia" (M. Guspini), Roma,
Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune
varianti, sulla rivista "Scuola e Città" con il titolo Il liceo
femminile Manacorda D'Amico, Katia Romagnoli, Donne, la Resistenza
"taciuta". L'esclusione delle donne nella società fascista G. Gentile, La donna nella coscienza moderna,
in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le
donne nel regime fascista, G.
Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale
Pubblica Lettura, De Grazia, Le donne nel regime Giovanni Gentile, La riforma
della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni, qui tra
parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta
in Il Sole 24 ore Domenica, 1Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile,
Bologna, il Mulino, Martin Beckstein,
Giovanni Gentile und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation
einer idealistischen Philosophie, in «Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica
I» Filosofia: A Firenze Convegno Studi Gentiliani Fondazione Gentile | Dipartimento di
Filosofia | SapienzaRoma Liberiamo la filosofia di Giovanni Gentile dalla
faziosità del '900 Emanuele Severino:
Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto
Quotidiano È Gentile il profeta del la
civiltà tecnica. «I nemici di Giovanni
Gentile», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai Emanuele Severino, dalla quarta di copertina
de L'attualismo, Milano, Giunti, Nicola
Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli,
"La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il
Giornale. Monografie principali Armando Carlini, Studi gentiliani, VIII di Giovanni Gentile, la vita e il
pensiero a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici,
Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio
Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Luciano
Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio,Augusto
del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione transpolitica della storia
contemporanea, Bologna, Il Mulino, Hervé A. Cavallera, Immagine e costruzione
del reale nel pensiero di Giovanni Gentile, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Gennaro
Sasso, Filosofia e idealismo. IIGiovanni Gentile, Napoli, Bibliopolis, Hervé A.
Cavallera, Riflessione e azione formativa: l'attualismo di Giovanni Gentile,
Roma, Fondazione Ugo Spirito, Giorgio Brianese, Invito al pensiero di Gentile,
Milano, Mursia, Gennaro Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, il
Mulino, 1998 Gennaro Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile,
Firenze, La Nuova Italia, 1998 Hervé a. Cavallera, Giovanni Gentile. L’essere e
il divenire, SEAM, Roma, Paolo Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni
Gentile, da "Le storie, la storia", Milano, Rizzoli, Daniela Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio
Romano, Giovanni Gentile, un filosofo al potere negli anni del regime, Milano,
Rizzoli, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio
politico, Firenze, Le Lettere, Gabriele Turi, Giovanni Gentile. Una biografia,
Torino, POMBA, Hervé A. Cavallera, Ethos, Eros e Tanathos in Giovanni Gentile,
Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’immagine del fascismo in
Giovanni Gentile, Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia
dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei
fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, il Mulino,
2009 Davide Spanio, Gentile, Roma, Carocci,. Paolo Bettineschi, Critica della
prassi assoluta. Analisi dell'idealismo gentiliano, Napoli, Orthotes,. Paolo
Simoncelli, "Non credo neanch'io alla razza". Gentile e i colleghi
ebrei, Firenze, Le Lettere,. Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la
morte di Giovanni Gentile, Milano, Adelphi,
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morte di Giovanni Gentile. A proposito di un recente volume, in Nuova Rivista
Storica, Carmelo Vigna, Studi gentiliani, Orthotes, Napoli-Salerno. Valentina Gaspardo,
Giovanni Gentile e la sfida liberale, AM Edizioni, Vigonza (PD). Altri
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ou l'interminable traduction d'une politique de la pensée, Paris, Lignes, Michel
Surya, Les Extrême-droites en France et en Europe Charles Alunni, Ansichten auf
Italien oder der umstrittene Historismus, in Streuung und Bindung über Orte und
Sprachen der Philosophie, Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, 1987 Charles Alunni, Heidegger, la piste italienne,
Paris, in Libération, (en collaboration avec Catherine Paoletti pour
l'interview de Ernesto Grassi), Charles Alunni, Giovanni GentileMartin
Heidegger. Note sur un point de (non) ‘traduction’, Paris, Cahier nº 6 du
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Gentile, Ernesto Grassi & Bertrando Spaventa, Paris, Dictionnaire des
Auteurs Laffont-Bompiani, Robert Laffont Charles Alunni, Attualità, attuosità
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reazione dialettica: filosofia del postcomunismo, Roma, Gruppo parlamentare
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Firenze, Nicola D'Amico, Un libro per Eva. Il difficile cammino dell'istruzione
della donna in Italia: la storia, le protagoniste, Milano, Franco Angeli, Vito
de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività
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Contemporanea", Vito de Luca, "Giovanni Gentile. Al di là di destra e
sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro",
Chieti, Solfanelli,. Antonio Fede, tra attualità e attualismo, Pagine
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anticipatrice di istanze postmoderne?, Dialegesthai. Rivista telematica di
filosofia, Mario Alighiero Manacorda, Storia dell'educazione, Roma, Newton
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Giovanni Pesce, La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile, in
Quaderni Leif, Antonio Giovanni Pesce, L'interiorità intersoggettiva
dell'attualismo. Il personalismo di Giovanni Gentile, Roma, Aracne,. Antonio
Giovanni Pesce, La filosofia della nuova Italia. Il progetto etico-politico del
giovane Gentile, Viagrande, Algra,. Vincenzo Pirro, Regnum hominisl'umanesimo
di Giovanni Gentile, Roma, Nuova Cultura,
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Politica in Giovanni Gentile, Roma, Aracne,. Rossana Adele Rossi, La presenza e
l'ombra. La pedagogia del giovane Gentile, Roma, Anicia, Giovanni Rota,
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Giovanni Gentile. Un italiano nelle intemperie, Solfanelli, Michele Tringali, L'attualismo è sempre
attuale. Saggio su Giovanni Gentile nel 130° della nascita, Vittorio Vettori,
Giovanni Gentile, Roma, Editrice Italiana, Marcello Veneziani, Giovanni
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intellettuali fascisti Riforma Gentile Uccisione di Giovanni Gentile Ugo
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Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni Gentile, in Dizionario di storia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Giovanni Gentile, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Giovanni Gentile, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Giovanni
Gentile, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. H Questa
soluzione della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che per la loro
indole amano starsene alla fine stra a godere dello spettacolo che essi
contemplano, ma di cui non hanno la responsabilità (né merito, né demerito).
Nella strada la gente ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il
filosofo (che come tale deve essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si
rende conto e si frega le mani. Il vecchio ideale di Lucrezio, che è alla base
della eterna leggenda del filosofo che si libera delle passioni e rinunzia
all'azione per chiudersi nel pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora
ventis e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st
iucunda voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam
belli certamiua magna tueri per campos instrncta tua sine parte perieli: sed
nil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapienlum tempia
serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis
quaerere vita.e, certarc ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti
praestante labore ad summas emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum
mentes, o pectora caeca I T.ucR. Il, 1-14.L'etica come legge . . p. 9 1.
Disciplina. - 2. Positivismo ed empirismo. - 3. Legge. - 4. Prammatismo. - 5.
Prassi e teoria. - 6. Oggetto del volere. - 7. Volontà- autoctisi. - 8.
Praticità del conoscere. - 9. Unità cli teorico e pratico. - 1a."L·atto.
JJ}-L'individuo ............... p.II i) Senso realistico e senso idealistico
della individualità. - 'i; Individuo e società. - _J) Comunità immanente ali'
individuo come sua legge. - ,f.) La comunità ideale e la gloria. - �; Vox
populi. - 6:)La concretez1.a dell'individuo. - Ì} La conquista dei valori. - 8)
li processo d<>IJa individualità. - g. La parti colarità dell'individuo
nello spazio e nel tempo. III.-Ilcarattere. . . . . . . . p. 25 1. Velleità,
volere, carattere. - 2. 11 carattere attraverso la condotta emJ?irica. - 3.
Critica del concetto della molteplicità degli atti o l'unità del volere. - 4.
Presente ed estemporaneo nel carattere. - 5. Trascendentalità del carattere. -
6) Il coraggio civile. - i> La socialità origmaria. \r:v1-Società
trascendentale o società in interiore homine. . . . . . . . . . . . . . . .!'
Alte" e socius. - Dalla cosa al socio. - 5. Il dialogo intemo, o
trascendentale. - G'. Il momento dell'alteriEà. - 7. La dialettica pratica. -
8. La crisi dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri - 0. Il bene e il
male Avvertenza V. - La categoria etica e l'esperienza. . 'z. Dialettica
dell'Io. - 3. li nulla. - 4. p. H 1. Unicità della categoria logica. 2. La
legge dell'uomo: Pett.sa/ 3. Intendere e amare. - .4., Intendere pratico. - 5.
La categoria etica. - 6. li senso morale e la sua inattualità. - 7. Dovere e doveri.
- 8. Errore di metodo nell'etica. -'..i Necessità cli pen --,_ p. 33
190 INDICE VI. - Lo Stafo. p. 57 1. Concetto dello Stato. - 2. Nazione e
Stato. - .3. Diritto. - 4. Governo e governati. - !1· Autorità e libertà, -f Il
liberalismo. - 7. Etica e politica. 8. Stato etico. - 9. Moralismo, VII1 -
Stato ed econoraia . . . . . . . . . . . . p. 71 t. Economicità dell'uomo e
quincù dello Stato. - 2. Umanità dell'operare economico. - 3. Operare
utilitario o utile? - 4. Umano e subumano. - 5. Il corpo e l'anima. - 6.
Naturalità dell'utile. - 7. Le scienze della logica dell'astratto. -8. Lo
schema del naturalismo nella logica dell'astratto. - q. La forma mate matica
dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. - n. L'edonismo. - 12. Moralità ed
eudemonia.-13. Natura e Spirito. -14. Economia e politica. I VIII. - Stato e
religione. . . . . . . . . . . . . p. 88 1. Rapporto essenziale tra i due
termiai. - 2. Laicità. - 3. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. - 4. Immanenza della
religione nello Stato. IX. - Stato e scienza . . . . . . . . . . . . 1. Scienza
e filosofia; e rapporto di questa con lo Stato. - 2. Necessità cli questo
rapporlo.-31 Cultura. -4.Scienze naturali. - 5. L'obbligo dj critica della
filosofia. - 6. Immanenza della .filosofia nrlla politica dello Stato.
'X.-LoStatoegliStati............ p.101 u Libertà e infinità dello Stato. - 2.
P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. - 3. Critica del punto di vista
intellettualistico. - 4. Concreto punto di vista pratico. - .'i_- Il
riconoscimento degli altri Stati e il Diritto internazionale, - 6,_ )La guerra.
-7.) La pace e la collaborazione umana. -fil Impero e ordine nuovo.
Xl.-LaStoria................ p.106 r. La Storia come storia dello Stato. - 2.
Storia dell'uomo. - 3. Statolatria. - 4. Autocritica dello Stato. - 5.
Rivoluzione. - 6. L'Unico. - 7. Umaoesùno del lavoro. - 8. Famiglia - 9.
Categorie di lavoratori e rappresentanza politica.
1XII.-LaPolitica............... p.u5 'I) Definizione della politica. �j':)Etica
e politica. -;) Im possioilità cli un'etica apolitica. -:;,:11 privato e il
pubblico. - 5) La teoria dei limiti dello Stato.-� Stato
a�toritario e demo crazia. - � L'anarchismo e il
Jiberalis1:no. - 8. Bellum omnium contra 01mies. - 9. Guerra e pace. - ro.
Ordine. - u. Senti mento politico. - 12. Genio politico. - 13. La politica del
fanciullo. - 141 La politica in ogni forma di attività umana. - 15. Politica
dell'arte. - 16. Politica della scienza.- 17. Politica della lede. - 18. Chiesa
e proselitismo. - 19. La dottrina della tolleranza. - 20, La politica diritto e
dovere. p. 93 l:).'DICE 19r XIII. - La Società trascendentale, la
morte e l' im mortalità.................. p.138 1. 11 motivo della fede ncll'
immortalità. - 2. Immortalità e religione. - 3. L'equivoco. - 4. Illusioni. -
5. Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la soluzione. - 7. La
morte. APPENDICE: L'immanenza dell'azione.NUOVI INDIZI DI (( IIEGELLOSIGKEIT ))
ITALIANA 11 prof. Bollami dell' Università di Leida in un suo
inte¬ ressante opuscolo *, qualche anno fa mettev a in, mostra una
lunga fdza di evidenti spropositi commessi da filosofi con¬ temporanei di
ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo avere rilevato con 1 ’ Herbart,
con l’Alexander, col Barth. col Taggart, che Hegel non concepì mai la
follìa 4 Lde- durre dal pensiero auro ciò che non è puro pensier o
(realtà naturale e realtà storica), ma volle solo sistemare logica¬
mente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e e la sua
possibilità. — la cognizione necessariamente empi- rica della natura e
della storia, soggiungeva: «Intanto anche F. Paulsen in vólliger
Hcgellosigkeit afferma (nel suo Kant, p. 177) che Hegel deduce a priori
la stessa natura ». *" L - yOVt
Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero come tradurre in
italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza, cosi caro tuttavia agli
studiosi di filosofia italiani, fu dato recentemente dal Croce 2 qualche
cenno' significativo dove si mostrò con quanta competenza sia stato
spesso giudi¬ cato in Italia 1 Hegel da quelli che volevano passare
per 1 Alte I ernunft unii netto I’erstami, Leiden, 1002, 3
Critica, IV, 410-11. n — Saggi critici.
i — /»x4it'w® \ TU) , Kvuf^vru? -
xtiekW^o * ** ' — 162 — jpt uJQy>^òfjO
suoi avversari. Una prova recentissima ne ha avuta però lo scrivente per
aver curata una nuova ristampa degli Lh - menti di filosofia 1 di
Francesco Fiorentino secondo la pri¬ mitiva edizione del 1877,
dall’autore più tardi parzialmente rifatta e radicalmente mutata nell’ indirizzo
dottrinale. Al¬ cuni (tra i quali uomini dotti nella storia della
filosofia) han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un
Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi degli ultimi anni
della sua vita era stato costretto ad ab¬ bandonare le dottrine di Hegel
per accostarsi al neokan¬ tismo. E un insegnante di liceo, a chi
proponeva il libro per testo scolastico, opponeva senz'altro ch’egli non
po¬ teva adottare «un libro prettamente hegeliano!)). Molto
probabilmente l’unico fondamento di quest’as¬ serzione, che io denuncio
soltanto per richiamare ancora una volta l’attenzione sulla comune
Hegellosigkeit, è in ciò, che questo libro è stato ristampato per cura
mia, e da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, trala¬
sciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il ma¬ nuale del
Fiorentino, nella sua forma originaria, come l ’unico , fra quanti ne
abbiamo in Italia, degna , ancoraci es ser m esso nelle mani dei giov ani
e tolto a base d’un p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di
avere sufficientemente accennati nella mia prefazione alla detta
ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito permesso dei colleglli
accusatori, che il libro del Fioren¬ tino nella prima edizione non è punto
hegeliano; e che la differenza tra la prima e la seconda edizione non
è divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kan¬ tismo ed empirismo
spenceriano. Poiché ne avevo l’occasione, a me parve opportuno
to¬ gliere di mano ai giovani, che cominciano a riflettere su cose
filosofiche, un libro, — raccomandato al nome di Francesco Fiorentino,
per tanti titoli benemerito della cul¬ tura filosofica italiana, — nel
quale s’insegnava a riflet¬ tere su verità di questo genere : « Kant
intende • per a priori soltanto ciò che non‘è derivato dalla sperienza,
ma che invece è condizione indispensabile, perchè la sperienza
1 Torino, Paravia, 1007: voi I: Psicologia e Logica
i63 — sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori
abbia potuto originarsi da una associazione di esperienze ante¬
riori accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai suoi tempi, e
prima del Darwin, porre il problema in questi nuovi termini. L ’q trio ri
kantiano è una funzione dell o spinto , non già un dato : e questo
ritenghiamo anche noi : ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si
possa cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichia¬
rava che l’d priori kantiano è una semplice fer¬ mata al concetto dell’
attività preformata a compiere certe funzioni, senza di cui la
sperienza non si farebbe; e che « la filosofia moderna.... domanda: come
si è preformata ? E cerca di trovar la risposta in due fattori:
l’asso¬ ci a z i o n è e la eredità; la prima che accumula, la
seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori dell’individuo sarebbe
ciò ch’è poste¬ riori per la specie» (23* ed., pp. 30-31 n.).
E altrove : « Se il fine etico, che è la vita comune, è stato il
risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur sempre vero che
cotesto primo acquisto viene oggi trasmesso come eredità, che
gl’in¬ dividui trovano, e non debbono più riacquistare » tp. 288
n.). Proposizioni che si equivalgono nei due campi della conoscenza e
della pratica, e di cui lo stesso Fio¬ rentino. ci dice la fonte, dove
avverte (p. 304) che «nella filosofia dello Spencer ogni a priori è
sbandito, e tutto è spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione
eredita¬ ria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo
prin¬ cipio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si
costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della conoscenza che
non occorre qui valutare. Quello che non ha bisogno certamente
d’ulteriore schiarimento, è che tale negazione dell'a priori e tale
confusione del problema psi¬ cologico con lo gnoseologico, non può a niun
patto ac¬ cettarsi come integrazione del kantismo. C’era un
Fiorentino, che pur poteva presentarsi ai gio¬ vani, e che io ho rimesso
in luce; un Fiorentino che non s’era lasciato sfuggire il vero punto di
questa questione fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di
vita — i&4 — o di morte per Io
spirito, e quindi della scienza e della moralità Nella prima edizione lo
stesso Fiorentino aveva detto « Vuoisi avvertire, che l’o priori non si
deve inten¬ dere come qualche cosa di preesistente, di preformato....
ma come una funzione essenziale dello spirito » (nuova ediz., P 33
)- Aveva discusso, opponendole l’una all altra, le dot¬ trine di Kant e
di Spencer intorno all’apriorità o aposterio¬ rità della coscienza, e
aveva dimostrato che non se ne può dare nessuna derivazione empirica
perchè « la coscienza è un rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si
trova il cor¬ rispondente; ed è un rapporto semplice, che non si può
de¬ durre dalla risultante delle nostre rappresentazioni. L’Io, la
coscienza è originaria » (51). « 11 fondamento dell'esperienza non può
essere attinto mediante l’esperienza » (57). E que¬ sto fondamento è
nella coscienza e nelle sue categorie. « Se tutto derivasse davvero da
dati sperimentali, nè l’idea di sostanza, nè quella di causa, quali noi
le concepiamo, sarebbero ammissibili » (63). Questo mi pare
puro e schietto kantismo ; e se. il con¬ cetto d’una possibile
integrazione di Kant per via delle ricerche psicogenetiche è uno
sproposito, che oggi non ha più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare
anche evi-, dente che ricondurre il manuale del Fiorentino a’ suoi
principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo edi¬ tore, hegeliano
o non hegeliano. Perchè, dato e. non con¬ cesso che empiristi si possa
essere per proprio conto, certo per nessuno è più sostenibile una svista
di questo genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione
di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una questione
psicogenetica. Hegel, dunque, non c’ è entrato proprio per nulla,
be ci fosse stata del Fiorentino un’edizione hegeliana ante¬ riore
alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino hegeliano al
kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello che ho dovuto e potuto
scegliere, francamente, mi pare indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo,
anche nella prima redazione del suo manuale il Fiorentino rende
omaggio al fantasma della materia opposta all’attività formale
dello spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido forma¬
lismo kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo
— 165 — con l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre
me¬ glio, infinitamente meglio Kant, anche se non perfezio¬ nato,
che Spencer! Si sente, per esser sinceri, negli Elementi del
Fioren¬ tino un’eco lontana dei Principii di filosofia (1867) dello
Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo sull’auto¬ coscienza (pp.
66-7). Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare in quell'a u t o c t i s i
della coscienza accordata con tutto il formalismo astratto accettato e
difeso dal Fiorentino, io ritengo che potrebbero andare a braccetto con
lui tutti i kantiani più scrupolosi del mondo. 1907. LA
FILOSOFIA A NAPOLI DOPO G. B. VICO (1750-1850). 1. Nel 1743
A. Genovesi cominciò a pubblicare in Napoli i suoi Elemento,
metaphysicae. Nel 1744 morì G. B. Vico. Questi aveva avuto due profonde
intuizioni fon¬ damentali: una intorno alla potenza costruttiva
dello spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo
kantiano; P altra intorno al concetto dell’ assoluto come sviluppo nella
natura e nel pensiero, per cui anticipò il principio della nuova
metafisica dimostrata dalla Lo- >jica di Ucgel. Ne’ 6tioi Elementi di
metafisica il Geno¬ vesi invece si mostra seguace di un incoerente
sincre¬ tismo, in cui la monadologia leibniziana s’ accoppia con
l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande pensiero di Vico è
spenta sul nascere, e finita con 1’ uomo che nella solitaria meditazione
del diritto, anzi di tutto lo spirito come vive nella storia, aveva
attinto una forza speculativa che lo pose al di sopra e fuori del
tempo suo, episodio solenne nella storia del pen¬ siero italiano. Gl’ interpetri
del pensiero di Vico non furono nè i suoi coetanei, nè i suoi immediati
successori nella filosofia italiana in genere e napoletana in
ispecie. 58 STORIA DELLA
FILOSOFIA La vera interpetrazione cominciò in Germania col Jacobi,
1 dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di pensiero
nuovo, che venne suscitato dall’ hegelismo, da Bertrando Spaventa.*
* 2. Tra Vico e Spaventa — i cui primi scritti cadono attorno
al 1850, — per tutto un secolo, c’ è un’ inter¬ ruzione nello sviluppo
dell’ idealismo iniziato dalle opere di \ ico ; nella quale il pensiero
napoletano si appropria ed elabora per conto suo la moderna filosofia
europea. Questo movimento, che riempie tutto il secolo che va dalla
metà del secolo XVIII alla metà del XIX, può essere designato dai nomi
dei due pensatori che aprono e chiu¬ dono tale periodo, Dal Genovesi al
Galluppi. E così appunto s’intitola la monografia, nella quale ho
cercatq d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di
cotesto periodo. 3 Può recar meraviglia, che la ricerca sia così
limitata dentro i brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi
del Genovesi e del Galluppi, e corrispondenti ai confini del reame di
Napoli, ila chi ponga mente alle condizioni d Italia per tutto il tempo
del dominio borbonico, alle piofonde differenze civili e politiche e
letterarie, in una paiola, storiche, tra la parte meridionale e il resto
della penisola, troverà ovvia e storicamente esatta la linea da me
tracciata intorno ai pensatori che ho studiati e Vedi lo scritto
Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer Offenbarung (1811), in Werke,
Leipzig. 1816, III, 358. Sul kantismo vicinano cfr. specialmente Tocco,
Descartes jugé par Vico in Reme de métaphy- sigue et de morale del luglio
1896, pp. 568-78, e gli scritti da me citati nel Discorso premesso agli
Scritti filosofici di B. Si’avknta Na- poli, 1901, p. LXXV. •
Vedi tfli Scritti cit., pp. lxxxiv lxxxix, 139-45, 303 e segg. 3
Studi di letteratura , storia , filosofia , pubbi. da B. Crock, voi. I (Napoli,
Edizione della Critica , 1903 ). LA FILOSOFIA
A NAPOLI 59 considerati come formanti una speciale serie
storica a sé. 3. Pel carattere generale della loro filosofia
questi pensatori costituiscono una continuata corrente di em¬
pirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui ben presto il principio
critico dominante nell’ empirismo lockiano corrode ogni concetto
metafisico, fino ad Ottavio Colecchi (1773-1847), filosofo abruzzese
pochissimo noto — benché i suoi scritti consacrati all’ interpretazione
di Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,
possano ancora esser letti con profitto — il quale, pur combattendo la
«filosofia dell’esperienza» del Galluppi dal punto ili vista del
kantismo, insiste tuttavia su talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare
alla Critica Mia ragion pura in un senso decisamente empirico¬
oggettivo. Ma tutti quosti empiristi si potrebbero dividere
in due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di criiicisti; e
tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della filosofia scozzese e di
eclettici. Tra gl’ ideologi scrittori come Melchiorre Delfico (1744 -
1835), Pasquale Borrelli (1782- 1849) e Francesco Paolo Bozzelli
(1786-1864) meritano certamente di esser posti accanto agl’ ideologi
contem¬ poranei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi
quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchian¬ done spesso il
pensiero pur senza ripeterlo. Anzi il Bor- relh e il Bozzelli stanno, 1’
uno per la sua genealogia del pensiero (com’ ei chiamava la sua filosofia
dello spirito) e per la sua critica di Kant, e 1’ altro pel suo tentativo
di morale intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi;
di 8 ‘ ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle opere di
quest! filosofi e al tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché
per a nascita due degli ideologi furono più giovani dei criiicisti.
60 STORIA DELLA FILOSOFIA il cui valore
nondimeno fu giustamente rivendicato nella storia della filosofia dall’
ottima monografia del profes¬ sore F. Picavet su Les idéologues
pubblicata nel 1891. Una pari rivendicazione in prò dei confratelli
italiani vuol essere in parte il mio lavoro, mediante una larga
notizia e uno schiarimento delle loro dottrine. Onde ci son rimasti documenti
notevolissimi in libri ed opuscoli estremamente rari, nelle riviste del
tempo e in mano¬ scritti ancora inediti. 4. In mezzo alle due
generazioni alcuni pensatori le-" ' vano la voce contro le tendenze
materialistiche, palesi o nascoste, proprie del pensiero
speculativo di questi ideologi, traendo autorità e argomenti dalla
filosofia del senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo
del Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna origina¬ lità di
dottrine : ma con le loro esposizioni e coi loro commenti di molti libri
francesi, eco, per quanto fioea, di celebri filosofie europee, valgono a
suscitare o pro¬ muovere un moto di studi e di partecipazione al
lavoro filosofico straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce
la fibra del pensiero napoletano, e si prepara una scuola di veramente
alto e libero filosofare: da cui uscirà l’e¬ stetica di Francesco De
Sanctis e la metafisica e la storia della filosofia di Bertrando
Spaventa. In questa parte la mia monografia studia scrittori mediocri,
testi¬ moni di cotesta preparazione al risveglio filosofico po¬
steriore. 5. Nella seconda generazione campeggiano due figure
principali: P. Galluppi e 0. Colecchi: due kantiani, di cui si può dire che
la vita speculativa si consumi tutta nella meditazione del criticismo. Ed
entrambi riescono per due vie opposte al medesimo risultato, che è
di accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare profonda¬ mente
lo spirito nella filosofia del loro paese. Il Galluppi À
61 LA FILOSOFIA A NAPOLI
combatte sempre, o quasi sempre, un Kant immaginario con le armi
del Kant reale ; e il Colecchi combatte con le armi stesse un immaginario
Galluppi, o almeno un Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui
che la dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge mai il
valore intrinseco delle dottrine da lui professate. Dalla curiosa
situazione di questi due pensatori, che genera altre false posizioni
nella filosofia italiana successiva, nascono, com’è agevole pensare, due
conseguenze: 1° che la scuola dei galluppiani continuerà a
combattere Kant e tutta la filosofia tedesca posteriore, sempre
meglio conosciuta in grazia dell’influsso francese già accennato;
2° che la scuola del Colecchi e dei tedescheggianti con¬ tinuerà per un
pezzo a disconoscere il vero valore del pensiero del Galluppi e di quella
filosofia italiana, che da lui prende le mosse : ossia della rosminiana e
gio- bertiana. 6. Se da queste ricerche si sottrae la parte che
con¬ cerne il Genovesi e il Galluppi, si può dire che esse scoprano
una regione presso che sconosciuta nel campo della filosofia moderna. E
poiché anche del Genovesi e del Galluppi questo studio analitico della
serie in cui essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e
in parte più chiara il significato e il valore, può pure af¬
fermarsi, che l’insieme di queste ricerche colmi una lacuna nella storia
della filosofia italiana, anzi della europea. Vico, infatti, e
l’interpetrazione di Vico, i due termini al cui intervallo coleste
ricerche si riferiscono, non sono due capitoli della storia della
filosofia italiana, ma due capitoli della storia della filosofia europea:
ed è difetto gravissimo quello che può notarsi in proposito in
tutte le recenti storie straniere della filosofia moderna. A. Genovesi,
M. Delfico, P. Borrelli, F. P. Bozzelli, P. Galluppi e 0. Colecchi sono
nomi ai quali, una 62 STORIA DELLA
FILOSOFIA volta conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi
pur rovare un posto, e non degl’ infimi, nel quadro degli u imi
tentativi dell’empirismo naturalistico e materia¬ listico del secolo
XVIII e delle feconde discussioni suscitate dalle Critiche di Kant in
ogni paese civile. 1903. DOCUMENTI INEDITI SULL’
HEGELISMO NAPOLETANO 1 « Il trionfo dell’ Idea » in Italia :
Antonio Tari e Floriano Del Zio Fin dal 29 ottobre 1860 B.
Spaventa era stato nomi¬ nato professore di Filosofìa nell’ Università di
Napoli ; e la sua nomina — scriveva a lui stesso il De Meis, da
Napoli — era stata accolta in questa città « con una commovente
impazienza dai giovani e dal pubblico ». Ma 10 Spaventa chiese ed
ottenne di tornare e restare qualche tempo a Bologna, dove nel maggio era
passato, da Mo¬ dena, a insegnare Storia della filosofìa, per farvi
almeno 11 primo corso semestrale e « non mancare al suo
dovere verso quella Università». A Napoli, dopo una rapida corsa
nel novembre, non andò se non negli ultimi mesi dell’ anno appresso. Era
a Torino dall’aprile, perchè eletto deputato di Atessa (ma la sua
elezione fu annul¬ lata il 25 giugno per eccedenza del numero legale
di deputati professori, * quando gli pervenne la seguente 1
Già pubblicato nella Critica del 1906; ma qui ristampato con molte
aggiunte. * Vedi per questi particolari il mio B. Spaventa,
Firenze, Vai- lecchi, 1925, p. 109. 182
STORIA DELLA FILOSOFIA lettera di Floriano Del Zio, che è un
curioso documento delle disposizioni degli animi verso 1’ hegelismo nella
gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era atteso : Napoli,
30 giugno 61. Amico carissimo, Mi prendo licenza di
togliervi con questa mia una piccola parte del tempo che cosi
lodevolmente sacrate alla scienza. E per due ragioni. Per procurarmi
il bene di aver vostre novello, e per dirvi poi alcunché sul trionfo
dell’ Idea, alla qualo abbiamo data la nostra fede. Sono
pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo libro di Vera (V
Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro scritto con molta spiritosità,
e che non solo porrà a dovere 1’ intelletto superficialissimo degli
ecclettici francesi, ma farà pure il suo buon effetto in mezzo al
dilettantismo filosofico de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire
come il Pensiero sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni
positivismo storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e
Spirito, Natura ed Umanità. — Son persuaso p. es. che il signor
Pes¬ ame, che tanto ride dell’ Jissere-per-si — e della Fila
ridotta a Pensiero da De Meis, cesserà di sparlarne così frequeu-
temeute, dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha dato di sé
Monsieur Jauet. Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione
francese una nuova vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in
mezzo agli uomini, noi possiamo dire che oggi il suo proprio principio
filosofico, l’Assoluto Spirito, è la forza che dovrà consapevolmente
invadere ogni cosa, e chiarificare le creature tutte quante di un raggio
della idealità infinita. Affrettatevi, amico, a partecipare alla gran
vittoria. Felice voi, che siete sì bene apparecchiato a questa lotta, che
chiude nel proprio grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’
Uomo, e quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose
corrono come al bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller:
Diesen Kur der ganzen IVelt ! Il punto però che nel libro del Vera
avrei desiderato più estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei
mondi. I,a dottrina di Hegel su questa materia non può essere
difesa che movendo dal principio dell’ Unità della Coscienza di si
L’ HEGELISMO NAPOLETANO 183 dello Spirito,
unità che, nel presupposto della pluralità de’ mondi, avrebbe fuori di sè
i circoli della vita siderea oltre¬ tellurici ; e cesserebbe d’ essere in
conseguenza la pieua ed una Coscienza di sè. A questa è necessario che
tutto 1* essere sia suo sapere. La dottrina poi dello Spirito
assoluto, ne andrebbe, in quel presupposto, interamente falsata. Noi non
conosceremmo pili l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E,
non potendo darsi ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre,
post’ i mondi come innumerabili, intellezioni intinite, infinita¬ mente
diverse, dell’ istesso Assoluto. E dove sarebbe l’idealità, 1’
unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea medesima dell’Assoluto —
, altri potrebbe osservare che quest’ idea ap¬ punto è quella che deve
essere concreta nell’Umanità. L’U¬ nità della Rivelazione universale
dello Spirito sarebbe sempre un postulato. Krause immagina una sintesi
superiore do’ pianeti e delle stelle; ma la comunione dell’Umanità
terrestre colla solare è sempre data da lui come un’ intuizione,
come un desiderio! Anche il signor Tari, riconosce nella sua
Lettera la necessità della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi vedo
sempre che 1’ indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che
il fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa oramai neces¬
sario di approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico nel- 1’
influito filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al con¬ cetto
della finalità assoluta, lo Spirito. La lettera però del Tari
appunto perchè, com’ ei dice, tiene il germe del suo proprio sistema,
avrebbe dovuto essere più lunga e scritta più chiaramente. Vi
prego intanto mandarmi una copia della vostra prolu¬ sione alla storia
della filosofia italiana, perché n’ ebbi ili dono nell’anno scorso una
copia dal vostro fratello D. Silvio; ma quando scesi in Basilicata per 1’
insurrezione, la sperdei a Potenza, e non ho potuto procurarmene un’
altra. Se poi con questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto,
allora usa¬ temi la cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino,
perchè sarà mia cura farla richiedere da librai napoletani.
Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f Esso dovrà levar
grido straordinario, secondo che mi accennano i comuni amici, e per
quanto ancor io presagisco dal vostro ingegno. Date presto ; e nel
frattempo compiacetevi di tenermi 184 STORIA
DELLA FILOSOFIA di tanto in tanto consapevole de’ vostri stndii, e
segnatemi • quelle opere che possono concorrere all’ aumento vero
della scienza. I miei ossequi a Tari ed all’ egregio De
Sanctis. Se posso attestarvi in alcunché la uiia devozione, comandatemi
libe¬ ramente. Vostro amico Flokiano Dei. Zio.
AH’ Egregio Bertrando Spaventa Deputato al Parlamento
Italiano in Torino. II libro, da cui il Del Zio prende le
mosse, è 1 ’ Hé- gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken 1861), che
il Vera, allora professore di Storia della filosofia nell’Ac¬
cademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi per ribattere le
critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet e da altri scolari del
Cousin. — Enrico Pessima, già di¬ scepolo del Galluppi, dal Galluppi era
passato al Gio¬ berti e dal Gioberti al Krause; e mormorava contro
Hegel e gli hegeliani 1 . La lettera di Antonio Tari, a cui il Del
Zio accenna, è un articolo, uscito appunto nel fascicolo di giugno
del 1861 della torinese Rivista contemporanea, col titolo: De’
rapporti del Kantismo collo stato della filosofia in Alemagna, Lettera
filosofica. Il difetto di chiarezza la¬ mentato in questo scritto dal Del
Zio, e divenuto poi sempre maggiore e sempre più caratteristico
del- P ingegno del Tari, — che ingegno ebbe e una certa bizzarra
genialità — aveva fatto dire allo Spaventa, in una lettera a suo fratello
Silvio, dell’8 marzo 1858: «Ho letto molti mesi fa un articolo di
Totonno... Un 1 Vedi il mio B. Spaventa, p. 114; Spaventa, La
fllos. ital. in re¬ lazione con la fllos. europea,' p. 275 e una lettera
dello stesso Pes- sina nella Critica V (1907), 494-5. ♦
L’HEGELISMO NAPOLETANO 185 articolo
filosofico, come puoi immaginarti, sopra un punto di estetica. Mi pare
che abbia studiato finora per imparare a non farsi capire. I tedeschi non
sono facili a comprendersi, e la colpa è un po’ anche loro. Ma i
più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a Totonno; il quale mi
pare che abbia preso da costoro più i di¬ fetti che i pregi. Ti dico, in
confidenza, che sono ri¬ masto trasecolato; e che, dopo tanti anni e con
tanto ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui »*. « Dopo
tanti anni ! » S’erano conosciuti a Cassino, quando Bertrando insegnava a
Montecassino (tra il 1838 e il 1840); e il secondo giorno, seduti
fraternamente sulla sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la
conversa¬ zione: «Dunque, che ne pensate delle categorie kan¬
tiane?»-. Da lui lo Spaventa aveva appreso i rudimenti del tedesco ; e,
col suo aiuto, acquistato familiarità con la letteratura filosofica
tedesca. Nella quale il Tari, chiuso dal 1849 al 18G0 nella solitudine di
un villaggio (Terelle, in provincia di Caserta), s’era sprofondato,
accumulando una meravigliosa erudizione. Questa però non valse in verità
a rischiarare il suo pensiero. Il quale dall’assoluto idealismo di Hegel
finì nell’agno¬ sticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui
credette si '_ lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo
e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica pre¬ suppone un
principio, che, essendo fuori del divenire, è fuori della logica; e non
si può chiamare Volontà, nè Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro;
poiché ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movi¬ mento di
pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza p 'ri SPAVBNTA ’ Dal
184i al i8G1 < leU < scruti e (toc., ed. Croce,» R. Cotuono,
Le lettere di A. Tari in diresa dell’ « Innomina¬ bile», Iranl, Vecchi,
1905, p. XVI. 186 STORIA DELLA FILOSOFIA
non battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. « An- ch’ io,
Bpecie di Lohengrin, difendo il santo Graal. Sapete qual’ è? La dotta
ignoranza, che Hegel chia¬ mava l’ignoranza dotta». Non è
questo il luogo di chiarire questo innominabi- liBmo o limitiamo, — com’
egli anche lo chiamò, — del Tari *. Giova piuttosto ricordare un aneddoto
dello Spa¬ venta. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro
del Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto di punire, il
29 settembre 1882, gli scriveva : « Ti vo¬ levo suggerire di chiedere
consiglio al nostro caro Tari. Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da
lui il di¬ ritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando
fu nominato professore ordinario (nel 1873), che la sua nomina era in
contradizione coll’ esistenza dell’Innomi¬ nabile, principio, essenza,
natura, causa di ogni cosa e avvenimento. Figurati il diritto di punire!»
1 . — Il Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo
scolaro, rispondeva a questo, il 23 ottobre 1882 : « Par¬ liamo ora un pò
del quesito, con cui mi tenta 1’ ami¬ cissimo Bertrando Spaventa. Eccolo:
—Come concilie¬ remo il diritto di punire con la dottrina dell’
Innomi¬ nabile? — Se fossi profeta, o figlio di profeta, di
rimbecco direi : Vade retro, Satana. Noli tentare Tariiim admiratorem
tuum! —- Ma, non essendo Gesù, nè gesuita, mi contento di rispondere con
un tibi quoque. Ossia: — Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo
questa pietra di giuridico scandalo? Anche a te metterebbe conto
salvar capra e cavolo ; cioè la capra della Feno¬ menalità di ogni fatto
umano, ed il cavolo della pretesa * V. le mie Orig. della / Uos.
contemp. in Italia, III, pari. II, pp. 28-37. * COTI’GNO,
Leu. cit M p. 43. L’HEGELISMO NAPOLETANO 187
Giustizia Assoluta? — Eppure ricordo che, disputando con me di
questo brocardico, uscisti in questa categorica sentenza: — La pena non è
che una valvola di sicu- rezza che la società impiega a garentirsi di chi
la in¬ sidia 1 . E di fatto, il voler costruire a priori un ma¬ nifesto
modus rivendi essenziale, epperò cangevole etno- crono-topograflcamente è
marcia follia. La Idea Giustizia Assoluta anzidetto, s’ ha a lasciare nel
natio concavo della luna, insieme al cervello dei tanti Astolfì
dell’in¬ natismo. Chi ben pensa, riconosce la deplorevole povertà
di siffatte deduzioni... Diritti e doveri, Pene e ricom¬ pense non
giacevano in seno a Giove, a mo’ delle uova dell’aquila esopiana, ad
aspettare che lo scarafaggio umano le facesse rotolare nel basso mondo;
ma si for¬ marono, con un quasi stillicidio psicologico, a poco a
poco scavandosi un bucherello nel naturale egoismo... E tutta la
giustificazione delle pene, da quella del ta¬ glione e quella
penitenziaria, che è ancora in Werden si riduce a formare la necessità di
salvarsi al bosco dalle belve accoppandole, ed alla città dai birboni
ren¬ dendoli incapaci di nuocere. Ora quali sono i birboni? ** U1 e
11 busil tis; e qui interviene P Innominabile a comporre la gran lite,
illuminando i legislatori sul da fare in sullo sdrucciolo del dispotismo,
dove si trovano sempre... Il codice penale, non che un bene in sè, è
un necessario male, presso a poco simigliante alla chirurgica
estirpazione di un arto, il quale, se curabile, anche a dilungo,
l’operatore rispetta religiosamente... Un inno- mi 'n^ 10 S ,
paventa avrà l )ure " sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per del
delino, ! V ? Cbe neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia
dello s r n e a,,a | S0Cie,A: d ’"' ,a necf8sUà Andata su"»
natura o spirito, ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino
pensiero dello spaventa intorno all'assoluta giustificazione della pena é
ne suoi Principi di dica, ed. Gentile, p. 102 sgg.
188 STORIA DELLA FILOSOFIA minabilista può
solo affermare, in barba a tutti i dot¬ trinari criminalisti del mondo,
come qualmente il bar¬ baro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par
suo, fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di non
aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in- neggerà al magnanimo
Umberto, il quale, facendo grazia all’abietto Passannante, confondeva
molti tirannelli stra¬ nieri e mostravasi anche dappiù del Re
Galantuomo suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il
palo, in Occidente 35 legislazioni che aboliscono il car¬ nefice (v. ult.
lett. di Victor Hugo): chi ha ragione? Secondo l’illustre prof. Vera ha
ragione il palo!... 1 Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a
modo mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmo- deo
Spaventa »*. — Avviatosi per la sua striida, il Tari, dunque, negava
coraggiosamente jT diritto come diritto. Poeto-1’ assoluto di là dal
divenire, nel divenire, ch’egli vedeva indirizzato a un Nirvana
iperindividualistico, non poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il
magnifico proemio dello Spaventa ai Prineipii di etica (1869) in¬
torno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi al concetto dell’
assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giu¬ stizia non solo comporta, ma
richiede per la propria realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli
etno-crono- topouraficamentc), non era stato scritto. E come in
quel concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che egli
non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità del suo Innominabile
in quanto tale, in quanto sostanza, cioè di qua dallo spirito.
Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a 1 A.
Vbra nel 1883 pubblicò un opuscolo La pena iti morte (risi, nel Sappi
filosofici, Napoli, Morano, 1883. pp. 37-381, dove svolgeva le ragioni del
sistema hegeliano in sostegno della pena di morte. * COTUONO, pp.
22-6. 189 L’HEGELISMO NAPOLETANO
Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni fe¬ conde,
senza scoprire il principio vero del suo pensiero. Molti si ritrassero
presto sconfortati dall’impresa; etra questi il Del Zio, che con tanto
entusiasmo nel ’61 studiava le opere e la letteratura hegeliana; e
ansiosa¬ mente aspettava gli scritti dello Spaventa (la prolusione
letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia italiana del
secolo A VI sino al nostro tempo ‘ e la Filo¬ sofia di Gioberti, di cui
il I» volume usci nel 1863) per fede vaga che indi potesse venirgli la
luce. Il Del Zio allora si preparava a un corso di lezioni,
sulla Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse alcuni mesi dopo
con una enfatica lettura, la quale, come documento aneli’ essa de’ tempi,
merita d* essere ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla
Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel; letta in privato
con¬ vegno ne’ dì 16 e 18 novembre 1861*: scritto pieno di
giovanile entusiasmo e di ardore filosofico. Oltre le opere del Vera, fin
allora pubblicate, l’Autore vi cita ed esalta 1 aurea operetta di Karl
Werder (Logile, als Commentar u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1
Abili, Ber¬ lino Idèi) « restuta incompiuta con grave danno di co¬
loro che s’ iniziano alla filosofia hegeliana » (p. 22); i Esquisse de
logique di K. L. Michelet (Paris, 1866); e 1 Risi, in Scritti filosofici,
ed. Gentile pp. 115 sgg. Giorgio Pallavi¬ cino, a una figliola del quale
lo Spaventa aveva privatamente Im¬ partito qualche lezione, gii scriveva
per questo opuscolo: Amico pregiatissimo, l.a ringrazio
della sua Prolusione — un magnifico lavoro — il quale rnfiìf. -u- l Sn me
. *' (le ?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande Opera eli
Ella sta meditando. Ammiratore di Vincenzo Giohprti. posso io non
ammirare il suo degno interprete: II. Spaventa? lo l’ammiro e i
amo! Giorgio Palla vicino. * Napoli, S. Marchese, IMI,
di pp. 8-1 In 16». Reca quest'epigrafe: « Essere, sapersi e volersi come
la Personalità eterna dello Spirito, ecco il line della lilosofla
». 190 STORIA DELLA FILOSOFIA
di questo le lezioni Ueber die Persònliehkeit Oottes u.
Unsterblichkeit der Seele, oder die ewige Persònliehkeit des Geistes
(Berlin, 1841) ; le quali « quando furono pub¬ blicate, tenevano aspetto
di polemica negativa in rap¬ porto a certi donimi dell’ intelletto ; ma
1’ avanzato sviluppo della scienza ha tolto loro il senso
irreligioso, che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo
volevano a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come
la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità » (p. 41): ciò che
appare, nota il Del Zio, dell’opera maggiore del Michelet, Die Epvphanie
der ewigen Per- sònlichkeit des Geistes (in tre diali., 1844, 47 e 52).
A proposito del problema hegeliano del punto di partenza
fenomenologico e logico della filosofia, l’Autore dichiarava di sperare
che le difficoltà sarebbero state da lui sciolte più chiaramente nelle
note a una sua traduzione del System der Wissenschaft, ein
philosophisches Eincheiridion (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz : « che
avrei di già pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra
che tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al libero pensiero» (p.
23). Un altro suo lavoro concerneva la filosofia di Krause, la quale,
specialmente per mezzo di Ahrens (il cui Corso di diritto naturale ,
1838, era molto letto dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche
tradotto già due volte in italiano, da Francesco Trincherà e da
Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi « in qualche modo popolare nelle
nostre province ». « Le sue Lezioni sul sistema della scienza (Vorlesungen
nb. System der Philos., 1828)», dice il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo
enciclo- 1 Corso Ul Diruto naturale o della ftlos. del dir. traci,
da Fr. Trin¬ cherà, Napoli. 18-11, e Capolago, 1812. Nuova trad. eseguita
sulla quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip.
dell'An¬ cora, 1860. Più tardi la sesta ed. (uscita in ted., Vienna,
1870-71) fu Irad. in italiano da A. Margllieri, Napoli 1872.
191 L’HEGELISMO NAPOLETANO pedico eh’ egli tentò
dare a tutto lo scibile rivelano in classico modo il fermento
incommensurabile dal quale era travagliata 1’ intera Allemagna alla
vigilia dell’ ap¬ parizione d’ Hegel sul teatro della scienza. Ma in
Krause c’ è il presentimento della scoperta, che fu fatta invece da
Hegel »; e questo giudizio era il « risultamento di una conveniente
disamina » . « A tanto speriamo di adempiere più tardi, pubblicando un
nostro lavoro, che ha per ti¬ tolo: Studii sul rapporto del Sistema della
scienza di Krause a quello di Hegel » . Appunto per quella certa
popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel Napoletano, il Del
Zio stimava opportuno che fosse di¬ scussa la sua teorica generale da’
cultori della filosofia. « Se non cominciamo a disputare pubblicamente
sulle nostre convinzioni speculative, il trionfo della scienza e il
progresso della nazione non saranno nè liberi nè universali » (pp.
27-8). L’opuscolo era dedicato Alia gioventù napoletana con
parole di questo tono : « A voi dedico, o fratelli, questo piccolo
lavoro, il quale non è altro che il programma dell andamento scientifico,
a cui dovrebbe avviarsi, se¬ condo le mie convinzioni, il nostro paese,
per essere in armoniu coll’ indirizzo generale della scienza in Eu¬
ropa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete con¬ durlo ad atto,
perchè 1’ amico vostro, comechè giovane, è già percosso dai dolori dell’
animo e dalle sofferenze lei corpo che 1’ opera dissolutrice della
tirannide seppe in molti generare negli anni scorsi». Continuava
an¬ nunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme divine
sarebbero venute ad accendere 1’ anima dei gio¬ vani napoletani : tre
sedendovi d’ un unico sole, il libero Pensiero ; le tre fiamme della
Filosofia, della Rivoluzione, dell’Amore. «Colla prima darete fine alla
superstizione del Papato, la più maligna fra quelle che ancora cor-
192 STORIA DELLA FILOSOFIA rodono lo spirito
moderno. Colla seconda scrollerete il Dritto divino ed ogni altra specie
d’irragionevole im¬ perio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in
creazione eterna di bellezza e di verità ; costituirete I* Italia,
e getterete il fondamento alla fratellanza democratica di tutta
Europa». Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia
dello spirilo, per mostrare come lo spirito sia necessa¬ riamente condotto
dalla sua interna dialettica al punto di vista del sapere assoluto, il
Del Zio schizzava con pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli
invitava con molto calore : « Deliberando di seguirmi fraterna¬
mente nel mondo del sapere, renderete testimonianza dell’ istinto divino
che move lo spirito del nostro tempo, e della vita novella d’Italia resa
a sè stessa ed alla sua naturale grandezza... Il nuovo metodo
dell’insegna¬ mento filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore
assoluto», della morte alle cose finite e a se stesso, e dell’ amore per
1’ assoluto, in cui lo spirito deve rina¬ scere. Quindi combatteva le
obbiezioni mosse all’ hege¬ lismo «dalla corta vista dell’intelletto 1 o
del sentimen¬ talismo ipocrita della santocchieria » . Ai filosofi dell’
in¬ telletto, del pensare finito addebitava la loro incosciente
predilezione dello scetticismo e del nullismo: e dimo¬ strava che « non
solo il sapere assoluto è possibile, ma che esso è 1’ unicamente possibile
» ; poiché ninna realtà finita, naturale o spirituale, può dirsi
conosciuta fuori del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici
di buona o di mala fede, cercava d’ additare il carattere
intrinsecamente religioso della filosofia hegeliana, nella quale la
verità della religione non è negata, ma trasfi¬ gurata e fatta valere per
la ragione, assolutamente. In- 1 Intelletto (Verstand), nel senso
di Hegel. L' HEGELISMO NAPOLETANO 193
fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora sal¬ dissimo
tra i giobertiani di Napoli, del primato italico- e della filosofia
nazionale, sosteneva, a simiglianza dello Spaventa, ohe « la grandezza
del nostro spirito non è tanto nel sapersi precursore di tutto
l’incivilimento occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne
il successore eterno ». Si ammira Vico: ma egli « travagliò por
tutta la vita per provare che uno spirito solo regge il mondo delle
nazioni, che una è la mente dell’ Uma¬ nità, e che un piano ideale
stringe in armonia assoluta la totalità de’ fatti politici e le forme
svariatissime del- 1’ intera vita sociale». «La storia della filosofia è
dav¬ vero un’ opera unica, una sola attività produttrice... Le
frutta abbondanti di quei primi pensieri filosofici, che gl’ italiani del
XV e XVI secolo destarono nella coscienza umana sono appunto i grandi
sistemi della fi¬ losofia moderna... Nutricandoci del supere e della
vita europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,
celebreremo la festa di commemorazione a quel Risor¬ gimento, che il papato
e l’Impero soffocarono nel sangue di tutta la Penisola» : sopra tutto a
Bruno, la cui vita randagia per 1’ Europa, ma cominciata in Italia e
in Italia tragicamente finita, sembra al Del Zio il sim¬ bolo
divino del corso storico della filosofia mo¬ derna nel mondo. E col
ricordo della vita del Bruno e un invito a vendicarne la morte facendo
tornare in Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare
viaggio, termina questa prolusione. Cinque giorni dopo leggeva
nell’ Università la prolu¬ sione al suo corso lo Spaventa, tornando a
trattare il tema : Della nazionalità nella filosofia. 13 —
Gentile. Storia della filosofia. 194 STORIA
DELLA FILOSOFIA 2 . Marianna Fiorenti Waddingtoìi e D.
Spaventa Affrettando col desiderio la pubblicazione dell’
impor¬ tante carteggio della marchesa M. Fiorenti Waddington
tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fio¬ rentino, gioverà
spigolare tra le carte dello Spaventa, alcune lettere e ricordi di questa
egregia donna, che non ci paiono inutili alla storia della fortuna
di Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in rela¬ zione con lo
Spaventa aveva passata la sessantina, essendo nata nel 1802: da Schelling
era giunta fino a Hegel : dall’ ammirazione del Mamiani, per la conver¬
sazione frequente col Fiorentino, che da Bologna andava spesso a Perugia
ospite suo, era potuta passare a quella del critico severo della
prefazione, che il Mamiani nel 1844 aveva premessa alla sua traduzione
del Bruno di Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che ne
caròla promessa con un certo imperio di belletta che. ancor pos¬
siede, come il Mamiani scriveva al suo fratello Giuseppe il 7 aprile 1844
;* prefazione piaciuta già allo stesso Schelling. 3 Ma ben presto la
marchesa tedescheggiente e libera pensatrice e il conte italianissimo e
cantore dei santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi
intendere. Già in una lettera del 1846, 4 il Mamiani le rimprove-
' Vedi B. Spaventa, Saggi di critica. Napoli, Gliio. 1867, pp. 366 sgg.
Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della, fllos. contemp. in Italia
III, parte II, pp 37-50. * Mamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E.
Viterbo. Roma, 1809. 1, 211. * In una sua lettera a un suo amico,
del 26 dicembre 1845, il Ma- raiant scriveva: «Quantunque lo vi discorra
della tllosolla tedesca moderna con gran franchezza di giudicio, lo
Schelling non se ne tiene punto mal soddisfatto, e scrivendo alla
traduttrice, che è la march. Florenzi, ha detto di me parole onorevolissime
» (op. cit. I, 320). Cfr. il Bruno stesso, ed. I.e Monnier, 1859, p.
213. * Leti, cit.. Il, -10. Cfr. la lett. al fratello del 28 ag.
1846 (II, 33). L'HEGELISMO NAPOLETANO 195
rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo alla mano
ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della nebbia del suo grande
maestro, lo Schelling. L’ anno ap¬ presso le scriveva: « ìli congratulo
molto con voi dello studiare indefesso che fate e dello involgervi
coraggiosa tra le tenebre sacre della metafisica dello Schelling».
1 Era quasi un addio dalla spiaggia a chi si avventurava per il
rischioso viaggio! Sul principio del 18GB, la Fiorenti aveva
pubblicato i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia (Perugia,
V. Bartelli) ; e il Fiorentino, che doveva scriverne una recensione,
nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P. di Torino, del 20 aprile
1863, a. IV, pp. 250-52), la incitò a mandarne un esemplare allo
Spaventa. Quindi la seguente lettera : Signore, Se
un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non m’ in¬ coraggiasse a
mandarle il mio libretto testé stampato, io non oserei inviarglielo.
Esporlo al giudizio d’ uno de’ più distinti lilosofi è al certo temerità
più die grande. Ma io mi affido più assai all’ indulgenza di cui sono capaci
i grandi uomini, e temo maggiormente i piccoli. Ardisco ancora dimandare
il suo leale, franco giudizio e la sua severa censura; ed ancbo la
disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi com¬ plimento.
È dunque sotto l’egida del nostro amico che il mio libretto vieue a
cercarla. Mi abbia per iscusata s’ io l’incomodo por cosa di sì poco
valore; ma, le ripeto, io riposo nella indulgenza sua. Me le offerisco e
raccomando. Perugia, li 20 marzo 1863. Obb.ma
M. Marianna Florbnzi WAnDiNcroN. Lo Spaventa in ricambio le
mandò il suo volume Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia,
starn- 1 Lett., li, 314. 196
STORIA DELLA FILOSOFIA pato 1’ anno innanzi ; a cui la Florenzi
fece gran festa, diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che
si raccoglievano intorno a lei. € Dono prezioso, scriveva
all’ autore il 9 maggio del '63, di cui mi valgo per miu istruzione e
per ammirare uno de’ più grandi filosofi (o il più grande), che ora
dia fama alla nostra nazione » . Da altre lettere della colta
gentildonna si rileva che tra gli ammiratori guadagnati da lei allo
Spaventa, de¬ siderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano anche
delle donne. Tanto poteva 1’ esempio della Florenzi ! Il 25
maggio questa mandava allo Spaventa un suo piccolo discorso sojrra l'
Eleroyenia che doveva essere stam¬ pato coi Filosofemi. Era instancabile
: quando, nel giugno 1864, lo Spaventa le ebbe mandata la memoria su
Le prime categorie della logica di Hegel, ella poteva annun¬
ziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato anche quell’argomento
(Saggio di psicologia e di logica, Fi¬ renze, 1864): «Mi preme sempre di
leggere le cose sue, e per questo ho indugiato a dirmene grata e
ricono¬ scente. Non ho parole per esprimerle quanto quella lettura
mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo non poteva a meno di
escogitare fino al fondo l’argo¬ mento trattato, ed in vero non c’ è
nessuno che abbia penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni
di llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi. «Ella ha
ragione: chi è mai entrato sì puramente nella scienza del filosofo?
« Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in quanto che io
aveva già compiti due capitoli del libro che scrivo ora : Il divenire e V
essere e il non essere, pen- 1 Cfr. la Necrologia che scrisse di
lei il Fiorentino, in Scritti vari, Napoli, 1876, p. 410-1.
L' HEGELISMO NAPOLETANO 197 siero ed
essere. Quanta istruzione io posso ricavare da lei ! Dunque, per tutto il
piacere e per tutto 1’ utile ri¬ cevuto io ne la ringrazio di cuore ed
anima » (Lettera del ló giugno ’64). In una poscritta d’ una
delle sue lettere la Florenzi scriveva allo Spaventa: «Vi prego di fare
il grande sforzo di rispondermi al pili presto » . Lo Spaventa, in¬
fatti, era tardissimo a scrivere, anche se chi aspettava era una dama
così gentile. Il Fiorentino badava a fare le sue scuse. Così, in una
lettera allo Spaventa del 19 novembre 1804, gli scriveva : « Alla marchesa
Florenzi ho parecchie volte detto quale sia la vostra indole,
perciò non ho durato fatica a persuaderla della vostra trascu-
ranzn nello scrivere. Ella ha sotto i torchi due saggi, uno di logica e
1’ altro di psicologia, ed aspetta di averli in pronto per rispondervi.
Credo che li avrà prima che il mese finisca. Li ha composti con
l’intendimento di dare due lavoretti elementari, e mi sembrano molto
giu¬ diziosi e precisi e chiari, da qualche capitolo almeno che ho
scorso, correggendo gli stamponi che le venivano quando io ero colà. A
proposito di lei, che cosa avete fatto per l’Accademia, di cui mi
parlaste costà? Io non le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e
sarebbe cosa ben fatta se si potesse effettuare, perchè veramente è
una donna meravigliosa per 1’ ardore che ha per la scienza » .
Lo Spaventa aveva pensato di premiare la nobilissima operosità e il
virile animo, onde la Florenzi proseguiva gli studi filosofici, facendola
ascrivere all’Accademia delle scienze morali e politiche di Napoli.
Nomina che la scrittrice gradì molto, e ne fregiò il frontespizio
de’ suoi libri pubblicati dopo il 1865. Primo il Saggio sulla natura
(Firenze, 1866), che è dedicato appunto allo Spaventa: non per orgoglio ,
ma soltanto perla fiducia... 198 STORIA
DELLA FILOSOFIA che gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto
maggiore in¬ dulgenza tisano alle persone di buona volontà. Gliene
chiese licenza il 14 dicembre 1865 con una lettera molto mo¬ desta,
dove sono espressi gli stessi sentimenti della de¬ dica a stampa, e da
cui s’ apprende che il Saggio era da tre mesi in tipografia.
Nell’aprile del ’G6 fu a Napoli il'cav. Evelino Wad- dington,
marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa liete accoglienze. «Egli se
n’è tornato», scriveva il Fiorentino, « contento di aver conosciuto un
uomo del vostro ingegno e con quella franca ed ingenua indole, che
è segno infallibile». E come a Napoli si prepa¬ rava, in occasione d’ una
esposizione di cotone, un Con¬ gresso scientifico italiano, la Florenzi
contava di venirci anche lei; come infatti ci venne: «Ebbi la vostra
me¬ moria 1 che ho letta con grande attenzione per racco¬ glierne
quell’ utile che sogliono apportare i vostri scritti. Evelino fu molto
contento di conoscervi e lo sarò pur io fra poco, perchè ai primi di
agosto contiamo di essere costì nuli’ ostante gli eventi del
monito. « Mi faceste dire di fare un qualche piccolo discorso
per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato alquanto, e per distenderlo
vorrei la certezza se si fa o no codesto Congresso. « Io
presumo che no, stante 1’ imminenza della guerra ; nulla di meno vi prego
a scrivercene una riga ; ed ancora più mi preme sapere se vi troverete in
Na¬ poli a quell’epoca, o alla campagna, ed in quale cam¬ pagna, od
in quale città ; infine, mi direte dove dimo¬ rerete » (15 giugno
’6G). 1 La dottrina della conoscema di G. Bruno, pubbl. negli
Atti dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli del 1865; risi. In Saggi
di cri¬ tica pp. 100-S55. 199 L'HEGELISMO
N U'OLETANO Un’ ultima lettera del 8 agosto 1867, ha un certo
in¬ teresse, per l’accenno che vi si fa al discorso Della
immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi pubblicò nel maggio 1868
: « Io mi preparo o mi sono già preparata a scrivere un
opuscolo sulla immortalità dell’anima: problema scabroso! ma che voglio
sostenere perchè sento 1’ im¬ mortalità dentro di me e voglio essere
immortale a tutti i costi. Sarà dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1
la mia assoluta opposizione». Nè anche gli amici hegeliani,
non feuerbachiani, d’ I- talia fecero plauso all’ assunto della marchesa.
E lo Spaventa alluderà forse, con quell’ ironia che gli era
propria, al discorso poco persuasivo della Florenzi, quando nello stesso
maggio 1868, scrivendo al De Meis, la chiamava: « la nostra immortale
Marchesa, — immortale almeno come, socia della Beale nostra Accademia » .
! L’intimo pensiero dello Spaventa sull’ immortalità dell’
anima individuale apparisce dal principio d’ una malinconica lettera da
lui scritta al De Meis il 13 luglio 1880 ; dove ricorda la sua prima
figliuola morta a tre anni : Napoli, 13 luglio 80.
Mio caro Camillo, Spero che la festa di quel sant’ nomo del
De Lellis, 3 tuo omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno cogli
amici. In particolare io conto sulla reminiscenza, anche
involontaria, di que’ maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di
quelle cocozzelle, oramai divenuti celebri no’ nostri annali
domestici. Via de’ Fiori a San Salvario, n... 4 . Il numero non lo
ricordo 1 II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod
und Sterb- li chheil (183(1) sostenne la mortalità dell'anima.
J v. scritti filoio/lci. ed. Gentile, p. 303 n. 8 San Camillo
De I.ellis, di Bucchianico, patria del De Meis. • Recapito dello
Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella Scano. moglie dello
Spaventa, a lui sopravvissula, morta il 18 die. 1001.
200 STORIA DELLA FILOSOFIA più, e non ho tempo
(li consultare la signora Isabella, che attende alle faccende di casa.
Non lo ricordo; ma fa lo stesso: ricordo il luogo, il prato, la soala, il
piano, le stanze e il mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che
scrivevo : le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi
he¬ geliani svelati ; e te che venivi ogni giorno, angelo consola¬
tore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia povera prima Mimi e
lo sue ultime parole: — Papà lavorai — Papà lavora! — Io non so so
(|uella casa sia rimasta ancora in piedi; oramai non vedo piti Torino da
circa vent’ anni : ma ella sus¬ siste tuttora qui, come forse non ha mai
meglio esistito iu realtà, nel mio cervello, o, come (licevano una volta,
nell’ a- nima mia; o non si dileguerà se non quando questo cervello
(Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E che ne sarà! Che
significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf Eppure è stato ed è.
O ci è proprio uu modo di essere che non è sussisterei E sussistere
cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine umana ha trovato lo consolazione: —
tutto nasce e perisce, è vero, ma gli atomi restano, e son sempre quelli,
non mutali mai. — Bella scoperta! me li fo fritti gli atomi, io.
Troppo serio per la festa di San Camillo ; troppo malinco¬ nico,
anzi. Ma va e freua la mia fantasia!... Lo Spaventa, non occorre
dirlo, non era materialista. Ma nella concezione hegeliana della natura e
dello spi¬ rito non trovava posto per lo spiritualismo astratto, e
quindi neppure per l’immortalità personale. 3. Il primo
scolaro (li B. Spaventa (F. Fiorentino). Battaglie carducciane
ancddote. Nella nota polemica del 1876 con l’Acri il
Fiorentino dice di aver conosciuto tardi lo Spaventa, e poco prima
i suoi libri. « Letti i suoi libri, intravidi un altro mondo, e mi parve
rinascere. Allora (1861-1862) ero professore a Maddaloni, e stavo a
Napoli. Tra i molti L’HEGELISMO
NAPOLETANO 201 che si preparavano a combatterlo c’ero
io; ma, lettolo, mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi
avversarii non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia
maraviglia, quando dai più sinceri riseppi, ch’ei non avevano lotto nulla
di lui, e che lo combattevano, perchè volevano combatterlo, senza sapere
perchè! ». 1 Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma,
quando, sullo scorcio del ’62, andò a Bologna professore di Storia
della filosofia, non E aveva visto che due volte o tre. * * L’ultima di
queste ne ebbe consigli e suggerimenti circa gli studi per cui la
Biblioteca Universitaria di Bologna avrebbe potuto offrirgli E
opportunità. Giacché dallo Spaventa egli fu stimolato a intraprendere
quelle ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui pro¬
vennero le sue opere più importanti. E quando si di¬ visero, lo Spaventa
dovette annunziargli il libro, che allora stampava, Prolusione e
introduzione alle lezioni di filosofia , dove il Fiorentino avrebbe
trovato uno schema della storia della filosofia italiana. Glielo
inviò poi infatti con una lettera, della quale possediamo la
risposta : Mio carissimo amico, La vostra lettera e il
vostro libro lungamente aspettati mi sono arrivati carissimi. Mi son
messo subito a leggerlo, e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se
non che intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impa¬
ziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite sempre
profondo e stringato ragionatore ; oogliete nel criticare il nodo del
sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi luci¬ damente che meglio non
si può. lo vi ho sempre tenuto, e vi tengo a ninno secondo nell’arto
difficilissima della critica filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui noi
Italiaui abbiamo ' La fllos. contemp. in Italia, Napoli, 1876, p.
150. * O. c., p. 152. 202
STORIA DELLA FILOSOFIA specialmente bisogno, serondochè voi avete
maestrevolmente notato. Le considerazioni su la lìlosofia nazionale sono
esatte, e l’indole della filosofìa del Risorgimento, che io ho
letta fino al Bruno, è scolpita cou molta fiuezza, e contorni assai
rilevati. Le osservazioni su l’antichissima sapienza degl’i¬ taliani del
Vico, e ricavate qunuto al fondo dalla Scienza nuova, sono inappuntabili
; ed a rifiutarlo bisognerebbe di¬ sconoscere la teorica della parola dal
Vico medesimo adottata. Io mi rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo
amico, ed auguro all’ Italia molti uomini che vi rassomiglino.
Negli scrittori, come negli uomini, a me piace la lealtà del
manifestare le proprie convinzioni, quali che si fossero; la coscienziosa
ricerca nel formarsele, ed il saldo proposito del sostenerle. Ora invece
si scrivacchia e si cinguetta a spro¬ posito, e più ilei nomi e
dell’autorità si fa caso, che non della verità eterna ed immutabile. Voi
siete molto opportuno nelle condizioni poco prospero del nostro paese, e
gran bene potrete fare. Esperto come siete di gran parte delle
nostre città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o nessuna
può spingere e continuare il movimento della italiana filo* sofìa. Qui se
ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano pochi uditori, alle altre
della mia facoltà meno che pochi, o nessuno. Per buona ventura è venuto
qua a continuare i suoi studi filosofici un bravo giovane delle provincia
meri¬ dionali, un tal Donato Jaja, quel medesimo che mi accom¬
pagnava, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno, e buona volontà,
eh’è ancora più rara no’ nostri giovani. Altri vanno e vengono più per
curiosità che per vaghezza ili studio: sono le comete di tutte le
cattedre. Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che
lessi qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa
costà. Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia com¬
petente, altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi sapete che io
non mi sdegno dell’essere appuntato e corrotto: amo la verità più del mio
amor proprio... A libri filosofici qui si sta molto male, e sebbene
mi sia stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe
venire, pure io ci conto molto poco per la scarsezza dell’as¬ segnamento
di cui gode questa Universitaria Biblioteca. Avrei bisogno di buoni
espositori di Platone e di Aristotile, perchè questo anno mi occupo della
filosofia greca, e intanto, tranne L’HEGELISMO NAPOLETANO
203 alcuni commentatori antichi, non si trova altro. Ho
fatto ve¬ nire «lei mio la esposizione della Logica aristotelica di
Bar- thólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come si
riescef ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le vostre
prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine poteva
credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno Medio Evo»
pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I mano¬ scritti
di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che su la
metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere, e a parer mio ili
poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto Krigena, e Patrizzi, che costà
non mi era riuscito avere. Oopo che avrò letti questi, mi metterò a
studiare la storia della filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi
diceste buona. * 1 Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio
Cousin scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto in¬
torno al Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo. È piuttosto
una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi manderò, se vi aggrada
leggerla. Parla altresì del Vera.® Ecco quante ve no ho dette, e forse vi
avrò annoiato: ma io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho
fatto alla mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi
amo assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più
scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando avrete tempo
scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con qualche spirito privilegiato
ed amico in tanta solitudine in cui vivo. Se potessi in qualche cosa adoperarmi
per voi, mi terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque, mio
carissimo amico, ed amate Di Bologna, 12 del 1863.
Il tutto vostro Francesco Fiorentino. 1 Enrico Tommaso
Colebrooke (1765-1837), celebre indianista, pre¬ sidente della Società
Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè Vedas and on thè
phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Miscclla- neous Essaj/s (London,
1837, 3.» ediz., 1873); — e a parte: Essays on thè relii/ion and phtlos.
of thè Hlndous, 3.» ediz., London, 1858. 1 Tra la corrispondenza
Inedita del Cousin ci sono lettere del Fiorentino: vedi Gentile, Albori
delta nuova Italia, I, 150. 204
STORIA DELLA FILOSOFIA La Prolusione al corso di storia
della filosofia (letta il 25 novembre 1862) fu dal Fiorentino pubblicata
nel Progresso di Napoli (a. IL voi. II, 1863, pp. 22-33) ; ma non
venne più ristampata. È infatti ancora un do¬ cumento della fase
giobertiana del pensiero del Fio¬ rentino, quantunque vi appariscano le
prime tracce dei nuovi studi e delle nuove tendenze dell’ autore.
Giova riferirne qualche brano: Il pensiero, o signori, regola
il mondo o lo riempie, perché esso è la pienezza ed il vigore dell’
essere : è la sua compe¬ netrazione, e la sua identità. L’ essere senza
il pensiero è spar¬ pagliato, disterminato, e però incompiuto e Unito.
Imperocché l’essere compie se medesimo geminandosi, vale a dire
facen¬ dosi principio e fine; ed il mezzo, pel quale esso si pone e
conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità suprema... (p.
23). Se non che esso nel mondo inorganico si occulta inconsa¬
pevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad agitarsi operoso nel
vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal grave involucro della
materia nella forma dell’animale; e si sveglia libero e padrone di sé
filialmente nella coscienza umana... Il pensiero divino che trasparisce
attraverso tutto il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica,
appaia piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela
am¬ piamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il resto della
natura è parola scritta, rinchiusa, direi quasi cristallizzata: l’uomo
solo è parola viva e palpitante... (p. 24) La dualità di natura e
spirito non è insuperabile. Essa inette capo « nell’ unità cosmica ». E
in virtù di questa la natura tende allo spirito; che comincia bensì
aneli’ esso come forza individua partecipante all’ uni¬ versità del cosmo
; ma esso si generalizza pensandosi. ...Do spirito è l’attuazione
compiuta dell’unità cosmica, e ciò che questa è in potenza, ed esso è in
atto. Or quando lo spirito si abbia assimilato la natura e sé stesso per
quella serie di sviluppamenti che va spiegata nella Fenomenologia,
L'HEGELISMO NAPOLETANO 205 egli,
a rendere scientifico il suo processo spontaneo ed in- cosoio di sé, si
rifà sopra il cammino fatto. E può rifarsi in tre modi. Quando rigira sè
in sò, dà luogo a quel ripensa¬ mento che si dice riflessione
psicologica; e quando si ripete su la natura, partorisce la riflessione
detta dal Gioberti ontolo¬ gica. Ma sopra eoteste due guise di
riflettere, ve u’ ba una terza, che lo vince di pregio e di amplitudine,
vale a dire la riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su
la sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura e 10
stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non è il
moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, 1’ ul¬ timo grado
del pensiero sarebbe la riflessione psicologica e l’ontologica, e la
logica non sarebbe possibile. V’è logica, perché v’ha un assoluto
perfettamente uno; v’è la logica, perchè v’è Dio... Da logica è dunque
l’unità finale della cosmologia e della psicologia, come la protologia n’
era stata 1’ unità primitiva. L’ unità assoluta, 1’ unità cosmica, 1'
anima, 11 concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa
il pensiero speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima e la
massima, e che comprende la protologia, la cosmologia, la psicologia e la
logica. . (p. 2fi) Venendo alla storia della filosofia, il
Fiorentino di¬ chiara che il disegno della storia si deve modellare
su quello della scienza : sicché la storia dev’ essere essa medesima un
sistema. « Una storia che non fosse un sistema ma un’ imbastitura di
fatti racimolati qua e là, non sarebbe meritevole di tanto nome». Quindi
la con¬ nessione da preferire tra i vari sistemi è quella logica.
So bene io essersi talvolta tenuto conto o della successione
cronologica, o della continuità etnografica; confesso che queste maniere
contengono qualche parte di vero ; che il tempo maturi ed incalzi le
deduzioni della logicn ; che la scienza alcune volte si sviluppi come un
dramma vivente in una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura
estem¬ poranea ed eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra
questi angusti cancelli... Egli è da maravigliaro intanto come fra
tanti che hanno trattato la storia della filosofia quasi uiuno abbia
fatto capo dellu genesi logica dei sistemi, salvo l’Hegel
206 STORIA DELLA FILOSOFIA in cui celesta legge si
appalesa inflessibile come il fato; e nelle cni mani la storia si
trasforma in una geometria, dove nulla viene lasciato all’arbitrio del
pensatore. Hegel accorcia e distende i sistemi come il Procuste della
favola, affinché tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della
trico¬ tomia. Il Richtor inchina per contrario a sostenere l’au¬
tonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi, e leva di
mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò monotona, nell’altro
la varietà rimaue disordinata ed inor¬ ganica. Contemporaro però questi
due estremi, badare alla continuità del pensiero universale, senza
disconoscere l'in¬ fluenza individuale, è proprio mettersi sul giusto
mezzo, ed in postura convenevole, onde si possa portar giudicio
sopra i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia
(f), ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla
convinzione del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento
della sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali
cause lo abbiano sforzato a questa credenza... (p. 29) La storia
della filosofia presuppone un sistema, che sia come il regolo con cui
conviene riscontrare e mi¬ surare le dottrine. E dalla maggiore o minore
ampiezza del criterio di una storia, dipende il valore di questa.
Hegel ha immedesimato la storia della filosofia col suo si¬ stema,
affermando non essere tutti gli altri se non momenti del suo, e
(singolare ardimento!! egli non si è peritato di pian¬ tare le colonne di
Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà di lui, provando coi
fatti, se dopo la grande Enciclopedia ancora allo spirito umano qualche
cosa rimarrà da fare. Infine il Fiorentino toccava la questione di
una filo¬ sofia italiana contestata dagli storici stranieri.
Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel
tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco ina¬ lienabile,
tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il Cousin di poi, n cui non
tornava conto una terza nazione, non avendo una tripartizione a fare,
ridusse le partite, e diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania
ed alla Francia... Il professore di Berlino e quello della Sorbona
si L’ HEGELISMO NAPOLETANO 207
trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1 Forse
Telesio e Galileo non parlarono mai del metodo spe¬ rimentale ? Giordano
Bruno non mosse dall’unità della sostanza prima ancora dello stesso
Spinoza? Campanella non iniziò la osservazione psicologica? K Vico non partì
dalla conversione del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido
cito potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;
tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi non rimase
luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni di oltremonte non ha fatto
mai nulla, non ha pensato mai a nuli», e sola, spogliata del comune
retaggio dell’urnan go- nero, ella è costretta a stare spettatrice
stupida od ingloriosa delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il
passato della Ger¬ mania o della Francia potesse diventare il suo
presente; troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità,
le venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi
manipoli hanno gli altri mietuto. Mi rincresce, o signori, di dover
prorompere in parole amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore
molta ri- vegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover
rinfre¬ scare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei
padri fu chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli.
No, io protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli
allori dei nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della loro
gloria, fragile schermo alle immeritate rampogne... (p. 31) Il
Fiorentino ricordava la « gran sollecitudine » che a Napoli egli aveva
visto « affaticare gl’ intelletti traen¬ done argomento a bene sperare e
ad asserire che forse la filosofìa era « deputata a maturare i fati della
patria». Faceva voti cho quel « desiderio ardentissimo » si dif¬
fondesse da Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter proseguire
l’impresa, che qui (a Bologna) inaugurava il suo illustre predecessore»;
cioè lo Spaventa. Infine, una patriottica perorazione : Por
gli altri, o signori, la scienza può essere forse un ad¬ dobbo ed un
decoro, por noi italiani è desiderio di riscossa, è condizione
indispensabile di vita. Noi non sapremmo pas¬ sarcene senza tralignare
dalla nostra antica fierezza, senza 208 STORIA DELLA
FILOSOFIA disconoscere la missione nostra nella storia. E poi
grandi cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio
allenarci, che fortificandoci la mento di profondi studi. Nella
infanzia dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica
possibili le Crociate; nella loro virilità non si possono aspettare
altri miracoli, che lineili della scienza... Un pensiero che non
fosse progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei; ma
esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire pensiero, si bene
fantasma vano, e passeggero capriccio. Io nel filosofo anzi tutto voglio
guardare l’uomo coni’esso è, e voglio trovarcelo vergine, schietto,
maschio e vigoroso. Io batto le mani a Socrate che combatte u Potidca,
sento un cotal orgoglio di coltivare la scienza elio mantenne serena la fronte
di Giordano Bruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte che lascia la
cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non so rifinire di
ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Cur- tatouo, ove siete caduti
voi, Santarosa, Poerio e Pilla, va¬ lorosi ingegni, valorosissimi
cittadini. Sì, o giovani, di profondi veri e di magnanimi fatti
noi abbiamo bisogno, e 1’ Italia sarà. Addoppiate gli sforzi...
Per¬ corriamo di conserva e con alacrità 1' arduo arringo della
scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa potentemente al riscatto
della patria nostra. La scieuza lo iniziò, ed essa indubitatamente lo
coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il cuore a piò candidi alletti ed
utlbrzando le braccia della no¬ vella ed adulta generazione. Un ultimo
sforzo ancora, e quanto prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco
dell’ inno nazionale cantato sulle serve lagune dell’Adriatico, e le
piume dei nostri bersaglieri si agiteranno al vento che spira dai sette
colli (pp. 32-33). Dagli studi sulla filosofia greca pel
corso universitario annunziato nella lettera del 12 gennaio 1863, fatti
sotto l’ispirazione dello Spaventa, uscì il Saggio storico sulla
filosofia greca (Firenze, Le Monnier, 1864), dove il gio- bertiuno di tre
anni innanzi, autore dell’ opuscolo 11 Panteismo e G. Bruno, si palesava
hegeliano e scolaro dello Spaventa, di cui infatti metteva a proposito
la memoria su Le prime categoi'ie della Logica ili Hegel (1864).
Così il Fiorentino si staccava coraggiosamente da’
L* HEGELISMO NAPOLETANO 209 vecchi
amici di Napoli : onde nella conclusione del Saggio (p. 302) accennava:
«Devoto alla verità, non mi ter¬ ranno del certo impastoiato nè vecchie
preoccupazioni, nè codarde paure». Non gli mancarono, infatti, silenzii
sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura, che fu la prima
origine della polemica scoppiata dodici anni dopo con l’Acri e il
Eornari. Nella seguente lettera ne abbiamo il più antico documento:
Mio carissimo amico, Vi so infinitamente grado di llo coso
gentili che mi dito del mio libro, o non vi nascondo che le vostro parole
mi sono valso di sprone efficacissimo a seguitare. Voi sapete di
quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo anteponga ad ogni nitro
che potessi avere in Italia, o anche (V oltre¬ mente 5 onde me n* è
venuta allegrezza o buona voglia da non potersi misurare. Per me la
filosofìa è stata sempre un amore, e perciò mi vi sou messo in buona
fede, e senza preoc¬ cupazione di partigiano. Non timido amico del vero,
io dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in ciò debbo
confessare che voi mi siete stato esempio e conforto. Delle altrui
dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me la continua non
ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio costume; uon mi dorrà di
perdere amici, i quali pretendessero d impormi un treno, e di vincolarmi
con pastoie, che Panimo mio, non che nou comportare, anzi disdegna.
Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e epocial- nmnte
di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre espo¬ sizioni, tra le
quali quella del Cousin. Sopra tutto ho in pn.'gio il vostro lavoro su
Kant e Rosmini, dove mi pare ve¬ dere il kantismo scolpito con tutP i
suoi pregi e le sue la¬ cune. Mi vo procacciando i nostri filosofi
«lei Risorgimento, per occuparmene in un lavoro che ho in animo di
stendere que- st’anuo medesimo. Ditemi voi se le biblioteche di
Torino, dove siete stato, ne hanno qualcuno, e quale; perchè potrei
chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno mandati a questa
hibliot«^ca por studiarli... Vi ricordo e rnccomando da ultimo
l’affare della Metafisica 1-1 — Gentili:. Storia della filosofia.
210 STORIA DELLA FILOSOFIA Aristotile del Bonghi,
avendo egli ora il tempo di de¬ dicarsi alla continuazione di quella
stampa. Add.o, uno ca¬ rissimo amico, e ricordate ed amate
Di Bologna, 19 novembre 1864. Il tutto rostro
£—5S-Svt*-- — Addio. Dal lavoro su Kant e
Rosmini dello Spaventa ossia La filosofia di Kant e la sua relazione con
la filosofie italiana (Torino, 1860, rist. in Scritti filos pp. 1-
9) il Fiorentino aveva mostrato nel Saggio di avere ben compreso il
valore della categoria kantiana. Ma poco vantaggio potè certo cavare
dalla esposizione < Cousifr^Li «fe filosofìa di Kano che - 18«
era stata pure tradotta in italiano da F. Irmctiera eredità,
probabilmente, dei primi studi di Napoli, avan alla conoscenza dello
Spaventa. Della tradurne della Metafisica di Aristotele, di cui il Bonghi
aveva pubblicati i primi sei libri a Torino nel 1854, il Fiorent.no
in¬ sieme col Bonatelli, che allora gli era collega a Bologna
procurava di rendere possibile, con una sottoscrizione . resto della
stampa, anzi la pubblicazione completa, con hTristampa della prima parte;
ed è a deplorare che non ‘ S riusci», e che Jop» il Bonghi ne .1*»
*»b.n. donato il pensiero, quantunque la sua interpretazione
non sia senza difetti. TTT^ale che allora pubblicavano a
Napoli il De Sancii» e .1 Settembrini.
L’HEGELISMO NAPOLETANO 211 Il corso 1864-65 fu
in effetti consacrato a Kant. Della prolusione è notizia in quest’ altra
lettera, dove il Fio¬ rentino torna a lagnarsi del silenzio del Fornari,
dando a divedere quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso':
Carissimo amico, ...Io sono venuto qua a passarvi le feste,
ed ieri, appena, arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da
Bologna. Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le
va¬ canze ve ne lasciano il tempo. Ho letto a Bologna una
prolusione su Kant, di cui questo anno mi occupo precipuamente. Sarà
stampata a Firenze in un nuovo giornale scientifico, elio ha per titolo
La civiltà italiana, e eh’è diretto da De Gubernatis. Quando ne
avrò gli estratti, ve ne manderò uno subito. Se voi voleste
scrivere qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo nuovo
giornale, so che De Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un bravo
giovane, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto. Sapete voi,
che, avendo mandato il mio libro ad alcuni a Napoli, non ne ho avuto
neanche risposta! Che voglia dire, non so ; ma mi par barbara usanza il
voler imprigionare la mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e
rinunzio vo¬ lentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono
con¬ ciliarsi con l’amore della verità. Por la soscrizione
ili Bonghi vi rinnovo le premuro, perchè egli sta aspettando che io gli
rimandi i manifesti. So come si vada incontro ad inconvenienti, ma noi
non assumiamo nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico,
ed amate Di Perugia, 26 dicembre 1861. Il vostro
afet.mo sempre F. Fiorentino. La Civiltà italiana pubblicò
nei primi tre numeri (I trimestre, gennaio 1865) il discorso del
Fiorentino : Em- manuele Kant ed il mondo moderno; come pubblicò di
lui stesso il 19 febbraio 1865 (n. 8) lo scritto su I dia- 1 Cfr.
quello che se ne dice nella Filos. contemp., p. 139.
212 STORIA DELLA FILOSOFIA Ioghi di Orazio Rucellai;
dall’aprile al giugno dello stesso anno (II trimestre, nn. 1, 2, 5, 7, 11
e 12), le lettere Stilla Scienza Nuova di Vico / e nel luglio, il
discorso Dell’armonia del concelto di Dante come filologo, come storico,
come statisla (II semestre, nn. 1 e 2): lavori tutti ristampati più tardi
dall’ autore, salvo il primo, negli Scritti vari (1876). Del
discorso su Kant dimenticato conviene riferire qualche pagina, la quale
dimostra quanto il fiorentino avesse profittato della lettura degli
scritti dello Spaventa. Ecco, per esempio, come poneva il problema
kantiano : jjji sperienzu prima di Kant era stata smaltita siccome
il fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne di
Ercole, di là dalle quali non era dato allo spirito umano travalicare
senza pericolo d’imminente naufragio. Kant ri¬ flette, clic la sperieuza
è tiu fatto, e ebe perciò non può essere primitivo; essendo un
risultamento, del quale si può e si deve cercare la guisa e la ragione
del nascimento. Egli adunque propone una domanda nuova nella storia della
tìlosoiìa. coni’è possibile la sperienzat E più generalmente
ancora: coni’ è possibile il conoscerei Con la quale domanda 1
oriz¬ zonte della scienza si trova onninamente cangiato, e i vecchi
filosofi seriamente imbrogliati. Il Galluppi, che primo in Italia giudicò
convenevolmente il movimento kantiano, si accolse di questa novità di
problema, e con la Bolita sua semplicità di linguaggio la espose così: —
Prima di Kant la filosofia era dommutio .1 o scettica: con lui comincia
una nuova forma, la critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano
la sperieuza, o no; Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma disse: come
si formai II problema così mutato non versava più sull’esi¬ stenza
del fatto, ma sul suo nascimento; e cotesto è la mu¬ tazione più
sostanziale che Kant avesse recato in mezzo nella scienza
filosofica. I.a Scolastica mutuava or dalla tradizione religiosa,
or dalla storia, or finalmente dalla filologia il contenuto della
sua scienza: presupponeva l’anima, il mondo, Dio, i loro attributi,
la loro origine, e vi attagliava una forma scientifica per pal¬ liare
l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegnò, e sopprimendo
213 L’ HEGELISMO NAPOLETANO quel vuoto ingombro,
fece capo alla coscienza, dove credette trovare il punto stabile, sul
quale puntellando la leva onni¬ potente del pensiero si mettesse in grado
di smuovere il mondo antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo
sotterra¬ tagli ridusse lo spirito a tavola rasa, e vi disegnò sopra
le prime linee della scienza nascente. Kant sorpassò l’uno e
l’altra, e soffiò su tutto il sapere precedente, perfino su la coscienza
di Cartesio, pertìuo su la sperienza di Locke ; es¬ sendoché entrambe
contenevano degli elementi variabili, ed egli, messo su l'avviso dalle
rigide deduzioni di limile] non voleva più far entrare nella scienza
nulla elio avesse sembianza di mutabilità. Esposte
rapidamente la unificazione del molteplice, onde nell’esperienza kantiana
s’intuisce il sensibile e onde si giudica per mezzo delle categorie le
intuizioni, il fiorentino dimostra come la vera unificazione ancora
non sia compiuta, essendosi passati dall’ opposizione della materia e
della forma dell’intuizione a quella di intuizione e categoria.
Il legame primitivo, ove si rannoda il multiplo sì della sensibilità,
come della intuizione, è l’unità trascendentale della coscienza. E
badiamo che non ci tragga in inganno il nome medesimo di coscienza, di
cui Kant si vale in due si¬ gnificazioni ben differenti. Questa coscienza
trascendentale ò primitiva ed originaria; producondo gli opposti, non può
ella essere un opposto; se no, si andrebbe all’infinito. L’altra
coscienza di soconda muno vien oontraseguata con la giunta di empirica,
ed è una fattura di quella primo, come ogni altro fenomeno: va costruita
con la forma del tempo, con le categorie di possanza, di causa, di
relazione, e via via. La coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai
alla coscienza trascendentale, la quale sola ò unità originaria e
feconda. L non è senza ragione se ho ribadito questa
distinzione, essendo capitalissima nel sistema che stiamo abbozzando,
il vero merito di Kant non è di avere trovato i concetti a priori,
ma di avere posto a capo della sintesi quella eli’ ei chiama energia
porlentota, vale a dire la unità sintetica originaria della coscienza.
L’illustre prof. Spaventa lia con molto aocorgimento
214 STORIA DELLA FILOSOFIA messo in sodo questo punto,
criticando la esposizione che il Ro- smiui aveva fatto del Kant. Non è
gii che gli opposti sieno dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne
impadronisca e li vada elaborando: questo processo ci era prima di Kant,
ed egli lo ha sorpassato, vedendone la insufficienza. Imperocché
quale conoscenza potessi avere, posto che i termini, ond ella si compone,
fossero stati accoppiati per caso e alla rinlusaf Data da uua parte la
intuizione, dall’altra la categoria, e poi lo spirito che le sforza ad
un’ unione innaturale, o per lo meno arbitraria ; non si vede che il
giudizio sarebbe un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non
già un processo dello spirito, il cui carattere specialissimo è
l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è perchè entrambi
scaturiscano da una sorgente comune, e perchè il riunirli è per lui una
scria necessità. Ma Kant non fu coerente a questo concetto della
sua energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale pura
con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione logica delle categorie,
che ripescò perciò empiricamente attraverso i giudizi ; stralciò il
pensiero dall’ essere, fa cendo della sua attività una forma affatto
vuota ; e finì nel noumeno inconoscibile. E la conseguenza è
giusta, ogni volta che si ammetti' un pensiero che non pensa nulla, e, di
rincontro, un essere che non può essere pensato. Se non che lo sbaglio
sta appunto in questa concessione. Un pensiero vuoto non è : un
essere non pensato non è: sono due astratti, ai quali voi
accordate, con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir
mai cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?
Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo balenato
alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬ noscerlo ed io vi
replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile a conoscere di questo punto
oscuro. Esso è l’oggetto del pensiero spogliato di ogni determinazione,
vuotato di ogni contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’
identità pu¬ ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu
crea¬ tura vostra?.... L’HEGELISMO NAPOLETANO
215 Nè le altre due Critiche riescono a sanare
pienamente le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta
tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura. Nella
stessa Civiltà italiana (II sem., n. 10, 17 set¬ tembre 1865) il Fiorentino
inserì una recensione del primo di quei tanti libri che poi Ruffaele
Mariano venne compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo
Eraclito, € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze, 1865). Recen¬
sione benevola verso il giovine autore, nella quale giova rilevare due
osservazioni, che mostrano già nel ’65 ben determinate le due direzioni
divergenti degli scolari del Vera da una parte e di quelli dello Spaventa
dall’ altra. Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in
senso di... retriva la filosofia di Rosmini? Perchè dir filastrocca
quelln del Gioberti? Questo acerbo procedere verso due illustri italiani,
quando anche si fondasse sul vero, non sarebbe certo modesto consiglio il
tenerlo. Nè veggo che l’essere hegeliano debba di necessità far avere in
poco conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e seria,
che P illustre prof. Spaventa ha fatto dell’ uno e dell’altro, prova il
contrario». L’altra è anche più notevole: «Ammesso come pre¬
feribile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra Eraclito, non
v’ha proprio nulla a ridire, specialmente su la relazione che P Hegel
pone tra Eraclito e P ultimo degli Eleatici? E forse vero che Eraclito
segni un progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato prima
di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello sa¬ rebbe apparsa alla
coscienza speculativa prima della dialettica zenoniana ; onde l’andamento
storico, per lo meno, sembra essere stato da Hegel capovolto. Dico
ciò, allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso la
eccessiva fiducia nell’ autorità di maestri, per grandi che fossero. Le
colonne di Ercole dell’ ingegno umano. 216 STORIA DELLA
FILOSOFIA bisogna tenerle discoste più che si può ; e se si
potesse affondarle nell’Oceano, tanto meglio. Anche lo Spa¬ venta
era di quest’avviso. Nel 1865 il Fiorentino si accinse al suo
lavoro sul Pomponazzi, pur continuando all’Università i corsi sulla
filosofìa tedesca moderna. E scriveva allo Spaventa: Mio carissimo
amico, È trascorso gran tempo che manco <li vostre nuovo,
non ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando il
Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella cam¬ pagna. Ora che
il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto inquieto per causa di qualche
amico elle vi ho, e più d ogni altro per causa vostra. Levatemi da questa
iuquietitudine scrivendomi due parole che m’informassero della vostra
salute. Io sono tornato qui prima della riapertura della
Università, e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate le vacanze
qualche giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia, e poi
il più del tempo in villa. Sto esponendo la filosofìa tedesca da
Kant in qua ; e ciò alla Università. Sto preparando una biografia ilei Pomponazzi
ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla nella Società di Storia
Patria, di cui faccio parte. Se questa prima non dispiacerà, o non parrà
inutile, ne farò qualche altra di qualche pensatore più importante che
abbia insegnato a Bo¬ logna. Oltre l’Acbillini, chi altro mi suggerireste
voif Forse potrei farla ancora del Cromonini, che, stato a Ferrara,
può dirsi delle stesse provinole di Emilia: del Zabarella no, eh’è
stato soltanto a Padova. Io poi a queste biografie, elle leggerò nella Deputazione
di Storia Patria, aggiungerò per conto mio la esposizione e la critica
del contenuto filosofico dei loro libri, compiendo di ciascuno una
monografia. Che ve ne pare t ...Col medesimo ordinario vi
spedisco un libretto conte¬ nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova.
Le scrissi per compiacere a De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per
la sua Civiltà italiana. Non sapendo se abbiate o no avuto quel
periodico, ve le mando così radunato, come le feci estrarre;
L’HEGELISMO NAPOLETANO 217 e vi prego di accettarla come
testimonianza della mia sincera stima ed amicizia. Addio
adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed amato Di
Bologna, 30 novembre 1865. Il vostro afi.mo amico P.
Fiorentino. E questo il primo disegno del Pomponazzi, la cui
biografìa fu prima inserita negli atti della Deputazione di Storia Patria
per le provincie di Romagna (1867), e poi riprodotta in capo al volume
pubblicato nel maggio 1868. Il 19 giugno 1867 il Fiorentino, che
diventava sempre più intrinseco dello Spaventa, tornava a darne
notizia all’ amico : « Io aspetto la nuova ristampa [della tua memoria]
sul Campanella, 1 perché essendomene quest’ anno occupato nel corso
scolastico, sono desideroso di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono
attorno ad una monografia sul Pomponazzi, attorno a cui raggrup¬
però i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa il Le Monnier... Me
ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri che mi sono occorsi ». E il 26
aprile 1868: « La stampa del mio libro è finita, e sono attorno a
scrivere due parole di conclusione, per le quali ho aspettato di
ri¬ leggere tutto il libro, che non avevo riletto, nè ricopiato,
dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai di Pomponazzi un
manoscritto inedito col titolo di Quae- sliones ammostiate : * le chiesi
al Napoli. 3 Mi promise di spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi
turba non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Ma¬ ledetta
fiaccona degl’italiani! ». 1 III Saggi ili critica, Napoli,
1867. 5 Cfr. Fiorentino, Pomponazzi, p. 509. «Federigo
Napoli, allora segretario generale del Ministero della I. P.
218 STORIA DELLA FILOSOFIA Uscito
il libro, il Fiorentino, mandato che l’ebbe allo Spaventa, ne attendeva
con la solita ansietà un giudizio. E giudice, in altro campo, era stato
quell’anno lo Spa¬ venta a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui
un’eco risuona anche nella lettera qui appresso riferita del
Fiorentino. Era stato col Brioschi e il Messedaglia a fare quella
ispezione alla Università, di cui parla il Carducci in Ceneri c faville ;
e aveva riferito lui al Mi¬ nistero. Mio Carissimo
amico, Ilo ricevuto i manoscritti del Gatti, che ho
consegnato subito al Siciliani, uonchè lo due dispense che mi
mancavano, e di cui ti ringrazio vivamente... Non ho visto incora
l>e Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera di venti pagine:
1 ci dovrà essere una epopea intera. Qui si fa un grati dir
male di te per la famosa relazione: * io uon l’ho letta, e se non la
leggerò, non me ne sto al detto di nessuno. Mi si è detto cose, alle
quali, come puoi pensare, non ho potuto dar credito: tra le altre cose
che voi avete dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in
massa, e che in difetto di scienza, si va in cerca di popolarità
nello associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il detto,
nou protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una grossa
dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non no ho avuto
mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci vorrà un pezzo prima
che me ne tocchi un briciolo. Manco male se si acquistasse dormendo,
perchè allora potrei averci delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello
che si bucina qui, e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse
vero, 1 La lettera al De Meis che fu pubblicala col titolo
Paolotttsmo, positivismo e raslonallsmo , c che é qui appresso
citata. « Si allude a una Relazione da lo Spaventa presentata al
Ministero della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in
commissione col Brioschi e col Messedaglia, nell’ Università di Bologna,
iter ragioni d'ordine politico, nel 1868. Un articolo del Carducci su
questa faccenda, pubblicato Dell'Amico del popolo, di Bologna, del 29-H0
luglio iami. si può vedere nel volume teneri e faville, serie I: Opere,
V, 61 sgg. L’HEGELISMO NAPOLETANO 219
è qnell’aver messo sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un
fascio, i professori bolognesi, lo sono nn mezzo proscritto, perchè
sapendomi tuo amico, o si guardano di me, o mi tempestano a tutta
furia. Lasciamo questa miseria. Ho letto i documenti che il
Berti lui stampato della vita di Bruno. Il processo veneto, se non
e stato adulterato il contenuto, fa mostra di poca fer¬ mezza, o non so
persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli hai visti! 1 Ho tra
le mani pure la seconda edizione delle opere di Comte, e voglio leggerla
tutta, perchè ne ho Ietto soltanto esposizioni, benché assai
larghe. Il mio libro è (inito, almeno le correzioni ultime le
mandai una settimana fa, ma ancora noi vedo. Appena uscirà,
scriverò a Firenze, che di là stesso te ne mandino mia copia, per
far più presto. Tu poi leggila col tuo comodo, e dimmene il tuo
parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o che non puoi
tutto quello che vuoi. Mi prometto di avere qualcosa di tuo pel
giornale; qualcosa del Settembrini, fosse anche tuia pagina. Il Siciliani
spesso me ne fa premura... Io non solo non ti ammazzo, ma ti rin¬
grazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi che inai. Non credo
però a quel « subito », con cui vuoi darmi ad in¬ tendere che mi
scriverai del lavoro di Labriola.* * Sii contenterei che fosse tra nn
mese. Hai avuto il libro del De Meis! 3 Dopo il Don Chisciotte
non ho letto libro che mi avesse fatto rider tanto : le cause del
riso sono spesso gravide di grandi pensieri. Mi piace molto, ma molto.
Qui l’hanno con lui tutti, il dott. Rossi perchè noi trova abbastanza
filosofo, le donne per essere state chiamate animali domestici, e portino
i bambini per essere stati ingiuriati 1 II Fiorentino, esaminali
più lardi gli atti del processo veneto, si confermò Infatti nel sospetto
che fossero adulterati. Vedi un suo scritto nel Oiorn. napol. di fllos. e
teli., luglio 1878. * Non saprei dire a qual lavoro si
alluda. * Il Dopo la laurea del l)e Meis (1808-69).
220 STORIA DELLA FILOSOFIA per
tignosetti. La contessa Gozzadiui 1 gli scrisse una lettera, nella quale
si firmava: « l’animale domestico di Gozzadini*. Addio, mio
carissimo Spaventa, veglimi bene come te ne voglio io Di
Bologna, 19 maggio ’68. Aff.mo tuo amico F. Fiorentino.
Lo Spaventa dovette rassicurarlo sul contenuto della famosa
Relazione. Quindi quest’ altra lettera del Fio¬ rentino : Mio
carissimo amico, Ero capacitato anche prima, che tu non potevi aver
detto tutta quella roba da chiodi di questa Università, che altri
diceva, ed i pih credevano, lo perù, come amico, mi tenui in obbligo di
informartene, non per conto mio, ma per tua regola. Tu puoi già pensarti,
che con gli altri ho detto, e gridato, e asseverato, esser impossibile
che tu avessi voluto, e potuto dire quello che non era; e elio la verità
poi non si può, nè si dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto
bene, perchè mi ha snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’in¬
tendo, propendeva sempre a darti ragione, e non ci era bi¬ sogno di altri
eccitamenti. Io dunque non solo non ti ammazzo, ma neppure ti muovo un
rimprovero, molto meno poi per mie personali considerazioni, lo sono un misto
di stoico, di cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so
quale prevalga pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti
non voglio applausi; dunque, mi sento in grado di resistere ad ogni
tentazione. Ad una sola cosa non resisto, ed è il bisogno di voler bene
agli amici, e di dir loro franca, ed anche brusca la verità.
Tu avrai dovuto ricevere a quest’ ora una copia del mio Pomponazti;
perchè io, vedendo il ritardo di Le Monnier a spedirmene le copie,
commisi ad un mio amico di spedirne 1 Maria Teresa G., di cui
scrisse la Vi la 11 marito, Giovanni Goz- zadini (Bologna, Zanichelli,
1884), con pref. di G. Carducci. V. pure Carducci, Opere, III, 369
ss. 221 L’HEGELISMO
NAPOLETANO una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo
commotlo nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die
tu possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più
istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi più me lo dirà
chi meno me ne crederà degno, nè io ho da peccar contro la modestia per
accettarli, o per pronunziarmeli io stesso; ma chi mi mancherà di certo
sarà chi mi dica: qui hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio:
queste pagine avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che
quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso
l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio mezzo
tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir tutto in una
parola, figurati di scrivere una pagina di quella relazione, per la quale
vivrai eterno tra gli archivi del Mi¬ nistero, e poi scrivimi un
letterone quanto quello che scrivesti a De Meis. Più male parole ci
troverò, e più te ne renderò grazie. A proposito, quella tua
lettera, con partito unanime, fu li¬ cenziata alla stampa, riseoandone
certi nomi propri, e certe espressioui che ricordavano il Candelaio di
Brano... Io mi oc¬ cuperò in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori.
Vorrei farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare
lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che a me
pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le lezioni, perchè tu
sai che questa rivista non è tanto facile... Addio, mio carissimo
Spaventa, e veglimi bene come te no voglio io Di Bologna, 3
giugno 1868. Ajff.mo tuo amico F. Fiorentino. La
lettera dello Spaventa, stampata nella Rivisiti Bo¬ lognese, , che allora
il Fiorentino pubblicava con l’Al- bicini, il Siciliani e il Panzacchi, è
quella al De Meis, col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo
(rist. in Scritli filosofici, pp. 291 sg.). Gli articoli che il
Fio¬ rentino aveva in animo di scrivere sulla scoperta dello
Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò qualche anno più
tardi in quello inserito nell’itoh'a dell’ Hillebrand.
222 STORIA DELLA FILOSOFIA E poiché
abbiamo accennato alle brighe universitarie bolognesi del 1868, di cui fu
tanta parte il Carducci, diamo pure un altro curioso brano di lettera del
Fioren¬ tino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza da
Bologna, dove si serba il ricordo d’una polemica del Carducci col De Meis
e col Fiorentino: « Io sono stato poco bene, parte per la stagione
che corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale ci
siamo trovati De Meis ed io, e di cui non so se ti è pervenuto rumore. Or
dunque, hai da sapere, che il Carducci, credendo dall’articolo di De
Meis, intitolato Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli
scrisse contro nell’-Amico del popolo parole aspre. Gli diede del-
l’imbecille, chiamò citrullerie le cose dette dal De Meis... L’ articolo
non era firmato ; ma io sapeva esserne stato autore il Carducci, per aver
questi scritto le stesse cose in una lettera particolare al Siciliani. s Risposi
io, di¬ cendo... potersi combattere le opinioni, senza insultare le
persone. Il Carducci si rivolse contro di me una prima volta ; ed io lo
avvertii privatamente, che lo avrei jHinto sul vivo. Non si stette a
questo avviso, e ripigliò da capo una tirata contro di De Meis e di me ad
un tempo » (18 marzo 1868). Il Fiorentino replicò, ed ebbe, a
quel che sembra, l’ultima parola. Ma, «tutto ciò mi ha irritato»,
egli scriveva nella stessa lettera, « ed il povero De Meis n’era
rimasto seriamente afflitto : dopo avuta la rivincita, che tutta Bologna
ha approvato, si è rinfrancato ; ed ora * Pubbl. nella Rivista
bolognese del 1868. * Documenti dell’amicizia del Carducci per P.
Siciliani sono i giudizi del primo sul Rinnovamento della filosofia
positiva in Italia del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II, Opere ,
VII, 362-68: e le af¬ fettuose parole Alla bara di P. Siciliani, in
Ceneri e faville, s. Ili, Opere, XI, 313-316.
L’HEGELISMO NAPOLETANO 223 è allegro e sta bene...
Eccoti descritta la nostra battaglia, eh’è finita con nostro
decoro». Quegli articoli il Carducci non li volle pili
ristampati. Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬
tracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia di questo aneddoto.
1 In un’altra lettera di due anni appresso (25 maggio 1870)
del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: « Io sono sul punto di
rientrare in lizza col Carducci, che mi ha provocato con una nuova
lettera insolentissima. Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto
sot¬ trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi de¬
finitivamente da Bologna ». Nel novembre 1871 il Fio¬ rentino, infatti,
si fece tramutare nell’ Università di Napoli, come professore di
Filosofia della storia. Ma non aveva lasciato Bologna quando
cominciò a lavorare intorno al Telesio. Ecco infatti che cosa
scriveva allo Spaventa il 14 gennaio 1869: Mio carissimo
amico, Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò ho
avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo fratello, che tu eri
stato a villeggiare negli Abruzzi. Ora è cominciato un anno nuovo, e
voglio ritentare se tu, chi sa, volessi pure incominciare una vita nuova.
Dalla parte mia non voglio mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali
non ultimo quello di scrivere un poco più frequentemente agli amici.
Vedi, che non ho detto di pensare o di voler bene ad essi, perchè
so che per questo riguardo non ci è bisogno di miglioramenti. Io
quest’ anno mi occupo di Leibniz o di Spinoza princi¬ palmente, poi dei
seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di Ma¬ lebranche. Mi servo, oltre
alle opere loro, di varii espositori e critici, tra i quali della
stupenda storia di lCuiio Fischer. 1 Vedi B. Crocb, Documenti
carducciani: una dimenticata potè- mica tra II Carducci, F. Fiorentino e
A. C. De Mele, nella Critica vili (1910), pp. 401-421.
t 224 STORIA DELLA FILOSOFIA Avrei
intenzione di scrivere quulclie cosa sul movimento telesiano, ed ho
scritto per avere alcuni manoscritti che ri¬ guardano Telesio, e che si
trovano parte costà, parte a Firenze. 1 lo aspetto sempre il tuo parere
sul mio libro; parere, che per essere più aspettato, e piìì pregiato di
tutti, si fa lungamente desiderare. Ma verràf Lo spero. Hai
letto che cosa ne scrisse Franti sul Centralblatt? Egli stesso mandommi
con molta cortesia un numero di quel gior¬ nale, dove ci era la sua
rivista sul mio libro. Con De Meis ci vediamo spesso, ma egli non è
in grado di darmi tue nuove, più che io non sia riguardo a lui. La
neve ieri si è fatta vedere la prima volta in città: tu però quest’anno
non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi quasi sarei tentato di
pregare che a qualche professore saltasse in capo di tribuneggiare per la
tassa del macinato, per vederti comparire in commissione straordinaria.
Ma non vorrei poi il danno del prossimo: in questo sono cristiano.
Tra questi giorni scriverò a Vera per invitarlo a scrivere qualche
cosa su la nostra Rivista. 11 Siciliaui, con le suo velleità ortodosse,
n’ò uscito, come saprai, ed io e l’Albicini vorremmo tenerla in piedi,
anche uu po’ più decorosamente. Con te non ci vogliono inviti; ma, lo so
purtroppo, non c’è neppure da far grande assegnamento. Addio,
mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per dire a chi mi doumnda di
te, che sei vivo o sano. Di Bologna, 14 del 1869.
Aff.mo tuo amico F. Fiokentino. L’articolo del Franti
sul Pomponazzi uscì nel Cen- tralblait del 30 ottobre 1868, e fu tradotto
dal Tocco e pubblicato in Italia, in una difesa dell’opera del
maestro contro gli attacchi della Civiltà Cattolica (nella Rivista
contemporanea di Torino, a. 1860, voi. LVI, pp. 247 58). Del
Telesio si torna a parlare in una lettera del 9 novembre 1869 : « Tocco
ti ha mandato la prima dispensa 1 Vedi L. Settembrini,
Epistolario, con pref. e note di F. Fio¬ rentino, 3.* ed. Napoli. 1898,
pp. 285-88S. 835-8. 225 L’HEGELISMO
NAPOLETANO delle sue Lezioni, * 1 e so che aspetta il tuo giudizio.
Io ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un lavoro sul
Telosio, che non so come mi potrà riuscire. Aspetto la tua memoria
completa su P Etica di Hegel. 1 Quanti più ne conosco, tanto più ti stimo
e ti voglio bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te ed a De
Meis questo mio lavoruccio sul Telesio, quando' sarà finito: accetteresti
tu la dedica? Tra me e te non ci sono timori di adulazione, o di altri
secondi fini : è una pubblica professione di stima e di amicizia,
che mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del Telesio
(18<2) fu dedicato, infatti, allo Spaventa: non solo come
testimonianza di amicizia, ma come dovere di gra¬ titudine e di
giustizia: di giustizia verso chi aveva scritto i saggi sul Bruno e sul
Campanella ; di grati¬ tudine per l 'insolita luce che scintillava da
essi, e da cui il I iorentino era rimasto colpito. In questi studi
storici sui filosofi italiani del risorgimento il Fiorentino infatti non
fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello Spaventa: da lui avviato e
da lui guidato. Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per
pre¬ pararsi al primo corso di Filosofia della storia da tenere a
Napoli : Camerino, 26 luglio 1871. Mio carissimo
amico, Ti Borivo da Camerino, per sapere come stai, poiché
non mi iti dato di rivederti a Bologna, dove sperava poter passare
qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di discorrere 1 F.
Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei, Bologna, R. Ti¬ pografia,
1889, con pref. del Fiorentino. 1 il proemio a gli Studi sull'mica
di Hegel era uscito nel 1869 nella Riv. bolognese; ma l’anno stesso fu
ristampalo con gli Studi negli Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi.
di Napoli; e il tutto fu ripub¬ blicato da me nel 190-1 col titolo di
Principti di Elica (Napoli, Pierro).. 15 - Gkntilb. Storia della
filosofia. 226 STORIA DELLA
FILOSOFIA teco seriamente, per sapere che cosa avresti creduto
meglio, ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno venturo in
coleste Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i desideri!, ed
anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere sui
generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come in¬ troduzione,
entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo tuo avviso in contrario,
il mondo grimo. Dol mondo orientale so poco: avrei bisogno di studiare
prima; ed il tempo, per questo anno almeno, mi manca. Della Grecia
conosco qualche cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei
suffiiiien- temente. Che cosa ne dici tu? Quali libri mi consigli di leg¬
gere ? lo sto rileggendo gli storici greci ; e dopo averli riletti
testualmente, uii gioverò del Grote e del Curtius. Per la parte
letteraria ho il Milller (Ottofrodo); per le religioni, la Storia di
Alfredo Minirv; per la parte filosofica, il Zeller; per arte greca forse
mi gioverebbe il Winckelmann, ...a noi so, perchè ancora non lMio
lotto. Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i materiali; ma
U resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia Mia
storia mi servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio largo
assegnamento. Intanto comincia dal darmene qualcuno, e fa presto...
Tutto tuo F. Fiorentino. Aggiungo qui appresso un
altro gruppetto di lettere o frammenti di lettere dello stesso Fiorentino
allo Spa¬ venta, di cui trassi copia alcuni anni fa dalla carte
dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca della Società
napoletana di storia patria ; poiché anche queste lettere e frammenti /
gettano qualche luce sugli studi, sulle passioni, sulle idee, che si
agitavano in Italia in¬ torno allo Spaventa. (Pisa, 14 aprile
1873). — Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed a quest’ora sarà a Milano, e
domani parlerà a Bergamo. Si trattenne con me la giornata d’ ieri, ed
arrivò qni avantier- sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato tanto.
Gli dissi L’HEGELISMO NAPOLETANO 227 elle ti
avrei scritto stamattina ed al solito ti mando queBta lettera col liciti.
1 K la tna lunga lettera? 15 rimasta tra i pii desiderii, di
cui è lastricato, dicono, 1’ inferno. Io ho scritto una risposta
all' accademico linceo Pietro Hu- cione. 1 Si sta stampando a Napoli, e
vorrei che tu ne guardassi le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto
al Zumbini, perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo
delle mie solite. La presunzione e P ignoranza nel Ferri si bilan¬
ciano tanto, che non so a quale delle due dare la preferenza.
Aspetto tua lettera dopo letto questo articolo: mi preme sapere il
tuo giudizio, e ti do piena facoltà di mutare, e di cancellare anche
qualche cosa, die non ti paia conveniente, o inesatta.
(Portici, 9 settembre ’73). — Ieri tornai da Soma, dove la¬ sciai
Silvio che stava benissimo. Ho trovato qui una lettera dello Zeller, clic
mi annunziava la sua venuta a Napoli. Oggi P ho visto, ed ho insieme saputo
dal Labriola, che tu sei a Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di
te, ed egli de¬ sidererebbe di conoscerti di persona, come ti conosce di
fama. Dimora questa settimana... (Pisa, 31 dicembre ’7(i) —
Prima che tramonti l’ultimo sole ili questo anno, e sta già per
tramontare, voglio scriverti. Il tuo ostinato silenzio avrebbe
scoraggiato ogni altro, non me, ohe quando si tratta di te, il peggio che
possa pensare è, che il calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia.
Kccoci ora intesi : tu taci, io scrivo. Io sto bene, e tutti di
casa pure, salvo la Tuta 3 eh’è un po raffreddata. E tu? E donna
Isabella? E Camillo e la Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo
che stiate meglio. Pisa 1501 ** 0 ’* malenla lico, che insegnava
nella Università di lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli
amici dello Spaventa applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni
nel Olorn Napol. di filo.,, e leu , I (18 2) 397, aveva rilevato lo
strafalcione dal j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia, voi. XX,
1872) l'epitrrafe della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli
leggendo: Promise* Pelei lìucionts [invece di retri — bucionisj non
fefetut eum » HestItuta Trebbi, moglie del Fiorentino.
* Isabella Scano moglie dello Spaventa; Camillo e Mimi tigli.
228 STORIA DELLA FILOSOFIA Ln
disfatta del nostro partito mi ha commosso non por me, che sai quanto io
stimi il genere umano in massa; ma pe miei amici, per tuo fratello
specialmente, che non ha alte vita, si può dire, che la politica. Ne sono
stato costernato, ancora è scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1
arbitro dell’Italia, e tutti, o quasi, gli si curvano, gl. si
prosternano innanzi. Quanta viltà 1 Quanta corruzione! Vaie il pregio
< curarsi del prossimo! E una terribile domanda : piò si conosce
il moudo, e piti si devo disprezzare: Leopardi non aveva torto. Ma... c’
è un ma; ed io ti confesso che non mi “ ,re “ do - con tutte le ragioni
in contrario. Mi sono chiuso, vivo tra. miei ed i libri, non vedo
nessuno, non conosco e “ conosciuto, e mi sento beato in questo
silenzio ed in questa oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia,
ad ha tonto alletto e tanto accorgimento, che mi diverte e mi
ristora, tess’io vederlo giovane fatto come il tuo (.umilio
Non Io perchè, mi sento ora più legato alla vita, come non Cì
iTn povero 1 Settembrini f ■ A casa mia ci fu lutto come se fosse morta
persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a dell’Emilia, ed insieme
appresi la scondita di bihio. colpi in una volta. Ma Silvio tornerà alla
Camera, e al Mi¬ nistero, se il senso dell’ onestà non sarà spento nel
nostro nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu . •
Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano; è la sola
cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo tr Che3 U
rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di filosofia pei Licei: il
Morano mi è stato addosso, e finalmente mi ci sono piegato. È cosa molto
ardua, ed il noti poterti allargare quante vorresti, toglie gran parte
della scioltezza del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e
quel eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un
f..U, munirò ...» »». «■,•«•*> fogli, ora con la spada
alle reni ni’...calza per la tonti n u azione. i n
settembrini mori addi 3 novembre 1878. Il Fiorentino non scrisse
poi l'articolo di cui parla in questa lettera; del rimpianto scrisse P°'
,, u Scriui va .u di tener, polii, ed atte (Napoli, Morano. 1873; e
V Epistolario (ivi, 1883), premettendo agl. uni e all'altro belle e
affettuose prelazioni. L’HEGELISMO NAPOLETANO
229 All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto
la tua memoria su l’Etica di Hegel. Hai visto il giudizio portato
dal Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto gusto, perchè la
sua autorità non è sospetta, come In mia, appresso la filosofia italiana.
Povero Bortini, spento anche lui 1 Scrivimi, se puoi, e se vuoi:
lascio la cosa al tuo arbitrio ; non cosi, il volormi bene che in mezzo a
tanti disiugauni mi preme e mi giova assai. Alla tua famiglia
di tanti augurii anche da parte della mia, e tu credimi sempre, e non a
parole. S. — Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale
napoletano. (Samhinse, 25 agosto 1877). — Ed ora un’altra
notizia. L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto
su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione di un
uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono vo¬ tato a te
anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, pos¬ sessore de’
documenti della storia antidiluviana, non sa farsi capace della mia
polemica contro il vice-gesh, ed il vice- Fornari; cioè contro il
Fornari, e l’Acri. Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14
mesi, è venuto fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica,
e come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva
convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬ lunque sia il
libro, che ancora non conosco, se non per la receusione dell’arciprete
noetico». 1 Su G. M. Berlini (1818-1876) v. lo mio Origini della
fllos. contemp. in Italia. 1,* 129-201. Il giudizio cui alludo 11
Fiorentino, é contenuto in una lettera del Berlini al prof. P. Merlo,
pubblicala nel Giornale napoletano di fllos. e letl. (ottobre 1876) IV,
823, dov’é detto: « Vi ringra¬ zio di avermi mandato lo scritto dello
Spaventa, che io considero corno il più serio e il più chiaroveggente
degli Hegeliani d'Italia. Volendo lo terminare un corso di filosofia elementare
ad uso de’ licei... mi sono creduto in obbligo di tener conto delle
dottrine di quel valentuomo, tanto più che io sono sempre in questa
persuasione, che II restringere il vocabolo scienza a significare
puramente i risultati dell'esperienza, dell'osservazione e
dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni valore scientifico alle
discipline speculative, sia non solo arbitrario, ma contradittorio...
Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad Hegel, o per dir meglio,
al suo metodo, e a quella sua assoluta, e direi quasi eroica fiducia
nelle forze della ragione umana ». 230
STORIA DELLA FILOSOFIA (Pisa, 16 giugno 1878). — Prima di
scordarmi, ae hai por¬ tata la Vita di Giordano Urlino, 1 dalla al Betti
che me la porterà: se no, mandala a Domenico Morano, affinchè me la
l'accia pervenire. li Bruno si sta copiando, e dentro questa
settimana co- mincerò a mandare il manoscritto. Spero che tu hai
con¬ certato pei caratteri, pel formato, per la carta. Se non
avessi ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il
tuo ritorno. Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si
conserva sol¬ tanto il manoscritto delP Oratio coneolatona ; ma non mi
dice neppure s’è autografo. Quest’ orazione io la trovai a Roma tra
la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è rarissima. Vale
la pena di far veniro il manoscritto? Nota che a Gottinga, la copia
stampata non l’hanno neppure. L’edizione del Gfrorer ! non si trova
in commercio : il Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante
della quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi
riuscirà pescarla. Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie
idearum. Ho riscontrato il Buhle : non dice nulla di manoscritti :
porta un catalogo delle opere abbastanza esatto. Ho trovato qualche
altra notizia sul Bruno uelPAoidalio. 3 Dopo che tu partisti di
Roma, riseppi che nell’archivio della congregazione di San Giovanni
decollato c’ era la no¬ tizia del giorno della esecuzione del Bruno, e
che questa data non corrisponde a quella generalmente ritenuta (17
Feb¬ braio 1600).* * Mi è stata promessa una copia, benché quei
fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia ag¬ giunge, che a
nessun patto si volle convertire. Come sai, questa notizia è un documento
autentico, perchè finora non c’ è altro che la lettera di quel furfante
dello Scioppio. ■ I.a Vita scritta da D. Berti (Torino, Paravia,
1888). * Ossia il volume degli Scritti latini del Bruno, pubblicati
nel 1838 (frontespizio 1831) da A. Kr. Gfrorer a Stoccarda. *
Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine del Bruno, ed.
naz , I, p. XX. * Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle
Opere latine del Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze.
1891). L’HEGELISMO NAPOLETANO 231
Inoltre il cav. Podestà 1 * mi disse, che a lui orati venute sot-
t’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il Bruno: non sapeva
però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne vo¬ levano delle dozzine
di giornate, ed io avevo fretta di tornare. Il Podestà mi promise di
continuare le ricerche: se no, ci andrò io per lina settimana.
Mi ci sono messo, o voglio riuscire. Tornato tjiti, trovai
Nino ammalato di febbre gastrica: com¬ parvero lo macchie difteriche; in
un giorno si pennellarono tre volte; due altre volte il giorno appresso:
disparvero. Ma come fossi stato io d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi
ballano ancor», o tra giorni andremo in campagna, in una villa che
ho trovata in iptel di Lucca. Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5
quelli del Siciliani non ancora: conosco gli uni e gli altri; ma r/itid
agenduml Sono tra l’in¬ cudine e il martello, e non so a qual partito
appigliarmi. E tu dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna,
e dovei Vorrei saperlo. Il Labriola mi ha mandato un suo
articolo su la libertà; 3 * e vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci
trovo imbrogliato. Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco
quando Bcrive. Non ha stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed
ha la pretensione di parere elaborato, come egli mi scrive. Capisco
Herbart, non capisco lui. L’oscurità non è nelle parole, o nello stile, è
dentro la testa. Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita
sdegnosa lettera all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e
qual forza di carattere nella seconda! Il discorso appartiene al
mondo moderno, ma la lettera è di altri tempi, ed ora non tutti
possono gustarla. Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia,
che fa lo stesso con te. 1 11 bibliotecario Bartolomeo P.
<m. noi 1910), allora nella Vltt. Emanuele di Roma.
’ Luigi Bàrbera, che fu professore di Filosofia morale nella R.
Uni¬ versità di Bologna. * Del concetto della libertà, studio
psicologico, nell'Archivio di sta¬ tìstica del 1S78 (risi, in
Lakkiola, Scritti cori, ed. Croce, pp. 135-189).
232 STORIA DELLA FILOSOFIA /). 5. M’ero dimenticato
di raccomandarti il Persiani. È impaurito, perché il relatore 1 non sei
tn, ina un lombardo (forse il Teneaf), e par che dalla Lombardia non si
riprometta gran che di bene. Son certo però che tn potrai njutarlo
sempre. (Pisa, 22 marzo 1877). — Avantieri ti scrissi a
Napoli, ed ora avendo saputo che il Betti ò stato chiamato per tele¬
grafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò questa lettera per mezzo suo. Io
non gliela posso portare di persona, perchè sono al¬ quanto infreddato a
causa della lezione d’ieri. Tu che sei la fenice dei Presidenti,
specialmente quanto a prudenza, vedi se non entra fra le attribuzioni
presidenziali quello che ti chiedo io. Ho bisogno di venire a
Roma, perchè il primo volume è finito, e per continuare la stampa voglio
esser certo che il ministro non adduca cavilli : nel qual caso pianterei
11 la baracca. Premesso ciò, e visto e considerato che il Ministero
ha premura pel Siciliani, e poca o punta premura pel concorso di Torino,
visto e considerato, che sta alla chiaroveggente perspicacia del
Presidente il decidere se necessiti la convo¬ cazione del concilio: io
riproporrei che tu ci convocassi; che, convocati nell’ interesse del
pubblico erario, stimoli i padri ecumenici di Roma a finir la eterna
questione di Torino; e son certo, come ogni dottor Pangloss, che tutto
andrò per lo meglio in questo perfettissimo mondo, tranne il mio
raffreddore che sempre piò s’ inasprisce. Ed ora che ti ho
detto il mio desiderio, tu con quell’occhio critico che ti rende (che
cosa dico!) che ti rende piuttosto singolare che raro, farai quel che
crederai. Ed orn da capo, ma su di un altro argomento, una
notizia. Nell’ultima puntata (stile mamianico) della Filosofia
delle scuole italiane, il sullodato Conte scrivendo all’amico
Ferri, sai che cosa gli dico f Che in tutta Europa (le pelli rosse e
gli Zulus non ci vanno compresi) a parlare di Platouo e delle idee
non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone ! Chi glielo
avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti conviti, 1 Nel
Consiglio Superiore della P. I., di cui Carlo Tenca, come lo Spaventa,
faceva parte, e da cui il Persiani aspettava 1’ abilitazione all'
insegnamento. L'HEGELISMO NAPOLETANO
233 <• tanti commensali (a 20 franchi l’uno) che lo
ringiovanirono, lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai, finita la
digestione del pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee non ne
vuol sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino quello
ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate anche loro al
materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo aspettavo, che sareste
rimaste platoniche lino ad aver trovato un marito, o un facente funzione;
ma il Finali, il Monabrea, il Borgatti, tutta gente massiccia, chi
avrebbe mai creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il
suo illustre oommilitonef Vista la brutta china, direbbe il
Sella, io proporrei (il raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte)
che il Ma- miani ed il Ferri siano impagliati, e ben conservati
nell’atrio dell’Accademia de’ Licei con questa memore iscrizione:
QUESTI BIPEDI IMPLUMI ULTIMI DELLA SPECIE ESTINTA RIMASERO
platonici, ESSI SOLI IN EUROPA DOPO IL PRANZO PLATONICO*
* DEL 1874. Dopo della qual cerimonia vorrei che
l’Accademia prelodata a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B.
Spaventa perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1
Alle Termopili furono treceuto finalmente, eppure Simonide s’incaricò di
cantarne: qui si tratta di line soli, in Europa, non contro schiere
barbariche, ma contro eserciti di dotti, e non ti paro che ci sia più materia
di canto? Ridettici bene, e poi dimmi il tuo avviso. Tu
duuque hai leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te, 1 Scolare
dell’ Istituto superiore di Magistero, allora fondato a Roma: le quali —
era la prima volta che si vedevano tante signorine in una Università —
frequentavano alla Sapienza le lezioni di D. Berti. * Su questo
pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp., I, 1 p. 117. * Una
critica che I.uigi Marino (che fu poi professore di Filosofia morale
nella Università di Catania) aveva pubblicata degli Elementi di flloso/la
del Fiorentino. 234 STORIA DELLA
FILOSOFIA che hai tanto tempo da marineggiare. Io l’ho qui il
suo libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed ho una sua
lettera autografa, che impaglierò pure. Povero giovane! Mi ha scritto con
una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo abhraccerei. Abbracciarlo sì,
ma leggere no. Non gli ho neppure risposto, ed ho fatto male. Volevo
leggere prima e poi scri¬ vere. La bestia che sono stato! Bisogna fare il
rovescio: uè senza un perchè i metodi moderni fanno precedere la
scrittura alla lettura. Berti, p. es., fondatore della moderna
pedagogia prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese iu
qua, a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.
A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui, perchè
Camoeraceneie, che vuol «lire di Cambrai, egli l'ha tradotto della
Sorbona : facendo poi una dottn osservazione, che cioè il Bruno or*
saltato a piè pari dentro la rocca dol- 1’ aristotelismo eco.
E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un libro, uno
tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, nu¬ mero et figura; quando
il De immenso ole. contiene otto libri, ed il De monade, che sarebbe il
contenente, non contiene nè otto, nè due, perchè è un libro solo, unico
tiglio di madre vedova. Sono piccoli nèi, lo so, ma che
dimostrano una piccolissima cosa: il precetto pedagogico che testò avevo
1’onore di dirti, cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse
scrisse, e poi spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare
nella lettura. 11 Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran
capolavoro della critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al
solito, non 1’ ho visto ; e poiché 1’ articolo sarà tradotto certamente
dnl- l’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che
faranno quegli eruditi di laggiù. A furia di scrivere, mi sono
snebbiato un poco il capo, ina temo forte di averlo annebbiato a te;
legge di compen¬ sazione. Quando io mi trovavo a discorrere di lilosotia
col Berti, rimanevo muto: tu eri più fortunato di me, avevi il
pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il 1 Nell’
art. sulla Filoso/la in Italia pubbl. in una rivista inglese, e poi tradotto
nella Muova Antologia del 15 febbraio 187». L’ HEGELISMO N
APOLETANO 235 tabacco, »e tornassi deputato, per non
dovermi ingoiare quelle forti dosi di filosofia scientifica, che mi
somministrava il nostro Berti, m’imparerei a fumare. Meglio lo stomaco
sconvolto, elle il cervello come un mulino. Spero bene però che non
sarò costretto a nessuno di questi tormenti. Non mi dicesti se il
Morano ti diede o no la prima parte del Manuale ili moria della
filosofia. Fattelo ilare, e leggic¬ chialo: invece di Marino, potresti
dure un’ occhiata al libro mio. Vorrei sapere se quel tanto è sullìciente
per la coltura generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi servirebbe di
norma per le altre duo parti. (Portici 26 settembre 1873). —
Ebbi lettera dal Zeller, che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che
faceste insieme felicemente. M’incaricò pure di dirti tante cose per la
lettera che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla
mattina nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e
non che siamo a due poli opposti. Ebbi la ricetta : si è
fatta la bobba, ma non li’ è venuta fuori la storia delle prove
dell’esistenza di Uio. Per un concorso a una cattedra
universitaria, della cui commissione faceva parte il Fiorentino ed era
pre¬ sidente io Spaventa, questi lo aveva pregato di rac¬ cogliere
gli appunti per una relazione sulla voluminosa Storia delle prove dell!
esistenza di Dio di Romualdo Bobba. Il Fiorentino, il 19 aprile 1879, da
Pisa gli rispondeva: Letto il tuo, piò volte espresso, desiderio,
ho posto mano alla lettura del Itobbu. Un corto estro maccaronico mi
invase alla prima pagina; ma ho lasciato il poema lutino ai primi
due versi e mezzo. Eccoteli: Iufainem, liertrunde, iubes supportare
laborcm, Insipidimi scilicet putidumqiie ingoiare bobatam ;
Obediain tamen etc. E sto prendendo appunti; ma che diavolo
vuoi appuntaret Finirà prima la pazienza mia, che le sue sciocchezze. È
un pover’ uomo, e noi uccideremo un morto. 236 STORIA
DELLA FILOSOFIA (Pisa, 8 dicembre 1879). — E poi c’è il secondo
libro della Legge morale del De Crescenzio: il titolo è Francesco
Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo
libro della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa miracoli.
Ma la cosa non Unisce qui : il terzo libro sarai tu. 1 u in
persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana, tu sarai un
libro di un’ opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri : a
congetturare dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa
in 100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole, il
veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri
personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi : ed io per ora sono
venduto a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque soldi ; o calerai a
tre, secondo che P opera seguirà il processo ascensivo o il
discensivo. Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1
autore di¬ mostra che io sono causa di parecchie depredazioni e
gras¬ sazioni nei pressi di Casale. La mia influenza venefica s è
esercitata, per non so quale selezione, su la provincia di Ales¬ sandria:
e la tua! Probabilmente verso Girgenti, o in quei pressi. Che non ci sii
stato non preme, l’etica hegeliana è come la filossera, si estende per salti
di 70 chilometri la volta. Delle stroncature, come oggi si direbbe,
dei De Cre¬ scenzio ormai chi se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre
qualche De Crescenzio in giro, pronto a dimostrare, come quattro e
quattro fanno otto, che il tal filosofo o il tal altro sovverte la legge
morale, il buon senso, o le leggi fondamentali della logica ecc. Ma il
filosofo può accogliere siffatte dimostrazioni con lo stesso buon
umore del Fiorentino. 1 * Intorno al Fiorentino v. le mie
Origini della fllosofla Conlem- poranea in Italia , III, part. I, pp.
7-50. Giovanni Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia, what does
‘fascista’ applies to – philosophically? To ‘state’ – how is it defined
philosophically? Opera complete frammenti di storia di filosofia 3 volls -- - Refs.:
Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice
e Gentile: implicatura conversazionale” -- Conversation and inter-subjectivity.
– The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51748250462/in/photolist-2mQPiYS-2mQUPa3-2mQUPbR-2mQUPcs-2mQY4Qg-2mQWSKX-2mQTy2s-2mQWSML-2mQWSMR-2mQPj6k-2mQY4Qb-2mQTy4X-2mQUPeX-2mQUPew-2mQTy5D-2mQTy53-2mQWSMa-2mQY4R3-2mQUPem-2mQDMyN-2mQtVUe-2mQerAd-2mQfWLw-2mQmZZv-2mQ81kz-2mPY4jk-2mPRG8i-2mPQGvz-2mPPzb6-2mPTwCM-2mPJLpp-2mPJYbw-2mPF8UJ-2mPyn68-2mPyUzx-2mPukhq-2mPnrMV-2mPmmR4-2mN34bs-2mN8u25-2mN8ym7-2mN8nen-2mNbFJE-2mN36eA-2mMYDFF-2mMV4pg-2mMP5LF-2mLP4Rj-2mLLZRD-2mLFBT9
Grice e
Gentile – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo. Grice:
“I love Gentile; like me, he is interested in Aristotle’s immotum motor, and
the idea of number in Plato – but he extends his views to all the rest of
philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’ so did Gentile!” – Si
laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda
il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola
padovana" di metafisica neo-aristotelica.
Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa:
Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano:
Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore
classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone,
Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione,
Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti);
“Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti
magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo,
Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola);
“Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti,
Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il
completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se
e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della
filosofia (I: Periodo antico e medioevale;
II: Dal Rinascimento fino a Kant;
III: La filosofia contemporanea), Padova: RADAR); Saggi di una nuova
storia della filosofia, Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI).
Dizionario biografico degli italiani. Marino Gentile (1906-1991) occupa
sicuramente un posto importan-te nella storia della filosofia del secolo scorso,
ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo
o commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più
correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia
della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la
pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è
che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare.La sua
concezione della filosofia come “problematicità pura” si di-mostra infatti quale
dice di essere, veramente “classica”, in quanto, evidenziando in tale
problematicità quella che non può non essere con-siderata la caratteristica
fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa
un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana
della metafisica clas-sica, Marino Gentile, proprio in virtù del riconoscimento
dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua
formazione idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica
dell’Atto puro quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò
così una posizione ori-ginale che, giunta a maturità speculativa negli scritti
padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente
neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Ugo Spirito, anche
dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia
neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e
la filosofia neoclassica di Gustavo Bontadini. Le sue opere più significative, in
particolare Come si pone il problema metafisico (Padova 1955),
Breve trattato di filosofia (Pa-dova 1974) e Trattato di
filosofia (Napoli 1987), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in
cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi
e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in
grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e
inquieta del nostro tempo Sent from the all new AOL app for iOSLa
fecondità della problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti
metafisici: il “domandare tutto che è un tutto domandare” è ben più che una
formula descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio “metodo”,
che il maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno
teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di questo
domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità
speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i
motivi di interesse riscontrati nel pensiero di Gentile da alcuni studiosi che
lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa
problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei
contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore, ora
espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno
ripensamento dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso
risulta subito evidente nell’articolo di Enrico Berti, uno dei primi e forse il
principale tra gli allievi, che in un saggio denso di ricor-di, si sofferma su
uno scritto apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro,
forse l’ultimo, dedicato alla possibilità di pre-gare il Motore immoto. Si
tratta infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti
essenziali l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per
ripensare le due caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la
trascendenza e l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per
ritrovare in quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del
“domandare tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla Causa suprema
ordinatrice del cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive
e oranti. Il tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al
centro del saggio di Maria Cristina Bartolomei, che di tale domandare indaga le
potenzialità, sia come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica,
sia come fulcro di “fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori
contemporanei, evidenziandone, pur nella distanza e di-vergenza delle
posizioni, la comunicabilità e l’inaspettata consonanza su punti fondamentali.
È quanto si verifica con Adorno, a proposito della legittimità della
problematica metafisica e delle caratteristiche di apertura e processualità che
connotano la conoscenza dei suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la
specifica intenzione di verità che distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con
Weischedel, sotto il profilo della necessaria radicalità dell’interrogare
filosofico, che, anche laddove non giunga ad esiti metafisici o teologici, non può
non avvertire la realtàdel mistero che lo sollecita. In tutti questi casi –
conclude l’Autrice – la posizione di Gentile, interloquendo costruttivamente
con linee di pensiero profondamente differenti da quella propria della
metafisica classica, dimostra una inesausta vitalità filosofica.Il terzo saggio,
redatto da Gabriele De Anna, affronta il problema del valore morale dell’azione
cercandone la soluzione nelle pagine del Trattato di filosofia , e
rinvenendola nel ricorso all’uso pratico dell’intelli-genza che coglie il
principio nell’esperienza, e quindi una normatività nel reale. In questa
lettura l’importanza della problematicità gentiliana emer-ge specialmente nel
farci intendere come il manifestarsi del principio, e quindi del “valore”, sia
inseparabile dall’esperienza, intesa come atto che precede e trascende
continuamente la distinzione soggetto-oggetto nella sua costitutiva tensione al
sapere. Ma essa ci fa anche meglio compren-dere la prospettiva metafisica di
Gentile, che si presenta come ripresa della concezione aristotelica, ma allo
stesso tempo accoglie dal pensiero moderno l’attenzione al ruolo del soggetto,
si dice “classica”, ma non è per questo “oggettivista”, come altre, più note,
versioni della stessa. Una particolare declinazione dell’azione morale è
costituita dalla pra-tica pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione
filosofica gen-tiliana, cui è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della
riflessione comune di Carla Xodo e Mirca Benetton. La pedagogia di Gentile è una
pedagogia umanista, poiché «l’umanesimo – egli scriveva – che è ricerca di
classicità, si attua come paideia , cioè come sforzo di realizzare
nelle più diverse situazioni storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un
si-stema compiuto, ma una sollecitazione a riprendere instancabilmente la
ricerca speculativa sulla verità della persona, ulteriore espressione di quel
domandare radicale in cui si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici
sottolineano come in questa prospettiva, considerando l’essere umano nella sua
integralità, l’umanesimo, anziché contrapporsi, si possa intrecciare
fecondamente, anche in ambito scolastico, con la scienza, la tecnica, e le
attività professionali, persino manuali. L’indicazione è di preziosa attualità
e ci fornisce un’altra conferma della potenza del domandare filosofico, che
percorre tutti questi testi. In essi possiamo infatti vedere tale domandare
vigorosamente rinno-varsi tramite la voce di Gentile. D’altra parte, a sua
volta, lo stesso Gentile, in un necessario scambio di ruoli, tramite questo
domandare, persiste a interrogare e a interrogarci. Ci auguriamo che possa
profi-cuamente interrogare anche l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords:
storia della filosofia period antico – filosofia romana, la preghiera, segno
dei romani – italici antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’
in latino classico ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689595451/in/photolist-2mJvNUU-2mJx5ao-2mJvNWn-2mJvNU3-2mJrG6h-2mJAknd-2mJx5a8-2mJx5aP-2mJAkke-2mJzfSc-2mJzfUG-2mJq2uE-2mJ4GHU-hSTpSd-2mKCFTz-2mLEPqL-2mLF5SC-2mKQ3hR-2mKCVmS-2mKSbL6-2mKzRPk-2mKbRVb-2mKjoDU-2mKj6Hp-2mKkwb6-2mKjpwa-2mKhhHU-2mKgWR9-2mKjphT-2mKhhve-DvhhWW-DhRHD2-CcSX6Q-Ck5UQW-CcC1aL-BUZEEQ-rpCCQN-nMb3Qx-nurrdd-nupnpX-ncRws1-nu4v1p-nw7T5i-ncRvsK-nw7Qo6-nu57jS-nnvnLQ-nr43e9-nmysSN-nokWCo
Grice e
Gentili – filosofia italiana – la filosofia romana arcaica -- Luigi Speranza (Valmontone).
Filosofo. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too – he is a
classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has explored the
beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the old schools of
Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea
a Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di
studi sulla metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent
il Liceo Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli,
laureandosi sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia
e alla sua tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico
"Virgilio" di Roma. Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma,
Gentili ne fu subito conquistato e Perrotta lo volle come assistente.
Dal suo maestro Gentili apprese l'arte
della filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza
significativamente gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra
cui Rossi e Privitera che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono
pacato delle lezioni ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può,
anzi, dire che bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o
intransigente, giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari.
Bbasava l'insegnamento sulle sue ricerche. Gli anni '50 non sono facili, sono anni di
studio intensi e febbrili per lo studioso che culmineranno, insieme ai volumi
sulla metrica, con una serie di lavori sui lirici: oltre alla già ricordata
antologia Polinnia, il saggio Bacchilide. Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna
a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato insieme al quale divenne coautore
della teubneriana edizione dei Poetae elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu
rappresentata dalla chiamata a Urbino dove nello stesso anno venne inaugurata
la Facoltà di Lettere grazie all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto
Nazionale del Dramma Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel
mondo antico, Roma, Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico”
Bari-Roma, Laterza. Cfr. Bruno Gentili, Eric R. Dodds mentitore? “La idea della
comunicazione nella tradizione classica" Treccani. La cultura e
l’opinione pubblica: anche nel mondo romano antico il rapporto è stato
difficile, spesso conflittuale. Le origini della retorica e della filosofia a
Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico; l’arco di tempo
della difficoltà dei rapporti va almeno dall’inizio del secondo secolo a.C., al
principio del primo. E non solo: tensioni, incomprensioni e scontri non
mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci di dissenso
da Nerone, che erano le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche con ciò
che la mentalità comune pensava dell’imperatore: ma qui la nostra analisi si
limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima aveva
trovato resistenze nella concretezza tradizionale dei Romani: l’astrazione
filosofica di origine greca suscitava sospetti diffusi, come se si trattasse di
un imbroglio, un raggiro. Non mancarono le espulsioni dei filosofi a partire
almeno dal 190-180 a.C. Celebre la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene nel
155 a.C., perché giudicati pericolosi per la società romana: soprattutto tale
appariva quel Carneade sul quale si interrogava don Abbondio nella notte degli
imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita la retorica, cioè la tecnica
del parlare bene, che pure era d’importazione greca. Svetonio ci racconta delle
difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo che nel 161 a.C. un
decreto del Senato bandiva dalla città insieme retori e filosofi greci. Ma la
novità culturale non si arrestava per decreto: e la tecnica retorica riprese
fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente apprezzata anche dai Romani:
purché fosse rigorosamente controllata dall’aristocrazia. E così accadde che
nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola di retorica a Roma, per iniziativa di
un personaggio non molto famoso: Plozio Gallo. Era la scuola dei rhetores
Latini, della quale parla anche Cicerone, per testimoniarci dei successo che
essa riscontrava presso i giovani di allora e del suo rammarico per non potervi
accedere: il giovane Arpinate era infatti trattenuto da altri maestri, che lo
indirizzavano allo studio della retorica solo in greco, come una volta si
faceva. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di Plozio Gallo?
Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i
consiglieri di Cicerone agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto
didattici, quanto politici: la scuola dei retori latini rischiava agli occhi
loro, e agli occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un
pericoloso centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di
accesso al potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del
maestro, cioè di Plozio Gallo, col popolare Mario, in anni di contrasti
fortissimi in Roma, culminati nella guerra del 91 a.C. per il diritto di
cittadinanza degli Italici. È sempre Cicerone a informarci, nel trattato
intitolato De oratore , dell’esistenza di questi maestri e del loro
insegnamento, e lo fa per bocca di Lucio Licinio Crasso che, allora censore, li
aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. Era una scuola di
impudenza e di perdita di tempo, agli occhi di Crasso e dei suoi amici: essi
andavano ripetendo che la mente dei ragazzi diveniva ottusa e si rafforzava la
loro pericolosa sfacciatagggine, mentre i nuovi retori si proponevano
esattamente il contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare,
spiegare il perché delle cose e dei problemi. Il nuovo genere di insegnamento
consisteva sostanzialmente in una sintesi di retorica e filosofia, in vista
della formazione di un uomo di cultura completa. Si doveva trattare quindi del
superamento di una preparazione esclusivamente tecnica e precettistica, a
vantaggio di una formazione globale dell’oratore: questi diveniva così il
depositario di una cultura in grado di fargli reggere con competenza il timone
della repubblica romana. È in questo contesto culturale e sociale pieno di
fermenti e di stimoli nuovi che si formò il giovane Cicerone. E. Badi?n,
nella recensione al volume Gli storiografi latini tra mandati in frammenti,
Atti del Convegno, Urbino 9-11 maggio 1974, a cura di S. Boldrini, S.
Lanciotti, C. Questa, R. Raffaelli (Studi Urb. n.s. B n. 1, 1975), pubblicata
in Am. Journ. Philol. 99, 1978, p. 137 sg., una recensione per altro biliosa e
insieme presuntuosa, nella stragrande maggioranza dei contributi, dedica al mi?
saggio 'Storiografia greca e storiografia ro mana arcaica' appena due parole:
"the long essay in unoriginal medio crity, e.g. a potted survey by B. Gentili":
un giudizio dr?sticamente negativo, non sorretto da un'ombra di argomentazione;
diverso eviden temente il par?re di D. Musti, che ne ha inserito un lungo brano
nel reading, da lui curato, La storiografia greca. Guida storica e critica,
Bari 1979, pp. 151-157'. Certamente ognuno, nel recensire un libro, ha il
diritto di giudicare come crede Topera che recensisce, ma ha il dovere di
motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per
mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se
ilBadi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo
scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida
molto perentoriamente la sto mio intervento. Ma quando egli definisce sic et
simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio
in uno stato originale" ilmio discorso, debbo pensare che egli d'ira,
provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia
espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, edited by T.A. Dorey,
London 1966, pp. 1-38, che, esso si, ? realmente una rassegna, certo ben
informata e corretta ma senza alcuna pretesa di originalit?. Egli stesso del
resto lo presenta come un'esposizione panor?mica intesa a riproporre alla
storiografia di lingua inglese una tem?tica da essa obli terata (cfr. p. 27
sg.). Faccio notare, d'altra parte, che questo suo sag gio ? stato da me
citato, a proposito della cronaca pontificale, nel vo This content downloaded
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scorso storico nel pensiero greco e B. Gentili con G. Cerri, Le teorie del di
Roma mie 1975, ricerche la storiografia p. 82 n. 2 e che rappresenta Pedizione
arcaica, delle dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio
dato mente dotta m?tica" "non sulP argomento. solo un risentimento
che, prima ancora che agli effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo
appare un rispetto sa che la studio. alla t?cnica di tipo Come quella da nel
soleo ? me allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, Topera storiografia
'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale" che
riconduce di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degli
Annales di Fabio Pittore Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio,
sulla rivista II Verri (2, 1973, pp. 53-76), al quale di proposito avevo
rinviato alPinizio del mio intervento nel Convegno di Urbino ora ripubblicato
in Communication Arts in the Ancient World, ed. by E.A. Havelock and J.P.
Hershbell, New York 1978, pp. 137-155. E avevo esaustivamente pubblicato
frammento delle varie ancora: pu? dirmi programma tico di il Badi?n se la mia
Sempronio Asellione interpretazione del con una ? nuova A questo punto sarebbe
doveroso da parte del Badi?n tornare sul Pargomento per dimostrare, se ? in
grado di farlo, che Pimpostazione del mio discorso ? effettivamente priva di
qualsiasi originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee
altrui. Universit? di Urbino Letteratura: addio al grecista Bruno
Gentili, insigne studioso di metrica Aveva 98 anni, era accademico dei Lincei e
professore emerito ad Urbino Roma, 9 gen. - (Adnkronos) - Il grecista Bruno
Gentili, insigne studioso della letteratura classica e in particolare della
metrica greca, e' morto ieri a Roma all'eta' di 98 anni. L'annuncio della
scomparsa e' stato dato dall'Accademia dei Lincei di cui era socio dal 1984.
Nato a Valmontone (Roma) il 20 novembre 1915, Gentili era professore emerito
dell'Universita' di Urbino, dove ha insegnato letteratura greca dal 1963, nella
Facolta' di Lettere che insieme al rettore Carlo Bo ha contribuito a istituire.
E' stato fondatore nel 1966 della rivista ''Quaderni urbinati di cultura
classica'', di cui e' stato a lungo direttore. Filologo rigoroso, Gentili
si e' dedicato allo studio della lirica e della metrica greca arcaica, curando
anche edizioni critiche di testi di diversi poeti. Tra i suoi libri
''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori a Virgilio'' (1941), ''Metrica
greca arcaica'' (1949), ''La metrica dei greci'' (1952), l'edizione critica di
Anacreonte (1958), ''Bacchilide. Studi'' (1958), ''Aspetti del rapporto poeta,
committente, uditorio nella lirica corale greca'' (1965); l'antologia
''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con G. Perrotta,
1966). La vasta bibliografia di Gentili comprende anche ''Le teorie del
discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica'' (in
collaborazione con G. Cerri, 1975), ''Storia della letteratura latina'' (in
collaborazione con E. Pasoli e M. Simonetti, 1976), ''Lo spettacolo nel mondo
antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico'' (1977), ''Storia e
biografia nel pensiero antico'' (in collab. con G. Cerri, 1983) e ''Poesia e
pubblico nella Grecia antica'' (1984), che che e' valsa all'autore il Premio
Viareggio-saggistica 1984. (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E
CONTEMPORANEITÀ:BRUNO GENTILI NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO «Kein
Volk der Geschichte, auch das begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten.
Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus zuständlichem Dasein in geschichtliches
Leben übergeführt. Weder seine äußere noch seine innere Geschichte kann
verstanden werden, ohne die Fäden zu verfolgen, die es mit außen
verbinden».(Usener 1907, 11).«Il senso vero di una vita piena è quello che essa
imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca.
Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a loro modo sono verità) è
labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di stringerlo, ecco
scom-pare».( Diari Anceschi/2 2006, 55).1. Il periodo successivo alla
morte di Bruno Gentili nel suo novanta-novesimo anno d’età, il 7 gennaio 2014,
ha visto comparire vari ampi e impegnati ricordi ad opera di alcuni tra i
colleghi e allievi più vicini. Con attenzione e devozione vi sono evocati i
momenti e i contributi più signi-ficativi nella carriera scientifica del grande
grecista scomparso; nel riper-correrla si dà davvero la possibilità di posare
lo sguardo su ottant’anni di storia della filologia classica, via via italiana
europea e mondiale, sin dagli anni Trenta del Novecento. A tutti comune è il
riconoscimento del forte valore innovativo nell’incessante attività critica e
filologica di Gentili, a partire soprattutto dalla metà degli anni Sessanta con
la fondazione dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», «vera e propria
officina intellet-tuale» dove su impulso del fondatore e direttore «la
filologia classica, sen-za mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica,
si apre al confronto serrato non solo con l’archeologia, la storia e
l’ermeneutica, ma anche con discipline emergenti quali l’antropologia, la
semiotica, la linguistica e la sociologia della letteratura» 1 . A tale
sensibilità può ben connettersi la visione che sino ai suoi ultimi anni Gentili
elaborò della traduzione, nel- la ricerca e nell’asserzione di una «teorica
eminentemente pragmatica», 1 Così Catenacci 2014, 450e quindi «una
poetica non astratta, non prefigurata su schemi di modelli già esperiti», così
sempre tendendo a «una poetica aperta che si costrui- sca gli strumenti adeguati
ad una maggiore portata di comunicazione»: il problema del tradurre è così
definito nei termini «di quell’idea cui aspira l’antropologia contemporanea
della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture
linguistiche e sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo» 2 . Una
prospettiva che nello studio e nella ‘traduzione’ dall’antico (e dell’antico) a
Gentili certo si schiuse in relazio- ne e risposta alle sfide prodotte dai
grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo antropologico appunto, degli
ultimi quattro decenni del XX se-colo: una prospettiva di ‘apertura’
nell’analisi e negli strumenti applicati all’interpretazione dei testi antichi,
e in particolare della Grecia di età ar-caica, che mi è sembrato potesse essere
bene espressa dalla prima citazio-ne in esergo, di un altro grande innovatore
degli studi classici al volgere di un secolo, Hermann Usener (1834-1905). Il
passo proviene da un discorso rettorale bonnense del 1882 riproposto in
occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn nel 1969 3 ,
e richiamato da Gentili nel famoso saggio L’arte della
filologia (1981). A differenza della for-tunata citazione nietzschiana
d’incipit («filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore
soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tem-po, divenire lento»), il
rimando a Usener è passato piuttosto inosservato. Gentili si rifà alla
Rede bonnense, dal titolo Philologie und Geschichts-
wissenschaft 4 , discutendo della prevalente natura ‘storica’ o
‘scientifica’ della filologia classica e rinvenendo «una impostazione
sostanzialmente corretta del problema» nella distinzione attribuita a Usener,
«che delimitò i due campi specifici della ricerca, riservando alla filologia la
critica e la ricostruzione del testo e all’indagine storica l’interpretazione
globale del mondo antico» 5 . La prolusione di Usener si apre con un panorama
della storia degli stu-di classici sin dal XVI secolo francese e ugonotto 6 ,
subito poi riservando 2 Gentili 1989, 61, dalla relazione
presentata al convegno La traduzione dei testi classici .
Teoria prassi storia (Palermo 6-9 aprile 1988), nei cui Atti poi comparve
(Gentili 1991). 3 All’interno della Festschrift
per il convegno curata da W. Schmidt (Schmidt 1969, 13-36); al congresso
bonnense Gentili presentò il fondamentale intervento
L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro
tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura orale (Gentili
1969). 4 Usener 1907. 5 Gentili 1984 (2006 4 ), 299. 6
Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia strettamente
connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben chiarito nella
postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft verzeichnet nicht
bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr Begriff, der nicht
unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die wissenschaftliche
Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in der Unendlichkeit
des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di Bentley («zur
Grundlegung einer Wissenschaft […] die Wege dazu hat erst das Genie Rich.
Bentleys gebahnt»), pur rico-noscendo solo alla cultura tedesca, nel fatale
trapasso tra XVIII e XIX se-colo, la decisiva spinta perché lo studio
dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen
Wissenschaft». Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e
Camerarius, la centralità della Pa-rola proclamata dalla Riforma si era
rivelata determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco
nelle nuove scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori
evangelici, finché nei rifondatori della letteratura tedesca del XVIII secolo
(Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der gottergebene idealistische Sinn des
norddeutschen Protestantismus», laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita
della cultura e della scienza tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske,
Heyne 7 . L’organica sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della
Rekonstruktion des Altertums secondo l’intuizione dei grandi
edificatori e teorizzatori dell’ Altertumswissenschaft , Wolf e
soprattutto Boeckh, nel corso del XIX secolo si fece altresì modello per le
nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le
discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio
di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte
dell’enorme ampliarsi delle co-noscenze non solo all’interno dell’ Altertumswissenschaft
, con diretto rife-rimento al mondo classico nelle sue varie epoche e aspetti,
ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti dalle antiche civiltà del
Vicino Orien-te rivelate dall’archeologia, Usener riconosce l’impossibilità di isolare
la civiltà greca dall’attenta considerazione di quegli influssi, certo
determi-nanti nella genesi almeno dell’arte greca: «heute zeigen die Reste
Babylons und Ninivehs verglichen mit den griechischen und italischen
Gräberfunden jedem, der Augen hat zu sehen, von wo jene hellenische Kunst
[…] ihre Anstöße und auf lange hin nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In
realtà a Usener preme soprattutto mettere in rilievo che il concetto stesso di
storia si è enormemente ampliato, al di là della tradizionale identificazio- ne
nella «pragmatische Entwicklung der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und
Völkern», ormai annettendo territori ignoti, nati dall’indagine delle origini
delle lingue, dei credi, dei costumi, dei miti («die unbegrenz-te Ferne einer
vorgeschichtlichen Geschichte»). In tale condizione appare al professore
bonnense ormai impossibile aderire a una costruzione della filologia quale
quella boeckhiana. La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come
scienza storica, perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia
propria del tardo XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da 7 Onde
se «la moderna poesia italiana e francese è figlia degli studi umanistici, la
letteratura tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto
rapporto di sorellanza» (Usener 1907, 7). 8 Usener è in proposito molto
chiaro: «Es bleibt also dabei: eine geschichtlicheconsiderarsi «ein
Studienkreis», un insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e
così assolvendo alla funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i
contenuti della conoscenza storica, costituisce «die le-tzte Voraussetzung
aller geschichtlichen Forschung» 9 : una filologia come tecnica
dell’interpretazione che, potenziata dalla prospettiva comparatista, assunse
forse agli occhi di Usener i tratti di «una sorta di antropologia» 10 . Ho
indugiato sul saggio di Usener perché l’insieme della sua opera, spesso poco
apprezzata dal mondo filologico tedesco contemporaneo, gode da anni di
crescente attenzione 11 , anche in ragione degli interessi ‘trasversali’,
comparativi e religionsgeschichtlich che l’attraversano e
innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia dapprima
protestante e poi cattolica nella Germania del XX secolo 12 , e forse anche
sulle origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle religioni e di
storia del cristia-nesimo 13 . Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte
della filologia, il suo ri-farsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse
intendono forse associare proprio il filologo bonnense, quasi provocatorio (in
una prolusione retto-rale del 1882!) nel definire Kunst
l’essenza dell’attività filologica 14 , pri- Wissenschaft ist die
Philologie nicht. Sie konnte und mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als
die Geschichtswissenschaft in ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war
[…]. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten
trieb. Alles hat seine Zeit». 9 «Wenn es also wahr ist, daß der Boden
aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die
Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen
Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese
Kunst haben wir in der Philologie erkannt» (Usener 1907, 26). 10 Così
Momigliano 1985, 166. 11 A partire soprattutto dal seminario del febbraio
1982 presso la Scuola Nor-male di Pisa coordinato da Arnaldo Momigliano e
subito pubblicato come Aspetti di Hermann Usener filologo della
religione (Arrighetti [et al.] 1982). Sono apparse negli ultimi anni
edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener 1993; Usener
2008; Usener 2010. 12 Assai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi
di particolare attualità, è la lettera del dicembre 1888 al teologo bavarese I.
von Doellinger, nella quale Use-ner afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso
dei miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa della
nostra nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano 1985, 147.
13 È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco nota, presentazione che
del Le-benswerk di Usener, «grande maestro che l’Italia colta
quasi ignora», diede Pesta-lozza 1909 (che cito dall’estratto), sulla rivista
del modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno:
su Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di
Milano primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle
religioni, vd. i riferimenti in Benedetto 2008. 14 Non sorprende il
dissenso, rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne
Wilamowitz circa la visione della filologia presente nella
Rektoratsre-de , prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und
natürlich ebenso Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della
parola scritta . La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel
testo visto da Gentili come «struttura complessa di materiali linguistici, di
implicazioni metrico-ritmiche, refe-renziali e pragmatiche» 15 nel cui
processo interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno
Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia,
varia, settantennale attività scientifica di Bruno Gentili 17 , si cercherà
piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con
la figura di Gennaro Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia
classica nella prima metà del Novecento, la produzione degli anni ’50 e ’60, e
la serie di saggi «di portata fondativa» 18 scritti da Gentili tra la
metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, nei qua-li evidente è una svolta
per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi
della traduzione dall’antico.2. L’esordio di Gentili si ebbe nel pieno della Seconda
guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con Silvio Giuseppe
Mercati, dedi-cato soprattutto a passare in rassegna quattro inesplorati codici
delle Storie di Agazia conservati in biblioteche italiane (tre
Vaticani e un Marciano) 19 . In quegli anni drammatici il giovane studioso li
collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova edizione critica
dell’opera 20 , in vista del-la quale non tace anzi l’intenzione di provvedere
a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto Vulcaniano conservato
nell’allora inaccessi-bile Leida 21 . Il netto cambiamento di interessi e «una
decisa virata ver- und Glaube und Geschichte) ist tot: unsere Aufgabe ist, sie
zu beleben […] dann empfinde ich, daß Philologie doch etwas für sich ist,
oder wenigstens ihr τέλος hat» (lett. del febbraio 1883 in Dieterich –
Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 , 28), e cfr. Sassi 1982, 79.
15 Gentili 1984 (2006 4 ), 301. 16 «Philologie in dieser Auffassung
ist nicht eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis» (Usener 1907, 16).
17 Sin d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili
dal Ri-cordo di Bruno Gentili di Angeli Bernardini 2013;
Catenacci 2014; Cerri 2014; Lomiento 2014; G. A. Privitera, commemorazione
lincea dell’11 aprile 2014, ac-cessibile on line presso
www.lincei.it/files/documenti/Privitera_commemorazio-ne_Gentili.pdf ;
Tedeschi 2014. 18 Cerri 2014, 230. Non si tratterà di Gentili editore e
critico del testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione.
19 Gentili 1944. 20 Come chiaramente lascia intendere la chiusa
dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto appare chiaro che la sola finora ad
avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica ed anche il metodo è quella del
Niebuhr, in quanto si fonda sul valore effettivo di una parte della tradizione.
Ma l’uso di tutto il materiale manoscritto, secondo gli intendimenti che ho
esposto, trae con sé la necessità di una recensione del testo di Agatia, che si
fondi su basi più complete e quindi più solide. E questo compito, se le forze
non mi verranno meno, spero di poter assolvere». 21 Vd. in particolare p.
168: «occorrerebbe perciò una nuova collazione accurata Sent from the all
new AOL app for iOSso la poesia greca arcaica» 22 si legano all’incontro
con Gennaro Perrotta (1900-1962), dal 1938 sulla cattedra romana di Greco come
successore di Ettore Romagnoli (1871-1938) 23 e nel corso degli anni ’30
impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca
( Saffo e Pindaro. Due saggi critici uscì presso Laterza nel 1935),
ma attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei,
in particolare con interventi accolti nei pasqualiani «Studi italiani di
filologia classica» (nota è in particolare la polemica intorno al ‘poeta degli
epodi di Strasbur-go’) 24 . Un’importante rassegna ad opera di Perrotta
su La filologia classica nell’ultimo ventennio , apparsa per il
Natale di Roma del 1943 in un volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione
Nazionale (Perrotta 1943), se è priva non solo di elogi ma si può dire di
qualsiasi menzione del morente Regime, è peraltro chiarissima sin dalle prime
righe nell’affermare che il «vero progresso» segnato nel precedente ventennio
dalla filologia classi-ca in Italia è spiegabile perché essa «ha sentito
profondamente l’influsso dell’estetica moderna, anzi di tutto il pensiero
moderno», con sicuro ri-ferimento al crocianesimo e in genere agli orientamenti
antipositivistici: «superate le polemiche del periodo precedente, la filologia classica
ha preso un nuovo indirizzo […] vivificata dalle correnti nuove della cultura
moderna, è divenuta meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi
critici, che una volta avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento
ragguaglio di commenti, edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel
periodo considerato, l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in
qualunque campo la filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il
confronto con quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica
letteraria, essa supera di gran lunga la filologia classica di qualunque altro
Paese del mondo» 25 . Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa del 1948,
presentando ai let-tori insieme al condirettore Gino Funaioli la nuova rivista
«Maia» («nome caro a due grandi poeti, a Gabriele d’Annunzio e a John Keats»),
in sostan-ziale continuità e coerenza con se stesso Perrotta indicherà la via
della ripresa dello «studio della civiltà antica, per noi moderni» in un
«rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra l’eredità del classicismo
europeo del manoscritto, che mi propongo di fare quanto prima»; si tratta
del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius per l’ editio princeps
del testo greco del De impe-rio et rebus gestis Iustiniani
imperatoris libri quinque , uscita a Leida nel 1594 (cfr. Dewitte 1981, 196).
B. Vulcanius (B. de Smet), fu dal 1578 (in effetti dal 1581) professore nella
nuovissima università di Leida. 22 Lomiento 2014, 1. 23 Su
circostanze e contesto della successione illuminanti scorci in Canfora 2005,
19-20 e passim . 24 Sulla quale, e sulla persuasiva
identificazione in Ipponatte sostenuta da Per-rotta, vd. Gamberale 1994, 75;
Sisti 1994, 43-45; Morelli 1996, 24. 25 Perrotta 1943 Sent from the
all new AOL app for iOSdegli ultimi due secoli («la tradizione gloriosa di
Goethe e di Humboldt, di Gioacchino Winckelmann e di Federico Schlegel, di
Shelley e di Keats, di Hölderlin e di Nietzsche, di Foscolo e di Leopardi, di
Carducci e di Pasco-li») e una pratica filologica che, nutrita di adeguata
consapevolezza critica e storica, trascendesse le mai del tutto sopite
conseguenze delle polemiche, e dei connessi schieramenti, che avevano lacerato
gli studi classici italiani d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che
abbia l’abnegazione d’un grammatico alessandri-no e l’entusiasmo d’un umanista
del Quattrocento, la tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi
dell’Ottocento, il senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici
letterari dell’età nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo
storicismo, la filologia senza il filologismo, la critica estetica senza
l’estetismo e il vacuo filosofismo 26 . Non manca subito di séguito una
citazione da Nietzsche, dalla qua-le risulta «la filologia nel suo senso più
elevato rappresentata, come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia
poetica» 27 . Né manca un richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata
di «Maia», nell’ampia e intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel
decennale della morte a Ettore Romagnoli 28 , accostato a Nietzsche nell’accesa
e ‘immaginifica’ giovinez- za di filologo 29 , quindi rievocato come professore
universitario a Catania 26 Funaioli – Perrotta 1948. Che punto
nodale del «discorso sulla filologia» sia «la divisione o meno delle competenze
tra filologia e critica letteraria in senso lato» rimarrà, con altra
prospettiva, costante elemento di riflessione per Gentili: cfr. Gentili 1984
(2006 4 ), 300 sgg. 27 L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è
messa in rilievo da Gi-gante 1996, 150-151, il quale anche suggerisce che
mediatore per il filologo ita-liano della conoscenza di Nietzsche possa essere
stato Croce; un’emendazione del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme
nel suo insieme con la finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio»)
è lodata e accolta in Perrotta 1951, 83. 28 Un certo paradossale
irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in cui poté ancora esercitare un
sensibile influsso negli ambienti culturali», onde «egli affermò sempre più
polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo crociano […] com-memorò
entusiasticamente il Romagnoli, proclamò ripetutamente la indipendenza dei
supremi valori poetici da ogni condizionamento ambientale e culturale» noterà
Paratore 1963b, 6 (appunto a intendere «quella sopravvalutazione della critica
let-teraria che è sembrata così singolare in un uomo di così severa formazione
filolo-gica» è dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte
rifusa nel profilo Gennaro Perrotta in Grana 1969, IV, 2591-2601).
29 È utile citare il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Federico
Nietzsche giovinetto concepiva una dissertazione filologica come un romanzo. Il
grande filologo non intendeva certo, con queste parole, spregiare l’attività
filologica di Nietzsche giovane, del quale egli presagì il genio. Ma un intuito
profondo gli face-va scoprire in Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso
e di appassionato, che non faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur
dottissime e condotte con metodo impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un
uomo dotato di molta immaginazione(attraverso la testimonianza del
fraccaroliano e romagnoliano F. Gugliel-mino), in particolare quando
leggeva con predilezione i lirici greci, e, traducendoli, comunicava agli
uditori con la scelta felice delle parole e delle espressioni, che potessero
rendere con maggiore adesione il pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e
anche con l’inflessione della voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento
era sobrio, scevro d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse
dibattute dai filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta
interpretazione di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione
all’essenziale 30 . Il 1948 fu anche l’anno in cui, a cura di Gennaro Perrotta
e del suo as-sistente Bruno Gentili, uscì Polinnia , antologia
della lirica greca ad uso dei licei destinata a grande fortuna nella scuola
italiana della seconda metà del Novecento, sino alla recente e rinnovata terza
edizione del 2007. Non fu la prima antologia dei lirici greci destinata alla
scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i programmi del 1923, con
la riforma Gentile, più decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si
diffusero antologie sco-lastiche «nate in un periodo di estetica esasperata, di
olimpico dispregio per tutto quello che si chiamava (e la parola era oltraggio)
filologia», come vollero osservare prefando i loro Lirici greci
scelti e commentati (1940) Giuseppe Ugolini e Alessandro Setti che a
quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello
essenzialmente Aglaia , la nuova an-tologia della lirica
greca da Callino a Bacchilide pubblicata nel 1937 da Bruno Lavagnini
(1898-1992) 31 . In sede di valutazione storica è giusto rilevare che «ad
Aglaia si sono ispirate tutte le antologie successive che si
finirà sempre per mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in
una dissertazione filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva
spesso a Romagnoli giovane» (Perrotta 1948, 93). Le pagine di Perrotta sono in
parte ripro-dotte nella sezione su Romagnoli in Grana 1969, II, 1448-1459.
30 Nel Profilo di Bruno Gentili premesso da Carlo Bo al
I volume dei ricchissimi Scritti in onore di Bruno Gentili , Romagnoli
ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili
l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli
scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia
filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore.
Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua formazione, perché
accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è
accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini 1993b, I,
XXVIII ). 31 Nella Prefazione a Ugolini – Setti 1940
due sono «tra i lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati
utili «per il loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre
all’antologia di Lavagnini si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da
ravvisarsi l’ Antologia della melica greca pubblicata nel 1904 con
pre-fazione del maestro G. Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai
invecchiata a fronte delle scoperte papiracee accumulatesi nei decenni
successivi. Del libro di Ugolini e Setti oltre trent’anni dopo uscirà
un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti
1972possono definire serie, a cominciare da Polinnia » 32 , senza
dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di
liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia
di Lavagnini toni ben più diretti 33 di quanto dieci anni dopo accadrà a
Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in Polinnia ), e più in
linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta.
I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo
riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di
immoralità tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro
dei più noti studiosi di Saffo tra metà del XIX e metà del XX secolo, da
Welcker a Valgimigli 34 : impostazione da Perrotta stesso a suo tempo
esplicitamente confutata in Saffo e Pindaro 35 . 32 Così Degani
1995, 30. 33 Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini 1937,
116, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad
Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di
Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e
nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto
per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così
caldi da prendere i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta
ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani
da quel suo mondo». Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema
Lavagnini aveva dato nella sua precedente Nuova antologia dei
frammenti della lirica greca (Lavagnini 1932, 171), dall’ incipit e
dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in
Saffo «una invertita : essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il
potenziale affettivo ( libido secondo la termi-nologia di Freud) che
avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del sesso opposto». Al di là
dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini meritano di essere
particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna italiana della
psicanalisi, quando si pensi che la «Rivista italiana di psicoanalisi», diretta
da E. Weiss, fu fondata in quello stesso 1932 e soppressa due anni dopo: ricco
di infor-mazioni in proposito, benché talora disorganico e confuso, Zapperi
2013. 34 Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito
trattati rimando a Benedetto 2012. 35 Cfr. Perrotta 1935, 28-31, in
pagine non prive di sarcasmo e oggi dimenticate: «Infine, non giovano a nulla
le discussioni, interminate e interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di
Saffo. I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si
sono accorti che nel loro zelo appassionato essi stessi non erano troppo lontani
dai grammatici dell’età romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente
an Sappho publica fuerit […] In realtà, Saffo non ha bisogno di
essere giustificata: essa che, se potesse udire i suoi accusatori e i suoi
difensori, non intenderebbe neppure i termini della questione. La soluzione dei
Welcker e dei Wilamowitz non risolve nulla […] Quando per spiegare il tiaso
amoroso di Saffo, si parla di un convento, di un pensionato di fanciulle, di un
conservatorio di musica e di declamazione, e perfino d’un salotto letterario, e
perfino d’un club estetico di donne, non si spiega nulla; e per
giunta non si mostra né senso storico, né gusto irre-prensibile […]. E, ancora
peggio, si è costretti a ridurre ad elemento secondario, ad ammettere a mala pena,
facendo di tutto per togliergli ogni importanza, l’amore di Saffo per le
amiche; ma per Saffo l’amore era tutto». Significativo il pieno consen
Sent from the all new AOL app for iOSLa parte curata da Gentili comprende
tra gli altri Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si
occupò tra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’50. Nella difesa che
Gentili fa (come già Coppola e Perrotta negli anni ’30) dell’allegoricità del
famoso frammento alcaico ora 208a V. citato da Eraclito stoico («nella nave è
rappresentato lo Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina») 36
, tra affinità e differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla
‘pragmatica dell’allegoria della nave’ 37 . Superando i vincoli ancora operanti
in Polinnia connessi al tradi-zionale confronto ‘estetico’
con Orazio, tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a
riconoscere nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più
idoneo e perciò scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di
«trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo
comprensibile solo dall’uditorio dei compagni» 38 . Crocia- namente priva
di introduzione sia generale, sia ai singoli poeti 39 , Polinnia
riserva particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano
lo spazio e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze
di lunghe e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri
del testo, e apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina,
magari in una nota», sì da divenire per un liceale «il primo impatto reale con
la metrica greca» 40 . Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella
passione per gli studi metrici che la scarna premessa Ai lettori
rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con
favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non
è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come
purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che
permetta ad ognuno d’inter-pretare i versi come vuole, ma una scienza che è
facile imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura
metrica, ci siamo presa la libertà di segnare gli ictus dei piedi,
benché agli ictus non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento
dinamico, ma l’accento musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile:
coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con gli
ictus non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche di
Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il
Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella
psicanalisi». 36 Perrotta – Gentili 1948, 198-199. Sulle
Allegorie omeriche del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito
dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini
marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di
Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro 1994, 22-23, 55 sgg. e 105 sgg.
37 È il capitolo XI in Gentili 1984 (2006 4 ), 257-283. 38 Gentili
1984 (2006 4 ), 279. 39 Si ricordi per confronto la collana laterziana
degli Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di qualsiasi apparato
interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli poeti sarà anche la
successiva edizione del 1965: Perrotta – Gentili 1965. 40 Sono parole
dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico, che alla metrica
di Polinnia dedica Di Benedetto 2001, 141 sggsponde alla
lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di ogni lettura
metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a nascondere
la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa passione
didattica, animano la prefazione a La metrica dei Greci
(1952), il libro che rappresentò «lo sdoganamento» di tale disciplina «nella
scuola e, più in generale, negli studi classici italiani» 41 . Val la pena
rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita in Italia la mancanza di un
manuale di metrica ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha nociuto sino ad
oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle scuole medie,
poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo […] considerano di
scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenen-dola del
tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni 42
anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni
l’indefessa indagine metrica di Gentili: In realtà la metrica non è né
estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella
mia Metrica greca arcaica , alcune teorie metriche dei moderni,
quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei
metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica
testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché
metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione
reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con
pregiudizi scolastici […] Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri
nel loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità
dello studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per
il valore dei metricisti antichi 43 e la visione non ancillare degli
studi metrici, da intendersi non 41 Catenacci 2014, 448. 42
Gentili 1952, VII - VIII . Circa venticinque anni dopo, tra le cause
dell’isolamento in Italia dello studio della metrica greca «nel ghetto degli
specialisti e guardato al pari di una disciplina esoterica con sospetto e
diffidenza», Gentili tornerà a cita-re l’idea largamente diffusa «della
impossibilità di costruire per la versificazione greca una teoria coerente ed
univoca», inoltre aggiungendo l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni
Trenta «che aveva reciso alla radice ogni altro impulso all’indagine critica
che non procedesse nel solco della teoria estetica dell’arte»: cfr. Gentili
1979a, 681. 43 Sensibilità critica in cui Cerri 2014, 232 ravvisa
l’indizio di una attitudine ‘an-tropologica’ già allora in qualche modo
operante nella filologia di Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra
i metricisti di allora, non solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti
antichi, ma basa costantemente su di esse la propria trat-tazione […] è del
tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi
scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché le assume come
testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra,
di un linguaggio fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di
quell’orizzonte mentalecome meramente funzionali o subordinati alla critica del
testo, ma in-dispensabili innanzitutto per una piena comprensione dell’antica
poesia, nella convinzione «che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in
funzio- ne della poesia stessa», come è poi ribadito all’inizio dell’
Introduzione . Lì è anche subito affermata l’unità ritmica del verso antico, la
sua strutturale unione con la musica, onde «posta l’unità del verso greco, non
sarà più legittimo parlare di piedi, ma soltanto di cola » 44 .
Rievo-cando di recente le lezioni di metrica tenute da Gentili alla Sapienza
nell’immediato dopoguerra, G. A. Privitera ha colto nella «prospetti-va
storica» l’aspetto che in quelle esercitazioni più colpiva, quando «a
differenza dei trattatisti, che nei manuali si limitano ad esporre le loro
interpretazioni, Gentili citava anche le opinioni dei metricisti antichi e dei
metricisti moderni» 45 : come con ampiezza appunto avviene in
Me-trica greca arcaica , il volume del 1950 dedicato a Gennaro Perrotta,
anch’esso aperto dalla rivendicazione della metrica come «una scienza al pari
delle altre discipline classiche», tutta «nella migliore tradizione della
filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie sugli studi metrici degli ultimi
centocinquant’anni attestano i primi due capitoli del libro, dove dapprima (
Studi metrici: brevi cenni ) Gentili delinea con ricchezza di esempi e
osservazioni lo svolgersi delle principali analisi e teorie me- triche da
Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo scor-so» sulle orme di
Bentley e di Porson) a Westphal 47 , a Usener 48 , a Wila- 44 Gentili
1952, 1-2. 45 G. A. Privitera, commemorazione lincea, cit. supra ,
n. 17. 46 Gentili 1950. Ho consultato la copia conservata presso la
biblioteca del Cen-tro di papirologia ‘Achille Vogliano’ (Dipartimento di studi
letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano),
con ex libris dello stesso Voglia-no (segn. Vgl.II.B.61), in quegli
ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto incompiuto La
lirica eolica e Pindaro nella critica di Gottfried Hermann . 47 La
cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses» già è lodata in Usener 1907,
15. 48 Di Usener è rammentato con interesse il trattato
Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender Metrik
(Usener 1887), con la sua «analisi comparativa del-la metrica greca con
la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener consistono di una
rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la predi-lezione dei
popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto sillabe ancor ravvisabile
nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche ricostruibili forme metriche
greche e latine, nei canti popolari germanici, slavi settentrionali e
meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione negativa di Wilamowitz alla
lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich nicht in kurzem meine
Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht […]. Ich kann überhaupt das
einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine urgriechische
Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische Religion», lett.
del 13 ottobre 1887 in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 ,
46). Dal punto di vista della linguistica storica e della metrica comparativa
indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà Campanile 1982, cfr. anche
Morelli 1996, 50 sgg. e 83-87 Sent from the all new AOL app for
iOSmowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo capitolo ( Metrica e
musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal volti a «applicare le
leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo fallito ma assai noto
in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei suoi Poeti
lirici 50 , si segnala per la riflessione sulla centralità del rapporto
metrica-musi-ca, cioè poesia e musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te,
alla luce delle svolte nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a
Timoteo e poi all’età ellenistica, quando «il distacco della musica dalla
poesia è definitivo; questa sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 .
Noti sono i meriti di Perrotta nella rinascita degli studi italiani di metrica
antica 52 , nei quali «egli raggiunse una competenza che lo pose in una
condizione di assoluto predominio in Italia». Così Ettore Para-tore
all’indomani della morte del collega grecista nell’ateneo romano, rimarcandone
la visione della metrica quale «premessa indispensabile per l’intelligenza di
un altissimo testo poetico» e osservando la pro-fonda coerenza della «esemplare
e severa scienza metrica del Perrotta» con l’intera sua concezione degli studi
classici («nella metrologia del Perrotta veramente filologia e critica si dànno
la mano in una sintesi tra le più feconde») 53 : nel timbro certo ‘romano’ ma
già storiografica- 49 Cui già allora Gentili imputa gravi limiti
metodologici, per la sopravvaluta-zione ‘empirica’ dell’ observatio
metrorum e il connesso «profondo scetticismo per tutti i problemi metrici
di Urgeschichte »: Gentili 1950, 20 sgg. 50 Particolarmente il
secondo volume ( I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo, Saffo , Bologna 1932)
è costellato di «traduzioni in segnatura moderna della realizzazione sonora»,
cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei frammenti dei tre antichi
autori; almeno da un punto di vista storico non a torto Stella 1972, 171 indica
come merito di Romagnoli «quello di avere richiamato l’attenzione fin dai primi
anni del Novecento sul binomio poesia-musica , in stretta
interdipendenza di nota e parola, nei poeti greci fino all’età ellenistica», e
di aver così dato «avvio ad una compren-sione profonda e meno letteraria di
Saffo e di Pindaro, di Eschilo e Aristofane: indicava nuove strade per future
ricerche». 51 Gentili 1950, 33. Le indagini sulla musica greca anche in
età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd. Martinelli 2009. 52
Messi in rilievo da Albini 1963, 111, il quale anche ricorda che «quando la
morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul saturnio», sul
contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli 1996, 70 sgg. Resta il
paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio, che «nella
produzione di Gennaro Per-rotta, anche tenendo conto delle notazioni
occasionali e delle scansioni fornite in Polinnia , i contributi di
carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se
rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli
anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza». 53 Paratore
1963b, 7-8. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I
capitolo di Metrica greca arcaica : «Critica testuale, metrica,
interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati
contemporaneamente dal fi-lologo classico; essi rappresentano una unità
indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini
se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di
Paratore, «la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia»,
derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di Bruno Gentili.
L’esperienza di Perrotta me- tricista non può disgiungersi dal magistero
pasqualiano 54 . Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su
problemi importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo
contributo su Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno del 1985
Giorgio Pasquali e la filologia clas-sica del Novecento : Ricordo con perfetta
lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese
se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi
affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il testo di
Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio, chiedendomi
prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e lessi tutta
intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché dubitava che un
giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di superare questa
difficile prova 55 . I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze nell’immediato
dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi esclusivamente su un
problema che particolarmente angustiava il grande filologo, quello cioè «delle
re-sponsioni impure nei lirici corali e nei cantica della tragedia
e della com-media del quinto secolo», in relazione soprattutto alla soluzione
data da P. Maas in due articoli del 1914 e del 1921, dove «egli crede di poter
negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo
ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono» 56 . Ciò che qui conta
mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli incontri
dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, «di affrontare il tanto discusso
problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella
pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva
più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico» 57 : che
cioè, più in generale, Pasquali già avesse testo, curarono nelle loro
edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα dei cori
lirici, tragici e comici […]. Se oggi il filologo moderno dissentirà da essi
nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque,
la metrica di un poeta significa poter intendere più profondamente la sua
stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del
verso». 54 «Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale 1994,
77. 55 Gentili 1988, 79. Per la centralità nella ricerca metrica di
Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così denominati nel secolo
scorso da R. Westphal», nella dialettica tra individuazione di cola
unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di origine boeckhiana
vd. e. g. Gentili – Giannini 1977, 13 sgg. 56 Così Gentili
1950, 21, in un passo e in un contesto che sembrano conservare qualche traccia
delle conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data del
30 settembre 1949, ma Gentili informa il lettore che la prima parte del libro
era già in bozze nella primavera del 1948). 57 Si ricordino le polemiche
degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi Sent from the all
new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia lirica sia essa monodica
o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di una cultura che,
attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie, trasmetteva oralmente i
suoi messaggi in pubbliche audizioni 58 . In parte riguardante l’àmbito delle
responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento di Gentili compreso nella
raccolta di contributi in memoria del maestro («Maia» 15, 1963) 59 : «alcuni
problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema
preferito da Gennaro Perrotta nelle conversazioni con i suoi allievi, i
μετρικώτατοι», particolarmente negli anni 1947-1951. L’articolo è
interessante anche per l’attenzione che di-mostra, pur con vari dubbi, verso la
colometria antica quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e di Bacchilide,
già in qualche modo preludendo a quel- lo che diverrà, soprattutto dagli anni
Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a Gentili e alla sua scuola 60 .3.
Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno Gentili gli anni Sessanta videro
prepararsi e poi compiersi svolte decisive. Poco dopo la precoce scomparsa di
Perrotta (settembre 1962), Gentili divenne all’Università di Urbino ordinario
di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni anni, sin
dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui fu subito «figura
cardine» 61 . La prolusione urbinate del 18 giugno 1964, pub- blicata l’anno
successivo con il titolo Aspetti del rapporto poeta, commit- lidei
in cui «la presunta corruttela del metro, per la responsione non perfetta»
aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo, difeso
ammettendo la re-sponsione impura in Gentili 1958, 20 sgg. 58 Gentili
1988, 80-81. Il racconto di Gentili va naturalmente letto tenendo pre-sente la
frattura tra Pasquali e Perrotta su cui vd. Morelli 1996, 33 sgg.; dal
no-vembre 1948, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i rapporti
epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina 2010. 59 Gentili 1963
(poi nei monumentali Studi in onore di Gennaro Perrotta ). Nella
stessa Gedenkschrift non manca un breve contributo di P.
Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford, 31 ottobre 1962:
Maas 1963. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame delle
carte segnalate in Lehnus 2010a e Lehnus 2010b. 60 Una quindicina d’anni
dopo Gentili osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia
di scarso valore e di nessuna utilità per noi […]. Ma, ch’io sappia, nessuno
sino ad oggi ha realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il
disprezzo e il totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli
studi metrici del Novecento» (Gentili 1979a, 688). Dello sviluppo degli studi
sulla colometria antica guidati da Gentili negli anni successivi sono
testimonianza molti contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»:
come sguardo d’assieme vd. Pretagostini 1993a, Gentili – Perusino 1997 e più di
recente la Tavola rotonda 2008; breve consuntivo del dibattito in
corso in García Novo 2008, 408-409. 61 Sugli studi classici a Urbino
dapprima nella Facoltà di Magistero (dall’a. a. 1937/38) poi in quella di
Lettere e Filosofia (dall’a. a. 1956/57) vd. il profilo di Colantonio – Bravi
2006tente, uditorio nella lirica corale greca , presenta un chiaro carattere
pro-grammatico 62 e introduce quell’insieme di temi che «nel tempo si
rivelerà più produttivo e tipicamente ‘gentiliano’» 63 . Fin dalle prime righe
del sag-gio è messo in evidenza il valore di «strumento di conoscenza del
reale» proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo,
il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle
forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma
stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente
e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito,
e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si
rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa
costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda
appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio
la relazio- ne tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale
significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo
storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono
corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto
mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e
in genere del carme corale sul quale per più di un secolo dal Boeckh in poi la
critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica».
Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica
pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca del XIX
secolo, e che Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione
pindarica in Saffo e Pindaro (1935), dedicandovi una rilettura di
oltre cento pagine attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti
compresi, infi-ne giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia
estetica sia logica nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la
visione romagnolia-na di Pindaro come «poeta del mito» 64 , l’interpretazione
di quel «poeta puro, più che poeta-moralista o poeta-filosofo» 65 è
infine da Perrotta per intero riportata all’interno della dicotomia crociana
poesia/non poesia, senza arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di
quella scelta critica: Non poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta
dell’etica e della politica dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico.
Ma poeta grandissimo del mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e
miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a
ripudiare come non poesia buona parte dei versi del poeta. Questo forse
dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta
frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una
più serena considerazione convincerà, che, anzi, il poeta è 62 «Una
specie di manifesto per la Scuola urbinate» lo definisce Angeli Bernar-dini
2013, 16. 63 Catenacci 2014, 449. 64 La cui derivazione da
Burckhardt sottolinea Paratore 1963, 300. 65 Perrotta 1935, 107-108stato
accresciuto, perchè l’unico modo di onorare un poeta è quello di esaltare la
sua poesia. Isolare le parti impoetiche, non che fargli torto, è un servigio
reso al poeta stesso 66 . Non a caso subito Perrotta richiama per confronto il
caso della poesia dantesca («naturalmente continueranno ad esistere gli
ammiratori dell’architettura, dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico,
proprio come non mancano gli ammiratori dell’architettura, della struttura,
della concezione del mondo dantesco») 67 , a proposito della quale con maggior
valenza paradigmatica Croce aveva teorizzato e applicato la necessaria
dis-tinzione – valida per ogni autore e opera letteraria – tra la dimensione
pro-priamente ‘poetica’ e quella ‘allotria’, attinente «una varia
interpretazio- ne filosofica e pratica» 68 .Trent’anni dopo, nel 1965,
disegnando il percorso per un profondo rinnovamento degli studi italiani su
Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse alle ipoteche critiche
della prima metà del secolo, Gentili in certo modo proietterà all’esterno il
tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo «nel mondo dei valori che il poeta
in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della poesia era portato a
interpretare» 69 . Discernere nella orazione urbinate i fili di una nascosta
dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di giustificazioni, quando si
pensi che il saggio Aspetti del rapporto poeta, committente,
uditorio nella lirica corale greca , nato da quella prolusione e poi pubblicato
in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di «Studi Urbinati»
contenente gli Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70 aperti da
una pagina di presentazione di Gentili stesso, alla quale segue un inedito perrottiano,
una nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una atetesi di
Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche» 71 . Significative
le parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un modello di «vivo
impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre pur non si può
tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e classica:
66 Perrotta 1935, 227-228. 67 E così prosegue: «gli uni e gli
altri si riterranno i soli capaci d’intendere i poeti, pur essendo
incapacissimi d’intendere qualunque poesia, perchè per poesia intendono
l’allegoria, oppure la così detta ‘poesia d’idee’, oppure perfino una rac-colta
di massime belle e utili». 68 Mi limito a rimandare in proposito, come
testo esemplare, all’ Introduzione di Croce 1921, che cito da una
ristampa laterziana sostanzialmente immutata del 1943. 69 Saranno poi i
temi fondamentali di molte, famose pagine di Poesia e pubblico
nella Grecia antica , soprattutto nel cap. VIII Poeta-committente-pubblico,
ovvero la norma del polipo . 70 Gentili 1965a. 71 Perrotta 1Chi gli
fu vicino e poté, anche fuori della scuola, ascoltarlo nella conversazione
abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza umana, apprese, oltre che il
rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno a dare un senso di attualità
ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del nostro tempo, diremo l’impegno a
comprendere nell’inesauri-bile mondo della grecità arcaica e classica la
problematicità dei rapporti di valore culturali e civili, quali uomo-scienza,
uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della nostra inquietudine e per i
quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se dobbiamo, tra i rottami
inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi della odierna civiltà industriale,
riproporre una nuova dimensione dell’uomo, dell’uomo non come strumento ma come
fine 72 . La seconda parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù
di Pindaro, anticipando traduzioni destinate all’antologia Lirica
corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide , che uscì per Guanda nel 1965 73 ;
il saggio originato dalla prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione
sostanzialmente immutata, a mo’ di introduzione dal titolo Poeta e
com-mittente . Nuovo è però l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che
intercetta le curiosità ‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti,
un po’ provocatoriamente invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica
co-rale greca: In un momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi
d’avanguardia, giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di
trovare linguaggi più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un
senso riproporre una nuova lettura dei poe- ti della lirica corale greca,
Pindaro, Simonide, Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo
significato che sarebbe stato eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i
poeti della lirica monodica, troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva
invece offrire, nei limiti consentiti dall’indole della collana, un panorama
delle op-poste tendenze ideologiche e artistiche che animarono la poesia del
tardo arcaismo greco, cioè di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda
crisi evolutiva nella quale la poesia, come solo rare volte nella storia della
cultura occidentale, divenne strumento di conoscenza del reale […] 74 . Si
tratta dunque di una affermazione di ‘contemporaneità’ della lirica greca
ancorata a solide e rinnovate basi filologiche e storiche, proposta in un’epoca
di crisi e trasformazione tra le più incisive e impetuose del se-colo, come
oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare qualche eco dei 72
Parole che in parte torneranno trent’anni dopo nell’introduzione premessa da
Gentili alle Giornate di studio su Gennaro Perrotta . Si può aggiungere
che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, Gentili
segnalava che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori
del neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e
latina» presso l’Università di Urbino. 73 Gentili 1965c. Ho consultato
presso la Biblioteca centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano una copia appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di Gentili
datata «Urbino 18.11.1965». 74 Con l’ultimo periodo si apre il saggio in
«Studi Urbinati» clamori suscitati dalla beat generation di A.
Ginsberg, il cenno iniziale agli «sperimentalismi d’avanguardia» nell’àmbito
della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle loro ragioni, essenzialmente
rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli anni, la cui fase preparatoria
si suole riconoscere nel dibattito culturale sviluppato sulla rivista milanese
«Il Verri», fondata nel 1956: sin dall’inizio diretta da Luciano Anceschi
(1911-1995), se n’era avviata nel 1962 una seconda serie presso l’editore
Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi
destinati a fama e fortu-na nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato
Barilli, Umberto Eco, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi, Antonio Porta,
Edoardo Sanguineti). I nomi appunto intorno a cui nel 1961 si era aggregata
l’antologia poetica I Novissimi: poesie per gli anni
Sessanta (con testi di N. Balestrini, A. Giu- liani, E. Pagliarani, A.
Porta, E. Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più eterogenea
e conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta poli entrambi
di definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana, poetae
novi avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo 75 , volti (i
più) alla destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica modalità
di espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come tale 76 .
Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri» (febbraio 1962), L.
Anceschi salutava il determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della
poesia italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta
anacoretica , o ermetica , o chiusa , non senza certe tentazioni di
involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come
estrema voce del soggetto nascosto e introverso […] come sintesi illuminante,
pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola»,
si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia dissacrata,
estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata talora alla
casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio significante dell’effimero, di
modi analitici, a struttura complessa e multipolare, tale che […] può farsi
capace di una critica di vita, di un’azione per la trasformazione dell’uomo»:
egli avver-tiva insomma il farsi avanti di una poesia, e di una stagione di
poesia, «come accrescimento della vitalità , e nuove tecniche, e volontà
di for-me aperte, e speranze di una maggior portata di comunicazione…» 77 . Il
saggio già apparso in «Studi Urbinati» fu da Gentili subito ripubblicato
75 Nonché «uniti e avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di
approfit-tare della prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso
boom »: così Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo, 338. 76
«Sganciato il linguaggio da intenti determinati e da precise responsabilità
semantiche, lo scrittore appare attirato non tanto dalla mancanza di senso
quanto piuttosto da ciò che sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia
l’estrema libertà di invenzione linguistica. La parola comunica non dei
significati, ma le pro-prie avventure e peripezie, percorre lo spazio senza
fine del desiderio, del gioco e del godimento», come efficacemente sintetizza
Curi 2014, 100. Sent from the all new AOL app for iOS appunto
su «Il Verri» 78 , all’interno di un numero monografico Classicità e
contemporaneità contenente contributi anche di altri studiosi del mon-do
antico 79 . Il fascicolo era introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre
attento a «scoprire in modi non fortuiti una zona antica e nuova della
classicità» 80 , qui volto a riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za,
oggi certo più inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite
maniere con cui nel secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse
di un continuo vivere dei classici al di fuori della astrazione, ormai
incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei
classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma
solo, se sarà possibile, una delle sue fibre, una delle
voci di una cultura che si è aperta, aperta al riconoscimen-to delle ragioni di
tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La cultura europea in certi suoi
esponenti della metà del secolo scorso sembra aver intuito la possibilità del
determinarsi di una situazione di questo genere […]. Questa è la situazione in
cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine recuperare i nostri antichi
81 . Particolarmente appropriati, nel contesto del numero de «Il Verri»,
ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di Gentili i rilievi sulla
‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale, tra le varie
forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore
accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte)
anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo
deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e
astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura
classicistica. Il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi quella che fu
ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o
addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi
superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta
presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda
metà 77 Anceschi 1962, in partic. 14 sgg. 78 Gentili
1965, 80-97. 79 C. Del Grande ( Grecità ); C. Diano ( Ritorno a
Plutarco ); E. Pasoli ( Per una lettura dell’epistola di Orazio a Giulio
Floro ); G. C. Giardina ( Note per l’esegesi di Orazio lirico ); A. Mele
( Orazio e il significato culturale del classicismo latino ). 80 Cit. in
Nisticò 1997. 81 Anceschi 1965, 4-5. Quanto una ben diversa visione della
Grecia come «anti-ca madre comune» fosse in àmbito filosofico italiano ancora
viva pochi anni prima testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini 1959,
dove a fronte del «senso della crisi dei valori oggi tanto diffuso nella
coscienza dei contemporanei, che nessuna generazione del passato potrebbe
probabilmente reggerne il paragone», si propugna un ritorno alla Grecia, che «vagheggiata
dall’Umanesimo al Romanticismo come il felice e radioso mattino della nostra
storia, sembra non avere mai deluso chi ricerchi in essa i germi del modo
occidentale di considerare e vivere la vita» (17dell’Ottocento, non solo e non
primariamente nelle traduzioni 82 . A Car-ducci in particolare, e per vari
aspetti già al Foscolo 83 , si deve «la riscoper-ta, nelle immagini e nei
metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana memoria, e poi
di Alcmane […] come modelli di poesia pura» 84 , all’origine di un ricco e
complesso processo di ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che
attraverso Pascoli 85 e D’Annunzio conduce sino ai Lirici
greci tradotti da Salvatore Quasimodo , usciti a Milano in prima edizione nella
tragica primavera del 1940, introdotti da un saggio critico del ventinovenne
Luciano Anceschi. A Milano Anceschi si era formato con Antonio Banfi, subito
segnalandosi con il volume Autonomia ed ete-ronomia dell’arte
(1936) 86 , radicale presa di distanza dall’intuizionismo estetico crociano e
dalla sua incapacità di comprendere le poetiche del Novecento 87 . Come il
coetaneo Carlo Bo (1911-2001) per la corrente ‘fio- 82 Tra le quali
per più ragioni merita ricordare quella che Felice Cavallotti (1842-1898),
allora già famoso deputato dell’ Estrema , dedicò a Canti e
frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da
un’ode a Gio-suè Carducci , Milano 1878, con prefazione, interessante per il
rifiuto della ‘metrica barbara’ («il tentativo – che non data da oggi – di
ricondurre la poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e latini, mal
saprebbe giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio»),
e per l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare
nel mondo tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico
liceo milanese di Porta Nuova), finanche citando «la versione olandese in versi
di Bilderdijk»: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata
di Enrico Stefano – del 1566 – che ancora oggi fra tutti i distillamenti di
cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più
sicura». 83 Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi
della Coma catulliano-calli-machea come poesia lirica
sin dalla dedica a G. B. Niccolini («non credo che l’an-tichità ci abbia
mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li
pareggi») della traduzione e commento de La Chioma di Berenice
poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo (1803): ivi il
Discorso quarto. Della ragione poetica di Callimaco si chiude
nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saf-fo nei superstiti rari
vestigi a fronte di Orazio e di Catullo. Sul ‘pindarismo’ fosco-liano dal
commento alla Chioma di Berenice attraverso i Sepolcri
sino alle Grazie come riflessione sul nesso che lega lirica antica
e moderna vd. Benedetto 2006. 84 Nava 2007, 90; qualche utile elemento si
trae da Tomasin 1997. 85 Fondamentali soprattutto i Poemi
Conviviali (del 1904 la prima edizione in volume) sin dal liminare
Solon (1895), su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato
commento in Treves 1980, I 555-569. Un àmbito di particolare interesse è quello
della sperimentazione pascoliana ispirata ai metri della lirica greca, cfr.
Giannini 2009 e ora Capone – Giannini 2015. 86 Lo stesso anno de
La poetica del decadentismo di W. Binni, per il cui influs-so sugli
studi pindarici degli anni Quaranta di M. Untersteiner (1899-1981) vd. Lehnus
1989. 87 Sui fondamenti filosofici e critici del precocissimo
anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa 2007, cap. I ( La nuova
fenomenologia e la nozione di poetica ); su Anceschi, la critica di ispirazione
fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già con
l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto 2003, 1090-1095 e
1104-1110rentina’ dell’ermetismo, sul versante ‘milanese’ Anceschi fu figura di
spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della
singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: ‘poetica della
parola’ sul-la cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai
Lirici greci del 1940, dicendola erede dell’«esperienza complessa
della poesia dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo,
Leopardi» e, soprattutto, scor-gendone l’antecedente nella «pura e libera voce
dei lirici greci». Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico
svoltosi per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che
nella cultura euro-pea «non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici
greci». Quella stagio- ne ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia
veramente nuova e contemporanea » e soprattutto «nella
aspirazione al raggiungimento di una rigorosa purezza lirica »
l’‘ermetico’ Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo
Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè «la purezza di quell’antica
sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia». Senza
sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della
terribile crisi della civiltà europea 88 , risuona l’appello alla lirica greca
come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata
dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa
aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni
composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla
no-stra coscienza come un tutto è, appunto, la lirica – per la
prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la
parola (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove
era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia
unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci un’approssi-mazione
felice a quel segreto. Se pregevole appare la sottolineatura del concorrere di
parola, danza e musica nel definire la particolare natura della lirica greca, è
indubbio che il suggerire compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra
‘poetica della parola’ cara agli ermetici novecenteschi e scarni
testi dei lirici greci conservati per fragmina («qualche
parola altissima, e interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno
del concetto e della realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica:
all’indomani della guerra pubblicamente lo segnalò Manara Valgimigli
(1876-1965) 89 , peraltro con Quasimodo e 88 Consapevolezza che ad
esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante frase di P. Valéry: «… une
civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui enverraient
les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres de Ménandre
ne sont plus du tout inconcevables: elles sont dans les journaux»
(22-23). 89 Valgimigli 1946 (1957). Dopo aver ricordato che dei lirici
greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e quella
pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro […] tutto il
resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e da
subito ben disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi
risultati 90 . Quan-do Gentili, nel saggio pubblicato nel 1965 su «Studi
Urbinati» e su «Il Verri», polemicamente alludeva a quell’impresa nei termini
su citati («il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi [ scil . i grandi
poeti della lirica monodica] quella che fu ritenuta l’espressione essenziale,
irripetibile, poe- tica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento”
condensata in un’immagine di pochi versi superstiti»), i Lirici
greci di Quasimodo erano nel pieno della loro fortuna: mentre proprio nel
1965 era definita la for-ma ne varietur delle versioni dai lirici
nell’edizione mondadoriana degli Opera omnia del poeta, tra vivaci
polemiche di recente laureato dal Pre-mio Nobel (1959), quelli erano gli anni
in cui se ne radicava e diffondeva la presenza nelle scuole italiane,
particolarmente dopo l’istituzione della Scuola media unica. Soprattutto dai
primi anni Sessanta e nel successivo decennio si può dire che in Italia nella
percezione comune, anche gene-ricamente colta, la lirica greca coincise con
i Lirici greci di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani
della morte del poeta (1968) si prese a riconoscere come la sua migliore 91 .
La stessa scelta da parte di Gentili di tazioni indirette, oppure, dove
siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per
frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel
mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni storico-culturali di
quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli
antichi poeti in frammenti: «ora, se io penso a quelle che furono ai principi
del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo,
non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le cause di questo
incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana
combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in certo senso,
alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di
certa poesia lirica greca». 90 Quanto sopravvive dei carteggi
Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto
– Greggi – Nuti 2012. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da Padova,
6 giugno 1940, su carta intestata «R. Università di Padova/Seminario di
Filologia Classica») con cui Valgimigli rin-graziava il poeta per l’invio di
una copia degli appena pubblicati Lirici greci : «Caro Quasimodo /
Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un
nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel
pudore senza inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità
insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi
piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro.
Ma dove, in questi giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E
auguriamo bene al nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in
Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 100-101). 91 Così per primo E.
Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura
dell’ Introduzione alla sua importante antologia einaudiana
Poesia italiana del Novecento (1969) accomuna in iconoclastico
dileggio antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Carlo Bo
Letteratura come vita (1938); appunto perché gli antichi lirici
risultano «volgarizzati, mediante il Quasimo- Sent from the all new
AOL app for iOSantologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale
(Pindaro, Bacchilide, Simonide) fu con ogni evidenza determinata dal fatto che
si tratta appunto degli autori non presenti tra i Lirici di
Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro
Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una
pura (attuale e antica) idea della poesia perciò fu
osservata la scelta dei testi […]. Naturalmente è ben definito il senso anche
delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la
magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile
e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza
concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza
di poeti «semi-lirici» (giambici o elegiaci, gnomici o politici) troppo
disposti alla sentenza , all’ esortazione o alla narrazione :
a indubbie condizioni di prosa 92 . Venticinque anni dopo la comparsa dei
Lirici greci prefati da Anceschi, Gentili propugnava e realizzava
il rovesciamento di quella prospettiva cri-tica 93 ; ci si può quindi chiedere
perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da
Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divul-gare il saggio
Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale
greca . Quanto si è prima accennato circa i convincimenti maturati da Anceschi
nel corso degli anni Cinquanta, e poi sempre più all’inizio dei Sessanta, rende
chiara la risposta: «nemico di ogni posizione cristallizza-ta» 94 , Anceschi
soprattutto con «Il Verri» individuò come primario compi-to del critico «quello
di risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e
l’instabilità» 95 . Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si
do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie
antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai Lirici greci ,
definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo»
e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica».
92 L. Anceschi, Introduzione in Quasimodo 1940, 22.
93 Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di
An-ceschi del 1940: «per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali
del tardo ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide,
più elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi
nei contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un
particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e
condizionarono il loro canto» (Gentili 1965c, 15). 94 Anceschi – Campagna
– Colombo 1998, 331: «Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione
cristallizzata […]. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e
che lo aveva visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi
rinchiudere in esso. E magistrale […] era la sua capacità di muoversi in
territori ambigui, d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi
come punto di riferimento per chi cercava la sua strada». 95 Anceschi
1956, saggio con cui si apre il primo numero de «Il Verri» nell’au-tunno di
quell’anno, riproposto nella nuova serie de «il verri» nel 1996; sulla
con-dizione della letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra
le ultimeera convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della
stagione ermetica, ma tornò ad affrontare i Lirici greci e la
sua stessa introduzione dieci anni dopo, riscrivendola nel 1951 per una nuova
edizione mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi
lascia intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica
greca (come peraltro già le pagine del 1940 lasciavano sospettare) 96 , prende
atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione
quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che
cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti,
è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo
[…]. Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa
nella veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra
oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi
frammenti (la giustificazione della vali-dità del frammento è
sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro
forza che la poesia non sta nella struttura, non sta
nella «musica esterio-re», non sta nel «contenuto morale» o nella
«narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una
bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto
all’introduzione del 1940 è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di
Renato Serra (1884-1915) Intorno al modo di leggere i Greci ,
pubblicato postumo da Valgimigli nel 1924 su «La Critica». Ispirate dalle
contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata
dei Lirici greci del Fraccaroli (1910) gli avevano suscitato
97 , le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio
classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che
aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è
andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante
lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie- manifestazioni
dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che
la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che
rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare
delle situazioni» torna ad esempio Anceschi 1967. 96 «Non dimenticherò
certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando con
Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee
familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la
mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia
italiana contemporanea. Fu, credo, un giorno dell’autunno 1938»:
l’introdu-zione anceschiana del 1951 è ristampata in Quasimodo 2004, 321-333.
97 «Ho davanti a me i Lirici del Fraccaroli. Che cosa è dunque
l’interesse di que-sto libro? L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi
dei lettori comuni questi avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno
possa vedere e giudicare senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel
che valgono. Con questo animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto,
molto lietamente, come sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a
questa lietezza io resto malinconico e dubitoso ad ascoltare l’eco
beffardo di una ironia lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;» Sent
from the all new AOL app for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al
gusto fin de siècle («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea
e con la cretese, con le fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli
egiziani, e insomma con l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più
crudo, barbaro, romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»),
e soprattutto sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo
‘bisogno di antico’: Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la
differenza profonda fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le
statue, le fotografie, le imma-gini, i processi, i costumi, in somma la vita
nella sua indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di
seminario e delle figure di Longino […]. Una cosa è chiara, direi quasi a
priori ; che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale
della grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi
e le formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora
citati del saggio di Serra provengono dal fascicolo de «Il Verri» dedicato
a Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da
Intorno al modo di leggere i Greci 98 . Sugli appunti di Serra si
sofferma il liminare Intervento di Anceschi. Nel giovane
critico cesenate caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi
del modo di sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di
chi ha compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura
assoluta dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi,
con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi
vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro
rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento.
Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa
presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e
l’attività di Gentili in quegli anni come filologo e come docente. Ne è
conferma la scelta di continuare a pubblicare su «Il Verri» gli articoli di
maggior impegno teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica»: in particolare i due saggi L’interpretazione dei
lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo e
Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età
dei lirici . Il primo (Gentili 1970) 99 pienamente si presenta al lettore
‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso
problema di fon-do che è il problema stesso della sopravvivenza del mondo
classico nella nostra cultura», letto all’interno del più radicale tema della
‘morte della storia’ nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva degli
ultimi decenni 98 Serra 1965. 99 Già in «QUCC», con il
sottotitolo Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale :
Gentili 1969del XX secolo. Quaranta e più anni dopo, sono riflessioni che
colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti
come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In
concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà
tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e
alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo,
irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa
situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici,
politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura
contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di
crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e
propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a
livello internazionale degli studi sulla lirica gre-ca arcaica, sulla spinta
soprattutto dei lavori di E. A. Havelock, muovendo dal riconoscere che «dato
comune alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V
sec. fu il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma
orale», e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti
mentali diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una
‘tecnologia di scrittura’ rinvenibile «in contesti poetici di altre
culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche,
estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della
poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della
performance poetica che mira a pubblicizzare il personale e il
soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere
emozionalmente l’uditorio» attraverso la ricca serie di immagini e metafore
proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette
la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di
interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e
uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i
suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei
temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della
vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici,
vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di “amiche” e di “amici”
di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango
sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza
critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo la-voro di
Gentili e della sua scuola sulla lirica greca arcaica 100 . È opportu-no
sottolineare la volontà di Gentili di legare l’interpretazione dei lirici
greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa,
protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi,
100 Esemplare l’esposizione in Gentili 1990 Sent from the all
new AOL app for iOSl’idea cioè «cui aspira l’antropologia contemporanea,
dell’interpretazione come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel
tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione
umanistica tradizionale della poesia greca come eterna storia naturale del
gusto e dell’arte» sia del ‘neoumanesimo etico’, e in definitiva la presa
d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale» in un contesto
culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira all’affermazione di un
diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma variamente concordanti di
Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo sforzo di capire in concreto
la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una linea critica attenta
all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le domande, le cate-gorie e
gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla lessicologia semantica
alla psicologia sociale e alla psicologia della storia, dalla socio-logia
all’antropologia», e il vero tema risulta infine «il problema concreto
dell’uomo nella sua vita individuale e sociale» 101 .Allo scopo evidentemente
di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di una costante
riflessione concernente passato (dell’oggetto) e presente (dell’interprete),
«contro il pericolo di arbitrari travestimenti» 102 , il saggio si chiude con
una breve citazione da T. S. Eliot 103 , cara a Gentili, che la ripeterà in futuro.
Si tratta di un passo proveniente da un saggio del 1920 ( Euripides and
Professor Murray ), violento attacco dello scrittore contro le traduzioni
euripidee approntate per la scena dal famoso grecista, accusato di adottare per
le proprie versioni un obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace di
trasmettere la sostanza del testo greco e di renderlo comprensibile nel
presente (opinione ben espressa dalla devastante frase finale: «è per il fatto
che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio
morto»): è giusto aggiungere che, quali siano stati moventi e intenti della
stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray proposte on the stage
furono grandemente popolari per decenni, e anzi «it was largely due to Murray that
Greek tragedy established itself as a permanent feature of the theatrical
landscape» 104 . L’intervento fu incluso 101 Sul significato di
fondo dell’opera di Gentili da individuarsi nella «applica-zione alla filologia
testuale dell’antropologia culturale», al fine di porre «la spiega-zione dei
testi, della loro struttura e dei singoli passi, nel quadro illuminante della
cultura complessiva cui furono funzionali» vd. soprattutto le osservazioni di
Cerri 2014. 102 Con riferimento a quanto sembra alle interpretazioni
idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più polemizza
Gentili. 103 «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al
suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in modo così
vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente». 104 Cfr.
Garland 2004, in partic. 161-163. Su Euripides and Professor
Murray vd. ora i rilievi di Morwood 2007, 139 sgg.; sui ben noti,
profondi interessi di Eliot per le letterature classiche e soprattutto per
Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e nell’autorappresentazione del
poema The Waste Land (1922) del concetto Sent
from the all new AOL app for iOSda Eliot nella raccolta Il bosco
sacro ( The Sacred Wood ), rivelata nel 1946 alla cultura italiana dalla
traduzione di Luciano Anceschi, che premise una lunga introduzione (datata
marzo 1945!) 105 dove non manca di essere menzionato
Euripides and Professor Murray , da Anceschi accostato al saggio
«incompiuto e bellissimo di Serra Intorno al modo di leggere i
Greci » per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di
traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e
che […] non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle,
certo più rigorose, dell’arte» 106 . Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato,
è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine
secolo», appunto quella « filologia poetica , che è riuscita a ridurre i
liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso
Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso)
nell’introduzione ai Lirici greci del 1940 107 , priva invece
di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di Eliot contro
Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella rielaborata,
quasi palinodica pre-fazione anceschiana del 1951 108 . Il terzo ampio e
importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla rivista di
Anceschi ( Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca
dell’età dei lirici : Gentili 1972) è per intero dedicato a discutere i
radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento nel
definire «l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di tutto
registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni della
vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti»,
particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito
degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo
persistere della «critica del gusto» e in di fragment
(«these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di
Martindale 1999. 105 Anceschi 1946. 106 Anceschi 1946, 32.
107 L. Anceschi, Introduzione in Quasimodo 1940, 24-25.
Questo il passo: «Quasimodo sembra perciò essere veramente il più adatto – oggi
– per una impresa così ardua – necessariamente – difficile […] in reazione a
certa filologia poetica , che è riuscita a ridurre i lirici greci
ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento bellissimo:
Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene / Mezzanotte: l’ora
vola; / io son qui sopita e sola )», dove il riferimento è natural-mente al
famoso frammento saffico 94 D. = 168b V. 108 In Quasimodo
2004, 333, dove Eliot «nel saggio su Euripide» è menzionato accanto a pensieri
sul tradurre di Leopardi e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in
italiano de Il bosco sacro , il richiamo al Murray di Eliot a
proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia tra Ottocento e
Novecento da «certi filologhi non so come invasati dal dio» era già in L.
Anceschi, Presentazione in Anceschi – Porzio 1945, 15-16
(dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare
in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna,
Eschilo, Virgilio, Ovidio, Catullo).generale di «quel gusto del lirismo
novecentesco che ha dominato la cul-tura italiana tra il 1920 e il 1940» è
indicata l’ancora presente «tendenza a ricondurre il testo originale al gusto
del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale»,
così procedendo a un’operazione «che an-nulla le categorie del tempo e dello
spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo
dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti»
in cui possano cadere le traduzioni, Gentili torna a menzionare il passo di
Eliot contra Murray già citato al termine dell’articolo di due anni
prima ( L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del
nostro tempo ). È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario
intento del brano, e in genere di Euri- pides and Professor Murray
, era l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo
dell’‘occhio creativo’ 109 capace di render vivo Euri-pide con una
traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione
classica 110 . Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray
l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella
‘filologia poetica fine di secolo’ a lungo di voga in Italia,
colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle forme di un
linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile
linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e
oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare
di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano 111 . 109 È
opportuno citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il
sag-gio di Eliot si conclude: «Abbiamo bisogno di una digestione che assimili
insieme Omero e Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno
studio accurato degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo
bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue
definite differenze dal presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia
tanto presente a noi come il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il
fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì,
proprio morto». 110 Eliot 1920 (1946), 142-143: «Negli ultimi anni del
diciannovesimo secolo e fino ad oggi, i classici han perduto il loro posto di
pilastri del sistema politico-socia-le […]. Se i classici devono sopravvivere e
giustificare se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo,
come fondamento per la letteratura che spe-riamo di creare, sono proprio
sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se di
Aristotele si può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo
bisogno di qualcuno […] che ci spieghi come sia materia vitale per noi il
rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti
che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche
utilità per noi. Si deve dire che il professor Gilbert Murray non è l’uomo
adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di sollecitazione
per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un volgare
avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne».
111 Anceschi 1946, 32 n. 1: discorso che, Anceschi tiene a precisare,
«non si rife-risce ad un letterato di bella educazione e di civilissimo
spirito, come il Valgimigli»Per l’Anceschi del 1945, come per quello del 1940 e
parimenti del 1951 (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti
grottesche traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli 112 venne dai
Lirici greci di Quasimodo, frutto di «acuto, inatteso, e ormai da
molti anni pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo» 113 ,
fonte di poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di
lì a poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più
nota e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle
proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra
della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore.
Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a
quella operata da Quasi-modo con i lirici greci, Euripides and
Professor Murray è invece evocato da Gentili come alleato contro gli
«arbitrari travestimenti» realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo.
Lo si nota non per ossessione ‘fon-tistica’ 114 o gusto della minuzia
paradossale, ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo
che nei decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei
Lirici ebbe, come presenza immanente e come termine di confronto
positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello
filologico e accademico 115 . Nel caso di Gentili una tale presenza e un tale confronto
dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando si pensi
che la prima (e pressoché unica) re-censione dei Lirici greci
di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Gennaro Perrotta,
nell’ottobre 1940. Dimenticata dopo la guerra in 112 Ottime in
proposito le osservazioni di U. Albini, Prefazione , in Perrotta –
Al-bini 1972, V : «Le due traduzioni dei lirici greci che hanno
contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed E.
Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare
la bellezza e la grandezza dei classici antichi […]. Si voleva spalancare una
grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico,
richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le
riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente
indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi…».
113 Dall’introduzione di Anceschi del 1951 ora in Quasimodo 2004, 324. 114
Pare certo che Gentili sia giunto al saggio di Eliot attraverso Anceschi, che
lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe più avanti è
del resto citata l’introduzione all’edizione 1951 dei Lirici greci
. Ancora nella postuma Premessa di L. Anceschi,
Brevi parole, su un modo del tradurre a Mariotti 2001, le versioni
di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni floreali del prof.
Murray, non meno che da quelle di certi nostri professori-poeti», e si ha un
interessante ricordo personale delle «traduzioni dai Frammenti dei
tragici greci [1925] che lessi ai tempi del liceo, lontane ormai, ma non
dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore che rimase esente dalle
rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie degli esuberanti
traduttori liberty del suo tempo». 115 Anche in questo senso
non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello Gigante, che «la
traduzione dei Lirici greci ha conquistato un posto ben definito
nella storia degli studi classici ragione della sede in cui fu pubblicata
116 , la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare errori e spropositi
della traduzione («Bella cosa, se Quasi-modo sapesse un po’ meglio il greco!»),
ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo quella di «un poeta, un
modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci modernamente, e riesce così
a conservare ad essi la semplicità antica»: da contemporaneo Perrotta comprese
cioè il ‘novecentismo’ dei Lirici greci , la loro pertinenza (come
Anceschi dirà del «classicismo post-simbolista» di Eliot) a «una zona di
dignità anticamente moderna, di classiche aspirazioni, che è movimento proprio
a gran parte dell’Europa civile tra gli anni 1919-1939» 117 .Sono osservazioni
utili, credo, a contestualizzare e meglio valutare l’attenzione, pur critica,
che Gentili spesso manifestò verso i Lirici greci quasimodei
nonché verso significato e influsso nella cultura italiana del Novecento di
quella modalità di accesso alla poesia greca. Nel saggio di Gentili compreso
nell’annata 1972 de «Il Verri» alle versioni di Quasimo-do dai lirici è
accostato il Pindaro di Leone Traverso, cioè la traduzione
delle odi e di una scelta di frammenti che il grecista e germanista L.
Tra-verso (1910-1968) aveva pubblicato nel 1961 per Sansoni 118 . Va ricordato
che sede originaria di Prospettive critiche nell’interpretazione
della cul-tura greca dell’età dei lirici fu l’imponente numero in due
tomi di «Studi Urbinati» (1971) per intero dedicato a ospitare Studi in onore
di Leone Traverso 119 , con Dedica di Carlo Bo, di cui è
altresì presente il saggio La cultura europea in Firenze negli anni
’30 . Vi si rievoca il clima degli anni di formazione fiorentina di Traverso,
poi professore di Lingua e letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i
giovani poeti e scrittori (Bo, Bigongia-ri, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a
«Il Frontespizio» e a «Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo,
prima di tutto come esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e
organicamente volta perciò alla traduzione 120 : «anni lontanissimi dove la
poesia era una sorta di religio- 116 Si tratta de «Il Bargello.
Foglio d’ordini della Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento»,
periodico cui collaborarono molti giovani intellettuali anche vicini
all’ermetismo. La recensione ai Lirici greci è comunque
segnalata nelle bibliografie di Perrotta in Studi Perrotta 1964,
663 e in Perrotta 1978, 397; sul tema vd. Benedetto 2012, 40 sgg.
e passim . 117 Anceschi 1946, 21; ricordo in proposito il
recente, ricco catalogo Mazzocca 2013. 118 Traverso – Grassi 1961.
119 Gentili 1971. 120 Cfr. Bo 1971 (in origine conferenza
pronunciata a Firenze nel 1967); nel I tomo è l’ampio saggio di Macrí 1971,
dove particolare attenzione è riservata alla rigorosa formazione filologica
classica di Traverso («addetto, nella distribuzione dei nostri compiti
generazionali, alla specula ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per
Perrotta e alla intrinsichezza con Pasquali, alla lunga consuetudine con
Pindaro, letto e tradotto «non con un rifacimento o rimpasto
contemporaneizzante di tipo idealistico pseudostoricistico (poesia e non
poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la critica sposava le stesse passioni e le
stesse ricerche dei poeti» 121 . Già coinvolto in una polemichetta con
Quasimodo ( duce Lavagnini) ancor prima dell’uscita dei
Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα come
giovinezza nel famoso fr. 94 Diehl di Saffo ( Tramontata è la luna ) 122
, Tra-verso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio
1940. Pur notando qualche «arbitrio» e «difetto» nella resa del greco, sin
dall’ incipit egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici
(«perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo»), alla sua modalità e
ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al
giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone,
Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee
al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come
ufficiali quali Pindaro e Bacchilide – egli isola di quella poesia una
zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in tutte
le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione
anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle
reliquie – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario)
123 . Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra
erme-tico di Traverso, Gentili assimila Lirici greci di
Salvatore Quasimodo e Pin-daro di Leone Traverso come «prove
più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema
d’immagini, d’invenzione linguistica, di ricerca di stile». Mentre in Quasimodo
la «vera “fedeltà” di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e
ritmico» con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto
originale-traduzione 124 , l’assai più ricca è morto, ecc.) ma di colpo,
al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione
tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi
inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione
filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una
vivace intervista del novembre 1981 O. Macrí ebbe a ricordare Traverso
all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al
caffè San Marco […] infusi del demone delle letterature straniere», insieme
naturalmente a Carlo Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per
seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura
francese, maestro Luigi Foscolo Benedetto, anche di Luzi» (Tabanelli 1986, 65).
121 Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un
articolo di Carlo Bo, Ma dove va la poesia? , apparso sul «Corriere
della Sera» dell’11 marzo 1987, ora in Bo 1994, 1610. 122 I testi della
disputa, avvenuta su «Corrente di vita giovanile» del 29 febbraio 1940, sono
ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 138-140. 123 Traverso
1940; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti 2012,
143-144. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i
primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana,
indipendente, che ne risulta». 124 E quindi, come da molti è stato
osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare
Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica
sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha
come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca
che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una
sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un
preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il
calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata» 125 . Pur tra loro sotto
molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli
occhi di Gentili accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana
e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una
«fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della
distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i
successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e
di traduttore, la risposta scelta da Gentili fu ri-nunciare a soffermarsi sul
«problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o
intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire ‘fenomenologicamente’,
«investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità» 126 . Si
tratta di pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità
concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle
tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche
poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali situazioni
di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il
lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur rigoroso valore
comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite e di continuo
inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica non astratta e
irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma una poetica
aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una maggiore
portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre dai
125 Gentili 1972, 23-24. Le considerazioni a proposito di Traverso, e
delle tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà
all’originale, torneranno in B. Gentili, Introduzione , a Gentili –
Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 , LXVIII . 126
Gentili richiama in nota «il pregevolissimo saggio» di Mattioli 1965, com-preso
nel numero speciale Classicità e contemporaneità , dove anche si aveva la
fondamentale prolusione urbinate Aspetti del rapporto poeta, committente,
uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di Mattioli si conclude con
alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire dalla convinzione che «la
soluzione univoca (tra-ducibilità assoluta o intraducibilità assoluta che sia)
nega il concreto del vissuto», e che perciò risposta sul piano teorico non si
può dare ma «il problema si risolve soltanto in un contesto prammatico», cioè
sul piano delle molteplici risposte della storia. Alla tradizionale domanda ‘si
può tradurre?’ Mattioli propone di sostituire domande quali ‘come si traduce?’
e ‘che senso ha il tradurre?’, cioè «sostituire alla domanda di tipo metafisico
la domanda di tipo fenomenologico» greci non nei limiti dei vecchi modelli
privilegiati della traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella
prospettiva più ampia di quella idea cui aspira l’et-nografia contemporanea
della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture
linguistiche, sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo […]. Poiché fedeltà
alla poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la
comprensione totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei
suoi registri linguistici e metrici […] ma anche di tutta la realtà
extralinguistica e situazionale dell’enunciato poetico 127 . Senza passare
dettagliatamente in rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi
che in futuro variamente continueranno ad occupa-re Gentili. Così
l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata alla complessa struttura
metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la
preferibilità del verso libero delle grandi odi dannun-ziane 128 , finanche
segnalando le possibilità aperte dal «verso “dinamico” e “atonale” della poesia
dei Novissimi», e in effetti nell’antologia Lirica corale
greca del 1965 lo stesso Gentili aveva tentato «di risolvere il
movi-mento dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia
contem-poranea dei Novissimi» 129 : va detto che un profondo interesse per le
strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e
novecentesca sin dall’inizio caratterizzò i «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica» 130 . La 127 Gentili 1972, 25. Sono affermazioni che
ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio, nell’ Appendice II. La
traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre in
Gentili1984 (2006 4 ), 313-320 (e cfr. anche supra n. 2). 128
Si ricordi la scelta del verso libero per la traduzione delle
Pitiche , con l’os-servazione che «le grandi odi delle
Laudi del D’Annunzio, particolarmente il verso libero della
Laus vitae , scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo
tecnico un modello esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle
forme ritmi-che, tali da riecheggiare […] i molteplici schemi della metrica
pindarica» (Gentili, Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini –
Cingano – Giannini 1998 2 , LXIX - LXX ); e si ricordi altresì la lunga
citazione da Maia , con l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al
principio dell’ Introduzione alla postrema fatica Gentili –
Catenacci – Giannini – Lomiento 2013. 129 Lo rileva Bernardini
1966, 144. In àmbito diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso
Gentili, l’importante e innovativo lavoro Cultura dell’im- provviso.
Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e
classica (Gentili 1980), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione
si esprime vivo interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in
America, di un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il
suo alimento dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi
decenni, non solo dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla
più autorevole filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del
Parry, del Lord e dell’Havelock» (poi in Gentili 1984 [2006 4 ], 29-30).
130 Già nel primo numero si ha l’articolo di Pinchera 1966, 92-127, che
si apre lamentando l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla
storia delle forme metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per
vari decenni in Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel
secondo dopoguerra del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il
contemporaneo «crollo dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più
autorevole nel settore della classicità e più coerente con l’orientamento
crociano è riconosciuta in G. Perrotta, particolarmente per Saffo e
Pindaro (1935) 131 . Circa la più generale posi-zione critica del
maestro, Gentili tiene a mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al
canone dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi
filologiche e storiche, non era in altri termini una critica del gusto»,
giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di sovrastruttura, sul
tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica introdotta in Italia da
Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i fermenti di un approccio
linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura classica: la ricerca
filologica costituiva soltanto il momento preliminare e necessario di
un’indagine il cui fine era l’intelligenza del mondo an-tico nella viva
concretezza della sua cultura 132 . Nel prosieguo del contributo, Gentili
brevemente si sofferma sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di
Dodds e di Vernant allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il
problema cardine della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel
corretto rapporto tra livello sincronico e livello diacronico della ricerca»,
il che è stimolo per accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di
E. L. Bundy, e poi di D. C. Young. Ad essi Gentili rimprovera un’analisi
limitata ai soli aspetti sincronici delle strutture linguistiche e formali,
tale da precludere «la possibilità di comprendere gli aspetti situazionali ed
extralinguistici della performance della lirica pindarica».
Alcuni anni dopo, più ampia- mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova
critica «il fastidio che suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale,
intesa a repe-rire le costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione
dei singoli contesti ed alla impostazione ideologica dei diversi autori» 133 :
è per noi interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica
che ebbe in Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto
vantaggio 131 In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo
di M. Valgimigli (1933), «da noi la prova più rilevante di una critica del
gusto permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana
fra i due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece
favorevole all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di
Serra Intorno al modo di leggere i Greci pubblicati da E.
Raimondi nel numero de «Il Verri» 1965 su Classicità e contemporaneità ;
si consi-deri anche che del 1965, in occasione del cinquantenario della morte,
è il saggio di Carlo Bo La religione di Serra , poi accolto nel
volume La religione di Serra e altre note di lettura , Firenze
1967. 132 Gentili 1972, 30. Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta,
analoghe espressio-ni vent’anni dopo in Gentili 1996, 12. 133 Su questi
temi vd. poi almeno Gentili 1984 (2006 4 ), 156-157dell’approccio del maestro,
«una critica estetica che non è puro estetismo impressionistico ed
intuizionistico, ma una critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità
storica» 134 . L’articolo del 1972 si chiude confer-mandosi come «proposta di
una diversa lettura dei lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni
fra poeta e uditorio il significato originario del loro messaggio». Una
proposta di cui si tiene a sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a
rispondere alle esigenze critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa
di un equivoco oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere
definitiva. Al contrario, consapevole del divenire storico della critica, si
affianca alle precedenti proposte, già esperite, in una modalità di lettura più
coerente con l’orizzonte culturale del nostro tempo» 135 .Assai più dei due
precedenti interventi accolti su «Il Verri», nel 1965 e nel 1970,
Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età
dei lirici è attento al tema della traduzione, e alle ricadute delle
varie correnti critiche del Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai
lirici greci. Al ‘piano prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della
traduzione, di taglio antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente
approfondendo la riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno
“sciamano” che non conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e
di cogliere il momento puntuale in cui significante e significato si
compenetrano» 136 , nella fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il
lettore all’opera e non viceversa» 137 . La presenza di contributi di
Gentili 134 Gentili 1979b; sul conflitto tra gli indirizzi di E. L.
Bundy e della scuola ur-binate di B. Gentili, le considerazioni di Lehnus 1988.
Ampia analisi delle posizioni di Bundy e di Young, con frequenti richiami a
Perrotta e in nome (come noto) della riproposizione di una ‘lettura estetica’
degli epinici, è nel lavoro di Bonelli 1987, con ricca bibliografia. 135
Gentili 1972, 38. Analogamente, e fenomenologicamente, si concludeva il già
citato Mattioli 1965, 128: «Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre)
segui-ranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilir regole o far
previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro», e perciò «a questo punto si
può fermare il discorso, non solo perché si presenta come abbozzo di una futura
ricerca, ma anche perché i discorsi conclusi in questo àmbito di
studi sono palesemente insensati». Si veda già Mattioli 1963 per la proposta di
«una impostazione fenomenologica della ricer-ca», considerata particolarmente
necessaria e opportuna nel campo dell’antichità classica proprio in ragione
dello «scacco che ha ricevuto il tentativo, compiuto in Italia, di trasportare
sic et simpliciter l’estetica crociana nella interpretazione delle letterature
classiche». 136 Gentili, Introduzione , a Gentili – Angeli
Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 , LXIV . 137 Così in
Gentili 2002, dove anche è ricordato il giudizio di Perrotta 1935, 97, per il
quale D’Annunzio fu «non solo il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta
italiano che meglio di tutti ha saputo riecheggiarne l’arte, intendendola
pienamen-te». Più positivo si fa nel citato articolo il giudizio sulla
traduzione pindarica di L. Traversosu «Il Verri» non andrà oltre i primi anni
’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte di Anceschi (maggio 1995) durarono
i rapporti epistolari, come oggi sappiamo grazie alla pubblicazione dei diari
riferiti agli ultimi anni del professore bolognese 139 , che molte volte sino
agli estremi suoi giorni continuò a tornare con il pensiero alla traduzione di
Quasimodo dei Lirici greci e al suo significato storico e
culturale 140 .A quella stessa seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee
e di propositi appartiene il numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura
Classica» (1966), come espressione del Centro di studi sulla lirica
gre-ca e sulla metrica greca e latina diretto da Bruno Gentili e
connesso al CNR. Un effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili
comportereb-be una sistematica rilettura non solo dei contributi e degli
interventi del direttore dei Quaderni ma più in generale delle
principali linee di ricerca espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare
ed evolvere nel corso di cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi
di Gentili su Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a
distanza di oltre quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici
dei Qua-derni di Bruno Gentili. Il primo è La veneranda
Saffo , del 1966 141 , che 138 Sino a Gentili – Cerri 1973:
sull’importanza dell’articolo per successivi lavo-ri di Gentili sulla
storiografia antica vd. Angeli Bernardini 2013, 16. 139 Oltre a un cenno
in un’annotazione del 3-5 settembre 1989 («Eccellente scritto di Bruno Gentili
sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora una volta acu-te
considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi umanistici»,
cfr. Diari Anceschi 2006, 109), si veda soprattutto
quella del 2 gennaio 1993 («Lettera molto lusinghiera di Bruno Gentili. Conosco
l’ironia, ed è tale da non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello
che pensa», cfr. Diari Anceschi/2 2006, 9). Nell’Ar-chivio
Anceschi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate 26
lettere di Bruno Gentili: cfr. Campagna 1998, 513; si tratta della presenza più
am-pia per un filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti 26 lettere),
del quale sulla rivista anceschiana vd. Plauto e il “metateatro”
antico (Barchiesi 1969), con la premessa: «sulla tentazione erudita […]
prevalse l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello
che è più che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula
stessa del “Verri”, “classicità e contemporaneità”». 140 Così l’11 marzo
1995, a meno di due mesi dalla morte: «Con Quasimodo ho avuto una
frequentazione amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai
problemi con vivi impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati
tanti anni; per altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la
forza della mia vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale
[…]. La traduzione dei Lirici Greci fu una esperienza
radicale alle origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come
un problema fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta,
e mi pare con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui.
Penso che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione
complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda,
costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» ( Diari
Anceschi/2 2006, 92). 141 Gentili 1966 (confluito in forma
abbreviata nel cap. XII di Gentili 1984 [2006 4prende spunto dal famoso fr. 384
V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è
supposto) «l’ incipit di un car-me dedicato all’illustre concittadina»
142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver espresso il proprio
rifiuto verso «la soluzione dei Wel- cker e dei Wilamowitz» a difesa della
‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero intendere e onorare
Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice (63 D.): «Saffo pura, dal
dolce sorriso, dal crine di viola». L’omaggio devoto dell’insolente cavaliere
di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né malignità aduggiarono mai la
vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare: non si può pretendere di
giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una donna di Lesbo con i
pregiudizi di un Ateniese […]. Ognuno vede quanto sarebbe ingiusto rimproverare
alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno rimprovererà al suo
compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma più importa questo:
Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una poetessa per noi;
soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in essa noi possiamo
trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo accostarci con animo
puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia 143 . Al passo, per molti
aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di Saffo, Gentili non
fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo articolo di Walter
Ferrari, l’allievo prediletto di Pasquali «inviato come as-sistente di Perrotta
a Roma ma morto assai giovane nel 1940» 144 . Se merito dell’intervento di
Ferrari era stato sottrarre l’interpretazione dell’epiteto ἄγνα all’àmbito
della «castità profana» 145 , caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla
purezza degli amori di Saffo» e a tutte le «moderne idealizzazioni della sua
poesia» 146 , dimostrandone invece il senso arcaico «limitato esclu-sivamente
alla sfera del sacro», d’altra parte – rileva Gentili – l’indagine di Ferrari
sfociava in una idealizzazione di Saffo sostanzialmente coerente «con
l’orientamento critico di stretta osservanza crociana prevalente in quei
tempi», rappresentato al meglio dal Saffo e Pindaro di Perrotta,
«scritto appena cinque anni prima» 147 . Nel varare la fortunata avventura dei
«Qua-derni Urbinati di Cultura Classica», dalla ‘purezza’ di Saffo Gentili
decide 142 Degani – Burzacchini 2005, 241. 143 Perrotta 1935,
31. 144 Canfora 2005, 216. 145 L’articolo di Ferrari era ricordato
a proposito del «significato di ἀγνός» anche nella I edizione di
Polinnia , 202 ad loc . 146 «Questo verso famoso, che sarà da
attribuire ad Alceo, è innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni
(soprattutto da noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi
ci hanno somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido,
dall’ondeggiante | crin di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del
Valgimigli»: così Gentili l’anno prima, in occasione del rifacimento della
sezione su Alceo per l’edizione di Polinnia del 1965, 224
(anche in Gentili – Catenacci 2007a, 196). 147 Gentili 1966, 37-38di
prendere le mosse: da quello stesso frammento, si può aggiungere, scelto ad
introdurre la sezione su Saffo nei Lirici greci di Quasimodo
(«o coro-nata di viole, divina / dolce ridente Saffo»). In conformità ai
principî deli-neati nel saggio dell’anno precedente Aspetti del
rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella lirica corale greca , dove si
poneva in primo piano la necessità per il moderno lettore di comprendere la
funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso dell’apostrofe è
rintracciato attenendosi «al senso reale del contesto alcaico», così leggendo
nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità sacrale della poetessa
quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla funzione
religioso-sociale nell’ambito del tiaso» 148 . L’inveterato tema degli amori di
Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti, scopi del
tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante
l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento
dell’esistenza nella dinamica del tiaso di «pre-cise “unioni” per così dire ufficiali
fra le ragazze» tali da non escludere «probabilmente un rapporto di tipo
matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di Simone de
Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni recenti «di
molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di culto
sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle
comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues […] se marient
entre elles et adoptent des enfants». Gentili offre qui un geniale esempio di
«interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo»,
come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn del settembre
1969: al di là di eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque
verosimile, conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega
antico e contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro,
quando si pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi
oc-cidentali quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati nella
rifles-sione giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale. Esempio
forse tra i più chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della loro
interpretazio- ne, abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane, basi
della (post)moderna sexual revolution 149 , con tutte le forzature e gli
arbitrî propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture.
Dell’attenzione di Gen- 148 Gentili 1966, 46 sgg. Importanti in
quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di
Alcmane, a partire soprattutto da Gentili 1976 (poi rifuso nel cap. VI
Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi in
Gentili 1984 [2006 4 ]); sul più ampio tema delle iniziazioni femminili l’assai
più recente volume Gentili – Perusino 2002. 149 In luogo di rifarmi alla
sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso ideologicamente
determinata, ricordo il capitolo Klassieken en seksuele
vrijheid nel bel libro di Veenman 2009, 273-291: con particolare
riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti
epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e implicazioni,
è infine testimonianza Saffo ‘politicamente corretta’ , l’articolo
del 2007 (in collaborazione con C. Catenacci) dove la ribadita posizione
critica che ammette la presenza nei carmi saffici di elementi avvaloranti la
pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e paideutico 150 è volta a
contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai gender studies » di
recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti, e intesi a sostenere
che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue coetanee in una forma di
libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun ruolo né paideutico né
religioso all’interno del gruppo». Un corag-gioso intervento, di grande valore
metodologico e rilevanza storiografica, per il quale una tale Saffo politically
correct va respinta, al pari della Saffo otto-novecentesca votata
alla purezza, giacché «rappresentazione astorica e forgiata su istanze
manifestamente attualizzanti» 151 .Nel quadro del crescente interesse nei
«Quaderni Urbinati di Cultura Classica» dell’ultimo ventennio per questioni di
storia e metodologia degli studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo
di C. Miralles, dal titolo The use of classics today , aperto
dall’indubbia constatazione «the huma-nities are losing ground and classical
studies are in retreat» 152 . Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme
differenza di tempi e condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno
a dare un senso di attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da Gentili più
volte ricordato nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente
rinnovata edizione di Polinnia è stato giustamente e
autorevolmente rilevato che «in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola
non hanno dimenticato né che la poesia greca si può avvicinare solo attraverso
la storia e la filologia, né che essa ha comunque uno straordinario valore
estetico. Gentili non ha rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è nato
un albero capace di produrre fiori non prevedibili all’inizio – se Perrotta
sarebbe contento di lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti motivi, si
può azzardare una risposta positiva. Giovanni Benedetto si devono determinanti
apporti nell’elaborazione di teoria e prassi della moderna sessualità
‘liberata’, Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due secoli «i
classici hanno aiutato a capire e denominare l’omosessualità» («de klassieken
hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen»). 150 Gentili –
Catenacci 2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi
limito a rinviare alle incisive osservazioni di Most 1996. 151 Va detto
che in generale la critica più recente sembra avvertire una quantità crescente
di aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo ristretto e
omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare
che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e
spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua poesia, nel
caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni
indebite» (Michelazzo 2007). 152 Miralles 2009, in partic. 23-24.
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Zapperi, Freud e Mussolini. La psicoanalisi in Italia durante il
regime fascista , Milano 2013. Grice: “I know Gentili’s type – once in love
with Greek, you cannot be a honest Latinist. So he found that everything Roman
had to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this of course
irrirtates and rightly so Latinists – there are Roman ways which are not
Hellenistic ways. Geymonat has analysed this in social-class terms in his
history: Athens remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore
famiglie romane’ – and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but
Cato won: Latin remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of
academia for the poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate
enough to have Hardie – but imagine you are born near Urbino and decide to
study classics at Urbino and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin
literature” and all he teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are
not poor and that you don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili.
Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758048183/in/dateposted-public/
Grice e
Gerratana – il contratto sociale – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi
Speranza (Scicli). Filosofo. Grice: “I like Gerratana; for one, he
translated Rousseau, and I have been called a contractualist, if not like Grice
[G. R. Grice].” Grice: “Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice:
“I like Gerratana; they – Italian philosophers, generally -- philosophise on
the working people – operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla
resistenza a Roma, nelle file dei GAP, legandosi a Salinari e Pintor,
conosciuto al corso allievi ufficiali di Salerno, e ricordato in “Sangue
d'Europa.” Prende parte alla ricostruzione del PCI romano e si laurea a Roma.
Insegna a Salerno e Siena. Studioso sobrio e rigoroso del marxismo, cura
Labriola e Gramsci. La sua edizione, con un'accurata ricostruzione cronologica,
archiviò definitivamente l'edizione tematica. Gerratana mette in luce lo stile
"frammentario" e "antidogmatico" di Gramsci. Altre opera:
“L'eresia di Rousseau, Roma, Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori
Riuniti); “Labriola di fronte al socialismo giuridico, Milano, Giuffrè
editore); “Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal
carcere. Treccani L'Enciclopedia italiana". Biografia di Gerratana nel
sito dell'ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. Si è svolto a
Roma il 18 e 19 novembre nella Facoltà di Scienze della Formazione
dell'Università Roma Tre, un convegno di studi in memoria di un importante
esponente del pensiero politico italiano, Valentino Gerratana, a dieci anni
dalla sua morte. Essenzialmente noto per aver curato nel 1975 l'edizione
critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, Gerratana fu in realtà uno
studioso politicamente appassionato e uomo politico di estrema cultura. Merito
di questo convegno è stato l'aver messo in luce tanto l'impegno politico e
morale di un uomo quanto l'eclettismo, la vivacità intellettuale e la serietà
di un pensatore troppo poco conosciuto in fin dei conti, la molteplicità
variopinta dei suoi contributi scientifici e la continuità e coerenza del suo
impegno, politico ed intellettuale. Il convegno è stato organizzato dalla
International Gramsci Society-Italia – di cui Gerratana fu co-fondatore nel
1996, assieme ad Aldo Tortorella, Giorgio Baratta e Guido Liguori. Le giornate,
divise per sessioni tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua
complessità: partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza,
giornalista negli anni giovanili, curatore e studioso di molti classici della
storia della letteratura, della filosofia e del marxismo (dalla cura
dell'edizione critica degli Scritti politici di Labriola a quella degli scritti
estetici di Marx ed Engels, ai contributi su Rousseau, Machiavelli, Lukács,
Lenin), ma noto in tutto il mondo anzitutto come curatore e studioso del
pensiero di Gramsci (dall'edizione critica dei Quaderni, all'approfondimento
dell'indagine sulle categorie sociali e politiche della riflessione gramsciana
e la cura – assieme al suo più stretto collaboratore, Santucci – del volume
sugli scritti gramsciani dell'Ordine nuovo). Non è facile informare
esaurientemente sul convegno, credo proprio per la personalità e la grande
vivacità intellettuale di Gerratana, emersa nella sua complessità lungo la due
giorni di lavori. L’evento ha messo alla prova intellettuali e
ricercatori, ha dialettizzato l'ascolto reciproco di relatori e pubblico, fra i
quali si è avuto un confronto sereno ma anche serrato, indubbiamente
appassionato. Ne è risultato – e ne va il merito agli organizzatori – un evento
generoso per ricchezza e poliedricità delle tematiche affrontate, per l'eterogeneità
degli accenti che si sono avvicendati (secondo l'esperienza politico-culturale
di relatori e pubblico), quanto infine per la vastità dei territori culturali
esplorati (dalla storia – italiana e internazionale, alla filosofia, alla
politica). Su tutta l'iniziativa s'è aggirato lo spettro benevolo di Antonio
Gramsci, della sua vicenda umana come anche di quel lascito inesauribile che è
la sua produzione culturale. E di Gramsci Gerratana non è stato solo il
curatore e il promulgatore, ma anche un indimenticabile interprete. Gli anni e
la formazione giovanile: partigiano antifascista ed intellettuale engagé Questa
introduzione credo consenta di comprendere forse più chiaramente il contesto e
lo spirito in cui il convegno di questi giorni ha trovato spazio. Anche
la presenza e il saluto delle istituzioni che con la IgsItalia hanno permesso
il convegno – contrariamente al solito – sono stati sentiti ed interni al tema
in oggetto dell’incontro. La figura di Gerratana è stata difatti ricordata con
stima sincera e rispetto da Cecilia D'Elia (Assessora alla cultura della
Provincia di Roma) e Gaetano Domenici (Preside della Facoltà di Scienze della
Formazione dell'Università di Roma Tre). Cecilia D'Elia ha sottolineato la
rilevanza di questo convegno su Gerratana – figura complessa, in cui ricerca
politica e ricerca della libertà si intrecciano –, studioso che sempre volle
tener connesso l'impegno pratico e l'impegno teorico, combattente antifascista
negli anni della Resistenza, uomo che diede un contributo decisivo alla
costruzione della democrazia in Italia. Sulla stessa linea d'onda Gaetano
Domenici ha salutato con piacere l'evento in ricordo di Gerratana, anzitutto
perché questa facoltà contribuisce a "formare i formatori": ed è
stato forse fra i più grandi meriti di Gerratana l'aver decisamente contribuito
a divulgare la genesi del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci, a partire
dalla cura dell'edizione critica dei Quaderni di Gramsci. Non pochi interventi
hanno messo in luce i meriti di Gerratana riguardo la divulgazione del pensiero
pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare ricordiamo qui l'intervento di
Donatello Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre, che ha messo in luce
il valore generale degli studi di pedagogia della tradizione marxista che
delineano quella fondamentale concezione della formazione umana come
"sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale impegno risulta ancora più
fondamentale in epoca di globalizzazione capitalista, sottolinea Santarone, in
cui il lavoro dell'uomo e la sua formazione paiono ormai finalizzati unicamente
ai processi di valorizzazione di capitale, i centri di formazione ed istruzione
di massa vengono de-finanziati mentre nel contempo si sostengono economicamente
scuole e "poli di eccellenza" privati, volti a creare le future élite
e classi dirigenti. L'impegno di Gerratana come intellettuale engagé è stato
sottolineato in molti interventi nel corso del convegno, fra cui quello di
Guido Liguori che – in apertura dei lavori – si è soffermato sulle ragioni
della scelta dell'espressione gramsciana filosofo democratico come carattere
fondamentale dell'animo e dell'impegno di Gerratana. Tale formulazione sta ad
indicare un pensatore che non si chiude nella propria torre d'avorio, ma
contribuisce attivamente alla creazione di un senso comune di massa, un uomo
«convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma
è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale» (Q 10, §
44, p. 1332). É questa essenzialmente l'immagine che Liguori ci ha voluto
restituire di Gerratana: un pensatore che non si accontentò del «pensiero
proprio, "soggettivamente" libero, cioè astrattamente libero», ma che
operò per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in cui solo si
realizza la libertà di pensiero», secondo un «rapporto maestro-scolaro,
filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari
da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria attività
intellettuale come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il cui
impegno politico e la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza
della migliore tradizione del comunismo e del marxismo italiani. Ha
fatto seguito l'intervento di Paola Demurtas, che ha illustrato i criteri e i
temi sulla base dei quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di
Gerratana assieme alla collega Lorenza Salvatori (di cui è stato letto un
contributo), e che ha sottolineato come grazie al riordino delle carte e dei
documenti sia ora possibile svolgere ricerche e approfondimenti sull’attività
di Gerratana. I documenti archiviati, difatti, coprono un arco di 61 anni, sono
circa 300 fascicoli, che si è deciso di suddividere in 8 partizioni tematiche
fra studi e attività, e fra queste risultano particolarmente rilevanti le
quantità di fascicoli dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una
grande meticolosità nell'elaborazione. Ha concluso la prima parte di
introduzione ai lavori del convegno la lettura della lettera di saluto del
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in cui è stato espresso «il più
vivo apprezzamento per la scelta di ricordare un insigne studioso, cui va il
merito di aver contribuito, con l'edizione critica dei Quaderni del Carcere di
A. Gramsci. È stata poi la volta del primo relatore, Alfonso Musci (giovane
studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi storici) che ha ricostruito gli
anni giovanili di Gerratana, in particolare quelli degli studi universitari e
della polemica con Benedetto Croce, sottolineando una tendenza di Gerratana a
considerare gli eventi storici attenendosi ai fatti, alle formule logiche e
alla loro riproducibilità, ma senza prescindere del tutto dalla
"situazione psicologica" in cui questi si svolgono e che spesso si
maschera in concetti. Ma Gerratana non fu solo un intellettuale impegnato. Fu
un partigiano. Questo hanno ricordato le successive relazioni della mattina
proseguite con i due contributi "di memoria storica" di Alfredo
Reichlin e Giuseppe Prestipino–, significativi per la nota autobiografica in essi
contenuta, che ha permesso una comprensione più articolata del senso
dell'impegno politico di Gerratana negli anni della lotta di liberazione
nazionale dal regime fascista. Medaglia d'Argento per l'impegno negli anni
della lotta di Liberazione dell'Italia dal regime fascista, la narrazione di
quei mesi è stata emozionante nell'intervento di Alfredo Reichlin. Che ha
ricordato gli anni giovanili della "passione politica" (tema che è
stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei lavori del convegno) e le
vicende dell'inverno '44 in cui, nella Roma occupata dai tedeschi, Reichlin
incontrò Gerratana; con Pintor formarono una cellula, e Gerratana divenne loro
dirigente, nome di battaglia "Santo". Furono quelli gli anni in cui
nacque un sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella
dell'impegno. Come allora – ha concluso Reichlin – il popolo italiano,
nonostante appaia fiacco e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli
intellettuali, e questi dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di
combattimento. Gerratana fu dunque un partigiano antifascista con un deciso
interesse per la storia e la filosofia politica. Ma anche un giornalista. La
tendenza all'impegno culturale trovò uno sbocco concreto in questa attività –
su cui si è soffermata la relazione di Giuseppe Prestipino –, quando cominciò a
scrivere su "La voce della Sicilia" fra il '45-'48. Prestipino ha
raccontato di un "comunista", un uomo di «innata modestia», che non
firmava i suoi articoli, direttore di giornale cordiale ma austero, «un
intellettuale pensoso». Gerratana: uomo di cultura, filosofo democratico,
marxista Non solo di politica, ma anche di letteratura e di filosofia si occupò
Valentino Gerratana. La sua natura di intellettuale a
trecentosessanta gradi è stata ben messa in luce da tre relazioni in
particolare, quelle di Voza, Savorelli e Burgio. Pasquale Voza ha ricordato
come a metà degli anni '50 si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema
della "lotta per il realismo", che nel dopoguerra espresse una
"tendenza" la quale si affermò in molta parte dell'intellettualità.
Nacquero le poetiche neorealistiche della "cronaca" e del
"documento" come ricerca di un massimo di "oggettività" di
contro all'influenza di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla
crisi del neorealismo al realismo si colloca il contributo di Gerratana, che
riteneva quest'ultimo un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta
all'intervento polemico di Croce De Sanctis-Gramsci? (“Lo Spettatore Italiano”,
1952, n. 5), Gerratana stende per "Società" (1952, n. 3) De
Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica e sviluppa il
ragionamento nell'Introduzione all'estetica desanctisiana desanctisiana
(“Società”, 1953, nn. 1-2). Egli ha come riferimento la positiva valutazione di
Gramsci del realismo desanctisiano, fondato sull’analisi del contenuto
artistico in connessione alla lotta culturale. Difatti Gramsci coglie nel De
Sanctis un modello di critica letteraria che lo rende emblema della concezione
di un'estetica realista e anticipatore di una concezione marxista
dell'estetica. Alla base della sua concezione vi sarebbe la ricerca di
unitarietà fra La Scienza e la Vita (titolo di un famoso saggio desanctisiano
del 1872, più volte citato da Gramsci nei Quaderni), cosicché De Sanctis si
discosta dalla concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso la
tendenza estetica di De Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente
materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente
estetica» (Q 4, § 5, p. 426). Per tali ragioni De Sanctis resta, per Gramsci,
un modello di come nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti,
possano confluire convenientemente giudizio estetico e valutazione di una
tendenza artistico-culturale, cosicché Gerratana condivide l'appello gramsciano
del «ritorno al De Sanctis» (Q 23, § 1, p. 2185), intendendo con ciò la
necessità di assumere verso il rapporto arte-vita un atteggiamento di stretta
connessione, così come lo intendeva De Sanctis ai suoi tempi. Nella seconda
parte del suo intervento Voza ha ricordato come sempre nel '53 Gerratana abbia
steso il saggio Lukács e i problemi del realismo (“Società, 1953, n. 4). Si
ricordi che con la pubblicazione di Il marxismo e la critica letteraria di
Lukács nel '50 giungeva anche in Italia quella poetica dell'estetica marxista
che si poneva come obiettivo la costituzione di una nuova letteratura in una
società socialista – dunque la necessità di definirne la natura e il ruolo che
in essa avrebbero dovuto ricoprire gli intellettuali. Gerratana mise in luce
due diverse idee di realismo: come metodo (di impronta lukácsiana) e come
tendenza (di memoria gramsciana), specificamente come tendenza culturale che
esprime un atteggiamento programmaticamente orientato verso la realtà piuttosto
che verso la sua evasione. La lotta di Gerratana per il realismo, conclude
Voza, alla luce del carattere complesso che intendeva conferirgli, alludeva in
certo modo alla "lotta per l'egemonia" così come delineata da Gramsci
e alle nozioni di "progresso intellettuale di massa" e "riforma
intellettuale e morale". Se l'intervento di Voza ha posto in luce la
capacità di Gerratana di dar conto anche di questioni legate alla scienza
estetica, l'intervento di Alberto Burgio ha affrontato la lettura critica da
parte di Gerratana del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le tappe di sviluppo
ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha illustrato come
Gerratana e Rousseau siano stati legati da un "lungo rapporto di
fedeltà", particolarmente significativo per il fatto che Gerratana scelse
di leggere una parte degli scritti rousseauiani – quelli politici – e perché
non mancò mai d'interrogarsi sull'attualità di questi testi, pur leggendoli
entro una prospettiva storica. Questa è la ragione per cui si tratta di un
Rousseau sempre "diverso" a seconda delle diverse fasi della ricerca
di Gerratana, che possono delinearsi anzitutto secondo un ordine cronologico:
gli anni '40, '60 e '90. È degli anni '40 la Prefazione di Gerratana al
Contratto sociale, in cui egli denota il maggior valore di questo testo
rispetto ai Discorsi – «reazione sentimentale al compromesso della cultura
illuministica con la realtà sociale iniqua e corrotta del tempo». Il moralismo
di Rousseau appare tuttavia a Gerratana storicamente attuale in forza dei
valori sui quali si impernia – un valore sopra ogni altro, la libertà. D’altra
parte, sottolinea Gerratana, «non la libertà estenuata dal completo
esautoramento da cui sembrerebbe condannata da una lunga e ormai logora
tradizione liberale, bensì una libertà resa concreta dalla stretta connessione
con l'uguaglianza»; piuttosto una libertà la cui essenza costitutiva è
precisata dal riferimento all'idea di eguaglianza e di legge, ciò che consente
a Gerratana di riformulare il tema della libertà in chiave collettiva, sociale,
vincolandolo al criterio della giustizia e della autonomia politica della
società. Negli anni '60 – caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra
il PCI e Bobbio ('61-'62) – Gerratana prende parte alla discussione sul tema
della transizione dalla democrazia al socialismo (rispetto al quale Rousseau
veniva chiamato in causa da Della Volpe come ispiratore dello stato democratico
e socialista). Egli interviene con una prosa misurata e sobria: Rousseau è il
tramite teorico-pratico dell'evoluzione della democrazia borghese in senso
socialista; quello di Rousseau è dunque un programma di «massimizzazione della
democrazia», non di "anticipazione" del socialismo. Il discorso di
Gerratana muta decisamente nella seconda parte degli anni '60, quando stende
l'Introduzione alla traduzione del Discorso sull'ineguaglianza (Editori
Riuniti, 1968), sullo sfondo della quale pare di intravedere le lotte sociali
che sfoceranno nel '68 studentesco ed operaio. Non si tratta più del tema della
transizione, nota Burgio, ma della trasformazione sociale nel suo complesso e
non è più il Contratto al centro della riflessione di Gerratana, ma il secondo
Discorso. Infine, nel '90 Gerratana stende un saggio con al centro nuovamente
l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in “Studi politici in
onore di Luigi Firpo”, Angeli 1990): Rousseau è ancora il padre della
democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes, teorico
dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile mutamento di
prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di Gerratana, facendo perno sul
testo rousseauiano: se gli scritti degli anni '40, '62 e '90 privilegiano il
Contrat (classico del costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota
Burgio – in chiave fondamentalmente montesquieuiana), il contributo del '68
trova il suo oggetto nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di
Gerratana del versante distruttivo del progresso, della civilizzazione e della
cieca tendenza degli uomini a far valere le proprie istanze
particolaristiche. Infine ricordiamo il contributo di Alessandro
Savorelli sul “Labriola di Gerratana”, che si è soffermato sull’intento di
Gerratana di sottrarre il pensiero di Labriola dalla lettura che ne faceva la
tradizione crociana e liberale. Negli anni '60 Gerratana riconsidera Labriola
alla luce della polemica con lo spontaneismo dei movimenti e con la
contestazione del marxismo ‘storicista’, mentre negli anni dell'arretramento
del movimento operaio, mentre si profilava la crisi del PCI – Gerratana si
preoccupa per le degenerazioni della politica («sistema di aggregazioni
corporative di interessi locali», per l’emergere in Italia della «disinvoltura
pragmatica» di spregiudicati «mestieranti», «avventurieri» e «giocolieri»),
destinate a spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. Savorelli
sottolinea come le attualizzazioni cui Gerratana volse il pensiero di Labriola
non furono una forzatura; al contrario il richiamo a Labriola, al critico
sferzante della società italiana e delle sue classi dirigenti, era
sinistramente profetico dell’accelerazione impressa in quel decennio ai
fenomeni degenerativi di lungo periodo. Infine nell’ultimo Labriola Gerratana
scorse l’intuizione di problemi (imperialismo, globalizzazione, regresso della
democrazia, «crisi della cultura popolare», ritorno del misticismo), che
sarebbero ancora i nostri (V. Gerratana, Antonio Labriola e la politica, “Studi
storici”, 1985, n. 3, p. 578). Vittorio Diniha concluso la serie di testimonianze
sulla vita e l'impegno culturale di Gerratana raccontando della comune
esperienza negli anni dell'insegnamento universitario a Salerno nel 1971. Dini
ha letto una pagina dedicata da Roberto Racinaro a Gerratana nella quale
quest’ultimo è descritto come uomo poco diplomatico, amante di una verità da
pronunciare senza mediazioni, uomo poco tenero anche con i cari, amante della
filosofia illuminista, in particolare del Kant di Cassirer; e la sua stessa
vita accademica si caratterizzava per la puntualità "kantiana", il
forte senso del dovere e il rigorismo morale, quasi draconiano, che fu messo in
luce anche durante gli anni del ’68 all’Università di Salerno. D’altra parte il
rigorismo morale di Gerratana, secondo Dini, sarebbe stato trasferito in modo
eccessivamente rigido contro quella società che si stava rivoltando in quegli
anni di sommovimenti sociali e popolari, dacché ne risultava un rigorismo
spesso astratto. Dini ha inoltre ricordato che Gerratana riprese l’attività
universitaria a Salerno sotto sollecitazione di Lucio Colletti, che ne promosse
l’ingresso, ritenendo questo rapporto GerratanaColletti un esempio del minimo
“rigorismo ideologico” di Gerratana, della sua concezione “aperta” del marxismo
– evidente anche nella ricostruzione non sistematica dei Quaderni.
Il quadro non sarebbe completo se non si accennasse a un altro tema
(assieme all'indagine su Gramsci) che ha attraversato l'evento: l'impegno di
Gerratana come intellettuale marxista. Questo aspetto è stato messo in luce essenzialmente
da due relazioni, quella di Fabio Frosini e quella di Michele Filippini.
Quest'ultimo ha discusso due aspetti peculiari della cultura filosofica di
Gerratana, l'esser insieme democratico e marxista, e si è soffermato
soprattutto su due esempi emblematici di ciò, un dialogo fra Gerratana e
Colletti del 1958-59 ed un lungo articolo di Gerratana del 1971 sul saggio di
Althusser sugli Apparati ideologici di Stato. Ma è stato
soprattutto Fabio Frosini a ricostruire le linee del marxismo di Gerratana, a
partire dal volume del 1972, Ricerche di storia del marxismo. Il testo, che è
in realtà una raccolta di saggi già pubblicati altrove, ha una sua
sistematicità. Nella Prefazione al volume Gerratana sottolinea che il
principale denominatore comune degli otto saggi è il rapporto fra marxismo e
movimento operaio, fino ad affermare che «marxismo e storia del marxismo fanno
tutt’uno» (Ricerche, p. VII). La loro unitarietà sarebbe dunque nell'idea
stessa di storia del marxismo. Il marxismo di Gerratana pare a Frosini ben
sintetizzato da un passo della Prefazione: «Nei confronti della pratica sociale
l’analisi scientifica si distingue dalla raffigurazione ideologica perché non è
solo, come questa, funzionale alla prassi, ma al tempo stesso è funzionale alla
comprensione di questa prassi» (p. X), che mostra l'imprescindibile reciprocità
di prassi e teoria scientifica atta comprendere la prassi. In conclusione,
secondo Frosini il marxismo di Gerratana che emerge dalle Ricerche è confinato
nel piano di una generalizzazione sempre provvisoria e da riprendere ogni volta
in condizioni solo parzialmente ripetibili; e questa sarebbe l’unica condizione
per rispettare l’apertura costitutiva di una verità che si definisce nella
pratica, a contatto con la politica di massa. Gerratana, politico
(e) gramsciano La terza sessione del convegno si è incentrata
essenzialmente sul rapporto fra Gerratana e l'impegno politico per un verso, la
cura delle opere e lo studio del pensiero di Antonio Gramsci dall'altro.
Presieduta da Giuseppe Vacca, la mattinata si è aperta con l'intervento di
Albertina Vittoria sull'esperienza di Gerratana alla Fondazione Gramsci – con
cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua fondazione e che
abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente da dissidi
teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di Gerratana l'impegno di studioso
e insieme quello di "organizzatore della cultura", come anche
l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare l'attività di
Gerratana all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello editoriale come
anche quello nella Commissione culturale del PCI. Già dal '44 egli era
considerato un militante anche sul piano culturale e subito dopo la
Liberazione, Gerratana collaborò a "L'Unità", a "Rinascita",
fece parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. Nel '47 fu, con Platone e
Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile della Commissione
Propaganda del PCI; nel '49 fu responsabile delle “Edizioni Rinascita” e dopo
la fusione fra queste e gli “Editori Riuniti” cominciò la sua collaborazione
con la "Fondazione Gramsci" (fondata a Roma nel 1950) come studioso
di filosofia. Sono questi anche gli anni del rapporto con Colletti e Cerroni.
Nel '54 l'Istituto Gramsci diviene “Fondazione”, nel '56 – anno della
"svolta" del XX Congresso del PCUS, degli eventi di Ungheria e del
«Manifesto dei 101» – Gerratana resta in accordo con le posizioni di Alicata e
Togliatti. Nel '58 si organizza il primo convegno di studi gramsciani, evento
che dà il via all'opera di divulgazione del pensiero di Gramsci, alla cui base
era la necessità di riarticolare teoricamente il legame fra movimento operaio e
democrazia. Gli anni '60 sono per Gerratana gli anni dell'impegno per
l'Edizione critica dei Quaderni del carcere (di cui cominciò ad occuparsi sin
dal '58), impegno che aveva a monte l'intento di offrire un contributo alla
garanzia dell'indagine critico-filologica. Gerratana divenne poi direttore del
"Centro studi gramsciani" dell’Istituto Gramsci, avente come obiettivo
la cura degli scritti di Gramsci nel loro insieme e dal '77 l'attività
"gramsciana" ebbe soprattutto come fine un riordino in quindici
volumi dell’opera del comunista sardo. Sono degli anni '80-'90 i dissapori con
la nuova direzione dell'Istituto, quella di Vacca (la diatriba che si incentrò
soprattutto su una diversa datazione dei Quaderni sul piano metodologico, ma
Vittoria rileva anche come il dissenso fosse in generale culturale e politico).
Nel '93 la crisi giunge all'apice: Gerratana vuole dimettersi, dimissioni
successivamente ritirate, sebbene da allora in poi continui a lamentare il
fatto che vi fosse un tacito dissenso sul suo lavoro. Furono questi gli eventi
che infine condussero Gerratana all’abbandono dell'Istituto Gramsci.
É pur vero che Gerratana sarà essenzialmente ricordato per esser stato
curatore, interprete e divulgatore del pensiero di Gramsci, con l'edizione
critica dei Quaderni del 1975, ciò che l’ha reso noto in tutto il mondo. Da
questo evento, difatti, si è avviato a livello internazionale un
approfondimento dei testi e della riflessione di Gramsci, con l'edizione fra il
1992 e il 2007 negli Stati Uniti dei Prison Notebooks (curati da Joseph A.
Buttigieg, intervenuto su questo tema) e l'avvio in America Latina degli studi
su Gramsci come scienziato politico, tema su cui è intervenuto Carlos N.
Coutinho. I due contributi hanno mostrato ciò che in apertura di questa
relazione si è tentato di individuare come spirito del convegno: poliedricità
degli accenti pur su tematiche affini, partecipazione rispetto al tema
affrontato (giacché il pensiero di Gramsci è indagato come cosa viva), esigenza
di dialettizzare la riflessione di Gerratana con gli eventi politico-culturali
che vedono oggi coinvolti i paesi di provenienza dei relatori. Cosicché se per
Buttigiegl'edizione critica si è rivelata uno stimolo per dar vita ad una
ricerca che appagasse l'esigenza di riscoprire il pensiero di Gramsci come
cultura "aperta" e dei riferimenti validi per il pensiero
democraticoprogressista; per Coutinho, grazie all'edizione del '75, il pensiero
di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per indagini di scienza politica alla
luce della contemporaneità – dal marxismo alla "filosofia della
prassi", al rapporto di questi con i processi di trasformazione sociale.
In particolare Coutinho – docente di teoria politica all’Università Federale di
Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore dell'edizione del '75 dei
Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce come Gramsci nel
suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista della totalità.
Negli scritti di Gerratana che Coutinho prende in esame emerge la trattazione
prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione ed egemonia.
Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di egemonia consente a
Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di rivoluzione» (V.
Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”, 1997, p. 100). A questi due concetti
gramsciani principali se ne dialettizza un terzo (che in certo modo li tiene
insieme entrambi), quello di stato allargato, che – secondo Gerratana – viene
adoperato da Gramsci per «allargare il ruolo politico delle masse», per
«concepire un processo di estensione delle democrazie, in connessione con il
concetto di egemonia» (V. Gerratana, Stato, partito, 1977, p. 48). Come nel
pensiero di Marx e di Lenin, anche in quello di Gramsci vi è un nesso
filosofico-politico che tiene assieme egemonia e Stato da un lato, la
rivoluzione dall'altro. Secondo Gerratana Gramsci modificò la propria
concezione della rivoluzione nel corso dell'evoluzione del suo pensiero: se
negli anni giovanili questa venne intesa come volontarismo soggettivista, già
negli anni de L’Ordine Nuovo Gramsci avrebbe dato vita a una vera e propria «teoria
organica della rivoluzione» (Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”, cit., p.
88), in particolare a seguito dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo
secondo momento Gramsci avrebbe tenuto conto anche del peso delle condizioni
oggettive in cui opera la volontà. In generale secondo Gerratana sia Gramsci
che Lenin concepirono l'egemonia come superamento della dimensione corporativa
in cui opera la classe; ma quel che Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto
l’aver integrato questo concetto (la teoria dello Stato-forza) con la dottrina
dell’egemonia. Secondo Coutinho Gramsci dà vita in tal modo ad una generale
teoria dell'egemonia, ed è qui che Gerratana offrirebbe il suo più importante
contributo: «per Gramsci le forme storiche dell’egemonia non sono sempre le
stesse e debbono variare a seconda della natura delle forze sociali che
esercitano l’egemonia. Egemonia del proletariato e egemonia borghese non
possono avere le stesse forme né possono utilizzare gli stessi strumenti» (ivi,
123). Sviluppando l'elemento del "consenso" proprio dell'egemonia
gramsciana, Gerratana distingue l’egemonia borghese, che si basa su un consenso
passivo (o manipolato), e l’egemonia proletaria, che necessita un consenso
attivo. Accenniamo infine ad altre due relazioni che hanno chiuso il convegno,
quella di Aldo Tortorella e quella di Chiara Meta. Tortorella si è concentrato
essenzialmente su due aspetti portanti della personalità dello studioso
gramsciano, la passione politica e il rigore morale. Ha indicato in Gerratana non
uno studioso come altri, ma un uomo che la cui vicenda intellettuale è da porre
dentro una storia specifica e collettiva: quella della Resistenza e della
nascita del PCI. È proprio attraverso la storia di queste vittorie e tragedie
collettive che si è sviluppata la trama della vita personale e intellettuale di
Gerratana. Tortorella ha messo in luce la profonda inquietudine che s'aggirava
nell'animo di Gerratana, al di là dell'apparente serenità scientifica ed il suo
“rigorismo”. Se una distinzione per lui esisteva fra politica (come etica
pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il rapporto fra queste era
per lui molto stretto (non a caso si era espresso sempre in modo contrario
rispetto a guerre di aggressione presuntivamente “etiche” o a qualsiasi
violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La concezione etica cui
Gerratana fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno quella di Spinoza,
ma in diretta connessione con la sua passione politica, dove la politica era
intesa come un'impresa razionale. La passione politica, difatti, poteva avere
due diversi contenuti: volgersi a favore o contro le dittature, e Gerratana
scelse questa seconda strada. In questi anni è nato dunque un modo nuovo di
intendere la libertà come effettualità, anzitutto come libertà dai rapporti di
dominio sul piano materiale. L’intervento di Meta ha infine affrontato la
ridefinizione del concetto di persona nella riflessione di Gerratana. Nel corso
della relazione, Meta ha mostrato come Gerratana abbia risposto positivamente
all'interrogativo sull'esistenza o meno di una teoria della personalità nel
pensiero di Gramsci a partire dallo scritto Unità della persona e dissoluzione
del soggetto ("Critica Marxista", XXV, 1987, nn. 2-3, pp. 113).
Indagando gli scritti gramsciani alla luce dell'elaborazione marxiana delle
Tesi su Feuerbach e di Miseria della filosofia, Gerratana ricorda che Gramsci –
in Q 10 dal titolo emblematico «Che cosa è l’uomo?» – argomenta che l’uomo è
essenzialmente un processo, precisamente «il processo dei suoi atti» (Q 10, §
54, p. 1344). D'altra parte l’individuo entra in rapporti con gli altri uomini
«organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici
ai più complessi». Così lo sviluppo e costituzione della "personalità"
di ciascuno è da intendersi come acquisizione di coscienza di tali rapporti e
insieme modificazione di sé in relazione al modificarsi di tali rapporti:
difatti «ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e
modifica tutto il complesso di rapporti di cui è il centro di annodamento»
(Ibidem). Ed è proprio Gerratana, secondo Chiara Meta, uno dei
pensatori che più avrebbe colto questa natura dialogico-relazionale della
filosofia gramsciana, che intesse tutta la trama dei Quaderni. Sottolineiamo
infine un ultimo aspetto che ha qualificato questi due giorni di confronto
intellettuale: la ricchezza del dibattito. Il convegno ha messo in luce come
sia possibile recuperare una trasversalità reciproca nel modo di concepire il
rapporto fra relatori e pubblico, fra ricerca e scienza, fra passato e
presente. Quest'ultimo aspetto è stato la cifra indiscutibile del
convegno: non si è trattato di esposizioni accademiche di "memoria",
ma di un confronto vivo con l'eredità intellettuale di Gerratana, che ha
riportato all'ordine del giorno l'attualità della ricerca e della riflessione
sulla scienza storico-politica del passato al fine di comprendere la politica e
la cultura del nostro tempo, finanche alla luce d'uno sguardo internazionale.
Su molte questioni poste dai relatori il pubblico è difatti intervenuto: dal
rapporto fra Gerratana e Calvino (Lea Durante), Gerratana e Rousseau (Manuela
Ausilio), Gerratana e Colletti (Guido Liguori), al rapporto fra il pensiero di
Gramsci e Lukács (Renato Caputo), alla dialettica fra organicità e
frammentarietà nei Quaderni del carcere (Eleonora Forenza). Lea Durante ha
ricordato come la stretta amicizia fra Gerratana e Calvino risalisse ai primi
anni '50. Nonostante fossero intellettuali provenienti da una diversa impostazione
culturale, tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto ed in comune
l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio GerratanaCalvino
in merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la lettura di questo
evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto piuttosto
all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia" di
questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli intellettuali
entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La sottoscritta è
intervenuta cercando di porre in luce come la “fedeltà” di Gerratana a Rousseau
nel corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche relativamente all'unitarietà
dell'opera rousseauiana, a un rapporto complementare fra i Discorsi e il
Contrat, da cui emerge un pensatore che per un verso è interno alla modernità
borghese, per l'altro ne comincia a cogliere, prima di altri, i rischi ed i
limiti. Renato Caputo si è dialettizzato con la relazione di Voza
confrontandosi sul merito della concezione lukácsiana del realismo e rilevando
da un lato che l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è tutt'altro che un
"cane morto", dall'altro la necessità di riconsiderare la battaglia
di Gerratana per il recupero di De Sanctis non tanto in contrapposizione a
Hegel quanto in funzione dell'esigenza di liberarsi della lettura crociana
dell'autore. Guido Liguori è intervenuto sul rapporto fra Gerratana e Colletti,
affermando che fra i due intellettuali – sebbene legati dall’amicizia – non vi
era solo una distanza, ma una radicale contrapposizione teorica. Infine
Eleonora Forenza ha interloquito in particolare con la relazione di Buttigieg,
sottolineando il valore dell’edizione critica dei Quaderni di Gerratana nella
sua capacità di porre in luce il carattere frammentario della riflessione
gramsciana dei Quaderni, l’attualità dialogica di un processo conoscitivo
inteso come “ritmo” e “sviluppo”, la centralità della tensione nell’organicità
dell’opera carceraria e il valore del “frammento” come elemento del processo.
Ma uno dei contributi che più ha emozionato è stato quello di Mario Alighiero
Manacorda, intervenuto per ricordare che in quello "Zibaldone" che
pure sono i Quaderni vi è un'unità assoluta, che ritorna nelle pagine
pedagogiche, e ha riguardato l’indagine gramsciana sulla formazione dell’uomo
nuovo, fondata sul principio dell’unità di «braccia e cervello» (Q 4, 13, 12,
29, 22). Questa ricerca coinvolge la questione (che l'umanità si porta dietro
da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da sempre alla base vi è una sua
declinazione come duplice, cosicché quella duplicità dell'attività umana trova
spazio in una duplicità sociale (gli eroi da una parte come intellettuali, la
plebe dall'altro). Quell'unità fra i due elementi che si ricerca nella filosofia
antica viene rotta dal cristianesimo, che ha separato drasticamente anima e
corpo (così come nella struttura sociale ha diviso cleres e milites), e da
allora ci trasciniamo questa duplicità, che pure oggi biologia e fisica negano
esistere del tutto. Storia passata e futura: la lezione di Gerratana serve
ancora In questa due giorni di convegno si sono succeduti ricercatori, storici,
docenti di filosofia, intellettuali di orientamento politico affine ma niente
affatto identico, esponenti di rilievo dell'odierna intellettualità italiana
che sono (o sono stati) spesso insieme politici e uomini di cultura, che hanno
partecipato alla costruzione della storia democratica del nostro paese; e che
si sono interrogati sul contributo culturale di Gerratana come lezione viva,
esempio per la storia politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da e per
Gerratana, dunque: antifascista, organizzatore di cultura, interprete di
politica e filosofia, pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando
necessario nelle sue convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche
alla rottura. Gli interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni
affettuosamente alla memoria) la riflessione di Gerratana come frutto della
contraddittorietà della modernità: di quella terra dissestata e martoriata che
è stata l'Italia negli anni della lotta partigiana, di quella storia che si è
radicata nella consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed
eguaglianza sociale. Ecco: discutere e ricordare in questi giorni Valentino
Gerratana ha significato parlare insieme della nostra storia passata e delle
prospettive future per questo paese, che ha trovato in una figura come
Valentino un indimenticabile esempio di caratura morale, coerenza politica,
onestà e intellettuale, amore per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza
sociale, per la dignità umana e per la libertà – e questa storia, in fondo, non
è di uno. Ma di tutti noi. Valentino Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu,
Grice on social justice, Gramsci, Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia
di rousseau, labriola a fronte del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo
– G. A. P. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e
Geymonat – il temperamento romano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a neo-rationalist, like
Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” – Grice: “Geymonat has
explored the origin of infinity in the triangle of Tartaglia.” – Grice:
“Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ – Grice: “Geymonat has
a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer essay on ‘reason.’ –
Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of probability – from
Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni Battista,
un geometra liberale di origini valdesi, e da Teresa Scarfiotti. Frequenta la
scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale, un liceo classico
torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo anno di corso a
causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con l'ortodossia e così
conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour. Si laurea a Torino con “Il
problema della conoscenza nel positivism” sotto Pastore e sotto Fubini lcon “Sul
teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere”. La sua scelta di unire,
nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute separate in Italia dall'imperante
cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con la sua riforma della
scuola, privilegia la cultura umanistica, e quella crociana, con la sua
concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso del filosofo
abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra l'apertura europea delle prospettive
di ricerca intravista allora da Geymonat e la sua estraneità al provincialismo
culturale italiano. Un rifiuto che egli estese anche alla politica del regime
allora dominante. Assistente di Analisi algebrica nell'Torino ma avversario del
fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito fascistacio è di prendere la
cosiddetta tessera del pane vedendosi così preclusa la possibilità di una carrier
statale. Si avvicinò altresì a Martinetti, non tanto per comunanza di
prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno
civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il
giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire
la dottrina del Circolo di Schlick, e
pubblica “La filosofia della natura”
e “Nuovi indirizzi della filosofia.” e iscritto clandestinamente
al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola
privata «Giacomo Leopardi» di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome
di battaglia Luca fu partigiano in Piemonte nella 105ª Brigata Carlo Pisacane
e, dopo la Liberazione, assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto
il concorso a cattedra, e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e
Milano. Fonda il Centro di studi metodologici a Torino. Ebbe uno stile di
pensiero razionalista ateo. La sua filosofia può essere inquadrata nel filone
del neopositivismo (ebbe diversi contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato
nell'ottica del marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono
tracciare due fasi. Nella prima fase, approfondisce temi tipici del
positivismo. Nella seconda fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed
a questo scopo utilizza concetti caratteristici del materialismo
dialettico. Interpreta la concezione della matematica di Galilei come un strumento
d'interpretazione della realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello
della causalità, il fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione,
centrali nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito
Comunista Italiano, da cui si allontanò poi per aderire a Democrazia Proletaria
e successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione
Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione,
a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo
Oggi (editore Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e
sul teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”,
spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo
strumento della ragione. Per fare
questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema
di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente
numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per Geymonat il suo corso del neo-razionalismo,
che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo
un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e
l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per
storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur
condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più
manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia
popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale
dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I
nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo
mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora
il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente
che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è
questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore
della non-sovietica. Si deve a Geymonat l'introduzione in Italia di Kuhn.
Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La
nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo
razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galileo
Galilei, Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia
della scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con
Renato Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo
dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi
e rivoluzioni. scienza e politica, Giulio Giorello e Marco Mondadori, Il
Saggiatore, Milano, La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper,
Dedalo, Bari. Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le
ragioni della scienza” (Laterza, Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La
società come milizia, Minazzi, I sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia,
scienza e verità, Rusconi, Milano, La Vienna dei paradossi. Controversie
filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis, Mario Quaranta, Il poligrafo,
Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, cCuen, Napoli, La ragione, con
Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità del Marxismo. Quaderni di
Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, Bollati
Boringhieri, Torino. Emanuele Vinassa de Regny, «Corrado Mangione: breve storia
di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale Marxista», in
Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non fate ideologia.
L'Occidente non è quest'inferno, Dario Antiseri, articolo su «Il Mattino di
Padova», lincei. Geymonat Mario Quaranta, Geymonat filosofo della contraddizione,
Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore di Geymonat,
Garzanti, Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano. Cronache di
filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in Italia negli
anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano e Geymonat. Norberto Bobbio,
Ricordo, "Rivista di Filosofia" Silvio Paolini Merlo, Consuntivo
storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf
(Cnr), Genova, Minazzi, “La passione
della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione
inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat,
La Città del Sole, Napoli, Fabio Minazzi, Contestare e creare. La lezione
epistemologico-civile di Geymonat, La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini
Merlo, Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di
Torino, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Bruno Maiorca,Scritti
sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi, Ludovico Geymonat, un Maestro del Novecento.
Il filosofo, Edizioni Unicopli, Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure
della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna,
Minazzi, Geymonat epistemologo, Mimesis Edizioni, Milano Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola
di Milano. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Geymonat,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai, Scienza e filosofia:
Geymonat e Preti, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Articoli della stampa italiana
su L. Geymonat, dal Sito Web Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale
di Ludovico Geymonat (C.Preve). La scuola pitagorica
rappresenta un movimento di pensiero di
livello scien- tifico molto superiore a
quello della scuola ionica. Per la
verità non tutti gli studiosi sono
d'accordo su ciò. Taluni sostengono infatti
che Pitagora (il quale non lasciò
nulla di scritto) sia stato il
fondatore più di una setta religiosa
analoga all'orfismo, che non di un
vero e proprio movi- mento di pensiero
scientifico-filosofico. Essi affermano che
soltanto mezzo se- colo dopo la morte
del fondatore la setta pitagorica cominciò
ad interessarsi di scienza e di
filosofia. Oggi però si ritiene dai
più che l'interpretazione ora ac- cennata
sia eccessivamente critica, e si preferisce
ritornare all'interpretazione tradizionale, che
attribuiva proprio a Pitagora la maggior
parte delle concezioni note sotto il
nome di « pitagoriche ». La ricchezza
del sapere di Pitagora ci è del
resto attestata da Eraclito, che
polemicamente lo definiva po!Jmathés, « eru- dito.”
Anche noi dunque ci atterremo alla
tradizione, pur riservandoci di trat- tare
nuovamente nel capitolo v la reazione
pitagorica all'eleatismo, rappresen- tata nel v
secolo da Filolao. Nato a Samo verso
il 575, Pitagora abbandonò circa a
quarant'anni la pro- pria patria per
trasferirsi nella Magna Grecia, e
precisamente a Crotone in Calabria
(dove era fiorita un 'importante scuola
di medicina, per la quale rinviamo al
capitolo vn). Qui fondò una scuola
che ebbe un notevole peso nella vita
poli- tica della città, essendo legata al
partito aristocratico. Era organizzata sulla
base di regolamenti molto rigorosi, che,
tra l'altro, esigevano dagli scolari un
lungo periodo di tirocinio prima di
essere ammessi ai segreti più profondi
della setta. Su questa base si creò
assai presto la divisione fra «
acusmatici », ascoltatori, e «matematici»,
partecipi degli insegnamenti più profondi,
che in seguito si accu- sarono a
vicenda di non essere i veri
depositari delle dottrine del maestro. L'in-
segnamento di Pitagora era circondato da
grande rispetto, e si riponeva in lui
una fiducia illimitata, tanto che a
Pitagora per la prima volta si riferì
il celebre autòs efa (ipse dixit).
Fatto notevole è infine che nella
scuola pitagorica fossero ammesse anche le
donne. Verso la fine del VI secolo,
una sommossa provocata dal partito
democratico cacciò i pitagorici da Crotone.
Pare che Pitagora sia riuscito a
fuggire a Metaponto, ove poco dopo
morì. Sul grande pensatore sorsero presto
numerose leggende, alcune delle quali erano
già note ad Aristotele. Queste accentuarono
il carattere religioso della sua figura,
facendone poco meno che un semidio, e
furono particolarmente care a quel
movimento neopitagorico misticheggiante che fiorì
nel tardo periodo alessandrino e che,
attraverso le opere di Numenio e di
Giamblico, confluì nel neoplatonismo. La
realtà accertata dagli storici è che,
dopo l'espulsione da Crotone, si
organizzarono varie comunità pitagoriche nel
mondo ellenico e soprattutto nella Magna
Grecia. Esse ebbero lunga vita e
diedero notevoli sviluppi all'opera del
maestro. Le due più celebri furono:
la scuola di Filolao (vissuto nella
seconda metà del v secolo) che dalla
Magna Grecia si trasferì a Tebe, e
quella di Archita (inizio del IV
secolo) che fiorì a Taranto, dominando
anche politicamente la città. Di Filolao
ci sono pervenuti vari frammenti, che
dopo lunghe discussioni vengono oggi ritenuti
generalmente autentici, e che costituiscono
la base prin- cipale per ricostruire la
dottrina di Pitagora; su di lui, come
già abbiamo accen- nato, si tornerà con
più ampiezza nel capitolo v. Archita,
uomo di straordinaria va- stità e modernità
di interessi, fu legato da amicizia
personale con Platone, che lo ricorda
affettuosamente nella VII Epistola, ed
esercitò per suo tramite una grande
influenza sull'Accademia. Di Archita parleremo
più diffusamente nel capitolo xn. Né
l'influsso del pitagorismo si limitò alla
filosofia ed alla scienza, ma si
risentì fortemente in tutte le
manifestazioni dello spirito greco. All'acustica
pi- tagorica si possono far risalire molte
delle teorie musicali greche tramandateci
dagli Elementi armonici del peripatetico
Aristosseno (m secolo a.C.), ed al pitago-
rismo esplicitamente si richiamò lo
scultore Policleto, contemporaneo ed amico
di Fidia, che nel Canom sviluppò una
teoria artistica basata sulla concezione
della bellezza del corpo come giusta
proporzione delle parti. Legato al
pitagorismo fu pure Ione di Chio,
poeta tragico e filosofo del v
secolo. I NUMERI PRINCIPIO DELLA REALTÀ
Questa dottrina si imperniava su di
un pensiero fondamentale: i numeri sono
il principio di tutte le cose. «
Tutte le cose che si conoscono hanno
numero; senza questo nulla sarebbe
possibile pensare, né conoscere. » Dovremo
ora cercare, innanzi tutto, di comprendere
il significato filosofico di questo pensiero;
poi di svilupparne le conseguenze
matematiche e fisiche. Alla fine del
capitolo accenneremo al valore intrinseco
della teoria, e al significa- to della
crisi scientifica formatasi nella scuola
prima ancora della cacciata di Pita- gora
da Crotone. Pitagora prese forse le
mosse dalle ricerche ioniche sul principio
e in parti- colare dalla teoria
dell'àpeiron di Anassimandro. Una più acuta
sensibilità ai pro- blemi etico-religiosi (quali
l'opposizione del bene e del male nel
mondo, la vicenda della colpa e del
riscatto), stimolata probabilmente dall'incontro nella
Magna Grecia con i culti misterici, e
d'altro canto una maggiore attenzione per
le leggi formali e modali della
realtà, cui diedero impulso le sue
prime ri- cerche acustiche, dovettero però
fargli apparire inadeguato il principio
unico dei naturalisti ionici. Per rendere
conto di questi più complessi problerill,
Pitagora sdoppiò il principio in due
opposti: da una parte il principio
del limitato, del finito, dell'uni- tario,
che rappresentava l'ordine, il cosmo, il
bene; dall'altra il principio dell'il- limitato,
dell'infinito, che raffigurava il disordine,
il caos, il male. La grande in-
tuizione di Pitagora consistette nel vedere
nei numeri e nei loro rapporti la
chiave e la struttura ultima di questo
assetto dualistico della realtà. Col
termine « numeri » i pitagorici
intendevano soltanto i numeri interi,
concepiti come le collezioni di più
unità. Non fecero particolari indagini
sulla natura di queste unità, limitandosi
a rappresentarle con punti, circondati cia-
scuno da uno spazio vuoto. Proprio
questa rappresentazione spaziale facilitò il
passaggio, caratteristicamente arcaico, dalla concezione
del numero come « chiave » e
rapporto alla sua concezione come
costituente fisico elementare delle cose.
Il problema essenziale diventava allora,
per i pitagorici, quello di cogliere
il modo con cui dalla collezione di
più unità si generano tutti gli
esseri. Le leggi della formazione dei
numeri venivano considerate come leggi
della formazione delle cose, e. si
riteneva di poter trovare in esse la
vera ragione esplicativa del mondo fisico
e morale. La più importante di tali
leggi era costituita - secondo i pitagorici
- dal- l'opposta struttura dei numeri dispari
e di quelli pari. L'antitesi dispari-pari
ve- niva cosi assunta a principio di
una serie di altre nove opposizioni,
che spezzano il mondo in due:
limitato-illimitato (opposizione che era stata,
come s'è visto, il problema iniziale
del pitagorismo, ma poteva ora venir
spiegata sulla base del- l 'antitesi precedente);
uno-molti; destra-sinistra; maschio-femmina;
luce-tenebre; buono-cattivo; immobile-mobile;
retto-curvo; quadrato-rettangolo. Alcune di
queste nove opposizioni avevano palesemente
un carattere fisico (quella per esempio
di luce e tenebre; da essa scaturiva
la raffigurazione del cosmo come costituito
da un fuoco centrale, immerso in
un'estensione illimitata di nebbia); altre
invece un preciso carattere morale. Questa
presenza di significati multipli finiva con
l'infondere ai numeri in generale, e
a certuni di essi in parti- colare,
un vero e proprio valore magico-simbolico.
Così il numero 5 veniva assunto a
rappresentare il matrimonio, essendo la somma del
primo numero dispa-ri, il 3, con il
primo numero pari, il 2 (l'I veniva
considerato come « parìmpari »servendo a
generare sia i numeri pari che i
dispari); il 4 e il 9 venivano
presi come simboli della giustizia; il
7 dell'opportunità; e così via. Di
derivazione pitagorica è un trattato di
medicina intitolato Sul numero sette (Peri
hebdomadon), che cerca appunto nei rapporti
settenari la spiegazione della struttura
dell'orga- nismo e delle sue affezioni. Qualcuna
di queste concezioni è pervenuta fino
a noi, onde si attribuisce per
esempio al 7 un significato speciale
etico e fisico (nella tradizione cristiana
sette sono i ·vizi capitali, sette le
opere di misericordia, in varie malattie
si ha la «settima», ecc.). La
purificazione religiosa, che formava - almeno
in un primo tempo il fine principale
dell'insegnamento pitagorico, era cercata essa
pure attraverso la contemplazione dei
numeri. Questa veniva pertanto a possedere
un doppio aspetto: scientifico e mistico.
La peculiare nobiltà dell'ascesi pitagorica
consisteva appunto nel fatto che a
ogni sua tappa doveva corrispondere la
conquista di un più alto gradino del
sapere. Il carattere mistico delle ricerche
matematiche co- stituì per molto tempo un
notevole impulso al loro sviluppo, e insieme
un im- pedimento al loro caratterizzarsi
come ricerche puramente scientifiche. III ·
L' ARITMO-GEOMETRIA In particolare, la
concezione ora spiegata spinse i pitagorici
a studiare la geometria per via
aritmetica. Ne sorse una disciplina che,
per il suo doppio ca- rattere, fu
chiamata « aritmo-geometria ». Essa era
fondata sulla convinzione che da un
lato. fosse possibile ricavare le
principali caratteristiche delle figure a
partire dal numero dei punti (supposto,
in ogni caso, finito) che le
compongono, e dall'altro fosse possibile- viceversa-
ricorrere alla forma delle figure per
illustrare le più recondite proprietà dei
nu- meri. Di qui la distinzione dei
numeri in vari tipi; per esempio: •
• • • • • • • • • •
• • • • • • • • triangolari
polig6nali quadrati c~ bici Al numero
triangolare 10 veniva attribuita un'importanza
speciale, come somma dei primi quattro
numeri naturali. I dispari venivano chiamati
« gnomoni», per la possibilità di
rappresentarli informa di gnomone (cioè
squadra). Questa rappresentazione permise di
scoprire che ogni numero dispari è la
differenza di due quadrati; per esempio:
• • • • • • • • • •
• • • • • • 7 = 4 2 - 3 2
Varie testimonianze ·- tra cui quella di
Proclo ·- ci dicono che Pitagora fu
il primo a comprendere la validità
generale del teorema che ancor oggi
porta il suo nome, e che, per
taluni casi particolari (per esempio quando
i cateti val- gono 3 e 4, e l'ipotenusa
5), era noto già prima di lui.
Non sappiamo però quale ragionamento
servisse a Pitagora per provare l'importante
teorema. Certamente la dimostrazione riferita
negli Elementi di Euclide non fu
ideata dal filosofo di Crotone. IV ·
L'ACUSTICA E L'ASTRONOMIA PITAGORICHE La
dottrina che « i numeri sono il
principio di tutte le cose » trovò
pure conferma negli studi di acustica.
Stando alla più antica tradizione dobbiamo
infatti ammettere che Pitagora riuscì a
scoprire i principali intervalli musicali.
Sarebbe giunto a questa notevolissima
scoperta dallo studio sperimentale delle
corde sonore, e dalla constatazione che
nei principali accordi il rapporto fra
le loro lunghezze è espresso da
numeri interi molto semplici. L'acustica
venne in tal modo a costituire una
specie di« aritmetica applicata», come
l'astronomia costituiva una «geometria
applicata». Il quadro delle ricerche
scientifiche risultò pertanto suddiviso in
quattro rami fondamentali: aritmetica, musica,
geometria, astronomia. 1 L'astronomia pitagorica - come
abbiamo accennato nel paragrafo n -
partiva dall'ammissione di un fuoco
centrale immerso in una sconfinata nebbia
di tenebre. Intorno a tale fuoco si
pensava ruotassero dieci corpi (notiamo
l'intervento del numero 10): la Terra,
l'Antiterra (invisibile), la Luna, il Sole,
i cinque pianeti allora conosciuti, e
il cielo delle stelle fisse. I
movimenti ciclici di questi corpi
produrrebbero - secondo Pitagora - una
meravigliosa armonia, che noi però non
riusciamo a percepire a causa della
sua continuità. La loro ciclicità sarebbe
la causa del ritorno periodico di
tutte le cose. Nei secoli I Questa
ripartizione costituisce il lontano antecedente
del celebre« quadrivio »,che starà alla
base dell'istruzione nelle scuole del
medioevo.successivi l'astronomia pitagorica portò
a concezioni di grande interesse scien-
tifico; degna di particolare menzione l
'ipotesi eliocentrica, ideata per la prima
volta da Aristarco di Samo nel III
secolo a.C. Ricordiamo infine la teoria
secondo cui tutto il cosmo sarebbe
sorto dal fuoco centrale e ritornato
in esso per poi nascere un'altra
volta. Con riferimento ad essa, i pitagorici
chiamavano «anno cosmico» l'intervallo di
tempo impiegato dal cosmo per nascere
e ritornare nel fuoco. LA CONCEZIONE
DELL'ANIMA La teoria pitagorica dell'anima,
malgrado la sua ambiguità, ebbe notevoli
riflessi sui filosofi posteriori. Da un
lato alcune testimonianze ci dicono che
l'anima veniva concepita dai pitagorici
come «armonia» del corpo, nel preciso
senso in cui si parla di ar- monia
dei suoni emessi da uno strumento
musicale. Secondo questa interpreta- zione,
l'anima doveva venire necessariamente pensata
come mortale, poiché - spezzato lo
strumento - anche l'armonia viene a
cessare. D'altro lato sappiamo però che
uno dei cardini della filosofia pitagorica
era costituito dalla trasmigrazione delle
anime (metempsicosi), e questa suppone
ovviamente che l'anima non muoia con
il corpo che la ospita. Un frammento
del medico Alcmeone (che visse a
Crotone alla fine del VI secolo, e
fu legato ai circoli pitagorici) afferma
che l'« anima è immortale per la
sua somiglianza con le cose immortali
... la luna, il sole, gli astri ».
1 Come risolvere l'apparente contraddizione?
Probabilmente bisogna ritenere che i
pitagorici ammettessero due specie di
anime: una costituita dal tempera- mento
psichi co, legato indissolubilmente al
corpo e destinato a morire con esso;
l'altra da un principio immortale o «
anima-dèmone ». In ogni vita si
avrebbe una stretta rispondenza tra le
due anime; questa rispondenza verrebbe però
a cessare coll'uscita dell'anima-dèmone dal
corpo. Tale uscita sarebbe da lei de-
siderata per raggiungere la purezza di
una vita interamente spirituale. A tali
dottrine si ispirava il « modo di
vita pitagorico », altamente lodato da
Platone per la sua unione di teoresi
e di ascesi; la metempsicosi in particolare
determi- nava il più famoso dei divieti
rituali pitagorici, quello di mangiare la
carne di certi animali, nei quali
potrebbe essersi incarnata un'anima. Anche
dio veniva concepito dai pitagorici come
anima; e precisamente come « anima
del mondo » che circola continuamente
in esso e perciò è presente in
ogni luogo. Il rapporto dio-mondo restò
tuttavia molto incerto nella filosofia
pitagorica, sicché non possiamo cercare in
essa un vero e proprio sistema teolo-
gico. I Ad Alcmeone si deve la
notevolissima sco- perta che il centro della
vita organica e mentale va localizzato
nel cervello. Del pensiero scientifico 45
di Alcmeone, che costituì l'aspetto più
significa- tivo della sua personalità, sarà
detto più ampia- mente nel capitolo
vuQuanto abbiamo finora riferito basta per
farci comprendere la complessità
dell'insegnamento pitagorico. Se in taluni
punti esso può apparirci ingenuo, in altri
casi contraddittorio, ciò non deve farci
sottovalutare l'importanza dei temi ivi abbozzati,
che ricompariranno ampliati e sviluppati
nei più diversi indirizzi filosofici e
scientifici. Notiamo, per esempio, che l'idea
di cercare nei numeri, cioè nella
matematica, la spiegazione di tutti i
fenomeni, ricomparirà potenziata nell'epoca
moderna e formerà per molto tempo la
« spina dorsale » di tutta la
ricerca scientifica. Vi è chi sostiene,
esagerando forse le cose, che le più
celebri teorie della fisica-ma- tematica moderna
(per esempio la teoria della relatività
generale di Einstein) non costituirebbero
altro che il proseguimento del programma
pitagorico. Ma, a parte ciò, noi
troviamo nella matematica di Pitagora un
carattere speciale che la differenzia
notevolmente da molte altre concezioni
posteriori, pur esse accentratesi sulla
ricerca matematica. Il carattere cui voglio
riferirmi, suol venire indicato col termine
«discontinuità». Si dice che la scienza
di Pi- tagora è una matematica del
discontinuo, perché essa si fonda
esclusivamente sui numeri interi e su
ciò che può venire espresso con i
numeri interi (per esem- pio sulle frazioni
ordinarie, e non, invece, sui numeri
irrazionali). Secondo essa, l'accrescimento di
una grandezza procede per «salti
discontinui», essendo im- possibile aggiungere
qualcosa che sia minore dell'unità. Taluno
giunge a riconoscere nelle teorie
quantistiche moderne una soprav- vivenza
dell'antica eredità pitagorica sotto forma
dì concezione discontinua dell'energia. LA
SCOPERTA DELLE GRANDEZZE INCOMMENSURABILI: CRISI
DEL PITAGORISMO Lasciando da parte le
reminiscenze pitagoriche presenti nella fisica moderna,
va detto però ben chiaramente che
l'aritmo-geometria di Pitagora non ebbe
vita lunga nella scienza greca. La
sua fine fu provocata, per l'appunto,
dalla crisi di quell'idea di discontinuità
che costituiva - come s'è detto - uno
dei suoi cardini fondamentali. La grande
crisi fu causata dalla scoperta che
le figure geometriche sono co- stituite non
da un numero finito, ma da una
infinità di punti. (Le teorie moderne,
che tornano ad un'idea rinnovata di
discontinuità, sosterranno implicitamente che la
geometria classica - proprio perché parla
di una infinità di punti - non trova
esatta applicazione nella realtà.) Il primo
« fatto geometrico » che costrinse i
pitagorici a riconoscere che le figure
sono costituite da infiniti punti, è
proprio connesso a quel medesimoteorema che
porta il nome di Pitagora. Ed
infatti, applicando detto teorema ad uno
dei due triangoli isosceli in cui è
diviso un quadrato, si dimostra facil-
mente che il lato e la diagonale
di tale quadrato non possono avere alcun
sot- tomultiplo comune, cioè sono
incommensurabili. Orbene proviamo a supporre
che un segmento sia generato
dall'accostamento di una serie finita di
punti (pic- coli ma non nulli, e
tutti eguali fra loro, come allora si
immaginava): ne se- guirebbe che uno
qualunque di questi punti risulterebbe
contenuto un numero intero, e finito,
di volte (per esempio m volte) nel
lato e un altro numero in- tero, e
finito, di volte (per esempio n volte)
nella diagonale. Lato e diagonale avreb-
bero dunque un sottomultiplo comune, e
non sarebbero - come si era dimo- strato -
incommensurabili. La loro incommensurabilità
esige pertanto che es- si siano costituiti
da una infinità di punti. La leggenda
racconta che il fatto scandaloso, ora
riferito, fu gelosamente custodito per vari
anni tra i segreti più pericolosi
della setta. Esso fu rivelato fuori
della scuola pitagorica da Ippaso di
Metaponto, una delle figure più notevoli
dell'antico pitagorismo. Pastosi a capo
degli acusmatici per la moderna irre-
quietezza del suo ingegno che mal
tollerava il dogmatismo della setta, egli
sarebbe stato vicino ad Eraclito per
l'idea che il fuoco è il principio
di tutte le cose, e si sarebbe
schierato dalla parte dei democratici nei
moti che condussero alla cacciata dei
pitagorici da Crotone. Per avere rivelato
la natura delle grandezze incommen- surabili,
Ippaso sarebbe stato cacciato ignominiosamente
dalla scuola, ed a lui anzi i pitagorici
avrebbero eretto una tomba come ad un
morto. Secondo la tra- dizione su di
lui sarebbe caduta anche l'ira di
Giove, il quale lo fece perire in
un naufragio; la sua triste morte non
impedì tuttavia che lo scandalo si
diffondesse rapidamente tra i cultori di
matematica e finisse per scuotere dalle
fondamenta l'intera concezione pitagorica. Questa
crisi verrà resa ancor più acuta -
come vedremo - dalla scoperta delle
antinomie di Zenone sul movimento e
sulla divisibilità. Per uscire da essa,
i maggiori scienziati greci non troveranno
altra via se non quella di scindere
completamente la geometria dall'aritmetica,
interpretando la prima come studio del continuo
e la seconda come studio del
discontinuo. Il rapporto tra continuo e
discontinuo resterà, per tutta la storia
del pensiero umano, un problema molto
difficile e molto dibattuto; verrà, anzi,
considerato come uno dei più astrusi
«labirinti» della ragione. L'averne intuito
l'esistenza e la difficoltà va dunque
considerato come un merito, e molto
notevole, dello spirito greco. Il primo
passo della ragione umana si compie,
in ogni ricerca, col porre a nudo
le difficoltà ivi esistenti, per gravi
che esse siano, non col nasconderle.
Solo chi le conosce, non chi le
ignora, può sentirsi spinto a cercare
i mezzi indispensabili per risolverle o,
comunque, dominarle; e questa ricerca è
la molla più decisiva del progresso
scientifico. Oggi si riconosce quale
autentico fondatore della scuola eleatica
il grande Parmenide, nato ad Elea
verso il 51 5 e fiorito nella
prima metà del v secolo. Egli scrisse
un poema allegorico Sulla natura (Perì
fjseos), di cui ci sono
pervenuti alcuni interessantissimi frammenti che, integrati
da varie testimonianze, ci per- mettono di
ricostruire con sufficiente sicurezza il
suo pensiero. Data la vicinanza di
Elea ai maggiori centri del pitagorismo, è
indubitato che Parmenide subì, in forma
più o meno diretta, l'influenza di
questo indirizzo di pensiero. Taluni
storici, accentuando questo legame, giunsero
a presentarcelo come un pitagorico,
distaccatosi dalla scuola di provenienza
per divergenze di ordine filosofico. Tale
interpretazione ci costringerebbe a vedere in
gran parte degli argomenti eleatici, come
ad esempio nelle aporie di Zenone, un
intento polemico soprattutto antipitagorico. La
gravità di questa conseguenza lascia
tuttavia perplessi molti autorevoli critici.
Si ritiene oggi piuttosto che la
critica di Parmenide fosse rivolta in
generale contro tutte le filosofie ioniche
ed italiche del molteplice e del divenire,
di cui egli rilevava acutamente la contraddittorietà:
nel tentativo di spiegare razionalmente la
realtà, e di modellare la ragione sui
dati dell'esperienza, tali filosofie dovevano
ammettere una serie di opposizioni e
di alterità di cui però si assumeva
la coesi- stenza. Ora - osservava Parmenide -
se di una qualsiasi cosa si dice o
si pensa che « è », di ciò
che è diverso od opposto ad essa
si dovrà dire o pensare che «non
è»: e com'è possibile riconoscere realtà
alcuna a ciò che non è, se non
si vogliono violare le leggi immutabili
del discorso e del pensiero? La
grandezza della filosofia di Parmenide,
quella grandezza che costituì un fecondo
punto di partenza per il pensiero
successivo e anche un difficile problema
la cui soluzione era tuttavia
indispensabile per poter progredire, sta
proprio qui: nell'aver cioè individuato
nella sua radice filosofica l'ambiguità
della speculazione ionica edita- lica, e
nell'aver posto in primo piano il problema
della verità del linguaggio e del
pensiero, il problema della « via »,
cioè del metodo, che linguaggio e
pensiero dovevano percorrere per giungere
alla realtà. Il metodo vero costruisce
cono- scitivamente la realtà, l'essere, perché
elimina gradualmente dal pensiero tutti i
contrassegni di irrealtà, di non-essere,
che vi si erano infiltrati: la
molteplicità nello spazio, intesa _come
differenziazione di parti, la molteplicità
nel tempo, intesa come differenziazione di
momenti, il vuoto inteso come assenza
di realtà, la generazione e la
distruzione intese come limiti dell'essere.
Partito dal riconosci- mento logico e
metodologico delle esigenze del pensiero e
del discorso, Parme- nide giunge al culmine
della «via» a dichiarare l'impensabilità,
l'inesprimibilità e l'inesistenza del non-essere,
e la parimenti assoluta esistenza
dell'essere, che condiziona la possibilità
di pensare e di dire il vero.
All'essere non potrà venir riferito - sempre
per l'opposizione or ora ac- cennata -
alcun attributo, che possa in qualche
modo diminuirne la positività, assimilandolo
al non-essere. Ci si dovrà limitare a
dire che esso è uno, invaria- bile,
immobile, eterno. Qualche critico moderno
però (come l'Untersteiner) ha ritenuto che
Parmenide avesse concepito l'essere come
«totalità>> e non come «unità».
L'erronea interpretazione del suo pensiero
sarebbe dovuta alla falsa testimonianza di
Teofrasto che attribuisce a Parmenide il
sillogismo: « Quello che è oltre
l'essere non esiste; quello che non
esiste è nulla; dunque l'essere è
uno.» L'attributo dell'unità, con cui
polemizzò Aristotele, risalirebbe solo a Melissa.
Come possiamo conciliare la concezione
parmenidea dell'essere col fatto
incontrovertibile che l'esperienza ci presenta
ad ogni piè sospinto degli esseri
molteplici, variabili, temporanei? Di fronte
a questo stato di cose - risponde
Parmenide - non vi è altro da fare
che respingere la nostra spontanea fiducia
nell'esperienza, riconoscendo che essa
costituisce per l'uomo una via di cono-
scenza fallace e illusoria. Al mondo
dell'esperienza è appunto dedicata la
seconda parte del poema di Parmenide.
Confutate « le opinioni dei mortali
», quali si erano espresse nelle precedenti
cosmologie naturalistiche basate sul divenire,
Parmenide non rinuncia tuttavia a costruire
una propria spiegazione di questo mondo,
di cui aveva di- chiarato la radicale
inconsistenza di fronte all'assoluto essere.
Molto si è discusso fra gli studiosi
sul significato da attribuire a questo
sconcertante aspetto del pen- siero parmenideo:
fra le più recenti, le due posizioni
estreme sono quella del Raven, secondo
cui l'eleata, impegnato nella polemica
contro l'indebita confu- sione di razionale e
di empirico tipica dei suoi predecessori,
avrebbe voluto costrui- re una cosmologia a
base puramente empirica, da affiancare alla
dottrina logico- razionale dell'essere in modo da
isolare ancor più chiaramente i due
momenti; e quella dell'Untersteiner, che ritiene
che il mondo dell'essere e il mondo
del- l'esperienza siano unificati nel pensiero
di Parmenide dal medesimo metodo ra-
zionale, in grado di individuare il
fondamento di realtà presente anche nel se-
condo: una realtà, tuttavia, che si
differenzia da quella assoluta in quanto
immersa nel tempo, e che ne
costituisce perciò soltanto una « immagine
». In ogni caso se ne può
concludere che per Parmenide solo la
ragione è un mezzo di conoscenza
veramente efficace; solo essa, rompendo la
crosta delle ap- parenze, può farci
cogliere l'unità profonda del reale.
L'opposizione tra razio- nalismo ed empirismo,
che tanti sviluppi avrà nella storia
della filosofia, trova proprio qui la
sua prima radice. L'essere di Parmenide
è stato interpretato da taluni in
senso idealistico, da talaltri in senso
materialistico. Entt;ambe queste interpretazioni
svisano, però, il pensiero del grande eleata,
non tenendo conto che esso antecede,
in realtà, ogni consapevole distinzione tra
idealismo e materialismo. L'affermazione di
Parme- nide che più si presta ad una
interpretazione materialistica è quella che
ci presenta l'essere come sferico (cioè
come una sfera piena) ; evidentemente
Parmenide pensò alla sfera, perché la
superficie sferica non è limitata da
alcun perimetro né inter- rotta da alcuno
spigolo. Non si può tuttavia negare
che la sfericità ora accennata vada
accolta con la massima cautela; se
infatti la interpretassimo alla lettera, ca-
dremmo in contraddizione con tutto
l'insegnamento di Parmenide, perché sa- remmo
costretti ad ammettere l'esistenza di un
non-essere (o vuoto), che è al
di là dell'essere sferico, e lo limita.
Essa va intesa invece come identità e
assolutezza dell'essere lungo tutte le
direzioni; come è stato recentemente
osservato, la sfera di Parmenide è
più simile allo spazio curvo einsteiniano
che al solido euclideo che siamo
portati a raffigurarci. L'interpretazione
idealistica è d'altra parte esclusa perché
se il pensiero scopre l'essere, certamente
non lo crea; anzi è piuttosto
l'esistenza dell'essere a rappresentare la
possibilità e la condizione del pensiero,
che in esso culmina e con esso deve
identificarsi. III · CONCLUSIONE DELL'ELEATISMO:
ZENONE, MELISSO Parmenide ebbe due grandi
discepoli: Zenone e Melissa. Il contributo da
essi arrecato all'affinamento del pensiero
del maestro assicura loro un posto
assai ragguardevole nella storia della
filosofia. Entrambi si adoperarono a
difenderne le tesi sia pure svolgendo
in direzioni opposte la tensione che
vi era implicita: Zenone cioè approfondendo
la problematica dellogos nella sua crescente
autono- mia,Melisso invece sviluppando il tema
dell'essere nella sua assolutezza sostanziale.
Zenone di Elea, più giovane di
Parmenide di circa venticinque anni, fu
un ingegno acuto, sottile, vigorosamente
polemico. Per gli argomenti ideati a
difesa dell'unità (intesa come omogeneità e
con- tinuità non divisibile in parti) ed
immobilità dell'essere, e per il suo
metodo di discussione, Aristotele, che li
discusse a lungo nella Fisica, lo
considerò il fonda- tore della dialettica
(dialettica formale, però, non reale).
L'originalità del metodo zenoniano consisteva
nell'assumere a punto di partenza la
tesi da confutare e nel dedurne
rigorosamente tutte le logiche conseguenze,
per mostrarne la contraddit- torietà e di
conseguenza l'assurdità della tesi, Oltre
che di filosofia, si occupò di
politica e contribuì notevolmente al buon
governo di Elea. Morì con grande fierezza-
non si sa l'anno preciso- per aver
cospirato contro il tiranno della città
(Nearco o Diomedonte). Sullà sua fine
si tramandano vari particolari che ne
confermano l'eccezionale coraggio.l I celebri
argomenti di Zenone a difesa della filosofia
di Parmenide mirano a provarci che,
se la negazione del movimento e della molteplicità
può a prima vista apparire assurda,
l'ammissione di essi conduce tuttavia ad
assurdità ancor più gravi, nascoste, ma
non risolte, dal linguaggio ordinario. Il
perno di tali argomenti consiste nella
dimostrazione che, sia nella nozione di
movimento, sia in quella di pluralità,
si annida il delicato concetto .di
infinito. Immaginiamo che un mobile debba
spostarsi da un estremo all'altro di
un I Ecco, per esempio, una versione
dei suoi ultimi istanti: « Antistene,
nelle Successioni, rac- conta che Zenone,
dopo aver denunziato (come cospiratori) gli
amici del tiranno, fu da questi in-
terrogato se c'era qualche altro complice.
Egli ri- spose: " Tu, la rovina della
città. " E poi, rivolto 52· ai
presenti, esclamò: " Mi meraviglio
della vostra viltà, se siete servi
della tirannide per timore di questo
che ora io sopporto. " Da
ultimo, mozza- tasi coi denti la lingua,
gliela sputò addosso. I cit- tadini allora,
incitati da questo esempio abbatte- rono il
tiranno. »dato segmento: prima di aver
percorso. tutto il segmento, dovrà averne
percorso la metà; prima di questa, la
metà della metà, e cosl via
all'infinito. In modo ana- logo, se il
« piè veloce » Achille vuole
raggiungere la lentissima tartaruga, che lo
precede di un tratto s, egli dovrà
percorrere: innanzi tutto quella distanza
s, poi il tratto s' percorso dalla
tartaruga mentre Achille percorreva s, poi
il tratto s" percorso dalla tartaruga
mentre Achille percorreva s', e così via
all'infinito. Nel- l'un esempio come nell'altro,
il fatto- in apparenza semplicissimo - del mo-
vimento, si frantuma dunque in infiniti
moti, sia pure sempre più piccoli ma
non mai nulli. Proprio questa loro
infinità è causa di profonde difficoltà
concettuali, che non possono non rendere
perplesso qualsiasi uomo disposto al
ragionamento. Quanto all'argomentazione di Zenone
contro la molteplicità, essa si svolgeva
così: supponiamo che esistano due entità
A e B distinte; per il fatto di
essere distinte, queste due entità devono
risultare separate da uno spazio intermedio
C. Ma C è distinto tanto da A
quanto da B, e quindi esisteranno altri
d).le elementi D ed E che separano
rispettivamente C da A e da B,
ecc. Poiché ciò può venir ri- petuto all'infinito,
se ne conclude che l'ammissione di due
entità distinte conduce di necessità
all'ammissione di infinite entità. Al fine
di porre luce sulle difficoltà logiche
di quest'ammissione, Zenone passava poi a
dimostrare come, partendo da essa, si
debba giungere a negare l'esi- stenza di
qualsiasi lunghezza finita. Ed infatti- così
ragionava- se gli elementi che costituiscono
un segmento AB sono infiniti, o essi
sono nulli, o non sono nulli; nel primo
caso la lunghezza del segmento non può
essere che nulla (perché la somma di
infiniti zeri è zero); nel secondo
non può che essere infinita (per- ché
a suo parere la somma di infinite
quantità diverse da zero sarebbe infinita).
É ingiusto considerare questi ragionamenti
zenoniani (e gli altri che, per
brevità, siamo costretti a tralasciare) quali
semplici sofismi o pseudoragionamenti. In
realtà, essi attirano efficacemente la
nostra attenzione su talune gravissime dif-
ficoltà dei due concetti di movimento
e di lunghezza, dovute all'inevitabile in-
troduzione dell'infinito, sia allorché si
scompone un intervallo di tempo (o il
moto attuantesi in qtJ.esto tempo), sia
allorché si scompone un segmento. Questi
argomenti - che venivano ad aggiungersi
alle difficoltà già ricordate nell'ultimo
paragrafo del capitolo III, connesse alla
scoperta delle grandezze in- commensurabili - suscitarono
presso i greci una tale diffidenza
nei confronti dell'infinito, da persuaderli
a compiere qualunque sforzo pur di
escludere tale concetto- per lo meno nella
forma di « infinito attuale » 1 - da
ogni seria costru- . I Si dice che
una grandezza variabile costi- tuisce un
<< infinito potenziale » quando, pur
as- s~mendo sempre valori finiti, essa può
crescere al di là ~i ?gni limite;
se per esempio immaginiamo di suddividere
un dato segmento con successivi di-
mezzamenti, il risultato ottenuto sarà un
infinito pot~nziale perché il numero delle
parti a cui per- ventamo, pur essendo
in ogni caso finito, può crescere ad
arbitrio. Si parla invece di « infinito
attuale » quando ci si riferisce ad
un ben determi- nato insieme, effettivamente
costituito di un nume- ro illimitato di
elementi; se per esempio immagi- niamo di
avere scomposto un segmento in tutti
i suoi punti, ci troveremo di fronte
a un infinito attuale perché non
esiste alcun numero finito che riesca
a misurare la totalità di questi punti. zione
scientifica. Oggi noi abbiamo imparato, con
l'analisi infinitesimale e con la teoria degli
insiemi, a trattare con disinvoltura
l'infinito matematico (sia l'infi- nito
potenziale sia quello attuale); proprio
perciò tuttavia ci rendiamo conto che
le difficoltà incontrate dai greci erano
effettive, non artificiose, e possiamo affer-
mare con piena consapevolezza che non
erano certo dovute a volgari errori
di logica, non erano dei « sofismi
» nel senso usuale del termine. Dal
punto di vista dell'eleatismo, il metodo
scelto da Zenone per difendere le
posizioni di Parmenide poneva tuttavia la
premessa di una loro crisi e di
un loro superamento. Lo spregiudicato uso
logico-matematico che egli faceva del logos
non si muoveva più sulla via di
una identificazione del logos stesso
all'essere, del riconoscimento di una
realtà scoperta dal pensiero ma in
cui il pensiero doveva confondersi; Zenone
poneva piuttosto le premesse per uno
svincolamento del discorso logico-matematico
dalla realtà, e lavorava quindi
oggettivamente alla rottura di quella unità
discorso-pensiero-essere che caratterizzava la
«vera via» proposta dal grande maestro
di Elea. La figura di Melissa è
assai diversa da quella di Zenone.
Nato a Samo quasi contemporaneamente a
Zenone, egli trascorse tutta la vita
nella propria isola, ove ricoprì importanti
cariche politico-militari. Basti ricordare che
fu capo della flotta con cui Samo
sconfisse gli ateniesi nel 440. La
sua permanenza a Samo co- stituì, in
certo modo, il ponte ideale attraverso
cui l'insegnamento eleatico per- venne dalla
Magna Grecia nell'Asia Minore. La lunga
lotta fra Mileto e Samo può del
resto contribuire a spiegare l'abban- dono
melisseo della tradizione ionica; una
tradizione, tuttavia, che continuò ad
operare indirettamente nel suo pensiero
condizionando in senso realistico la sua
riforma dell'eleatismo, in contrapposizione
all'indirizzo prevalentemente logico che
quest'ultimo aveva assunto in Zenone. Più
che alla difesa delle teorie del
maestro, Melissa si dedicò infatti al
loro sviluppo e alla loro integrazione. Ab-
bandonatane l'iniziale carica logico-verbale e
metodica, Melissa si propose una più
coerente deduzione dei caratteri sostanziali
e antologici dell'essere. Egli fu il
primo ad insistere sul suo carattere
di unità, che rappresentava più adeguata-
mente in senso spaziale e temporale
la «totalità» dell'essere parmenideo, e so-
prattutto sulla sua infinità. Melissa
afferma in proposito che non è
possibile interpretarlo come sferico (per
le difficoltà accennate alla fine del
paragrafo n) bensì lo si deve
concepire come infinito o illimitato sia
nello spazio sia nel tempo. Per
analoghe ragioni egli negò che si
potesse ammettere,. nell'uno, una qualsiasi
sofferenza o dolore o altra passione,
perché ciò provocherebbe in lui una
specie di perturbazione e quindi ne
diminuirebbe l'unità e immobilità. Quest'ultimo
argomento sembra mostrare come Melissa,
sulla traccia della teologia di Senofane
e della tradizione ionica, dovette
interpretare l 'unico essere come dotato
di vita: una vita, probabilmente, identica
al pensiero, secondo l'equa- zione parmenidea
che abbiamo già esposto. Secondo la
tradizione, Melissa avrebbeanche definito l'essere
come incorporeo, il che contrasta con la
sua infinita esten- sione spaziale e con
la negazione eleatica del vuoto : ciò
mette a nudo in realtà una profonda
contraddizione dell'eleatismo, che non poteva
concepire la realtà come puramente
intelligibile ed incorporea, ma tuttavia
tentava di attribuirle tutte le
caratteristiche di pura intelligibilità richieste
da un pensiero filosofico ormai maturo.
L'incorporeità dell'uno melisseo significava
dunque soltanto che esso era invisibile
e illimitato da qualsiasi forma o
corpo tangibile; e significava al tempo
stesso il portare al limite una
contraddizione già implicita in Parmenide
del cui superamento avrebbe grandemente
beneficiato il pensiero posteriore. L'avere reso
l'essere infinito nello spazio e nel
tempo impediva a Melissa di accettare
la bipartizione parmenidea tra realtà
atemporale e mondo sensibile temporale: a
quest'ultimo doveva venir negata qualunque
sia pur secondaria sussistenza, ed è
infatti alla negazione dell'esistenza e della
concepibilità delle cose sensibili che
Melissa dedica alcune delle sue
argomentazioni più suggestive. Perché una cosa
qualsiasi, egli dice, possa essere
conosciuta, pensata ed esistere, essa
dovrebbe essere sempre identica a se
stessa, assolutamet?-te immobile ed immuta- bile
nello spazio e nel tempo, giacché una
minima modificazione ne farebbe una cosa
diversa e così via all'infinito; dovrebbe
dunque avere le stesse caratteristiche
dell'uno. Proprio questo argomento, che egli
intendeva come una sfida contro il
pluralismo, sarebbe stato rovesciato e
raccolto dalla corrente estrema del plura-
lismo, quella atomistica: si può dire
infatti che l'atomismo attribuì alle sue
in- finite unità fisiche proprio tutte le
caratteristiche dell'uno melisseo, ad eccezione
dell'immobilità che non era più necessaria
dato il riconoscimento del vuoto. Con
Zenone e con Melissa, l'arco dell'eleatismo
si conclu<i.e così, sia sotto la
spinta di contrapposte esigenze logiche e
naturalistiche che esso aveva cercato di
stringere in una compatta unità, sia
per l'insorgere di problemi che esso stesso
aveva per la prima volta portato in
luce e chiarito, ma che non potevano
essere risolti nel suo ambito. L'eleatismo
era comunque destinato a restare una
pietra miliare nel pensiero greco, un
imperativo richiamo alla soluzione di
alcuni fra i più profondi problemi
filosofici. La sua importanza fu enorme
anche nella storia del pensiero
scientifico, soprattutto - come abbiamo più
sopra spiegato - per quanto riguarda l'affi-
namento delle esigenze logiche. Vale la
pena ricordare le parole con cui questo
contributo degli eleati è sottolineato in
una recente, autorevolissima, storia della matematica,
Eléments d' histoire des mathématiques del
gruppo Bourbaki: «Il tenore de- gli scritti
filosofici subisce nel v secolo un brusco
cambiamento : mentre nel v~I e nel
VI secolo i filosofi affermano o
preconizzano (o tutt'al più abbozzano vaghi
ragionamenti, fondati su altrettanto vaghe
analogie), a partire da Parmenide e so-
prattutto da Zenone essi " argomentano
" e cercano di ricavare dei
principi generali che possano servire di base
alla loro dialettica: appunto in Parmenide
si trova la prima affermazione del
principio del " terzo escluso ";
e le dimostrazioni " per assurdo
" di Zenone di Elea sono rimaste
celebri. » Anzi, il richiamo so- pra ricordato
di Aristotele a Zenone come fondatore
della dialettica, sembra appunto riferirsi
all'attribuzione all'eleate della scoperta e
dell'impiego della reductio ad impossibile
in metafisica (suggerito peraltro a Zenone,
probabil- mente, dall'impiego che di tale
forma di ragionamento veniva fatto dai
mate- matici pitagorici. Nato ad Agrigento
intorno al49o e morto verso H 430,
Empedocle riassunse nella propria vita
tanto la ricchezza di umori della sua
terra natale, quanto la grandezza e
l'ambiguità del suo pensiero. L'entusiasmo
per la natura e la varietà dei
suoi fenomeni, il profondo senso religioso
che connetteva uomini, dei e fysis in
intimi legami; la violenza delle passioni
politiche, l'ansia della salvezza e il
senso del tragico: di questi caratteri
della Sicilia greca Empedocle fu, prima
che interprete, pienamente partecipe. Capeggiò
la fazione democratica della sua città; esiliato
nel Peloponneso, si recò in seguito
ad assistere alla fondazione di Turi,
dove poté probabilmente incontrare Protagora,
Erodoto ed Ippodamo; non è da
escludere un suo contatto diretto con
gli eleati. Seguendo l'uso ar- caico,
scrisse in versi; uno dei suoi poemi,
Sulla natura (Perì Jjseos), trattava argo-
menti cosmologici e naturalistici, l'altro,
le Puriftcazioni (Katharmoi), aveva ca-
ratteristiche spiccatamente mistico-religiose. Il rapporto
cronologico fra queste opere e quelle
di Melissa e di Anassagora è incerto;
sembra tuttavia che egli le abbia
composte prima di quest'ultimo. La tensione
fra i due aspetti della perso- nalità
di Empedocle - tuttavia, come vedremo,
profondamente interrelati - ap- pare già
dall'argomento dei suoi due poemi; e
si riflette in quanto ci è noto
della sua vita, pur attraverso le
molte leggende di cui fu ben presto
ammantata. Stu- dioso di fysis, amava
presentarsi come profeta e capo religioso,
e vagava per le città di Sicilia
seguito da turbe di seguaci entusiasti; teorico
di biologia e di micina - anzi
fondatore di una scuola di medicina
scientifica - si considerava però guaritore
e iatromante alla stregua di Apollo,
e vantava la capacità di ope- rare
miracoli; conoscitore attento ed esperto
delle technai, si atteggiava tuttavia a
mago. Interessante è il caso del suo
intervento a Selinunte: la città soffriva
di un'epidemia, dovuta alle acque infette
del suo fiume, che veniva attribuita
agli dei; accorsovi, Empedocle risanò la
città con incantagioni e magia (di
fatto rea- lizzando la confluenza di altri
due fiumi a monte di Selinunte per
purificare le acque del primo). «Sciocchi!
giacché non hanno pensieri di larga
veduta; essi credono che possa nascere
ciò che prima non era o che
qualcosa possa perire e andar del tutto
distrutta ... E un'altra cosa ti dirò:
non c'è nascita alcuna di tutte le
cose mortali, né alcuna fine di morte
funesta; ma solo mescolanza e cangiamento
di cose commiste, e nascita si chiama
fra gli uomini. » In queste parole
Empedocle esprime limpidamente la misura
della sua accettazione dell'eleatismo e
insieme le prospettive della sua soluzione.
L'impossibilità che ciò che è derivi
da ciò che non è o vi si
dissolva si impone al filosofo di
Agrigento come il requisito fondamentale
della realtà e della pensabilità del
mondo; e perciò egli non può
considerare se non come follia il
pensiero pre-eleatico. Tuttavia, proprio in
Melissa egli trovava la chiave del
riconoscimento della molteplicità del mondo;
giacché bastava riconoscere i caratteri dell'
«uno» melisseo -l'identità nello spazio e
la permanenza temporale - a un certo
numero di realtà distinte, perché da
esse si potesse dedurre l'intera varietà
del molteplice. Certo, tale soluzione
cozzava pur sempre contro gli imperativi
logico-metodici di Parmenide; ma, come si
è visto, Melissa aveva già avviato la
loro ontologizzazione, cioè la loro
trasformazione in realtà spazio-temporale: aveva
insomma avviato, nel linguaggio dell'epoca,
la trasformazione dell'essere in «pieno».
Da questa prospettiva melissea prendeva
propriamente le mosse Empedocle - come ha
messo in luce il Calogero - giacché
essa corrispondeva alla sua esigenza di
dar conto del mondo, nella sua
varietà quale si offre ai sensi,
nella sua segreta unità quale è colto
dall'anima, nella sua realtà cui il
pensiero non può rifiutarsi. Nel suo
presentarsi alla nostra osservazione, la
realtà appare indefinitamente diversa eppure
connessa da ritmi, da cicli, da
permanenze che ne formano la struttura
unitaria; così come accade per l'organismo
vivente, mutevole eppure uno, la realtà
appare un tessuto variegato di poche
sostanze semplici, un divenire scandito dal
ciclo delle stagioni, della generazione,
degli astri. Fedele per istinto alla
verità dell'osservazione, Empedocle concepiva
dunque il mondo come un organismo
unitario vivente e senziente, del quale
nessuna parte poteva venire arbitrariamente
amputata e tutte dovevano avere una
loro profonda giustifica- zione. Se questo
punto di vista ilozoico doveva trovare
una spiegazione non mitica, una più
universale razionalizzazione, occorreva infondervi
i requisiti melissei del vero; occorreva,
una volta reso molteplice l'« uno»,
trovare un'armonia tra questo vero
molteplice e la molteplicità dell'esperito.
Da questa esigenza nasce il sistema
cosmico di Empedocle, una delle più
potenti sintesi teoriche del pensiero
greco. Alla base del sistema stanno i
quattro elementi, o piuttosto « radici
» come li chiama Empedocle stesso con
un termine che meglio corrisponde alla
sua vi- sione vitalistica del mondo: la
terra, l'acqua, il fuoco, l'aria (o
meglio l'etere). Tali elementi non sono
nuovi nella filosofia presocratica: si
pensi all'acqua di Talete, al fuoco
di Eraclito e così via. In tutti
questi pensatori il processo era consistito
nell'assumere una zona dell'osservazione empirica
alla funzione pri- vilegiata di principio o
arché di .fJ'Sis; nel rendere quindi
assoluti alcuni dati dell'esperienza per
usarli come chiave di comprensione e
di spiegazione dell'e- sperienza nella sua
totalità. Identico è l'approccio fondamentale
di Empedocle: un'analisi dell'osservazione lo
porta a scoprire in ciò che è
osservato alcune costanti fondamentali, che
una volta generalizzate e rese assolute,
valgono a spiegare l'osservato - di cui
sono costituenti essenziali - e l'osservazione
stessa - di cui sono canoni
imprescindibili. Merito specifico di Empedocle
è tuttavia quello di aver isolato, sia
dall'osservazione diretta sia dalla precedente
riflessione naturalistica, tutte e solo quelle
costanti che potessero valere da ra- dici,
senza che si fosse costretti, contro
l'imperativo eleatico, a postulare il mu-
tamento di una radice in qualcosa
diverso da sé (come avevano dovuto
fare i monisti ionici), né ad
immaginarne un numero eccessivo, che
avrebbe ostacolato la semplificazione e
quindi la possibilità di comprensione
dell'esperienza. Ad ognuna delle quattro
radici Empedocle attribuiva dunque lo
status del- l'« uno» melisseo: l'infinità e
l'immutabilità nello spazio e nel tempo,
l'essere ingenerati e imperituri, e di
conseguenza l'assoluta realtà e intelligibilità.
Ciò non significava tuttavia negare la
realtà degli infiniti altri oggetti dell'esperienza:
ogni singolo ente è il risultato di
una mescolanza delle radici, la sua
nascita è la formazione della mescolanza
e la sua morte ne è lo
scioglimento; benché in tali mescolanze le
radici entrino sotto forma di porzioni
frazionali, neppure nella minima di esse
perdono alcuna delle loro proprietà.
L'individualità specifica di ogni composto
gli deriva dalla diversa proporzione dei
componenti (così ad esempio le ossa
sono formate da due parti di acqua,
due di terra, quattro di fuo- co; il
sangue dal miscuglio perfetto I :I :I
:I). Si è visto in questa dottrina
di Em- pedocle un'anticipazione della chimica,
il che può anche essere accettato qualora
non si dimentichi, però, che le
radici empedoclee non solo erano concepite
come viventi ma anche come divinità
creatrici, in stretto rapporto con la
cosmogonia orfica. Se le quattro radici
potevano spiegare, nel loro vario comporsi,
la molte- plicità del mondo, esse non
davano tuttavia conto del suo infinito
divenire, del formarsi e dello sciogliersi dei
composti; unificavano cioè il reale in
senso sin- cronico ma non diacronico. Empedocle
introdusse quindi altri due principi,
questpiù spiccatamente dinamici: « amicizia»
e « discordia». Come le quattro
radici rappresentavano una generalizzazione
dell'osservazione naturale, così queste due
«forze» rappresentano una generalizzazione
dell'esperienza psichica, e perciò allargano
a tale settore la capacità di
comprensione e di spiegazione del sistema.
Nel mondo di Empedocle non era
tuttavia pensabile una distinzione radicale
delle due sfere, come abbiamo osservato
in sede introduttiva, ma piuttosto una
diversa funzionalità della medesima realtà:
come le radici sono a loro volta
viventi, così « amicizia » e «
discordia » sono coestese e coeterne
ad esse, e dunque non meno di
esse «reali». «Amicizia·» simbolizza nel
sistema l'attrazione del dissimile, cioè
l'impulso che spinge le diverse radici
a fondersi reciprocamente dando luogo a
composti sempre più stabili; «discordia»
rappresenta invece l'attrazione del si- mile,
cioè la forza che spinge ogni radice
a restare coesa a se stessa,
sciogliendo qualsi.asi composto. Questi due
principi sono stati interpretati come cause
in senso aristotelico e anche,
modernamente, come le forze elettromagnetiche
di attrazione e repulsione. Benché anche
questi siano possibili sviluppi del
pensiero empedocleo, va ribadito che nel
suo quadro «amicizia» e « discordia»
rappre- sentavano soprattutto le funzioni
essenziali di una realtà vivente, in
cui causa e causato, forza e materia
non potevano essere distinte se non
in modo simbolico, non erano che
aspetti profondamente connessi di un unico
mondo; mentre poi esse rappresentavano
l'aggancio più immediato, come vedremo,
alle vedute religiose e morali, che a
quel mondo non potevano certo essere
eterogenee. Funzione primaria delle forze
nel sistema era comunque quella di promuovere
il divenire. Poiché tale divenire non
poteva dar luogo ad alcun mutamento
dei suoi contenuti fondamentali, secondo il
divieto eleatico, esso non poteva pre-
sentarsi che come ciclo: solo nel
ciclo si dà infatti ripetizione perpetua
dei me- desimi eventi e delle medesime
strutture, solo il ciclo concilia le
sembianze del divenire (l'esperienza umana non
può carpirne che una piccola frazione
e ha dunque l'impressione del mutamento) con
la verità del permanere, rivelata a
chi penetri nell'intimo della natura. Nel
periodo cosmico di assoluta prevalenza di
«amicizia», ognuna delle radici è così
strettamente congiunta alle altre che
nessun singolo ente sussiste di per
sé: «Non v'è discordia né infausta
contesa nelle sue membra ... Non più
si distinguono in esso le agili membra
del sole, né la forza villosa della
terra, né il mare, tanto fortemente
sta legato nei fitti segreti del-
l'armonia, d'ogni parte uguale e per
tutto infinito," sfero "rotondo che
gode della sua solitudine circolare. »
Nello « sfero » è facile individuare
l'« uno» eleatico, non tuttavia visto
come unico possibile assetto della realtà,
ma conquistato dalla vittoria di un'armonia
di schietta derivazione pitagorica; qui
emerge anche il valore religioso e
morale di «amicizia», che significa
concordia e pace nel cosmo e fra gli
uomini. Agli antipodi sta il trionfo
di « discordia», che vede ognuna delle
radici ritratta in se stessa e ostile
alle altre, il che parimenti significa
la fine del mondo quale noi lo
esperiamo e comporta la negazione dei
valori etico-religiosiFra i due opposti
regni, stanno le vaste regioni in cui
«discordia» viene prevalendo su «amicizia»,
e quindi scioglie le radici dal loro
complesso senza tuttavia contrap- porle del
tutto; qui si situa una prima
generazione del molteplice; e l'altra dove
«amicizia» si a.dopera a ricomporre l'unità
senza poter ancora scacciare del tutto
«discordia», sicché il processo di
unificazione è ancora frammentato in una mol-
teplicità di enti: ed è questa la
seconda generazione del mondo che noi
osser- viamo. Va detto che mentre il
ciclo nel suo insieme è determinato
dalla neces- sità (ananke), la formazione
dei singoli composti è affidata al
caso (ryche) e che quindi la natura
che noi esperiamo consta della sintesi
di necessità e di caso. Questa veduta
è importante per la comprensione di
molte posizioni della scienza naturale
greca. Come si articoli concretamente il
ciclo nelle due fasi intermedie è
mostrato più chiaramente da Empedocle a
proposito degli organismi viventi, cui
andava il suo prevalente interesse (non
a caso è possibile paragonare l'intera
vita cosmica alle sistole e diastole del
cuore, e lo « sfero » appare
assai vicino all'« uovo » origi- nario
presente nel culto orfico ). All'inizio
del ciclo di «amicizia», in un mondo
ancora dominato da « discordia», si
venivano formando membra ed arti separati:
« Sulla terra spuntarono teste senza colli,
ed erravano braccia nude prive di spal-
le, vagavano occhi soli sprovvisti di
fronti»; poi queste membra si congiungono
a caso dando luogo a mostri d'ogni
specie: «e molti esseri nascere con
doppie facce e petti, e buoi con
facce d'uomini, o invece sorgere busti
umani con teste bovine, e forme miste
di maschi e di femmine, provviste di
membra villose. » Ma la gran parte
di queste forme viventi perivano,
sopravvivendo solo quelle più adatte alle
condizioni di vita perché meglio
organizzate nella propria strut- tura. È interessante
notare che in questo processo è
assente qualsiasi idea di finalismo preordinato;
i viventi si aggregano a caso, ed
è la selezione naturale che decide
della sopravvivenza di alcuni di essi.
Nell'opposto processo di «di- scordia», che
viene disgregando l'unità cui «amicizia»
era finalmente giunta, si formano dapprima
creature complete, omogenee; ma una
separazione successiva dà luogo alle
creature del mondo in cui viviamo,
differenziate per sessi e per la
prevalenza in esse di una delle
radici (così nella costituzione dei pesci
prevale l'acqua, ecc.). Abbiamo già visto
come la struttura del nostro organismo
fosse interpretata da Empedocle mediante la
composizione delle radici in diverse
proporzioni. A spiegare la compenetrazione reciproca
delle radici, e i maggiori fenomeni
vitali, quali la respirazione 1 e il
movimento del sangue, Empedocle concepiva I
Il resoconto della respirazione va ripor-
tato per la sua originalità e
tipicità. Il sangue si muove entro
pori i cui fori terminali sono abba-
stanza piccoli da non permettergli di
fuoriuscire, sufficienti però per lasciar
entrare l 'aria nel corpo. !utta la
spiegazione è costruita per analogia con
ti funzionamento della clessidra o pipetta
per il travaso dei liquidi da un
recipiente all'altro. Al- lorché il sangue
si ritrae dai pori, esso attira
l'aria che irrompe nel vuoto così
formatosi: si ha così l'inspirazione.
Quando il sangue torna ad af- fluire,
esso espelle l'aria dando luogo all'espira-
zione l'organismo come percorso da una
fitta rete di pori o canaletti (una
teoria in parte derivata da Alcmeone),
la cui struttura e le cui dimensioni
giocavano altresì una parte importante nel
meccanismo della sensazione. Esso è
spiegato dal filosofo di Agrigento mediante
gli efflussi materiali che ogni corpo
emette e che, giungendo a contatto
del senziente, possono o meno penetrare
attraverso i pori nel suo organismo a
seconda delle reciproche dimen- sioni; g~i
efflussi sono determinati dall'attrazione del
simile, che spinge le radici a
ricongiungersi attraverso la varietà dei
singoli enti. La spiegazione è da un
lato meccanicistica, dall'altro vitalistica
perché appunto fondata sull'intrinseca «ani-
mazione » del corporeo; di conseguenza
Empedocle attribuiva la sensazione, sia
pure in gradi diversi, a qualsiasi
ente, perché ognuno, anche quelli ai
nostri occhi inanimati, era in qualche
misura partecipe della grande vita del
cosmo. Il pensiero non è per
Empedocle qualitativamente diverso dalla sensazione. Contro
le scoperte alcmeoniche, ed introducendo
una veduta destinata ad eserci- tare
profonda influenza, egli pose la sede
del pensiero e dell'attività razionale nel
sangue, esattamente in quello più puro,
prossimo al cuore che ne è la fonte.
Poiché il sangue, come si è visto,
consta di una mescolanza perfetta delle
radici, esso è il più atto a
riflettere la struttura del mondo,
essendole più omogeneo. Non v'è ovviamente
per Empedocle opposizione tra pensiero e
sensi, giacché entrambi convogliano, con
meccanismi fondamentalmente analoghi, il messaggio
profondo di una natura che non può
essere fallace in alcuna delle sue
manifestazioni. Poiché l'uomo è omogeneo al
mondo, la verità della sua conoscenza
del mondo non di- pende né dai metodi
né dai linguaggi che egli impiega; in
tal senso, sparisce il problema della «via»
parmenidea e del suo sempre difficile
rapporto con il reale. L'uomo è generato
dalle stesse radici e animato dalle stesse
forze che generano e animano il mondo
nella sua totalità; egli riflette il
mondo in se stesso, lo « com- prende»
proprio perché ne ritrova dentro di
sé l'immagine rimpicciolita. Il san- gue è pensiero
perché il sangue è principio vitale e
secondo Empedocle conoscere è propriamente vivere
fino in fondo la vita dell'universo,
sperimentarne la molte- plicità e l'unità,
l'eternità ciclica, gli intimi legami che
tutto quanto lo connettono. Sparita così la
tensione tra vero e reale, tra uomo e
mondo, tra mondo e divi- nità, sparisce
anche la presunta contraddizione tra i
due aspetti della personalità di Empedocle,
quello « fisico » e quello « magico
». Ragione e mito non sono che due
forme di un identico conoscere, due
funzioni di un'unica realtà. La conoscenza
razionale è esposizione discorsiva ed analitica
della molteplidtà del mondo quale essa
risulta dall'azione di« discordia?> e ci è
rivelata dai sensi; ma il suo scopo
è quello di rivelarci la verità di
questa molteplicità dando conto dell'unità
che la informa e della necessità che
la domina. D'altra parte, la conoscenza mitica
è penetrazione intensiva di questa unità e
necessità, è il porsi per così dire
dal punto di vista dello « sfero
» che simbolizza l'unità da un punto
di vista sia fisico, sia religioso,
sia morale; è drammatica consapevolezza,
tuttavia, della necessità del ci-do e
dd molteplice, nel loro decadere dall'età
aurea e nel loro fatale tornarvi. 1 Di qui
le « purificazioni », di qui la
dottrina pitagorizzante della metempsicosi che
adegua la sorte dell'anima al ciclo
cosmico. E la via alla purificazione
etico-reli- giosa è ancora una volta, per
Empedocle, quella di vivere fino in
fondo la vicenda -per il singolo uomo, il
dramma- dell'uno e dei molti, del tempo e
dell'eterno, della necessità e del caso; la
via della purificazione è quella che
conduce nel cuore profondo della natura
che sola giustifica l'uomo e il suo
destino, che sola gli. concede conoscenza
e potenza nel tempo, salvazione
nell'eternità. Sicché la leg- genda della
morte del filosofo sparito nella voragine
dell'Etna bene esprime, sotto questo aspetto,
la vocazione del pensiero empedocleo. Si
intende così anche il senso dell'ambiguo atteggiamento
di Empedocle verso le technai, e del
suo interesse profondo per quelle che
consentissero un immediato controllo della
natura (la. medicina, le tecniche
manifatturiere, la fisica; mentre la
matematica gli doveva sembrare irrimediabilmente
lontana dal mondo della vita e quindi
sterile). Non v'è nulla di più
ingiusto dell'immagine trasmessaci dalla tradizione
di un Empedocle abile medico e
tecnologo che ciarlatanescamente am- mantava di magia
i suoi successi per guadagnarne in
prestigio. In realtà, l'oppo- sizione fra
technai e magia sarebbe sembrata assurda ai
suoi occhi. Al culmine della sua
capacità di penetrazione e di controllo,
la techne aderisce così compiutamente
all'intima vita del mondo da diventarne,
dall'interno, una forza agente: il «mi-
racolo» è una possibilità di fysis che
techne porta alla luce (non troppo
diverse dovevano essere le vedute degli
alchimisti rinascimentali). Techne si situa
dunque al crocevia di conoscenza
razionale-discorsiva e conoscenza mitico-intensiva;
come il problema del rapporto tra
uomo e mondo, tra conoscenza e realtà
s'era tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo,
così a techne, allorché muova dalla
consapevolezza della
struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza della
natura per poter penetrare sempre più
profonda- mente in essa, per paterne acquisire
un sempre maggiore controllo. Disvelandosi
all'osservazione dell'uomo, la natura gli
aveva donato la conoscenza; offrendosi ad
una techne che ne sappia comprendere
i segreti, essa gli concede l'accesso
alla potenza: sicché alla fine, nel
volgere del ciclo, l 'uomo diviene «
profeta, bardo, medico e principe »,
pari agli dei immortali, come Empedocle
proclamava di se stesso. Data la
natura della conoscenza e delle technai, è
chiaro come per il filosofo di 1 «V'è
un oracolo del fato, antico decreto
degli dei, suggellato da larghi giuramenti:
se mai alcuno dei demoni (anime) che
ebbero in sorte lunga vita, macchi le
sue membra di sangue col- pevole, o seguendo
la "discordia" empio spergiuri, vada
errando tre volte diecimila anni !ungi
dai beati, nascendo nel corso del
tempo sotto tutte le forme mortali,
permutando i penosi sentieri della vita
... Uno di essi sono anch'io,
fuggiasco dagli dei ed errante, perché
fidai nella folle "di- scordia" ...
Da quale onore e da quale ampiezza
di felicità, così bandito mi aggiro
fra i mortali! » (La traduzione di
questi frammenti, come di quasi tutti
quelli empedoclei citati, è del Mondolfo.)
Ma v'è la via del ritorno: « Ma
alla fine essi vengono sulla terra
fra gli uomini come profeti, bardi, me-
dici e principi, e poi assurgono al
rango di dei degni d'onore ... Io
vengo nelle vostre città quale un dio
eterno, non certo mortale, coperto d'ogni
onore. Agrigento non si ponesse il problema
della logica e del metodo. Il metodo
che egli in effetti usa va era
essenzialmente analogico: acute inferenze
dall'osservazione quotidiana, sia biologica (il
palpito del cuore, lo sviluppo dell'uovo,
il meccani- smo della respirazione), sia
fisica 1 (la riflessione, l'evaporazione, il
ciclo stagiona- le), sia tecnica (il
travaso dei liquidi, la manifattura dei
vasi, la miscelazione dei colori), gli
offrivano lo spunto per audaci
generalizzazioni cosmiche. Tuttavia ai suoi
occhi queste estensioni non avevano nulla
di arbitrario, basate com'erano sulla
certezza di una fondamentale unità e
significatività di tutte le manifestazioni
della natura (una certezza, come abbiamo
visto all'inizio, a sua volta ricavata
dall'esperienza immediata, sia sensoriale sia
psichica). Allo stesso modo, l'espres- sione
linguistica di Empedocle non poteva che
tentare di riprodurre, grazie ad una
poesia potentemente sintetica e visualizzante, la
vita del mondo nella sua ricchezza;
anche qui, l'immagine poetica (la
trasvalutazione delle radici in divinità o
in «membra» del mondo, l'affiorare ovunque
dello psichico, del vivente, dell'orga- nico)
riposava sulla profonda verità che per
questa via si tentava di rivelare.
Tale dunque la risposta empedoclea al
nodo di problemi che si sono esposti
in sede introduttiva: una delle più
grandiose sintesi mai elaborate dal
pensiero greco ed anche una delle più
affascinanti ipotesi scientifiche. Il rischio
che Empe- docle si assumeva era d'altro
canto totale quanto il suo sistema: o
quest'ultimo si rivelava davvero capace di
spiegare l'intero universo, o sarebbe
crollato tutto quanto, perché l'agrigentino
non offriva - né, date le sue
premesse, avrebbe potuto farlo - alcuna
regola di pensiero e di metodo
esterna al sistema ed atta a
modificarlo, a criticarlo, a renderlo più
comprensivo. La potenza del genio di
Empedocle, in tutta la sua ambiguità,
si esercitò sul pensiero greco ed
oltre; e « dinanzi a lui, » ha
osservato il Bignone, « le prospettive
del mondo greco si scompongono stranamente:
è già un antico rispetto a Tucidide,
che è di pochi lu- stri più giovane
di lui; e sarà, dopo più secoli,
quasi un contemporaneo rispetto a Platino
e Porfirio ». Subito rifiutato dal miglior
pensiero filosofico-scientifico del v secolo,
da Anassagora ad Ippocrate, che vedeva
nel dogmatismo dell'esperienza, nel vitali- smo
mistico, nel rifiuto di ogni strumento
razionale di tipo logico-metodologico il
più mortale pericolo per un libero
progresso della ricerca, il sistema di Empedo-
cle apparve tuttavia a lungo come
l'unico che potesse garantire una sicura
base speculativa alle scienze nascenti,
dalla biologia alla fisica, l'unico che ne
assicurasse l'universalità. Così all'inizio del
rv secolo la dottrina dei quattro elementi,
la con- cezione organicistica dell'universo (che
presto significò anche visione finalistica),
il prevalere della qualità sulla quantità,
finirono per trionfare della scienza ionica
e passarono in gran parte al
platonismo del Timeo, all'aristotelismo, alla
medicina I Il sole è il luogo
dove l'emisfero terrestre, che agisce come
una lente, riflette e concentra il
fuoco emesso dall'emisfero etereo; il mare
è il «sudore» della terra: sotto l'azione
del calore; la terra stessa è stata
disseccata dal calore al pari di un
vaso d'argilla; e così via. siciliana
di Filistione. Tramite questi canali, e sia
pure con aggiustamenti progres- sivi, tali
vedute percorsero un lunghissimo cammino,
fino ad affacciarsi al rinasci- mento e
alle soglie dell'età moderna. Qui tornarono
a scontrarsi con il meccanici- smo di tipo
democriteo, e risultarono questa volta
soccombenti senza però lasciar del tutto il
passo. IL MONDO DEL NUMERO: FILOLAO DI
CROTONE Poco sappiamo della vita di
Filolao: nato a Crotone attorno alla
metà del v secolo, e ivi formatosi in
ambiente pitagorico, egli si trasferì a
Te be dove sul finire del secolo
lo troviamo a capo di una fiorente
scuola pitagorica, in rapporto con il
gruppo socratico-platonico ad Atene. Questa
presenza di Filolao a Tebe, congiun-
tamente all'esilio peloponnesiaco di Empedocle,
ci rivela un rifluire della filosofia
italica nella madrepatria greca, localizzato
non a caso nelle poleis che combattevano
Atene nella guerra del Peloponneso: il
pensiero ionico-attico si trovava così in
qualche modo circondato non meno di
quanto lo fosse, in senso
politico-militare, la sua metropoli. Come
abbiamo già avvertito, i frammenti di
Filolao sono stati a lungo con- testati
per vari motivi filologici, alla cui
base stava tuttavia la constatazione che
essi anticipavano un importante aspetto del
platonismo, e dunque la preoccu- pazione
che questo potesse risultarne sminuito
nella sua originalità. L'autenticità dei
frammenti è stata per fortuna rivendicata
dal Mondolfo e dalla Timpanaro- Cardini; ed
è chiaro, secondo una più corretta
visione storiografica, che il genio di
Platone risulta tutt'altro che diminuito
dalla consapevolezza che egli seppe fondere
in una sintesi critica gran parte dei
risultati del pensiero filosofico-scienti- fico
del v secolo, pur conferendo ad essi
la propria originalissima impronta. D'al- tra
parte, già questa considerazione impone di
dare alla figura di Filolao il posto
che gli compete fra i protagonisti della
filosofia preplatonica. Il problema centrale
di Filolao è analogo a quello di
Empedocle, ma i suoi punti di
riferimento speculativi sono meglio definiti, e
il suo approccio alla realtà è più chiaramente
delimitato dall'eredità pitagorica di cui egli si
faceva portatore. Certo, il pitagorismo
originario era stato travolto, in campo
matematico, dalla crisi degli irrazionali,
in campo fisico-filosofico, dalla critica parmenidea
al molte- plice e dalla sua incapacità a
soddisfare i nuovi requisiti logico-metodici.
Vedremo all'inizio del capitolo xn come
si svolse, attraverso il v secolo e
fino ad Archita, il processo ricostruttivo
delle matematiche pitagoriche, al quale
Filolao stesso diede un importante
contributo. Qui ci interessa piuttosto il
suo sforzo di rico- . struzione del
pitagorismo come sistema globale del mondo,
compiuto innestando sul tronco di quella
tradizione la più matura consapevolezza
posteleatica. Si trattava innanzitutto di
salvare entrambi i termini della diade
costitutiva di uno e molteplice, di
limite e illimitato, dove il primo
termine assicurava la verità e
l'intelligibilità del secondo ma dove il
secondo garantiva l'estensibilità del primo
al mondo del reale, la sua presa
sull'esperienza, conferendogli quindi una
concretezza e una funzionalità sepza le
quali esso sarebbe stato confinato alla
sfera delle aspirazioni etico-religiose. Ma
non bastava più, dopo Parmenide, con-
trapporre la serie dell'uno e del limite
alla serie dei molti e dell'illimitato;
giac- ché su quest'ultima sarebbe poi gravata
la dichiarazione di assurdità e di
irrealtà, che avrebbe vanificato la
tensione insita nella diade. Il problema
di Filolao era dunque quello di
calare il principio di unificazione e di
verità profondamente all'interno della struttura
molteplice dell'esperienza, in modo da
garantirne con ciò stesso la realtà;
era di trasformare i termini della
diade in modalità e struttura intima
di un unico mondo, di cui essi
potessero dar conto nella sua to- talità.
La chiave più ovvia per la soluzione
del problema era, agli occhi di
Filolao, quella offerta dal numero.
Generato dall' «uno», e governato da leggi
che sempre all' «uno» potevano riportarsi
senza contraddizione, il numero era
tuttavia atto a fungere da limite al
molteplice perché ne rifletteva in sé
la struttura; ma la riflet- teva in
modo tale da renderla omogenea all'«
uno» e alla sua legge. Si consideri
ad esempio la decade (il numero
dieci): secondo l'analisi di Filolao, essa
comprende in sé tutti i possibili rapporti
aritmo-geometriciche si originano a partire dall'unità
ed è perciò stesso atta a comprendere
e ad organizzare il molteplice.! Ma
Filolao non poteva più arrestarsi alla
generica veduta pitagorica del nu- mero
come natura delle cose. Occorreva che
fosse davvero possibile, leggendo il libro
della natura, scoprirne i caratteri
aritmo-geometrici; da un punto di vista
complementare, occorreva dare una più
precisa dimensione spaziale al numero e
concretarla di una sussistenza corporea. Perciò,
partendo dall'assioma aritmo-geo- metrico secondo
cui l 'unità rappresenta il punto, il due
la linea, il tre la superficie, il quattro
il solido, Filolao diede un impulso
originale e deciso alla geometria so- lida,
giungendo a costruire un certo numero di
figure semplici che si potevano age- volmente
riportare alle modalità fondamentali dei numeri.
Queste figure si assicu- ravano una prima
realizzazione grazie alla loro applicabilità ai
movimenti e alla con- figurazione degli astri, e,
tramite l'astrologia pitagorica, allo stesso
assetto del divino. x Più efficaci di
ogni spiegazione critica sono le parole
di Filolao sulla decade: «L'essenza e
le opere del numero devono essere
giudicate in rap- porto alla potenza insita
nella decade; grande è in- fatti la
potenza (del numero) e tutto opera e
com- pie, principio e guida della vita
divina e celeste e di quella umana,
in quanto partecipa della po- tenza della
decade; senza questa, tutto sarebbe in-
terminato, incerto ed oscuro. Conoscitiva è
la na- tura del numero, e direttrice e
maestra per ognuno, in ogni cosa che
gli sia dubbia o sconosciuta. Per- ciò
nessuna delle cose sarebbe chiara ad
alcuno, né per se stessa, né in
rapporto alle altre, se non ci fosse
il numero e la sua essenza. Ora
questo, 74 armonizzando tutte le cose
con la sensazione nel- l'interno dell'anima,
le rende conoscibili e tra loro
commensurabili secondo la natura dello
gnomone, in quanto compone o scompone
i singoli termini delle cose, così
delle interminate come delle ter- minanti.
Né solo nei fatti demonici e divini
tu puoi vedere la natura del numero e
la sua potenza dominatrice, ma anche
in tutte, e sempre, le opere e parole
umane, sia che riguardino le attività
tecniche in generale, sia propriamente la
musica» (trad. Timpanaro-Cardini). Da varie
testimo- nianze risultano le ingegnose deduzioni
di natura sia aritmetica e geometrica,
sia fisica, dalle quali Filolao traeva
conferma al dominio della decade. A questo
punto tuttavia Filolao avvertiva l'esigenza
di una semplificazione del mondo fisico
che era assente nella tradizione pitagorica,
e riconosceva nel si- stema empedocleo il
più potente strumento in questo senso.
È propriamente nel- l'assunzione che ne
fece Filolao che le radici di
Empedocle si trasformarono in «elementi»,
avulsi ormai dalla vita del cosmo ed
inseriti su di una più fredda strut-
tura numerico-geometrica. Nei quattro elementi,
infatti, e nello « sfero » che
li riassumeva, Filolao vide il veicolo
ideale per la conquista del mondo
fisico da parte dei suoi solidi
geometrici. Per via analogica, il cubo
trovò il suo equivalente nella terra;
il tetraedro nel fuoco; l'ottaedro nell'aria;
l'icosaedro nell'acqua; il dodecaedro, infine,
nello « sfero ». Da un altro
punto di vista, ciò equivale a dire
che gli elementi trovarono il proprio
limite, la propria forma, la propria
armonia, infine la propria razionalità
nelle rispettive figure. I molteplici
oggetti dell'espe- rienza e le loro mutazioni
si presentavano ormai come aggregati degli
elementi e dunque come composizione di
forme geometriche semplici; ma, imbrigliati
dal limite, armonizzati dalla figura, il
loro variare nulla più aveva di
misterioso o di irrazionale, sempre
riconducibile com'era, sia pure per vie
complesse e non tutte esplorate, alla
legge del numero. Filolao giungeva dunque a
modificare così l 'assioma pitagorico che i
numeri sono le cose: « Tutte le cose
hanno un numero; senza questo, nulla
sarebbe possibile pensare, né conoscere. »
Le cose hanno un numero perché, come
in un universo cristallografico, hanno una
figura-forma che le delimita e che è
riconducibile a rapporti numerici; 1 e
perché sono inserite in un'armonia cosmica
che ne ritma il divenire e che
è anch'essa riconducibile al rapporto (logos)
numerico. Nel frammento che abbiamo ora
citato Filolao compie un'altra fondamentale
deduzione: poiché la nostra conoscenza, se
vuol essere ve- ra, non può che
muoversi dall'« uno» e seguirne la legge,
poiché il nostro pensiero non può che
essere -e di fatto, nella tradizione
pitagorica, è -logos mathematikòs, ecco che
il numero instaura la sua suprema
armonia fra pensiero e realtà, fra uomo
e mondo; ecco che il linguaggio
dell'uomo è identico al linguaggio di
fysis, e basterà affinarlo nel medesimo
senso per decifrare fysis tutta intiera.
Così egli ristrutturava il pitagorismo in
modo da adeguarlo alle esigenze
posteleatiche e insieme ne allargava
l'orizzonte fino a includervi le necessità
di spiegazione naturalistica. Più rigoroso,
sebbene meno ricco di quello empedo- cleo,
il suo sistema si prestava a
brillanti deduzioni cosmologiche, ma, posto
a confronto con i problemi del significato
e della vita, era spesso costretto a
sce- I È interessante a questo proposito
la fi- gura di Eurito, un pitagorico
del v secolo spesso associato a
Filolao. Eurito era famoso fra i suoi
contemporanei perché, assegnato a qualsiasi og-
getto reale un determinato numero (non
sappiamo come lo ottenesse), egli
dimostrava in un modo caratteristico la
necessità naturale del rapporto fra l'uno
e l'altro: si provvedeva di un pari
numero di sassolini, tracciava la figura
dell'oggetto in que- stione e incastr11va
lungo il suo perimetro tali 75
sassolini (il numero atto a definire
la figura del- l'uomo era per esempio
250). Variando le dimen- sioni dell'oggetto, il
numero di sassolini, che ne esprimevano
i rapporti essenziali, non cambiava. In
tal modo Eurito voleva stabilire
visivamente la relazione, tipica anche del
pensiero di Filolao, tra numero e
forma limitante gli enti reali: il nu-
mero, tradotto in forma, era quindi il
principio di individuazione e anche di intelligibilità
della na· tura. gliere la via del
superamento mistico alla maniera del primo
pitagorismo; oscil- lazione riconoscibile lungo tutto
l'arco della riflessione naturalistica di
Filolao. L'« uno», ipostatizzato fisicamente
nel «fuoco», sta al centro del cosmo;
dal suo rapporto con l 'infinito circostante-
un rapporto paragona bile al processo del- la
inspirazione ed espirazione - si è generato
tutto quanto il cosmo, che, come ab- biamo
visto, consta di una sintesi inscindibile
di « uno » e molti, di
limitante e illi- mitato. Rinnovando la meccanica
celeste della tradizione pitagorica, spinto
a un tempo dall'esigenza astronomica di
spiegare le eclissi e da quella
mistica di asse- gnare all'« uno-fuoco» il
posto centrale dell'universo, Filolao fece
audacemente della Terra un pianeta
eccentrico e mobile come gli altri,
anticipando così di se- coli la veduta
di Aristarco. La medesima ambiguità si
riscontra nell'ipotesi di un decimo
pianeta, l' Antiterra, in aggiunta ai
nove conosciuti: si trattava, da un
lato, di costruire un modello di
meccanica celeste atto a spiegare fenomeni
quali la maggior frequenza, in uno
stesso luogo, delle eclissi di luna
rispetto a quelle di sole; e,
dall'altro, di trovare un 'ulteriore
conferma al valore universale della decade.
Analogamente ad Empedocle, Filolao riteneva
poi il sole percepito dai nostri
sensi un semplice riflesso focalizzato del
«fuoco » centrale. Filolao fu anche
attento cultore di biologia e di medicina:
operando nel solco della tradizione
alcmeonica, egli accoglieva da un lato
alcune posizioni del sistema vitalistico di
Empedocle, dall'altro, grazie proprio a
quella tradizione, appariva più vicino
all'empirismo esprimentesi nella medicina cnidia;
né poteva riuscirgli agevole la
trasposizione dei punti di vista
aritmo-geometrici al campo della vita.
Proprio per questa complessità di
approccio, appaiono nel filosofo di Crotone
germi interessanti di teoria medica; essi
passeranno in Platone e in alcune
opere del Corpus hippocraticum, e per
un altro verso nella scuola siciliana
di medicina, ma non troveranno una
diretta continuazione per il progressivo
abbandono, da parte del successivo
pitagorismo, delle ricerche più propriamente
naturalistiche. Un primo movimento analogico
permette a Filolao di ravvisare nel ritmo
della vita organica una stretta affinità
cosmogonica. Principio costitutivo della vita
è lo sperma, il calore originario;
principio del corpo è dunque il calore,
così come il «fuoco» lo era del
cosmo. D'altra parte la respirazione
introduce nel corpo l'ele- mento freddo
necessario ad equilibrare tale calore,
proprio come l'inalazione del- l'illimitato
circostante da parte dell'« uno» originava
l'universo. Gli stessi organi principali
del corpo sono racchiusi in uno
schema quaternario analogo a quello degli
elementi, ed essi sono visti come
rispettivamente egemonici nelle varie classi
di viventi. Il cervello, cui corrisponde
il pensiero, è così egemonico nel- l'uomo
(qui è chiara l'eredità alcmeonica); il
cuore, cui corrisponde il principio della
vita sensibile, è egemonico negli animali
(prevalendo qui l'ispirazione empe- doclea);
l'ombelico, che presiede alla crescita
dell'embrione e alla vita vegetati va,
contrassegna la classe delle piante; i
genitali, infine, da cui proviene il seme
fecon- dante, individuano tutti i viventi
in quanto tali. In senso più
propriamente medicFilolao costruì un'eziologia in
cui i maggiori agenti patogeni, di
derivazione cni- dia, erano la bile (vista
come siero delle carni), il sangue e
il flegma o catarro che si originava
dalle urine ed era comunque il
prodotto di una infiammazione. I fattori
scatenanti i processi morbosi erano poi
ravvisati, alla stregua della dottrina
alcmeonica, nell'eccesso o nella scarsità
di alimenti, di esercizio fisico, dei fattori
ambientali necessari alla vita dell'uomo.
La teoria dell'anima era in Filolao
strettamente connessa alla concezione del-
l'organismo: l'anima rappresentava infatti da
un lato il respiro vitale, il
principio di refrigerazione che temperava
il calore corporeo e dava luogo alla
vita; dall'al- tro essa era l'armonia che
scaturiva dalla tensione degli opposti
elementi fisici - come dalle corde di
uno strumento musicale - e li teneva
connessi nel miracoloso equilibrio della
vita. L'anima era dunque la presenza
dell'armonia universale nel corpo vivente,
e d'altro canto l'espressione intrinseca
dei diversi fattori che si componevano
armonicamente a dar luogo alla vita
stessa. Così strettamente legata all'equilibrio
transeunte della vita organica, l'anima
individuale non poteva sopravvivere al
dissolversi nella morte degli elementi
corporei che essa armo- nizzava; ancora una
volta, per giustificarne l'immortalità secondo
il dettame pitagorico, Filolao era
costretto ad un trascendimento religioso
della propria dottrina. Al contrario di
Empedocle, Filolao veniva così offrendo al
pensiero sia filo- sofico sia tecnico-scientifico
uno strumento d'indagine dotato di una
enorme po- tenzialità: quello cioè dell'analisi
formale e modale della realtà, e della
sua tradu- zione nei termini della logica
aritmo-geometrica. In questo senso, era fondamentale
il suo apporto allo sviluppo della matema-
tica, che poteva ormai procedere sulla
via della specializzazione arricchita della
certezza che qualsiasi sua scoperta avrebbe
comportato oggettivamente una più vasta e
profonda comprensione della realtà, avrebbe
comunque rivestito un signi- ficato universale.
E parimenti fondamentale - anche se
destinato ad un meno im- mediato successo -
era il suo contributo alla fisica, che
per la via della matematiz- zazione era
avviata ad una intelligibilità, ad un
rigore nuovi; un rigore persino superiore
a quello della fisica atomistica, che,
come ha osservato il Rey, avrebbe
dovuto basarsi sulla meccanica, una
disciplina molto meno progredita nel pensie-
ro greco di quanto non lo fosse
l'aritmo-geometria pitagorica. Se in epoca
moderna matematizzazione e concezione atomica
della fisica erano destinate a riunirsi,
dando luogo al « sistema del mondo
» proprio della scienza a partire dal
Seicento, nel mondo greco pitagorismo ed
atomismo restarono però a lungo
contrapposti. Ciò è dovuto anche
all'ambiguità che abbiamo visto sottendersi
a tutta la speculazione di Filolao.
Il logos mathematikòs non era soltanto,
e non tanto, un metodo del pensiero
quanto la struttura essenziale, garantita,
dell'universo; il numero non era tanto
uno strumento euristico dell'uomo quanto
una realtà originaria, primale, che garantiva
la validità della scienza, ma soprattutto
la condizionava al riconoscimento di sé,
principio dogmatico del conoscibile prima
che del conoscere. Già per la
matematica, questa natura del numero creava
una situa- zione di privilegio necessariamente
ambigua: giacché essa veniva trasvalutata
in una sorta di teologia razionale,
secondo un processo che sarà comune a
Platone vecchio e a tutto il
successivo pitagorismo, sempre più alieno
dalla ricerca empi- rica, sempre più
portato a rifiutare il contatto così
fecondo tra la matematica stessa e le
discipline tecniche e naturalistiche. Nel
senso di Filolao, assolutizza- zione delle
matematiche voleva dire dunque anche loro
isterilimento sul piano scientifico-tecnico, e
contemporaneamente condanna ad uno status
non scientifi- co delle technai di
controllo della natura, dalla meccanica
alla biologia. L'accen- tuarsi della natura
mistica del numero - che all'origine aveva
anche significato l~ preoccupazione di una
saldatura tra uomo e mondo, tra conoscenza
e realtà - avrebbe scavato un solco
sempre più profondo tra il pitagorismo e le
tendenze più vive del pensiero, conducendo
da ultimo alla fusione tra un
pitagorismo teologiz- zante ed un parimenti
infiacchito platonismo. Filolao, con tutta
la sua ricchezza di interessi metodici
.e scientifici, era certamente lontanissimo
da tali esiti. Ma la sua
impossibilità di liberarsi da talune
ambiguità di fondo lo poneva già, nono-
stante tutto, su questa via.Gorgia nacque
a Lentini, in Sicilia, intorno al
480. La tradizione ci rac- contà che
sarebbe vissuto fino a 108 anni, e
sarebbe stato discepolo vuoi dei pi-
tagorici vuoi di Empedocle. Senza dubbio
riuscì a conquistarsi la stima dei
suoi concittadini, tanto è vero che
fu da essi inviato come ambasciatore
ad Atene per chiedere aiuto contro
Siracusa. Viaggiò per tutta la Grecia,
facendo ovunque sfoggio della sua
sottilissima arte dialettica che era basata
su una tecnica analoga a quella di
Zenone. Scrisse varie opere, fra le
quali ci limitiamo a ricordare l'Elena e il
trattatello Intorno al non ente o intorno
alla natura (Perì tou me ontos é perì
Jjseos). Nella prima viene svolta, con
molta abilità, la paradossale difesa della
celebre eroina, scagionata da ogni colpa
per l'abbandono della casa del marito,
e viene intessuto l'elogio dell'onnipotenza
della parola, specie quando essa è
guidata dalla retorica: « La parola è
un gran dominatore, che con piccolissimo
corpo e invisi- bilissimo, divinissime cose
sa compiere; riesce infatti a calmar
la paura, e a eli- minare il dolore,
e a suscitare la gioia, e ad
aumentare la pietà.» Nell'altra opera
Gorgia espone, una triplice tesi: a)
nulla è; b) se anche qualcosa fosse,
non sa- rebbe conoscibile; c) se poi
fosse conoscibile, non sarebbe esprimibile,
«poiché il mezzo con cui ci
esprimiamo, è la parola; e la parola
non è l'oggetto, ciò che è realmente;
non dunque realtà esistente noi esprimiamo
al nostro vicino, ma solo parola che
è altro dall'oggetto». La critica della
vecchia filosofi di Parmenide è qui
evidente; essa si fonda sull'equivocità del
termine « essere» usato ora nel senso
di « esistere» ora in- vece nel senso
puramente copulativo. Ma più ancora di
questa critica è impor- tante la chiarezza
con cui si pongono i problemi della
conoscibilità e dell'espri- mibilità (cioè i
problemi se tutto ciò che esiste
possa, per il solo fatto di esistere,
venire conosciuto e venire espresso).
Abbiamo parlato, a proposito sia di
Protagora sia di Gorgia, di critica al-
l'eleatismo. Tale critica investì certamente
il tentativo dell'eleatismo di stringere in
una rigida unità l'ordine del pensiero
e del linguaggio con quello della realtà
percepita e vissuta, e vi contrappose
la relativa autonomia di questi due
momenti. Ciò premesso, la critica moderna
tende tuttavia a non sottovalutarei legami
che connessero i maggiori sofisti
all'eleatismo, e non solo nel senso
che la situazione di crisi creata da
quest'ultimo rappresentò il loro punto di
partenza. Nell'ordine logico, i sofisti
accettarono infatti i requisiti di verità
imposti dall'eleatismo, quali l'identità
tautologica (di cui la orthoépeia
protagorea sarebbe una versione raffinata)
e la pregnanza di significati esistenziali
e copulativi del verbo «essere». La
rivendicata autonomia dell'esperienza vissuta si
tradurrebbe pertanto in una sizioni professionali
variano da individuo ad in- dividuo, sicché
ognuno, possedendone alcune, è privo delle
altre, la capacità di contribuire a con-
93 servare e perfezionare l'organismo
sociale deve essere considerata presente in
tutti gli individui normali. rinuncia a
controllarla con strumenti logici, e in
un suo abbandono alla psico- logia
dell'individuo a sua volta stratificato
nella convenzione sociale. Questo atteggiamento
si tradusse, da un lato, in una
certa incapacità della sofistica di
comprendere l'originale rapporto di logica
ed esperienza che si veniva realiz- zando
nella scienza contemporanea (di qui la
polemica di Protagora e di Gorgia
contro la geometria, la fisica e,
indirettamente, contro la medicina); dall'altro,
nella tendenza a considerare il momento
irrazionale del profitto e della forza come
primario nell'ordine sociale, trascurandone le
esigenze etico-storiche. Questo non toglie
nulla alla fecondità dell'atteggiamento critico
della sofistica, ma certamente sottolinea
la vastità del compito di ricostruzione
scientifica, filosofica e storico- sociale che
spetterà al pensiero greco dopo il
fallimento eleatico, l'esaurimento della
filosofia della natura e la critica
sofistica. Non sappiamo se a Crotone,
quando vi approdò Callifonte, l'asclepiade
di Cnido, cui abbiamo fatto cenno nel
secondo paragrafo, già esistesse una scuola
di medicina o se la sua fondazione
si debba a questo scienziato venuto dall'Orien-
te. È certo, tuttavia, che la scuola
conobbe una rapidissima fioritura. Già il
figlio di Callifonte, Democede, si guadagnò
la fama di miglior chirurgo del mondo
greco, e, fatto ritorno alla nativa
costa ionica, impose alla corte del
re di Persia la supremazia della
nuova scuola ellenica su quella
tradizionale d 'Egitto. Toccò al crotoniate
Alcmeone, nato verso il 540, di
portare la scuola al suo massimo
livello scientifico. E soprattutto toccò ad
Alcmeqne -che il Wellmann ha definito
a buon diritto pater medicinae grecae -
di rinnovare profondamente il pensiero scientifico
ellenico, condizionandone lo svolgimento lungo
tutto il v secolo. A contatto attraverso
la sua scuola con le esperienze
maturate dalla historle ionica nel VI
secolo, egli entrò d'altro canto in
relazione con le filosofie i tali che
che sullo scorcio di quel secolo si
sviluppavano rapidamente: il pensiero di
Senofane da un lato, il pitagorismo
dall'altro. Dalla critica senofanea al
sapere umano, Alcmeone derivò la
consapevolezza, via via affinatasi, che
l'osservazione empirica non può immediatamente
offrire la chiave della conoscenza, che
la verità non si rivela tutt'intera a
chi si limiti a descrivere la natura.
Con il pitagorismo, Alcmeone mantenne
rapporti su di una base di autonomia,
da scuola a scuola; insofferente del
carattere settario, dogmatico, della dottrina
e della prassi pitago- rica, egli rivolse
contro di esse la sua critica teorica
e la sua azione politica demo- cratica. Fu
tuttavia profondamente interessato non solo
dai progressi che i pi- tagorici facevano
compiere alle. scienze naturali, ma
soprattutto dal loro tentativo di scoprire
leggi dell'esperienza che fungessero da
principio di organizzazione e di
interpretazione dei fenomeni osservati. Ecco
dunque che sul tronco dell'empirismo
ionico, cui per altro restava solidamente
ancorato, Alcmeone veniva innestando una
problematica e una consapevolezza nuove, la
cui carenza aveva sempre frenato, come
s'è visto, i progressi di quell'empirismo.
Proprio con la dichiarazione di questa
acquisita consapevolezza si apre l'opera di
Alcmeone: «Delle cose invisibili, delle
cose mortali gli dei hanno immediata
certezza, ma agli uomini tocca procedere
per indizi (tekmdiresthai). » Bastava un
tale punto di vista gnoseologico ad
infrangere l'illusione dell'immediata trasparenza
dell'esperienza, ad aprire la via ad
una osservazione critica dei fenomeni e
ad un più attivo intervento dello scienziato
nella loro interpretazione. Alcmeone si
valeva del principio così scoperto nel
vivo della propria ricerca scientifica, e
d'altra parte era la ricerca stessa,
divenuta criticamente più vigile, a
confermargliene la validità. Nel campo dei
fenomeni naturali egli non vedeva più
alcun « elemento »alcuna coppia di
contrari, alcuna arché che di per sé
valessero a spiegare la natura e la
vita. Da biologo, egli riconosceva
piuttosto nell'empirico una indefinita
molteplicità di principi attivi o «
qualità », vale a dire di stimoli
capaci di de- terminare nell'organismo una
certa reazione fisiologica (l'amaro, il
freddo e così via); di conseguenza,
non v'era continuità fra organismo
senziente e il suo ambiente, ma il
rapporto fra l'uno e l'altro era
quello di stimolo e reazione (questo
è il significato della « sensazione
per contrari » attribuita ad Alcmeone,
in contrasto con la «sensazione per simili»
che, come s'è visto, fu tipica di
Empedocle). Parallelamente, Alcmeone scopriva,
grazie alla pratica coraggiosa- mente scientifica
della dissezione, che la funzione del
percepire è nell'uomo bensì diffusa nei
vari organi di senso, ma che essa
viene poi coordinata da un organo
centrale, e precisamente dal cervello. Con
questa scoperta Alcmeone non solo compiva
un progresso di fondamentale importanza per
tutta la biologia greca, ma trovava
altresì una decisiva conferma al proprio
punto di vista gno- seologico: la funzione
del cervello spezzava di fatto il
legame immediato fra uo- mo e mondo,
fra conoscenza e realtà. Ed Alcmeone
rendeva esplicita questa con- seguenza
dichiarando che, se la «sensibilità» è
una proprietà di tutti gli organi- smi
viventi, la funzione del « comprendere »,
cioè del ridurre a sintesi significa- tiva
l'esperienza, e del «prender coscienza»
della sensibilità stessa è propria
esclusivamente dell'uomo. Il valore di
queste asserzioni si po.trà intendere appie-
no ove si ricordi che ancora una
generazione più tardi la dottrina della
centralità del cuore conduceva Empedocle a
conclusioni estremamente antitetiche. In ogni
modo, profondo era il solco così
apertosi fra l'uomo e la realtà che
egli vuol comprendere e trasformare. Il
mondo dell'esperienza riacquistava la sua concretezza,
e l'esperienza stessa veniva riconosciuta
incapace di dare spontaneamente conto di
sé. Così, lo scienziato riconquistava
un'autonomia e una possibilità di comprensione
e di controllo sul mondo, scoprendo
un punto di vista ad esso eterogeneo.
Ma Alcmeone si avvide di una
conseguenza decisiva di questa situazione:
la realtà si faceva a un tratto
opaca agli occhi dello scienziato; la
sapienza, intesa come perfetta trasparenza
di tutto il mondo all'uomo, restava
ormai solo una proprietà degli dei.
In termini di metodo scientifico, la
sapienza doveva allora venir sostituita
dall'indagine, la rivelazione dalla congettura,
l'os- servazione e le analogie che essa
sembrava offrire dovevano essere integrate
dal metodo dell'indizio e della prova.
Quando Alcmeone poneva il tekmdiresthai, il
proceder appunto per indizi, congetture e
prove, come metodo tipico della conoscenza
umana, egli conferiva una consapevolezza
teorica alla prassi della me- dicina, che
doveva interpretare l'esperienza per ritrovare
in essa un significato, un valore di
sintomo, e risalire così all'unità della
malattia e delle sue cause: una
consapevolezza che, come s'è visto, fece
sempre difetto ai cnidi. Sulla base
di queste prospettive teoriche, Alcmeone
poté anche offrire alla medicina una
dottrina fisio-patologica e un'eziologia unitaria
cui i cnidi non avevano potuto
pervenire. Le infinite «qualità» (4Jnàmeis)
agenti nell'organismo, formano nel loro
stato normale un composto (krasis) omogeneo
ed armonico (isonomia). La malattia nasce
dalla rottura di tale equilibrio e
dal prevalere patolo- gico (monarchia) di
uno solo di questi principi, oltre
che per l'azione di una mol- teplicità
di fattori ambientali. È importante notare,
per l'influenza che questa veduta ebbe
su Ippocrate, che Alcmeone lasciò
indefinito il numero delle 4Jndmeis, senza
irrigidirle né nello schema quaternario
degli elementi proprio della scuola
empedoclea, né in quello degli «
umori » sviluppatosi nella tarda scuola
di Cos. Queste determinazioni negative, le
uniche che ci restano delle 4Jndmeis
alcmeoniche, sono tuttavia importanti, perché
gettano il seme di una embrionale chimica
fisiologica, consapevole della molteplicità degli
elementi e dei composti (come ribadirà
anche Anassagora) e attenta soprattutto
alla loro sempre variabile funzionalità
nelle sintesi organiche. D'altra parte,
rompendo anche qui con tutta la
tradizione della_bsiologia, Alcmeone affermava
l'irreversi- bilità dei processi biologici e
dunque l 'impossibilità del ciclo: « Gli
uomini per ciò periscono, che non
possono congiungere il principio con la
fine. » Troppo innovatrici erano tuttavia
le sue intuizioni, perché Alcmeone ne
potesse trarre tutte le conseguenze. La
via del metodo scientifico era stata
indicata, ma un lungo cammino doveva
essere ancora percorso perché quel metodo
potesse essere sviluppato e consolidato. Il
problema del rapporto fra pensiero e
realtà, fra teoria ed esperienza era
stato posto senza che le strutture di
quel rapporto potessero essere compiutamente
analizzate e rese esplicite. Questa
mancanza di una chiara elaborazione teorica
spiega come l'eredità alcmeonica si sia
suddivisa in due filoni diversi e
contrastanti. Da un lato, infatti, essa
fu riassorbita dalla fysiologia italica e
siciliana, che utilizzò alcune delle sue
conquiste scientifiche contestandone altre e
soprattutto annullandone via via la carica
innovatrice dal punto di vista del
metodo. Attraverso Empedocle, questo filone
dell'eredità alcmeonica passò, sul finire
del v secolo, alla scuola italica di
medicina, di cui diremo più ampiamente
al capitolo xr. L'altro filone ci
interessa qui più da vicino: tramite
l'autonoma ricerca medico-biologica, esso rifluì
nell'ambiente scientifico ionico-attico, e dunque
nel suo crogiuolo ateniese, destandovi
immediatamente l'interesse delle più vive
correnti di pensiero. Ad Anassagora la
lezione alcmeonica apportava la veduta
dell'alterità del conoscere rispetto al
conosciuto, dell'inesauribile concretezza del
mondo empirico, del tekmdiresthai come
metodo della conoscenza; agli scienziati
che si raccoglievano intorno al filosofo,
ai medici come lppocrate, Alcmeone insegnava
l'importanza metodica del sintomo, la
centralità del cervello, le basi fisiologiche
della patologia; agli uomini di cultura,
agli storici come Tucidide, egli
trasmetteva analoghi spunti metodici, e
ancora il suo rifiuto della ciclicità, la
sua concezio"ne - così suggestivamente
trasferibile alle vicende umane- dell'armonia
come salute, della monarchia come sua
rottura patologica Seguendo questo secondo
filone dell'eredità alcmeonica, occorrerà quindi
tornare nell'Atene della metà del v
secolo, dove si venivano intrecciando i nodi
di tutto il pensiero scientifico greco
e grazie a ciò si ponevano le
premesse per le sue conquiste più
alte.Nel seguire al capitolo vn il
filone alcmeonico che si svolgeva
attraverso Anassagora e culminava in Ippocrate,
accennammo anche al permanere di una
scuola medica in Magna Grecia e in
Sicilia, nella quale l'eredità di Alcmeone
doveva però esser ben presto sopraffatta
dal prepotente influsso della fysiologia di
Empedocle. Quest'ultima era in effetti tale
da condizionare sia nelle premesse sia
nei metodi la ricerca medico-biologica,
promuovendone a un tempo lo svi- luppo
e indirizzandolo verso esiti estremamente
insidiosi. La concezione del inondo come
un organismo vivente pareva infatti
assicurare la fondazione più universale e
più valida alle scienze biologiche; e
la riduzione del mondo stesso a
quattro elementi primari, o archai,
sembrava a sua volta offrire uno strumento
decisivo per la comprensione della
struttura del corpo e delle sue
affezioni. La metodica da porre in
opera era pure esemplificata da Empedocle:
si trattava di battere la via
dell'analogia tra microcosmo e macrocosmo,
di riportare cioè co- stantemente i
fenomeni organici alla struttura di fondo
del corpo e la struttura del corpo
a quella dell'universo, ritrovando in
quest'ultima una garanzia di ve- rità e
una premessa per ulteriori spiegazioni.
Entro tale orizzonte la scuola italica
si sviluppò lungo la seconda metà del
v secolo, finché sullo scorcio di
quello stesso secolo e nei primi
decenni del IV, Filistione di Locri
la condusse al suo definitivo assetto
dottrinale e metodico. Importante in senso
dottrinale l'elaborazione della teoria del pneuma
o «respiro», principio vitale che animava
la struttura elementare sia del corpo
sia del cosmo, e che valeva a
spiegare molti fenomeni patologici quando
la sua circolazione or- ganica risultasse
anomala. Ma soprattutto importante, dal
punto di vista metodico, era la
traduzione in senso biologico degli
elementi empedoclei, che certamente Filistione
derivava dalla scuola ma cui egli
conferì una forma destinata a domi- nare
per lunghi secoli il pensiero
naturalistico. Non immemore della lettera al-
meno dell'insegnamento alcmeonico, e impegnato
più direttamente di Empedo- cle nell'osservazione
dei fenomeni organici, Filistione trasformò
gli elementi in « qualità » o
principi organici attivi (c!Jndmeis): così
la terra veniva espressa dalla djnamis
«secco», l'acqua dall'« umido», il fuoco
dal« caldo», l'aria dal« fred- do »:
queste c!Jndmeis erano secondo Filistione
la forma specifica con la quale la
struttura elementare dell'universo si manifesta
nell'organismo umano; grazie tuttavia alloro
legame univoco con gli elementi, esse
non potevano diventare, come in Anassagora
ed in Ippocrate, stati relativi e
mutevoli degli oggetti em- pirici, bensì restavano
principi stabili e necessari dell'empirico
stesso. Il processo analogico con il quale
Filistione giungeva alle quattro qualità
era strettamente affine alla deduzione
empedoclea degli elementi, e non occorrerà
tornare a descri- verlo; e la sua critica
più pertinente, dal punto di vista
del metodo della medicina empirica, fu
del resto anticipata dallo stesso Ippocrate
in Antica medicina, come si è visto
al capitolo vn. L'importanza storica della
rielaborazione di Filistione e la ragione del
suo duraturo successo stanno da un lato
nell'aver offerto alla biolo- gia uno
strumento di spiegazione e di
semplificazione dei fenomeni pur sempre
dogmatico ma tuttavia assai più
riconoscibile nella concretezza dei processi or-
ganici di quanto lo fossero gli
elementi empedoclei (ad esempio il «calore
vitale» e il suo eccesso patologico
rappresentato dalle febbri si spiegano
meglio con le vicende della qualità«
caldo» che con la materia «fuoco»);
d'altro lato, toglien- do dalla fysiologia
empedoclea quanto vi era di materialistico
e in fondo di mec- canicistico, Filistione
ne troncava i pur possibili legami con
l'atomismo e la ren- deva assai meglio
accetta al prevalente indirizzo qualitativo
del pensiero platonico e soprattutto
aristotelico. Un'altra importante evoluzione egli
faceva poi subire all'organicismo del
filosofo di Agrigento. Mentre quest'ultimo
non aveva mai compiuto esplicita- mente il
passo che portava dalla concezione
vitalistica del mondo al ricono.sci- mento
di un finalismo in esso operante,
Filistione trovava, ad esito delle sue ri-
cerche anatomiche sull'organismo, proprio questo
grande principio esplicativo: che la natura,
e soprattutto la natura vivente, è
organizzata in funzione di un si- stema
di fini, che questa organizzazione si
ritrova allivello di .tutti gli organi,
e che dunque l'indagine biologica non
deve vertere tanto sul « che cosa
» e sul «come», quanto sul «perché»
finale dell'assetto dei fenomeni studiati.
Nel trattato sul Cuore (Perì kardies) -
dove tra l'altro, nonostante la sua grande
dottrina anatomica, egli rifiuta Alcmeone
per Empedocle e pone l'intelli- genza nel
cuore stesso - Filistione concepisce quest'organo
come la costru- zione mirabile di un
« buon artefice », che tutto ha
predisposto affinché la vita potesse aver
luogo nel migliore dei modi. L'incontro
di queste dottrine con il platonismo,
concretatosi in quello fra Filistione e
Platone avvenuto in Sicilia ver- so il
36o e dunque all'inizio del periodo
di elaborazione del Timeo, doveva ave- re
conseguenze incalcolabili per la scienza
della natura greca. Attraverso Platone,
passarono infatti ad Aristotele, che le
adottò ancor più risolutamente del maestro,
e grazie a lui conquistarono una
egemonia per lungo tempo quasi
incontrastata. Ma prima che tutto questo
avesse luogo, le posizioni della scuola
italica fa- cevano sentire la loro
pressione sulla stessa scuola di Cos
postippocratica, e oc- correrà ora seguire
gli estremi tentativi di quest'ultima di salvare
la techne, «l'an- tica medicina », da
così agguerriti avversari. Già si parlò
nel capitolo v dell'opera di Filolao,;
qui vogliamo ancora accen- nare ai
progressi compiuti, nell'ambito della matematica,
dal filosofo e scienziato Archita, vissuto
a Taranto tra la fine del v
secolo e la prima metà del IV,
ultima figura di statista pitagorico. Egli
resse per lungo tempo la sua città
incrementan- done la prosperità e la
potenza militare, facendone la prima della
Magna Grecia. Si ritiene che Archita
abbia applicato la propria dottrina
matematica alla mecca- nica militare, e,
poiché sappiamo pure che fece uso di
strumenti meccanici per ri- solvere problemi geometrici,
si può dire che per primo (e
sfortunatamente con pochi imitatori per
molto tempo) egli intuì la fecondità
teorica e pratica di una rela- zione
fra matematica e meccanica. Profonda fu
l'impressione che la personalità di Archita
suscitò in Platone in occasione del
suo soggiorno a Taranto nel 3 89.
In campo matematico, Archita riprese il
problema di Delo secondo le linee
tracciate da Ippocrate di Chio, e lo
portò a soluzione mediante la rappresenta-
zione strumentale di figure geometriche in
movimento. La soluzione di Archita è
troppo complessa per essere qui riportata:
da essa risulta comunque che egli era
familiare con i processi mediante cui
si generano cilindri, coni e altri
solidi di rivoluzione, e che fu il
primo ad usare consapevolmente il concetto
di luogo geometrico. In questo modo,
Archita offriva il primo esempio di
applicazione della geometria dello spazio
alla soluzione dei problemi di geometria
piana, e insieme dava inizio alle
ricerche che concluderanno alla teoria
delle coniche. Ma quello che va messo
in maggiore rilievo, è lo spregiudicato
coraggio con il quale Archita faceva
ricorso - nonostante la polemica·platonica - a
tutti i metodi e gli strumenti che
permettessero di far progredire la ricerca.
Parimenti ardite le sue impostazioni in
aritmetica e in acustica: quanto alla
prima, egli contribuì a sviluppare il
concetto che il numero è essenzialmente
un rapporto, perciò in- dipendente dalle
condizioni di commensurabilità e razionalità,
e poté quindi tor- nare a rivendicare la
supremazia dell'aritmetica fra le scienze
matematiche; quanto alla seconda, egli
scoprì che il suono è dovuto al
movimento e all'urto dei corpi, e che
l'aria è un corpo atto a ricevere
la vibrazione e a propagarla La
tradizione, che fa di Archita uno dei
maestri di Eudosso, anche se dubbia, vale
certamente a simboleggiare la funzione del
tarantino nel passaggio dalla ma- tematica del
v secolo alla grande fioritura che
ebbe luogo nel IV I romani,
prevalentemente agricoltori e guerrieri, non
si occuparono affatto, nei primi secoli
della loro storia, né di problemi
filosofici né di problemi scienti- fici. Il
loro interesse culturale si concentrò,
tutto, sui problemi giuridici, per l'evi- dente
importanza del diritto nella costruzione di
uno stato efficiente. Nel 168 a.C. la
conquista della Macedonia li portò a
contatto immediato con la Grecia e provocò
un rapido incremento nei loro rapporti
con la cultura elle- nica. Questi furono,
in un primo tempo, tutt'altro che
facili. La penetrazione in Roma dell'arte,
della filosofia e della scienza greche
poteva infatti costituire un vero pericolo
per lo stato romano, minacciando di alterarne
quei caratteri cheavevano fino allora
costituito la base stessa del suo
crescente successo politico. Gli elementi
·più conservatori come Catone se ne
avvidero immediatamente e cercarono di
opporre una seria resistenza. Un
senatoconsulto del 161 ordinò che i retori
e i filosofi, venuti in Roma come
esuli della Macedonia, fossero cacciati
dalla città. Cinque anni più tardi
Atene inviava a Roma una missione
diplomatica, formata da tre filosofi
(Critolao, che rappresentava il Liceo,
Diogene di Babilonia, che rappresentava la
Stoa, e Car- neade, che era alla
direzione dell'Accademia); essi approfittarono di
questo sog- giorno per esporre in pubblico
le proprie dottrine. Ottennero un enorme
successo, soprattutto Carneade, la cui
oratoria, ricca di sottili argomentazioni
dialettiche, riuscì in breve a conquistare
la parte più intelligente della gioventù.
Famoso è rimasto il suo discorso sul
contrasto fra la giustizia e la saggezza,
dimostrato pro- prio con l'esempio del
popolo romano, che fondava la propria
potenza sui terri- tori strappati con la
violenza ad altri. Questa non fu
l'ultima ragione per cui i filo- sofi
ateniesi, appena conclusa la loro missione,
furono invitati a lasciare la città.
È noto che questi ostacoli non riuscirono
a fermare il processo iniziato. Nel corso
di pochi decenni la situazione muta radicalmente:
i giovani delle migliori famiglie romane
accorrono sempre più numerosi a completare
i loro studi in Grecia; i più celebri
pensatori greci vengono invitati a Roma,
ove diventano amici di influenti
personalità politiche. A Roma fu per
oltre un decennio il filosofo Panezio,
uno dei maggiori rappresentanti della media
Stoa. Egli si legò particolar- mente al
circolo ellenizzante di Scipione Emiliano.
Questo comprendeva oltre allo storico Polibio,
i maggiori rappresentanti della. cultura
romana del tempo: Terenzio, Lucilio, Caio
Lelio, Quinto Elio Tuberone, ecc. Nel
I secolo a.C. Roma comincia a
diventare un centro culturale di notevole
importanza. Sarebbe erroneo tuttavia ritenere
che la Grecia, con i successi ora
ricordati, sia effettivamente riuscita a imporre
a Roma la propria cultura. Che non
sia stato così ce lo dimostra un
fatto semplicissimo ma molto significativo:
mentre la lingua greca si era
rapidamente diffusa in tutto il mondo
mediterraneo orientale (per esempio in
Egitto), tanto da diventarvi l'unico mezzo
di comunicazione della cultura, nulla di
simile accadde in occidente. Nel campo
linguistico la resistenza di Catone riportò
piena vittoria: i romani continuarono a
scrivere in latino ( cer- cando evidentemente
di arricchire il proprio vocabolario), e
la civiltà mediter- ranea finì a poco
a poco per diventare bilingue. Anche
nel campo della filosofia e della
scienza le qualità più caratteristiche del
temperamento romano - buone o cattive che
fossero - non andarono som- merse. Una
certa ripugnanza per le speculazioni troppo
astratte, l'interesse volto più alle
conclusioni che alle premesse, la spiccata
attitudine dei romani alla pra- ticità, non
tardarono a far sentire il peso della loro
influenza. 1 I Per i notevoli riflessi
di questo tempera- gogico, rinviamo all'ultimo
capitolo della pre- mento caratteristico dei
romani in campo peda- sente sezione.Illustreremo,
nel prossimo paragrafo, le conseguenze di
questo spirito nel- l'ambito delle teorie
filosofiche. Ora può essere opportuno - per
dimostrare l'immediata efficacia che tale
spirito ebbe sugli stessi studiosi non
romani entrati a contatto con Roma -
premettere qualche cenno intorno a due
scrittori partico- larmente significativi: Poli
bio e Strabone. Il greco Polibio
(205-123 a.C.) fu invia,to a Roma
come ostaggio dalla lega achea e vi
rimase per oltre sedici anni, nei
quali ebbe modo di assimilare profon-
damente lo spirito di quel popolo. Scrisse
in greco le Storie (in quaranta
libri) sulle imprese di Roma; opera
solitamente considerata come un grande
trattato, oltreché di storia, anche di
geografia descrittiva, per l'enorme ricchezza
di notizie riferite sugli usi e costumi
dei vari popoli presi in esame.
Orbene il modo con cui è concepita
quest'opera è una prova evidente che
Polibio intende la ricerca scien- tifica in
maniera .completamente diversa dai suoi
connazionali. Proprio nulla, infatti, lo
interessano le teorie generali e tanto
meno le ipotesi sulle zone lontane e
mal note del mondo; esse non meritano
la sua attenzione, perché prive di im-
mediata utilità. Secondo lui, ogni indagine
seria deve essere giustificata da un
ben preciso scopo pratico. Il compito,
per esempio, che egli si propone è
quello di istruire i romani intorno
al mondo mediterraneo in cui hanno
svolto e svolge- ranno le loro conquiste:
tutto ciò, dunque, che fuoriesce da
questo programma non può che apparirgli
privo di senso e dannoso allo
sviluppo della ricerca. Da un punto
di vista metodologico merita di venire
notato che la storiogra- fia di Poli
bio presenta alcune affinità con quella
di Tucidide: la ricerca tenace della
certezza, l'analogia- da lui resa esplicita- con
il metodo della medicina, la rinuncia
ad ogni abbellimento retorico. Ancora più
profonde sono tuttavia le differenze che
lo separano dal grande ateniese. Polibio
credeva nella diretta fruibilità della
storiografia come magistra vitae, nella autonoma
significatività delle informazioni riferite
quanto più possibilfedelmente, e si
ricollegava in tal modo alle teorie
sia di Isocrate sia di Teofrasto. Gli
era ignoto lo sforzo di com- penetrazione
tra ragione e fatti che Tucidide aveva
cercato di attuate nel suo me- todo
storiografico, convinto com'era che solo da
esso potesse scaturire quella essenziale
verità della storia la cui «utilità»
era certamente meno immediata ma più fondata
e più generalmente feconda. In tal
senso la storiografia di Polibio sta
a quella tucididea esattamente come la
filosofia ellenistica sta a quella del
v e del rv secolo. Strabone visse
un secolo e mezzo dopo (63 a.C.-25
d.C.). Nato ad Amasea nel Ponto da
una famiglia di sangue misto
greco-asiatico, fu anch'egli fortemente
influenzato dallo spirito romano (come ce
lo dimostra la decisione con cui so-
stenne il dominio politico di Roma).
Compì lunghi viaggi e scrisse una
Geografia (Geograftkd), ampio trattato in
diciassette libri. Ebbene, questo trattato
dimostra, non meno della storia di
Polibio, il nuovo tipo di interessi
che anima il suo autore: brevissima è
la parte dedicata all'aspetto matematico
della geografia; ricchissimeLa filosofia postaristotelica
e diffuse sono invece le notizie
sugli usi, le istituzioni, la storia
dei paesi via via presi in esame. La
differenza fra l'indagine di Strabone e
quella compiuta dai geo- grafi alessandrini
di qualche secolo prima non potrebbe
essere maggiore. L'og- getto di studio ha
conservato lo stesso nome, ma il modo
con cui è condotta la ricerca
dimostra che il significato stesso della
scienza è completamente mutato. L
'ECLETTISMO. CICERONE L'espressione più
caratteristica dell'interesse prevalentemente pratico
dei romani, nell'ambito delle ricerche
filosofiche, è l'eclettismo. Non che esso
sia nato per opera di pensatori
latini, né che tutti i filosofi latini
siano direttamente o indirettamente legati
ad esso; ma nell'ambiente culturale latino
esso trovò le ragioni del suo
successo, e in Roma il suo più
illustre sostenitore, Cicerone. Per trovare
un esempio di filosofo latino che non
abbia compiuto alcuna con- cessione
all'eclettismo, bisogna riferirsi al poeta
Lucrezio di cui abbiamo parlato nel
paragrafo 111. Questa particolare posizione
di Lucrezio non è, del resto, che
la conseguenza logica della sua adesione
alla dottrina epicurea; già sappiamo, in-
fatti, che l'epicureismo è stato l
'unico indirizzo dell'epoca mantenutosi costan-
temente fedele alla propria concezione
teoretica, senza evoluzioni interne, e questa
sua stessa staticità esclude che abbiano
potuto sorgere seri tentativi di
conciliazione fra esso e gli indirizzi
avversari. A parte Lucrezio, però, è
difficile scoprire pensatori latini che non
mostrino qualche venatura di eclettismo. Espli-
citamente eclettico è l'amico di Cicerone,
Marco Terenzio Varrone; atteggia- menti senza
alcun dubbio eclettici caratterizzeranno i
grandi stoici del periodo imperiale romano;
un po' di eclettismo, mescolato con
molto scetticismo, potrà venire ritrovato
quasi dovunque tra gli uomini più
rappresentativi e gli spiriti più raffinati
della cultura romana, come per esempio
in Orazio, che riuscirà ad esten- dere
la propria concezione eclettica fino ad
includervi anche molte dottrine filo- sofiche
caratteristiche degli epicurei. Come si è
accennato nei paragrafi precedenti, l'eclettismo
ebbe le sue prime affermazioni nella
nuova Accademia e nella media Stoa.
Esso rappresentò un tentativo di soluzione
della crisi che tali scuole stavano
attraversando, e rispecchiò una diminuita fiducia
- da parte di ciascuna di esse - nei
propri principi teore- tici. Da questo
punto di vista possiamo giustamente
sostenere che esso esprima un rilassamento
dello spirito filosofico, una profonda
stanchezza e una mancanza di originalità.
Esprime anche, però, la raffinata
consapevolezza dei pericoli cui va incontro
qualsiasi sistema filosofico astrattamente
coerente, e la convinzione di poter
trovare, su di un piano meno rigido
che quello dei principi generali, la via
per una comprensione reciproca e per
un sostanziale accordo circa i problemi
più interessanti per l 'uomo concreto.
Cicerone (106-43 a.C.) ascoltò con molto
interesse le lezioni di maestri che, come
Filone nell'Accademia e Posidonio nella
Stoa, sostenevano la necessità di
un'evoluzione filosofica in senso eclettico,
e si lasciò da essi facilmente
convincere che qualcosa di buono si
trova di fatto in tutte le dottrine,
specialmente nei loro precetti d'ordine
pratico, che il più delle volte
coincidono, pur venendo fatti derivare da
pri11cipi molto diversi e in apparenza
quasi antitetici. La sua adesione
all'eclettismo fu dunque immediata e totale,
sembrandogli che esso dovesse co- stituire
il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare
travaglio filosofico. Proprio questo
atteggiamento largamente comprensivo gli consentì
di stu- diare con sincero interesse tutta
la storia del pensiero greco, sforzandosi
con impegno e intelligenza di renderlo
accessibile ai romani. Il suo perfetto
possesso della lingua latina gli permise,
in particolare, di trovare espressioni
eleganti e so- brie per le più
difficili formulazioni tecniche dei greci.
« La filosofia, » scrive nelle Tusculanae
disputationes, « è rimasta fino ad
oggi negletta, e su di essa la
letteratura latina non ha portato nessuna
luce; ma io debbo illuminarla ed
esaltarla, così che, se io sono stato
di qualche utilità ai miei concit- tadini
nelle faccende attive della vita, potrò
esserlo anche, se mi riuscirà, stan- domene
ozioso. » 1 Se Cicerone ha il torto
di dimenticare, in queste parole, il con-
tributo dato alla filosofia latina dal
suo contemporaneo Lucrezio, 2 egli riesce tut-
tavia ad esprimerci molto bene l'animo
con cui si accinge a scrivere di
filosofia. È un dovere che egli
compie per colmare una gravissima lacuna
della letteratura latina. Egli sente che,
se anche non introdurrà nessuna idea
originale, il semplice riuscire a mettere
in circolazione, nell'ambito della cultura
latina, un patrimonio così serio come
la filosofia ellenica, costituirà per lui
un merito di cui i concitta- dini
dovranno essergli grati. E di fatto
gliene saranno grati non solo i concitta-
dini, ma anche i posteri, poiché i
suoi scritti rappresenteranno per molti
secoli una delle principali fonti per
la conoscenza del pensiero filosofico
antico. Tra le principali opere filosofiche
di Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae
(Le Tu- sculane), il De legibus (Delle
leggi), il De finibus bonorttm et
1nalorum (l limiti del bene e del
male), il De natura deorum (La natura
degli dei), il De ojficiis (Sui
doveri), il celebre Somnium Scipionis
(Sogno di Scipione), che è un
frammento del dialogo De re publica
(andato per gran parte smarrito), l'
Hortensius (un'esortazione alla filosofia, andata
perduta, che influenzò profondamente Agostino,
e che era un'imi- tazione del Protrettico
di Aristotele), ecc. Non è vero,
però, che Cicerone si limiti a
presentare le teorie altrui senza apportarvi
nulla di suo; in realtà egli le
ripensa dal suo particolare punto di
vista, le espone in modo tale da
poterle utilizzare a favore della
concezione eclettica. Ora utilizza Platone,
ora Aristotele, ora invece gli scettici
o gli stoici; e conclude I Qui
si accenna al fatto che Cicerone si
accinse a scrivere opere filosofiche solo
quando venne escluso dalla vita politica
per l'affermarsi del primo triumvirato e,
in seguito, per il trionfo di Cesare.
2 Proprio Cicerone aveva pubblicato, po-
stumo, il poema di Lucrezio, e tale
dimenticanza è dovuta probabilmente alla posizione
dichiara- tamente antiepicurea da lui assunta
in sede fi- losofica. con un generico
probabilismo, che ammette proprio come
unico criterio di ve- rità il consenso
dei filosofi (prova evidente - secondo
Cicerone - che esistono delle idee innate,
a tutti comuni). In queste molteplici
discussioni, non prive talvolta di
incoerenze l'una ri- spetto all'altra, nel
difficile e complesso lavorio di selezione e
coordinamento delle tesi, una preoccupazione
appare costantemente presente in Cicerone:
quella di rendere ogni uomo consapevole dell'immenso
valore educativo della filosofia. Solo la
filosofia, infatti, può farci cogliere il
valore esatto delle nostre conoscenze; solo
essa ci insegna a guardare con
effettiva serenità la morte, mostrandoci
con chiarezza ove risiedano la vera
felicità e la vera sventura; solo
essa riesce a farci comprendere che
chi ha giovato alla patria dovrà
vivere eternamente libero dalle catene del
carcere corporeo. Non v'è dubbio che,
per il senso pratico dei romani,
proprio questa capacità educatrice della
filosofia costituiva la sua più seria
giusti- ficazione: unica giustificazione veramente
sicura e da tutti accettabile Marco
Aurelio nacque a Roma nel I 21.
Salì al trono imperiale nel I 6
I, alla morte di Antonino Pio di
cui era figlio adottivo; morì nel I
So. Fu convertito allo stoicismo dalla
lettura di Epitteto. Scrisse, in greco,
una delle più interessan i opere
filosofiche della sua epoca: Colloqui con
se stesso (Ta eis heaut6n), ordinaria-
mente nota col titolo di Ricordi (in
dodici libri). Le note dominanti della
sua filosofia- nella quale emergono sempre
più chiari i caratteri dell'ultima Stoa -
sono un disprezzo ascetico di tutti i
beni esteriori e una profonda religiosità.
L'essere divino non è semplice fato,
ma è soprattutto provvidenza universale. Il
rapporto dell'uomo con dio è un
rapporto di effettiva parentela, che di
conseguenza viene a legare fra loro
tutti gli uomini. Oltre ai caratteri
ora accennati, è tuttavia presente in
Marco Aurelio un carattere nuovo,
evidentemente connesso proprio al tipo di
vita attiva, gravida di responsabilità, che
gli toccò in sorte come capo dello
stato. Non a caso - egli pensa
-l'uomo occupa la propria carica, ma
perché espressamente postovi dalla provvidenza
divina; l'uomo ha quindi il dovere di
agire con tutta la necessaria energia,
di non sottrarsi ai compiti -- per
quanto difficili e ingrati -- affidatigli
da tale provvidenza. È la forma
mentis del cittadino romano che si
inserisce in quella del filosofo stoico. Né
fra le due sorge alcun contrasto;
anzi, esse riescono a fondersi in una
mirabile armonia, permeate entrambe da un
senso di vivissima religiosità, che non
di rado sembra dare alle massime
dell'imperatore un tono molto simile a
quello degli insegnamenti cristiani. Neanche
i romani, malgrado il loro indiscusso
spirito pratico, seppero svi- luppare a
fondo la preziosa eredità degli ingegneri
alessandrini. Essi rivelarono senza dubbio
grandi capacità nella costruzione di
strade, di acquedotti, di fastosi edifici,
ma non riuscirono a comprendere l
'interesse della vera e propria ingegne-
ria meccanica, né avvertirono l'importanza
pratica di ricerche direttamente o indirettamente
rivolte alla scoperta di nuove fonti
di energia. Il fatto appare tanto più
singolare, quando si pensi che proprio
al I se- colo a.C. risale la massima
invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idrau-
lico (invenzione non dovuta a qualche
scienziato di particolare rinomanza, ma
sorta probabilmente - come scrive U. Forti
-nell'orbita della civiltà di Ales- sandria).
È un fatto che non sembra spiegabile
se non facendo appello, come già
spiegammo nell'ultimo paragrafo del capitolo
XIV, alla difficoltà di comprendere, in
quell'epoca, i vantaggi che avrebbero
potuto provenire dallo sfruttamento sistematico
delle varie forme di energia naturale,
mentre esse apparivano :lssai più costose
dell'energia umana (schiavi) e animale. Per
quanto riguarda lo scarso interesse
dimostrato dai romani verso gli arti-
ficiosi congegni esposti negli Pneumatikd
di Ero ne, va inoltre osservato che
la via da percorrere, onde giungere
ad una loro utilizzazione su vasta
scala, non poteva non apparire troppo
lunga e difficile a uomini - come
appunto gli ingegneri ro- mani --direttamente
impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate.
L'abban- dono di tale atteggiamento richiederà
una profonda trasformazione sociale e cul-
turale, che avrà inizio solo parecchi
secoli più tardi. Fra gli autori
latini che abbiano scritto opere di ingegneria
di qualche pregio, il più importante
è senza dubbio Vitruvio, ingegnere militare
del tempo di Giu- lio Cesare e di
Augusto; di lui non si conoscono con
precisione né la data di na- scita né
quella di morte. La sua opera
principale, De architectura, reca evidentiUltimi
sviluppi della matematica e dell'astronomia
nell'antichità classica le tracce dell'influenza
degli ingegneri alessandrini. Vitruvio ricorda
infatti espli- citamente il nome di Ctesibio,
riferendoci parecchie sue invenzioni (la
pompa cui abbiamo fatto cenno nel
paragrafo m, una balestra ad aria
compressa, l'argano idraulico, ecc.). Il
voluminoso trattato del nostro autore si
articola in dieci libri, che esaminano
una gamma assai vasta di argomenti:
dalla preparazione culturale richiesta
all'architetto ai problemi specifici concernenti
la costruzione di edifici pubblici e
privati, all'idraulica, alle macchine da
guerra. È inoltre ricco di richia- mi
storici, di indicazioni giuridiche, di
massime morali, e costituisce una preziosa
fonte per studiare la cultura tecnologica,
e in generale i costumi dell'epoca.
In essa sono tuttavia riscontrabili alcuni
non lievi difetti. Pur sforzandosi di
risultare tecnicamente chiaro e cercando -
ove necessario -- di introdurre nuove
espressioni e nuovi vocaboli adatti al
linguaggio tecnico, il nostro autore non
può nascondere talune pretese stilistiche,
che spesso rendono oscura la di- zione,
ove accanto a volgarismi e plebeismi si
trovano espressioni ampollose e ri- cercate.
Inoltre Vitruvio non è padrone sicuro
della materia di cui tratta, onde non
solo non riesce a portare contributi
nuovi, ma spesso suscita anzi l'im-
pressione di non comprendere bene, egli
stesso, le ricerche che si sforza di
esporre. Gli è che la vera tecnica
non si identifica con la pura e
semplice pratica; essa è scienza applicata,
e, come tale, richiede dai suoi
cultori una profonda prepa- razione scientifica.
Ma questa non poteva essere presente
in chi aveva manifesta- mente studiato
troppo poca matematica. Più che di
ingegneria la cultura romana si era
occupata di agricoltura, su cui ci
sono giunti i trattati di Marco Porcio
Catone (234-149 a. C.), di Varrone e
di Columella (I secolo d.C.). Fu
proprio una disciplina tecnico-scientifica
parallela all'agricoltura ad avere in Roma
gli sviluppi più originali: l 'agrimensura,
detta gromatica dalla groma, lo strumento
che gli agrimensori romani usavano nella
mi- surazione dei terreni. Un famoso codice
latino, il codice Arceriano del VI
secolo, ci ha conservato una parte
delle opere degli agrimensori da cui
si possono ricavare i vari interessi dei
grornatici ed i loro importanti compiti:
ad essi era affidato il com- pito di
costruire gli accampamenti, fondare le
città e le colonie, misurare le altezze dei
monti e le larghezze dei fiumi nelle
campagne militari, far applicare le leggi
agrarie e stabilire le confische ed i
tributi. Apposite scuole erano istituite nell'im-
pero romano per istruire questi funzionari
imperiali nella geometria, intesa nel suo
aspetto pratico, nel diritto, nell'arte
militare e nei rituali religiosi che
accompa- gnavano le loro opere. Fra i
maggiori autori gromatici possiamo ricordare
Balbo, famoso per aver condotto a
termine fra il 34 e il 20 a.C.
l'opera di misurazione di tutto l'impero
che era stata iniziata con Cesare;
Igino (fine del I secolo-inizio delu
secolo d.C.); e infine Sesto Giulio
Frontino (40-103), una volta console sotto
Vespasiano e due volte sotto Traiano,
autore anche di un'opera di arte
militare sugli Stratagemmi (Stratagemata) e
di un'opera su Gli acquedotti di Roma
(De aquis urbis Romae. Grice: “Geymonat, for some reason, is
obsessed with science as we at Oxford are not. Indeed, he wrote a LOOONG
history of “THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford. The French and
Latin types in general use it – pensée – the idea is something like science,
mathematics, philosophy, you name it. So, his remarks about how the ignorant
Romans started philosophy is interesting. According to Geymonat it was a
generational thing. Catone did not want to do anything with it – for reasons of
‘state’, Geymonat says, i. e. philosophy would be subversive, as it indeed is.
The odd thing is that it attracted the knock knock it’s the youngest generation
knock knock knocking at the door. The Senate forbade philosophers in 161 and
five years later Carneade and two more arrived and that changed things.
Geymonat makes two comments. For one, the best youth – I figli delle migliore
famiglie romane – would have something like the Americans call a Rhosdes – they
would go to Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that
Scipione Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where
Polibio Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third
terribly interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek
slaves who called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only
two he quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to
the Roman ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he
characterizes in a fourtfold way: concretto, interested in the conclusions –
conclusive, rather than the premises – prattico --. So the history by Polibio
is only one that may interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical
prose! And the geography of Strabone has no information on calculus and
measures – only bits about institutions of people the Romans might conquer –
nothing about foreign distant lands! The second most notable remark is then
that Scipione Emiliano paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’
won in the end – as is seen by the mere fact that Latin was retained as the
lingua romana – in romano – unlike the Empire of the East where Greek was
adopted – So with the fall of the Eastern Empire, the West became bilingual. The
rough tongue of the Latins survived this fashion for things Hellenic! –
Geymonat spends enough time on what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it
starts with Crotone and Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem
he underwent a crisis, and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his
lover, Zenone, and Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then
there was Girgenti, and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty
things about the four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s
Filolao, educated at Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and
himself teacher of Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement
started with Gorgia of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know
it, had an Italic origin, and is molded in the language of the conquering
Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords: ragione -- temperamento romano –
concretto – pratico – Catone – il trionfo di Catone con la lingua latina – la
gioventu romana entusiasta con Carneade – I Scipioni ellenisante – la gioventu
delle megliore familie – grand tour a Grecia! -- il teorema di Picard, il
teorema di Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690486990/in/photolist-2mRwP4i-2mRgKq7-2mQEv8h-2mPPzb6-2mPEDc8-2mPyn68-2mPukhq-2mPiqeP-2mPmmR4-2mPpwbZ-2mPphVq-2mKHfUW-2mKGTYe-2mKFeJo
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